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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di APRILE 2013

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aggiornamento al 29.04.2013

aggiornamento al 22.04.2013

aggiornamento al 18.04.2013

aggiornamento al 15.04.2013

aggiornamento al 09.04.2013

aggiornamento all'08.04.2013

aggiornamento al 02.04.2013

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 29.04.2013

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IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Abusi in area a vincolo paesaggistico, sempre insanabili? Il Tar si rivolge alla Corte Ue.
Il no a prescindere dall'effettiva verifica di compatibilità sul sito «parrebbe configurare una ingiustificata –e sproporzionata- lesione del diritto di proprietà garantito dall'articolo 17 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea».
Il Collegio sottopone alla Corte di giustizia dell'Unione europea la seguente questione pregiudiziale: se l’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., ed il principio di proporzionalità come principio generale del diritto dell’U.E., ostino all’applicazione di una normativa nazionale che, come l’art. 167, comma 4, lett. a), del Decreto legislativo n. 42 del 2004, esclude la possibilità del rilascio di una autorizzazione paesaggistica in sanatoria per tutti gli interventi umani comportanti l’incremento di superfici e volumi, indipendentemente dall’accertamento concreto della compatibilità di tali interventi con i valori di tutela paesaggistica dello specifico sito considerato.
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1. PROCEDIMENTO PRINCIPALE
1.1. Esposizione del procedimento
Con ricorso notificato l’08.07.2011, e depositato il successivo 11 luglio, il signor Cruciano Siragusa ha impugnato l’ordinanza-ingiunzione n. 2640/VIII del 04/04/2011, che gli ha ordinato, quale proprietario del terreno interessato da un intervento edilizio realizzato in zona paesaggisticamente vincolata, “la remissione in pristino dello stato dei luoghi mediante la dismissione di tutte le opere abusivamente eseguite nel termine di giorni 120 dal ricevimento della presente”.
Si è costituita in giudizio, per resistere al ricorso, l’amministrazione intimata, senza svolgere difese scritte.
Con ordinanza n. 659/2011 è stata accolta la domanda di sospensione cautelare degli effetti del provvedimento impugnato, in ragione del pericolo di danno irreparabile derivante dalla sua esecuzione nelle more del giudizio.
Il ricorso è stato definitivamente trattenuto in decisione alla pubblica udienza del 10.10.2012.
1.2. Illustrazione dei fatti di causa
Il ricorrente è proprietario di un immobile in zona paesaggisticamente vincolata, sul quale ha realizzato modifiche non preventivamente assentite, in relazione alle quali ha chiesto al Comune di Trabia (autorità competente per il profilo urbanistico) la concessione edilizia in sanatoria, previo nulla-osta della competente Soprintendenza (autorità competente ad assicurare la tutela del paesaggio).
Quest’ultima ha emanato il provvedimento negativo oggi impugnato: il quale è motivato nel senso che “le opere di cui sopra non sono ammissibili all’accertamento della compatibilità paesaggistica di cui agli artt. 167 e 181 del D. L.vo n. 42/2004 e s.m.i. in quanto opere che hanno costituito aumento del volume”.
2. DIRITTO NAZIONALE
2.1. La materia “tutela del paesaggio” nel diritto italiano.
Secondo il diritto italiano, la tutela del paesaggio, oggetto delle disposizioni e dei poteri amministrativi che qui vengono in considerazione, è concettualmente e giuridicamente distinta tanto dalla tutela dell’ambiente, che dalle altre forme di poteri pubblici (e delle corrispondenti nozioni giuridiche) incidenti sull’utilizzo del territorio (come l’urbanistica).
Questa distinzione delle tutele territoriali ha un suo preciso fondamento costituzionale, e comporta che una medesima porzione di territorio sia soggetta ad una pluralità di competenze amministrative in ragione della diversità dell’interesse pubblico della cui cura ciascuna competenza è attributaria: “L'ambito materiale cui ricondurre le competenze relative ad attività che presentano una diretta od indiretta rilevanza in termini di impatto territoriale, va ricercato non secondo il criterio dell'elemento materiale consistente nell'incidenza delle attività in questione sul territorio, bensì attraverso la valutazione dell'elemento funzionale, nel senso della individuazione degli interessi pubblici sottesi allo svolgimento di quelle attività, rispetto ai quali l'interesse riferibile al “governo del territorio” e le connesse competenze non possono assumere carattere di esclusività, dovendo armonizzarsi e coordinarsi con la disciplina posta a tutela di tali interessi differenziati” (Corte costituzionale, sentenza n. 383 del 2005).
La pluralità delle tutele territoriali comporta la necessità di una pluralità di titoli abilitativi relativi alla esecuzione di una stessa opera in area soggetta a più tutele (ad esempio, urbanistica e paesaggistica): in questo senso l’art. 146, comma 4, del Decreto Legislativo 22.01.2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), stabilisce che “L'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio”.
Nell’ambito di questa distinzione delle tutele territoriali, mentre l’urbanistica ha riguardo all’ordinato ed armonico sviluppo degli insediamenti in ambito locale; l’ambiente è una nozione convenzionale con cui si sintetizza la salvaguardia di elementi e risorse naturali (acqua, aria, etc.); invece la tutela del paesaggio si caratterizza per la sua valenza estetico-culturale (in questo senso la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, a partire dalla sentenza n. 239 del 1982), nel senso che è possibile limitare e vincolare fondi di proprietà privata secondo la normativa paesaggistica, e con gli strumenti amministrativi da questa previsti, solo a seguito di un giudizio tecnico-discrezionale, che accerti che quell’area ha caratteristiche estetiche che ne giustificano la tutela e la protezione, in relazione alla storia culturale della nazione (tanto che si è affermato che la nozione di paesaggio concerne la dimensione spirituale, e non materiale, del rapporto fra uomo e natura).
Proprio per questa sua specifica connotazione, l’intervento dell’uomo sul territorio non sempre è incompatibile con la tutela di quel paesaggio: anzi, la ragione del giudizio culturale che rende rilevante paesaggisticamente un’area altrimenti priva di specifico rilievo estetico, può essere anche conseguenza dell’intervento umano.
Questo comporta che il tipo di vincolo gravante su aree soggette a tutela paesaggistica ha riguardo alla forma estetica del territorio, e non necessariamente comporta una inibizione assoluta di attività, ma piuttosto il rispetto della identità culturale del luogo (il che, con riferimento alle attività costruttive, non si risolve necessariamente in vincoli di inedificabilità, ma molto spesso in prescrizioni legate all’utilizzo di specifici materiali, o colori, o tecniche costruttive).
2.2. Il sistema dell’assenso alle attività private in zona paesaggisticamente vincolata nel diritto italiano.
Il proprietario di un’area ricadente in zona vincolata paesaggisticamente, non può eseguirvi alcun intervento in assenza dell’autorizzazione dell’amministrazione competente.
L’autorizzazione viene rilasciata, o negata, a seconda che l’intervento oggetto della stessa sia o meno compatibile con i valori estetico-culturali che giustificano la specifica protezione:
Art. 146, commi 1 e 2, Decreto Legislativo 22.01.2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio)
1. I proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge, a termini dell'articolo 142, o in base alla legge, a termini degli articoli 136, 143, comma 1, lettera d), e 157, non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione.
2. I soggetti di cui al comma 1 hanno l'obbligo di presentare alle amministrazioni competenti il progetto degli interventi che intendano intraprendere, corredato della prescritta documentazione, ed astenersi dall'avviare i lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta l'autorizzazione
”.
Tuttavia, se il proprietario non chiede l’autorizzazione, ma l’opera realizzata è comunque compatibile con tali valori, l’amministrazione può autorizzarla in sanatoria (art. 146, comma 4, Decreto Legislativo 22.01.2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio): “Fuori dai casi di cui all'articolo 167, commi 4 e 5, l'autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi”.
2.3. Disposizioni nazionali oggetto del dubbio di compatibilità con il diritto dell’U.E.
Art. 167, Decreto Legislativo 22.01.2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio)
1. In caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4.
2. Con l'ordine di rimessione in pristino è assegnato al trasgressore un termine per provvedere.
3. In caso di inottemperanza, l'autorità amministrativa preposta alla tutela paesaggistica provvede d'ufficio per mezzo del prefetto e rende esecutoria la nota delle spese. Laddove l'autorità amministrativa preposta alla tutela paesaggistica non provveda d'ufficio, il direttore regionale competente, su richiesta della medesima autorità amministrativa ovvero, decorsi centottanta giorni dall'accertamento dell'illecito, previa diffida alla suddetta autorità competente a provvedervi nei successivi trenta giorni, procede alla demolizione avvalendosi dell'apposito servizio tecnico-operativo del Ministero, ovvero delle modalità previste dall'articolo 41 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, a seguito di apposita convenzione che può essere stipulata d'intesa tra il Ministero e il Ministero della difesa.
4. L'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380.
5. Il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L'autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni. Qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. L'importo della sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima. In caso di rigetto della domanda si applica la sanzione demolitoria di cui al comma 1. La domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica presentata ai sensi dell'articolo 181, comma 1-quater, si intende presentata anche ai sensi e per gli effetti di cui al presente comma.
6. Le somme riscosse per effetto dell'applicazione del comma 5, nonché per effetto dell'articolo 1, comma 37, lettera b), n. 1), della legge 15.12.2004, n. 308, sono utilizzate, oltre che per l'esecuzione delle rimessioni in pristino di cui al comma 1, anche per finalità di salvaguardia nonché per interventi di recupero dei valori paesaggistici e di riqualificazione degli immobili e delle aree degradati o interessati dalle rimessioni in pristino. Per le medesime finalità possono essere utilizzate anche le somme derivanti dal recupero delle spese sostenute dall'amministrazione per l'esecuzione della rimessione in pristino in danno dei soggetti obbligati, ovvero altre somme a ciò destinate dalle amministrazioni competenti
.”
2.3. Giurisprudenza nazionale in materia
La giurisprudenza nazionale è pacifica nel ritenere che l’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 preclude l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria e, quindi, anche la sanatoria edilizia (che presuppone l’avvenuto rilascio del titolo paesaggistico), per abusi edilizi concretanti nuova superficie utile o nuovo volume realizzato, senza che sia necessario, ai fini dell’assentibilità, valutarne in concreto la compatibilità paesaggistica. Pertanto l’abuso edilizio in argomento, per sua natura, ai sensi di detta norma non è regolarizzabile con provvedimento di sanatoria (in questo senso, fra le tanti, TAR Toscana, sez. III 16.05.2012 n. 953).
3. DISPOSIZIONI DI DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA
3.1. La materia “tutela del paesaggio” nel diritto dell’U.E.
Nel diritto dell’U.E. la materia della tutela del paesaggio non è autonoma e concettualmente distinta rispetto alla materia della tutela dell’ambiente, ma è parte di essa.
L’esplicita inclusione della tutela del paesaggio nella nozione di ambiente rilevante ai fini del diritto dell’U.E., è contenuta sia nell’art. 2, n. 3), lett. a), della Convenzione sull'accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l'accesso alla giustizia in materia ambientale («convenzione di Aarhus»), approvata con Decisione 17.02.2005 n. 2005/370/CE (Decisione del Consiglio relativa alla conclusione, a nome della Comunità europea, della convenzione sull'accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l'accesso alla giustizia in materia ambientale), e ratificata e trasposta dall’Unione europea con apposito Regolamento (CE) n. 1367/2006 (c.d. Regolamento Aarhus); sia nell’art. 2, n. 1), lett. a), della Direttiva 28.01.2003 n. 2003/4/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sull'accesso del pubblico all'informazione ambientale); sia, infine, negli articoli 1 e 3 della Direttiva 13.12.2011, n. 2011/92/UE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la valutazione dell'impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati).
La materia dell’ambiente è materia di competenza dell’U.E., ai sensi dell’art. 3, par. 3, e dell’art. 21, par. 2, lett. f), del Trattato sull’Unione europea; nonché degli articoli 4 [par. 2, lett. e)], 11, 114 e 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
3.2. La tutela del diritto di proprietà nel diritto dell’U.E.
Art. 17, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E.: “Ogni persona ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquisito legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità. Nessuna persona può essere privata della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa. L'uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall'interesse generale”.
4. ARGOMENTI ESSENZIALI DELLE PARTI NEL PROCEDIMENTO PRINCIPALE
Il ricorrente, nel primo motivo, non contesta che un aumento di volumi sia stato realizzato, ma lo qualifica come corpo tecnico assentito sul piano urbanistico dal Comune.
In base al disposto del citato art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, la circostanza è del tutto irrilevante: l’incremento di volumetria è di ostacolo alla sanatoria paesaggistica dell’immobile, a nulla rilevando in contrario l’autonoma –e soggetta a diversi parametri normativi- valutazione urbanistica di competenza dell’autorità comunale.
E’ dunque pacifico che l’incremento di volumetria preclude –secondo la disposizione della cui compatibilità con il diritto dell’U.E. si dubita- l’accertamento di compatibilità paesaggistica, e che il primo motivo di ricorso, in applicazione di tale disposizione, dovrebbe essere dichiarato infondato.
Ciò posto, si tratta di stabilire quale debba essere la sorte del manufatto.
Sotto questo profilo, con il secondo motivo si deduce ulteriore violazione del citato art. 167 del d. lgs. 42/2004, ed altro.
Il ricorrente lamenta una violazione del principio di proporzionalità nell’ordine di demolizione di opere non sanabili, in relazione alla circostanza che questo sia stato adottato senza valutare –avuto peraltro riguardo al caso di specie– la possibilità di applicare la diversa e meno invasiva sanzione pecuniaria.
La sorte di questo secondo motivo di censura è strettamente legata alla decisione sul primo (a sua volta dipendente dalla applicabilità o meno della disposizione su cui si solleva il dubbio interpretativo): nel senso che l’esclusione dalla sanatoria (in ragione dell’astratta tipologia di intervento), esclude –anche secondo l’interpretazione giurisprudenziale, assolutamente pacifica, che si è richiamata- l’applicazione della più mite sanzione pecuniaria (non demolitoria).
5. ILLUSTRAZIONE DEI MOTIVI DEL RINVIO PREGIUDIZIALE
5.1. Preliminarmente, si osserva che la già indicata inclusione della materia oggetto del presente giudizio (paesaggio) fra quelle di competenza dell’U.E. (ambiente), induce il Collegio a sollevare la questione pregiudiziale relativa al possibile contrasto fra l’indicata disposizione di legge italiana, e le disposizioni del diritto dell’U.E. che si stanno per indicare.
La normativa italiana che regola l’autorizzazione paesaggistica non può infatti configgere con il primato del diritto dell’U.E. che regola il bilanciamento fra tutela dell’ambiente e interessi antagonisti, qualora questo dovesse essere interpretato nel senso che si sta per prospettare.
5.2. Le censure proposte del ricorrente, se il Tribunale dovesse fare applicazione della disposizione costituente parametro normativo del potere esercitato, dovrebbero essere respinte.
Il citato art. 167, d.lgs. 42/2004 prevede infatti che per ogni possibile forma di abuso paesaggistico venga comminata la sanzione demolitoria, tranne che nel caso di accertata compatibilità paesaggistica (che, come ricordato, per l’ipotesi di aumento di volumetria è esclusa indipendentemente dal concreto accertamento della lesione al paesaggio): nel qual caso si fa luogo ad applicazione di una sanzione solo pecuniaria.
Se si tiene conto che nel sistema della tutela paesaggistica i vincoli alle attività private non sono necessariamente dei vincoli di inedificabilità assoluta, si ha che non ogni attività edificatoria, in tesi anche comportante aumento di volumetria, sia lesiva sempre e comunque dei valori tutelati dalla normativa paesaggistica.
L’accertamento, in altre parole, e la conseguente possibilità di sanatoria dietro pagamento di una sanzione pecuniaria, andrebbe operato in concreto, senza la rigida, astratta e presuntiva esclusione delle opere comportanti “creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”: giacché anche in tal caso la tutela del paesaggio potrebbe essere, ad una valutazione concreta, compatibile con il mantenimento dell’opera.
5.3. La disposizione italiana indicata, pertanto, nell’escludere in modo presuntivo una categoria di opere dall’accertamento di compatibilità, assoggettandole alla sanzione demolitoria, parrebbe configurare una ingiustificata –e sproporzionata- lesione del diritto di proprietà garantito dall’articolo 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: ove questa fosse interpretata nel senso che i sacrifici al diritto dominicale possono essere imposti solo a seguito di un accertamento della effettiva –e non solo astratta- esistenza di un interesse antagonista.
L’art. 17 della Carta, infatti, tutela il diritto di proprietà, l’uso ed il godimento dei beni legalmente acquisiti, con il solo limite della cura dell’ “interesse generale”.
Questo sembrerebbe significare che il limite al godimento possa derivare solo dalla effettiva funzionalizzazione dell’uso del bene privato alla tutela di interessi antagonisti (come quello alla protezione del paesaggio), se e nella misura in cui esista un reale contrasto fra l’uso che il proprietario intenda farne, e l’effettiva necessità di preservare l’integrale forma del territorio a protezione di un interesse rispetto al quale la tutela della proprietà diventa recessiva.
Questo giudizio dunque sembrerebbe comportare, secondo le indicazioni della stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia (che sarà di seguito richiamata) resa in materia analoga, un duplice test: l’individuazione in astratto dell’esistenza e della natura dell’interesse antagonista (il che nel caso dedotto non è in discussione); e l’accertamento in concreto della incompatibilità fra l’uso del bene privato e la tutela di quell’interesse (che invece difetta nella fattispecie all’esame di questo Tribunale amministrativo).
Il ricorso, da parte del legislatore nazionale, a meccanismi presuntivi, espone invece i beni di proprietà privata a radicali limitazioni del loro uso, senza che sia accertata (e, dunque, con la possibilità che non sussista) una reale necessità di tali limitazioni a tutela di interessi diversi da quello del proprietario.
In questo senso la disposizione nazionale in esame sembrerebbe ostare anche al principio di proporzionalità [articoli 5 e 12 del Trattato sull’Unione europea; art. 296 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea; Protocollo (n. 2) sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità, allegato al Trattato sul funzionamento dell’Unione europea], inteso quale principio generale del diritto dell’U.E.: la demolizione del manufatto, conseguente all’applicazione della disposizione stessa, sarebbe infatti una sanzione radicale che prescinde dall’accertamento in concreto di una effettiva lesione del bene-interesse tutelato (il paesaggio), dal momento che anche costruzioni comportanti incremento di superfici o volumi possono essere, ad un accertamento tecnico-discrezionale esperito dalla competente autorità, non contrastanti con il paesaggio circostante.
In assenza di accertamento, la sanzione della demolizione dell’immobile, in luogo della sanzione meramente pecuniaria, appare infatti sproporzionata rispetto a una violazione che è sicuramente tale sul piano solo formale (dal momento che il manufatto è stato costruito senza autorizzazione preventiva), ma la cui lesività rispetto al paesaggio non è stata oggetto di accertamento sul piano sostanziale, e pertanto potrebbe anche non sussistere: con la conseguenza, in tal caso, che dopo la demolizione il proprietario potrebbe ricostruire l’immobile con le stesse caratteristiche di sagoma e volume, dotandosi stavolta di autorizzazione preventiva.
5.4. Sulla questione interpretativa che si pone, non esistono precedenti specifici: la questione d’interpretazione del diritto UE non è soltanto controversa, ma che è anche relativa alla portata del principio generale del diritto UE di proporzionalità rispetto all’interpretazione del diritto derivato e ai rapporti fra questo e la garanzia del diritto di proprietà immaginata nella Carta di Nizza.
La Corte di Giustizia, come si è accennato, ha già affermato (nella recente sentenza 15.01.2013, C-416/10, Križan) che “il diritto di proprietà non si presenta quale prerogativa assoluta, bensì deve essere considerato in rapporto alla sua funzione sociale. Ne consegue che possono essere apportate restrizioni all’esercizio di questo diritto, purché tali restrizioni rispondano effettivamente ad obiettivi di interesse generale e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile che leda la sostanza stessa del diritto così garantito” (punto 113 della motivazione).
La sentenza citata non riguarda un caso identico a quello oggetto del presente giudizio: dal momento che concerne un conflitto fra proprietà e ambiente, e non fra proprietà e paesaggio (anche se, come si è detto, dal punto di vista del diritto dell’U.E. le due nozioni sul piano disciplinare si riconducono alla stessa materia); e che riguarda l’istituto della valutazione d’impatto ambientale, e non l’autorizzazione paesaggistica (i due istituti, ancorché legati da un rapporti di continenza -perché entrambi, anche la v.i.a., hanno riguardo alla preventiva verifica di compatibilità con il paesaggio degli insediamenti, ma la v.i.a. si applica solo oltre una certa soglia dimensionale, mentre l’autorizzazione paesaggistica è richiesta per tutti gli interventi in area paesaggisticamente vincolata- non sono infatti identici).
Tuttavia, essa contiene delle indicazioni sul piano dei princìpi che possono essere utili, sul piano interpretativo, anche in questa fattispecie: quanto meno perché pongono le premesse del dubbio di compatibilità oggetto della presente ordinanza.
La sentenza Križan ha infatti svolto in proposito un ragionamento logico-giuridico analogo a quello che si è indicato in precedenza, e che induce il Collegio a dubitare della compatibilità del citato art. 167 con diritto dell’U.E..
Per un verso, infatti, ha affermato, interrogandosi sulla prima dimensione del problema sopra indicato (l’individuazione in astratto dell’esistenza e della natura dell’interesse antagonista), che “Per quanto concerne gli obiettivi di interesse generale precedentemente menzionati, risulta da una giurisprudenza costante che la tutela dell’ambiente figura tra tali obiettivi ed è dunque idonea a giustificare una restrizione dell’esercizio del diritto di proprietà” (punto 114 della motivazione).
Per altro verso, però, occupandosi del secondo profilo (accertamento in concreto della incompatibilità fra l’uso del bene privato e la tutela dell’interesse antagonista), ha chiarito che “Per quanto riguarda la proporzionalità della lesione del diritto di proprietà in questione, allorché è possibile accertare una lesione siffatta, è sufficiente constatare che la direttiva 96/61 trova un punto di equilibrio tra le esigenze di tale diritto e quelle connesse alla protezione dell’ambiente” (punto 115 della motivazione).
Dunque la Corte ha riconosciuto legittimo, e proporzionale, il sacrificio del diritto di proprietà, a condizione che sia “possibileaccertare una lesione siffatta”.
Le disposizioni nazionali che, in materia di tutela del paesaggio, stabiliscono invece in via presuntiva, generale ed astratta, una simile lesione, ad avviso del Collegio potrebbero non superare il test di proporzionalità indicato dalla Corte di Giustizia come garanzia della compatibilità della plurime istanze coinvolte nell’uso del territorio, ove i princìpi espressi dalla giurisprudenza Križan dovessero applicarsi anche a casi come quello oggetto del presente giudizio, e pongono pertanto un serio dubbio di conformità delle stesse rispetto al diritto dell’U.E., in relazione ai profili sopra indicati.
5.5. Questa conclusione presuppone però un’interpretazione del diritto dell’U.E., e segnatamente delle disposizioni richiamate, che allo stato non è pacifica, e della quale pertanto il Collegio ritiene di investire la Corte di Giustizia.
In altre parole, il Collegio si trova ad applicare una disciplina nazionale che non consente l’esercizio della discrezionalità amministrativa per perseguire la ricerca di un adeguato bilanciamento fra l’interesse pubblico alla tutela del paesaggio e il diritto di proprietà.
Il Collegio ha pertanto necessità di sapere se è corretto ritenere che nel diritto UE l’adeguato bilanciamento fra questi due “beni giuridici” sia definito: a) dalla Carta dei diritti; b) dal principio di proporzionalità; c) dalle direttive che disciplinano la tutela del paesaggio e dell’ambiente, che si sono richiamate.
Il Collegio chiede pertanto di sapere se è corretto ritenere che tali fonti impongano agli Stati membri di disciplinare i limiti al diritto di proprietà discendenti dall’esigenza di tutelare il paesaggio, nel senso di prevedere (o quanto meno di non impedire) l’attribuzione di un potere discrezionale dell’amministrazione tale che essa sia tenuta a valutare in concreto e caso per caso se sussiste la necessità di apporre limiti al diritto di proprietà in nome della tutela del paesaggio, e di adottare soltanto le misure strettamente necessarie a perseguire la finalità di tutela del paesaggio.
Il Collegio sottopone pertanto alla Corte di giustizia dell'Unione europea la seguente questione pregiudiziale: se l’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., ed il principio di proporzionalità come principio generale del diritto dell’U.E., ostino all’applicazione di una normativa nazionale che, come l’art. 167, comma 4, lett. a), del Decreto legislativo n. 42 del 2004, esclude la possibilità del rilascio di una autorizzazione paesaggistica in sanatoria per tutti gli interventi umani comportanti l’incremento di superfici e volumi, indipendentemente dall’accertamento concreto della compatibilità di tali interventi con i valori di tutela paesaggistica dello specifico sito considerato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, ordinanza 10.04.2013 n. 802 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

Le piazze sono beni culturali a prescindere dalla specifica dichiarazione di interesse culturale.

EDILIZIA PRIVATA: M. Acquasaliente, Le piazze sono beni culturali a prescindere dalla specifica dichiarazione di interesse culturale (23.04.2013 - link a http://venetoius.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 10, quarto comma – lett. g), del Codice dei beni culturali e del paesaggio, secondo le più recenti e condivisibili interpretazioni della giurisprudenza amministrativa e costituzionale, discende la riconduzione ex lege alla categoria dei beni culturali delle piazze pubbliche, appartenenti all’ente territoriale e realizzate da oltre settant’anni, che presentano interesse artistico o storico, indipendentemente dall’avvio del procedimento di verifica e dalla specifica dichiarazione di interesse culturale prevista dal successivo art. 13 del Codice, con la conseguente immediata applicazione del regime di tutela disciplinato dalla Parte Seconda del Codice.
Passando ai profili strettamente sostanziali, si è visto che il diniego opposto dal Comune di Trani si fonda su due distinte e concorrenti motivazioni: il contrasto con le prescrizioni di tutela della Chiesa di Ognissanti impartite dalla Soprintendenza ed il contrasto con le distanze minime prescritte dal regolamento comunale approvato con delibera n. 5 del 07.02.2008.
Il Collegio ritiene che il primo profilo assuma rilievo assorbente e che le censure ad esso riferite siano infondate.
Dalla documentazione fotografica versata in atti è agevole constatare che l’occupazione richiesta dalla ricorrente, con tavoli, sedie ed ombrelloni, determinerebbe un ingombro non trascurabile ed un impatto visivo notevole sull’area pertinenziale della Chiesa di Ognissanti.
Come correttamente affermato dalla Soprintendenza nella memoria depositata in giudizio il 20.12.2012, le prescrizioni ed i divieti imposti a salvaguardia della cornice ambientale in cui è inserita la Chiesa si fondano non solo, e non tanto, sul potere di tutela indiretta di cui agli artt. 45-ss. del d.lgs. n. 42 del 2004, bensì sull’immediata sottoposizione a vincolo della piazza e della pubblica via antistante all’abside della Chiesa, ai sensi dell’art. 10, quarto comma – lett. g), del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Da quest’ultima norma, secondo le più recenti e condivisibili interpretazioni della giurisprudenza amministrativa e costituzionale, discende infatti la riconduzione ex lege alla categoria dei beni culturali delle piazze pubbliche, appartenenti all’ente territoriale e realizzate da oltre settant’anni, che presentano interesse artistico o storico, indipendentemente dall’avvio del procedimento di verifica e dalla specifica dichiarazione di interesse culturale prevista dal successivo art. 13 del Codice, con la conseguente immediata applicazione del regime di tutela disciplinato dalla Parte Seconda del Codice (cfr., in questi termini: Cons. Stato, sez. VI, 24.01.2011, n. 482; in precedenza, Corte cost., 08.07.2010 n. 247; da ultimo, si veda la Direttiva 11.10.2012 del Ministro per i Beni e le Attività Culturali, concernente “l’esercizio di attività commerciali e artigianali su aree pubbliche in forma ambulante o su posteggio, nonché di qualsiasi altra attività non compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio culturale”).
Su tale presupposto, il divieto imposto dalla Soprintendenza risulta congruamente motivato in riferimento all’esigenza di tutelare la piena fruizione, anche visiva, del monumento ecclesiastico, tenuto conto che i tavoli e gli ombrelloni dell’esercizio di ristorazione sarebbero stati collocati a ridosso dell’abside, in posizione ben visibile dalla via Banchina del Porto.
Al riguardo, neppure può essere accolta la censura di eccesso di potere per disparità di trattamento, poiché dalla documentazioni fotografica si desume che l’occupazione di suolo pubblico autorizzata alla contigua osteria “La Banchina” non presenta identico impatto visivo sull’abside della Chiesa, rispetto al quale assume una posizione assai più defilata.
In conclusione, il parere negativo espresso dalla Soprintendenza è immune dai vizi dedotti dalla ricorrente.
Ne discende, per tale profilo, la legittimità del diniego di occupazione disposto dal Comune di Trani (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 01.03.2013 n. 307 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAa) ai sensi del comma 1 dell’art. 10 le piazze pubbliche sono “beni culturali” in quanto complesso appartenente ad ente pubblico territoriale;
b) la dichiarazione di cui all’art. 13 del medesimo d.lgs. n. 42 del 2004 è richiesta, dalla lettera a) del comma 3 del citato art. 10, per le cose immobili “appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1”;
c) di conseguenza per le pubbliche piazze, in quanto non appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati nel comma 1, deve ritenersi che, ai sensi del comma 4 dell’art. 10, non siano comprese fra le cose richiedenti la dichiarazione di cui all’art. 13 e che, quindi, presentino ex se interesse storico–artistico, tutelato come tale dalla Soprintendenza di Stato in ragione di tale qualità.

... per la riforma della sentenza breve del TAR PUGLIA-BARI: SEZIONE III n. 03841/2010, resa tra le parti, concernente RICHIESTA PERMESSO DI COSTRUIRE PER L'INSTALLAZIONE DI UNA TETTOIA E PARETI IN PVC ANNESSI AD ATTIVITA' DI BAR-RISTORAZIONE
...
La Società “Borghese S.a.s. Di De Felice Mirella & C.”, con il ricorso n. 922 del 2010 proposto al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, ha chiesto l’annullamento:
- con il ricorso originario: del provvedimento del Comune di San Severo, n. 0019466 del 2009, nella parte in cui subordina al rilascio del parere favorevole della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le Province di Bari, Barletta-Andria-Trani e Foggia la richiesta di permesso di costruire per l’installazione di tettoia in legno, copertura e pareti di chiusura in tendaggi annessi a bar-ristorazione in piazza Aldo Moro, n. 31-32; del provvedimento delle detta Soprintendenza, MBAC-SPAB BA STP 002396 del 2010, avente ad oggetto “Tutela ai sensi dell’art. 10, comma 4, lett. g), del D.gs. 42/2004 –Lavori di montaggio di pensilina in legno-Autorizzazione ai sensi dell’art. 21 del D.lgs. 42/2004”;
- con motivi aggiunti: dell’ordinanza del Comune di San Severo, n. 108 del 2010, con il quale è stato ingiunto alla Società ricorrente, entro il termine perentorio di giorni 10, la rimozione della tettoia con struttura prefabbricata.
...
Il Tar, con sentenza n. 3841 del 2010 ha respinto il ricorso condannando la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio in favore del Comune di San Severo e delle Amministrazioni statali costituitesi.
Con l’appello in epigrafe è stato chiesto l’annullamento della sentenza di primo grado e, per l’effetto, l’accoglimento del ricorso di primo grado, con l’annullamento dei provvedimenti con esso impugnati.
Nell’appello, in censura della sentenza impugnata, si deduce che:
- l’art. 10 del d.lgs. n. 42 del 2004, nel comma 1, include nella definizione di “beni culturali” le “cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali…che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico”, nel comma 3 dispone che “Sono altresì beni culturali, quando sia intervenuta la dichiarazione prevista dall’art. 13… a) le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante, appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1” e, nel comma 4, prevede che “Sono comprese tra le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettera a)….g) le pubbliche piazze, vie, strade, e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico”;
- ne consegue, si sostiene, che l’attribuzione alla pubblica piazza di cui si tratta della qualifica di interesse artistico o storico richiede la dichiarazione di cui all’art. 13 citato e che, non essendovi stata tale dichiarazione la Soprintendenza ha agito in difetto di attribuzione.
...La censura dedotta con l’appello non può essere accolta.
Dalla normativa in materia, riportata in precedenza, emerge con chiarezza che:
a) ai sensi del comma 1 dell’art. 10 le piazze pubbliche sono “beni culturali” in quanto complesso appartenente ad ente pubblico territoriale;
b) la dichiarazione di cui all’art. 13 del medesimo d.lgs. n. 42 del 2004 è richiesta, dalla lettera a) del comma 3 del citato art. 10, per le cose immobili “appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1”;
c) di conseguenza per le pubbliche piazze, in quanto non appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati nel comma 1, deve ritenersi che, ai sensi del comma 4 dell’art. 10, non siano comprese fra le cose richiedenti la dichiarazione di cui all’art. 13 e che, quindi, presentino ex se interesse storico–artistico, tutelato come tale dalla Soprintendenza di Stato in ragione di tale qualità.
Per quanto considerato l’appello è infondato e deve essere perciò respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.01.2011 n. 482 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: PROGETTO DI LEGGE 19.04.2013 N. 0028 di iniziativa del Presidente della Giunta regionale (deliberazione di G.R. 16.04.2013 n. 34) avente per oggetto “Modifiche alla l.r. 12/2005 – Legge per il governo del territorio” (tratto da www.consiglio.regione.lombardia.it).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: FONDO PENSIONE “PERSEO” NON FACCIAMOCI INGANNARE (CSA di Milano, nota 22.04.2013).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

LAVORI PUBBLICI: G.U. 24.04.2013 n. 96 "Regolamento recante le modalità di redazione dell’elenco anagrafe delle opere pubbliche incompiute, di cui all’articolo 44 -bis del decreto-legge 06.12.2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 13.03.2013 n. 42).

NOTE, CIRCOLARTI E COMUNICATI

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Oggetto: Disposizioni del decreto legge 18.10.2012, n. 179, convertito con modificazioni dalla L. 17.12.2012, n. 221 in tema di accessibilità dei siti web e servizi informatici. Obblighi delle pubbliche Amministrazioni (Agenzia per l'Italia digitale, circolare 29.03.2013 n. 61/2013).
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Si leggano, altresì, i seguenti allegati:
modello A;
modello B.

AMBIENTE-ECOLOGIAOggetto: indicazioni concernenti le modalità di rispetto degli obblighi di gestione degli oli usati di cui all'art. 183, comma 1, lett. c), del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, e successive modificazioni e integrazioni (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, circolare 26.03.2013 n. 23876 di prot.).

APPALTI: OGGETTO: il contratto d’appalto elettronico – il nuovo comma 13 dell'art. 11 del d.lgs. n. 163 del 2006 (Consorzio dei Comuni Trentini, circolare 04.03.2013 n. 8/2013).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Dirigente di staff responsabile anticorruzione. Negli enti locali, invece, il compito spetta per legge al segretario comunale. In gazzetta ufficiale la circolare della funzione pubblica sulla legge 190/2012.
L'incarico di responsabile della prevenzione della corruzione, nei ministeri e nelle amministrazioni diverse dagli enti locali, va assegnato a dirigenti operanti presso gli staff degli organi di governo o posti a dirigere gli uffici di disciplina. Mentre negli enti locali il compito per legge spetta ai segretari comunali.
E' stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la
circolare 25.01.2013 n. 1/2013 del Dipartimento della Funzione Pubblica, che contiene le prime indicazioni per l'applicazione della legge 190/2012, “anticorruzione”.
E' il primo passo ufficiale di Palazzo Vidoni nel complicato percorso che impone alle amministrazioni di dotarsi di una serie di strumenti finalizzati a contrastare fenomeni corruttivi, in attesa del fondamentale piano nazionale anticorruzione, che il Dipartimento ha il compito di redigere e la Civit (Commissione Indipendente per la Valutazione, la Trasparenza e l'Integrità delle amministrazioni pubbliche), nella veste di Autorità nazionale anti corruzione, dovrà poi approvare.
La Civit, come è noto, ha ritenuto che il termine dello scorso 31 marzo per approvare i piani anticorruzione da parte di ciascuna amministrazione è da considerare ordinatorio: sarà l'approvazione del piano nazionale a far scattare definitivamente le lancette per il conto alla rovescia, finalizzato all'attivazione degli strumenti anticorruzione. La circolare 1/2013, tuttavia, fornisce alcune prime indicazioni utili per avviare il lavoro che le amministrazioni debbono in ogni caso apprestare. In particolare, risulta utile la definizione che Palazzo Vidoni fornisce di corruzione.
La legge 190/2012 è sostanzialmente divisa in due parti: la seconda modifica in parte il codice penale, regolamentando il reato di corruzione e le pene relative. La prima parte, invece, è dedicata alle amministrazioni pubbliche e fissa una serie di regole e comportamenti (rinviando ad altre norme “accessorie”, quali ad esempio il riordino della trasparenza adottato col d.lgs 33/2013), con l'obiettivo di ridurre al minimo i rischi di comportamenti corruttivi. Tali indicazioni, tuttavia, molte delle quali di natura organizzativa, non si limitano a prendere in considerazione la corruzione come reato. La circolare spiega che le situazioni da prendere in considerazione per organizzare l'attività amministrativa ed i servizi così da contrastare la corruzione sono più ampie della fattispecie penalistica.
Nel contesto della legge 190/2012, per la parte dedicata all'azione amministrativa, dunque, della corruzione non bisogna guardare la sola accezione penalistica, ma riferirsi ad un concetto più ampio, intendendo per corruzione ogni azione o comportamento che svii dai principi fondamentali di trasparenza, correttezza, buona fede, parità di trattamento, ragionevolezza ed equità, che portino, come conseguenza, all'abuso da parte di un soggetto dotato di poteri pubblici di cui dispone, finalizzato ad ottenere vantaggi privati (propri o di terzi), a detrimento dell'interesse generale (articolo ItaliaOggi del 27.04.2013).

UTILITA'

APPALTI SERVIZI: Rassegna Normativa - Servizi Pubblici Locali - “Progetto di supporto e affiancamento operativo a favore degli Enti Pubblici delle Regioni Obiettivo Convergenza”.
Servizi pubblici locali: elaborata una raccolta della normativa.
In esito ai lavori del Tavolo tecnico, istituito in attuazione di un Protocollo d’intesa promosso dal Ministero dello Sviluppo economico e a cui hanno partecipato, oltre al predetto dicastero, la Segreteria tecnica del Sottosegretario di Stato Catricalà, il Dipartimento Affari Europei e il Dipartimento per gli Affari Regionali, il Turismo e lo Sport della Presidenza del Consiglio dei Ministri e Invitalia -Agenzia Nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo Sviluppo d’impresa S.p.A.– è stata elaborata una raccolta ricognitiva della normativa e della giurisprudenza nazionali e comunitarie applicabili ai servizi pubblici locali di rilevanza economica.
Il documento, varato alla presenza del Sottosegretario di Stato Antonio Catricalà e del Sottosegretario al Ministero dello Sviluppo economico Claudio De Vincenti, è articolato in quattro titoli, preceduti da note esplicative, relativi:
• all’organizzazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica e alle funzioni degli enti territoriali;
• all’affidamento dei servizi e concorrenza;
• alla gestione delle reti e società a partecipazione pubblica;
• alla regolazione.
È completato da tre capitoli contenenti la disciplina specifica dei settori idrico, trasporti pubblici locali e rifiuti (22.04.2013 - tratto da www.regioni.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

LAVORI PUBBLICI: G.P. D'Incecco Bayard De Volo, Appalti pubblici: l’importanza della verifica ai fini della validazione dei progetti. Un momento di sintesi delle scelte di merito del progettista e degli obiettivi che l’amministrazione intende perseguire. La verifica ai fini della validazione dei progetti non va considerata come l’ennesimo appesantimento burocratico ma come l’occasione di accelerazione dei tempi realizzativi e strumento di deflazione del contenzioso in materia di appalti pubblici (Diritto e Pratica Amministrativa n. 4/2013).

EDILIZIA PRIVATA: M. Acquasaliente, Le piazze sono beni culturali a prescindere dalla specifica dichiarazione di interesse culturale (23.04.2013 - link a http://venetoius.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Tematiche di vario interesse ... (Personale News 23.04.2013 n. 8 - tratto da www.gianlucabertagna.it).

QUESITI & PARERI

TRIBUTI: Dichiarazione Imu.
Domanda
La dichiarazione Imu entro quando va presentata?
Risposta
La dichiarazione relativa all'Imposta municipale propria (Imu), per l'anno 2012 deve essere presentata entro il 04.02.2013. Infatti, la norma stabilisce che detta dichiarazione deve essere presentata entro novanta giorni dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto che ha approvato il relativo modello. Detta pubblicazione è avvenuta il cinque novembre 2012, per cui i novanta giorni scadono il 04/02/2013.
Sono interessati alla suddetta dichiarazione soltanto gli immobili che nel 2012 hanno subito variazioni e cioè:
quando gli immobili, in proprietà o in diritto reale del dichiarante, hanno cambiato le loro caratteristiche (esempio abitazione trasformata in ufficio, terreno agricolo diventato edificabile, abitazione principale non più tale o viceversa abitazione secondaria diventata principale ecc.);
quando il bene è stato acquistato o ricevuto in donazione, o su di esso sono stati costituiti diritti reali;
quando l'immobile ha perso il diritto all'esenzione o all'esclusione.
La dichiarazione deve essere effettuata utilizzando l'apposito modello ministeriale e deve essere inviata al comune nel cui territorio si trova l'immobile. Essa va spedita con raccomandata senza ricevuta di ritorno (articolo ItaliaOggi Sette del 22.04.2013).

TRIBUTI: Marchio di fabbrica sulle gru.
Domanda
L'Imposta comunale sulla pubblicità in che modo è dovuta sul marchio di fabbrica apposto sulle gru mobili, sulle gru a torre adoperate nei cantieri edili e sulle macchine da cantiere?
Risposta
Il decreto ministeriale del 26.07.2012, numero 185, dispone, all'articolo 3, che per l'Imposta comunale sulla pubblicità e sulle pubbliche affissioni (I.P.), relativamente al marchio di fabbrica apposto sulle gru mobili, sulle gru a torre adoperate nei cantieri edili e sulle macchine da cantiere, di vecchia fabbricazione (cioè fabbricate prima della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del suddetto decreto ministeriale: 09.08.2012) le imprese devono adeguare il suddetto marchio come disposto dall'articolo 1 del summenzionato decreto ministeriale. Pertanto, come dispone il predetto articolo 1, la suddetta imposta non è dovuta per l'indicazione del marchio apposto con dimensioni proporzionali alla dimensione delle gru mobili, delle gru a torre adoperate nei cantieri edili e delle macchine da cantiere la cui superficie complessiva non eccede i seguenti limiti:
fino a due metri quadrati per le gru mobili, le gru a torre adoperate nei cantieri edili e le macchine da cantiere con sviluppo potenziale in altezza fino a dieci metri lineari;
fino a quattro metri quadrati per le gru mobili, le gru a torre adoperate nei cantieri edili e le macchine da cantiere con sviluppo potenziale in altezza oltre i dieci metri e fino a quaranta metri lineari;
fino a sei metri quadrati per le gru mobili, le gru a torre adoperate nei cantieri edili e le macchine da cantiere con sviluppo potenziale in altezza oltre i quaranta metri lineari.
Per i marchi, la cui superficie complessiva supera quella su indicata, l'imposta suddetta è dovuta in base alla superficie complessiva dei marchi installati su ciascuno bene mobile, come su individuato (gru mobili, gru a torre adoperate nei cantieri edili e macchine da cantiere), per anno solare al comune ove ha sede l'impresa produttrice dei beni o qualsiasi altra sua dipendenza, nella misura e con le modalità previste dall'articolo 12, comma 1, del decreto legislativo numero 507, del 15.11.1993 (articolo ItaliaOggi Sette del 22.04.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Ordinanza rimozione rifiuti.
Risposta
Su un'area demaniale sono stati abbandonati dei rifiuti. A chi spetta la competenza a emanare l'ordinanza per la rimozione degli stessi? Al dirigente o al sindaco?
Domanda
In base a quanto previsto dal Testo unico degli enti locali (dlgs n. 267/2000 e s.m.i.) l'Autorità competente a emanare il provvedimento di ordinanza è il dirigente del settore interessato (art. 107 dlgs n. 267/200) o il sindaco, quale ufficiale di governo al fine di «prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità dei cittadini» (art. 54, comma 2, dlgs n. 267/2000).
Nel caso in esame è pertanto preliminarmente opportuno appurare di che tipo di rifiuti si tratti e della loro eventuale pericolosità per l'incolumità e la salute dei cittadini. Ciò appurato, posto quanto sopra, nel caso di rifiuti pericolosi per l'incolumità dei cittadini la competenza a emanare la relativa ordinanza di sgombero spetta, ex art. 54, comma 2, dlgs n. 267/2000, al sindaco in qualità di ufficiale del governo.
In caso contrario il potere di ordinanza ricade in capo al dirigente del settore competente, ex. art. 107 dlgs n. 267/2000 (cfr. Tar Molise n. 665 del 27/11/2012) (articolo ItaliaOggi Sette del 22.04.2013).

CORTE DEI CONTI

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Rimborso spese viaggio dipendenti ed amministratori.
Su quanto in oggetto, risponde la Corte dei Conti, Sez. controllo regionale Emilia-Romagna che, con il parere 16.04.2013 n. 208, esamina i questi del Comune di Calderara di Reno.
La sezione esprime i seguenti avvisi:
- le spese di parcheggio sostenute dal dipendente per recarsi in missione con mezzo comunale sono rimborsabili;
- aderendo all'interpretazione fornita dalla sezioni riunite (deliberazioni nn. 21/CONTR/2011 e 8/CONTR/2011), il dipendente può essere autorizzato all'utilizzo del proprio mezzo al fine di ottenere la copertura assicurativa, non gli può essere riconosciuto il rimborso delle spese sostenute, è possibile il ricorso a regolamentazioni interne volte a disciplinare -per i soli casi in cui l'utilizzo del mezzo proprio risulti economicamente più conveniente per l'amministrazione- forme di ristoro dei costi sostenuti che, però, dovranno necessariamente tenere conto delle finalità di contenimento della spesa introdotte con la manovra estiva e degli oneri che in concreto avrebbe sostenuto l'ente per le sole spese di trasporto in ipotesi di utilizzo di mezzi pubblici;
- quanto prescritto per i dipendenti vale, analogamente, anche per gli amministratori locali che, in caso di utilizzo del proprio mezzo, non potranno vedersi riconosciuto il rimborso dell'indennità chilometrica nella misura di 1/5 del prezzo al litro di benzina; anche in questo caso è fatta salva la possibilità di regolamentare la fattispecie, limitando il ristoro a quanto l'ente avrebbe sostenuto in caso di utilizzo (da parte dell'amministratore) dei mezzi pubblici di trasporto (tratto da www.publika.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONEPaletti agli incentivi per la pianificazione.
L'incentivo ai tecnici delle amministrazioni per l'attività di pianificazione non scatta se non è strumentale alla progettazione di lavori pubblici.

È quanto chiarisce la Corte dei Conti Campania, con il parere 10.04.2013 n. 141.
Veniva chiesto di approfondire l'art. 92, comma 6, del Codice contratti che stabilisce che il 30% della tariffa professionale relativa alla redazione di un «atto di pianificazione comunque denominato» possa essere ripartito tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto.
La delibera, che non si pone il problema, preliminare, dell'avvenuta abrogazione delle tariffe professionali a opera del decreto legge 1/2012 e quindi della mancanza di una base giuridica sulla quale calcolare il 30%, affronta la questione se all'atto di «pianificazione comunque denominato», ai fini dell'erogazione dell'incentivo, debba necessariamente ricondursi l'attività di progettazione di un'opera, ovvero se possa considerarsi a tal fine anche un mero atto di pianificazione che non dia luogo alla conseguente progettazione di un'opera pubblica.
La delibera sposa la prima tesi dando rilievo all'elemento della necessaria presenza di un contenuto tecnico documentale degli elaborati, ai quali devono corrispondere anche specifiche competenze professionali «reperibili esclusivamente all'interno dell'ente». L'attività di pianificazione deve pertanto essere contestualizzata nell'ambito dei lavori pubblici, in un rapporto di necessaria strumentalità con l'attività di progettazione di opere pubbliche. In tal senso depone sia la collocazione sistematica delle norme in materia di progettazione e di incentivazione sia il fatto che l'art. 92, comma 6, del Codice prevede che l'incentivo sia distribuito «tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto».
Infine la Corte risolve anche un secondo quesito inerente l'applicabilità del divieto di incremento di cui all'art. 9 comma 2-bis della legge 122/2010, il quale contempla che il l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale non possa superare il corrispondente importo dell'anno 2010 e nega che la norma possa essere in alcun modo derogata «in quanto la regola generale voluta dal legislatore è quella di porre un limite alla crescita dei fondi della contrattazione integrativa destinati alla generalità dei dipendenti dell'ente pubblico».
Per definire il tetto complessivo, occorrerà sterilizzare, non includendole nel computo del 2010, le risorse destinate alla progettazione e alla pianificazione interna (articolo ItaliaOggi del 23.04.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI: Corte conti Sicilia sugli incarichi di diretta collaborazione. Lo staff del sindaco va legato alle esigenze.
Il personale esterno incardinato alla diretta collaborazione di un sindaco non può essere assunto con provvedimenti a piacere, ma deve essere proporzionato alle effettive esigenze della stessa amministrazione.

Così la sezione giurisdizionale della Corte dei conti siciliana, nel testo della sentenza 09.04.2013 n. 1552, ha condannato l'ex sindaco di Lampedusa, Berardino de Rubeis e, in misura largamente inferiore, l'allora vicesindaco, Giovanni Sparma, a rifondere complessivamente alle casse dell'isola pelagica poco più di 380 mila euro, per aver dotato, in breve tempo, l'ufficio di gabinetto del sindaco (partito nel 2007 con un'unita di personale) con ben ventisette nuovi innesti di personale.
Secondo il collegio della magistratura contabile (pres. Pagliaro, est. Brancato), la condotta dei citati convenuti va valutata in ossequio al fondamentale principio secondo cui le amministrazioni e gli enti pubblici devono di norma svolgere i compiti istituzionali avvalendosi di proprio personale e, secondo quanto previsto dall'art. 7, comma 6, del dlgs n. 165/2001, possono conferire incarichi individuali ad esperti di provata competenza solo «per esigenze cui non possono far fronte con il personale in servizio».
Accogliendo le tesi della Procura, la Corte ha ritenuto, infatti, che il numero degli addetti all'attività di supporto del vertice politico del comune «appare del tutto irragionevole e non proporzionato alle effettive esigenze operative della stessa amministrazione comunale».
In ogni caso, come ulteriore elemento di valutazione della condotta dei convenuti, va rilevato che nei provvedimenti di assunzione non si è fatto cenno al rispetto dei vincoli posti dalla vigente normativa in materia di assunzione a qualsiasi titolo di personale (ad esempio, i vincoli imposti dal patto di stabilità interno), né all'avvenuta osservanza dell'obbligo di riduzione della spesa del personale rispetto al totale di quella corrente, sancito in più occasioni dalle norme di legge nei confronti di tutti gli enti locali.
Sotto il profilo dell'elemento soggettivo, il collegio osserva che la violazione dei criteri di economicità e buona amministrazione, nonché dei limiti legislativi imposti in materia di assunzione di personale presso gli enti locali, è sufficiente a configurare quanto meno la colpa grave. Nella fattispecie, dalla violazione di norme di legge e di fondamentali principi regolatori dell'attività amministrativa, deriva la conseguente inutilità della spesa erogata per le retribuzioni del personale illecitamente assunto (articolo ItaliaOggi del 26.04.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI: Se il danno è costituito da un compenso illecito, indebito o comunque inutile questo non va depurato dell’eventuale imposta sui redditi pagata all’Erario.
Al riguardo, la richiesta del convenuto di detrarre nella quantificazione del danno l’importo destinato all’Erario per la prevista tassazione del 43% del compenso lordo, trattandosi, in sostanza, di una mera “partita di giro”, deve essere rigettata. Ciò perché, nel caso di specie la prevista tassazione del 43% del compenso lordo è circostanza assolutamente indipendente dall’utilità o meno del conferimento dell’incarico.
Infatti, il pagamento dell’imposta e l’inutilità dell’incarico sono fatti tra di loro privi di qualsiasi connessione causale, atteso che l’imposta doveva essere pagata, anche se l’incarico fosse stato considerato lecito ed utile.
Del resto consolidata giurisprudenza di questa Corte sul punto specifico relativo alla dedotta detraibilità dell’IRPEF sui trattamenti retributivi ha già affermato che “… la compensatio lucri cum damno opera solo quando danno e vantaggio sono conseguenze immediate e dirette dello stesso fatto, che deve essere idoneo a produrre entrambi gli effetti. In altre parole, non sono valutabili come vantaggi, eventi eziologicamente non dipendenti dal fatto illecito, secondo il principio dell’id quod plerunque accidit” (ex multis cfr. Sez. II n. 400 del 15.10.2010) (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. giur. Lombardia, sentenza 05.04.2013 n. 89 - link a www.corteconti).

CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI: Inutile e dannosa la nomina a direttore generale in un Comune di mille abitanti e con sei dipendenti.
A tal riguardo, deve essere evidenziato il consolidato orientamento giurisprudenziale non solo di questa Corte, ma della stessa Cassazione secondo cui i giudici contabili possono e devono verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini dell’Ente pubblico sotto il profilo del corretto esercizio della discrezionalità.
Pertanto è possibile il sindacato delle scelte discrezionali, in presenza di atti contra legem o palesemente irragionevoli ovvero ancora altamente diseconomici.
In altri termini, il comportamento contra legem o irrazionale del pubblico agente non è mai al riparo dal sindacato, non potendo esso costituire esercizio di una scelta discrezionale insindacabile. L’art. 1, comma 1, della Legge n. 20/1994 non può rappresentare, infatti, uno schermo di protezione per le decisioni irragionevoli o assunte in violazione di norme di legge, che abbiano causato un danno erariale (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. giur. Lombardia, sentenza 05.04.2013 n. 88 - link a www.corteconti).

APPALTI: Danno alla concorrenza: la violazione delle norme in materia di evidenza pubblica non basta!
Invero, se è incontestabile che la nozione del danno erariale risarcibile ha da molto tempo abbandonato, sia in dottrina che in giurisprudenza, il connotato della deminutio patrimoni per ricomprendere anche le lesioni di interessi pubblici tutelati dall’ordinamento e comunque economicamente valutabili (si pensi al danno all’immagine, al danno cosiddetto da disservizio ecc.) ciò non significa che ogni lesione, nella specie quella delle regole dell’evidenza pubblica in materia di contratti, possa in re ipsa, equivalere a prova di un danno ontologicamente sussistente.
In questo caso occorrono dunque elementi di prova che dimostrino che la spesa, pur a fronte di lavori integralmente eseguiti e collaudati e quindi di una incontestata controprestazione resa, è stata invece, seppure solo in parte, un esborso dannoso in quanto non bilanciata da alcuna utilità acquisita al patrimonio del soggetto pubblico.
Né è possibile richiamare l’art. 1226 c.c. in quanto norma che se consente di quantificare in via equitativa il danno, presuppone, secondo la pacifica giurisprudenza civile e contabile che ne stata fornita la prova, anche presuntiva, dell’an (massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. II giur. centrale d'appello, sentenza 01.03.2013 n. 130 - link a www.corteconti.it).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGOStipendi pubblici congelati. Classi, scatti, progressioni, indennità bloccati fino al 2014. Dal Consiglio di stato il via libera al regolamento che attua il dl 78 del 2010.
Il governo va avanti sul blocco degli stipendi dei dipendenti pubblici fino a tutto il 2014. Il regolamento approvato in via preliminare lo scorso 21 marzo ha passato il vaglio del Consiglio di stato che ha espresso il proprio parere positivo il 17 aprile scorso. Un solo articolo, suddiviso in 3 commi, dispone la proroga al 31.12.2014 di una serie di misure previste dall'articolo 9 del decreto legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122:
- blocco dei trattamenti economici individuali;
- riduzione delle indennità corrisposte ai responsabili degli uffici di diretta collaborazione dei ministri e individuazione del limite massimo per i trattamenti economici complessivi spettanti ai titolari di incarichi dirigenziali;
- limite massimo e riduzione dell'ammontare delle risorse destinate al trattamento accessorio del personale;
- blocchi economici riguardanti: meccanismi di adeguamento retributivo, classi e scatti di stipendio, progressioni di carriera comunque denominate del personale contrattualizzato e di quello in regime di diritto pubblico.
Ora ovviamente, come anche sottolineato nel comunicato della presidenza del consiglio del 21 marzo, toccherà al nuovo governo decidere se seguire la strada del prolungamento del blocco o trovare fonti alternative per reperire risorse in egual misura a quelle derivanti dal blocco stesso. «Il Consiglio», si legge in quel comunicato, «su iniziativa del ministro dell'economia, di concerto con il ministro della Pubblica amministrazione e semplificazione, ha proposto di avviare l'iter concernente il regolamento di contenimento delle spese del pubblico impiego. Questo consentirà al prossimo governo di scegliere tra la proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali portando a termine la procedura del regolamento, come previsto dal decreto legge 98 del 2011; oppure di trovare una diversa copertura e così evitare per il 2014 il blocco delle progressioni e degli automatismi retributivi nel pubblico impiego».
Lo «schema di decreto del presidente della repubblica recante regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti» introduce poi la proroga al 31.12.2013, con effetto sull'anno 2014, dei blocchi riguardanti il personale docente, educativo ed Ata della scuola. E stabilisce l'estensione al personale convenzionato del Servizio sanitario nazionale delle disposizioni concernenti le proroghe del blocco dei trattamenti economici e delle procedure contrattuali.
Sono invece escluse dalla proroga, per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale del decreto legge n. 78 del 2010, sancita dalla sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 2012, le disposizioni in cui viene disposta la riduzione dei trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche, inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, nella misura del 5% per la parte eccedente i 90 mila euro lordi annui e del 10% per quella superiore a 150 mila euro lordi annui.
Un impianto normativo complessivamente promosso di giudici di palazzo Spada i quali ritengono, si legge nel parere, «che lo schema di regolamento proposto risponda alla ratio di contenimento della spesa in materia di pubblico impiego siccome disciplinata dalle vincolanti norme primarie richiamate» (articolo ItaliaOggi del 27.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

CONDOMINIORIFORMA CONDOMINIO/ Sicurezza, condòmini liberi. Nessun obbligo di produrre documenti all'amministratore. Basta la segnalazione solo in caso di effettivo pericolo.
Il riscontro sullo stato di sicurezza dell'immobile non comporta alcun obbligo per il condomino di produrre documenti. Il condomino deve soltanto segnalare quando è il caso il verificarsi di problemi che possano mettere a repentaglio la sicurezza dell'immobile. Nulla dunque l'amministratore può richiedere al condomino a livello di documentazione sulla sicurezza.

L'art. 1130 c.c., così come scaturente dalla legge di riforma del condominio, prevede al n. 6, primo periodo, che l'amministratore debba “curare la tenuta del registro di anagrafe condominiale contenente le generalità dei singoli proprietari e dei titolari di diritti reali e di diritti personali di godimento, comprensive del codice fiscale e della residenza o domicilio, i dati catastali di ciascuna unità immobiliare, nonché ogni dato relativo alle condizioni di sicurezza”.
La previsione, all'evidenza, non pone particolari problemi interpretativi, se non con riferimento ad uno specifico punto: quale sia l'esatto significato da attribuire all'espressione “ogni dato relativo alle condizioni di sicurezza”.
Nel silenzio del legislatore, l'indagine non può che prendere l'avvio da un esame letterale dell'espressione d'interesse e, in particolare, dal termine “dato”.
Tale parola, utilizzata come sostantivo maschile, ha il significato –secondo il dizionario Devoto Oli della lingua italiana– di “informazione”, vocabolo quest'ultimo –sempre secondo il citato dizionario– che a sua volta sta ad indicare “notizia o nozione raccolta e comunicata ai fini di un'utilizzazione pratica e immediata”.
Che il termine “dato” vada letto come sinonimo di “informazione” trova conferma, del resto, anche nella formulazione della disposizione in questione la quale, sempre al n. 6, dopo aver trattato del registro di cui sopra, così prosegue: “Ogni variazione dei dati deve essere comunicata all'amministratore in forma scritta entro sessanta giorni. L'amministratore, in caso di inerzia, mancanza o incompletezza delle comunicazioni, richiede con lettera raccomandata le informazioni necessarie alla tenuta del registro di anagrafe. Decorsi trenta giorni, in caso di omessa o incompleta risposta, l'amministratore acquisisce le informazioni necessarie, addebitandone il costo ai responsabili”.
È, dunque, lo stesso legislatore a parlare di “informazioni” con riguardo a ciò che i condòmini sono tenuti a comunicare; “informazioni” che, tuttavia, possono ritenersi fornite, in relazione segnatamente alle “condizioni di sicurezza”, dando conto –deve ritenersi– di eventuali elementi negativi relativi a queste ultime, elementi riscontrabili nelle unità immobiliari (ad es.: segnali di pericolo, come crepe nei muri ecc.), richiedendo all'evidenza la legge la comunicazione di dati afferenti –in buona sostanza, e per meglio esprimersi– alla insicurezza. La presentazione da parte dei condòmini di documentazione concernente la sicurezza dei loro immobili, non troverebbe alcuna valida giustificazione nel testo di legge (che, infatti, non parla di allegazione –del resto di pratica, difficile attuazione– al registro di anagrafe). Non solo, ma la documentazione potrebbe anche essere superata e non svolgere quindi alcuna funzione così come potrebbe addirittura essere un modo per dribblare quanto la legge prescrive (chiamando questa i condòmini a dichiarare i dati attuali di sicurezza e a comunicare ogni variazione degli stessi).
Al di là delle considerazioni che precedono, vi è poi da rilevare che quando il legislatore della riforma ha inteso far riferimento ad eventuale “documentazione” o “documenti”, lo ha fatto esplicitamente, senza giri di parole. Si pensi, solo per fare qualche esempio, all'art. 1129, ottavo comma, c.c. nel quale si prevede espressamente che l'amministratore, alla cessazione dell'incarico, è tenuto alla consegna di tutta la “documentazione” in suo possesso. Ovvero al successivo punto 8) dello stesso art. 1130 c.c. in cui si impone a chi amministra di conservare tutta la “documentazione” inerente alla propria gestione. O, ancora, all'art. 71-ter disp. att. c.c. che obbliga l'amministratore ad attivare –su richiesta dell'assemblea– un sito internet del condominio che consenta agli aventi diritto di consultare ed estrarre copia in formato digitale dei “documenti” previsti dalla delibera assembleare.
Insomma, se la voluntas legis fosse stata quella di pretendere dai condòmini documenti sulla sicurezza, sarebbe stato certo più chiaro e semplice ricorrere a espressioni quali “ogni documento relativo alle condizioni di sicurezza” oppure “tutta la documentazione relativa alle condizioni di sicurezza”. Così però non è stato. Il che porta all'ovvia conclusione che la legge non prevede alcun obbligo di produzione documentale, e affermare il contrario, quindi, significherebbe introdurre un inutile aggravio a carico dei condòmini e degli stessi amministratori. Ciò senza considerare, peraltro, che la presentazione di eventuale documentazione sulla sicurezza firmata da professionisti eluderebbe lo scopo della norma, che è quello, indubbiamente, di un'assunzione di responsabilità diretta da parte dei proprietari degli immobili; assunzione di responsabilità che può essere garantita solo da una dichiarazione sottoscritta dagli stessi interessati circa l'esistenza o meno di segnali di pericolo al momento della comunicazione all'amministratore.
Ad ulteriore conferma della bontà delle conclusioni cui sta conducendo la presente riflessione, c'è infine da considerare che la previsione che qua ci occupa precisa –come abbiamo visto– che ogni variazione dei dati deve essere “comunicata” all'amministratore, il quale, in caso di inerzia, mancanza o incompletezza delle “comunicazioni”, deve attivarsi con lettera raccomandata. È chiaro che, se nei dati da comunicare si fosse voluto ricomprendere anche un'eventuale documentazione (nello specifico, sulla sicurezza) da presentare, sarebbe stato appropriato stabilire che ogni variazione concernente tali dati fosse “trasmessa” (e non “comunicata”) all'amministratore. Il termine “comunicazioni”, poi, utilizzato, all'evidenza, come sinonimo di “informazioni” (in conformità, del resto, al suo significato: si veda, ancora, il dizionario Devoto Oli della lingua italiana) non fa che avvalorare la correttezza della lettura offerta, inizialmente, del termine “dato”.
Dunque, è da ritenersi che l'espressione d'interesse non rechi con sé alcun obbligo di produzione documentale a carico dei condòmini e, di conseguenza, che la comunicazione concernente le condizioni di sicurezza sia da riferirsi ad eventuali pericoli riscontrabili in relazione a tali condizioni al momento di detta comunicazione. Ogni altra diversa interpretazione, infatti, non potrebbe dirsi rispettosa –per ciò che abbiamo potuto osservare– del dettato normativo (articolo ItaliaOggi del 27.04.2013).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATACondominio. Rilevanti le norme antisismiche. Va demolito l'abuso sanato ma pericoloso.
Il condomino che realizza una costruzione sulla terrazza del suo attico, senza osservare le norme antisismiche, è obbligato a demolirla anche se ha ottenuto la sanatoria. A meno che non abbia reso l'intero palazzo resistente al terremoto.

La Corte di Cassazione, con la sentenza 10082, respinge il ricorso della proprietaria che contestava la decisione con la quale i giudici di merito le imponevano l'abbattimento della sopraelevazione, nella convinzione che l'aver ottenuto la concessione in sanatoria la mettesse automaticamente in una condizione inattacabile.
La Suprema corte considera invece irrilevante l'atto con il quale l'autorità amministrativa aveva dato il suo consenso alla regolarizzazione dell'abuso, perché si trattava di un "nulla osta" che non conteneva alcun giudizio tecnico sulla conformità alle regole di costruzione.
I giudici della seconda sezione si basano invece su quanto previsto dal secondo comma dell'articolo 1127 del codice civile, che vieta la sopraelevazione quando le condizioni statiche dello stabile possono risentirne. Una prescrizione che la Cassazione integra con le norme antisismiche, chiarendo che quando si decide di costruire non basta considerare solo l'effetto del peso sull'intero edificio ma anche, nel caso di zone sismiche, "l'urto di forze in movimento".
Per questo chi vuole elevare una nuova "fabbrica" deve, a sue spese e con il consenso di tutti i condomini, eliminare qualunque possibilità di pericolo mettendo mano alle strutture portanti del palazzo per renderle resistenti alle scosse.
Né può essere condivisibile il punto di vista della signora dei piani alti, che si diceva disponibile agli interventi richiesti solo nel caso, dopo aver realizzato la costruzione e fatte le opportune verifiche, si fosse accertata la necessità «concreta e non teorica di dover affrontare l'intervento di adeguamento previsto dalla normativa antisismica».
Una visione che certamente non punta alla prevenzione e, per questo, non riscuote alcun consenso.
L'inosservanza della legge fa automaticamente presumere la pericolosità del manufatto e può essere smentita solo se il suo autore è in grado di provare che, non solo la sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante sono a prova di "scossa".
La strada da percorrere è dunque quella di realizzare prima le opere che scongiurano i rischi.
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I principi
01 | IL CODICE CIVILE
La Corte chiarisce che quanto previsto dall'articolo 1127 va esteso anche al mancato rispetto delle leggi antisismiche: la verifica del pregiudizio per la stabilità dell'edificio, in una zona a rischio terremoto, non può, infatti, prescindere dall'osservanza di quelle norme
02 | LA SANATORIA
La concessione in sanatoria non ha nessuna rilevanza sulla valutazione di illegittimità della sopraelevazione, perché l'atto, ottenuto dall'autorità amministrativa, non contiene giudizi tecnici (articolo Il Sole 24 Ore del 27.04.2013).

APPALTIIl dl sblocca debiti entra nel vivo. Entro il 29/04 registrazione alla piattaforma telematica. Ore cruciali per cogliere le chance del decreto. Spazi finanziari da comunicare entro il 30.
Mancano pochi giorni alle prime, importanti scadenze previste dal decreto sblocca-debiti (dl 35/2013). Riepiloghiamo i principali adempimenti cui sono tenuti gli enti locali, alla luce dei chiarimenti operativi forniti nei giorni scorsi dagli organi competenti.
Registrazione alla piattaforma telematica per la certificazione del crediti (art. 7, commi 1-2).
La scadenza è fissata al 29 aprile. Ricordiamo che l'accreditamento deve essere effettuato a cura del responsabile della p.a. interessata, che negli enti locali è identificato con il presidente della provincia o il sindaco, ovvero con il direttore generale/segretario.
Deroga relativa al Patto 2013 (art. 1, comma 2). Entro il 30 aprile (termine perentorio) occorre comunicare, mediante il sistema web della Rgs, l'ammontare dei debiti di parte capitale certi, liquidi ed esigibili al 31/12/2012 o supportati a tale data dal fattura o richiesta equivalente di pagamento e l'entità degli spazi finanziari necessari per sostenere i relativi pagamenti. I debiti vanno disaggregati per tipologia, distinguendo quelli relativi a lavori pubblici dagli altri. L'ammontare degli spazi finanziari richiesti potrà essere al massimo pari a quello dei debiti o eventualmente inferiore se l'ente non dispone o non ritiene di poter acquisire una sufficiente disponibilità di cassa. Con le stesse modalità occorre comunicare, a fini puramente statistici, anche l'entità dei debiti di parte corrente esistenti (nel senso chiarito) al 31/12/2012 , limitatamente (come ha chiarito il Mef) a quelli non ancora estinti.
Richiesta delle anticipazioni di cassa (art. 1, comma 13). Scade il 30 aprile anche il termine (perentorio) entro cui gli enti locali possono presentare alla Cassa depositi e prestiti la relativa richiesta. Quest'ultima, ammessa anche a fronte di debiti di parte corrente, deve essere sottoscritta dal rappresentante legale e dal responsabile del servizio finanziario e trasmessa alla Cdp mediante pec o telefax, ovvero consegnata a mano. Essa non deve essere necessariamente preceduta da una deliberazione consiliare.
È, invece, necessaria la determinazione a contrattare da parte del dirigente responsabile. In caso di accoglimento della richiesta, la stipula del contratto avverrà mediante scambio di corrispondenza e senza necessità di autentica delle firme. Una volta ottenuta la liquidità, i beneficiari dovranno procedere all'immediata estinzione dei propri debiti, comprovandola mediante una certificazione analitica sottoscritta dal ragioniere capo e trasmessa alla stessa Cdp entro 45 giorni dall'erogazione dell'anticipazione. Ricordiamo che, oltre a tale modalità, gli enti a corto di cassa possono fare ricorso all'anticipazione di tesoriera, che fino al 30 settembre può salire fino a 5/12 delle entrate correnti. Fra i due strumenti non c'è alcun ordine di priorità, come chiarito dalle faq della Cdp.
Comunicazioni ai creditori (art. 6, comma 9). Entro il 30 giugno, anche gli enti locali (come le altre p.a.) devono comunicare ai creditori, anche a mezzo posta elettronica (sono, quindi, ammesse altre forme di comunicazione) l'importo e la data entro cui provvederanno ai pagamenti del loro debiti. La norma è poco chiara in ordine alla portata dell'obbligo. Tuttavia, il riferimento generico ai «pagamenti» sembra da riferire soltanto a quelli che effettivamente verranno disposti e quindi a quelli autorizzati in deroga al Patto e per i quali l'ente debitore dispone della necessaria liquidità.
Ricognizione degli altri debiti (art. 7, commi 4-7). I debiti, anche di parte corrente, certi, liquidi ed esigibili al 31/12/2012 (non quindi quelli fatturati o richiesti in pagamento alla stessa data) che non verranno estinti grazie alle misure di cui sopra dovranno essere comunicati tramite la piattaforma telematica a partire dal 1° giugno ed entro il 15 settembre. Per i creditori, tale comunicazione avrà valenza di certificazione dei propri crediti, che si intenderà rilasciata senza data di pagamento, ai sensi dell'art. 2, comma 2, del d.m. 25/06/2012.
Ricordiamo, infine, che l'art. 6, comma 3, prevede l'obbligo di pubblicare sul sito internet i piani dei pagamenti aggregati per classi di debiti. Sebbene tale norma non paia immediatamente applicabile agli enti locali è comunque consigliabile provvedervi. Per tale adempimento, non è prevista alcuna scadenza, ma la pubblicazione può avvenire contestualmente all'invio delle comunicazioni ai creditori (articolo ItaliaOggi del 26.04.2013).

TRIBUTI: Ai comuni il gettito Imu dei fabbricati rurali strumentali
Spetta ai comuni il gettito Imu dei fabbricati rurali strumentali. Va allo stato solo il gettito dei fabbricati di categoria D ad aliquota standard del 7,6 per mille.

È questa l'interpretazione che si ricava dalla lettura dell'articolo 1, comma 380, della legge di stabilità (228/2012), nonostante la presa di posizione in senso contrario espressa dal dipartimento delle finanze con la risoluzione 5/2013.
Secondo il dipartimento, l'effetto prodotto dalla norma introdotta dalla legge 228/2012 per i fabbricati rurali ad uso strumentale all'attività agricola, classificati nel gruppo catastale D, è «quello di riservare allo stato il gettito derivante dai citati immobili all'aliquota dello 0,2%». La tesi ministeriale, però, non è condivisibile, poiché l'articolo 1, comma 380, lettera f) della legge di stabilità riserva espressamente allo stato il gettito dell'imposta «derivante dagli immobili ad uso produttivo classificati nel gruppo catastale D, calcolato ad aliquota standard». E nell'ambito del gettito riservato allo stato, con aliquota di base del 7,6 per mille, non rientrano gli immobili rurali strumentali anche se inquadrati nella stessa categoria.
Del resto, per questi fabbricati è previsto un trattamento agevolato con applicazione dell'aliquota del 2 per mille che i comuni possono ridurre all'1 per mille, ma che non possono aumentare. È evidente la diversità di trattamento tra fabbricati rurali e altre tipologie di immobili. Tra l'altro, il comma 380 stabilisce che i comuni possono aumentare sino a 3 punti percentuali l'aliquota standard, prevista dall'articolo 13, comma 6, primo periodo del decreto «salva Italia» (201/2011) per gli immobili a uso produttivo classificati nel gruppo catastale D. Dunque, in questa previsione non possono rientrare i fabbricati strumentali, la cui disciplina è contenuta nel comma 8 della stessa disposizione, che impone regole del tutto diverse.
Dal 2013, infatti, la norma elimina la riserva della quota statale del 50% sull'Imu, ma impone la riserva di una quota del tributo dovuto per i fabbricati di categoria D ad aliquota standard (7,6 per mille). Per questi immobili ai comuni viene lasciata la facoltà di aumentare l'aliquota di 3 punti percentuali e di incassare le maggiori somme. Si tratta dei fabbricati destinati a attività industriali o commerciali. In particolare, opifici, alberghi, pensioni e residences, istituti di credito, cambio e assicurazione, teatri, cinematografi e via dicendo.
Va posto in rilievo che per i fabbricati rurali strumentali non conta più la classificazione catastale per avere diritto ai benefici fiscali. Possono infatti mantenere le loro categorie originarie. È sufficiente l'annotazione catastale, tranne per i fabbricati strumentali che siano per loro natura censibili nella categoria D/10. Con la circolare 2/2012 l'Agenzia ha fornito dei chiarimenti, relativamente a quanto disposto dal decreto ministeriale emanato il 26.07.2012, sugli adempimenti che devono porre in essere i titolari dei fabbricati interessati a ottenere l'annotazione negli atti catastali della ruralità, al fine di fruire anche per l'Imu degli sconti.
Domande e autocertificazioni necessarie per il riconoscimento del requisito di ruralità, redatte in conformità ai modelli allegati al decreto ministeriale, avrebbero dovuto essere presentate all'ufficio provinciale competente per territorio entro il 01.10.2012, al fine di ottenere l'esenzione anche per gli anni pregressi. L'eventuale di diniego di ruralità è impugnabile innanzi alle commissioni tributarie. Infatti, nel caso di esito negativo del controllo sulle domande e autocertificazioni prodotte dagli interessati, l'Agenzia è tenuta a notificare un provvedimento motivato con il quale disconosce il requisito della ruralità. Dagli atti catastali risultano anche le annotazioni negative sugli immobili, che impediscono ai contribuenti di poter fruire delle agevolazioni (articolo ItaliaOggi del 26.04.2013).

ENTI LOCALIPartecipate, caos sul personale. Giudici divisi sulle spese. Somministrazioni senza limiti. Pareri contrastanti dalle sezioni della Corte conti e dalla Funzione pubblica.
Regna il caos assoluto sulle spese per personale flessibile a carico delle società partecipate dalle amministrazioni. Nel breve volgere di pochi mesi, sono stati emessi pareri contrastanti tra sezioni della Corte dei conti e tra queste e il dipartimento della funzione pubblica, tutti, comunque, estremamente restrittivi e volti a dare una lettura distorta delle disposizioni contenute nell'articolo 4 della legge 135/2012 (spending review).
Spese da consolidare con quelle dell'ente partecipante. Un primo ordine di problemi affrontato dalla sezione Liguria, col parere 47/2012, riguarda la necessità di considerare le partecipate coinvolte o meno nell'obbligo di rispettare i vincoli di spesa previsti dall'articolo 9, comma 28, del dl 78/2012, convertito in legge 122/2010 e, nel caso positivo, se il tetto di spesa del 2009 dovesse essere quello solo della singola società o il tetto complessivo sostenuto da questa e dall'ente.
La sezione Liguria ha ritenuto applicabile anche alle società l'articolo 9, comma 28, ma ha ritenuto di dover dare risalto «al principio di consolidamento della spesa di personale tra ente locale e società partecipata». Dunque, secondo la sezione Liguria esiste un unico tetto complessivo delle spese sostenute per il personale flessibile, suggerendo di calcolarlo «in capo all'ente locale in base alle attività del gruppo municipale, senza che gravi un concorrente ed autonomo limite percentuale in capo alla società in house singolarmente intesa».
Spesa da non consolidare con quella dell'ente. Pochi mesi dopo, la Corte dei conti, sezione regionale di controllo della Toscana risolve il problema in modo radicalmente opposto. Il parere 10/2013, infatti ha ritenuto che l'applicazione dell'articolo 9, comma 28, della legge 122/2010 «deve avvenire in maniera distinta, senza consolidamento tra ente locale e società partecipata». Di conseguenza, non è ammissibile che l'ente locale «ceda» propria capacità assunzionale alla società partecipata, poiché ciascuno soggetto deve applicare i tetti di spesa in modo autonomo.
La sezione Toscana ha ritenuto di dover aggiungere che l'articolo 9, comma 28, debba coordinarsi con quanto stabilito dall'articolo 4, comma 10, del dl 95/2012135/2012, il quale prevede che, a decorrere dall'anno 2013 le società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, che abbiano conseguito nell'anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di pubbliche amministrazioni superiore al 90% dell'intero fatturato, «possono avvalersi di personale a tempo determinato ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa nel limite del 50% della spesa sostenuta per le rispettive finalità nell'anno 2009».
Libertà di assunzione mediante somministrazioni. L'ultima lettura fornita dalla sezione Toscana viene smentita dal dipartimento della funzione pubblica, con nota 13354 del 13 marzo. Secondo Palazzo Vidoni non esiste alcun rinvio dinamico tra l'articolo 9, comma 28, della legge 122/2010 e l'articolo 4, comma 10, della legge 135/2012. Dunque, è solo quest'ultimo che detta la disciplina che le società partecipate sono obbligate a rispettare, in tema di contenimento della spesa di personale flessibile.
Spiega la nota circolare che, però, l'articolo 4, comma 10, deve intendersi come norma di stretta interpretazione: esso limita al 50% della spesa del 2009 non ogni forma di assunzione flessibile (come l'articolo 9, comma 28), ma solo i contratti di lavoro a tempo determinato e le collaborazioni coordinate e continuative. Di conseguenza, le somministrazioni di lavoro non incontrano alcun limite di spesa.
La conclusione maggiormente convincente è quella tratta da Palazzo Vidoni. Ma essa è in parte comunque erronea perché omette di rilevare un fattore estremamente importante: le limitazioni di spesa previste dall'articolo 4, comma 10, della legge 135/2012 non valgono comunque per le partecipate aventi un fatturato derivante da prestazione di servizi a favore di pubbliche amministrazioni inferiore al 90% dell'intero fatturato e comunque alle tipologie di società elencate dal comma 3 del medesimo articolo 4.
Questa precisazione è fondamentale, perché moltissime società gestiscono servizi caratterizzati proprio da flessibilità o stagionalità, per i quali l'impiego di rapporti di lavoro flessibili e a termine è assolutamente connaturato ed essenziale (articolo ItaliaOggi del 26.04.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Consigli, parla lo statuto. Disciplina i gruppi assieme al regolamento. Anche la tempistica degli interventi è affidata all'autonomia degli enti.
Alla luce del regolamento consiliare, quante volte e per quanto tempo, un consigliere comunale, fuoriuscito dal gruppo di appartenenza senza aderire ad altro gruppo, può intervenire nel corso della seduta consiliare? Può rendere, anche ai fini di una sua responsabilità, la dichiarazione di voto una volta terminata la discussione, diritto questo previsto dal regolamento per i capigruppo consiliari?

L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (in particolare, art. 38, comma 3, art. 39, comma 4 e art. 125 del dlgs n. 267/2000).
Lo statuto del comune in esame prevede che «ogni consigliere deve poter svolgere liberamente le proprie funzioni», e stabilisce che «i consiglieri si costituiscono in gruppi, secondo le modalità stabilite dal regolamento».
In linea di principio, che i mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti, sono ammissibili. Tuttavia, sono i singoli enti locali, nell'ambito della propria potestà di organizzazione, i titolari della competenza a dettare norme, statutarie e regolamentari, nella materia.
Nel caso di specie, la disciplina dettata dallo statuto dell'ente in questione non è esaustiva, in quanto si limita a fornire indicazioni in merito solo alla formazione dei gruppi all'atto dell'insediamento nel consiglio comunale.
Il regolamento dell'ente prevede, invece, una disciplina più dettagliata, stabilendo, che i gruppi sono formati da un numero minimo di tre consiglieri, derogabile solo nel caso in cui si tratti di consiglieri eletti nella medesima lista. Pertanto, solo in tale ultima eventualità è ammessa la costituzione di gruppi unipersonali, tant'è, che, il consigliere che si distacchi dal gruppo originario e che non aderisca ad altri gruppi non acquisisce le prerogative spettanti al gruppo consiliare.
Per quanto riguarda gli interventi dei consiglieri nel corso delle sedute, il regolamento, nel disciplinare la facoltà di intervento, a volte fa riferimento al singolo consigliere, altre al gruppo consiliare, facendo supporre che colui che non appartiene a nessun gruppo, fattispecie indirettamente prevista, non possa intervenire nella discussione.
In particolare stabilisce che, per le dichiarazioni di voto, una volta terminata la discussione, può intervenire, «un solo consigliere per ogni gruppo», formulazione che letteralmente escluderebbe la possibilità di esposizione della dichiarazione di voto da parte dei consiglieri che non appartengono ad alcun gruppo.
Il regolamento, pertanto, ha disciplinato gli interventi affidando maggiore spazio ai capi gruppo in quanto questi agiscono in qualità di portavoce dei consiglieri che fanno parte dei medesimi gruppi, e di converso non ha riconosciuto al consigliere che per sua scelta non faccia parte di alcun gruppo gli stessi spazi previsti per i capigruppo, potendo invero svolgere i propri interventi nelle medesime modalità riconosciute ai singoli consiglieri non capigruppo.
Poiché la materia dei «gruppi consiliari» è interamente demandata allo statuto ed al regolamento sul funzionamento del consiglio, è in tale ambito che dovrebbero trovare adeguata soluzione le relative problematiche applicative, posto che, diversamente, sarebbero necessarie modifiche ed integrazioni a tali fonti di disciplina locale.
Spetta alle decisioni del consiglio comunale, pertanto, oltre che trovare soluzioni per le singole questioni, valutare l'opportunità di adottare apposite modifiche regolamentari che disciplinino anche le ipotesi in argomento (articolo ItaliaOggi del 26.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOAnticorruzione. Basta una sentenza non definitiva: la regola generale prevede stop per cinque anni
La condanna blocca la dirigenza. Niente incarichi a chi è stato censurato per illeciti contro la Pa.
Dal 4 maggio una sentenza di condanna, anche non definitiva, per reati contro la Pubblica amministrazione escluderà di fatto chi ne è colpito dalle caselle di vertice dell'organigramma pubblico. Un'esclusione che riguarderà non solo i vari livelli di governo, cioè lo Stato con le sue articolazioni, le Regioni, le Province e i Comuni, ma anche gli enti di diritto privato che svolgono funzioni amministrative e sono controllati da una Pubblica amministrazione, o si vedono da questa nominare i vertici.
Mancano 10 giorni all'entrata in vigore del Dlgs 39/2013 (su cui si veda anche «Il Sole 24 Ore» del 20 aprile), che attua l'incarico conferito al Governo Monti dalla legge anticorruzione (articolo 1, commi 49 e 50, della legge 190/2012) e introduce una griglia di incompatibilità e inconferibilità destinata a incidere profondamente sull'organizzazione di tutte le amministrazioni pubbliche, con effetti ancora da studiare.
Il primo punto, quello delle «incompatibilità» che vietano agli ex politici di transitare ai vertici dell'amministrazione (e viceversa, impedendo per esempio ai segretari e ai dirigenti comunali di presentarsi alle elezioni nella loro regione), rappresenta per certi versi una prosecuzione in forme più profonde di precedenti interventi per bloccare le porte girevoli fra politica e amministrazione. Il capitolo delle «inconferibilità», che impediscono l'attribuzione di incarichi di vertice a chi è stato colpito da una condanna per reati contro la Pubblica amministrazione, è invece per molti aspetti inedito.
L'aspetto cruciale è rappresentato dal fatto che anche una condanna non definitiva chiude le porte agli incarichi dirigenziali, tranne ovviamente quando viene ribaltata da un successivo grado di giudizio. I reati che fanno accendere il semaforo rosso sono quelli elencati dal Libro II, Titolo II, Capo I del Codice penale, e contemplano un amplissimo ventaglio di casi che abbraccia anche abuso d'ufficio, rifiuto di atti d'ufficio o interruzione di servizio pubblico.
La norma introduce elementi minimi di gradualità in base alla gravità del reato, ma il loro effetto sarà da verificare alla prova pratica. Nella durata dell'inconferibilità la regola generale prevede uno stop di cinque anni, che può essere ridotto solo se la condanna non è per peculato, concussione, corruzione o corruzione in atti giudiziari (in questi casi è prevista infatti un'inconferibilità di durata doppia rispetto alla pena principale, comunque entro il tetto dei cinque anni). Quando la condanna è accompagnata dalla pena accessoria dell'interdizione ai pubblici uffici, è quest'ultima a determinare la durata dell'esclusione, che quindi può diventare perpetua insieme all'interdizione.
Chi viene colpito da questa misura, si vede sbarrare la strada verso gli incarichi amministrativi di vertice (segretario generale, capo dipartimento, direttore generale) ma anche quelli dirigenziali di qualsiasi tipo negli enti pubblici (compresi i posti da direttore generale, sanitario o amministrativo nelle Asl), e non può ambire al ruolo di presidente con deleghe o amministratore delegato negli enti pubblici né in quelli privati controllati dalla Pa. Il dirigente di ruolo colpito dalla condanna può svolgere un ristretto novero di incarichi che non prevedano gestione di risorse o acquisti di beni e servizi, altrimenti viene posto a disposizione senza incarico; se la sentenza riguarda un esterno alla Pa, il suo incarico è sospeso e l'amministrazione può cancellarlo del tutto.
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I punti chiave
01|I REATI
L'«inconferibilità» degli incarichi dirigenziali è prevista in caso di sentenza, anche non definitiva, per i reati contro la Pubblica amministrazione
02|IL BLOCCO
Viene prevista l'impossibilità di conferire incarichi dirigenziali per cinque anni, oppure per un tempo doppio alla pena accessoria dell'interdizione (non nei casi di corruzione, concussione e peculato, per i quali il minimo è cinque anni). Se l'interdizione è perpetua, è a tempo indeterminato anche l'inconferibilità (articolo Il Sole 24 Ore del 26.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

CONDOMINIORIFORMA CONDOMINIO/ Assemblea sempre verbalizzata. Amministratore obbligato anche in prima convocazione. In difetto, saranno impugnabili le successive delibere.
L'amministratore del condominio potrà continuare a fissare la riunione di condominio, in prima convocazione, il mattino presto o la sera tardi. Dovrà però verbalizzare necessariamente quanto accade nell'occasione. La mancata verbalizzazione, infatti, potrebbe rendere ex se impugnabili le eventuali delibere successivamente assunte.
Per l'amministratore non ci sono particolari complicazioni allorché l'assemblea sia convocata, ad esempio, presso la sua l'abitazione. Potrebbe al contrario essere fonte di problemi nel caso in cui la convocazione venga fissata in un posto dove egli, all'ora indicata, potrà difficilmente essere presente (si pensi ad una riunione da tenersi in un ambiente esterno all'abitazione o allo studio dell'amministratore, o al condominio, alle 3 di notte). Questo quanto emerge dalla riforma del condominio e dall'analisi della giurisprudenza.
Di prassi la prima convocazione dell'assemblea condominiale viene fissata in orari particolari (es.: in notturna o alle prime luci dell'alba), di modo che vada deserta e così, nell'adunanza di seconda convocazione, si possano assumere decisioni con maggioranze più basse. Ciò posto, viene da chiedersi: è legittimo tutto questo? E come si pone detta prassi con le novità introdotte dalla riforma riguardo la redazione del processo verbale e le annotazioni da effettuarsi nel registro dei verbali delle assemblee?
Iniziamo subito col dire che, al primo quesito, la giurisprudenza ha dato risposta positiva.
La Cassazione ha osservato, infatti, che «in mancanza di una norma che disponga il contrario, non esistono limiti di orario alla convocazione di un'assemblea condominiale; né la fissazione dell'assemblea in ora notturna può ritenersi completamente preclusiva della possibilità di parteciparvi» (sent. n. 697/00).
Detto questo, resta da vedere come la prassi di riunire l'assemblea in prima convocazione in orari particolari si concili con le novità introdotte dalla riforma; novità che –come accennato– sono due. La prima è costituita dalla modifica recata all'art. 1136, ultimo comma, c.c., in conseguenza della quale la redazione del «processo verbale» deve dar conto, adesso, delle «riunioni» e non più delle «deliberazioni» dell'assemblea. La seconda riguarda l'obbligo, posto a carico dell'amministratore, di curare –ex art. 1130, n. 7, c.c.– la tenuta del registro dei verbali delle assemblee in cui annotare «le eventuali mancate costituzioni» dell'organo assembleare.
Tale nuova cornice giuridica rende, all'evidenza, non più attuale l'orientamento assertore dell'inesistenza di un obbligo di redigere uno specifico verbale attestante l'esperimento a vuoto della riunione in prima convocazione.
Orientamento secondo cui, ai fini della validità dell'assemblea riunita in seconda convocazione, era sufficiente che nel verbale di quest'ultima venisse dato conto della prima infruttuosa convocazione (per completa diserzione oppure per insufficiente partecipazione) e che basava il suo assunto, in particolare, sulla mancanza di una precisa prescrizione in materia, tale non essendo –secondo i sostenitori di questa tesi– l'ultimo comma del citato art. 1136, il quale, nella sua originaria formulazione, stabiliva –come visto– che il processo verbale dovesse avere ad oggetto, non lo svolgimento dell'assemblea, ma solo eventuali «deliberazioni» assunte dalla stessa (Cass. sent. n. 3862/96).
Le modifiche di cui si è detto valorizzano, invece, il diverso orientamento che già prima che intervenisse la riforma considerava sempre necessaria la redazione del verbale d'assemblea costituendo detta redazione una delle prescrizioni di forma da osservare «al pari delle altre formalità richieste dal procedimento collegiale (avviso di convocazione, ordine del giorno, costituzione, discussione, votazione ecc.)»; pena: «L'impugnabilità della delibera, in quanto non presa in conformità alla legge» (Cass. sent. n. 5014/1999) (articolo ItaliaOggi del 25.04.2013).

ATTI AMMINISTRATIVIAnti-corruzione. Vietato erogare somme alle partecipate che non rilasciano i dati su conti e amministratori
Trasparenza, sanzioni al via. Da sabato in vigore le norme sull'obbligo di pubblicazione degli atti
IL RISCHIO/ Penalità sono previste per i responsabili degli uffici che non mettono sul web gli atti di conferimento di incarichi e consulenze.

Gli enti locali devono attuare in fretta una serie di operazioni per la trasparenza. Il Dlgs 33/2012 è entrato in vigore sabato, e impone anzitutto che nella home page dei siti istituzionali sia attivata (articolo 9) una sezione denominata «amministrazione trasparente», strutturata in dettagliate sottosezioni, secondo lo schema definito dall'allegato 1 (e destinato ad essere integrato da modelli predisposti dalla Funzione pubblica).
La predisposizione della sezione deve tener conto della durata dell'obbligo di pubblicazione degli atti, che devono rimanere disponibili per cinque anni (articolo 8, comma 3), salvo alcune eccezioni espressamente disciplinate.
Tutti i documenti e gli atti assoggettati ad obbligo di pubblicazione vanno resi disponibili a chiunque li richieda, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione, per garantire il diritto di accesso civico.
La disposizione che lo prevede (articolo 5) è complementare alle norme della legge 241/1990 (articoli 22-25) che regolano il diritto di accesso in generale, da considerare esercitabile ora in rapporto ai documenti amministrativi che non devono essere pubblicati.
L'approccio degli enti locali al nuovo modo di veicolare le informazioni sulla loro attività va tradotto nel programma triennale per la trasparenza e l'integrità, collegato con il piano anticorruzione (di cui costituisce una sezione).
Il documento programmatico definisce le misure per garantire i nuovi obblighi di pubblicazione ed assicurare la regolarità e la tempestività dei flussi di informazioni nei confronti del responsabile della trasparenza (che coincide con il responsabile anti-corruzione in base all'articolo 43).
La formazione del piano comprende il coinvolgimento delle associazioni dei consumatori e degli utenti, e la definizione degli obiettivi in correlazione con il piano della performance.
Nel definire i vari aspetti operativi per l'attuazione del Dlgs 33/2013 gli enti locali devono porre attenzione sulla rilevanza degli obblighi di pubblicazione e di predisposizione di strumenti di trasparenza in esso previsti, rafforzati da un articolato sistema di sanzioni.
Queste riguardano sia le amministrazioni sia i soggetti (dirigenti o funzionari, responsabile della trasparenza) che non adempiono ad obblighi specifici.
Nel primo gruppo di sanzioni rientrano il divieto per le amministrazioni controllanti di erogare somme (a qualsiasi titolo, quindi anche corrispettivi per obblighi di servizio) alle società partecipate delle quali non siano stati pubblicati i dati su partecipazioni detenute, bilancio e amministratori, e la riduzione delle risorse da trasferire in corso d'anno in caso di mancata pubblicazione dei rendiconti dei gruppi consiliari.
Le sanzioni particolari (sia disciplinari sia pecuniarie) in capo a dirigenti e funzionari riguardano in particolare l'omessa pubblicazione di atti e dati relativi al conferimento di incarichi e consulenze.
Il responsabile della trasparenza è invece sanzionabile sul piano della responsabilità dirigenziale e per eventuale danno di immagine in caso di omessa pubblicazione degli atti per i quali questa sia prevista come obbligatoria, oltre che per la mancata predisposizione del programma triennale della trasparenza. Per gli organi politici sono invece previste sanzioni pecuniarie per la mancata comunicazione dei dati rilevanti ai fini della pubblicità della loro situazione patrimoniale (articolo 47).
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I punti chiave
01|SU INTERNET
Sul sito istituzionale di ogni ente locale va predisposta una sezione «amministrazione trasparente» in ci siano resi disponibili tutti gli atti sottoposti ad obbligo di pubblicazione
02|L'ACCESSO
Tutti gli atti, anche quelli non sottoposti a obbligo di pubblicazione, vanno resi disponibili a chiunque tramite il diritto di accesso
03|LE SANZIONI
L'omessa pubblicazione di atti relativi a incarichi e consulenze determina una sanzione a carico dei responsabili degli uffici. Vietata l'erogazione di somme alle partecipate che non pubblicano i dati su bilanci e amministratori (articolo Il Sole 24 Ore del 22.04.2013 - tratto da www.corteconti.it).

TRIBUTI: Scadenze a incastro per l'Imu. Le date da monitorare: il 16 maggio e il 16 novembre. Guida per i contribuenti per districarsi con la tempistica senza incappare in sanzioni.
Il calendario è cambiato ma (per ora) gli aumenti rimangono. Imu e Tares continuano a turbare i sonni dei contribuenti, malgrado l'ennesimo restyling normativo operato dal decreto varato dal governo per sbloccare i debiti della p.a. (dl 35/2013). Molte sono, tuttavia, le novità, che riguardano soprattutto la tempistica dei pagamenti.
Per l'Imu, la regola rimane quella (già applicata per l'Ici) del pagamento in due rate, con un primo acconto in scadenza al 17 giugno (il 16 è domenica) e il saldo da versare entro lunedì 16 dicembre. È anche possibile (lo prevede l'art. 9, comma 3, del dlgs 23/2011) provvedere al versamento dell'imposta complessivamente dovuta in un'unica soluzione annuale, da corrispondere entro il termine per il versamento dell'acconto, ma si tratta anche quest'anno di una scelta poco consigliabile. Il rischio, infatti, è quello di doversi comunque presentare alla cassa anche a fine anno, per far fronte agli aumenti decisi medio tempore dai comuni.
Dopo le modifiche introdotte dall'art. 10 del dl 35, infatti, il meccanismo somiglia a una storia a bivi dei fumetti. Il primo bivio è previsto per il 16 di maggio, data che rappresenta la dead line entro la quale le deliberazioni dei comuni che fissano le aliquote dell'imposta (oltre che i regolamenti che ne disciplinano l'applicazione) devono essere pubblicate sul sito del Dipartimento delle finanze per essere efficaci già in sede di versamento dell'acconto. A tal fine, i comuni sono tenuti a inviare i predetti provvedimenti al Mef (esclusivamente per via telematica) entro il 9 maggio. Se questo timing sarà rispettato, già a giugno occorrerà tenere conto di quanto deciso dai sindaci. In caso contrario, il versamento della prima rata dovrà essere pari al 50% dell'imposta dovuta calcolata sulla base dell'aliquota e della detrazione valide per l'anno passato. Attenzione, però a considerare quanto pagato complessivamente nel 2012 e non solo all'ammontare dell'acconto versato lo scorso mese di giugno, che nella stragrande maggioranza dei casi era stato calcolato applicando le aliquote e la detrazione nella misura standard fissata dallo stato.
Il secondo bivio arriverà in autunno. Da quest'anno, infatti, i comuni, per garantire il ripristino dei propri equilibri di bilancio, possono ritoccare le aliquote relative ai tributi di propria competenza (oltre che le tariffe per i servizi) anche dopo l'approvazione del bilancio di previsione, fino al 30 settembre. I provvedimenti sull'Imu, per incidere sulla misura del saldo, dovranno essere trasmessi alle Finanze entro il 9 novembre e pubblicati sul sito del Mef entro il 16 novembre. Altrimenti, per il versamento della seconda rata si applicheranno gli atti pubblicati entro il 16 maggio oppure, in mancanza, quelli adottati per il 2012.
Come evidente, si tratta di un labirinto all'interno del quale ciascun contribuente, per non incappare nelle sanzioni, dovrà districarsi monitorando con attenzione le decisioni assunte dal proprio comune con un occhio al calendario e l'altro alla tempistica di pubblicazione dei provvedimenti sul sito delle Finanze. Al riguardo, occorre precisare che, almeno in teoria, lo stesso comune potrebbe intervenire più volte sulle aliquote: per esempio, una prima volta con efficacia ai fini dell'acconto e una seconda per incidere sul saldo. In tal caso, in occasione del secondo versamento, occorrerà procedere al conguaglio sulla prima rata versata. Ma analoghe difficoltà riguardano anche i professionisti e i Caf, che infatti hanno già lanciato l'allarme, sottolineando come il lasso di tempo di 30 giorni fra la pubblicazione degli atti e le scadenze dei pagamenti (16 maggio-17 giugno e 15 novembre-16 dicembre) sia troppo breve per consentire l'adeguamento delle loro basi dati (articolo ItaliaOggi Sette del 22.04.2013).

ATTI AMMINISTRATIVILe spese della Pa vanno online. In vigore il decreto che rafforza con sanzioni gli obblighi di informazione.
Un click per conoscere il tempo di attesa nell'ospedale di zona per un'ecografia. Un altro per sapere quante poltrone occupa il sindaco. Un sogno? Non proprio.
Da sabato scorso l'obiettivo di una macchina pubblica «casa di vetro» è più vicino. Dal 20 aprile infatti è in vigore il decreto legislativo 33/2013, che riordina gli obblighi di trasparenza per tutte le Pa, dai comuni ai ministeri, dalle scuole alle Asl.
Una sorta di testo unico con due obiettivi. Il primo –tradizionale– è quello di riordinare la grande mole di obblighi di pubblicazione che già incombe sulle nostre amministrazioni (con questo decreto la Civit, la commissione per la trasparenza ne ha contati circa 200). Il secondo, più innovativo, è di accendere altri fari sull'operato della Pa, a cominciare dalle risorse gestite. Molte le informazioni che per la prima volta trovano la strada del web: a cominciare dai bilanci dei gruppi politici regionali e provinciali (per dimenticare gli scandali dei consigli regionali di Lazio e Lombardia e, ora, anche del Piemonte), per proseguire con la mappa completa non solo dei patrimoni dei politici ma anche dei loro incarichi, pubblici e privati.
A tutti gli eletti le nuove norme impongono di far conoscere la situazione patrimoniale: redditi percepiti, immobili di proprietà, investimenti, partecipazioni in società. Del tutto nuova è anche l'estensione della pubblicità di queste informazioni «al coniuge non separato e ai parenti fino al secondo grado». Che si possono però anche rifiutare, ma in questo caso l'amministrazione è tenuta a dare notizia del diniego. A corredo dell'obbligo sanzioni, anche pecuniarie: da 500 a 10mila euro a carico del politico inadempiente.
Online vanno da subito gli elenchi dei dirigenti amministrativi di tutte le pubbliche amministrazioni (compresi i direttori delle Asl) con il curriculum e l'elenco degli altri incarichi e dei compensi percepiti. Ogni amministrazione deve rendere note tutte le consulenze concesse. Incarichi e consulenze vanno anche comunicati alla banca dati «Perla» gestita dal ministero della Pubblica amministrazione. «In questo modo avremo a breve un censimento completo di quanto spende lo Stato in consulenze» spiega Roberto Garofoli, capo di gabinetto del ministro Filippo Patroni Griffi. Per la prima volta gli enti locali dovranno far conoscere la mappa delle società partecipate. Se non lo faranno, non potranno più versare neanche un euro alla partecipata stessa.
Insomma ora si fa sul serio anche grazie a pesanti sanzioni pecuniarie a carico dei dirigenti inadempienti (si veda la scheda in questa pagina). E si fa sul serio in modo generalizzato: nessuna gradualità è prevista per i piccoli enti, che dovranno sopportare un carico piuttosto gravoso.
Ma a chi è affidato il compito di far funzionare questa complessa macchina? All'esterno -ed è questa la novità- a tutti i cittadini e alle associazioni (si veda la pagina successiva). All'interno, ogni amministrazione deve avere un «Responsabile della trasparenza» con compiti di segnalazione degli inadempienti anche all'ufficio disciplina. Vigila anche l'Oiv (organismo indipendente di valutazione).
In seconda battuta può intervenire la Civit, che sta lavorando a un apposito portale. «Servirà anche a favorire lo scambio delle informazioni» spiega la presidente, Romilda Rizzo. La Civit deve segnalare le inadempienze ai vertici politici delle amministrazioni ma, ammette Rizzo, «possiamo contare solo su 30 funzionari più dieci esperti» (articolo Il Sole 24 Ore del 22.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIDiritto di accesso alla portata di tutti. I cittadini possono chiedere di conoscere i documenti che gli uffici hanno omesso di divulgare online.
EFFETTO COMBINATO/ Il potere di richiesta unito al sistema di sanzioni può allontanare il rischio di inerzia da parte della burocrazia.

Si chiama "accesso civico" ed è la chiave di volta della nuova trasparenza a cui è chiamata la pubblica amministrazione. Sullo strumento dell'accesso –grimaldello capace di aprire i cassetti degli uffici pubblici– i cittadini hanno scommesso fin dal 1990, quando la legge 241 lo ha introdotto. Ma quel diritto, reso via via più pervasivo dalla decisioni di Tar e Consiglio di Stato, rimane comunque una leva circoscritta e destinato probabilmente a una progressiva attenuazione: il suo utilizzo è, infatti, riservato solo a chi ha un interesse concreto rispetto ai documenti che si pretende di conoscere.
L'accesso civico, invece, è alla portata di tutti, non ha bisogno di particolari motivi per poter essere azionato, è gratuito. Il solo presupposto per potervi ricorrere è che l'amministrazione non abbia pubblicato sul proprio sito i documenti indicati dal decreto legislativo 33/2103, cioè il testo unico sulla trasparenza voluto dalla legge anticorruzione (la 190 del 2012). Soltanto in quel caso il cittadino (qualsiasi cittadino) può rivolgersi al responsabile della trasparenza (figura introdotta dal decreto 33) chiedendo di conoscere i documenti non resi pubblici. L'amministrazione è tenuta a rispondere entro trenta giorni: deve mettere online i dati richiesti e informarne il richiedente. Se l'amministrazione si dimostra sorda anche all'accesso civico, il cittadino può bussare alla porta del dirigente a cui compete –secondo quanto previsto dalla legge 241 del 1990– il potere sostitutivo in caso di inerzia degli uffici e la risposta deve arrivare entro quindici giorni.
Sull'accesso civico, dunque, si ripongono molte speranze per l'applicazione delle nuove regole sulla trasparenza. Dalle amministrazioni –che finora non hanno brillato nella pubblicità dei dati in loro possesso e che adesso si troveranno alle prese con altri impegnativi adempimenti– ci sono da aspettarsi latitanze. Il ministero della Pubblica amministrazione e la Civit (la commissione sulla valutazione e la trasparenza) dovrebbero vigilare sul rispetto delle nuove norme. Compito molto difficile, vista la quantità di enti da monitorare. Si confida, pertanto, nell'iniziativa dei cittadini, forti del potere conferito loro dall'accesso civico.
Prospettiva a cui dovrebbe, poi, dar man forte l'apparato sanzionatorio previsto per chi non pubblica i dati. Il legislatore ha, infatti, predisposto un meccanismo duplice: da una parte le sanzioni che colpiscono i dirigenti colpevoli tagliando gli accessori alla retribuzione, come i bonus legati al risultato; dall'altra, sanzioni mirate, con il pagamento di cifre che oscillano da 500 a 10mila euro e capaci di innescare conseguenze amministrative. Per esempio, nel caso della mancata pubblicazione delle informazioni sui dirigenti apicali o sui consulenti, l'omissione determina l'inefficacia degli atti di conferimento di quegli incarichi.
Le amministrazioni sono chiamate, pertanto, a una grande sfida, che non si esaurisce nella pubblicazione online dei dati. Questi ultimi, infatti, devono anche essere di qualità: l'amministrazione deve, in altre parole, garantirne l'integrità, l'aggiornamento, la completezza, la tempestività, la semplicità di consultazione, la comprensione, l'omogeneità, la facile accessibilità, nonché la conformità ai documenti originali, l'indicazione della provenienza e la riutilizzabilità (purché si citi la fonte e si rispetti l'integrità del dato). Requisiti che non possono in alcun modo rappresentare un motivo di inerzia o di ritardo per gli uffici pubblici.
Inoltre, le informazioni vanno pubblicate nel formato aperto (open data), così che tutti vi possano accedere. Anzi, viene espressamente vietata la predisposizione di filtri che inibiscano ai motori di ricerca di effettuare ricerche all'interno della sezione in cui sono contenuti i dati sulla trasparenza. Infine, i dati vanno conservati: devono rimanere sul web per almeno 5 anni o finché producono effetti (articolo Il Sole 24 Ore del 22.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTISull'antimafia iter lungo in Prefettura.
L'OSTACOLO/ Senza il database nazionale il rilascio dei certificati richiede anche più di 45 giorni contro i due impiegati dalle Camere di commercio.
Dal 13 febbraio le Camere di Commercio non sono più competenti a rilasciare il certificato del registro imprese integrato con la dicitura antimafia che per legge era parificato alla «comunicazione» antimafia, mentre «l'informazione» antimafia era rilasciata solo dalle Prefetture.

Il cambio di competenze è stato previsto dal Dlgs 218/2012 e precisato dal ministero dell'Interno (nota dell'8 febbraio).
Fino al 12 febbraio il certificato veniva richiesto alle Camere di Commercio dagli enti pubblici (soprattutto i Comuni) e dai gestori di servizi pubblici, nelle procedure per gli appalti e il controllo delle attività economiche.
Questi enti e gestori devono ora richiedere il certificato (o meglio la comunicazione) antimafia alla Prefettura che ha tempo 45 giorni dalla richiesta per rispondere, termine che però non è perentorio.
Queste regole sul rilascio della comunicazione rimarranno in vigore fino al funzionamento della banca dati nazionale antimafia gestita dal ministero la quale dovrà rilasciare la comunicazione «immediatamente».
Si è così creata, ed era facilmente prevedibile, una situazione che danneggia sia le imprese sia gli enti pubblici perché i tempi per la stipula dei contratti e il rilascio delle autorizzazioni si allungheranno, mentre le Camere rilasciavano i certificati ai Comuni e altri organismi in media entro due giorni e, quando possibile, anche il giorno stesso.
In un periodo di crisi anche questa novità, come constatato ormai da due mesi, è una complicazione nella vita delle aziende, e causa ritardi non giustificati.
La novità è poi incomprensibile per due motivi che emergono dalla nota del ministero: perché nel periodo transitorio la Prefettura rilascia la comunicazione utilizzando gli stessi dati del Ced nazionale a cui erano collegate le Camere; perché, trattando dei tempi del procedimento, al punto 6 si afferma che «le previsioni secondo cui il rilascio delle comunicazioni … deve avvenire immediatamente … non paiono suscettibili di applicazione in questa fase transitoria». Tra le parole «non paiono» e la conclusione «non sono» c'è una forte differenza.
Per rimediare, la soluzione più funzionale per le imprese e a costo zero è confermare alle Camere la competenza al rilascio dei certificati antimafia fino all'operatività della nuova banca dati nazionale. Eventualmente la nuova procedura potrebbe essere riservata solo alle società concessionarie di giochi pubblici e alle società estere prive di sede stabile.
Consultando i siti aggiornati di alcune Prefetture risultano applicazioni non omogenee delle nuove disposizioni. In alcune province agli enti che richiedono la comunicazione viene imposto di allegare copia della visura camerale relativa all'impresa o, in alternativa, una dichiarazione sostitutiva compilata dal legale rappresentante dell'impresa con i dati contenuti nella visura. In pratica, l'ente o l'impresa devono acquisire una visura camerale, adempimento prima non necessario.
Per evitare l'incertezza sui tempi di rilascio della comunicazione, all'imprenditore è concessa, in certi casi, la possibilità di compilare un'autocertificazione in cui dichiara che non sussistono a suo carico cause di divieto, decadenza o sospensione previste dall'articolo 67 del Dlgs 159/2011, e questa va rilasciata all'ente o al gestore di servizi. Soluzione solo apparentemente semplice perché è molto difficile e rischioso per un cittadino interpretare correttamente le norme penali e amministrative relative all'antimafia; in caso di errore, si rischia una denuncia per falsa dichiarazione.
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Il quadro
01 | LE COMPETENZE
Dal 13 febbraio la competenza sul rilascio dei certificati del registro imprese con la dicitura antimafia è passata dalle Camere di commercio alle Prefetture. Le Prefetture sono tenute a occuparsi di questa procedura fino all'attivazione della banca dati nazionale antimafia (con la pubblicazione del Dpcm, c'è un mese di tempo)
02 | LE CONSEGUENZE
La Prefettura ha tempo 45 giorni per rispondere, e il termine non è perentorio. Questo comporta un allungamento dei tempi a carico delle imprese che hanno bisogno del certificato con la dizione antimafia per la partecipazione agli appalti (articolo Il Sole 24 Ore del 22.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI SERVIZICorte costituzionale. Le indicazioni della sentenza 50/2013. In house sempre più difficile per le aziende quotate in Borsa.
IL CRITERIO/ L'ente deve avere un potere «determinante» sia sugli obiettivi strategici sia sulle decisioni importanti dell'affidataria.

Con la recente sentenza 50/2013 la Corte costituzionale ha voluto ribadire i requisiti e le condizioni per la sussistenza del rapporto in house, prendendo spunto dall'impugnazione da parte del Governo della legge della regione Abruzzo 9/2011 che disciplina il servizio idrico integrato.
La Corte ha colto l'occasione per rifare il punto sul rapporto in house. Bisogna ricordare che «in house» è una sintesi verbale che indica una relazione fra un'amministrazione pubblica e un ente (società, associazione, ecc.) da essa interamente controllato, sul quale esercita un controllo analogo a quello che eserciterebbe su un proprio ufficio e che svolge un'attività tendenzialmente esclusiva a favore della controllante.
La norma impugnata specificava le modalità di esercizio del «controllo analogo» sugli affidatari in house del servizio idrico integrato «nel rispetto dell'autonomia gestionale del soggetto gestore», attraverso il «parere obbligatorio» sugli atti fondamentali di quest'ultimo.
L'individuazione dei parametri costituzionali per la valutazione della norma regionale ha indotto la Corte a una verifica della disciplina nazionale sull'affidamento dei servizi pubblici locali. Il legislatore nazionale aveva introdotto norme molto restrittive e di chiaro sfavore per l'affidamento in house, per aprire il settore dei servizi pubblici alla concorrenza, ma il referendum abrogativo del 12 e 13.06.2011 aveva spazzato via ogni limitazione legislativa,e anche la successiva reintroduzione di norme pro concorrenziali era stata giudicata illegittima dalla Corte proprio perché non rispettava l'esito referendario.
Secondo la Corte, quindi, la conseguenza delle vicende legislative e referendarie brevemente richiamate è che, attualmente, si deve ritenere applicabile la normativa e la giurisprudenza comunitarie in materia, senza alcun riferimento a leggi interne. La sentenza 50, fondandosi proprio sui principi comunitari espressi dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, ha dichiarato l'illegittimità della norma regionale impugnata per violazione dell'articolo 117, primo comma, della Costituzione (mancato rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario).
Questa sentenza è importante perché, nell'enunciare principi noti, ne specifica la portata concreta. Il potere esercitato sull'ente controllato consiste in un'influenza determinante sia sugli obiettivi strategici sia sulle decisioni importanti; la «possibilità di influenza determinante» è incompatibile con il rispetto dell'autonomia gestionale, senza distinguere -in coerenza con la giurisprudenza comunitaria- tra decisioni importanti e ordinaria amministrazione. Inoltre, il rapporto in house deve comportare che l'amministrazione controllante esprima pareri vincolanti sugli atti dell'ente controllato.
L'aver esplicitato l'incompatibilità fra «autonomia gestionale» e modello in house dovrebbe comportare un'attenta valutazione da parte delle amministrazioni controllanti sulla scelta della tipologia di società con cui costituire il «controllo analogo». In particolare, dopo questa sentenza, appare ancor più problematico costruire un rapporto in house con le società per azioni. In queste ultime, la rilevante autonomia all'organo amministrativo, cui compete la gestione dell'impresa e la correlativa responsabilità (articoli 2380-bis, comma 1, e 2409-novies, comma 1 del Codice civile) appare confliggere in modo evidente con le caratteristiche essenziali della relazione in house (articolo Il Sole 24 Ore del 22.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATASul decoro architettonico giudizio discrezionale.
RISCHIO GIURIDICO/ Quasi impossibile mettersi al riparo dalla possibilità di un contenzioso: occorrerebbero l'unanimità o l'usucapione ventennale.
Il «decoro architettonico» è un'arma a doppio taglio. Da una parte il concetto viene usato per impedire che a un condomino salti in mente di rovinare la facciata del palazzo; dall'altra rappresenta il veicolo ideale per mettere in atto veti incrociati che blocchino qualsiasi intervento migliorativo del proprio appartamento che abbia un effetto anche esterno, dalle fioriere alle persiane, dalle tende da sole al nuovo parapetto del terrazzo.

La sentenza 24.04.2013 n. 10084 commentata ieri sul Sole 24 Ore conferma un'importante distinzione: a parlare di «aspetto architettonico» è l'articolo 1127 del Codice civile, dedicato alle sopraelevazioni; mentre di «decoro architettonico» si parla all'articolo 1120, che regola invece le innovazioni.
L'articolo 1127 non è stato toccato dalla riforma della legge 220/2012 e, al comma 3, recita: «i condomini possono altresì opporsi alla soprelevazione se questa pregiudica l'aspetto architettonico dell'edificio (...)».
Quindi, parlando della costruzione di un altro piano sopra l'ultimo, bisogna ricordare la sentenza 1025/2004, che dice: «per accertare se una sopraelevazione pregiudica, a mente dell'articolo 1127 Codice civile, l'aspetto architettonico di un edificio, ciò che conta non è l'esistenza, in quest'ultimo, di particolari pregi artistici, ma semplicemente l'esistenza di uno stile architettonico ovvero di determinate linee estetiche»: una volta che il nuovo ultimo piano è stato realizzato rispettando lo stile architettonico di quelli sottostanti, la sopraelevazione è salva.
Ben diverso è il discorso delle innovazioni di cui all'articolo 1120 del Codice civile: si tratta dei casi più frequenti. L'articolo 1120 dice al comma 2 (anch'esso rimasto identico dopo la riforma, solo che ora è il comma 4): «Sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico (...)».
È proprio il concetto di decoro architettonico a essere più restrittivo perché le innovazioni sono i mutamenti «diretti al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni»: una definizione che di fatto comprende qualsiasi opera. Tra l'altro, ogni condomino può agire in giudizio per la tutela del decoro architettonico della proprietà comune, come ha ribadito la Cassazione (sentenza 14474/2011).
Il problema è quindi individuare cosa sia il «decoro architettonico»: ebbene, non lo si chieda alla Cassazione, la quale (sentenza 10350/2011) ha affermato che (nel caso dell'installazione in facciata di una canna fumaria per lo smaltimento fumi di una pizzeria) la questione si risolve in un apprezzamento discrezionale, istituzionalmente demandato al giudice di merito.
Quindi un'innovazione, anche piccola, è a rischio: e non ci si salva certo con una delibera a maggioranza che la approvi. Le solo strade sono una delibera all'unanimità o che sia dimostrabile che siano trascorsi almeno vent'anni dalla realizzazione dell'intervento.
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L'iniziativa
La riforma del condominio è a meno di due mesi dall'entrata in vigore. Le criticità sono emerse e insieme a esse la necessità di intervenire prima dell'entrata in vigore, per evitare il rischio che la riforma parte zoppa. Per questo Il Sole 24 Ore ha lanciato l'iniziativa di «correggere la riforma». Hanno risposto praticamente tutte le associazioni di condomini e amministratori e gli ordini interessati: Agiai, Alac, Anaci, Anaip, Anammi, Anapi, Apac, Apu, Arai, Arpe-Federproprietà, Assocond, Asppi, Assoedilizia-Confedilizia, Confabitare, Confappi-Fna, Confiac, Gesticond, Mapi, Ordine degli avvocati di Milano, Consiglio notarile di Milano, Unai, Unioncasa-Confai e Uppi.
Con le associazioni è stata elaborata una proposta di modifica tecnica della legge 220/2012 che verrà presentata in un convegno, trasmesso in streaming in tutta Italia, il 22 maggio. La proposta sarà presentata in Parlamento da deputati e senatori che hanno già partecipato alla stesura della riforma e che hanno dato la loro disponibilità ai correttivi elaborati dal Sole 24 Ore con le associazioni (articolo Il Sole 24 Ore 26.04.2013).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATALo stile del condominio non protegge la «bruttura». Opera illecita anche se conforme alle caratteristiche dell'edificio.
La Corte di cassazione boccia l'opera architettonica che costituisce una «bruttura dal punto di vista estetico», anche se questa è realizzata «seguendo il medesimo stile architettonico utilizzato nella realizzazione dell'edificio».

Il principio è contenuto nella sentenza 24.04.2013 n. 10084, che richiama le ragioni che stanno dietro le parole «decoro architettonico» e «aspetto», di volta in volta usate dal legislatore in varie norme.
La sentenza ribalta la decisione dei giudici della Corte d'appello, che avevano dato ragione al proprietario di un attico, che aveva realizzato sulla terrazza un nuovo corpo di fabbrica. Secondo il condomino, «il nuovo manufatto non costituiva una stonatura rispetto all'unitarietà dell'edificio stesso». Questa tesi veniva motivata con il fatto che il nuovo corpo di fabbrica aveva lo stesso stile architettonico del palazzo.
Ma la Cassazione ha accolto il ricorso del condominio, secondo cui in base al principio dello stile architettonico si corre il rischio che i singoli condòmini realizzino vere e proprie «brutture».
«La nozione di aspetto architettonico di cui all'articolo 1127 del Codice civile –spiega la Cassazione– non coincide con quella di decoro di cui all'articolo 1120 (più restrittiva): l'intervento edificatorio quindi dev'essere decoroso (rispetto allo stile dell'edificio) e non deve rappresentare comunque una rilevante disarmonia rispetto al preesistente complesso tale da pregiudicarne le originarie linee architettoniche».
Il quadro normativo su cui s'innesta la sentenza considera le innovazioni non influenti sull'aspetto architettonico, inteso come stile e quindi come caratteristica principale con cui la costruzione si presenta a chi la guardi. Le innovazioni, normalmente di minore consistenza rispetto alle sopraelevazioni, assumono rilievo e sono vietate dal secondo comma dell'articolo 1120 del Codice civile solo se incidono sull'equilibrio delle forme e quindi sulla simmetria o sulla proporzione tra le varie parti influenti sull'estetica dell'edificio.
È però consentito ai regolamenti di condominio adottare una nozione più rigorosa e di imporre divieti anche assoluti di ogni modifica esterna. In tale modo i condomìni interessati si danno una regola particolare, che ovviamente molto li vincola e che talvolta può risultare anche eccessiva, in ragione del mutare delle esigenze soggettive e anche dell'evoluzione della tecnica.
Di tali implicazioni non sembra che la recente riforma del condominio si sia fatta carico.
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L'iniziativa
La riforma del condominio è a due mesi dall'entrata in vigore. Le criticità sono emerse e insieme a esse la necessità di intervenire prima dell'entrata in vigore, per evitare il rischio che la riforma parte zoppa.
Per questo Il Sole 24 Ore ha lanciato l'iniziativa di «correggere la riforma». Hanno risposto praticamente tutte le associazioni di condomini e amministratori e gli ordini interessati: Agiai, Alac, Anaci, Anaip, Anammi, Anapi, Apac, Apu, Arai, Arpe-Federproprietà, Assocond, Asppi, Assoedilizia-Confedilizia, Confabitare, Confappi-Fna, Confiac, Gesticond, Mapi, Ordine degli avvocati di Milano, Consiglio notarile di Milano, Unai, Unioncasa-Confai e Uppi (articolo Il Sole 24 Ore del 25.04.2013).

APPALTIDurc senza paletti. Non va limitato al singolo appalto. Cds boccia le circolari Inps, Inail e Minlavoro.
Illegittime le circolari di ministero del lavoro, Inps e Inail che limitano l'efficacia del Durc alle specifiche gare d'appalto per le quali il certificato viene emesso.

Il Consiglio di Stato, Sez. III, con l'ordinanza 23.04.2013 n. 1465 interviene a piedi uniti sulla disciplina del Durc, allo scopo sia di semplificare il quadro normativo, sia di ricordare che a dover essere applicata è sempre la legge e non le circolari che si pongano in contrasto con essa.
La questione, da sempre dibattuta, di cui si è occupata l'ordinanza, riguardava la capacità del Durc di attestare la regolarità contributiva di un operatore economico partecipante ad una gara d'appalto, ancorché emesso per una diversa procedura di gara.
La parte appellante, per opporsi all'aggiudicazione, aveva evidenziato tra le ragioni del proprio ricordo l'invalidità del Durc, dovuta proprio alla circostanza che esso fosse riferito ad una procedura di gara diversa da quella per la quale venne utilizzato. L'appello si era basato su una serie di interpretazioni, fornite con circolari Inail del 05.02.2008, n. 7, del ministero del lavoro dell'08.10.2010, n. 35 e infine dell'Inps con data 17.11.2010, n. 145. Quest'ultima in particolare aveva specificato che il Durc «deve essere richiesto per ogni singola procedura di selezione e la sua validità trimestrale opera limitatamente alla specifica procedura per la quale è stato richiesto», con ciò fondando la convinzione che per ciascuna specifica gara, dovesse emanarsi uno specifico Durc.
Risulta evidente che questa interpretazione cozzi contro ogni principio di semplificazione dell'azione amministrativa, in quanto induce a dover emettere nuovi certificati, pur essendovene operanti e in corso di validità altri che abbiano già attestato la situazione contributiva dell'impresa. I giudici di palazzo Spada hanno respinto il motivo di appello, sottolineando in modo tranciante che «quanto alla contestata efficacia probatoria di tale documentazione, che non vi sono norme primarie che prescrivano che il Durc per la partecipazione alle gare di appalto debba riferirsi alla specifica gara di appalto, mentre disposizioni contenute in circolari, invocate dall'appellante, non appaiono rilevanti, non potendo essere considerate rilevanti le circolari che risultino contra legem (cfr., sul punto, Cons. st., sez. VI, 18/12/2012, n. 6487)».
Molto semplicemente, il Consiglio di stato ricorda agli operatori, ma anche alle autorità amministrative, che le circolari non possono andare oltre la funzione di illustrare il contenuto delle norme, senza poter invadere lo spazio riservato al legislatore, introducendo contenuti o, comunque, chiavi di lettura assenti o contrastanti nelle norme. Eventi, questi, che proprio per la disciplina del Durc si sono, purtroppo, ripetuti innumerevoli volte (articolo ItaliaOggi del 26.04.2013).

APPALTIGare. Per il Consiglio di Stato il documento di regolarità contributiva apre le porte a tutti i bandi nei tre mesi di validità
Il «Durc» slegato dall'appalto. La decisione è in contrasto con gli orientamenti del ministero del Lavoro e dell'Inail.
LE CONSEGUENZE/ Per i giudici amministrativi l'esibizione di un certificato ottenuto per altri fini non giustifica l'esclusione ma la richiesta di chiarimenti.

Il nostro ordinamento non stabilisce che il documento unico di regolarità contributiva (Durc) per la partecipazione a una gara di appalto deve riferirsi specificamente ad essa.
Il principio è stato pronunciato nell'ordinanza 23.04.2013 n. 1465 della III Sez. del Consiglio di Stato nell'ambito della richiesta di riforma di un'ordinanza cautelare del Tar del Lazio.
Si tratta di una decisione in contrasto con le istruzioni operative emanate dalle circolari 7/2008 dell'Inail, 35/2010 del Lavoro e 145/2010 dell'Inps.
Le circolari a cui fa riferimento il Consiglio di Stato riguardavano, per l'Inail, la parte in cui è stabilito che la validità del Durc –per tutti gli appalti pubblici– è legata allo specifico appalto ed è limitata alla fase per cui il certificato è stato richiesto, come la stipula del contratto e i pagamenti stati avanzamenti lavori (Sal).
La circolare 35/2010 del ministero del Lavoro fa affermato a sua volta, partendo da una determinazione dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, che –ferma restando la validità temporale trimestrale del Durc– relativamente ai contratti disciplinati dal Dlgs 163/2006, e nell'ambito delle procedure di selezione del contraente, va utilizzato un Durc per ciascuna procedura in tutti i casi in cui in base all'articolo 16-bis, comma 10, del Dl 185/2008 (convertito nella legge 2/2009) esso deve essere acquisito d'ufficio dalle stazioni appaltanti pubbliche, anche attraverso strumenti informatici.
Il ministero ha sottolineato che, sempre per gli appalti pubblici, non va utilizzato un Durc richiesto a fini diversi (ad esempio, un Durc richiesto per la fruizione di benefici e sovvenzioni previsti dalla disciplina comunitaria o un Durc richiesto per lavori privati dell'edilizia) e ciò in quanto le verifiche operate dai competenti istituti e/o Casse edili seguono ambiti diversi e procedure in parte diverse in relazione alle finalità per cui è emesso il documento.
Su tali principi si è subito uniformato l'Inps con la circolare 145/2010.
Dello stesso avviso non è stato, però, il Consiglio di Stato il quale, prima con la sentenza 6487/2012 della sezione VI, e ora con la più recente ordinanza richiamata, ha dato alla problematica in esame una diversa interpretazione.
Infatti, in sede di giudizio, dove è stata contestata da una delle parti in causa l'irritualità del Durc utilizzato nella procedura, in quanto non specificamente inerente all'oggetto della gara, oltreché privo d'idoneità per l'intervenuto decorso del relativo periodo di validità, il Consiglio di Stato non ha accolto tale eccezione. Esso ha ritenuto, invece, che non vi sono norme primarie le quali prescrivano che il Durc per la partecipazione alle gare di appalto debba riferirsi alla specifica gara e che non è dedotto e dimostrato dal ricorrente in quale modo la regolarità contributiva venga acclarata in modo diverso dagli enti preposti, ai diversi fini della partecipazione a gare di appalto, degli stati avanzamenti lavori e della concessione di finanziamenti.
Disposizioni contrarie contenute nelle circolari sono state considerate irrilevanti dal Consiglio, non potendo essere considerate, a loro volta, rilevanti le circolari che risultino contra legem. Il Consiglio di Stato ha ritenuto, inoltre, che in ogni caso l'esibizione in gara di un Durc ottenuto ad altri fini non giustifica l'esclusione, ma semmai la richiesta di chiarimenti e integrazioni ai sensi dell'articolo 46 del Codice degli appalti, tanto più che ai sensi dell'articolo 16-bis, comma 10, del Dl 185/2008 (convertito nella legge 2/2009, applicabile ratione temporis alla gara di appalto oggetto di causa), «le stazioni appaltanti pubbliche acquisiscono d'ufficio, anche attraverso strumenti informatici, il documento unico di regolarità contributiva (Durc) dagli istituti o dagli enti abilitati al rilascio in tutti i casi in cui è richiesto dalla legge».
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Il rilascio del documento
01 | SOGGETTI ABILITATI
Il Durc è rilasciato dagli enti di previdenza e, per i datori di lavoro operanti nel settore dell'edilizia, dalle Casse edili stipulanti il contratto collettivo nazionale
02 | I PALETTI
Il Durc non può essere rilasciato qualora risultino irregolarità contributive accertate dall'istituto che lo deve emettere. Esse possono riguardare: a) la non correttezza degli adempimenti mensili o, comunque, periodici; b) la non corrispondenza tra versamenti effettuati e quelli accertati dagli istituti come dovuti; c) l'esistenza di inadempienze in atto. Potrà essere, invece, rilasciato, qualora: a) sia stata inoltrata richiesta di rateizzazione per la quale l'istituto abbia già espresso parere favorevole; b) vi siano sospensioni dei pagamenti a seguito di disposizioni legislative; c) sia stata presentata istanza di compensazione per la quale sia stato documentato il credito; d) la denuncia alla Cassa edile comprenda, per ciascun operaio, un numero di ore lavorate e non lavorate non inferiore a quello contrattuale, specificando le causali di assenza
03 | LA REGOLARIZZAZIONE
In mancanza dei requisiti gli istituti, prima dell'emissione del Durc o dell'annullamento del documento già rilasciato, invitano l'interessato a regolarizzare la propria posizione entro 15 giorni
04 | IL CONTENZIOSO
Non costituisce causa ostativa al rilascio del Durc l'eventuale presenza di crediti iscritti a ruolo per i quali sia stata disposta la sospensione della cartella a seguito di ricorso amministrativo o giudiziario.
In merito ai crediti non ancora iscritti a ruolo, essi non costituiscono causa ostativa: a) in pendenza di contenzioso amministrativo; in tal caso il Durc può essere rilasciato sino alla decisione che respinge il ricorso; b) in pendenza di contenzioso giudiziario, la regolarità è dichiarata sino al passaggio in giudicato della sentenza di condanna
05 | GLI SCOSTAMENTI LIEVI
Ai soli fini della partecipazione a gare di appalto non osta al rilascio del Durc uno scostamento non grave tra le somme dovute e quelle versate, con riferimento a ciascun istituto previdenziale e a ciascuna Cassa edile. Non si considera grave lo scostamento inferiore o pari al 5% tra le somme dovute e quelle versate con riferimento a ciascun periodo di paga o di contribuzione o, comunque, uno scostamento inferiore a 100 euro, fermo restando l'obbligo di versamento del predetto importo entro i 30 giorni successivi al rilascio del Durc
06 | LA SICUREZZA
La violazione, da parte del datore di lavoro o del dirigente responsabile, delle disposizioni penali e amministrative in materia di tutela delle condizioni di lavoro è causa ostativa al rilascio del Durc.
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Incentivi subordinati all'attestato.
Il possesso del Durc è richiesto ai datori di lavoro ai fini della fruizione dei benefici normativi e contributivi in materia di lavoro e legislazione sociale, nonché per ottenere benefici e sovvenzioni previsti dalla disciplina comunitaria. È inoltre richiesto nelle procedure d'appalto di opere, servizi e forniture pubblici e nei lavori privati dell'edilizia.
Per l'individuazione dei benefici normativi e contributivi, il ministero del Lavoro, con circolare 5/2008, ha riprodotto un elenco esemplificativo. Così, per benefici contributivi sono stati individuati gli sgravi collegati alla costituzione e gestione del rapporto di lavoro da considerarsi in deroga all'ordinario regime contributivo.
Pertanto, non rientrano tra questi il regime contributivo previsto per la generalità degli apprendisti, o per alcuni settori come l'agricoltura e la navigazione marittima, salvo che in tali settori ricorrano ulteriori speciali agevolazioni. Al riguardo è stato precisato che i benefici sono subordinati all'applicazione della sola parte economica e normativa degli accordi e contratti collettivi, e non anche alla parte obbligatoria di questi ultimi.
Chi intende fruire dei benefici in questione, deve essere in possesso del Durc di cui all'articolo 1 del Dm 24.10.2007. In caso di coincidenza tra istituto previdenziale che rilascia il Durc e quello che ammette il datore alla fruizione dei benefici contributivi, sarà l'istituto stesso a verificare la sussistenza delle condizioni di regolarità, senza dover procedere alla sua materiale emissione. Ciò non esclude, tuttavia, che il datore di lavoro inoltri all'istituto apposita richiesta, ed eventuale documentazione, per ottenere il necessario provvedimento di autorizzazione.
Nelle procedure d'appalto il Durc segue due strade diverse per i contratti pubblici e privati. Nella prima ipotesi, anche in una ottica di semplificazione delle procedure, in applicazione dell'articolo 16-bis del Dl 185/2008, saranno direttamente le stazioni appaltanti pubbliche ad acquisire d'ufficio dagli istituti il Durc. L'obbligo del Durc sussiste anche in caso di appalti relativi all'acquisizione di beni, servizi e lavori effettuati in economia mediante cottimo fiduciario (articolo 165 del Dlgs 163/2006).
Con riferimento ai cantieri privati, il Durc è previsto dall'articolo 90 del Dlgs 81/2008 e successive modifiche e integrazioni (Tu sulla sicurezza nei luoghi di lavoro) a carico imprese esecutrici e/o lavoratori autonomi operanti in cantieri per conto di committenti privati. Il documento può essere utilizzato per l'intero periodo della sua validità trimestrale per l'esecuzione di più lavori
(articolo l Sole 24 Ore del 28.04.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Il Comune, se è legittimato a richiedere il pagamento della tassa (o del canone) per le occupazioni (permanenti) del sottosuolo, (come pure può richiedere il versamento di un deposito cauzionale, a garanzia dei danni che possono derivare dalla esecuzione degli scavi e dei reinterri stradali), non può invece pretendere alcun onere aggiuntivo (indipendentemente dalla sua congruità) per l’attività di controllo sulla regolare esecuzione dei lavori di ripristino del manto stradale, tanto più in considerazione del fatto che l’attività vigilanza e di controllo sul territorio rientra tra i compiti istituzionali del Comune, che deve provvedervi con il proprio personale (Polizia Municipale; Ufficio Tecnico).
L’art. 93, comma 1, del d.lgs. 01.08.2003 n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche) sancisce espressamente il divieto di imposizione di oneri o canoni (di qualunque natura) che non siano previsti per legge.
Il divieto legislativo sopra richiamato, in realtà, trova il suo fondamento costituzionale nell’art. 23 della Costituzione, a norma del quale “Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”.
Conformandosi all’orientamento giurisprudenziale della Corte Costituzionale secondo il quale quella di cui all’art. 23 Cost. è una riserva di legge relativa (Corte Costituzionale 07.04.2011 n. 115; 14.06.2007 n. 190), il Collegio fa rilevare che l’imposizione agli amministrati, con atto di natura regolamentare, di una nuova prestazione patrimoniale (quale quella in esame) in tanto può ritenersi legittima, in quanto abbia fondamento in una norma giuridica di rango primario che ne disciplini i principi.
Orbene, in subiecta materia vengono in rilievo:
- il Capo II del d.lgs. 15.11.1993 n. 507, che disciplina la Tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (in particolare, gli artt. 46 e 47 relativi alle occupazioni permanenti di sottosuolo e soprasuolo);
- l’art. 27, comma 9, del d.lgs. n. 285/1992 (Codice della strada), a norma del quale: “L’autorità competente al rilascio dei provvedimenti autorizzatori di cui al presente titolo può chiedere un deposito cauzionale”.
Sulla base delle disposizioni legislative sopra richiamate, risulta evidente che il Comune, se è legittimato a richiedere il pagamento della tassa (o del canone) per le occupazioni (permanenti) del sottosuolo, (come pure può richiedere il versamento di un deposito cauzionale, a garanzia dei danni che possono derivare dalla esecuzione degli scavi e dei reinterri stradali), non può invece pretendere alcun onere aggiuntivo (indipendentemente dalla sua congruità) per l’attività di controllo sulla regolare esecuzione dei lavori di ripristino del manto stradale, tanto più in considerazione del fatto che l’attività vigilanza e di controllo sul territorio rientra tra i compiti istituzionali del Comune, che deve provvedervi con il proprio personale (Polizia Municipale; Ufficio Tecnico) (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 23.04.2013 n. 916 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nelle ipotesi in cui vi sia contrasto tra motivazione e dispositivo di un provvedimento amministrativo, l’interprete deve attribuire prevalenza a quest’ultimo, in quanto contenente gli elementi destinati a consentire l’identificazione degli effetti dell’atto.
E ciò in quanto -come ripetutamente chiarito- il termine per l’impugnazione decorre dalla conoscenza del contenuto del dispositivo, senza che sia necessaria la compiuta conoscenza della motivazione, che è rilevante solo ai fini della successiva proposizione dei motivi aggiunti.

Va, invero, al riguardo ricordato che la giurisprudenza amministrativa, pronunciandosi in ordine alla interpretazione degli atti amministrativi, ha costantemente chiarito che nelle ipotesi in cui vi sia contrasto tra motivazione e dispositivo di un provvedimento amministrativo, l’interprete deve attribuire prevalenza a quest’ultimo, in quanto contenente gli elementi destinati a consentire l’identificazione degli effetti dell’atto (cfr. TAR Lombardia, sez. Brescia, sez. II, 05.03.2010, n. 1122); e ciò, in quanto -come ripetutamente chiarito (cfr. per tutti Cons. St., sez. IV 20.06.2012 n. 3622 sez. III 23.05.2012 n. 2993)- il termine per l’impugnazione decorre dalla conoscenza del contenuto del dispositivo, senza che sia necessaria la compiuta conoscenza della motivazione, che è rilevante solo ai fini della successiva proposizione dei motivi aggiunti (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 23.04.2013 n. 241 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L’ordinanza di rimozione di rifiuti abbandonati deve essere preceduta dalla comunicazione, prevista dall’art. 7 della L. n. 241 del 1990, di avvio del procedimento ai soggetti interessati, stante la rilevanza dell’eventuale apporto procedimentale che tali soggetti possono fornire, quanto meno in riferimento all’accertamento delle effettive responsabilità per l’abusivo deposito dei rifiuti, rispetto al quale risulta recessivo, nella specifica materia, l’art. 21-octies della legge sul procedimento, con conseguente illegittimità dell’ordinanza non preceduta dalla comunicazione stessa.
Inoltre, qualora l’autore materiale dell’abbandono dei rifiuti non sia identificato, al fine di individuare il soggetto obbligato alla rimozione dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi, è necessario procedere al duplice accertamento della titolarità dell’area e dell’imputabilità della violazione per dolo o colpa al proprietario o a colui che risulta titolare di diritti reali o personali di godimento sulla stessa.

Va, invero, sul punto ricordato che l’art. 192 del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, del codice dell’ambiente vieta l’abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo e prevede che chiunque violi tale divieto è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi “in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”.
Tale norma, cioè, dispone che l’obbligo di procedere alla rimozione dei rifiuti può gravare, in solido con il responsabile, anche sul proprietario del sito e sul titolare di diritti reali o personali di godimento relativi ad esso, solo però se tale violazione sia anche a loro imputabile “a titolo di dolo o colpa”, da accertarsi “in contraddittorio con i soggetti interessati” dai preposti al controllo.
Ora, interpretando tale normativa, la giurisprudenza amministrativa ha già costantemente chiarito, innanzi tutto che l’ordinanza di rimozione di rifiuti abbandonati deve essere preceduta dalla comunicazione, prevista dall’art. 7 della L. n. 241 del 1990, di avvio del procedimento ai soggetti interessati, stante la rilevanza dell’eventuale apporto procedimentale che tali soggetti possono fornire, quanto meno in riferimento all’accertamento delle effettive responsabilità per l’abusivo deposito dei rifiuti (cfr. da ultimo, TAR Puglia, sez. Lecce, sez. III, 13.02.2013, n. 301, TAR Lombardia, sede Milano, sez. IV, 14.01.2013, n. 56, TAR Campania, sez. Salerno, sez. I, 20.06.2012, n. 1254, TAR Calabria, sez. Reggio Calabria, 19.12.2012, n. 747, e sede Catanzaro, sez. I, 05.07.2012, n. 714), rispetto al quale risulta recessivo, nella specifica materia, l’art. 21-octies della legge sul procedimento, con conseguente illegittimità dell’ordinanza non preceduta dalla comunicazione stessa (TAR Liguria, Sez. II, 11.07.02012, n. 982).
Inoltre, qualora l’autore materiale dell’abbandono dei rifiuti non sia identificato, al fine di individuare il soggetto obbligato alla rimozione dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi, è necessario procedere al duplice accertamento della titolarità dell’area e dell’imputabilità della violazione per dolo o colpa al proprietario o a colui che risulta titolare di diritti reali o personali di godimento sulla stessa (TAR Marche, 11.02.2013, n. 137, TAR Friuli Venezia-Giulia, 07.02.2013, n. 56, TAR Lazio, sede Roma, sez. II, 01.02.2013, n. 1142, TAR Puglia, sez. Lecce, sez. I, 11.09.2012, n. 1492, e TAR Sardegna, sez. I, 05.06.2012, n. 560).
A tale pacifico e consolidato orientamento degli organi di giurisdizione amministrativo questa stessa Sezione ha già aderito, da ultimo, con sentenza 15.02.2013, n. 108.
Ciò posto, poiché nella specie non risulta sia stata data comunicazione agli attuali ricorrenti dell’avvio del procedimento e poiché non risulta siano stati svolti i predetti accertamenti, il ricorso in esame deve, conseguentemente, essere accolto e, per l’effetto, deve essere annullato l’atto impugnato (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 23.04.2013 n. 237 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOCASSAZIONE/ Dopo l'anticorruzione. La concussione a chi boicotta
Resta punibile come concussione ogni condotta prevaricatrice che il pubblico ufficiale compie abusando della sua qualità o della sua funzione. Esattamente come accade quando il funzionario dell'ente fa ostruzionismo nei confronti dell'azienda che rappresenta il suo interlocutore, cagionando, o anche soltanto paventando, ritardi nei lavori per ottenere una tangente «mascherata» sotto forma di compensi gonfiati a ditte terze: imprese evidentemente «amiche», che di lì a poco gliene rimetteranno buona parte. La condotta di indebita induzione a dare o promettere denaro o altre utilità, invece, va riguardata «in una prospettiva di residualità», tale cioè da comprendere tutto ciò che esula dall'ottica della costrizione.

È quanto emerge dalla sentenza n. 17593/2013, pubblicata dalla VI Sez. penale della Corte di Cassazione. Ma non è difficile prevedere come prima o poi la questione dell'interpretazione della legge 190/2012 finirà alle Sezioni unite della Suprema corte.
Bocciato il ricorso dell'imputato: la sua condotta deve essere comunque punita con il reato ex articolo 317 cp, nonostante che la norma più favorevole sia entrata in vigore fra la proposizione e la decisione del ricorso. Il funzionario pubblico in pratica «boicotta» il geologo di fiducia dell'azienda che deve effettuare i sondaggi nel terreno: rinvia la data del d-day, sostiene che la sonda sarebbe inadeguata (e non è vero), offre punti sfavorevoli dove realizzare l'operazione. E i ritardi ricadono sul professionista e quindi sull'impresa. Non c'è dubbio che gli atteggiamenti ostruzionistici del funzionario determinano una conseguenza «contro legge» a carico del soggetto passivo, che è correlata direttamente dall'abuso posto in essere dal funzionario e per nulla riconducibile all'applicazione di una norma giuridica.
Sbaglia, osserva il collegio, chi sostiene che la riforma Severino abbia solo «spacchettato» la vecchia concussione, ripartendo fra il vecchio articolo 317 cp e il nuovo articolo 319-quater la perseguibilità delle condotte di costrizione e induzione riconducibili alle norme previgenti. Le due nozioni devono essere riconsiderate. La continuità delle norme penali prima e dopo la riforma, in ogni caso, deve ritenersi comunque assicurata (articolo ItaliaOggi del 23.04.2013).

APPALTI: Sul potere della p.a. di annullare in via di autotutela il bando e le singole operazioni di gara, quando i criteri di selezione si manifestino come suscettibili di produrre effetti indesiderati o comunque illogici.
Il principio del favor partecipationis non può spingersi fino al punto di vanificare la portata dei requisiti soggettivi che la lex specialis necessariamente deve richiedere ed esigere.

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La p.a. conserva anche in relazione ai procedimenti di gara per la scelta del contraente il potere di annullare in via di autotutela il bando e le singole operazioni di gara, quando i criteri di selezione si manifestino come suscettibili di produrre effetti indesiderati o comunque illogici, tenendo quindi conto delle preminenti ragioni di salvaguardia del pubblico interesse: tale potere di autotutela trova fondamento negli stessi principi costituzionali predicati dall'art. 97 cost., cui deve ispirarsi l'azione amministrativa, e costituisce il pendant dell'obbligo di rispettare le prescrizioni stabilite dalla lex specialis della gara, che vincolano non solo i concorrenti, ma la stessa amministrazione (con esclusione di qualsiasi margine di discrezionalità nella loro concreta attuazione da parte dell'amministrazione e tanto meno della facoltà di disapplicarle, neppure nel caso in cui talune delle regole stesse risultino inopportunamente o incongruamente formulate, salva proprio la possibilità di far luogo, nell'esercizio del potere di autotutela, al loro annullamento).
Neppure il provvedimento di aggiudicazione definitiva e tanto meno quello di aggiudicazione provvisoria (che del resto si iscrivono nella fase procedimentale di scelta del contraente, concludendola) ostano all'esercizio di un siffatto potere, il quale incontra un limite soltanto nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza, alla cui puntuale osservanza è tenuta anche la P.A., e nella tutela dell'affidamento ingenerato.
Nel caso di specie, i surrichiamati principi sono stati rispettati dall'amministrazione che, in assoluta trasparenza e nel pieno rispetto delle garanzie procedimentali, ha fatto tempestivamente ammenda di un proprio errore che, ove non emendato, avrebbe rischiato di vulnerare il diritto delle altre concorrenti al rispetto della par condicio e nonché l'interesse pubblico dell'amministrazione ad avvalersi di un partner contrattuale idoneo e qualificato.
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Il principio del favor partecipationis, di cui deve certamente tenersi conto nella predisposizione della disciplina di una procedura ed evidenza pubblica, tendente in linea di principio ad evitare l'introduzione di una barriera di ingresso anticompetitiva che restringa, in modo non ragionevole e non necessario, la platea dei potenziali competitori, non può spingersi fino al punto di vanificare la portata dei requisiti soggettivi che la lex specialis necessariamente deve richiedere ed esigere per poter garantire all'amministrazione che il futuro contraente sia selezionato fra imprese in possesso della capacità tecnica ed economica per svolgere in modo ottimale il servizio affidatogli (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 22.04.2013 n. 175 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sulla funzione transitoria dell'art. 12 del d.l. 07.05.2012, n. 52 (conv. in l. 06.07.2012, n. 94), che impone l'apertura delle offerte tecniche in seduta pubblica.
L'art. 12 del d.l. 07.05.2012, n. 52 (conv. in l. 06.07.2012, n. 94), ha la specifica funzione transitoria di salvaguardare gli effetti delle procedure concluse o pendenti alla data del 09.05.2012, nelle quali si sia proceduto all'apertura dei plichi in seduta riservata, recando in sostanza, per questo aspetto, una sanatoria di tali procedure. Ciò sulla base delle seguenti argomentazioni:
- il principio di pubblicità, pur di derivazione comunitaria, non è direttamente cogente ma ha un contenuto programmatico, restando perciò agli Stati membri la sua concreta declinazione in coerenza con altri valori, a cominciare da quello dell'affidamento incolpevole da parte dell'aggiudicataria che abbia confidato sulla vigenza di determinate regole procedimentali che, nella specie, nella maggior parte dei casi, prevedevano l'apertura dei plichi in seduta riservata;
- con il citato art. 12, di conseguenza, è stata normata la regola di diritto definita dall'Adunanza plenaria ma è stato al contempo precisato che l'obbligo della seduta pubblica decorre dal 09.05.2012, confermando per il passato l'inesistenza di una disposizione cogente di tale contenuto;
- questa disciplina transitoria ha lo scopo di evitare il travolgimento di numerosissime gare in corso, con i conseguenti oneri economici e amministrativi particolarmente gravosi nella presente fase di crisi economica;
- né appare logico, si deve concludere, attribuire alla norma altra ratio; non vi sarebbe ragione infatti per un intervento normativo che obbliga all'apertura pubblica dei plichi soltanto a partire da una certa data "anche per le gare in corso ove i plichi contenenti le offerte tecniche non siano stati ancora aperti", se non allo scopo di tenere esente dall'obbligo l'intervenuta, antecedente apertura dei plichi (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 22.04.2013 n. 8 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di una domanda di concessione in sanatoria per abusi edilizi ex L. 28.02.1985 n. 47 (fonte richiamata dalle successive leggi di condono) impone al Comune competente la sua disamina e l'adozione dei provvedimenti conseguenti, di talché gli atti repressivi dell'abuso in precedenza adottati perdono efficacia, salva la necessità di una loro rinnovata adozione nell’eventualità di un successivo rigetto dell'istanza di sanatoria.
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In presenza della richiesta di una concessione in sanatoria si deve registrare la sopravvenuta carenza d’interesse all’annullamento dell’atto sanzionatorio in relazione al quale tale domanda è stata presentata (a seconda dei casi, l’ordine di demolizione dell’abuso accertato, la riduzione in pristino dello stato dei luoghi, e/o i successivi provvedimenti di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale), con la traslazione dell’interesse a ricorrere sul futuro provvedimento che, eventualmente, abbia a respingere la domanda medesima (ad esempio, per la mancata corresponsione dell’oblazione definitivamente accertata come dovuta), e disponga nuovamente la demolizione dell’opera abusiva

Osserva la Sezione che tra le parti è pacifico che la pratica di condono edilizio presentata dalla società riguardi proprio gli abusi contestati con l’atto oggetto dell’originario gravame, e quindi l’intervento sul quale verte il presente contenzioso.
Non sussistono allora motivi per non applicare, nella specie, il consolidato orientamento giurisprudenziale, puntualmente richiamato soprattutto dalla difesa comunale, per cui la presentazione di una domanda di concessione in sanatoria per abusi edilizi ex L. 28.02.1985 n. 47 (fonte richiamata dalle successive leggi di condono) impone al Comune competente la sua disamina e l'adozione dei provvedimenti conseguenti, di talché gli atti repressivi dell'abuso in precedenza adottati perdono efficacia, salva la necessità di una loro rinnovata adozione nell’eventualità di un successivo rigetto dell'istanza di sanatoria.
Invero, delle due l’una: o l'Amministrazione accoglie la predetta domanda e rilascia la concessione in sanatoria, con il superamento per questa via degli atti sanzionatori impugnati; oppure il Comune disattende l'istanza, respingendola, e allora esso è tenuto, in base all'art. 40, comma 1, L. n. 47 del 1985 (anche questo richiamato dall’art. 32, comma 25, del d.l. 30.09.2003 n. 269, che fa rinvio a tutte le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge n. 47), a procedere al completo riesame della fattispecie, assumendo se del caso nuovi, e questa volta conclusivi, provvedimenti sanzionatori, che a loro volta troveranno esecuzione oppure saranno oggetto di autonoma impugnativa, con conseguente cessazione immediata, anche in caso di diniego di sanatoria, di ogni efficacia lesiva da parte della primitiva ordinanza impugnata.
Di conseguenza, in presenza della richiesta di una concessione in sanatoria si deve registrare la sopravvenuta carenza d’interesse all’annullamento dell’atto sanzionatorio in relazione al quale tale domanda è stata presentata (a seconda dei casi, l’ordine di demolizione dell’abuso accertato, la riduzione in pristino dello stato dei luoghi, e/o i successivi provvedimenti di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale), con la traslazione dell’interesse a ricorrere sul futuro provvedimento che, eventualmente, abbia a respingere la domanda medesima (ad esempio, per la mancata corresponsione dell’oblazione definitivamente accertata come dovuta), e disponga nuovamente la demolizione dell’opera abusiva (C.d.S., Sez. V, 28.06.2012, n. 3821; 26.06.2007, n. 3659; 19.02.1997, n. 165; IV, 16.04.2012, n. 2185; VI, 26.03.2010, n. 1750; 07.05.2009, n. 2833; 12.11.2008, n. 5646) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.04.2013 n. 2221 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Presso la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato si registra un incontrastato orientamento, formatosi successivamente alla sentenza appellata, favorevole all’applicazione della sanzione prevista dall’art. 15 l. n. 1497/1939 a prescindere dell’esistenza di un effettivo danno ambientale.
Le giurisprudenza in discorso ha infatti precisato, in frontale contrario a quanto statuito nella sentenza appellata, che la salvezza delle sanzioni ambientali di cui all'art. 15 legge n. 1497 del 1939 disposta dall’art. 2, comma 46, legge n. 662/1996, opera anche se l'abuso edilizio sia stato ritenuto compatibile con l’assetto paesaggistico dall'autorità preposta alla tutela del vincolo, attraverso il rilascio del parere favorevole ai sensi dell’art. 32 l. n. 47/1985. Ciò in coerenza appunto con il carattere sanzionatorio e non già risarcitorio dell’istituto, confermato con norma di carattere interpretativo dalla menzionata disposizione della legge finanziaria per il 1997.
E’ stato in altri termini affermato che l’autorizzazione postuma ai fini ambientali è valevole all’esclusivo fine di perfezionare la sanatoria prevista dal più volte citato art. 13 l. n. 47/1985, ma non elide del tutto le conseguenze della violazione dell’obbligo di munirsi di tale assenso in via preventiva sancito dall’art. 7 l. n. 1497/1939.
Tale indirizzo muove dalla premessa di carattere generale, espressa dall’Adunanza generale nel parere n. 4 dell’11.04.2002, che l’autorizzazione ambientale in sanatoria non costituisce un equipollente perfetto dell’autorizzazione preventiva, giacché solo un effettivo controllo a priori degli interventi di trasformazione edilizia in aree vincolate è idoneo ad assicurare la tutela dei valori paesaggistici, cosicché, una volta nondimeno ammessa, essenzialmente per economia di mezzi, l’assentibilità postuma di tali interventivi, con l’effetto di precludere la riduzione in pristino attraverso la demolizione dell’edificio, deve comunque essere fatto salvo il potere di infliggere la sanzione pecuniaria di cui all’articolo 15 della legge n. 1497/1939, come appunto precisato dal legislatore in sede di legge finanziaria per il 1997 con il più volte citato art. 2, comma 46.

Cosi sintetizzate le contrapposte prospettazioni delle parti, deve innanzitutto darsi atto che presso la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato si registra un incontrastato orientamento, formatosi successivamente alla sentenza appellata, favorevole all’applicazione della sanzione prevista dall’art. 15 l. n. 1497/1939 a prescindere dell’esistenza di un effettivo danno ambientale (oltre alle pronunce citate dall’amministrazione appellante: sez. IV, 03.11.2003 n. 7047; 08.11.2000 n. 6007; sez. VI, 13.07.2006 n. 4420; 21.02.2001 n. 912; vanno richiamate: sez. IV, 15.11.2004, n. 7405; 05.08.2003, n. 4482; 30.06.2003, n. 3931; 12.11.2002, n. 6279; sez. VI, 03.04.2003, n. 1729; 02.06.2000 n. 3184).
Le giurisprudenza in discorso ha infatti precisato, in frontale contrario a quanto statuito nella sentenza appellata, che la salvezza delle sanzioni ambientali di cui all'art. 15 legge n. 1497 del 1939 disposta dall’art. 2, comma 46, legge n. 662/1996, opera anche se l'abuso edilizio sia stato ritenuto compatibile con l’assetto paesaggistico dall'autorità preposta alla tutela del vincolo, attraverso il rilascio del parere favorevole ai sensi dell’art. 32 l. n. 47/1985. Ciò in coerenza appunto con il carattere sanzionatorio e non già risarcitorio dell’istituto, confermato con norma di carattere interpretativo dalla menzionata disposizione della legge finanziaria per il 1997.
E’ stato in altri termini affermato che l’autorizzazione postuma ai fini ambientali è valevole all’esclusivo fine di perfezionare la sanatoria prevista dal più volte citato art. 13 l. n. 47/1985, ma non elide del tutto le conseguenze della violazione dell’obbligo di munirsi di tale assenso in via preventiva sancito dall’art. 7 l. n. 1497/1939.
Tale indirizzo muove dalla premessa di carattere generale, espressa dall’Adunanza generale nel parere n. 4 dell’11.04.2002, che l’autorizzazione ambientale in sanatoria non costituisce un equipollente perfetto dell’autorizzazione preventiva, giacché solo un effettivo controllo a priori degli interventi di trasformazione edilizia in aree vincolate è idoneo ad assicurare la tutela dei valori paesaggistici, cosicché, una volta nondimeno ammessa, essenzialmente per economia di mezzi, l’assentibilità postuma di tali interventivi, con l’effetto di precludere la riduzione in pristino attraverso la demolizione dell’edificio, deve comunque essere fatto salvo il potere di infliggere la sanzione pecuniaria di cui all’articolo 15 della legge n. 1497/1939, come appunto precisato dal legislatore in sede di legge finanziaria per il 1997 con il più volte citato art. 2, comma 46.
A questo Collegio non resta che prendere atto di tale indirizzo, visto che –come giustamente osservato dal comune di Pieve Ligure– la formulazione letterale dell’art. 2, comma 46, l. n. 662 citata, ha indubbia valenza confermativa della natura di sanzione dell’indennità risarcitoria ambientale e della sua applicabilità in ogni caso, anche dunque a quelli di nulla-osta paesaggistico ex art. 32 l. n. 47/1985 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.04.2013 n. 2216 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La dichiarazione dell'illegittimità costituzionale di una norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù, tra l’altro, della definitività dei provvedimenti amministrativi da cui esse sono sorte.
Ad opinare in senso contrario si determinerebbe l’effetto di decentrare il sindacato di costituzionalità, attraverso lo strumento della disapplicazione, dall’unico organo titolare al giudice comune.

Costituisce infatti regola di carattere generale, affermata anche da questo Consiglio di Stato (tra le altre: Sez. VI, 05.09.2005 n. 4513; sez. III, 14.03.2012, n. 1429), quella secondo cui la dichiarazione dell'illegittimità costituzionale di una norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù, tra l’altro, della definitività dei provvedimenti amministrativi da cui esse sono sorte.
Ad opinare in senso contrario, come fa la congregazione religiosa odierna appellante allorché invoca la nullità degli atti amministrativi regionali, si determinerebbe l’effetto di decentrare il sindacato di costituzionalità, attraverso lo strumento della disapplicazione, dall’unico organo titolare al giudice comune (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.04.2013 n. 2215 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: La legittimazione dei consiglieri dissenzienti ad impugnare le delibere dell’organo di cui fanno parte ha carattere eccezionale, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive, per cui esso rimane circoscritto alle ipotesi di lesione della loro sfera giuridica, quale ad esempio lo scioglimento e la nomina di un commissario ad acta, in cui detto effetto lesivo discenda ab externo rispetto all’organo di cui fa parte.
La legittimazione ad agire dei consiglieri non risiede nella deviazione dell’atto impugnato rispetto allo schema normativamente previsto, quando da essa non derivi la compressione di una prerogativa del loro ufficio protetta dall’ordinamento generale, occorrendo in ogni caso avere riguardo, a questo fine, “alla natura ed al contenuto della delibera impugnata” e non già delle norme interne relative al funzionamento dell’organo.
Conseguentemente, la contestazione dei consiglieri dissenzienti non può quindi limitarsi a censurare l'oggetto o le modalità di formazione della deliberazione senza dedurre che da esse ne sia derivata una lesione dalle loro prerogative, giacché questa non discende automaticamente da violazione di forma o di sostanza nell'adozione di un atto deliberativo.
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L’omissione o il ritardo nel fornire ai consiglieri dell’ente locale gli atti presupposti ad una proposta di delibera non costituisce lesione delle prerogative inerenti l’ufficio di consigliere comunale, rimanendo la sua tutela circoscritta in un ambito esclusivamente politico, all’interno dell’organo di cui fanno parte affidata all’espressione a verbale del proprio dissenso in quanto corollario del più generale principio sopra affermato.

Il Collegio osserva al riguardo che:
- per costante affermazione di questa Sezione, la legittimazione dei consiglieri dissenzienti ad impugnare le delibere dell’organo di cui fanno parte ha carattere eccezionale, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive, per cui esso rimane circoscritto alle ipotesi di lesione della loro sfera giuridica, quale ad esempio lo scioglimento e la nomina di un commissario ad acta, in cui detto effetto lesivo discenda ab externo rispetto all’organo di cui fa parte (così la sentenza 31.01.2001, n. 358);
- la legittimazione ad agire dei consiglieri non risiede nella deviazione dell’atto impugnato rispetto allo schema normativamente previsto, quando da essa non derivi la compressione di una prerogativa del loro ufficio protetta dall’ordinamento generale, occorrendo in ogni caso avere riguardo, a questo fine, “alla natura ed al contenuto della delibera impugnata” e non già delle norme interne relative al funzionamento dell’organo (sentenza 15.12.2005, n. 7122);
- conseguentemente, la contestazione dei consiglieri dissenzienti non può quindi limitarsi a censurare l'oggetto o le modalità di formazione della deliberazione senza dedurre che da esse ne sia derivata una lesione dalle loro prerogative, giacché questa non discende automaticamente da violazione di forma o di sostanza nell'adozione di un atto deliberativo (sentenza 29.04.2010, n. 2457).
In questa prospettiva, per venire ad una fattispecie in termini a quella oggetto del presente giudizio, si è affermato che l’omissione o il ritardo nel fornire ai consiglieri dell’ente locale gli atti presupposti ad una proposta di delibera non costituisce lesione delle prerogative inerenti l’ufficio di consigliere comunale, rimanendo la sua tutela circoscritta in un ambito esclusivamente politico, all’interno dell’organo di cui fanno parte affidata all’espressione a verbale del proprio dissenso in quanto corollario del più generale principio sopra affermato (sentenza 21.03.2012, n. 1610).
Infatti, anche nella presente fattispecie le censure formulate a questo riguardo consistono, in primo luogo, nell’approvazione della delibera senza previo esame nelle competenti commissioni consiliari e, in secondo luogo, nella mancata messa a disposizione tutti gli atti ad essa relativi, come invece previsto dal regolamento consiliare.
Peraltro, presso questa Sezione si registrano pronunce maggiormente aderenti alla posizione degli odierni appellanti, e cioè:
- la sentenza 03.03.2005, n. 832, in cui si è affermata la legittimazione dei consiglieri comunali ad impugnare la delibera di modificazione statutaria che attribuisce alla giunta poteri di disposizione delle partecipazioni nelle società controllate dall’ente comunale, sul rilievo che la sottrazione di tale oggetto alla competenza consiliare (art. 42, comma 2, lett. “e”, t.u.e.l.) sia conseguentemente lesiva delle prerogative dei componenti di tale organo;
- la sentenza 09.09.2007, n. 5280, parimenti affermativa della legittimazione del singolo consigliere nel caso di deliberazioni collegiali che investano la sua sfera giuridica o siano state adottate con violazione delle norme attinenti al relativo procedimento formativo, in modo che egli non sia posto in condizione di potere svolgere regolarmente il suo ufficio (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.04.2013 n. 2213 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Nel caso dello strumento urbanistico generale, le motivazioni relativamente alle modifiche alla zonizzazione sono ritenute necessarie solo quando in capo ad alcuni soggetti si siano consolidate situazioni obiettive, mentre in ogni altro caso in cui lo strumento urbanistico modifichi una precedente destinazione urbanistica, ciò non determina la necessità di alcuna specifica motivazione in ordine alle ragioni che hanno determinato tale modificazione, è giurisprudenza pacifica quella che, peraltro, risponde ad esigenze operative evidenti e si trova altresì inserita nella L. n. 241 del 1990, per cui gli atti a carattere generale non abbisognano di specifiche motivazioni e tale è indubbiamente il Piano regolatore generale.
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Le scelte effettuate dall'amministrazione per la destinazione delle singole aree, al momento dell'adozione del piano regolatore generale o di variante al medesimo, costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato giurisdizionale, salvo che non siano affette da errori di fatto o da abnormi illogicità.
Ciò implica, quale necessario corollario, la conseguenza per cui “trattandosi di scelte discrezionali, in merito alla destinazione di singole aree, queste non necessitano di apposita motivazione, oltre quelle che si possono evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nella impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale”.

Ci si trova al cospetto di una variante generale: per costante giurisprudenza -premesso che le motivazioni della stessa si rinvengono nelle stesse decisioni sulle tematiche prospettate dai cittadini- in simili ipotesi, non sarebbe necessaria alcuna stringente chiarificazione delle scelte effettuate (ex multis: “nel caso dello strumento urbanistico generale, le motivazioni relativamente alle modifiche alla zonizzazione sono ritenute necessarie solo quando in capo ad alcuni soggetti si siano consolidate situazioni obiettive, mentre in ogni altro caso in cui lo strumento urbanistico modifichi una precedente destinazione urbanistica (come è nella specie), ciò non determina la necessità di alcuna specifica motivazione in ordine alle ragioni che hanno determinato tale modificazione, è giurisprudenza pacifica quella che, peraltro, risponde ad esigenze operative evidenti e si trova altresì inserita nella L. n. 241 del 1990, per cui gli atti a carattere generale non abbisognano di specifiche motivazioni e tale è indubbiamente il Piano regolatore generale “ -Cons. Stato Sez. IV, 21.02.2005, n. 558).  
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Ritiene il Collegio di rimarcare sul punto che per pacifica giurisprudenza della Sezione, -la cui perdurante con divisibilità si intende ribadire in questa sede - “le scelte effettuate dall'amministrazione per la destinazione delle singole aree, al momento dell'adozione del piano regolatore generale o di variante al medesimo, costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato giurisdizionale, salvo che non siano affette da errori di fatto o da abnormi illogicità” (Cons. Stato Sez. IV, 03-08-2010, n. 5157).
Ciò implica, quale necessario corollario, la conseguenza per cui “trattandosi di scelte discrezionali, in merito alla destinazione di singole aree, queste non necessitano di apposita motivazione, oltre quelle che si possono evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nella impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale” (Cons. Stato Sez. IV Sent., 03.11.2008, n. 5478)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.04.2013 n. 2171 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Alle norme tecniche di attuazione di un Piano regolatore generale deve essere data lettura sistematica, per cui ciascuna di esse va interpretata nel contesto e nell'insieme di riferimento, ed un' interpretazione utile, per cui ciascuna di esse deve essere intesa non solo in modo che abbia un senso, ma anche, tra più possibili significati, quello maggiormente conforme a Costituzione, la quale impone vincoli espliciti e puntuali alla possibilità edificatoria dei suoli.
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L'interpretazione di un atto amministrativo a contenuto non normativo, risolvendosi nell'accertamento della volontà della p.a., ovverosia di una realtà fenomenica e obiettiva, è riservata al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e immune dalla violazione di quelle norme -in particolare, gli art. 1362, comma 2, 1363 e 1366- che, dettate per l'interpretazione dei contratti, sono applicabili anche agli atti amministrativi, tenendo peraltro conto della natura dei medesimi nonché dell'esigenza della certezza dei rapporti e del buon andamento della pubblica amministrazione.

E’ senz’altro vero infatti, e sinanco tautologico, affermare che più norme di un identico testo regolamentare debbano –tutte- trovare applicazione: ma ciò non esclude che, pur in carenza di espressa clausola escludente, ove le stesse si pongano in rapporto di ontologica incompatibilità, l’interprete debba verificare se in base agli ordinari canoni interpretativi (artt. 1362, II° co., 1363 c.c. e segg. del codice civile relativi, rispettivamente, all'interpretazione globale e sistematica del contratto, ritenuti applicabili anche in subiecta materia dalla giurisprudenza, che riconosce natura provvedimentale al piano urbanistico. Cfr., in tal senso, Cassazione civile, sez. III, 10.03.2011, n. 5700; Cassazione civile, sez. lav., 23.07.2010, n. 17367) ve ne sia una che possa essere applicata con prevalenza rispetto all’altra.
La giurisprudenza sul punto è costantemente orientata nel ritenere, infatti, che “alle norme tecniche di attuazione di un Piano regolatore generale deve essere data lettura sistematica, per cui ciascuna di esse va interpretata nel contesto e nell'insieme di riferimento, ed un' interpretazione utile, per cui ciascuna di esse deve essere intesa non solo in modo che abbia un senso, ma anche, tra più possibili significati, quello maggiormente conforme a Costituzione, la quale impone vincoli espliciti e puntuali alla possibilità edificatoria dei suoli” (Cons. di Stato 10.03.1981 n. 248; TAR Puglia Lecce, sez. I, 13.05.2004, n. 2890 e, ancora di recente TAR Lombardia Milano Sez. II, 05.07.2011, n. 1752).
La giurisprudenza di legittimità, in particolare, ha puntualmente precisato che “l'interpretazione di un atto amministrativo a contenuto non normativo, risolvendosi nell'accertamento della volontà della p.a., ovverosia di una realtà fenomenica e obiettiva, è riservata al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e immune dalla violazione di quelle norme -in particolare, gli art. 1362, comma 2, 1363 e 1366- che, dettate per l'interpretazione dei contratti, sono applicabili anche agli atti amministrativi, tenendo peraltro conto della natura dei medesimi nonché dell'esigenza della certezza dei rapporti e del buon andamento della pubblica amministrazione" (si veda Cassazione civile, sez. lav., 23.07.2010, n. 17367) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.04.2013 n. 2170 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Qualora vi sia un contrasto tra le indicazioni grafiche del piano regolatore generale e le prescrizioni normative, sono queste ultime a prevalere, in quanto in sede di interpretazione degli strumenti urbanistici le risultanze grafiche possono solo chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel testo, ma non possono sovrapporsi o negare quanto risulta da questo.
A diversa conclusione non conduce nemmeno il rilievo del primo giudice secondo cui, se si sovrappongono geometricamente le tavole dei piani particolareggiati con quelle del PRG vigente, come ha fatto il perito della società nella relazione tecnica di parte, l’area de qua esulerebbe inequivocabilmente da quelle già specificamente individuate e destinate ai singoli servizi, perché il PRG vigente avrebbe, al di là di ogni dubbio, estrapolato l’area di ben 2000 mq., di proprietà della società appellata e censita in catasto al foglio 85/A, particella 639, dal “perimetro” dell’antecedente Piano Particolareggiato e l’avrebbe inserita nell’alveo B/3-2 “di completamento”, sovrapponendovi un chiaro retino omogeneo di destinazione.
Se pure si voglia prescindere dal rilievo che la mera sovrapposizione di un retino omogeneo nella tavola grafica del PRG è un elemento troppo incerto e “debole” per desumerne, con la certezza affermata dal primo giudice, la volontà di mutare la destinazione dell’area, anche accedendo, quindi, alla tesi secondo cui nella parte grafica del PRG sarebbe stata introdotta in tal modo una variazione nel perimetro dell’area rispetto a quanto previsto dal piano particolareggiato, nondimeno sarebbe erronea la conclusione alla quale è pervenuto il primo giudice, secondo il quale nel contrasto tra parte normativa e parte grafica dello strumento urbanistico dovrebbe prevalere quest’ultima (p. 5 della sentenza impugnata).
È vero, anzi, il contrario.
La giurisprudenza di questo Consiglio è concorde nel ritenere che, laddove si evidenzi un simile contrasto, debba prevalere la parte normativa e quindi, nel caso di specie, quanto prevedono i sopra citati artt. 15 e 41 NTA del PRG, con integrale richiamo ed applicazione del piano particolareggiato.
È, infatti, principio costantemente affermato da questo Consiglio (Cons. St., sez. V, 22.08.2003 , n. 4734; Cons. St., sez. IV, 10.08.2000, n. 4462; Cons. St., sez. IV, 05.06.1998, n. 917; Cons. St., sez. V, 21.06.1995, n. 724), dalla quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, che, qualora vi sia un contrasto tra le indicazioni grafiche del piano regolatore generale e le prescrizioni normative, siano queste ultime a prevalere, in quanto in sede di interpretazione degli strumenti urbanistici le risultanze grafiche possono solo chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel testo, ma non possono sovrapporsi o negare quanto risulta da questo.
Questa stessa Sezione, in più occasioni, ha avuto modo di ribadire il principio che, nel contrasto tra normativa e segno grafico, occorre dare prevalenza alla prima (cfr., ex plurimis, sent. n. 3081 del 12.06.2007) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.04.2013 n. 2158 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La vicinitas tra fabbricati è sufficiente a integrare la legittimazione e l’interesse ad impugnare in giudizio un provvedimento che consente la realizzazione di un’opera edilizia in tesi illegittima, e il conseguente incremento del carico urbanistico della zona interessata.
Vanno innanzitutto respinte le eccezioni preliminari concernenti il ricorso di primo grado: come ha rilevato il primo giudice, la vicinitas tra fabbricati è sufficiente a integrare la legittimazione e l’interesse ad impugnare in giudizio un provvedimento che consente la realizzazione di un’opera edilizia in tesi illegittima, e il conseguente incremento del carico urbanistico della zona interessata.
Tale considerazione vale tanto più nel caso di specie, nel quale legittimazione e interesse sono riferiti alla asserita violazione delle distanze e al maggior carico urbanistico derivante dal cambio di destinazione d’uso consentito dal Comune (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.04.2013 n. 2153 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: I provvedimenti di autotutela sono manifestazione dell'esercizio di un potere tipicamente discrezionale che l'Amministrazione non ha alcun obbligo di attivare e, qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza o meno di un interesse che giustifichi la rimozione dell'atto, valutazione della quale essa sola è titolare e che non può ritenersi dovuta nel caso di una situazione già definita con provvedimento inoppugnabile.
Pertanto, una volta che il privato, o per aver esaurito i mezzi di impugnazione che l'ordinamento gli garantisce, o per aver lasciato trascorrere senza attivarsi il termine previsto a pena di decadenza, si trovi di fronte ad un provvedimento inoppugnabile a fronte del quale può solo sollecitare l'esercizio del potere da parte dell'Amministrazione, quest'ultima, a fronte della domanda di riesame, non ha alcun obbligo di rispondere.

Basti richiamare al riguardo il principio secondo cui i provvedimenti di autotutela sono manifestazione dell'esercizio di un potere tipicamente discrezionale che l'Amministrazione non ha alcun obbligo di attivare e, qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza o meno di un interesse che giustifichi la rimozione dell'atto, valutazione della quale essa sola è titolare e che non può ritenersi dovuta nel caso di una situazione già definita con provvedimento inoppugnabile; pertanto, una volta che il privato, o per aver esaurito i mezzi di impugnazione che l'ordinamento gli garantisce, o per aver lasciato trascorrere senza attivarsi il termine previsto a pena di decadenza, si trovi di fronte ad un provvedimento inoppugnabile a fronte del quale può solo sollecitare l'esercizio del potere da parte dell'Amministrazione, quest'ultima, a fronte della domanda di riesame, non ha alcun obbligo di rispondere (Cons. Stato, V, 03.05.2012, n. 2548) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.04.2013 n. 2141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'institore è titolare di una posizione corrispondente a quella di un vero e proprio amministratore, munito di poteri di rappresentanza, cosicché deve anche essere annoverato fra i soggetti tenuti alla dichiarazione ex art. 38 dlgs n. 163/2006.
Il ruolo dell'institore disegnato dall'art. 2203 c.c. quale soggetto preposto dal titolare all'esercizio di un'impresa commerciale, lo caratterizza come alter ego dell'imprenditore. L'institore, infatti, è titolare di una posizione corrispondente a quella di un vero e proprio amministratore, munito di poteri di rappresentanza, cosicché deve anche essere annoverato fra i soggetti tenuti alla dichiarazione ex art. 38 dlgs n. 163/2006.
La peculiarità del ruolo, determinata dall'ampiezza dei poteri di rappresentanza allo stesso attribuiti dalla legge, lo differenzia in modo significativo dalla diversa figura del procuratore, che, infatti, non può ritenersi tenuto a rendere la dichiarazione de qua (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.04.2013 n. 2118 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sull'illegittimità dell'utilizzazione di capitali di una società strumentale per partecipare, attraverso la creazione di una società di terzo grado, a gare ad evidenza pubblica.
L'utilizzazione di capitali di una società strumentale per partecipare, attraverso la creazione di una società di terzo grado, a gare ad evidenza pubblica comporta, sia pure indirettamente, l'elusione del divieto di svolgere attività diverse da quelle consentite a soggetti che godano di una posizione di mercato avvantaggiata.
Né può costituire valido argomento a contrario la previsione dello scorporo di attività non più consentite alle società strumentali di cui al c. 3 dell'art. 13 del "Decreto Bersani", dovendosi tale disposizione intendere nell'unico senso compatibile con il divieto imposto alle società strumentali di partecipare ad enti, sancito dal c. 1 del medesimo articolo e cioè come volta a costituire un nuovo soggetto societario, destinato a concorrere in pubbliche gare per lo svolgimento di un servizio di interesse generale, che non comporti l'intervento finanziario dell'ente strumentale.
Su tale base, è agevole affermare che la partecipazione al confronto concorrenziale mediante una partecipata (nel caso di specie al 100%) consente alla controllante di essere attiva sul mercato, ed il fatto che ciò avvenga formalmente mediante un soggetto distinto costituisce un'evidente elusione del dettato normativo. Né può sostenersi, nel caso di specie, che le società finanziarie, (categoria alla quale appartiene Finmolise s.p.a.), sono escluse dall'ambito di applicazione dell'art. 13 del d.l. 04.07.2006, n. 223, ai sensi del suo primo comma, ultima parte (le società che svolgono l'attività di intermediazione finanziaria prevista dal testo unico di cui al decreto legislativo 01.09.1993, n. 385, sono escluse dal divieto di partecipazione ad altre società o enti).
La norma richiamata infatti legittima le suddette società ad assumere partecipazioni in altre società o enti, strumento spesso indispensabile per lo svolgimento della loro attività. Il che non consente la costituzione di una società controllata stabilmente operante sul mercato, ma solo l'assunzioni di partecipazioni minoritarie e tendenzialmente temporanee (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.04.2013 n. 2084 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’art. 21-octies comma 2, l. 07.08.1990 n. 241, secondo cui il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, deve essere estensivamente interpretata ricomprendendovi anche la mancata comunicazione del preavviso di diniego ex art. 10-bis, l. n. 241, cit., che, insieme alla comunicazione di avvio del procedimento, rappresentano le garanzie partecipative del destinatario del provvedimento, con pari dignità e, necessariamente, pari trattamento.
La comunicazione di preavviso di diniego nei procedimenti ad istanza di parte deve ritenersi assoggettata alle stesse regole valevoli per la comunicazione di avvio del procedimento, con conseguente superamento del vizio formale in questione nelle ipotesi, come quella di specie, in cui il provvedimento risulti avere un contenuto vincolato o comunque tale da non poter essere diverso rispetto a quello concretamente emanato
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L’art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000 –testo unico in tema di documentazione amministrativa (che riproduce la norma previgente contenuta nell’art. 11, comma 3, D.P.R. n. 403 del 1998)– è tassativo nel disporre che, se emerga dal controllo effettuato dall’Amministrazione la non veridicità del contenuto della dichiarazione sostitutiva, il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera.
In base all’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000, la non veridicità della dichiarazione sostitutiva presentata comporta la decadenza dai benefici eventualmente conseguiti, non lasciando tale disposizione alcun margine di discrezionalità alle Amministrazioni che si avvedano della non veridicità delle dichiarazioni. Inoltre, l’art. 75, comma 1, del d. P. R. 28.12.2000, n. 445 prescinde, per la sua applicazione, dalla condizione soggettiva del dichiarante, attestandosi sul dato oggettivo della non veridicità, rispetto al quale sono irrilevanti il complesso delle giustificazioni addotte dal dichiarante.

La stessa Regione s’è, del resto, appellata, per disattendere la doglianza in esame, anche alla seconda parte del citato art. 21-octies l. 241/1990 (secondo cui il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato); e in giurisprudenza, in effetti, s’è rilevato come: “L’art. 21-octies comma 2, l. 07.08.1990 n. 241, secondo cui il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, deve essere estensivamente interpretata ricomprendendovi anche la mancata comunicazione del preavviso di diniego ex art. 10-bis, l. n. 241, cit., che, insieme alla comunicazione di avvio del procedimento, rappresentano le garanzie partecipative del destinatario del provvedimento, con pari dignità e, necessariamente, pari trattamento” (TAR Lazio-Latina, Sez. I, 21.01.2013, n. 71); cfr. anche la seguente ulteriore massima: “La comunicazione di preavviso di diniego nei procedimenti ad istanza di parte deve ritenersi assoggettata alle stesse regole valevoli per la comunicazione di avvio del procedimento, con conseguente superamento del vizio formale in questione nelle ipotesi, come quella di specie, in cui il provvedimento risulti avere un contenuto vincolato o comunque tale da non poter essere diverso rispetto a quello concretamente emanato” (TAR Campania–Napoli – Sez. III – 23.10.2012, n. 4190).
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Sta di fatto che la dichiarazione, concernente l’assenza di carichi tributari, è risultata sicuramente non veritiera (giusta quanto osservato in precedenza); e pertanto la stessa, anche in sé sola riguardata, aveva valenza tale, da determinare la revoca del finanziamento concesso, posto che, come opportunamente rilevato dalla Sezione, in sede di decisione circa l’istanza cautelare: “L’art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000 –testo unico in tema di documentazione amministrativa (che riproduce la norma previgente contenuta nell’art. 11, comma 3, D.P.R. n. 403 del 1998)– è tassativo nel disporre che, se emerga dal controllo effettuato dall’Amministrazione la non veridicità del contenuto della dichiarazione sostitutiva, il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”.
E in giurisprudenza, anche a definitivo suggello della conclusione, accolta dal Collegio, circa la natura vincolata dello stesso provvedimento impugnato, e, quindi, circa l’inutilità di qualsivoglia apporto partecipativo al riguardo, si legga la massima che segue: “In base all’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000, la non veridicità della dichiarazione sostitutiva presentata comporta la decadenza dai benefici eventualmente conseguiti, non lasciando tale disposizione alcun margine di discrezionalità alle Amministrazioni che si avvedano della non veridicità delle dichiarazioni. Inoltre, l’art. 75, comma 1, del d. P. R. 28.12.2000, n. 445 prescinde, per la sua applicazione, dalla condizione soggettiva del dichiarante, attestandosi sul dato oggettivo della non veridicità, rispetto al quale sono irrilevanti il complesso delle giustificazioni addotte dal dichiarante” (C. di S., Sez. V, sent. n. 2447 del 27.04.2012 (ud. del 14.02.2012), Po. In. ed Ar. So. Co. c. Comune di Valdagno)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 16.04.2013 n. 877 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'articolo 4 della legge n. 10/1977 ed oggi l'articolo 11 del DPR n. 380/2001 dispongono che l'atto abilitativo alla edificazione sia rilasciato "al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo".
In particolare, poi, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che il rilascio della concessione edilizia non presuppone necessariamente la proprietà del suolo da parte del soggetto istante, essendo sufficiente la disponibilità dello stesso; chiarendosi pure che il possesso del bene è riconducibile alle situazioni di legittimazione per la richiesta della concessione edilizia, alle quali , in alternativa a quella dominicale, l'art. 4 l. n. 10/1977 genericamente rinvia.

In ogni caso, anche ad ammettere la fondatezza della tesi predetta, deve rilevarsi che, come già statuito da questo Tribunale (TAR per la Campania, Sezione Staccata di Salerno, Sez. II, 17.06.2008, n. 1952), "l'articolo 4 della legge n. 10/1977 ed oggi l'articolo 11 del DPR n. 380/2001 dispongono che l'atto abilitativo alla edificazione sia rilasciato "al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo".
In particolare, poi, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che il rilascio della concessione edilizia non presuppone necessariamente la proprietà del suolo da parte del soggetto istante, essendo sufficiente la disponibilità dello stesso (cfr. Cons. Stato, V, 24.10.1996, n. 1285; IV, 31.01.1995, n. 37); chiarendosi pure che il possesso del bene è riconducibile alle situazioni di legittimazione per la richiesta della concessione edilizia, alle quali , in alternativa a quella dominicale, l'art. 4 l. n. 10/1977 genericamente rinvia (cfr. Cons. Stato, V, 18.06.1996, n. 718).
Pertanto, per affermare la legittimità della determinazione impugnata non è necessario risolvere la questione (tra l'altro pendente dinanzi al giudice civile) in ordine alla titolarità del diritto dominicale. Sufficit al riguardo la titolarità del possesso del bene…
" (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 16.04.2013 n. 876 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il servizio di c.d. "gestione calore" deve qualificarsi come un appalto di servizio strumentale all'Ente affidante, e non già come servizio pubblico locale destinato all'utenza.
Sono rimesse all'Adunanza plenaria alcune questioni sull'obbligo di apertura in seduta pubblica dei plichi contenenti le offerte tecniche.

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Il servizio definito di "energia/gestione calore", deve qualificarsi come un appalto di servizio strumentale all'Ente affidante, e non già come servizio pubblico locale destinato all'utenza. In sintesi, la natura di servizio pubblico locale va riconosciuta alle attività destinate a rendere un'utilità immediatamente percepibile ai singoli o all'utenza complessivamente considerata, che ne sopporta i costi direttamente, mediante pagamento di apposita tariffa, all'interno di un rapporto trilaterale e con assunzione del rischio di impresa da parte del gestore.
Peraltro, il servizio energia non costituisce una produzione di beni o attività rivolti a fini sociali e di promozione economica, non potendo rinvenirsi nella mera gestione del calore per gli edifici pubblici alcuna finalità sociale e promozionale.
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Sono rimesse all'Adunanza plenaria le seguenti questioni:
1) se l'obbligo di apertura in seduta pubblica dei plichi contenenti le offerte tecniche sia operativo solo per le gare indette dopo l'entrata in vigore dell'art. 12, D.L. 07.05.2012, n. 52, convertito, con modificazioni, dalla l. 06.07.2012, n. 94, ovvero se tale regola è applicabile anche per le gare indette prima di tale data;
2) se il citato art. 12 abbia salvaguardato, e quindi sanato, gli effetti delle procedure già concluse alla data del 09.05.2012 e di quelle, ancora pendenti alla detta data, nelle quali si sia già proceduto, prima della medesima data, all'apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche non in seduta pubblica;
3) se il principio positivizzato dalla decisione dell'Adunanza Plenaria n. 13/2011 (obbligo di apertura in seduta pubblica dei plichi contenenti le offerte tecniche) si applichi solo ai plichi aperti dopo il 28.07.2011, data della sua pubblicazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.04.2013 n. 1976 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La motivazione di un provvedimento è da ritenere pienamente legittima quando essa sia completa e logica in virtù degli elementi contenuti in altro atto che, in ragione del rinvio, diviene parte integrante del primo a termini dell’art. 3 della legge n. 241/1990, norma di principio generale al riguardo.
Resta fermo che il rinvio deve essere tale da rendere possibile ed agevole il controllo della motivazione attraverso l’atto richiamato per relationem che, pertanto, deve essere accessibile o, meglio, allegato.

L’appello è infondato e va respinto.
L’appellante censura per difetto di motivazione il provvedimento del Comune originariamente impugnato, perché l’Amministrazione avrebbe omesso di indicare i presupposti di fatto e le ragioni di ordine giuridico poste a fondamento dell’atto, con conseguente violazione dell’art. 3 della legge 241/1990.
La censura non è condivisibile, perché, come ritenuto dai giudici di primo grado, il Comune di Roma, in sede di adozione dell’atto, ha fatto necessariamente riferimento e si è attenuto al parere reso dal C.P.P.O., atteso che il provvedimento stesso si fonda su valutazioni di carattere medico-scientifiche e, quindi, di natura fondamentalmente tecnica che solo un organo medico legale può fornire.
Il parere reso dal C.P.P.O., risulta inoltre diffuso ed approfondito e sono ben esplicitati gli elementi che hanno supportato le conclusioni di carattere negativo cui il Comitato è pervenuto e che, per relationem, motivano adeguatamente il provvedimento del Comune.
Al riguardo, questo Consiglio di Stato ha ritenuto che la motivazione di un provvedimento è da ritenere pienamente legittima quando essa, come nel caso di specie, sia completa e logica in virtù degli elementi contenuti in altro atto che, in ragione del rinvio, diviene parte integrante del primo a termini dell’art. 3 della legge n. 241/1990, norma di principio generale al riguardo.
Resta fermo che il rinvio deve essere tale da rendere possibile ed agevole il controllo della motivazione attraverso l’atto richiamato per relationem che, pertanto, deve essere accessibile o, meglio, allegato (Cd.S.: Sez. IV, 17.12.2008, n. 6274; Sez. V, 11.01.2011, n. 68) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.04.2013 n. 1948 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 34, comma 2, del dpr 380/2001 dispone che «quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, (…), della parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale».
Tale norma deve essere interpretata nel senso che si applica la sanzione pecuniaria soltanto nel caso in cui sia “oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione. Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso.
Non possono, pertanto, venire in rilievo aspetti relativi alla “eccessiva onerosità” dell’intervento.
Se si potessero prendere in esame anche questi profili si rischierebbe di trasformare l’istituto in esame in una sorta di “condono mascherato” con incidenza negativa grave sul complessivo assetto del territorio e in contrasto con la chiara determinazione del legislatore, che ha imposto che abbia luogo la demolizione parziale, tranne il caso in cui la relativa attività materiale incida sulla stabilità dell’intero edificio, e dunque anche nell’ipotesi in cui nella parte da demolire siano stati realizzati strumenti o impianti più o meno costosi.

L’appello è fondato.
L’art. 34 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), prevede, al primo comma, che «gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell’abuso» entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio, con l’aggiunta che «decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del Comune e a spese dei medesimi responsabili dell’abuso».
Il secondo comma dispone che «quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, (…), della parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale».
La norma, da ultimo riportata, deve essere interpretata –in conformità alla natura di illecito posto in essere e alla sua valenza derogatoria rispetto alla regola generale posta dal primo comma– nel senso che si applica la sanzione pecuniaria soltanto nel caso in cui sia “oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione. Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso (cfr., con riferimento a fattispecie analoghe, Cons. Stato, V, 29.11.2012, n. 6071; Cons. Stato, V, 05.09.2011, n. 4982).
Non possono, pertanto, venire in rilievo aspetti relativi alla “eccessiva onerosità” dell’intervento.
Se si potessero prendere in esame anche questi profili si rischierebbe di trasformare l’istituto in esame in una sorta di “condono mascherato” con incidenza negativa grave sul complessivo assetto del territorio e in contrasto con la chiara determinazione del legislatore, che ha imposto che abbia luogo la demolizione parziale, tranne il caso in cui la relativa attività materiale incida sulla stabilità dell’intero edificio, e dunque anche nell’ipotesi in cui nella parte da demolire siano stati realizzati strumenti o impianti più o meno costosi.
Applicando questi principi al caso di specie, ne consegue l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui, ai fini dell’applicazione dell’art. 34 del d.p.r. n. 380 del 2001, ha attribuito rilevanza all’onerosità delle conseguenze derivanti dall’attività di ripristino dello stato dei luoghi.
Ne consegue, pertanto, la legittimità dei provvedimenti impugnati in primo grado, con i quali il Comune, accertato che la demolizione delle opere abusive non avrebbe inciso sulla stabilità del fabbricato, ha rigettato, in parte, la domanda dell’interessato volta ad ottenere la sola applicazione di una sanzione pecuniaria (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.04.2013 n. 1912 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Al proprietario del fondo vicino a quello su cui siano state realizzate nuove opere spetta il diritto di accesso a tutti gli atti abilitativi edilizi quando faccia valere –inter alia- l’interesse ad accertare il rispetto delle previsioni urbanistiche.
L’appello è fondato nei sensi di seguito specificati.
In primo luogo deve premettersi che non sembra possa negarsi in via generale la legittimazione e l’interesse da parte del professor A. all’accesso agli atti relativi ai lavori di riqualificazione inerenti un fabbricato di interesse storico ricadente nelle immediate vicinanze rispetto all’immobile di sua proprietà.
Al riguardo il Collegio –non rilevando in questa sede la portata della normativa di attuazione delle direttive comunitarie sul diritto di accesso in materia “ambientale”- ritiene di prestare adesione al consolidato orientamento (dal quale non si rinvengono nel caso in esame ragioni per discostarsi) secondo cui al proprietario del fondo vicino a quello su cui siano state realizzate nuove opere spetta il diritto di accesso a tutti gli atti abilitativi edilizi quando faccia valere –inter alia- l’interesse ad accertare il rispetto delle previsioni urbanistiche (in tal senso –ex plurimis-: Cons. Stato, IV, 04.05.2010, n. 2966; id., IV, 21.11.2006, n. 6790) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.04.2013 n. 1911 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTIIl terreno edificabile usato a fini agricoli non paga Ici. Sentenza della Ctr Lazio. L'esonero solo se è attività prevalente.
Un terreno edificabile utilizzato ai fini agricoli da un imprenditore agricolo non paga l'Ici, a condizione, tuttavia, che il proprietario del fondo sia iscritto negli appositi elenchi comunali e che il reddito conseguito dall'agricoltore, sia pure coadiuvato dalla famiglia, sia pari almeno al sessanta per cento del reddito complessivo.
Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza 09.04.2013 n. 92/21/13 emessa dalla Sez. XXI della Ctr Lazio.
Il Comune di Marino aveva notificato al contribuente, imprenditore agricolo, accertamenti Ici relativi a un terreno edificabile di cui era stata omessa la denuncia, per oltre 150 mila euro. Il contribuente ricorreva contro questi atti assumendo la sua natura di imprenditore agricolo e precisando che oltre il 60% dei suoi redditi scaturiva dall'attività agricola.
La Commissione provinciale di Roma accoglieva solo parzialmente il ricorso; i giudici di prima istanza ritenevano che il contribuente non avesse dimostrato la prevalenza dei redditi e, comunque, riducevano gli importi accertati rilevando come, di fatto, il terreno avesse una edificabilità relativa, tale da ridurre la pretesa solo del cinquanta per cento. Il contribuente aveva quindi replicato a quanto deciso dai giudici provinciali assumendo come, ai fini delle imposte dirette, i redditi agrari vadano indicati sulla base del reddito dominicale degli stessi terreni, mentre la realtà reddituale si poteva evincere dalla dichiarazione ai fini Irap (da cui si ricava che i redditi agrari sono di misura di gran lunga superiore al 60% dei redditi totali). I giudici regionali capitolini, destinatari delle doglianze dell'imprenditore agricolo, hanno annullato gli accertamenti Ici.
«Deve considerarsi», si legge nella sentenza, «adeguato elemento di prova la dichiarazione presentata ai fini Irap dal contribuente, da cui si desume che i proventi agricoli sono ampiamente superiori al 60% del reddito complessivo». Il collegio osserva che tale interpretazione risponde sia alla volontà del legislatore, sia all'interpretazione fornita dalla giurisprudenza (cassazione n. 15566/2010).
Infatti, un terreno destinato ad attività agricole, sia pure edificabile, non è soggetto a Ici quando l'utilizzatore tragga il suo maggior sostentamento dall'attività agricola e quando ricorrano le ulteriori condizioni: a) che il terreno sia posseduto da un coltivatore diretto o imprenditore agricolo, b) che sia direttamente condotto da questi (e dai suoi familiari), c) nella persistenza dell'utilizzazione agro-silvo-pastorale, mediante attività dirette alla coltivazione. Condizioni queste che, nel caso specifico, risultano rispettate (articolo ItaliaOggi del 23.04.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'obbligo per l'amministrazione di tenere conto delle osservazioni presentate a seguito della comunicazione di avvio del procedimento non impone la puntuale e analitica confutazione delle argomentazioni svolte dalla parte privata, essendo sufficiente, ai fini della giustificazione del provvedimento adottato, la motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell'atto stesso.
Non può ritenersi illegittimo un provvedimento amministrativo per mancata valutazione di una memoria inoltrata nel corso del procedimento dall’interessato nel caso in cui il provvedimento stesso dia atto espressamente atto degli scritti “difensivi” prodotti; tale circostanza vale da sé a mandare esente il provvedimento finale adottato dal vizio denunciato, posto che non incombe sull’Amministrazione l’onere di confutare in maniera analitica le osservazioni presentate
.
La disposizione di cui all'art. 10, lett. b), della L. n. 241 del 1990 impone all'amministrazione procedente di “valutare” le osservazioni, ovvero di tenerne conto e di non ignorarle.
Peraltro, come già osservato in sede cautelare, l'obbligo per l'amministrazione di tenere conto delle osservazioni presentate a seguito della comunicazione di avvio del procedimento non impone la puntuale e analitica confutazione delle argomentazioni svolte dalla parte privata, essendo sufficiente, ai fini della giustificazione del provvedimento adottato, la motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell'atto stesso (TAR Brescia Sez. I, 04.05.2012, n. 772; TAR Sardegna Sez. II, 23.02.2012, n. 181; TAR Liguria, Sez. I, 21.03.2011, n. 432; TAR Napoli, Sez. VII, 07.05.2010, n. 3072; TAR Lazio-Roma, Sez. I, 04.08.2006, n. 6950).
Ancora di recente il Consiglio di Stato ha avuto modo di ribadire tale principio, affermando che “non può ritenersi illegittimo un provvedimento amministrativo per mancata valutazione di una memoria inoltrata nel corso del procedimento dall’interessato nel caso in cui il provvedimento stesso dia atto espressamente atto degli scritti “difensivi” prodotti; tale circostanza vale da sé a mandare esente il provvedimento finale adottato dal vizio denunciato, posto che non incombe sull’Amministrazione l’onere di confutare in maniera analitica le osservazioni presentate” (Cons. Stato, sez. IV, 19.03.2013 n. 1605) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 05.04.2013 n. 425 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa pronunzia di decadenza del permesso a costruire riceve puntuale disciplina all’art. 15 comma 2, del d.lgs. n. 380 del 2001 (t.u. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia).
Si tratta di provvedimento che ha carattere strettamente vincolato all’accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dal richiamato art. 15, comma 2, (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l’inerzia del titolare a darvi attuazione.
Il provvedimento che la dichiara, ove adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato con conseguente decorrenza ex tunc.
La riconduzione entro precisi termini dell’attuazione del contenuto abilitante del permesso di costruire trova invero la sua ragione d’essere nell’esigenza che essa sia sempre conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia della porzione di territorio interessata, che può, in progressione di tempo, mutare in presenza di nuove e diverse scelte di pianificazione.
Come tutti i provvedimenti che incidono sullo jus aedificandi la pronunzia di decadenza si caratterizza per tipicità.
Essa può essere adottata in presenza dei presupposti strettamente prefigurati dalla disciplina di legge (violazione del dato temporale dell’inizio e completamento dei lavori in presenza dell’ inerzia, non assistita da giustificazione, del titolare del permesso di costruire a realizzare l’intervento) ed a tutela dell’interesse primario ad essa peculiare, di non mantenere nel tempo in vita titoli non più conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia della zona in atto (salvo l’ultrattività dell’efficacia del titolo abilitativo nel limite triennale previsto dall’art. 15, comma 4, del d.lgs., in presenza di nuove e diverse previsioni urbanistiche).
Inoltre il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore.

La pronunzia di decadenza del permesso a costruire riceve puntuale disciplina all’art. 15 comma 2, del d.lgs. n. 380 del 2001 (t.u. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia).
Si tratta di provvedimento che ha carattere strettamente vincolato all’accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dal richiamato art. 15, comma 2, (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l’inerzia del titolare a darvi attuazione (cfr. Cons. St., Sez. IV, n. 974 del 23.02.2012; n. 2915 del 2012).
Il provvedimento che la dichiara, ove adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato con conseguente decorrenza ex tunc.
La riconduzione entro precisi termini dell’attuazione del contenuto abilitante del permesso di costruire trova invero la sua ragione d’essere nell’esigenza che essa sia sempre conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia della porzione di territorio interessata, che può, in progressione di tempo, mutare in presenza di nuove e diverse scelte di pianificazione.
Come tutti i provvedimenti che incidono sullo jus aedificandi la pronunzia di decadenza si caratterizza per tipicità.
Essa può essere adottata in presenza dei presupposti strettamente prefigurati dalla disciplina di legge (violazione del dato temporale dell’inizio e completamento dei lavori in presenza dell’ inerzia, non assistita da giustificazione, del titolare del permesso di costruire a realizzare l’intervento) ed a tutela dell’interesse primario ad essa peculiare, di non mantenere nel tempo in vita titoli non più conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia della zona in atto (salvo l’ultrattività dell’efficacia del titolo abilitativo nel limite triennale previsto dall’art. 15, comma 4, del d.lgs., in presenza di nuove e diverse previsioni urbanistiche).
Inoltre il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore (Consiglio di Stato sez. IV, n. 974/2012, cit.) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 04.04.2013 n. 1870 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIVincoli. Il compenso alla società. Esclusione «automatica» se l'aggio punta più in alto rispetto al bando.
L'offerta di un aggio al rialzo non può essere presa in considerazione e comporta l'esclusione dalla gara.

Lo ha chiarito il TAR Puglia-Bari, Sez. I, con la sentenza 04.04.2013 n. 470 annullando l'aggiudicazione a una società che aveva proposto un aggio del 52,5% rispetto al 45% a base d'asta, soggetto a ribasso.
All'inizio del 2012 il Comune di Bisceglie avvia la procedura per l'affidamento del servizio di accertamento e riscossione dell'imposta sulla pubblicità e della Tosap, con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, attribuendo 75 punti all'offerta tecnica e 25 a quella economica. L'aggio all'affidatario viene distinto in due parti: riscossione ordinaria (30% a base d'asta, soggetto a ribasso), somme recuperate dall'evasione (45% a ribasso).
Una società propone per l'attività di recupero un aggio del 52,5%, nonostante lo sbarramento al 45%. La commissione esamina la posizione della ditta attribuendole circa 4 punti (su 5), a danno di un'altra società partecipante che si era invece attenuta alle prescrizioni di gara.
Nonostante l'evidente anomalia di un'offerta in aumento, il Comune procede all'aggiudicazione. A nulla valgono le contestazioni di illegittimità, essendo peraltro del tutto illogica l'attribuzione di un punteggio che finiva addirittura per premiare un concorrente che aveva violato la normativa di gara.
Il Tar prima sospende l'aggiudicazione e poi l'annulla nel merito. Sulla questione il Tar evidenzia che l'offerta al rialzo non avrebbe in ogni caso potuto risultare assegnataria di alcun punteggio. Il Comune aveva invece tentato di difendersi affermando che nel bando mancava un'espressa disposizione in ordine al divieto di presentazione di componenti dell'offerta al rialzo. Il Tar non solo non è d'accordo ma rincara la dose evidenziando che la difformità sostanziale rispetto alle condizioni di gara avrebbe dovuto comportare l'esclusione in base all'articolo 46, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici.
Peraltro, la previsione di un aggio superiore a quello massimo indicato per il recupero dell'evasione ha consentito all'aggiudicataria di offrire un aggio minore per l'attività di riscossione ordinaria, presentandosi sotto questo aspetto maggiormente concorrenziale, con conseguente distorsione della valutazione comparativa e violazione della par condicio.
In conclusione, il Tar annulla l'aggiudicazione definitiva obbligando il Comune a rinnovare le operazioni di calcolo e di aggiudicazione. Si tratta di una pronuncia che serve da monito affinché si evitino inutili ritardi negli affidamenti e un notevole dispendio economico, considerato che il Comune è stato condannato al pagamento delle spese sia della fase cautelare sia di quella di merito (articolo Il Sole 24 Ore del 22.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI SERVIZIRiscossione. La gara può imporre parametri ad hoc. Sì ai requisiti aggiuntivi per le attività di supporto.
È possibile richiedere requisiti specifici per affidare le attività di supporto alla riscossione dei tributi.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 27.03.2013 n. 1761.
La controversia riguardava la gara europea bandita dalla regione Veneto per l'affidamento dei servizi amministrativi a supporto della gestione della tassa automobilistica (avvisi di pagamento, call center, rendicontazione e archiviazione).
Tra le condizioni di accesso alla gara venivano richiesti, a pena d'esclusione, i seguenti requisiti: 1) certificazione di qualità; 2) apposito applicativo web; 3) svolgimento dei servizi nel centro storico di Venezia; 4) fatturato di 15 milioni di euro nell'ultimo triennio. Requisiti ritenuti troppo restrittivi dal Tar Veneto in quanto «sproporzionati e illogici»; di qui l'annullamento del bando di gara nella sua interezza.
La Regione Veneto però ha proposto ricorso al Consiglio di Stato, che ha ribaltato l'esito del giudizio di primo grado ritenendo invece legittime le prescrizioni.
Sulla certificazione di qualità, il contratto affida all'appaltatore delicati compiti di partecipazione all'esercizio dei poteri pubblicistici, quindi è senz'altro ragionevole individuare una soglia minima di affidabilità professionale.
È stata inoltre respinta la censura sulla sproporzionalità della clausola del bando che prevede un apposito applicativo web, non essendo dimostrata la sua inutilità. Sul luogo di svolgimento dei servizi nel centro storico di Venezia, i giudici evidenziano che le prestazioni devono essere fornite alla Regione Veneto, per cui è ragionevole la pretesa ad avere una prossimità fisica con l'appaltatore. Infine, in merito alla prescrizione sul fatturato di 15 milioni di euro nell'ultimo triennio, si tratta di un importo proporzionato al valore del contratto, non inferiore a 24 milioni di euro (senza considerare l'eventuale proroga e i servizi complementari).
Viene così confermato l'orientamento favorevole all'introduzione nei bandi di gara di requisiti più rigorosi di quelli richiesti per legge (si vedano le decisioni n. 3809/2011 e n. 4889/2012 del Consiglio di Stato), indirizzo ora esteso anche all'affidamento di attività di supporto alla riscossione dei tributi.
Andrebbe tuttavia definito per via legislativa il perimetro delle attività riservate, chiarendo se l'iscrizione all'albo ministeriale sia necessaria anche per svolgere attività complementari ed accessorie, questione spesso foriera di contenzioso e sulla quale la giurisprudenza si mostra piuttosto oscillante.
Peraltro il contrasto non riguarda solo il Consiglio di Stato (decisioni 2792/2003 e 1878/2006) ma anche la giurisprudenza più recente di primo grado, tra cui il Tar Torino con le sentenze 1335-1336/2011 e l'ordinanza 427/2012: quest'ultima afferma che per le attività di supporto è necessaria l'iscrizione all'albo nazionale (articolo Il Sole 24 Ore del 22.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALILa legge dispone che il consigliere comunale che intende dimettersi deve presentare una formale dichiarazione scritta, e deve presentarla personalmente; in alternativa l’atto può essere presentato a mezzo di un delegato, ma in tal caso sia l’atto di dimissioni, sia la delega, debbono essere autenticati; inoltre l’autenticazione della delega non deve risalire a una data anteriore più di cinque giorni.
Queste regole hanno lo scopo di garantire l’autenticità e la spontaneità dell’atto di dimissioni, e in particolare intendono prevenire il fenomeno (del quale in precedenza vi erano stati taluni esempi) di una forza politica che esiga dai propri candidati di consegnare ai dirigenti del partito un atto di dimissioni firmato con data in bianco, quale strumento di pressione per obbligare l’eletto a conformarsi alle direttive.
La regola per cui, per determinare l’autoscioglimento del consiglio, le dimissioni dei consiglieri debbono essere presentate “contestualmente” (vale a dire con unico atto sottoscritto da tutti gli interessati) ovvero con atti separati ma depositati contemporaneamente, ha lo scopo di evitare che i consiglieri di opposizione, approfittando delle dimissioni presentate occasionalmente da qualche consigliere di maggioranza per ragioni personali, si dimettano a loro volta in massa determinando così lo scioglimento del consiglio, senza che in realtà la maggioranza sia mai entrata in crisi.

Il quadro normativo nel quale si colloca la controversia appare chiaro ed esaustivo, e non dà spazio a dubbi interpretativi.
Esso è costituito essenzialmente dal testo unico enti locali (d.P.R. n. 267/2000 e s.m.) il cui art. 38, comma 8, dispone: «Le dimissioni dalla carica di consigliere, indirizzate al rispettivo consiglio, devono essere presentate personalmente ed assunte immediatamente al protocollo dell'ente nell'ordine temporale di presentazione. Le dimissioni non presentate personalmente devono essere autenticate ed inoltrate al protocollo per il tramite di persona delegata con atto autenticato in data non anteriore a cinque giorni. Esse sono irrevocabili, non necessitano di presa d'atto e sono immediatamente efficaci. Il consiglio, entro e non oltre dieci giorni, deve procedere alla surroga dei consiglieri dimissionari, con separate deliberazioni, seguendo l'ordine di presentazione delle dimissioni quale risulta dal protocollo. Non si fa luogo alla surroga qualora, ricorrendone i presupposti, si debba procedere allo scioglimento del consiglio a norma dell'articolo 141».
L’art. 141 a sua volta dispone: «1. I consigli comunali e provinciali vengono sciolti con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell'interno: (....) b) quando non possa essere assicurato il normale funzionamento degli organi e dei servizi per le seguenti cause: (....) 3) cessazione dalla carica per dimissioni contestuali, ovvero rese anche con atti separati purché contemporaneamente presentati al protocollo dell'ente, della metà più uno dei membri assegnati, non computando a tal fine il sindaco o il presidente della provincia».
Conviene approfondire brevemente la ratio di alcune di queste regole.
La legge dispone che il consigliere comunale che intende dimettersi deve presentare una formale dichiarazione scritta, e deve presentarla personalmente; in alternativa l’atto può essere presentato a mezzo di un delegato, ma in tal caso sia l’atto di dimissioni, sia la delega, debbono essere autenticati; inoltre l’autenticazione della delega non deve risalire a una data anteriore più di cinque giorni.
Queste regole hanno lo scopo di garantire l’autenticità e la spontaneità dell’atto di dimissioni, e in particolare intendono prevenire il fenomeno (del quale in precedenza vi erano stati taluni esempi) di una forza politica che esiga dai propri candidati di consegnare ai dirigenti del partito un atto di dimissioni firmato con data in bianco, quale strumento di pressione per obbligare l’eletto a conformarsi alle direttive.
La regola per cui, per determinare l’autoscioglimento del consiglio, le dimissioni dei consiglieri debbono essere presentate “contestualmente” (vale a dire con unico atto sottoscritto da tutti gli interessati) ovvero con atti separati ma depositati contemporaneamente, ha lo scopo di evitare che i consiglieri di opposizione, approfittando delle dimissioni presentate occasionalmente da qualche consigliere di maggioranza per ragioni personali, si dimettano a loro volta in massa determinando così lo scioglimento del consiglio, senza che in realtà la maggioranza sia mai entrata in crisi (Cons. di Stato, Sez. III, sentenza 27.03.2013 n. 1730 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO - VARI: Locazioni commerciali della P.A., al cessionario agibilità da garantire. Se manca è dovuto il risarcimento del danno.
Nella compravendita o nella locazione (ma lo stesso discorso vale anche per il caso di concessione onerosa in uso) di immobili destinati all'esercizio di attività commerciali il cedente ha l'obbligo di procurarne l'agibilità, la cui licenza dev'essere rimessa al cessionario al momento della consegna del bene. Si tratta di un documento relativo all'uso della cosa ceduta, e, in particolare, di un suo requisito giuridico essenziale, il quale incide sull'attitudine della stessa ad assolvere alla propria funzione economico-sociale.
Secondo il preferibile indirizzo della giurisprudenza, nella compravendita o nella locazione (ma lo stesso discorso vale, ovviamente, anche per il caso di concessione onerosa in uso) di immobili destinati all'esercizio di attività commerciali il cedente ha l'obbligo, ai sensi dell'art. 1477 c.c., di procurarne l'agibilità, la cui licenza dev'essere rimessa al cessionario al momento della consegna del bene: si tratta di documento relativo all'uso della cosa ceduta, e, in specie, di un suo requisito giuridico essenziale, il quale incide sull'attitudine della stessa ad assolvere alla propria funzione economico-sociale (fra le molte, Cassazione civile, II, 06.07.2011, n. 14899; II, 16.05.2011, n. 10756; II, 26.04.2007, n. 9976; Tribunale Monza, 31.05.2011; Tribunale Pescara, 07.04.2011, n. 568).
Di più: tenuto conto, nel caso in parola, della funzione cui il locale doveva assolvere e per la quale era dato e preso in concessione, non può non ritenersi che l'incontestata assenza dell'agibilità (rectius: del certificato e delle condizioni oggettive per il suo rilascio) incidesse decisivamente sulle caratteristiche funzionali dello stesso e, pertanto, desse luogo a una vera e propria ipotesi di aliud pro alio (Cass. Civ., 23.01.2009, n. 1701; Cass. Civ. 11.11.2008, n. 26953; Cass. Civ. 10.07.2008, 18859).
A maggior ragione ciò valeva nel caso in esame: a cedere l'immobile era difatti il Comune e, dunque, proprio il soggetto competente in materia di agibilità, nella condizione di valutare direttamente e compiutamente la sussistenza o meno dei requisiti prescritti (i quali, se insussistenti, privavano il locale, come già scritto, della propria primaria funzione economica).
Né, d'altronde, le considerazioni appena svolte risultano superabili in ragione delle clausole, contenute nel disciplinare di gara, secondo cui la ditta aggiudicataria avrebbe dovuto prendere visione del locale e richiedere le autorizzazioni amministrative e sanitarie necessarie per l'espletamento del servizio, senza poter chiamare in causa il Comune per l'eventuale loro mancato ottenimento (art. 3), non potendo le clausole medesime essere riferite a quello che, come già scritto, non era solo un presupposto per lo svolgimento dell'attività commerciale in parola ma, ancor prima, un elemento essenziale dell'oggetto del contratto.
Ciò che vuol dirsi, in altri termini, è che l'assenza delle condizioni per l'agibilità del locale -che, ragionevolmente, poteva non emergere in maniera chiara in sede di sopralluogo- rilevava ex se, incidendo sull'oggetto, sulla causa tipica o, comunque, sull'adempimento del negozio, indipendentemente dal profilo del rilascio della relativa certificazione (la quale, peraltro, neppure ha natura propriamente ed esclusivamente autorizzatoria, consistendo in un atto di accertamento che si limita ad attestare una situazione oggettiva; Tar Toscana, II, 09.05.2012, n. 903; Tar Umbria, 18.11.2010, n. 512).
Tanto scritto a proposito degli effetti che le condizioni del locale e l'assenza della sua agibilità determinavano con riguardo al sinallagma contrattuale, e, per conseguenza, ritenuta la responsabilità dell'amministrazione comunale, il Collegio ritiene, per la quantificazione del danno risarcibile, di utilizzare il procedimento delineato dall'art. 34, comma 4, c.p.a. (in cui è stato trasfuso, con generalizzazione, l'art. 35, comma 2, D.Lgs. n. 80 del 1998: "In caso di condanna pecuniaria, il giudice può, in mancanza di opposizione delle parti, stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine. Se le parti non giungono ad un accordo, ovvero non adempiono agli obblighi derivanti dall'accordo concluso, con il ricorso previsto dal Titolo I del Libro IV, possono essere chiesti la determinazione della somma dovuta ovvero l'adempimento degli obblighi ineseguiti".
In tali casi, dunque, il giudice si limita ad una condanna in ordine all'an, mentre, con riguarda al quantum, solo stabilisce i criteri cui la pubblica amministrazione deve attenersi per formulare una proposta di risarcimento al soggetto leso.
Pertanto il Collegio, affermata la responsabilità contrattuale del Comune di Lecce, lo condanna al risarcimento del danno in favore della ricorrente, da determinarsi con i seguenti criteri:
- la società 'C.C. V' fornirà al Comune la documentazione probatoria relativa alle spese sostenute e ai dedotti mancati guadagni.
- dalla data in cui tale documentazione perverrà al Comune, quest'ultimo avrà un termine di sessanta giorni per proporre alla controparte il pagamento di una somma a titolo di risarcimento, da quantificarsi:
   a) alla luce dei documenti probatori effettivamente ricevuti;
   b) tenendo conto, soltanto, delle spese documentalmente dimostrate;
   c) tenendo conto, inoltre, soltanto delle spese univocamente ed esclusivamente riferibili all'attività economica in oggetto, per come prevista e regolata dal contratto di concessione in uso e da svolgersi nel locale ivi contemplato;
   d) sottraendo dalle spese, anche pro parte, quelle recuperate con la cessione dei beni acquistati;
   e) differenziando, nel calcolo dei mancati guadagni, le diverse stagioni dell'anno;
   f) utilizzando, ancora quanto al calcolo dei mancati guadagni, criteri riferibili a realtà economiche per quanto possibile analoghe a quella de qua;
   g) aggiungendo gli interessi legali;
   h) infine riducendo la somma così ottenuta del 30%, e ciò -ex art. 1227 c.c.- in quanto, con un atteggiamento di maggior attenzione, richiedibile a un operatore professionale, il ricorrente avrebbe potuto evitare, almeno in parte, i danni subiti (a esempio acquisendo informazioni sul se e quando il locale avrebbe avuto l'agibilità ovvero rinunciando ad alcune spese prima di ottenerla);
- se la società ricorrente accetterà la proposta, dalla data dell'accettazione decorreranno, per il Comune, sessanta giorni per procedere al pagamento (altrimenti potrà farsi applicazione dell'art. 34, comma 4, citato, secondo cui: "se le parti non giungono ad un accordo, ovvero non adempiono agli obblighi derivanti dall'accordo concluso, con il ricorso previsto dal Titolo I del Libro IV, possono essere chiesti la determinazione della somma dovuta ovvero l'adempimento degli obblighi ineseguiti") (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 27.03.2013 n. 685 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAl fine di eseguire una demolizione edilizia sancita dal giudicato civile, il soggetto legittimato in forza di questo non è tenuto a richiedere al Comune la concessione edilizia; tuttavia se la richiesta viene avanzata il Comune ha l’obbligo di prontamente rilasciarla, e senza poter fare carico al richiedente di alcun onere (tecnico, materiale economico) derivante da comportamenti ad esso non imputabili.
FATTO
Con atto di citazione notificato in data, il sig. F.T. conveniva innanzi al Tribunale civile di Vibo Valentia il sig. La S.D. per avere occupato con un angolo del suo fabbricato e con tre muri di contenimento una porzione di mq. 172 della contigua proprietà dell’attore .
Con sentenza n. 462/1996 del 28.02/18.06.1996, passata in cosa giudicata, il Tribunale ha condannato il predetto La Serra alla “restituzione dei luoghi al pristino stato e alla restituzione al T. della porzione immobiliare illecitamente occupata come libera da ogni opera muraria e manufatto, mediante la demolizione, a sua cura e spese, dei muri di contenimento e della parte di fabbricato che vi ha eretto”. Il giudice civile accoglieva altresì la domanda risarcitoria dei danni, da liquidarsi in separata sede.
In sede di esecuzione del giudicato, necessaria per l’inottemperanza del La S., il giudice dell’esecuzione riteneva di dare indicazioni al ctu incaricato di chiedere al Comune di Vibo Valentia la concessione edilizia ritenuta necessaria per procedere all’esecuzione della demolizione delle opere in questione, ciò sula base del rilievo tecnico che la demolizione della parte realizzata sul suolo dell’attore avrebbe pregiudicato anche la parte legittimamente edificata sul suolo del convenuto condannato in sede civile. Detta istanza, nonostante la sua reiterazione, non aveva alcun esito presso il Comune.
...
DIRITTO
...
Sintetizzando quanto sin qui osservato, ed a regolazione della fattispecie esaminata, deve ritenersi che al fine di eseguire una demolizione edilizia sancita dal giudicato civile, il soggetto legittimato in forza di questo non è tenuto a richiedere al Comune la concessione edilizia; tuttavia se la richiesta viene avanzata il Comune ha l’obbligo di prontamente rilasciarla, e senza poter fare carico al richiedente di alcun onere (tecnico, materiale economico) derivante da comportamenti ad esso non imputabili.
Il contestato diniego della concessione è pertanto illegittimo
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.03.2013 n. 1482 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La legittimità della reiterazione dei vincoli di piano regolatore a contenuto espropriativo scaduti non può prescindere dal positivo riscontro di una duplice condizione:
per un verso, si afferma che "l'accantonamento delle somme necessarie per il pagamento dell'indennità di espropriazione è condizione di legittimità del provvedimento di reiterazione dei vincoli scaduti ai sensi dell'art. 2 l. n. 1187 del 1968, sebbene puntualmente motivato e giustificato da un evidente interesse pubblico";
per altro verso, si sottolinea come la reiterazione dei vincoli urbanistici scaduti (oggi rientrante nella previsione di cui all'art. 9 d.P.R. 08.06.2001 n. 327) non può disporsi senza svolgere una specifica indagine concreta relativa alle singole aree finalizzata a modulare e considerare le differenti esigenze, pubbliche e private, in quanto l'amministrazione nel reiterare i vincoli scaduti, è tenuta ad accertare che l'interesse pubblico sia ancora attuale e non possa essere soddisfatto con soluzioni alternative e deve indicare le concrete iniziative assunte o di prossima attuazione per soddisfarlo, nonché disporre l'accantonamento delle somme necessarie per il pagamento dell'indennità di espropriazione, per cui “l'obbligo di motivazione in materia di reiterazione dei vincoli urbanistici scaduti sussiste anche quando la reiterazione del vincolo sia disposta in occasione dell'adozione di variante generale al p.r.g.”.

La giurisprudenza più recente, anche a seguito del decisivo impulso fornito dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale (con particolare riguardo alla sentenza n. 179 del 1999, che ha affermato il principio secondo cui la reiterazione dei vincoli di piano regolatore a contenuto espropriativo scaduti deve essere accompagnata dalla previsione di un indennizzo), afferma con notevole decisione il principio per cui la legittimità della reiterazione non può prescindere dal positivo riscontro di una duplice condizione: per un verso, si afferma che "l'accantonamento delle somme necessarie per il pagamento dell'indennità di espropriazione è condizione di legittimità del provvedimento di reiterazione dei vincoli scaduti ai sensi dell'art. 2 l. n. 1187 del 1968, sebbene puntualmente motivato e giustificato da un evidente interesse pubblico" (Consiglio Stato, sez. IV, 28.07.2005, n. 4019); per altro verso, si sottolinea come la reiterazione dei vincoli urbanistici scaduti (oggi rientrante nella previsione di cui all'art. 9 d.P.R. 08.06.2001 n. 327) non può disporsi senza svolgere una specifica indagine concreta relativa alle singole aree finalizzata a modulare e considerare le differenti esigenze, pubbliche e private, in quanto l'amministrazione nel reiterare i vincoli scaduti, è tenuta ad accertare che l'interesse pubblico sia ancora attuale e non possa essere soddisfatto con soluzioni alternative e deve indicare le concrete iniziative assunte o di prossima attuazione per soddisfarlo, nonché disporre l'accantonamento delle somme necessarie per il pagamento dell'indennità di espropriazione, per cui “l'obbligo di motivazione in materia di reiterazione dei vincoli urbanistici scaduti sussiste anche quando la reiterazione del vincolo sia disposta in occasione dell'adozione di variante generale al p.r.g.” (Consiglio di Stato, sez. IV, 15.05.2000, n. 2706; in termini Consiglio di Stato, sez. IV, 07.06.2012 n. 3365) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.03.2013 n. 1465 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn ordine alla data di realizzazione di un'opera abusiva per la quale si chiede la sanatoria, l'onere della prova grava sul richiedente; ciò perché mentre l'amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, colui che richiede la sanatoria può fornire qualunque documentazione da cui possa desumersi che l'abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data predetta.
La dichiarazione sostitutiva di notorietà dell'intervenuta ultimazione delle opere entro la data di scadenza di per sé è potenzialmente idonea e sufficiente a dimostrare la data di ultimazione delle opere, ma non preclude all'Amministrazione, in sede di esame della stessa, la possibilità di raccogliere nel corso del procedimento elementi a contrario e pervenire a risultanze diverse. Quindi, il richiedente la sanatoria può avvalersi -se non vi è contestazione- della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ma a fronte di elementi di prova a disposizione dell'Amministrazione che attestino il contrario, quali il rilievo aerofotogrammetrico, è gravato dall'onere di provare, attraverso ulteriori elementi, quali fotografie aeree, fatture, sopralluoghi e così via, l'effettiva realizzazione dei lavori entro il termine previsto dalla legge per poter usufruire del beneficio.
Quanto, poi, allo specifico problema della valenza probatoria dei rilievi aerofotogrammetrici, la Giurisprudenza ha condivisibilmente ritenuto che sono soltanto gli atti formati dai pubblici ufficiali nell'esercizio delle loro funzioni ad avere particolare valenza probatoria, ma non le riprese aerofotogrammetriche del territorio comunale effettuate da una società privata.
D’altra parte, le indicazioni ricavabili dalla aerofotogrammetria del territorio sono di decisiva rilevanza ai fini della datazione dell’epoca di realizzazione del manufatto solo qualora realizzate con alta risoluzione grafica, come le elaborazioni più recenti, grazie al significativo progresso tecnologico.

La giurisprudenza afferma da tempo che, in ordine alla data di realizzazione di un'opera abusiva per la quale si chiede la sanatoria, l'onere della prova grava sul richiedente; ciò perché mentre l'amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, colui che richiede la sanatoria può fornire qualunque documentazione da cui possa desumersi che l'abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data predetta.
La dichiarazione sostitutiva di notorietà dell'intervenuta ultimazione delle opere entro la data di scadenza di per sé è potenzialmente idonea e sufficiente a dimostrare la data di ultimazione delle opere, ma non preclude all'Amministrazione, in sede di esame della stessa, la possibilità di raccogliere nel corso del procedimento elementi a contrario e pervenire a risultanze diverse. Quindi, il richiedente la sanatoria può avvalersi -se non vi è contestazione- della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ma a fronte di elementi di prova a disposizione dell'Amministrazione che attestino il contrario, quali il rilievo aerofotogrammetrico, è gravato dall'onere di provare, attraverso ulteriori elementi, quali fotografie aeree, fatture, sopralluoghi e così via, l'effettiva realizzazione dei lavori entro il termine previsto dalla legge per poter usufruire del beneficio (TAR Piemonte sez. II di Torino, 12.01.2012 n. 34; TAR Lazio Roma sez. II, 06.12.2010, n. 35404).
Quanto, poi, allo specifico problema della valenza probatoria dei rilievi aerofotogrammetrici, la Giurisprudenza ha condivisibilmente ritenuto che sono soltanto gli atti formati dai pubblici ufficiali nell'esercizio delle loro funzioni ad avere particolare valenza probatoria, ma non le riprese aerofotogrammetriche del territorio comunale effettuate da una società privata (TAR Puglia Bari sez. III, 10.11.2005 n. 4862).
D’altra parte, le indicazioni ricavabili dalla aerofotogrammetria del territorio sono di decisiva rilevanza ai fini della datazione dell’epoca di realizzazione del manufatto solo qualora realizzate con alta risoluzione grafica, come le elaborazioni più recenti, grazie al significativo progresso tecnologico.
In ogni caso, posto che l’attendibilità di tali rilievi (specie se risalenti) è condizionata da una molteplicità di fattori (tecnologici, come la maggiore o minore risoluzione, ambientali, come fenomeni di rifrazione, la presenza di vegetazione che può schermare le costruzioni, etc.), la Giurisprudenza ritiene ammissibile la prova contraria
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 07.03.2013 n. 777 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATACirca le condizioni per l'esercizio in autotutela da parte dell'Amministrazione del potere di annullamento d'ufficio, le stesse, come pacifico, sono:
a) l'illegittimità dell'atto amministrativo;
b) la sussistenza di ragioni di interesse pubblico concreto ed attuale ulteriore rispetto la mera esigenza di ripristino della legittimità violata;
c) l'esercizio del potere entro un termine ragionevole;
d) la valutazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati rispetto all'atto da rimuovere.
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Ai sensi dell'art. 21-nonies, l. 07.08.1990 n. 241 (che ha codificato un principio giurisprudenziale assolutamente pacifico e costante), l'esercizio del potere di autotutela, e quindi il concreto provvedimento di ufficio adottato dall'Amministrazione, richiede che quest'ultima, oltre ad accertare entro un termine ragionevole l'illegittimità dell'atto, deve altresì valutare la sussistenza di un interesse pubblico all'annullamento, attuale e prevalente sulle posizioni giuridiche private costituitesi e consolidatesi medio tempore, dovendosi in particolare escludere che tale interesse pubblico possa consistere nel mero ripristino della legalità violata; si conferma, quindi, la dimensione tipicamente discrezionale dell'annullamento d'ufficio che, rifuggendo da ogni automatismo, deve essere espressione di una congrua valutazione comparativa degli interessi in conflitto, dei quali occorre dare adeguatamente conto nella motivazione del provvedimento di ritiro, soprattutto ogni qualvolta la posizione del destinatario di un provvedimento amministrativo si sia consolidata, suscitando un affidamento sulla legittimità del titolo stesso.
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Per procedere all'annullamento in via di autotutela deve sussistere un interesse pubblico concreto, specifico ed attuale alla rimozione dell'atto e dei relativi effetti, comunque diverso da quello generico al reintegro dell'ordine giuridico violato e l'indagine relativa all'individuazione di tale interesse deve consistere in una comparazione tra l'interesse pubblico e quello dei privati destinatari, potendosi procedere all'annullamento allorché sia espressamente giustificato dalla sussistenza di un interesse pubblico prevalente su quello alla conservazione dello status quo che si è venuto a consolidare in capo al privato interessato a seguito del rilascio della concessione, per l'affidamento che ne è derivato.
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Con specifico riferimento alla materia dell’edilizia, la Giurisprudenza ha affermato che con l'introduzione del Capo IV-bis della legge n. 241/1990 ad opera della legge n. 15/2005, nella specie con l'art. 21-nonies, il legislatore ha, per la prima volta, dettato norme in tema di autotutela amministrativa, recependo i principi giurisprudenziali e la prassi amministrativa formatisi in assenza di una disciplina normativa.
Tra questi, la regola secondo la quale il provvedimento di annullamento in autotutela costituisce manifestazione della discrezionalità dell'Amministrazione, nel senso che essa non è obbligata a ritirare gli atti illegittimi o inopportuni in quanto tali, ma deve valutare, di volta in volta, se esista un interesse pubblico alla loro eliminazione diverso dal semplice ristabilimento della legalità violata.
Siffatto interesse pubblico non viene esplicitato a priori dalla norma, ma deve essere ricavato dalla stessa Amministrazione, caso per caso, attraverso un'attività di "comparazione tra l'interesse pubblico al ripristino della legalità e gli interessi dei destinatari del provvedimento e dei controinteressati"; il tutto, tenendo nella debita considerazione anche la circostanza che il provvedimento da annullare possa avere prodotto effetti favorevoli, valutandone la rilevanza, e che sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo (fattore di stabilizzazione) dal momento della sua emissione. Tali elementi, infatti, integrano la nozione di "stabilità della situazione venutasi a creare per effetto del provvedimento favorevole" e rappresentano, in quanto tali, un limite all'esercizio del potere di autoannullamento.
Pertanto, nella comparazione tra le esigenze sottese a un intempestivo e pregiudizievole annullamento in autotutela dell'atto e quelle sottese alla conservazione di quest'ultimo, l'Amministrazione, in forza del citato art. 21-nonies, è tenuta a optare per la soluzione che meglio contemperi la necessità del ripristino della legittimità e la salvezza degli altri interessi concorrenti. Inoltre, il vigente art. 21-nonies esclude che si possa procedere all'annullamento d'ufficio in difetto di tutti requisiti ivi individuati.
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In un provvedimento di annullamento in autotutela di una concessione edilizia, non è sufficiente affermare che l'interesse pubblico sotteso consista essenzialmente nell'ovviare alla falsa rappresentazione della realtà che il privato avrebbe, a suo tempo, fornito al Comune sulle caratteristiche dell'edificio. Ciò in quanto il presupposto per un legittimo esercizio del potere di annullamento di ufficio di una sanatoria edilizia non può ricondursi al mero ripristino della legalità, occorrendo dar conto della sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto alla rimozione del titolo edilizio.
Occorre, infine, una comparazione tra detto interesse pubblico e l'entità del sacrificio imposto all'interesse privato, tanto più quando è trascorso molto tempo e il titolare dell'interesse privato non sia più il responsabile dei fatti che hanno dato luogo all'avvio dell'autotutela, ovvero quando, in ragione del tempo trascorso, l'interessato abbia maturato un legittimo affidamento alla conservazione del bene della vita.

Venendo alle condizioni per l'esercizio in autotutela da parte dell'Amministrazione del potere di annullamento d'ufficio, le stesse, come pacifico, sono:
a) l'illegittimità dell'atto amministrativo;
b) la sussistenza di ragioni di interesse pubblico concreto ed attuale ulteriore rispetto la mera esigenza di ripristino della legittimità violata;
c) l'esercizio del potere entro un termine ragionevole;
d) la valutazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati rispetto all'atto da rimuovere.
Questa Sezione, con decisione dell’08.10.2012 n. 2327, ha affermato che ai sensi dell'art. 21-nonies, l. 07.08.1990 n. 241 (che ha codificato un principio giurisprudenziale assolutamente pacifico e costante), l'esercizio del potere di autotutela, e quindi il concreto provvedimento di ufficio adottato dall'Amministrazione, richiede che quest'ultima, oltre ad accertare entro un termine ragionevole l'illegittimità dell'atto, debba altresì valutare la sussistenza di un interesse pubblico all'annullamento, attuale e prevalente sulle posizioni giuridiche private costituitesi e consolidatesi medio tempore, dovendosi in particolare escludere che tale interesse pubblico possa consistere nel mero ripristino della legalità violata; si conferma, quindi, la dimensione tipicamente discrezionale dell'annullamento d'ufficio che, rifuggendo da ogni automatismo, deve essere espressione di una congrua valutazione comparativa degli interessi in conflitto, dei quali occorre dare adeguatamente conto nella motivazione del provvedimento di ritiro, soprattutto ogni qualvolta la posizione del destinatario di un provvedimento amministrativo si sia consolidata, suscitando un affidamento sulla legittimità del titolo stesso.
Sulla stessa linea, tra le altre, TAR Torino Piemonte sez. I, 19.12.2012 n. 1361, secondo il quale per procedere all'annullamento in via di autotutela deve sussistere un interesse pubblico concreto, specifico ed attuale alla rimozione dell'atto e dei relativi effetti, comunque diverso da quello generico al reintegro dell'ordine giuridico violato e l'indagine relativa all'individuazione di tale interesse deve consistere in una comparazione tra l'interesse pubblico e quello dei privati destinatari, potendosi procedere all'annullamento allorché sia espressamente giustificato dalla sussistenza di un interesse pubblico prevalente su quello alla conservazione dello status quo che si è venuto a consolidare in capo al privato interessato a seguito del rilascio della concessione, per l'affidamento che ne è derivato.
Con specifico riferimento alla materia dell’edilizia, la Giurisprudenza ha affermato che con l'introduzione del Capo IV-bis della legge n. 241/1990 ad opera della legge n. 15/2005, nella specie con l'art. 21-nonies, il legislatore ha, per la prima volta, dettato norme in tema di autotutela amministrativa, recependo i principi giurisprudenziali e la prassi amministrativa formatisi in assenza di una disciplina normativa. Tra questi, la regola secondo la quale il provvedimento di annullamento in autotutela costituisce manifestazione della discrezionalità dell'Amministrazione, nel senso che essa non è obbligata a ritirare gli atti illegittimi o inopportuni in quanto tali, ma deve valutare, di volta in volta, se esista un interesse pubblico alla loro eliminazione diverso dal semplice ristabilimento della legalità violata. Siffatto interesse pubblico non viene esplicitato a priori dalla norma, ma deve essere ricavato dalla stessa Amministrazione, caso per caso, attraverso un'attività di "comparazione tra l'interesse pubblico al ripristino della legalità e gli interessi dei destinatari del provvedimento e dei controinteressati"; il tutto, tenendo nella debita considerazione anche la circostanza che il provvedimento da annullare possa avere prodotto effetti favorevoli, valutandone la rilevanza, e che sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo (fattore di stabilizzazione) dal momento della sua emissione. Tali elementi, infatti, integrano la nozione di "stabilità della situazione venutasi a creare per effetto del provvedimento favorevole" e rappresentano, in quanto tali, un limite all'esercizio del potere di autoannullamento. Pertanto, nella comparazione tra le esigenze sottese a un intempestivo e pregiudizievole annullamento in autotutela dell'atto e quelle sottese alla conservazione di quest'ultimo, l'Amministrazione, in forza del citato art. 21-nonies, è tenuta a optare per la soluzione che meglio contemperi la necessità del ripristino della legittimità e la salvezza degli altri interessi concorrenti. Inoltre, il vigente art. 21-nonies esclude che si possa procedere all'annullamento d'ufficio in difetto di tutti requisiti ivi individuati (in termini, TAR Veneto Venezia, sez. II, 30.09.2010 n. 5242).
In fattispecie analoga al caso in esame, la Giurisprudenza (TAR Molise Campobasso, sez. I, 28.05.2012 n. 219) ha affermato che in un provvedimento di annullamento in autotutela di una concessione edilizia, non è sufficiente affermare che l'interesse pubblico sotteso consista essenzialmente nell'ovviare alla falsa rappresentazione della realtà che il privato avrebbe, a suo tempo, fornito al Comune sulle caratteristiche dell'edificio. Ciò in quanto il presupposto per un legittimo esercizio del potere di annullamento di ufficio di una sanatoria edilizia non può ricondursi al mero ripristino della legalità, occorrendo dar conto della sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto alla rimozione del titolo edilizio. Occorre, infine, una comparazione tra detto interesse pubblico e l'entità del sacrificio imposto all'interesse privato, tanto più quando è trascorso molto tempo e il titolare dell'interesse privato non sia più il responsabile dei fatti che hanno dato luogo all'avvio dell'autotutela, ovvero quando, in ragione del tempo trascorso, l'interessato abbia maturato un legittimo affidamento alla conservazione del bene della vita (cfr.: Cons. Stato IV, 27.11.2010 n. 8291; idem IV, 31.10.2006 n. 6465)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 07.03.2013 n. 777 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALISe l'avvocato sbaglia niente compenso. L'attività conta e deve garantire una chance di vittoria al cliente. Lo ha stabilito la suprema corte.
Avvocato pagato se garantisce almeno una chance di vittoria; non ha diritto al compenso se ha svolto attività che si rivelano a posteriori inutili per il cliente.
Con una sentenza rivoluzionaria e preoccupante per le toghe, la cassazione stravolge l'impostazione tradizionale per cui l'obbligazione professionale dell'avvocato non è un'obbligazione di risultato: in altre parole l'avvocato ha diritto ai suoi onorari anche se non può garantire un esito favorevole all'attività svolta in favore del cliente. Ma la Corte di Cassazione (sentenza 26.02.2013 n. 4781 della III Sez. civile) comincia a ribaltare il filone tradizionale e in un caso specifico non ha computato a favore del legale il valore dell'attività compiuta, considerato che la stessa si è dimostrata inutile agli interessi del cliente.
La conseguenza che si profila è che il criterio dell'utilità del cliente o almeno la chance di utilità per il cliente possa diventare un criterio discriminante il diritto al compenso, trasformando l'obbligazione dell'avvocato in una obbligazione di risultato.
Ma vediamo di analizzare la pronuncia, che può destare un certo allarme per i professionisti.
Nel caso specifico, i parenti di un uomo che ha perso la vita in un sinistro stradale hanno deciso di far causa al responsabile dell'incidente e alla sua assicurazione. Per questo motivo, si sono rivolti ad un avvocato il quale, dopo aver instaurato il processo, ha lasciato che questo venisse dichiarato estinto, per non aver notificato l'atto di citazione anche alla compagnia assicurativa, come pure avrebbe dovuto fare. Ma non solo. L'avvocato si è pure dimenticato di proporre appello contro la decisione che ha dichiarato l'estinzione.
Ne è derivata una lite, questa volta iniziata dai clienti contro gli eredi dell'ormai defunto avvocato per ottenere il risarcimento dei danni patiti a seguito degli errori commessi dal professionista.
Il tribunale civile ha dato ragione ai primi, condannando gli eredi dell'avvocato a risarcire i danni per negligenza professionale. Secondo il giudice, peraltro, gli errori commessi dal legale erano stati tali da escludere in radice ogni diritto al compenso per l'attività effettiva prestata, posto che questa non aveva prodotto nessun effetto utile per i clienti.
Nel giudizio di appello, pur essendo confermata la responsabilità professionale del legale, la decisione è stata riformata.
Secondo i giudici di secondo grado, infatti, l'unica colpa dell'avvocato sarebbe stata quella di non aver impugnato la decisione con la quale era stato dichiarato estinto il processo. Al contrario, doveva essere salvata tutta l'attività eseguita fino a quel momento: di conseguenza, si è detto che al legale (o meglio, a suoi eredi) spettava comunque il compenso per il mandato eseguito fino alla pronuncia di estinzione del processo, da portare in detrazione rispetto all'ammontare del risarcimento dovuto per la mancata impugnazione.
L'ultima parola sulla vicenda è quella della corte di cassazione, cui si sono rivolti i clienti del locale per ottenere il ribaltamento della decisione della Corte d'appello e la conferma di quella del tribunale.
Ai giudici romani è stata evidenziata l'erroneità della sentenza contestata nella parte in cui in essa non si teneva conto del fatto che i clienti del legale non avevano ricevuto nessun vantaggio dall'attività prestata dal secondo. L'aver dimenticato di notificare l'atto introduttivo del processo alla compagnia assicuratrice, infatti, aveva comportato la radicale inutilità del processo, tanto che questo si era concluso con un nulla di fatto. Da qui la richiesta di escludere l'obbligo di corrispondere agli eredi del defunto avvocato qualsiasi somma a titolo di compenso.
La Corte di cassazione, nel pronunciarsi sulla questione, ha accolto il ricorso presentato dai clienti escludendo il diritto al compenso.
Nel dettaglio, gli ermellini hanno affermato che la mancata impugnazione della decisione con la quale era stata dichiarata l'estinzione della causa assunta in rappresentanza dei clienti, aveva reso, di fatto, inutile l'intero mandato conferito al professionista. Peraltro, si è precisato, l'errore del legale risultava tale sia se l'obbligazione professionale fosse intesa come obbligazioni di risultato -quello di ottenere il risarcimento del danno per la perdita del familiare a seguito del sinistro stradale- sia come obbligazioni di mezzi, dovendosi rimproverare al professionista anche l'assenza della dovuta diligenza nell'adempiere il suo incarico (articolo ItaliaOggi Sette del 22.04.201).

EDILIZIA PRIVATA: Il possesso del titolo di legittimazione alla proposizione del ricorso per l'annullamento di una concessione edilizia, che discende dalla c.d. vicinitas, cioè da una situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato, esime da qualsiasi indagine al fine di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione.
Va premesso che il Collegio ritiene che –contrariamente a quanto sostenuto dal Comune nel proprio appello incidentale- non possa assolutamente dubitarsi della legittimazione a ricorrere in capo alla odierna parte appellante principale in adesione al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui “il possesso del titolo di legittimazione alla proposizione del ricorso per l'annullamento di una concessione edilizia, che discende dalla c.d. vicinitas, cioè da una situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato, esime da qualsiasi indagine al fine di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione“ (Cons. Stato Sez. IV, 29-08-2012, n. 4643).
Il Comune appellante incidentale con doglianza genericamente formulata e per di più articolata soltanto in grado di appello dubita della legittimazione degli appellanti principali in quanto non avrebbero provato il proprio titolo di proprietà: sennonché trattasi di eccezione proposta in grado di appello, contrastante con le allegazioni di parte rese già in primo grado, e pertanto prima che inammissibile infondata per difetto di prova (l’appellante avrebbe dovuto fornire un principio di prova, anche fondato su risultanze catastali, etc. dal quale risultasse la non titolarità da parte degli appellanti principali dell’immobile sito nel comune)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.02.2013 n. 922 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Al fine di determinare se una variante a un p.r.g. abbia carattere generale o particolare, si deve fare riferimento alle prescrizioni contenute nel provvedimento. Qualora esse incidano su ampie zone territoriali e su una molteplicità di soggetti esse hanno carattere generale e devono essere impugnate dalla data di pubblicazione dell'atto.
Nel caso in cui la variante urbanistica riguardi invece un bene specifico, incidendo direttamente su un determinato soggetto, essa ha carattere particolare e la p.a. ha l'obbligo di notificare all'interessato il provvedimento, dalla cui data decorre il termine di impugnazione dell'atto.
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Il termine per impugnare la variante che non è destinata a disciplinare l'intero territorio comunale, ma ha un contenuto particolare che incide in concreto soltanto su alcune aree, tra le quali quelle delle ricorrenti, non decorre dalla pubblicazione della delibera regionale di approvazione nel BUR e neppure dall'ultimo giorno della pubblicazione all'Albo Pretorio dell'avviso di deposito presso gli uffici comunali dei documenti relativi al piano approvato, bensì dalla data in cui risulta che le ricorrenti medesime hanno acquisito la piena conoscenza degli atti impugnati
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La variante urbanistica può rispondere ad esigenze diverse, sicché si distingue tra varianti normative, che concernono soltanto le norme di attuazione del piano regolatore generale, le varianti specifiche che riguardano soltanto una parte del territorio comunale (e rispondono quindi all'esigenza di fare fronte a sopravvenute necessità urbanistiche parziali e localizzate) e varianti generali che dettano una nuova disciplina generale dell'assetto del territorio, resesi necessarie perché il piano regolatore generale ha durata indeterminata e quindi deve essere soggetto a revisioni periodiche.
Ne consegue che è ben possibile che la variante al piano regolatore generale venga, in ragione di sopravvenuti interessi pubblici, adottata in modifica delle norme di attuazione dello stesso, tanto con portata specifica quanto con portata generale.

Quanto alle connesse argomentazioni secondo cui la impugnazione della variante sarebbe stata tempestiva avuto riguardo alla “natura” (particolare, e non generale) della stessa, rammenta il Collegio che costituisce approdo pacifico, in giurisprudenza, quello per il quale “al fine di determinare se una variante a un p.r.g. abbia carattere generale o particolare, si deve fare riferimento alle prescrizioni contenute nel provvedimento. Qualora esse incidano su ampie zone territoriali e su una molteplicità di soggetti esse hanno carattere generale e devono essere impugnate dalla data di pubblicazione dell'atto. Nel caso in cui la variante urbanistica riguardi invece un bene specifico, incidendo direttamente su un determinato soggetto, essa ha carattere particolare e la p.a. ha l'obbligo di notificare all'interessato il provvedimento, dalla cui data decorre il termine di impugnazione dell'atto” (Cons. Stato Sez. VI, 15.12.2009, n. 7963).
L’appellante equivoca sul significato di tale principio e ritiene che “soggetto interessato” sia qualunque proprietario di immobili insistenti sull’area normata pur se non direttamente contemplato dalla variante medesima. Il Collegio ben conosce il surrichiamato orientamento giurisprudenziale sul quale l’appellante principale fonda il proprio opinamento, teso a dimostrare che, se anche i vizi attingenti la variante gravata riposassero nella illegittimità della medesima (e non già nella dedotta nullità) ugualmente il gravame di primo grado diretto ad attingere quest’ultima sarebbe stato tempestivo.
Esso costituisce jus receptum nella giurisprudenza di merito, essendosi a più riprese affermato che “il termine per impugnare la variante che non è destinata a disciplinare l'intero territorio comunale, ma ha un contenuto particolare che incide in concreto soltanto su alcune aree, tra le quali quelle delle ricorrenti, non decorre dalla pubblicazione della delibera regionale di approvazione nel BUR e neppure dall'ultimo giorno della pubblicazione all'Albo Pretorio dell'avviso di deposito presso gli uffici comunali dei documenti relativi al piano approvato, bensì dalla data in cui risulta che le ricorrenti medesime hanno acquisito la piena conoscenza degli atti impugnati" (TAR Sicilia, Catania, 28.01.2002, n. 127; TAR Calabria, Catanzaro, 19.02.2004, n. 426; TAR Piemonte, sez. I, 16.03.2004, n. 417; TAR Piemonte Torino Sez. I, 19.12.2005, n. 4073).
Sennonché, da un canto, detto orientamento giurisprudenziale indicato non è traslabile alla posizione dell’appellante in quanto esso (Cons. Stato Sez. VI, Sent., 15.12.2009, n. 7963)) concerne i soggetti “direttamente interessati” dalla variante in quanto destinatari di un vincolo preordinato all’esproprio e non anche la indifferenziata collettività che dalla variante assuma ricevere un danno.
Sotto altro profilo, nel caso di specie l’appellante principale ha avversato la variante nella parte in cui essa ha modificato l’art. 77 delle NTA. Essa, pertanto, incideva su una norma di piano afferente in via di principio all’intero territorio comunale e non può pertanto definirsi “particolare”, trattandosi semmai di una variante generale a contenuto normativo (ex multis: “la variante urbanistica può rispondere ad esigenze diverse, sicché si distingue tra varianti normative, che concernono soltanto le norme di attuazione del piano regolatore generale, le varianti specifiche che riguardano soltanto una parte del territorio comunale (e rispondono quindi all'esigenza di fare fronte a sopravvenute necessità urbanistiche parziali e localizzate) e varianti generali che dettano una nuova disciplina generale dell'assetto del territorio, resesi necessarie perché il piano regolatore generale ha durata indeterminata e quindi deve essere soggetto a revisioni periodiche. Ne consegue che è ben possibile che la variante al piano regolatore generale venga, in ragione di sopravvenuti interessi pubblici, adottata in modifica delle norme di attuazione dello stesso, tanto con portata specifica quanto con portata generale” TAR Sicilia Palermo Sez. I, 27.01.2012, n. 200)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.02.2013 n. 922 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La tipica sanzione prevista per l'invalidità del provvedimento amministrativo è l'annullabilità, di applicazione giudiziale in presenza dei tre tradizionali vizi (violazione di legge, incompetenza e eccesso di potere), ora codificati sia dall'art. 21-octies, comma 1, della l. n. 241/1990, sia dall'art. 29 del Codice del processo amministrativo (n. 104/2010); la categoria della nullità assume, invece, un rilievo residuale, limitato alle ipotesi di nullità testuale (espressamente comminata da una norma di legge) e ad altri casi di gravi difetti del provvedimento, tassativamente indicati dall'art. 21-septies della legge n. 241/1990. Le cause di nullità del provvedimento amministrativo devono, quindi, oggi intendersi quale numero chiuso.
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Nel diritto amministrativo la nullità costituisce una forma speciale di invalidità, che si ha nei soli casi (oggi meglio definiti dal legislatore dopo l'entrata in vigore dell'art. 21-septies della L n. 241/1990) in cui sia specificamente sancita dalla legge, mentre l'annullabilità del provvedimento costituisce la regola generale di invalidità del provvedimento, a differenza di quanto avviene nel diritto civile dove la regola generale è quella della nullità.
La sanzione della nullità del provvedimento è stata fino a poco tempo fa prevista solo con riferimento ad ipotesi peculiari, quali ad esempio l'assunzione nel pubblico impiego senza il filtro preventivo della procedura concorsuale, mentre oggi l'art. 21-septies L. 241/1990 prevede che il provvedimento amministrativo è nullo quando: a) manchi degli elementi essenziali, b) sia viziato da difetto assoluto di attribuzione, c) sia stato adottato in violazione o elusione del giudicato ed infine d) in tutti gli altri casi espressamente previsti dalla legge. La cause di nullità del provvedimento amministrativo devono quindi oggi intendersi quale numero chiuso.

Si rammenta in proposito che per pacifica, quanto consolidata giurisprudenza amministrativa “la tipica sanzione prevista per l'invalidità del provvedimento amministrativo è l'annullabilità, di applicazione giudiziale in presenza dei tre tradizionali vizi (violazione di legge, incompetenza e eccesso di potere), ora codificati sia dall'art. 21-octies, comma 1, della l. n. 241/1990, sia dall'art. 29 del Codice del processo amministrativo (n. 104/2010); la categoria della nullità assume, invece, un rilievo residuale, limitato alle ipotesi di nullità testuale (espressamente comminata da una norma di legge) e ad altri casi di gravi difetti del provvedimento, tassativamente indicati dall'art. 21-septies della legge n. 241/1990. Le cause di nullità del provvedimento amministrativo devono, quindi, oggi intendersi quale numero chiuso” (Cons. Stato Sez. V, 02.11.2011, n. 5843).
Come osservato da avveduta giurisprudenza già in epoca immediatamente successiva alla introduzione nel sistema della categoria generale del “provvedimento amministrativo nullo”, infatti, “nel diritto amministrativo la nullità costituisce una forma speciale di invalidità, che si ha nei soli casi (oggi meglio definiti dal legislatore dopo l'entrata in vigore dell'art. 21-septies della L n. 241/1990) in cui sia specificamente sancita dalla legge, mentre l'annullabilità del provvedimento costituisce la regola generale di invalidità del provvedimento, a differenza di quanto avviene nel diritto civile dove la regola generale è quella della nullità.
La sanzione della nullità del provvedimento è stata fino a poco tempo fa prevista solo con riferimento ad ipotesi peculiari, quali ad esempio l'assunzione nel pubblico impiego senza il filtro preventivo della procedura concorsuale, mentre oggi l'art. 21-septies L. 241/1990 prevede che il provvedimento amministrativo è nullo quando: a) manchi degli elementi essenziali, b) sia viziato da difetto assoluto di attribuzione, c) sia stato adottato in violazione o elusione del giudicato ed infine d) in tutti gli altri casi espressamente previsti dalla legge. La cause di nullità del provvedimento amministrativo devono quindi oggi intendersi quale numero chiuso.
Poiché, nel caso di specie, il provvedimento di revoca dei contributi è stato emesso dall'Amministrazione competente ad adottarlo deve essere senza alcun dubbio escluso che il provvedimento possa essere considerato nullo, non essendo stato adottato da un'Amministrazione totalmente priva del potere di emanarlo
” (Cons. Stato Sez. VI, sent. n. 891 del 28-02-2006).
E’ stato di recente affermato, peraltro, armonicamente con tali principi che (persino) ”la violazione del diritto comunitario implica solo un vizio di legittimità, con conseguente annullabilità dell'atto amministrativo. L'art. 21-septies l. 07.08.1990, n. 241, introdotto dalla l. 11.02.2005, n. 15, ha posto un numero chiuso di ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo e non vi rientra la violazione del diritto comunitario” (Cons. Stato Sez. VI, 15.02.2012, n. 750) dal che, in punto di giurisdizione, ed antecedemente alla entrata in vigore del codice del processo amministrativo che all’art. 30 ha positivizzato il precetto si è fatta discendere la conseguenza per cui “l'art. 21-septies l. n. 241 del 1990, nell'individuare come causa di nullità il "difetto assoluto di attribuzione", evoca la cosiddetta carenza di potere in astratto, vale a dire l'ipotesi in cui l'Amministrazione assume di esercitare un potere che in realtà nessuna norma le attribuisce. Nel caso in cui, però, l'Amministrazione è resa dalla legge effettiva titolare del potere, ma questo viene esercitato in assenza dei suoi concreti presupposti, non si è in presenza di un difetto assoluto di attribuzione. In tal caso, dove è l'esercizio del potere ad essere viziato, ma non si pone questione di sua esistenza, il provvedimento sarà annullabile, non già nullo, quindi in grado di "degradare" la posizione del privato, dal che consegue la sussistenza della giurisdizione amministrativa" (Cons. Stato Sez. VI, 27.01.2012, n. 372)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.02.2013 n. 922 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell'edificazione si ha, per i soggetti diversi da quelli cui l'atto è rilasciato (ovvero che in esso sono comunque indicati) dalla data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica.
In materia di impugnazione del permesso di costruire, è sufficiente la cd. "vicinitas", quale elemento che distingue la posizione giuridica del ricorrente da quella della generalità dei consociati, di talché è corretto riconoscere a chi si trovi in tale situazione un interesse tutelato a ché il provvedimento dell'Amministrazione sia procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme vigenti in materia

Consolidata e condivisibile giurisprudenza ha con continuità affermato che “La decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell'edificazione si ha, per i soggetti diversi da quelli cui l'atto è rilasciato (ovvero che in esso sono comunque indicati) dalla data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica. In materia di impugnazione del permesso di costruire, è sufficiente la cd. "vicinitas", quale elemento che distingue la posizione giuridica del ricorrente da quella della generalità dei consociati, di talché è corretto riconoscere a chi si trovi in tale situazione un interesse tutelato a ché il provvedimento dell'Amministrazione sia procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme vigenti in materia" (Consiglio Stato, sez. IV, 05.01.2011, n. 18) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.02.2013 n. 922 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Transazioni, parcelle variabili. L'indeterminatezza dovuta a due posizioni contrastanti. La Cassazione spinge verso il basso gli onorari; il dm parametri invece li eleva.
Pendolo dei compensi degli avvocati a seguito di accordo bonario. Si abbassa il valore dello scaglione che serve per determinare il compenso, anche se l'esito conciliativo può portare a un aumento.

L'altalena degli onorari è sospinta verso il basso da una sentenza della Corte di Cassazione (sentenza 14.02.2013 n. 3660) e contemporaneamente verso l'alto dal decreto sui parametri per la liquidazione giudiziale dei compensi (dm 140/2012).
Secondo la sentenza della Cassazione, in una lite conclusasi con transazione, non c'è un vincitore e non c'è un perdente: ci sono due parti sullo stesso piano che si sono fatte reciproche concessioni. Conseguentemente nella determinazione degli onorari dell'avvocato la determinazione del valore della causa va compiuta conteggiando alla somma effettivamente corrisposta, e non a quella originariamente richiesta.
Le somme indicate nelle citazioni e nei ricorsi sono superate dalle successive transazioni e non possono costituire il parametro di riferimento circa la determinazione del valore del giudizio. Per la cassazione si deve ritenere più razionale e congruo tenere conto della diversa somma accettata in sede di transazione.
Stessa regola è stata dettata dalla Cassazione in un caso analogo: in tema di liquidazione degli onorari professionali a favore dell'avvocato, il principio generale secondo cui il valore della causa si determina in base alle norme del codice di procedura civile avendo riguardo all'oggetto della domanda considerato al momento iniziale della lite, trova un limite alla sua applicabilità nei casi in cui, ai momento dell'instaurazione del giudizio, non sia possibile indicare la quantificazione; ad esempio nelle controversie per risarcimento danni, per le quali, il più delle volte, la domanda di condanna è formulata con riserva di quantificazione in corso di giudizio.
Se si deve prendere a riferimento il valore della transazione finale, e non quello più alto della domanda iniziale, è evidente che la liquidazione giudiziale dei compensi subisce una decurtazione.
Quindi il livello degli onorari va verso il basso.
Quasi a compensare, va, però, sottolineato che, ai sensi del decreto ministeriale 140/2012, «quando l'affare si conclude con una conciliazione, il compenso è aumentato fino al 40% rispetto a quello altrimenti liquidabile». Quindi seppure nel scaglione relativo a un valore ridotto, il compenso può essere liquidato dal giudice computando l'incremento fino al 40%.
Il valore percentuale è un valore massimo e quindi potrebbe anche essere contenuto nei minimi termini.
Naturalmente le regole che si stanno illustrando riguardano i casi in cui l'onorario non sia stato predeterminato nel contratto tra avvocato e cliente.
La regola, nei rapporti reciproci, infatti è quella del libero mercato. A questo proposito è meglio che il legale e il proprio assistito prevedano nel contratto di incarico professionale una apposita clausola.
Seguendo le indicazioni del Consiglio nazionale forense, si può pensare a una clausola come la seguente: «In caso di accordo transattivo, oltre al compenso per l'attività effettivamente svolta, si concorda una somma pari a euro ...».
Anche per questo aspetto, l'abbandono del sistema tariffario affida al mercato e, quindi, alle parti di negoziare il compenso.
D'altro canto c'è una ragione che incentiva il professionista a stendere il contratto vincolante per il cliente: il contratto stipulato e accettato e, quindi, la clausola sui compensi in caso di transazione è vincolante anche per il magistrato.
L'articolo 1 del decreto 140/2012 prevede, infatti, che l'organo giurisdizionale che deve liquidare il compenso dei professionisti applica i parametri, ma solo in difetto di accordo tra le parti in ordine allo stesso compenso. Questo significa che il giudice deve valutare innanzitutto se sia stato stipulato un contratto valido tra le parti; in questo caso deve applicare il contratto e non può passare alla applicazione dei parametri.
L'interesse del professionista a bloccare la discrezionalità giudiziale nella determinazione del compenso è molto alto.
Si noti, infatti, che i parametri stabiliti dal decreto 140/2012 innanzitutto non sono vincolanti nemmeno per il giudice, che può discostarsene nei casi concreti; in secondo luogo i parametri sono fissati con una forbice molto ampia tra il valore più basso e il valore del maggiore incremento.
Le cose non cambiano con la legge di riforma della professione forense (legge 247/2012) che stabilisce la regola per cui il compenso spettante al professionista è pattuito di regola per iscritto all'atto del conferimento dell'incarico professionale e che la pattuizione dei compensi è libera.
Solo nel caso in cui il compenso non sia stato determinato dalle parti in forma scritta si applicheranno i parametri che dovranno essere fissati nel decreto emanato dal ministro della giustizia, su proposta del Consiglio nazionale forense, ogni due anni. Si ricorda, infine, un'altra regola prevista dalla legge di riforma forense in caso di accordo tra i litiganti: quando una controversia oggetto di procedimento giudiziale o arbitrale viene definita mediante accordi presi in qualsiasi forma, le parti sono solidalmente tenute al pagamento dei compensi e dei rimborsi delle spese a tutti gli avvocati costituiti che hanno prestato la loro attività professionale negli ultimi tre anni e che risultino ancora creditori, salvo espressa rinuncia al beneficio della solidarietà (articolo ItaliaOggi Sette del 22.04.2013).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 87, comma 4, del D.lgs. n. 259 del 2003, il deposito del parere preventivo favorevole dell’ARPA non è prescritto per la formazione dell’autorizzazione ovvero per l’inizio dei lavori, ma solo per l’attivazione dell’impianto.
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E' coerente con i principi generali dell’ordinamento nazionale e comunitario ritenere che, per effetto della disciplina sopravvenuta di cui all’art. 87 d.lgs. n. 259/2003, sia stato implicitamente abrogato, per incompatibilità, l’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 cit., nella parte in cui qualifica gli impianti di telecomunicazioni come “nuova costruzione”, richiedenti, ai sensi del successivo art. 10 DPR n. 380/2001, il previo rilascio del permesso di costruire.
Difatti, l’espressa assimilazione normativa fra le stazioni radio base e le opere di urbanizzazione primaria, statuita dall’art. 86, comma 3, del D.lgs. n. 259/2003 rende l’installazione di tali manufatti compatibile con qualunque destinazione di zona e assoggettata alle sole prescrizioni di cui all’art. 87 del D.lgs. n. 259/2003 e non anche alle previsioni generali di cui all’art. 3 del D.P.R. n. 380/2001.

Il provvedimento di diniego per l’installazione dell’impianto contiene valutazioni della conformazione della zona e della destinazione di tipo squisitamente urbanistico, articolate nei seguenti due ordini di motivi:
- l’area ove è prevista l’installazione del manufatto è destinata a “verde privato e/o mitigazione ambientale”, classificata dall’art. 75 delle n.t.a. al p.g.t. come inedifìcabile;
- la suddetta area, inoltre, è ubicata nelle immediate vicinanze di un oratorio parrocchiale e tale eventualità è espressamente indicata dal P.G.T. come circostanza ostativa.
In disparte restando le censure con cui la ricorrente lamenta la mancanza di comunicazione d’avvio del procedimento, il difetto di motivazione e la genericità dell’istruttoria, ovvero il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento, è dirimente, ai fini dell’accoglimento della domanda di annullamento, constatare come la disciplina urbanistica impressa al territorio non si opponga affatto alla installazione della stazione radio base sul sito individuato dalla ricorrente. Sono necessari alcuni spunti ricostruttivi.
Il codice delle comunicazioni elettroniche, approvato con d.lgs. 01.8.2003, n. 259, con riferimento alle infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, prevede la confluenza in un solo procedimento di tutte le tematiche rilevanti, con finale rilascio (in forma espressa o tacita) di un titolo abilitativo, qualificato come autorizzazione. La fornitura di reti e servizi di comunicazione elettronica è considerata dal legislatore di preminente interesse generale, oltre che libera (artt. 3 e 86 del D.lgs. n. 259/2003).
L’art. 86, al comma 3, recita che “Le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, di cui agli articoli 87 e 88, sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria di cui all'articolo 16, comma 7, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, pur restando di proprietà dei rispettivi operatori, e ad esse si applica la normativa vigente in materia”. L’art. 90 dispone che gli impianti in questione e le opere accessorie occorrenti per la loro funzionalità hanno “carattere di pubblica utilità”, con possibilità, quindi, di essere ubicati in qualsiasi parte del territorio comunale, essendo compatibili con tutte le destinazioni urbanistiche (residenziale, verde, agricola).
Occorre, tuttavia sottolineare che, nonostante il riconoscimento del carattere di opere di pubblica utilità e malgrado l’assimilazione ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria, le stazioni radio base di un impianto di telefonia mobile non possono essere localizzate indiscriminatamente in ogni sito del territorio comunale perché, al cospetto di rilevanti interessi di natura pubblica, come nel caso della tutela dei beni ambientali e culturali, la realizzazione dell’opera di pubblica utilità può risultare cedevole. Non a caso, il successivo comma 4 dello stesso art. 86 si affretta a stabilire che “Restano ferme le disposizioni a tutela dei beni ambientali e culturali contenute nel decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, nonché le disposizioni a tutela delle servitù militari di cui al titolo VI, del libro II, del codice dell’ordinamento militare”.
Sotto altro profilo, sempre ai sensi dell’art. 86, del D.lgs. n. 259 del 2003, l’installazione di infrastrutture viene autorizzata dagli enti locali, previo accertamento, da parte dell’organismo competente ad effettuare i controlli, di cui all’art. 14 della L. n. 22.02.2001, n. 36, della compatibilità del progetto con i limiti di esposizione, i valori di attenzione e gli obiettivi di qualità, stabiliti uniformemente a livello nazionale in relazione al disposto della l. 22.02.2001 n. 36 e relativi provvedimenti di attuazione.
Sul punto, occorre porre in evidenza che l’art. 8 della legge 22.02.2001, n. 36 (il quale nel disciplinare il riparto di competenze tra Regioni, province e comuni in materia stabilisce che “i Comuni possono adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici”), è stato interpretato nel senso che l’ente locale può senz'altro disciplinare, con proprio regolamento, l’individuazione di siti del territorio comunale interdetti all’installazione di impianti del genere di cui si discute, ma ciò può avvenire senza che la facoltà di regolamentazione si traduca in un divieto generalizzato di installazione in identificate zone urbanistiche (la stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 331/2003 ha, infatti, chiarito che nell’esercizio dei suoi poteri, il Comune non può rendere di fatto impossibile la realizzazione di una rete completa di infrastrutture per le telecomunicazioni, trasformando i criteri di individuazione, che pure il comune può fissare, in limitazioni alla localizzazione con prescrizioni aventi natura diversa da quella consentita dalla legge quadro n. 36 del 2001). Del pari, i comuni non possono introdurre limitazioni alla localizzazione che, in quanto funzionali non al governo del territorio, ma alla tutela della salute dai rischi dell’elettromagnetismo, invaderebbero la competenza che l’art. 4 della legge n. 36/2001 riserva allo Stato.
Sul versante procedimentale, ai sensi dell’art. 87, comma 4, del D.lgs. n. 259 del 2003, il deposito del parere preventivo favorevole dell’ARPA non è prescritto per la formazione dell’autorizzazione ovvero per l’inizio dei lavori, ma solo per l’attivazione dell’impianto (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 24.09.2010, n. 7128; precedentemente TAR Sicilia Palermo, sez. II, 09.01.2008, n. 9).
Tanto premesso e passando all’esame del primo “corno” della motivazione di diniego, rileva il Collegio come la stessa disciplina urbanistica, invocata dal comune resistente, contempli per il sito in questione un divieto di costruzioni per uso primario solo per il caso di opere aventi carattere edificatorio (cfr. l’art. 75 NTA, rubricato “Ambito a verde privato e/o di mitigazione ambientale”; cfr., altresì, l’art. 4.7. dello stesso PGT, il quale prevede espressamente la possibilità di installare gli impianti tecnologici, tra cui quelli telefonici, in qualsiasi zona urbanistica).
Tale assetto urbanistico, del resto, è assolutamente coerente sia con l’assimilazione ad ogni effetto (ex art. 86, comma 3, cit.) delle infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione alle opere di urbanizzazione primaria, la quale (come si è detto sopra) postula la compatibilità delle stesse con qualsiasi destinazione urbanistica; sia con la legislazione regionale che, per gli impianti radio base per la telefonia mobile di potenza totale ai connettori di antenna non superiore a 300 W, stabilisce che essi non richiedono una specifica regolamentazione urbanistica (art. 4, comma 7, della L.r. Lombardia n. 11 del 2001).
Neppure può sostenersi che l’impossibilità di assentire la tipologia di intervento in parola deriverebbe dall’espressa definizione legislativa di esso in termini di nuova edificazione. Effettivamente, il testo unico dell’edilizia (D.lgs. n. 378/2001), all’art. 3, comma 1, lett. e. 3) ed e. 4) prescrive, per “l’installazione di torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione”, espressamente catalogata come intervento di nuova costruzione, il permesso di costruire.
Tuttavia, al riguardo, è sufficiente richiamare la condivisa giurisprudenza, secondo cui è coerente con i principi generali dell’ordinamento nazionale e comunitario ritenere che, per effetto della disciplina sopravvenuta di cui all’art. 87 d.lgs. n. 259/2003, sia stato implicitamente abrogato, per incompatibilità, l’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 cit., nella parte in cui qualifica gli impianti di telecomunicazioni come “nuova costruzione”, richiedenti, ai sensi del successivo art. 10 DPR n. 380/2001, il previo rilascio del permesso di costruire (cfr. Cons. Stato. sez. VI, n. 5044 del 17.10.2008; Cons. Stato sez. VI n. 3534 del 15.6.2006; TAR Napoli sez. VII n. 2702 del 22.3.2007; TAR Lecce sez. II n. 4279 del 22.8.2006). Difatti, l’espressa assimilazione normativa fra le stazioni radio base e le opere di urbanizzazione primaria, statuita dall’art. 86, comma 3, del D.lgs. n. 259/2003 rende l’installazione di tali manufatti compatibile con qualunque destinazione di zona e assoggettata alle sole prescrizioni di cui all’art. 87 del D.lgs. n. 259/2003 e non anche alle previsioni generali di cui all’art. 3 del D.P.R. n. 380/2001 (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 14.02.2013 n. 398 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl proprietario dell'area rimborsa la bonifica.
Spetta al proprietario dell'area, sebbene non responsabile dell'inquinamento, rimborsare le spese per la bonifica dei siti contaminati effettuata dalla p.a.

Lo dice il TRIBUNALE civile di Ferrara con la
sentenza 17.01.2013 n. 65.
Un'azienda ferrarese aveva convenuto in giudizio Arpa e Equitalia Emilia Nord per proporre opposizione verso la cartella esattoriale con la quale si ingiungeva il pagamento di euro 39.659,62 per i servizi ambientali svolti da Arpa nell'area di proprietà della ditta. Aveva affermato che in seguito all'acquisto di questa area -tra i siti oggetto di bonifica- aveva siglato un accordo finalizzato al proseguimento delle indagini intraprese da Arpa nel sito in oggetto, mediante il campionamento delle acque sotterranee e del suolo.
All'esito delle verifiche Arpa aveva inviato alla ricorrente fatture con le quali le aveva addebitato i costi delle analisi effettuate nell'area, finalizzate alla bonifica della stessa. La società aveva contestato le fatture ritenendo di non essere responsabile dell'inquinamento del sito, né a titolo di dolo, né a titolo di colpa. Aveva, poi, aggiunto che l'art. 253, c. 3, dlgs 152/06 in merito alla ripartizione degli oneri per la bonifica dei siti contaminati, «stabilisce che la ripetizione delle spese, nei confronti del proprietario del sito incolpevole dell'inquinamento, può essere esercitata solo a seguito di un procedimento motivato dell'autorità competente che giustifichi l'impossibilità di accertare la identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l'impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto».
Il giudice rigetta la domanda. Il principio «chi inquina paga» può, infatti, essere invocato dal proprietario di un sito inquinato esclusivamente a sostegno dell'azione di rivalsa nei confronti dell'effettivo responsabile dell'inquinamento, ma non lo esonera dall'obbligazione pecuniaria nei confronti della p.a. conseguente alle opere di bonifica, in base al principio generale fissato dall'art. 2051 cc.
Per lo stesso principio, il giudice ha ritenuto legittima la richiesta di rimborso per le spese delle analisi di laboratorio necessarie per la caratterizzazione del sito, effettuata dall'Arpa, nei confronti del proprietario di un sito contaminato non responsabile, ma consapevole dell'inquinamento al momento dell'acquisto del terreno (articolo ItaliaOggi del 25.04.2013).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Parcheggi, in vendita ciò che resta. La corte di cassazione sulle aree del fabbricato.
Una volta raggiunta la minima percentuale di spazio-parcheggio, le altre aree del fabbricato, non costituendo pertinenza, possono essere liberamente vendute, locate o formare oggetto di altri negozi giuridici.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 16.01.2013 n. 943.
Più propriamente, l'esimio Consesso, richiamandosi a una sua precedente decisione adottata a Sezioni Unite, ha –definitivamente– chiarito che, in virtù dell'art. 18, ex lege 06.08.1967, n. 765 in materia di destinazione d'uso dei parcheggi condominiali, i «posti auto» realizzati in eccedenza rispetto alla superficie minima normativamente richiesta non sono soggetti a vincolo pertinenziale a favore delle unità immobiliari del fabbricato.
Una decisione, questa, peraltro già consacrata in due precedenti «interventi», i quali –a loro volta e, nello specifico,– hanno, chiaramente, concluso per la non estensibilità delle aree eccedenti la percentuale contemplata dal succitato art. 18, ragion per cui la cessione in proprietà delle aree stesse in favore degli occupanti delle unità abitative di cui si compone il plesso condominiale è da ritenersi esclusa. Del resto, anche la dottrina è unanime nell'inquadrare i parcheggi che eccedono lo standard vincolistico tra quelli a cd. «circolazione libera».
È, quindi, pacifico che l'originario proprietario-costruttore del fabbricato potrà, legittimamente, riservarsi o cedere a terzi la proprietà dei parcheggi de quibus, ovviamente nel rispetto del vincolo di destinazione nascente da atto d'obbligo (articolo ItaliaOggi del 25.04.2013).

AGGIORNAMENTO AL 22.04.2013

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L'INTERROGATIVO DELLA SETTIMANA: per demolire un fabbricato occorre un titolo edilizio abilitativo dell'U.T.C. ??

     Può sembrare, di primo acchito, una domanda banale ma, a nostro parere, così non è ...  e vediamo il perché.
     On-line è reperibile un unico pronunciamento giurisprudenziale sull'argomento ovverosia la sentenza 16.06.2011 n. 24423 della Corte di Cassazione, Sez. III penale, la quale -in maniera non condivisibile, anche perché non entra nel merito della questione e, quindi, nulla chiarisce- ha così statuito: "Va rilevato che può ritenersi indubbiamente controversa, allo stato, in assenza di un più puntuale accertamento, la natura dei titoli abilitativi necessari per l'esecuzione degli interventi di cui alla contestazione, dovendosi, però, precisare che la valutazione sul punto appartiene al giudice ordinario.
E' stato, infatti, affermato da questa Corte che la semplice demolizione di un manufatto non integra il reato di cui al D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, comma 1, lett. b), in quanto per tale tipo di intervento è sufficiente la denuncia di inizio attività, la cui mancanza costituisce illecito amministrativo (sez. 3, 4.10.2007 n. 4098 del 2008, Pignata, RV 238522)
".
     E sulla sentenza de qua si può anche trovare, sempre on-line, un (solo) commento, assai persuasivo nella tesi ivi prospettata, che è questo: M. Grisanti, Occorre sempre il permesso di costruire per la demolizione di un edificio esistente (nota critica alla sentenza n. 24423/2011 della III Sez. penale della Corte di Cassazione) (10.01.2012 - link a www.lexambiente.it).
     Il problema, in estrema sintesi, sta in questi termini:
► ad oggi, l'intervento edilizio di (sola) demolizione non è direttamente qualificato (giuridicamente) e riscontrabile né nel D.P.R. n. 380/2001 né nella L.R. n. 12/2005;
► se non è possibile qualificare l'intervento edilizio de quo, siccome previsto dalla legge statale e regionale [lettere a), b) c), d), e), f) rispettivamente dell'art. 3, comma 1,  DPR n. 380/2001 e dell'art. 27, comma 1, L.R. n. 12/2005],
come si fa a stabilire se per intraprendere la demolizione in questione preliminarmente necessiti -o meno- presentare la comunicazione ex art. 6 DPR 380/2001
oppure la richiesta di permesso di costruire oppure la D.I.A. (alternativa in tutto al permesso di costruire, qui in Lombardia)?? Oppure, paradossalmente, non occorre alcun titolo edilizio abilitativo??
► ma demolire un fabbricato senza alcun titolo edilizio abilitativo ci sembra un azzardo ... e, allora, vuoi vedere che ha ragione il commentatore M. Grisanti e che siamo obbligati a classificare l'intervento edilizio procedendo per esclusione tra quelli codificati dal legislatore e, quindi, si perviene alla conclusione che la demolizione (fine a sé stessa) è da classificare quale "intervento di nuova costruzione" ex art. 3, comma 1, lett. e), del DPR n. 380/2001?? Peccato, però, che non si trovi la corrispondenza in una delle relative n. 7 sub-lettere che paiono essere esaustive ...
► e c'è dell'altro: in Lombardia -relativamente ai 500 e più comuni senza il P.G.T. approvato entro lo scorso 31.12.2012- dal 1° gennaio di quest'anno si possono autorizzare esclusivamente gli interventi edilizi di cui all'art. 25, comma 4-bis, della L.R. 12/2005 il cui comma integrale così recita: "
1-quater. Nei comuni che entro il 31.12.2012 non hanno approvato il PGT, dal 1° gennaio 2013 e fino all’approvazione del PGT, fermo restando quanto disposto dall’articolo 13, comma 12 e dall’articolo 26, comma 3-quater, sono ammessi unicamente i seguenti interventi:
a) nelle zone omogenee A, B, C e D individuate dal previgente PRG,
interventi sugli edifici esistenti nelle sole tipologie di cui all’articolo 27, comma 1, lett. a), b) e c);
b) nelle zone omogenee E e F individuate dal previgente PRG, gli interventi che erano consentiti dal medesimo PRG o da altro strumento urbanistico comunque denominato;
c) gli interventi in esecuzione di piani attuativi approvati entro la data di entrata in vigore della legge recante (Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica e integrazione di disposizioni legislative - Collegato ordinamentale 2013), la cui convenzione, stipulata entro la medesima data, è in corso di validità.
".
Orbene, se in forza del disposto di cui alla suddetta lett. a) è possibile assentire solamente gli interventi di
manutenzione ordinaria, gli interventi di manutenzione straordinaria e degli interventi di restauro e di risanamento conservativo
e se non si è in grado di qualificare l'intervento di demolizione, risulta palese la difficoltà nel rispondere compiutamente -a' rigorosi termini di legge- all'interrogativo che ci siamo posti e cioè: "Per demolire un fabbricato occorre un titolo edilizio abilitativo dell'U.T.C. ??".

QUINDI ??

     Quindi, se c'è qualcuno (soprattutto avvocati, che sappiamo essere lettori numerosi di questo portale) che ha avuto problematiche del genere trattate dal TAR e/o dal Consiglio di Stato e/o dal giudice ordinario -laddove è stata fatta chiarezza sulla questione qui dibattuta- gli chiediamo, cortesemente, di darcene notizia inviandoci una mail cliccando esclusivamente qui: info.ptpl@tiscali.it ... e lo ringraziamo già sin d'ora.
     Se avremo riscontri positivi ne daremo prontamente notizia "su questi schermi" a vantaggio di tutti.
22.04.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALI: Gli assessori stiano al loro posto. Illegittime le delibere di giunta sotto forma di direttiva. Per il Consiglio di stato si tratta di un'indebita ingerenza sulle competenze dei dirigenti.
Le deliberazioni con cui le giunte individuano i contraenti, anche se fatte nella forma della direttiva, sono illegittime in quanto violano il principio della distinzione delle competenze tra organi di governo e dirigenti. Questi provvedimenti non possono essere successivamente sanati in modo generico, ma solamente attraverso una specifica e ampiamente motivata convalida.
Sono queste le indicazione di maggiore rilievo contenute nella sentenza 27.03.2013 n. 1775 del Consiglio di Stato, Sez. V.
La pronuncia ha un notevole rilievo in quanto stabilisce un chiaro argine alla invadenza degli organi di governo, che attraverso la utilizzazione dello strumento della direttiva entrano spesso nel merito delle scelte gestionali. La direttiva degli organi politici è legittima se rimane nell'alveo delle indicazioni di carattere generale.
La sentenza ricorda in premessa che «il criterio discretivo tra attività di indirizzo e di gestione degli organi della p.a. è rinvenibile nella estraneità della prima al piano della concreta realizzazione degli interessi pubblici che vengono in rilievo, esaurendosi nella indicazione degli obiettivi da perseguire e delle modalità di azione ritenute congrue a tal fine».
La direttiva è da considerare illegittima per la lesione del principio della distinzione delle competenze tra organi di governo e dirigenti nel caso in cui in concreto «il responsabile del servizio nulla avrebbe potuto fare di diverso dopo la delibera suddetta e non avrebbe potuto porre in essere alcun atto di gestione, atteso che gli è stata imposta la già effettuata scelta di un dato contraente (che è atto di gestione, non costituendo, a prescindere dalla terminologia usata, fissazione di linee generali e di scopi da perseguire), demandandogli solo il compito di liquidare la spesa».
In questi casi «l'atto di giunta costituiva invero, in concreto, atto di vera e propria gestione, a prescindere dalla solo formale qualificazione dello stesso quale atto di indirizzo gli atti di gestione includono funzioni dirette a dare adempimento ai fini istituzionali posti da un atto di indirizzo o direttamente dal legislatore, oppure includono determinazioni destinate ad applicare, pure con qualche margine di discrezionalità, criteri predeterminati per legge, mentre attengono alla funzione di indirizzo gli atti più squisitamente discrezionali, implicanti scelte di ampio livello».
È molto importante anche il giudizio sulla «inapplicabilità dell'istituto della convalida agli atti posti in essere dal responsabile successivamente alla adozione della deliberazione impugnata. Ai sensi dell'art. 21-nonies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, che fa salva la possibilità del ricorso all'istituto della convalida (in cui è compresa anche la ratifica) del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole, l'Amministrazione ha il potere di convalidare o ratificare un provvedimento viziato. L'atto di convalida deve contenere una motivazione espressa e persuasiva in merito alla sua natura e in punto di interesse pubblico alla convalida, essendo insufficiente la semplice e formale appropriazione da parte dell'organo competente all'adozione del provvedimento, in assenza dell'esternazione delle ragioni di interesse pubblico giustificatrici del potere di sostituzione e della presupposta indicazione, espressa, della illegittimità per incompetenza in cui sarebbe incorso l'organo che ha adottato l'atto recepito in via sanante è necessario che emergano chiaramente dall'atto convalidante le ragioni di interesse pubblico e la volontà dell'organo di assumere tale atto» (articolo ItaliaOggi del 19.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 19.04.2013 n. 92 "Termini di riavvio progressivo del Sistri" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 20.03.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 19.04.2013 n. 92 "Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’articolo 1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190" (D.Lgs. 08.04.2013 n. 39).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 16 del 16.04.2013, "Istituzione delle Commissioni consiliari permanenti della X legislatura" (deliberazione C.R. 09.04.2013 n. 5).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Lombardia - PGT, la Giunta propone come scadenza il 30.06.2014.
La Giunta regionale ha approvato la proposta di Progetto di legge che riguarda i Comuni della Lombardia che si trovano nella situazione di aver solo avviato (218) o adottato (337) il Piano di governo del territorio (Pgt).
Il documento, presentato dall'assessore al Territorio, Urbanistica e Difesa del suolo Viviana Beccalossi, prevede che questi Comuni regolarizzino la loro situazione e indica nella data del 30.06.2014 il termine ultimativo per concludere le procedure.
Il Progetto di legge prevede altresì che, qualora lo ritengano necessario, i Comuni possano contare sul sostegno e la collaborazione dei tecnici della Regione o della loro Provincia per redigere il Pgt.
SUPPORTO TECNICO - Il Progetto di legge sarà differenziato secondo il 'grado' di avanzamento dell'iter del PGT dei Comuni. L'iter prevede, infatti, una prima fase di avviamento, l'approvazione e l'adozione. Terminati questi passaggi, il Piano di governo del territorio, che riguarda i 1.544 Comuni lombardi, può considerarsi effettivo.
UNIFORMITÀ DI METODO - "A tale proposito -ha sottolineato l'assessore Beccalossi- ho ritenuto importante e doveroso incontrare subito e personalmente gli assessori provinciali che si occupano di questa materia, per condividere un percorso, che abbia nella concretezza il motivo portante del nostro lavoro. Così come mi sono confrontata con l'Anci, l'Associazione nazionale Comuni italiani e con l'Ance, l'Associazione nazionale Costruttori edili, che hanno valutato positivamente il modo di procedere. Il nostro obiettivo principale è di regolarizzare la situazione complessiva e dotare tutti i Comuni di uno strumento di pianificazione moderno e omogeneo".
Ora il provvedimento passa al vaglio del Consiglio regionale, che dovrà valutarlo e approvarlo definitivamente.
NUOVA LINFA ALL'ECONOMIA - "Questa proposta -ha concluso l'assessore Beccalossi-, in un periodo di grave crisi come quello che stiamo vivendo, ha anche una valenza economica. Infatti nei Comuni interessati sarà possibile porre in essere una serie di interventi fino a oggi bloccati, che daranno una boccata d'ossigeno ai settori produttivi di competenza e al relativo indotto che gli stessi potranno generare sui singoli territori" (... continua) (16.04.2013 - link a www.territorio.regione.lombardia.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, Occorre sempre il permesso di costruire per la demolizione di un edificio esistente (nota critica alla sentenza n. 24423/2011 della III Sez. penale della Corte di Cassazione) (10.01.2012 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: F. Zambelli, Denuncia Inizio Attività Edilizia – Aspetti Giuridici (26.06.2009 - tratto da www.ztlex.com).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

INCARICHI PROFESSIONALIFondazioni in gara. Si applica il codice dei contratti. Delibera Avcp sugli enti degli ordini professionali.
Le Fondazioni degli ordini professionali sono tenute ad applicare il Codice dei contratti pubblici e non possono procedere con affidamenti diretti di incarichi di formazione ad un unico soggetto terzo, senza aprire alla libera concorrenza gli affidamenti esterni.

È quanto afferma l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici con la deliberazione 06.02.2013 n. 4, che ha esaminato l'operato della Fondazione per la formazione forense di Firenze, organo stabile dell'Ordine degli avvocati di Firenze, che negli anni (dal 2006 al 2011) avrebbe proceduto ad affidare ad una società privata incarichi per un importo complessivo di circa 740 mila euro.
Un primo punto trattato dall'Autorità era quello dell'applicazione alle Fondazioni delle norme del Codice dei contratti. Assunto come elemento di base che è «dato pacifico in dottrina e giurisprudenza che gli ordini professionali siano organismi di diritto pubblico rientranti nella vasta gamma degli enti pubblici non territoriali», la delibera afferma che anche le Fondazioni costituite degli ordini devono essere annoverate nella stessa categoria in quanto la loro attività risulta finanziata in modo maggioritario dagli ordini professionali che, peraltro, esercitano anche un controllo maggioritario (se non totale) su di esse.
Tali Fondazioni sono quindi senz'altro assoggettate al Codice dei contratti pubblici. Dal punto di vista delle procedure da applicare l'Autorità non ritiene giustificabile il ricorso ad affidamenti in via diretta di importo inferiore a 20 mila euro con una presunta «impossibilità di programmare in modo unitario e preventivo gli eventi formativi». L'Authority «non comprende quale specificità contraddistingua tali affidamenti rispetto a tutti gli altri, tanto da rendere impossibile l'individuazione del loro valore economico complessivo». Viceversa la Fondazione avrebbe dovuto calcolare un valore globale del contratto e applicare la procedura conseguente (certamente non quella in via diretta).
Infine l'Autorità segnala che, comunque, «è censurabile» instaurare un «rapporto privilegiato» con un unico soggetto dato l'interesse potenziale di una platea indistinta di operatori economici rispetto agli affidamenti di formazione esternalizzati: nello specifico sarebbe stato «quantomeno opportuno adottare procedure atte a garantire il libero gioco della concorrenza» (articolo ItaliaOggi del 18.04.2013).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGOPersonale degli enti locali. Assenza per testimonianza.
Nel caso di dipendente chiamato a rendere testimonianza giudiziale, lo stesso deve essere considerato in servizio solo qualora la deposizione sia resa nell'interesse dell'ente di appartenenza, riferendosi a 'fatti inerenti al servizio'. In caso contrario, il dipendente dovrà utilizzare altri istituti, quali ferie o permesso a recupero.      
Il Comune chiede un parere in ordine alle assenze effettuate da dipendente per rendere testimonianza giudiziale, in determinate e diverse fattispecie.
Premesso che il diritto del pubblico dipendente di assentarsi per rendere testimonianza (diritto correlato, peraltro, ad un preciso dovere in capo al soggetto intimato, cui non è ammissibile sottrarsi
[1]) è incontestabile, si osserva che, secondo l'ARAN, il pubblico dipendente deve essere considerato in servizio solo nel caso in cui si assenti per rendere testimonianza 'nell'interesse dell'ente' di appartenenza.
In materia di assenze per testimonianza giudiziale, la citata Agenzia ha infatti precisato che, qualora la deposizione non sia svolta nell'interesse dell'amministrazione, l'assenza andrà imputata, secondo autonomo giudizio del dipendente, a ferie, permesso a recupero o permesso per particolari motivi personali
[2] .
Per quanto concerne l'interpretazione della locuzione 'nell'interesse dell'amministrazione', la cui formulazione non appare chiara, si ritiene utile richiamare l'art. 48 del d.p.r. 115/2002, che disciplina il rimborso spese e le indennità spettanti ai dipendenti pubblici chiamati a rendere testimonianza 'per fatti inerenti al servizio'.
La citata disposizione
[3], la quale riguarda espressamente le testimonianze 'per fatti inerenti al servizio', prevede, nel caso di dipendenti pubblici, la corresponsione da parte dell'amministrazione di appartenenza di un importo fino a concorrenza del trattamento di missione, ad integrazione del rimborso spese e delle indennità spettanti in generale (quali spese di giustizia, gravanti sull'amministrazione della giustizia, dietro richiesta) a favore dei testimoni nelle fattispecie indicate dai precedenti artt. 45 e 46.
Pertanto, parrebbe in astratto riscontrabile l'interesse dell'amministrazione quando il pubblico dipendente sia chiamato a testimoniare in relazione a fatti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del ruolo dallo stesso rivestito presso l'ente, a prescindere dalla circostanza che l'amministrazione di appartenenza sia, o meno, parte in causa e che sia l'amministrazione stessa o la controparte a chiamarlo a deporre quale testimone.
Compete peraltro all'ente valutare autonomamente, nei singoli casi concreti, se la testimonianza che il dipendente è obbligato a prestare e per la quale lo stesso chiede di potersi assentare si riferisca a 'fatti inerenti al servizio'.
---------------
[1] Tale obbligo, infatti, se non adempiuto spontaneamente, può comportare anche l'accompagnamento coattivo, su ordine del giudice.
[2] Cfr. RAL 917, consultabile sul sito: www.aranagenzia.it. Si evidenzia peraltro che il ricorso a permessi per particolari motivi personali non è più utilizzabile dal personale del comparto unico, alla luce dell'intervenuta disposizione di cui all'art. 19, comma 3, del CCRL del 07.12.2006, che ha disposto la disapplicazione dell'art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995.
[3] 'Ai dipendenti pubblici, chiamati come testimoni per fatti inerenti al servizio, spettano il rimborso spese e le indennità di cui agli articoli 45 e 46, salva l'integrazione, sino a concorrenza dell'ordinario trattamento di missione, corrisposta dall'amministrazione di appartenenza'
(18.04.2013 - link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sovraffollamento abitativo.
Per fronteggiare situazioni di sovraffollamento abitativo, non connesse a questioni immigratorie o igienico sanitarie, gli enti locali possono avvalersi dello strumento regolamentare, in conformità alle previsioni di cui al Decreto del Ministro per la sanità 05.07.1975 che collega le superfici dei vani al numero massimo di persone che le possono utilizzare.
Il Comune chiede di conoscere quali rimedi giuridico-operativi possano essere attuati in relazione a situazioni di sovraffollamento abitativo non necessariamente connesse a questioni di immigrazione o a problematiche igienico-sanitarie e, in particolare, se sia utilizzabile lo strumento dell'ordinanza sindacale contingibile ed urgente.
Il Decreto del Ministro per la sanità 05.07.1975 recante 'Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20.06.1896, relativamente all'altezza minima ed ai requisiti igienico-sanitari principali dei locali di abitazione', all'articolo 2, recita: 'Per ogni abitante deve essere assicurata una superficie abitabile non inferiore a mq. 14, per i primi 4 abitanti, ed a mq. 10, per ciascuno dei successivi. Le stanze da letto debbono avere una superficie minima di mq. 9, se per una persona, e di mq. 14, se per due persone. Ogni alloggio deve essere dotato di una stanza di soggiorno di almeno mq 14. Le stanze da letto, il soggiorno e la cucina debbono essere provvisti di finestra apribile'.
I suddetti limiti dimensionali sono inderogabili anche in fase costruttiva per tutte le nuove edificazioni e per le ristrutturazioni edilizie, mentre, per i fabbricati preesistenti alla data di entrata in vigore della normativa sopra riportata si ripercuote, comunque, sul loro utilizzo
[1]. Con riferimento alle situazioni di sovraffollamento abitativo, nelle ipotesi in cui il nucleo familiare occupante sia composto da persone - cittadini italiani o stranieri - tutte regolari ma in numero superiore a quanto previsto dai regolamenti edilizi in tema di rapporto superficie/persone, si osserva quanto segue [2] [3].
Il regolamento edilizio dell'ente instante disciplina le dimensioni ed i requisiti delle abitazioni prevedendo, tra l'altro, le superfici minime dei vani, in conformità alle previsioni di cui al citato DM 05.07.1975.
Tali superfici sono direttamente collegate al numero massimo di persone che le possono utilizzare. Con riferimento ai suddetti parametri, il Comune potrebbe valutare l'opportunità di disciplinare, in via regolamentare, le situazioni di sovraffollamento abitativo, come peraltro si riscontra in numerose realtà
[4].
Infatti, lo strumento dell'ordinanza contingibile ed urgente non pare poter essere invocato quale rimedio alla situazione di sovraffollamento in esame, non essendo collegabile a situazioni di precarietà igienico-sanitaria o, comunque, tali da giustificare l'adozione del suddetto provvedimento.
Come infatti affermato dalla giurisprudenza, nel caso in cui il Sindaco possa fronteggiare una situazione con rimedi di carattere corrente nell'esercizio ordinario dei suoi poteri, ovvero quando la situazione possa essere prevenuta con i normali strumenti apprestati dall'ordinamento, non può emettere ordinanze contingibili ed urgenti a norma dell'articolo 54 del d.lgs. 267/2000.
[5]
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[1] Così, Trib. Torino, sent. 24.06.2002, secondo cui 'Le norme dei regolamenti d'igiene che prescrivono altezze minime dei locali ai fini della licenza di abitabilità hanno effetto retroattivo e possono essere applicate anche alle abitazioni costruite anteriormente alla loro emanazione.'.
[2] Si veda, a tal proposito, Marco De Vita 'L'agibilità edilizia: aspetti del controllo e profili sanzionatori', atti del convegno tenutosi a Riccione 19-22.09.2007 - Palazzo del Turismo in cui per le situazioni di sovraffollamento abitativo c.d. 'strutturale' è proposta la seguente soluzione: '1) sopralluogo, possibilmente congiunto con i servizi di vigilanza edilizia dell'A.S.L. e/o del Comune; 2) acquisizione dei verbali di ispezione dei servizi suddetti i quali evidenzino la situazione di sovraffollamento 'strutturale'; 3) verbale delle attività compiute ai sensi dell'articolo 13, legge 689/1981; 4) acquisizione, ove possibile, di copia del contratto di affitto; 5) redazione del verbale di violazione dell'articolo 24 del T.U. edilizia; 6) segnalazione immediata al competente ufficio comunale; 7) ordinanza del Sindaco, quale autorità sanitaria locale, di inagibilità temporanea (n.b. quando l'inagibilità derivi esclusivamente da sovraffollamento); 8) precisazione, nell'ordinanza, della decadenza dell'atto stesso dal momento in cui venga ovviato, in via permanente e documentata, allo stato di sovraffollamento; 9) esecuzione dell'ordinanza, con eventuale collocamento in strutture idonee delle persone da allontanare.' .
[3] Su tali fattispecie si è espressa l'ANCI nel parere dd. 17/12/2012.
[4] Cfr. ex multis il regolamento comunale d'igiene del Comune di Verona, il regolamento di polizia urbana di Jesolo, il regolamento per la disciplina del sovraffollamento dei locali ad uso abitativo di Arcade, il regolamento di polizia urbana di San Donà di Piave etc.
[5] Così, TAR Toscana, sent. 1701/2010
(12.04.2013 - link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Richiesta attivazione posta elettronica ad uso dei consiglieri comunali.
Si fa riferimento alla nota allegata con la quale il segretario generale del comune di …. ha chiesto il parere in ordine alla richiesta, formulata da un consigliere comunale di minoranza, di attivazione dell’indirizzo di posta elettronica del proprio gruppo consiliare al fine di agevolare la comunicazione con i cittadini.
In linea generale, in materia si richiama l’art. 9 del codice dell’Amministrazione Digitale di cui al dlgs n. 82 del 2005, come modificato dal dlgs. n. 235 del 2010, recante “partecipazione democratica elettronica”, con la quale il legislatore ha, come noto, stabilito che le pubbliche amministrazioni favoriscano ogni forma di uso delle nuove tecnologie per promuovere una maggiore partecipazione dei cittadini al processo democratico.
Ciò posto, le scelte in ordine alla declinazione concreta del principio della partecipazione democratica elettronica e della compatibilità di tali scelte con le esigenze di ottimizzazione e contenimento dei costi rientrano nella autonomia decisionale del comune interessato.
Spetta, infatti, alle decisioni del consiglio comunale, oltre che trovare soluzioni per le singole questioni, valutare l’opportunità di indicare, con apposita modifica regolamentare, anche le ipotesi in argomento, al fine di assicurare il regolare funzionamento dei gruppi e l’ordinato svolgimento delle funzioni proprie dell’assemblea consiliare
(21.03.2013 - link a http://incomune.interno.it).

CORTE DEI CONTI

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il parere sbagliato salva l'ente. Niente responsabilità erariale se il comune è stato sviato. La Corte conti del Piemonte ha archiviato la notizia di illecito a carico di un municipio.
Il parere sbagliato salva gli amministratori e i funzionari pubblici dalla Corte dei conti. È quanto è successo in un comune piemontese, al quale si è imputato il fatto di avere illegittimamente costituito una società per gestire la farmacia comunale.
La procura regionale per il Piemonte della Corte dei conti, con provvedimento 09.04.2013, ha archiviato la notizia di illecito erariale, perché ha considerato che il parere (rivelatosi poi non corretto) dell'Anci ha sviato gli organi comunali.
Ma vediamo di approfondire la questione.
Un consigliere comunale ha presentato un esposto alla procura della corte dei conti ritenendo illegittima la costituzione da parte del comune di una società di capitali per la gestione delle farmacie comunali.
La società è stata costituita dopo l'entrata in vigore del decreto legge 78/2010.
Questo decreto, all'articolo 14, prevede che i comuni con popolazione inferiore a 30 mila abitanti non possono costituire società.
La norma dispone, dunque, un tassativo divieto di nuova costituzione di società, senza eccezioni, per gli enti locali con popolazione inferiore alla soglia demografica di 30 mila abitanti.
L'articolo 14, lo riconosce la procura della Corte dei conti piemontese, introduce una limitazione alla capacità giuridica degli enti territoriali con meno di 30 mila abitanti. Essendo il comune in questione un comune con un numero di abitanti inferiore alla soglia, la società non è stata, dunque, legittimamente costituita. Ma nella deliberazione di consiglio comunale, che ha autorizzato la costituzione della società, viene richiamato un parere dell'Anci datato 03/10/2010, che ha illustrato la portata del citato articolo 14, del dl 78/2010.
Secondo l'Anci le nuove disposizioni non sarebbero state immediatamente applicabili, ma avrebbero richiesto l'adozione di apposite decreti ministeriali.
Il consiglio comunale, dunque, si è fidato del parere dell'associazione dei comuni e ha ritenuto di non incorrere in alcun divieto di legge, non essendo, alla data della deliberazione sulla società, ancora stati emanati i decreti attuativi.
Certo, il parere dell'Anci, a posteriori, è risultato errato: lo ha riconosciuto anche l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, e la stessa Corte dei conti.
Errato sì, ma con un effetto comunque favorevole per gli amministratori del comune in questione. La procura ha, infatti, constatato che per contestare la responsabilità erariale non basta una condotta contra illegittima, ma occorre anche dimostrare il dolo o la colpa grave dei responsabili.
E qui gioca un ruolo l'interpretazione dell'associazione dei comuni.
La violazione di legge in cui un funzionario o un amministratore pubblico sia incorso per errata lettura del testo normativo, causata «dal mancato o imperfetto funzionamento degli strumenti interpretativi a disposizione dei soggetto (tanto più se si tratta di strumenti istituzionali o di uso corrente, come sono i pareri e le circolari dell'Anci per gli enti locali)», secondo la procura della corte dei conti piemontese, esclude la sussistenza della colpa grave. Così si apre la strada all'errore scusabile, nel quale il responsabile è caduto pur avendo compiutamente adempiuto ai propri obblighi informativi sulle condizioni di liceità del proprio agire.
I componenti del Consiglio comunale e il dirigente sono caduti in un errore scusabile ingenerato dal parere in tal senso dell'Anci. Per il momento, quindi, tutto è stato archiviato. Ma la procura in conclusione avvisa che in futuro sarà contestabile il danno erariale se la situazione illegittima non verrà rapidamente sanata e se si determineranno perdite che incidano negativamente sul patrimonio del comune (articolo ItaliaOggi del 19.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTIIn riferimento alla riformulazione dell’art. 11, comma 13, del Codice degli appalti, la Sezione ritiene che:
a) la disciplina prevista dall’art. 11, comma 13, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 è speciale rispetto alla disciplina che regola la forma degli atti contenuta nella legge di contabilità pubblica.
b) la comminatoria di nullità prevista dalla norma è riferita a tutte le forme ad substantiam di stipulazione previste dalla citata disposizione;
c) in quanto forme scritte peculiari di scrittura privata (scambio di proposta ed accettazione nei contratti inter absentes), in caso di trattativa privata, conservano piena validità le forme di stipulazione, previste dall'art. 17 del R.D. 18.11.1923 n. 2440 (la scrittura privata è prevista anche nell’art. 11, comma 13, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163);
d) la stipulazione in forma pubblica amministrativa deve avvenire in modalità elettronica solo se essa è prevista quale metodologia esclusiva da specifiche norme di legge o di regolamento applicabili alla stazione appaltante, essendo ancora validamente stipulabile il contratto in forma pubblica amministrativa su supporto cartaceo;
e) l’adozione del rogito notarile condurrà invece all’utilizzo esclusivo del documento informatico notarile, alla stregua del richiamo selettivo contenuto nella dizione normativa.

Infine,
la locuzione “…le norme vigenti per ciascuna stazione appaltante …" riferita alla modalità elettronica della stipulazione dei contratti è da intendersi non come potere della singola stazione appaltante di autodeterminazione, ma come rinvio ad una normativa tecnica, di rango legislativo o regolamentare, di fonte statale (artt. 117, comma 2, lett. l, Cost.), che detti i precetti in modo uniforme sulla compilazione, sottoscrizione e conservazione sostitutiva degli atti pubblici e contratti stipulati in modalità elettronica.
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Il sindaco del comune di Rovato (BS), mediante nota n. 7173 del 26.02.2013, ha posto un quesito in merito alla corretta interpretazione dell’art. 11, comma 13, del d.lgs. n. 163/2006 come novellato dall'art. 6, comma 3, del d.l. n. 179/2012 che testualmente recita: “il contratto è stipulato a pena di nullità, con atto pubblico notarile informatico, ovvero, in modalità elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione appaltante, in forma pubblica amministrativa a cura dell'Ufficiale rogante dell'amministrazione aggiudicatrice o mediante scrittura privata”.
Il sindaco evidenzia la necessità di un intervento chiarificatore e l'attinenza della questione sugli equilibri economico-finanziari degli enti, tenendo conto dell'effetto caducante (nullità ex tunc) previsto dalla norma sui contratti posti in essere in violazione delle disposizione di legge. L'estrema nebulosità della disposizione citata non risulta essere stata dissipata dalla recente determinazione n. 1 del 13.02.2013 dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (AVCP) che, intervenendo sul punto, appare soffermarsi principalmente su due alternative all’'atto pubblico notarile informatico. L'AVCP ha ritenuto che le stazioni appaltanti possano procedere a perfezionare i contratti di appalto, in alternativa all'atto pubblico notarile informatico, nella forma della scrittura privata, ai sensi dell'art. 334, comma 2, del DPR n. 207/2012, e nella forma dell'atto pubblico amministrativo in modalità elettronica.
Sulle argomentazioni deducibili dalla determinazione dell’autorità, possono muoversi due osservazioni.
La prima riguarda l’interpretazione letterale della disposizione in esame che, a parere del comune istante, risulta fuorviante. Dall'interpretazione letterale della disposizione in esame, è di limpida evidenza che “il contratto è stipulato, a pena di nullità”, nella forma dell'atto pubblico notarile informatico, che per sua natura è riservato ai notai, "ovvero”, in alternativa, "in modalità elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione appaltante", altrimenti, dopo la virgola, "in forma pubblica amministrativa a cura dell'Ufficiale rogante dell'amministrazione aggiudicatrice" o "mediante scrittura privata".
In sostanza la disposizione divide grammaticalmente, con l'uso del segno di interpunzione della virgola, l’elencazione della modalità di perfezionamento dei contratti delle stazioni appaltanti dato dalla "modalità elettronica" diverso dalla “forma pubblica amministrativa o” della scrittura privata. L'AVCP opera nella sua determinazione una immotivata “crasi” tra le due diverse modalità senza tener in alcuna considerazione l'interpunzione, ipotizzando l'obbligatorietà di un atto pubblico amministrativo in modalità elettronica.
Per altro verso deve sottolinearsi che l' AVCP ipotizza una “modalità elettronica” di perfezionamento dell'atto pubblico amministrativo nelle forme dell'art. 25, comma 2, del d.lgs. n.82/2006 secondo cui "L'autenticazione della firma elettronica, anche mediante l'acquisizione digitale della sottoscrizione autografa, o di qualsiasi altro tipo di firma elettronica avanzata consiste nell'attestazione, da parte del pubblico ufficiale, che la firma è stata apposta in sua presenza dal titolare, previo accertamento della sua identità personale, della validità dell'eventuale certificato elettronico utilizzato e del fatto che il documento sottoscritto non è in contrasto con l'ordinamento giuridico”.
La questione è che l'atto pubblico e l’atto pubblico amministrativo sono cosa diversa dalla semplice autenticazione della firma autografa o dalla autenticazione della firma autografa acquisita elettronicamente e questo in base alle disposizioni dell'ordinamento giuridico risalenti alla legge notarile ed al codice dell'amministrazione digitale in tema di atto notarile informatico. L'atto notarile informatico rappresenta infatti la forma ideata dal legislatore (d.lgs. n. 110/2010 - Disposizioni in materia di atto pubblico informatico redatto dal notaio, a norma dell'articolo 65 della legge 18.06.2009, n. 69), per produrre, perfezionare e conservare attraverso strumenti informatici un atto pubblico. Per l’atto pubblico, diversamente dalla scrittura autenticata fatta con metodi tradizionali o con strumenti di firma digitale, si pongono differenze nette.
In pratica le differenze principali sono le seguenti:
- l'atto pubblico deve essere redatto dal notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò abilitato; se non è stato scritto personalmente dal notaio o dal pubblico ufficiale, deve essere da lui letto alle parti, che devono essere tutte presenti contemporaneamente davanti al notaio; deve essere scritto in lingua italiana (eventualmente, con la traduzione in lingua straniera) ed essere sottoscritto dalle parti e dal notaio nello stesso momento; deve essere conservato (salvo casi eccezionali) nella raccolta degli atti del notaio o dal pubblico ufficiale.
- la scrittura privata può non essere redatta dal notaio o dal pubblico ufficiale, può non essere letta dal notaio o dal pubblico ufficiale alle parti e può essere autenticata anche da più pubblici ufficiali. Inoltre il notaio o il pubblico ufficiale non hanno l'obbligo di conservarla, ma possono rilasciarla in originale alle parti.
Va anche rammentato che mentre l'art. 2700 del c.c. attribuisce all'atto pubblico una efficacia probatoria “forte” circa la provenienza ed il contenuto della volontà delle parti, viceversa la scrittura privata autentica, ai sensi dell'art. 2702 del c.c., assicura fino a querela di falso l’efficacia probatoria dei soggetti da cui proviene la volontà negoziale ma non il contenuto di quella volontà.
Il codice dell'amministrazione digitale all’art. 20 dispone al comma 1-bis che “L’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità ed immodificabilità, fermo restando quanto disposto dall’ articolo 21". L’art. 21 dispone a sua volta che “Il documento informatico sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, formato nel rispetto delle regole tecniche di cui all'articolo 20, comma 3, che garantiscano l'identificabilità dell'autore, l’integrità e l’immodificabilità del documento, ha l’efficacia prevista dall'articolo 2702 del codice civile. L’utilizzo del dispositivo di firma elettronica qualificata o digitale si presume riconducibile al titolare, salvo che questi dia prova contraria”.
In sostanza per la disciplina dell'atto pubblico notarile il legislatore è intervenuto ad hoc con il d.lgs. n. 110/2010 citato che dispone regole tecniche circa la formazione, perfezionamento e conservazione dell'atto.
Nel caso di specie l’AVCP sembra semplificare e creare una pericolosa commistione tra atto pubblico e scrittura autenticata digitalmente dal pubblico ufficiale.
Il sindaco ribadisce l'immediata rilevanza della questione sotto il profilo della legittimità degli atti posti in essere dalle stazioni appaltanti e degli effetti sulla spesa che la nullità degli atti produrrebbe sugli enti là dove i dubbi esposti venissero accertati in sede giurisdizionale e travolgessero l'azione degli enti.
In conclusione, si chiede se l’ente possa procedere alla sottoscrizione degli atti relativi agli appalti attraverso una delle quattro diverse alternative contemplate dall'art. 11, comma 13, del d.lgs. n.163/2006 come novellato dall'art. 6, comma 3, del d.l. n. 179/2012:
1. atto pubblico notarile informatico, dinanzi al notaio nelle forme ex d.lgs. n. 110/2010 “Disposizioni in materia di atto pubblico informatico redatto dal notaio, a norma dell'articolo 65 della legge 18.06.2009, n. 69”;
2. in modalità elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione appaltante, ovvero secondo le ordinarie modalità di conclusione degli appalti di servizi e forniture che si perfezionano sul Mepa o sulla piattaforma digitale della Regione Lombardia, ovvero secondo le forme dell’atto pubblico informatico che saranno disciplinate dai regolamenti interni in analogia con quanto avvenuto per gli atti notarili;
3. in forma pubblica amministrativa a cura dell'Ufficiale rogante dell'amministrazione aggiudicatrice, ovvero secondo le forme tradizionali di perfezionamento degli atti;
4. scrittura privata autenticata.
...
I quesiti posti con il presente interpello ripercorrono quasi pedissequamente le tematiche interpretative svolte nella precedente deliberazione della Sezione n. 97/2013/PAR.
L’art. 6, comma 4, del D.L. 18.10.2012, n. 179, convertito nella legge 17.12.2012, n. 221 ha disposto che le norme di cui all’art. 6, comma 3, si applicano a partire dal primo gennaio 2013. Fra le disposizioni ivi richiamate è ricompresa la norma oggetto del presente parere, a tenore della quale, il legislatore, innovando la disciplina sulla forma dei contratti stipulati dalla pubblica amministrazione nell’ambito del codice degli appalti, ha modificato l’art. 11, comma 13, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, prescrivendo che: “Il contratto è stipulato, a pena di nullità, con atto pubblico notarile informatico, ovvero, in modalità elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione appaltante, in forma pubblica amministrativa a cura dell'Ufficiale rogante dell'amministrazione aggiudicatrice o mediante scrittura privata”.
Si pone a confronto la previgente edizione della norma, che testualmente recitava: ”il contratto è stipulato mediante atto pubblico notarile, o mediante forma pubblica amministrativa a cura dell’ufficiale rogante dell’amministrazione aggiudicatrice, ovvero mediante scrittura privata, nonché in forma elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione appaltante”.
Preliminarmente, si osserva che la disciplina generale sulla forma dei contratti pubblici è contenuta nella legge di contabilità generale dello Stato (art. 16, 17 e 18 del R.D. 18.11.1923, n. 2440) tuttora vigente.
La legge di contabilità dello Stato prescrive il requisito della forma scritta ad substantiam per tutti i contratti stipulati dalla pubblica amministrazione, anche quando essa agisca iure privatorum; forma scritta declinata mediante i canoni della forma pubblica amministrativa (art. 16 R.D. 18.11.1923, n.2440), salve le ipotesi derogatorie tipizzate descritte all’art. 17 del R.D. citato, in cui è consentita l’adozione della scrittura privata e la conclusione a distanza a mezzo di corrispondenza.
Il rapporto fra le due disposizioni è regolato dal principio di specialità, atteso che la disposizione in tema di contabilità di Stato è applicabile ad ogni tipo contrattuale stipulato dalla Pubblica Amministrazione, mentre la disciplina prevista dall’art. 11, comma 13, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 è applicabile solo alla materia regolata dal Codice degli Appalti.
Sotto il profilo contenutistico si evidenzia, inoltre, che il novero delle forme ad substantiam previste dal citato art. 11, comma 13, ha una portata più ampia rispetto alla citata legge di contabilità, poiché promuove l’adozione di innovative forme di documentazione dell’attività contrattuale in cui è parte la Pubblica Amministrazione.
Tradizionalmente si osserva che la forma scritta ad substantiam garantisce la certezza nei rapporti giuridici a contenuto patrimoniale in cui è parte la Pubblica Amministrazione e si pone quale regime speciale sia rispetto al principio di libertà della forma previsto nel codice civile, salve le ipotesi espressamente previste di atti che devono essere redatti per atto pubblico o per scrittura privata sotto pena di nullità (art. 1350 c.c.), sia rispetto al principio generale di libertà della forma dell’atto amministrativo.
La recente riformulazione dell’art. 11, comma 13, del Codice degli Appalti sancisce la nullità testuale per carenza delle forme alternative ad substantiam. Accanto alla forma scritta, tipica della forma pubblica amministrativa e della scrittura privata, la legge prescrive la forma digitale per l’atto pubblico notarile (informatico), nonché la modalità elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione appaltante.
In sintesi, la difformità testuale rispetto alla precedente formula legislativa si compendia nella:
1) previsione della nullità testuale per difetto delle forme ad substantiam indicate dalla norma;
2) superamento della tassatività della forma scritta cartacea, mediante la previsione di forme alternative ad substantiam;
3) attribuzione dell’aggettivo “informatico” all’atto pubblico notarile;
4) dequotazione della forma elettronica a “modalità elettronica” secondo le norme vigenti per ciascuna stazione appaltante.
Per quel che concerne il rapporto fra le varie forme ammissibili di contratto concluso dalla pubblica amministrazione, rientrante nella disciplina del Codice degli Appalti, la legge pone sul medesimo piano giuridico, in condizione di alternatività, le singole espressioni di forma ad substantiam.
La disposizione ha inteso adeguare alle moderne tecnologie l’utilizzo delle forme contrattuali in cui è trasfusa la volontà della pubblica amministrazione, aggiungendo, ma non sostituendo alle tradizionali forme scritte cartacee la forma pubblica elettronica e/o digitale, con l’avvertenza che qualora le norme vigenti per la singola stazione appaltante (regolamentari o di legge) prevedessero l’adozione della sola modalità elettronica, l’utilizzo di altra metodologia di documentazione, ancorché scritta o cartacea, in violazione delle norme speciali, sarebbe affetta da nullità assoluta.
In particolare, per quanto di presumibile interesse in capo all’amministrazione interpellante, si osserva che la modalità elettronica non limita né impedisce il ricorso alla forma pubblica amministrativa confezionata secondo l’adozione del modo tradizionale di perfezionamento degli atti, ovvero il documento cartaceo redatto con le prescrizioni imposte dalla legge a cura dell’Ufficiale rogante: in primo luogo, poiché il riferimento testuale chiarisce il rinvio alle classiche funzioni notarili del pubblico ufficiale alla luce dei principi di pubblica fede contenuti nell’art. 2699 c.c. e nella legge 16.02.1913, n. 89 (funzioni accertative e certificative parametrate al documento scritto in forma cartacea); in secondo luogo, perché le singole prescrizioni circa la forma adottabile sono poste sul medesimo piano, mediante segni d’interpunzione testuale (virgola) e separate con la congiunzione “o”; in terzo luogo, per la già menzionata modifica legislativa che ha mutato il testo dell’art. 11, comma 13, del Codice degli Appalti da “forma elettronica” a “modalità elettronica”; infine, poiché la disposizione si limita a richiamare la modalità elettronica tipizzata dalle norme vigenti per ciascuna stazione appaltante, rinviando tendenzialmente a tutte le normative settoriali che prescrivono il ricorso al mercato elettronico (e-procurement) per l’acquisizione di beni o servizi da parte delle pubbliche amministrazioni.
Ciò posto, al fine di rispondere ai singoli quesiti prospettati dall’amministrazione, alla luce del dato testuale,
la Sezione si ritiene che:
a) la disciplina prevista dall’art. 11, comma 13, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 è speciale rispetto alla disciplina che regola la forma degli atti contenuta nella legge di contabilità pubblica.
b) la comminatoria di nullità prevista dalla norma è riferita a tutte le forme ad substantiam di stipulazione previste dalla citata disposizione;
c) in quanto forme scritte peculiari di scrittura privata (scambio di proposta ed accettazione nei contratti inter absentes), in caso di trattativa privata, conservano piena validità le forme di stipulazione, previste dall'art. 17 del R.D. 18.11.1923 n. 2440 (la scrittura privata è prevista anche nell’art. 11, comma 13, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163);
d) la stipulazione in forma pubblica amministrativa deve avvenire in modalità elettronica solo se essa è prevista quale metodologia esclusiva da specifiche norme di legge o di regolamento applicabili alla stazione appaltante, essendo ancora validamente stipulabile il contratto in forma pubblica amministrativa su supporto cartaceo;
e) l’adozione del rogito notarile condurrà invece all’utilizzo esclusivo del documento informatico notarile, alla stregua del richiamo selettivo contenuto nella dizione normativa.

Infine,
la locuzione “…le norme vigenti per ciascuna stazione appaltante …" riferita alla modalità elettronica della stipulazione dei contratti è da intendersi non come potere della singola stazione appaltante di autodeterminazione, ma come rinvio ad una normativa tecnica, di rango legislativo o regolamentare, di fonte statale (artt. 117, comma 2, lett. l, Cost.), che detti i precetti in modo uniforme sulla compilazione, sottoscrizione e conservazione sostitutiva degli atti pubblici e contratti stipulati in modalità elettronica (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 28.03.2013 n. 121).

LAVORI PUBBLICIL’art. 2, co. 1, dell’O.P.C.M. 3862/2010 precisa inoltre che, per l’attuazione degli interventi previsti, “ove non sia possibile l’utilizzazione delle strutture pubbliche”, è consentito affidare la progettazione anche a liberi professionisti esterni avvalendosi, “ove necessario”, delle deroghe previste dall’art. 3 dell’O.P.C.M. 3741/2009.
Alla luce del descritto quadro normativo, nell’intera procedura in esame (e quindi non solo con riferimento ad un eventuale incarico esterno di progettazione), è necessario pertanto non solo ottemperare al generale obbligo di motivazione degli atti ma anche fornire una “specifica motivazione” per potersi avvalere delle deroghe previste appositamente per lo stato di emergenza.
La possibilità di avvalersi delle deroghe previste è inoltre sottoposta a vari limiti e condizioni. In assenza di una specifica motivazione e in assenza delle condizioni stabilite, per gli interventi previsti dall’O.P.C.M. n. 3862/2010, non può che trovare spazio l’applicazione della normativa ordinaria.
Quindi, al generale obbligo, a pena di illegittimità, di enunciare l’iter logico-giuridico seguito dalla Amministrazione nella emanazione dell’atto, si affianca la necessità di fornire puntuali indicazioni in ordine alle ragioni che inducono la stessa Amministrazione procedente ad avvalersi delle deroghe previste dalla normativa di emergenza.
Anche con riferimento alla “specifica motivazione” richiesta per la deroga alla normativa ordinaria, l’Amministrazione è tenuta a procedere ad un adeguato bilanciamento dei vari interessi coinvolti di cui dovrà essere fornito puntuale riscontro nell’atto.
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Ai sensi della vigente normativa, il progetto definitivo e il progetto esecutivo di un’opera pubblica vengono redatti e approvati sulla base di un progetto preliminare.
Il legislatore assegna alla progettazione un ruolo centrale per l’esecuzione di un’opera pubblica. L’art. 93 del D.Lgs. 163/2006 stabilisce che la progettazione dei lavori pubblici si articola, secondo tre livelli di successivi approfondimenti tecnici, in preliminare, definitiva ed esecutiva, all’espresso fine di assicurare la qualità dell’opera e la rispondenza alle finalità relative, la conformità alle norme ambientali ed urbanistiche e il soddisfacimento dei requisiti essenziali definiti dal quadro normativo nazionale e comunitario.
Una Amministrazione può procedere motivatamente alla adozione unitaria del progetto definitivo e del progetto esecutivo solo quando l’intervento concerne un’opera di relative dimensioni o di modesta complessità tecnica. La scelta del RUP di unificare più livelli progettuali deve essere sempre sorretta da una adeguata motivazione. Inoltre, ogni fase della attività di progettazione presuppone che sia esaurita la precedente in un contesto logico e temporale progressivamente ben cadenzato
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1. L’art. 1, co. 11, dell’O.P.C.M. n. 3862/2010 prevede che, per gli interventi previsti dalla stessa ordinanza, il Commissario delegato e i soggetti attuatori si avvalgono delle deroghe previste dall’art. 3 dell’O.P.C.M. n. 3741/2009 (riguardante lo stato di emergenza dichiarato con D.P.C.M. del 30.01.2009 in relazione agli eccezionali eventi avversi che hanno colpito il territorio della regione Calabria nel gennaio 2009).
L’art. 3 citato prevede, “ove ritenuto indispensabile e sulla base di specifica motivazione”, l’autorizzazione a derogare, “nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico” e “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”, numerosi articoli di legge, ivi compresi quelli previsti dal Codice dei contratti pubblici (articoli 90 e seguenti del D.Lgs. 163/2006) in materia di progettazione interna ed esterna, procedure di affidamento, corrispettivi ed incentivi per la progettazione e livelli della progettazione.
L’art. 2, co. 1, dell’O.P.C.M. 3862/2010 precisa inoltre che, per l’attuazione degli interventi previsti, “ove non sia possibile l’utilizzazione delle strutture pubbliche”, è consentito affidare la progettazione anche a liberi professionisti esterni avvalendosi, “ove necessario”, delle deroghe previste dall’art. 3 dell’O.P.C.M. 3741/2009.
Alla luce del descritto quadro normativo, nell’intera procedura in esame (e quindi non solo con riferimento ad un eventuale incarico esterno di progettazione), è necessario pertanto non solo ottemperare al generale obbligo di motivazione degli atti ma anche fornire una “specifica motivazione” per potersi avvalere delle deroghe previste appositamente per lo stato di emergenza.
La possibilità di avvalersi delle deroghe previste è inoltre sottoposta a vari limiti e condizioni. In assenza di una specifica motivazione e in assenza delle condizioni stabilite, per gli interventi previsti dall’O.P.C.M. n. 3862/2010, non può che trovare spazio l’applicazione della normativa ordinaria.
Quindi, al generale obbligo, a pena di illegittimità, di enunciare l’iter logico-giuridico seguito dalla Amministrazione nella emanazione dell’atto, si affianca la necessità di fornire puntuali indicazioni in ordine alle ragioni che inducono la stessa Amministrazione procedente ad avvalersi delle deroghe previste dalla normativa di emergenza.
Anche con riferimento alla “specifica motivazione” richiesta per la deroga alla normativa ordinaria, l’Amministrazione è tenuta a procedere ad un adeguato bilanciamento dei vari interessi coinvolti di cui dovrà essere fornito puntuale riscontro nell’atto.

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3. Con l’ordinanza in esame, il Commissario delegato provvede alla approvazione di un unico progetto “definitivo-esecutivo”. Tale progetto definitivo-esecutivo risulta già approvato dal Comune di Catanzaro (Soggetto attuatore) con deliberazione del Commissario straordinario n. 46 del 28.12.2012.
In tale deliberazione comunale la fusione della progettazione definitiva con la progettazione esecutiva viene motivata con “il ritardo accumulato” e “la necessità di eseguire i lavori previsti nel progetto medesimo che risultano essere urgenti ed indifferibili”. Non vengono però fornite motivazioni (né nella ordinanza in esame, né nella deliberazione comunale indicata) in ordine alle responsabilità per il cospicuo ritardo accumulato, responsabilità particolarmente gravi tenendo conto che si tratta (come in varie occasioni attestato sia dal soggetto attuatore che dal Commissario delegato) di lavori “urgenti ed indifferibili” e che, al momento della approvazione della progettazione con la deliberazione comunale indicata (n. 46/2012), sono trascorsi quasi tre anni dagli eventi atmosferici che hanno originato lo stato di emergenza alla base dei lavori stessi.
Ai sensi della vigente normativa, il progetto definitivo e il progetto esecutivo di un’opera pubblica vengono redatti e approvati sulla base di un progetto preliminare. Il progetto preliminare dell’opera, approvato dal Comune di Catanzaro con delibera del Commissario straordinario n. 89 dell'08.03.2012 (atto non trasmesso), non risulta mai approvato dal Commissario delegato e non risulta mai sottoposto al controllo preventivo di legittimità di questa Sezione regionale di controllo ai sensi della legge 10/2011. In sostanza quindi, il progetto definitivo-esecutivo de quo risulta approvato dal Commissario delegato senza aver previamente approvato il relativo progetto preliminare e comunque sulla base di un progetto preliminare inefficace.
Il progetto definitivo-esecutivo approvato con l’ordinanza in esame inoltre non risulta trasmesso a questa Sezione. Non risultano infine acquisiti o comunque considerati nella motivazione dell’atto in esame i pareri richiesti a Regione Calabria, Provincia di Catanzaro e Autorità di Bacino per quanto di rispettiva competenza.
Il legislatore assegna alla progettazione un ruolo centrale per l’esecuzione di un’opera pubblica. L’art. 93 del D.Lgs. 163/2006 stabilisce che la progettazione dei lavori pubblici si articola, secondo tre livelli di successivi approfondimenti tecnici, in preliminare, definitiva ed esecutiva, all’espresso fine di assicurare la qualità dell’opera e la rispondenza alle finalità relative, la conformità alle norme ambientali ed urbanistiche e il soddisfacimento dei requisiti essenziali definiti dal quadro normativo nazionale e comunitario.
Secondo un costante orientamento interpretativo (ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. IV, 10.09.2011, n. 5502; A.V.C.P., deliberazione n. 109 del 05.04.2007),
una Amministrazione può procedere motivatamente alla adozione unitaria del progetto definitivo e del progetto esecutivo solo quando l’intervento concerne un’opera di relative dimensioni o di modesta complessità tecnica. La scelta del RUP di unificare più livelli progettuali deve essere sempre sorretta da una adeguata motivazione (ex plurimis, A.V.C.P., deliberazione n. 62 del 22.06.2011). Inoltre, ogni fase della attività di progettazione presuppone che sia esaurita la precedente in un contesto logico e temporale progressivamente ben cadenzato (A.V.C.P., deliberazione n. 30 del 08.04.2009).
Come già riferito precedentemente, l’art. 1, co. 11, dell’O.P.C.M. n. 3862/2010 prevede che, per gli interventi previsti dalla stessa ordinanza, il Commissario delegato e i soggetti attuatori si avvalgono delle deroghe previste dall’art. 3 dell’O.P.C.M. n. 3741/2009. L’art. 3 citato prevede, “ove ritenuto indispensabile e sulla base di specifica motivazione”, l’autorizzazione a derogare, “nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico” e “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”, numerosi articoli di legge, ivi compresi quelli previsti dal Codice dei contratti pubblici (articoli 90 e seguenti del D.Lgs. 163/2006) in materia di progettazione interna ed esterna, procedure di affidamento, corrispettivi ed incentivi per la progettazione e livelli della progettazione. Tra gli articoli oggetto di deroga alle condizioni indicate vi è anche il citato art. 93 riguardante i livelli di progettazione.
Considerate le esplicite finalità perseguite dal legislatore nel prevedere tre livelli successivi di progettazione (art. 93 del D.Lgs. 163/2006), le motivazioni addotte dal Soggetto attuatore nella approvazione del progetto in argomento, l’assenza di “specifiche” motivazioni nell’atto di approvazione del progetto unitario del Commissario delegato e le citate condizioni previste dall’art. 3 dell’O.P.C.M. 3741/2009 per poter derogare alla ordinaria normativa, l’approvazione di un unico progetto definitivo-esecutivo non risulta conforme al vigente ordinamento.
Le motivazioni addotte dal Soggetto attuatore, evidentemente condivise anche dal Commissario delegato che ha proceduto alla menzionata approvazione congiunta, risultano basate praticamente sulla volontà di recuperare il tempo inutilmente e ingiustificatamente trascorso e quindi sulla volontà di sanare in qualche modo i gravi ritardi che, a prescindere dal contenuto e dai termini previsti dalla convenzione con i progettisti esterni (non trasmessa), si sono verificati nell’espletamento della procedura in argomento.
Manca qualsiasi motivazione di carattere tecnico volta ad avallare l’operato della Amministrazione procedente, motivazione questa particolarmente necessaria perché trattasi di progettazione non solo asseritamente complessa ed articolata ma riguardante un’opera pubblica, intrinsecamente di delicata progettazione ed esecuzione in quanto relativa ad uno stato di emergenza e funzionale alla tutela della incolumità pubblica. Nessuna motivazione inoltre è stata formulata per giustificare i gravissimi ritardi nell’espletamento della procedura in itinere la cui gravità è accentuata dal fatto che trattasi di opere finalizzate alla mitigazione e alla riduzione del rischio di frane e aventi, come più volte asserito sia dal Commissario delegato che dal Soggetto attuatore, le caratteristiche della urgenza, della necessità e della indifferibilità.
Quindi, a parte la chiara volontà di recuperare il tempo inutilmente perso, non è stata adeguatamente motivata la decisione del Commissario delegato di procedere alla approvazione congiunta del progetto definitivo ed esecutivo. Risulta necessario evidenziare nuovamente che,
nel caso specifico, l’approvazione della progettazione secondo successivi livelli di approfondimento tecnico (o, in alternativa, una sufficiente dimostrazione delle ragioni che hanno indotto alla approvazione unitaria) risultava ancora più necessaria in considerazione del fatto che, come dichiarato dallo stesso soggetto attuatore per giustificare l’incarico di progettazione a liberi professionisti esterni (determinazione del Comune di Catanzaro n. 7046 del 22.12.2010), la progettazione degli interventi di che trattasi è complessa ed articolata”.
Tenendo conto dell’asserito carattere complesso ed articolato della progettazione (e della rilevanza dell’opera relativa sotto il profilo della pubblica incolumità), non risultano inoltre adeguatamente comparate le contrapposte esigenze di accelerare la procedura in corso (essenzialmente a causa del ritardo accumulato) e di garantire le varie e rilevanti finalità espressamente previste dal legislatore (es. art. 93 del D.Lgs. 163/2006) nel richiedere tre distinti e successivi livelli progettuali. Anzi, la descritta particolare delicatezza dell’opera esige una motivazione ancora più accurata di quella normalmente richiesta, motivazione che non può, a maggior ragione in casi come quello in esame, limitarsi ad invocare esigenze di celerità o ridursi all’uso di semplici clausole di stile. Nel caso specifico non può inoltre essere invocata neanche la deroga prevista dall’art. 3 dell’O.P.C.M. 3741/2009 mancando, come riportato, una “specifica” motivazione.
A prescindere dalla sufficienza delle motivazioni addotte dalla Amministrazione controllata per giustificare l’approvazione congiunta del progetto definitivo ed esecutivo, l’atto in esame risulta inficiato altresì da due ulteriori elementi.
L’art. 2, co. 2, dell’O.P.C.M. 3862/2010 stabilisce che il Commissario delegato procede “alla approvazione dei progetti”. Il Commissario delegato, con l’ordinanza in esame,
ha proceduto alla approvazione del progetto definitivo-esecutivo in argomento senza aver proceduto alla previa approvazione del progetto preliminare. Nessun atto di approvazione del progetto preliminare è stato inoltre sottoposto al prescritto controllo preventivo di cui alla legge 10/2011 di questa Sezione.
Nessuna motivazione è stata fornita in merito alla mancata approvazione del progetto preliminare da parte del Commissario delegato: anche le asserite esigenze di urgenza ed indifferibilità e di recupero del ritardo accumulato sono state indicate con riferimento alla approvazione congiunta del progetto definitivo ed esecutivo e non con riferimento alla mancata approvazione del progetto preliminare di cui si ignora persino l’avvenuta acquisizione da parte del Commissario delegato a seguito della relativa approvazione da parte del Soggetto attuatore con deliberazione n. 89/2012 (peraltro non trasmessa a questa Sezione).
L’ordinanza in esame risulta inoltre illegittima per carenza motivazionale. Non risultano acquisiti o comunque considerati nella motivazione dell’atto in esame (e nella approvazione del progetto definitivo-esecutivo da parte del Soggetto attuatore) i pareri richiesti, dopo l’approvazione del progetto preliminare, dal Soggetto attuatore a Regione Calabria, Provincia di Catanzaro e Autorità di Bacino, per quanto di rispettiva competenza. Tali pareri, se esistenti, comunque non risultano trasmessi a questa Sezione (Corte dei Conti, Sez. controllo Calabria, deliberazione 28.03.2013 n. 16).

INCARICHI PROGETTUALIIl previo accertamento in ordine alla regolarità dell’affidamento dell’incarico a soggetti esterni della progettazione in argomento risulta necessario in quanto una eventuale illegittimità dello stesso avrebbe inevitabilmente ripercussioni sulla legittimità del procedimento relativo alla approvazione del progetto disposta con l’ordinanza commissariale in esame. Tale accertamento inoltre risulta necessario anche in considerazione del fatto che un incarico di progettazione affidato illegittimamente a liberi professionisti esterni in presenza di tecnici interni che avrebbero potuto provvedere alla progettazione stessa può determinare danno erariale.
L’art. 90, co. 6, del D.Lgs. 163/2006 stabilisce che è possibile affidare la progettazione a liberi professionisti in caso di carenza in organico di personale tecnico, ovvero di difficoltà di rispettare i tempi della programmazione dei lavori o di svolgere le funzioni di istituto, ovvero in caso di lavori di speciale complessità o di rilevanza architettonica o ambientale o in caso di necessità di predisporre progetti integrali che richiedono l'apporto di una pluralità di competenze, casi che devono essere accertati e certificati dal responsabile del procedimento.
Tutto ciò premesso, considerato che l’affidamento dell’incarico a progettisti esterni (contrariamente a quanto avvenuto, con riferimento alla medesima opera, per l’incarico al geologo) è avvenuto sostanzialmente sulla base della sola motivazione
che “è altresì urgente ed indifferibile provvedere alla esecuzione dei lavori” e che “la progettazione degli interventi di che trattasi è complessa ed articolata”, senza quindi adeguati riferimenti all’eventuale indispensabilità del conferimento dell’incarico a soggetti esterni e, soprattutto, in assenza di adeguati riferimenti alla eventuale carenza di progettisti interni che avrebbero potuto redigere il progetto in argomento lo stesso affidamento non può essere ritenuto legittimo.
La specifica motivazione addotta nel provvedimento indicato (urgenza ed indifferibilità di provvedere alla esecuzione dei lavori e progettazione complessa ed articolata) non risulta infatti da sola sufficiente a giustificare il conferimento di un oneroso incarico di progettazione a soggetti esterni all’Amministrazione.
2. Il progetto approvato con l’ordinanza in esame risulta predisposto da soggetti esterni. L’affidamento dell’incarico di progettazione è avvenuto a seguito della determinazione del Comune di Catanzaro (Soggetto attuatore) n. 7046 del 22.12.2010 con la quale è stata indetta “gara d’appalto” per la redazione della intera progettazione (e della direzione dei lavori) per un importo di euro 90.000,00 (importo complessivo di euro 110.160.00, comprensivo di cassa e IVA) sulla base della motivazione che “è altresì urgente ed indifferibile provvedere alla esecuzione dei lavori” e che “la progettazione degli interventi di che trattasi è complessa ed articolata”.
L’affidamento dell’incarico è stato effettuato con determinazione del Comune di Catanzaro n. 1079 del 15.03.2011 (rettificata con successiva determinazione n. 3095 del 26.07.2011, non trasmessa), dopo una procedura negoziata con invito rivolto a n. 5 professionisti il 17.01.2011 (scadenza prevista per la presentazione della domanda 30.01.2011).
Il previo accertamento in ordine alla regolarità dell’affidamento dell’incarico a soggetti esterni della progettazione in argomento risulta necessario in quanto una eventuale illegittimità dello stesso avrebbe inevitabilmente ripercussioni sulla legittimità del procedimento relativo alla approvazione del progetto disposta con l’ordinanza commissariale in esame. Tale accertamento inoltre risulta necessario anche in considerazione del fatto che un incarico di progettazione affidato illegittimamente a liberi professionisti esterni in presenza di tecnici interni che avrebbero potuto provvedere alla progettazione stessa può determinare danno erariale (Corte dei conti, sez. giur. Toscana, 31.01.2006, n. 7).
L’art. 90, co. 6, del D.Lgs. 163/2006 stabilisce che
è possibile affidare la progettazione a liberi professionisti in caso di carenza in organico di personale tecnico, ovvero di difficoltà di rispettare i tempi della programmazione dei lavori o di svolgere le funzioni di istituto, ovvero in caso di lavori di speciale complessità o di rilevanza architettonica o ambientale o in caso di necessità di predisporre progetti integrali che richiedono l'apporto di una pluralità di competenze, casi che devono essere accertati e certificati dal responsabile del procedimento.
Come sopra indicato, tale norma è derogabile, nel caso specifico, per effetto dell’art. 1, co. 11, dell’O.P.C.M. 3862/2010, “ove ritenuto indispensabile e sulla base di specifica motivazione”, “nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico” e “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”.
Come già specificato, l’art. 2, co. 1, dell’O.P.C.M. 3862/2010 precisa che, per l’attuazione degli interventi previsti, “ove non sia possibile l’utilizzazione delle strutture pubbliche”, è consentito affidare la progettazione anche a liberi professionisti esterni avvalendosi, “ove necessario”, delle deroghe previste dall’art. 3 dell’O.P.C.M. 3741/2009.
Tutto ciò premesso,
considerato che l’affidamento dell’incarico a progettisti esterni (contrariamente a quanto avvenuto, con riferimento alla medesima opera, per l’incarico al geologo) è avvenuto sostanzialmente sulla base della sola motivazione (determinazione del Comune di Catanzaro n. 7046 del 22.12.2010) che “è altresì urgente ed indifferibile provvedere alla esecuzione dei lavori” e che “la progettazione degli interventi di che trattasi è complessa ed articolata”, senza quindi adeguati riferimenti all’eventuale indispensabilità del conferimento dell’incarico a soggetti esterni e, soprattutto, in assenza di adeguati riferimenti alla eventuale carenza di progettisti interni che avrebbero potuto redigere il progetto in argomento, tenendo conto di quanto disposto dal citato art. 2, co. 1, dell’O.P.C.M. 3862/2010, lo stesso affidamento non può essere ritenuto legittimo.
La specifica motivazione addotta nel provvedimento indicato (urgenza ed indifferibilità di provvedere alla esecuzione dei lavori e progettazione complessa ed articolata) non risulta infatti da sola sufficiente a giustificare il conferimento di un oneroso incarico di progettazione a soggetti esterni all’Amministrazione.
Corre l’obbligo inoltre di evidenziare che l’incarico di progettazione esterno, pur risultando molto più oneroso di una progettazione interna e pur essendo stato motivato con la urgenza ed indifferibilità di provvedere alla esecuzione dei lavori, non ha evidentemente consentito il rispetto del cronoprogramma previsto dallo stesso Commissario delegato la cui scansione temporale risulta ampiamente violata. Non essendo stata trasmessa la convenzione con i progettisti esterni non è purtroppo possibile stabilire se risultano rispettati i tempi previsti dalla stessa per la predisposizione della progettazione. E’ certo comunque che, al momento della scadenza dello stato di emergenza (28.02.2013), il cui termine peraltro è stato più volte prorogato, l’iter di progettazione delle opere necessarie non risulta terminato (Corte dei Conti, Sez. controllo Calabria, deliberazione 28.03.2013 n. 16).

INCENTIVO PROGETTAZIONECostituisce danno erariale la liquidazione integrale dell’incentivo quando le prestazioni progettuali sono affidate a tecnici esterni.
4. Il quadro economico del progetto, riportato nella delibera del Comune di Catanzaro n. 46 del 28.12.2012 e nel parere n. 35-PS1 della Struttura tecnico-amministrativa di supporto al Commissario delegato, prevede la voce “incentivo Merloni 2%” per un importo di euro 19.440,00. Presumibilmente tale voce si riferisce agli incentivi alla progettazione previsti dall’art. 92 del D.Lgs. 163/2006 che disciplina minuziosamente le procedure e le condizioni necessarie per la liquidazione dell’incentivo de quo.
Lo scopo perseguito dal legislatore è evidentemente quello di incentivare economicamente i dipendenti delle amministrazioni pubbliche affinché eseguano l’attività di progettazione con conseguente risparmio per le Amministrazioni di appartenenza. L’art. 92, co. 5, del D.Lgs. 163/2006 prevede che le quote parti dell’incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all’organico della medesima amministrazione, “costituiscono economie”.
Nel caso specifico, con riferimento alla disciplina della ripartizione dell’incentivo indicato, il quadro economico del progetto non può non considerare che l’attività di progettazione (e di direzione lavori) è stata affidata a liberi professionisti esterni. Anche se è prevista la deroga all’art. 92 del D.Lgs. 163/2006, visto quanto disposto dal più volte citato art. 3 dell’O.P.C.M. 3741/2009, la stessa non risulta applicabile nel caso specifico mancando nell’atto qualsiasi motivazione di sostegno in tal senso.
In ogni caso, una eventuale duplicazione di spesa (pagamento delle parcelle professionali ai progettisti esterni e corresponsione degli emolumenti di cui all’art. 92 del D.Lgs. 163/2006) a carico della Amministrazione procedente può determinare danno erariale.
Costituisce infatti danno erariale la liquidazione integrale dell’incentivo in parola quando le prestazioni progettuali sono affidate a tecnici esterni (Corte dei conti, sez. giur. Calabria, 28.09.2007, n. 801) (Corte dei Conti, Sez. controllo Calabria, deliberazione 28.03.2013 n. 16).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIL’art. 1 del d.l. 95/2012 ha previsto la nullità, nonché la rilevanza ai fini dell’illecito disciplinare e della responsabilità ammin.va, dei contratti stipulati dalle PA in violazione dell'art. 26, c. 3, della L. 23.12.1999, n. 488, o stipulati in violazione degli obblighi di approvvigionarsi attraverso gli strumenti di acquisto messi a disposizione dalla CONSIP. L’istituto trova disciplina nell’art. 328 del d.p.r. 05.10.2010, n. 207 che abroga il d.p.r. 04.04.2002, n. 101.
L’art. 328, c. 4, lett. b), del Regolamento cod. app., prevede la possibilità di acquistare beni e servizi sotto la “soglia comunitaria” ricorrendo anche alle procedure di acquisto in economia, ex artt. 125 e ss. D.lgs. 163/2006, entro limiti di prezzo e quantità previsti da tali norme e nel rispetto degli autovincoli imposti dall’amministrazione medesima. La possibilità di ricorrere alla procedura ex art. 125 cod. contr. al di fuori di tali mercati residua solo nell’ipotesi di non reperibilità dei beni o servizi necessitati.
Il ricorso a un MEPA diverso da quello gestito direttamente dalla CONSIP appare una modalità alternativa di adempimento rispetto a un obbligo primario direttamente comminato dalla legge e troverà applicazione per le operazioni in tal senso concluse dagli EELL la nullità c.d. testuale o espressa comminata dal legislatore ai sensi dell’art. 1418, comma 3, c.c. (in tal senso sez. contr. Marche, deliberazione 29.11.2012 n. 169).
Trattasi infatti di interpretazione estensiva, e non già analogica, utilmente applicabile quindi anche con riguardo a fattispecie tendenzialmente tassative quali le norme comminatorie di nullità.

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Il comune di Cologno al Serio si interroga su quali siano, alla luce della normativa vigente, i limiti entro cui l’Amministrazione comunale possa procedere all'approvvigionamento di beni e servizi sul libero mercato, nel caso di reperimento di offerte economiche e/o qualitative più vantaggiose rispetto a quelle presenti nei cataloghi, o a seguito di pubblica consultazione, nell’ambito del mercato elettronico delle p.a. (MEPA).
Il comune istante richiede inoltre chiarimenti sulle conseguenze derivanti dalla violazione dell'art. 1, comma 450, della legge 27.12.2006, n. 296, come novellato dall'art. 7, comma 2, del decreto legge 07.05.2012, n. 52, convertito dalla legge 06.07.2012, n. 94 e dall'art. 1, comma 149, della legge 24.12.2012, n. 228, che prevede che "fermi restando gli obblighi e le facoltà previsti al comma 449 del presente articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, per gli acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328 ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento per lo svolgimento delle relative procedure".
In particolare, è richiesto se la sanzione prevista dall’art. 1, comma 1, del d.l. 06.07.2012, n. 95, convertito nella l. 07.08.2012, n. 135 per la violazione degli obblighi previsti per il mancato ricorso agli strumenti di acquisto messi a disposizione dalla Concessionaria servizi informatici pubblici s.p.a. (CONSIP) sia riferibile anche al mercato elettronico di cui alla normativa illustrata; inoltre, si intende conoscere l’avviso della Sezione anche sull’applicabilità della deroga prevista dall'ultimo periodo del comma 1 di tale articolo, secondo cui “La disposizione del primo periodo del presente comma non si applica alle Amministrazioni dello Stato quando il contratto sia stato stipulato ad un prezzo più basso di quello derivante dal rispetto dei parametri di qualità e di prezzo degli strumenti di acquisto messi a disposizione da CONSIP s.p.a., ed a condizione che tra l'amministrazione interessata e l'impresa non siano insorte contestazioni sulla esecuzione di eventuali contratti stipulati in precedenza.
...
L’art. 1 del d.l. 95/2012 ha previsto la nullità, nonché la rilevanza ai fini dell’illecito disciplinare e della responsabilità amministrativa, dei contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni in violazione dell'articolo 26, comma 3, della legge 23.12.1999, n. 488, ovvero di quelli stipulati in violazione degli obblighi di approvvigionarsi attraverso gli strumenti di acquisto messi a disposizione dalla CONSIP.
Per quanto concerne il MEPA, occorre rammentare che, giusta l’obbligo di ricorso come descritto, ai sensi dell’art. 1, comma 450, della l. 296/2006 per gli acquisti sotto la “soglia comunitaria” il ricorso ai mercati elettronici è stato reso obbligatorio:
i) a decorrere dal 01.07.2007, per le amministrazioni statali, centrali e periferiche, ad esclusione degli istituti e delle scuole di ogni ordine e grado, delle istituzioni educative e delle istituzioni universitarie;
ii) a decorrere dal 09.05.2012, per le tutte le amministrazioni come definite ai sensi dell’art. 1, d.lgs 30.03.2001, n. 165, ivi compresi, conseguentemente, gli enti locali. Quest’ultimo obbligo e la sua decorrenza, in realtà, sono il frutto della recente novellazione della norma citata, effettuata dal d.l. 07.05.2012, n. 52 (art. 7, comma 2) convertito con modificazioni dalla l. 06.07.2012, n. 94.
L’istituto trova oggi una sua compiuta disciplina nell’art. 328 del d.p.r. 05.10.2010, n. 207 (Regolamento di esecuzione e attuazione del codice dei contratti pubblici), che ha abrogato il previo d.p.r. 04.04.2002, n. 101, che aveva istituito il MEPA.
La norma ribadisce che il MEPA gestito dalla CONSIP; ovvero il mercato elettronico creato ad hoc dalla stazione appaltante; o quello realizzato da centrali di committenza ai sensi dell’art. 33 del codice dei contratti pubblici, consentono alle pubbliche amministrazioni di effettuare l’acquisto di beni o servizi che hanno caratteristiche generalmente disponibili sul mercato.
La costituzione del mercato elettronico passa attraverso bandi aperti, volti ad accertare i requisiti generali e speciali –in particolare i requisiti tecnico-professionali ed economico-finanziari– che i fornitori devono soddisfare per poter ottenere l’abilitazione; siffatto accertamento, attraverso tali bandi, viene effettuato su scala generale, risparmiando alle amministrazioni acquirenti l’onere di dover replicare simili procedure sostenendo i relativi costi.
Lo stesso art. 328, c. 4, lett. b), del Regolamento cod. app., prevede la possibilità di acquistare beni e servizi sotto la “soglia comunitaria” ricorrendo anche alle procedure di acquisto in economia, ex artt. 125 e ss. D.lgs. 163/2006, ovviamente entro i limiti di prezzo e quantità previsti da tali norme e nel rispetto degli autovincoli imposti dall’amministrazione medesima.
La possibilità residua di ricorrere alla procedura ex art. 125 cod. contr. al di fuori di tali mercati residua solo nell’ipotesi di non reperibilità dei beni o servizi necessitati; pertanto nella fase amministrativa di determinazione a contrarre, l’ente dovrà evidenziare le caratteristiche tecniche necessarie del bene e della prestazione; di avere effettuato il previo accertamento della insussistenza degli stessi sui mercati elettronici disponibili; e, ove necessario, la motivazione sulla non equipollenza con altri beni o servizi presenti sui mercati elettronici.
Peraltro,
non sussiste un obbligo assoluto di ricorso al MEPA, essendo espressamente prevista la facoltà di scelta tra le diverse tipologie di mercato elettronico richiamate dall’art. 328 del d.p.r. 207/2010: segnatamente, tra il mercato elettronico realizzato dalla medesima stazione appaltante e quello realizzato dalle centrali di committenza di riferimento di cui all’art. 33 cod. contr., potendo inoltre ricorrere al mercato elettronico elaborato dalla singola stazione appaltante (le opzioni percorribili sono confermate dall’art. 33, comma 3-bis, cod. contr.)
Ne deriva che, a ben vedere,
mentre il MEPA gestito dalla CONSIP rientra appieno tra gli “strumenti di acquisto messi a disposizione” dalla stessa, analoga tassonomia non può essere effettuata per i mercati elettronici curati da parte della singola stazione appaltante ovvero ad opera della centrale di committenza.
Tuttavia, a ben vedere,
il ricorso a un MEPA diverso da quello gestito direttamente dalla CONSIP appare una modalità alternativa di adempimento rispetto a un obbligo primario direttamente comminato dalla legge, con la conseguenza che troverà applicazione per le operazioni in tal senso concluse dagli enti locali la nullità c.d. testuale o espressa comminata dal legislatore ai sensi dell’art. 1418, comma 3, c.c. (in tal senso sez. contr. Marche, deliberazione 29.11.2012 n. 169).
Trattasi infatti di interpretazione estensiva, e non già analogica, utilmente applicabile quindi anche con riguardo a fattispecie tendenzialmente tassative quali le norme comminatorie di nullità.
Tale conclusione non appare contraddetta dall’ultimo periodo del comma 1, art. 1, che introduce una specifica “prova di resistenza” per le sole Amministrazioni dello Stato, determinando come conseguenza quella di impedire, per le sole amministrazioni locali (rispetto a cui l’obbligo di ricorso al MEPA gestito dalla CONSIP è indubbiamente più lasco) il beneficio della verifica del danno.
In effetti, come si ha avuto modo di cennare, per le Amministrazioni dello Stato detto beneficio compensa la circostanza che la disciplina degli obblighi di approvvigionamento sia maggiormente stringente.
Per le amministrazioni locali, invece, stante la possibilità di ricorso a diverse forme di reperimento sui vari MEPA, il legislatore ha limitato la possibilità di deroga e di conseguente ricerca sul libero mercato (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 26.03.2013 n. 112).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGO: Assistenza disabili, nuovo tetto
È pari a 46.835,93 euro il tetto complessivo anno, per il corrente 2013, dell'indennità per congedo straordinario e per il relativo accredito figurativo.

Lo precisa l'Inps nella circolare 19.04.2013 n. 59, rettificando i valori precedentemente indicati nella circolare n. 47/2013 (si veda ItaliaOggi 27.03.2013).
Il tetto, originariamente fissato nella misura di 70 milioni delle vecchie lire, riguarda il trattamento retributivo e contributivo del congedo straordinario per l'assistenza a familiari con handicap. Si tratta del particolare permesso introdotto dalla legge n. 388/2000 (Finanziaria per il 2001) a favore dei familiari di soggetti portatori di handicap in condizione di gravità della durata di due anni.
Il congedo straordinario dà diritto, ai lavoratori che ne fruiscono, sia a un'indennità economica sia alla relativa copertura figurativa dei contributi per il periodo di congedo, ma entro un tetto massimo annuo originariamente fissato per l'anno 2001 (euro 36.151,98) soggetto a rivalutazione annuale in base del tasso d'inflazione Istat. Il tetto rappresenta il limite massimo complessivo annuo dell'onere relativo al beneficio di tutto il congedo straordinario, che va ripartito cioè fra l'indennità economica e l'accredito figurativo.
Nella circolare n. 59/2013, in sostituzione di quelli indicati nella circolare n. 47/2013, l'Inps riporta i valori validi per l'anno corrente in base alla corretta variazione dell'indice Istat del 3% pubblicata sulla G.U. n. 43/2013 (nella circolare n. 47/2013 invece la rivalutazione aveva considerato il tasso del 2,2%).
Il tetto massimo annuo risulta, dunque, pari a 46.835,93 euro, con un importo massimo annuo per l'indennità di 35.215,00 euro e un importo massimo giornaliero dell'indennità di euro 96,48. La misura della retribuzione figurativa massima di riferimento è pari alla stessa indennità (cioè 35.215,00 euro) con valore settimanale massimo di euro 677,21 e una retribuzione figurativa massima giornaliera di 96,48 euro (articolo ItaliaOggi del 20.04.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOBlocco stipendi: accelerato l'iter per la proroga.
RETRIBUZIONI CONGELATE/ Il regolamento sterilizza gli emolumenti anche nel biennio 2013-14 e blocca l'indennità di vacanza contrattuale.

Il Consiglio di Stato accelera l'iter di approvazione del regolamento che proroga il blocco dei contratti collettivi del pubblico impiego.
La Sezione per gli atti normativi, con il parere 17.04.2013 n. 1832, ha dato il proprio via libera allo schema di Dpr approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 21 marzo.
Il Governo ha sfruttato in questo modo la delega ricevuta con l'articolo 16, comma 1, lettere b) e c), del decreto legge 98/2011, nella misura massima consentita, portando alla fine del 2014 lo stop ai contratti collettivi di lavoro dei dipendenti pubblici che era scaduto lo scorso 31 dicembre 2012.
Ma lo schema di decreto non si limita a questo. Composto da un articolo solo, è il primo comma il piatto forte del provvedimento. Suddiviso in quattro lettere, la prima sposta al 2014 alcuni termini contenuti nell'articolo 9 del Dl 78/2010.
In particolare: il limite al trattamento economico individuale, che non potrà superare quello ordinariamente spettante nel 2010 (comma 1); le indennità corrisposte ai responsabili degli uffici di diretta collaborazione dei ministri, che saranno ridotte del 10%, e il tetto alle retribuzioni dei nuovi incarichi dirigenziali di livello generale, che non potrà superare quello del predecessore (comma 2); il fondo per le risorse decentrate, il quale dovrà essere inferiore all'importo del 2010 e dovrà essere ridotto in base ai dipendenti cessati (comma 2-bis); infine, la validità esclusivamente giuridica delle progressioni (comma 21).
La lettera b) ha per oggetto sempre l'articolo 9 del Dl 78/2010, ma il comma 23, e somma anche l'anno 2013 al triennio precedente in ordine alla non valutabilità, per il personale Ata, del periodo ai fini della maturazione delle posizioni stipendiali.
La lettera c) riguarda il personale delle amministrazione di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 196/2009 e, quindi, anche le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del Dlgs 165/2001.
Per i dipendenti di tali pubbliche amministrazioni, gli anni 2013 e 2014 sono sterilizzati ai fini contrattuali. Ne consegue che il prossimo triennio di rinnovo contrattuale dovrebbe abbracciare l'arco temporale 2015-2017.
E nel biennio 2013-2014 cosa succede? La successiva lettera d) impone il divieto di corrispondere l'indennità di vacanza contrattuale, che doveva partire dal mese di aprile di quest'anno. Ciò expressis verbis in deroga all'articolo 47-bis del Dlgs 165/2001. In mezzo a questo blocco generalizzato delle retribuzioni fino al 2014, il legislatore ha "acconsentito" alla conservazione della misura dell'indennità di vacanza contrattuale corrisposta per effetto del comma 17 dell'articolo 9 del Dl 78/2010 a partire dal mese di aprile 2010.
A questo punto viene quasi da sorridere leggendo che il Governo si preoccupi di fissare, sin d'ora, le regole per il calcolo dell'indennità di vacanza contrattuale eventualmente da corrispondere a partire dal 2015, conservando, in pratica, gli attuali modi di calcolo e tempi di decorrenza. L'esperienza, purtroppo, insegna che due anni sono lunghi e le regole possono essere mutate innumerevoli volte (articolo Il Sole 24 Ore del 20.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:  Anticorruzione. In «Gazzetta» il decreto legislativo che attua la legge 190/2012 - Bloccati gli ex politici.
Stop ai dirigenti condannati. Divieto di cinque anni anche con sentenza non definitiva per reati contro la Pa.

Stop di cinque anni agli incarichi dirigenziali per i condannati per reati alla Pubblica amministrazione, anche con sentenza di primo grado, e blocco definitivo se la condanna è per corruzione, concussione o peculato. Nuovo tentativo di chiusura delle porte girevoli fra politica e amministrazione, con l'impossibilità di aspirare a un posto da dirigente in Regione o in un ente locale con più di 15mila abitanti (comprese le Unioni di Comuni) se negli ultimi due anni si è fatto parte della Giunta o del consiglio regionale o nell'ultimo anno si è stati sindaci, presidenti, assessori o consiglieri in un ente locale all'interno della stessa Regione.
Con il Dlgs 39/2013 pubblicato ieri sulla «Gazzetta Ufficiale» viene data un'attuazione, rigida nelle intenzioni, alle norme sull'incompatibilità e l'inconferibilità degli incarichi dirigenziali introdotte dall'articolo 1, commi 49 e 50, della legge «anticorruzione» (legge 190/2012). Regioni, Province e Comuni hanno tre mesi di tempo per adeguare i propri ordinamenti, dopo di che interviene lo Stato con potere sostitutivo.
La griglia delle incompatibilità si estende anche alle aziende sanitarie, che non potranno ospitare ex politici nelle proprie caselle di vertice (direttore generale, direttore sanitario e direttore amministrativo). L'inconferibilità è biennale per chi ha fatto il premier, il ministro o il sottosegretario alla sanità, solo annuale nel caso degli ex parlamentari e triennale per chi ha operato come politico in Regione o ha amministrato un ente pubblico di livello regionale: il semaforo rosso si accende per due anni anche per chi si è seduto in una Giunta o in un consiglio all'interno di un ente locale con più di 15mila abitanti.
Sul versante delle condanne, in linea con la parte della legge «anticorruzione» che conferiva la delega al Governo, è sufficiente come accennato una sentenza di primo grado per chiudere all'interessato le porte di un vertice amministrativo, per cinque anni nei casi di reati contro la Pubblica amministrazione e per sempre se il reato è quello di corruzione, concussione o peculato. Naturalmente, quando la sentenza non è definitiva può essere ribaltata nei successivi gradi di giudizio, con la conseguenza di far decadere anche l'inconferibilità.
Oltre a regolare il traffico degli incarichi, che oltre agli ex politici diretti alla dirigenza si interessa anche delle evoluzioni in senso opposto, il Dlgs si preoccupa ovviamente anche di indicare le verifiche e le sanzioni per chi viola le nuove regole. Sul primo versante, il decreto introduce un doppio sistema di controlli, interni ed esterni. La vigilanza interna spetta al responsabile anti-corruzione, che contesta il problema all'interessato e segnala i casi di possibile violazione a tre controllori esterni: l'Autorità nazionale anti-corruzione (a cui va girato anche il provvedimento di revoca), l'Antitrust e la Corte dei conti, perché si verifichino anche le eventuali responsabilità amministrative.
Chi ha conferito l'incarico poi annullato per l'inconferibilità, infatti, sarà chiamato a rispondere delle «conseguenze economiche» degli atti adottati, e per tre mesi non può più procedere agli affidamenti degli incarichi di propria competenza.
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I punti chiave
01 | CONDANNE
Stop per cinque anni agli incarichi di vertice a chi ha subito una condanna anche non definitiva per reati contro la Pa. Lo stop è definitivo se la condanna è per corruzione, concussione o peculato
02 | INCOMPATIBILITÀ
Non possono accedere temporaneamente a incarichi dirigenziali gli ex politici nazionali o locali, con diverse gradazioni a seconda della carica di provenienza
03 | SANZIONI
Chi conferisce incarichi illegittimi risponde delle conseguenze economiche (articolo Il Sole 24 Ore del 20.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAAmbiente. Verifica dei dati a partire dal 30 aprile. Il Sistri prova a ripartire dai rifiuti pericolosi.
I TEMPI/ La prima scadenza per l'uso dei dispositivi elettronici è fissata al 1° ottobre mentre l'entrata a regime avverrà dal 03.03.2014.

Sulla «Gazzetta ufficiale» di ieri è stato pubblicato il decreto che stabilisce la ripartenza del Sistri. O, meglio la partenza, perché il sistema per la tracciabilità elettronica dei rifiuti non è ancora mai partito.
Il Dm era stato annunciato qualche giorno fa dal ministro dell'Ambiente Corrado Clini (e anticipato dal Sole 24 ore del 22 marzo) e pone fine alla sospensione del sistema disposta dall'articolo 52 del Dl 83/2012. Inoltre, opera una serie di interventi tra i quali la sospensione del contributo Sistri dovuto per il 2013 per gli enti e imprese già iscritti al 30.04.2013.
In base al nuovo Dm una serie di imprese che producono e gestiscono rifiuti pericolosi dovranno impegnarsi nella prima fase di riallineamento; cioè, verificare l'attualità dei dati già trasmessi al Sistri anche in ordine alle vicende societarie che eventualmente hanno investito le singole aziende. Il riallineamento riguarda i seguenti soggetti: produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi con oltre dieci dipendenti e (a prescindere dai dipendenti) purché operino su rifiuti pericolosi: raccoglitori, trasportatori, recuperatori, smaltitori, commercianti e intermediari, terminalisti e imprese portuali, operatori della logistica ferroviaria? Il tutto a cominciare dal prossimo 30 aprile fino al successivo 30 settembre in modo da essere pronti a partire con l'uso dei dispositivi informatici (chiavette Usb e black boxes) dall'01.10.2013.
La seconda fase riguarderà gli altri soggetti obbligati che verificheranno le singole posizioni fra il 30.09.2013 e il 28.02.2014, per essere operativi dal 03.03.2014. Tuttavia, a livello volontario, anche loro potranno iniziare a utilizzare i dispositivi Sistri dal 01.10.2013. Per un mese dopo le singole scadenze di avvio, il Dm pretende il regime del "doppio binario" per tutti gli obbligati al Sistri imponendo loro la tenuta e la conservazione dei tradizionali registri e formulari per i 30 giorni successivi alle diverse date di operatività del Sistri.
Da quelle date usciranno dal limbo, prendendo vita, una serie di articoli del Codice ambientale introdotti dal Dlgs 205/2010 e non ancora in vigore. L'emanazione del Dm non sopisce però (anzi, ricorda) tutti i problemi che ancora sono sul tappeto; tuttavia, il preambolo del provvedimento non sottolinea che per rendere efficace l'operatività del Sistri, fin dalla prima fase di riallineamento, occorre approfondire e individuare necessarie misure di semplificazione, con particolare riguardo all'anagrafica e alle modalità di trasmissione dei dati.
Questo preambolo rassicura sulla necessità di formare gli addetti e sulla partecipazione attiva delle imprese, che si realizzerà anche attraverso il rinnovamento del Comitato di vigilanza e controllo. Il nuovo calendario dettato dal ministro Clini da il tempo per superare i numerosi problemi che affliggono il Sistri e dilata i termini più immediati; ma, affida tutto al fattore tempo e, per il momento, non risolve nulla di quella macchina così complicata e costosa che il Sistri non ha mai cessato di essere, primo tra tutti il problema della interoperabilità (articolo Il Sole 24 Ore del 20.04.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Non va pubblicato l'elenco degli incarichi conferiti agli statali da privati.
Niente pubblicazione sui portali per gli incarichi conferiti a dipendenti pubblici da privati, se ricompresi nell'elenco contenuto nell'articolo 53, comma 6, del dlgs 165/2001.

Molte amministrazioni stanno dando un'interpretazione parecchio estensiva dell'articolo 18 del dlgs 33/2013, ai sensi del quale «le pubbliche amministrazioni pubblicano l'elenco degli incarichi conferiti o autorizzati a ciascuno dei propri dipendenti, con l'indicazione della durata e del compenso spettante per ogni incarico».
La norma è chiaramente riferita alla disciplina delle autorizzazioni allo svolgimento di incarichi da parte di dipendenti pubblici, contenuta nell'articolo 53 dlgs 165/2001. L'articolo 18 del dlgs 33/2013, allo scopo di apprestare una salvaguardia contro potenziali abusi, impone anche un ampio regime di pubblicità, così da permettere il controllo «diffuso» sull'attività delle amministrazioni, previsto dall'articolo 1 del medesimo decreto. La norma, tuttavia, è da considerare pienamente operativa solo per le ipotesi di incarichi soggetti, appunto, al regime di autorizzazione e cioè tutti quelli conferiti o autorizzati dalle amministrazioni pubbliche, non rientranti nei doveri d'ufficio.
Scopo dell'articolo 18 è consentire un controllo incrociato. L'amministrazione che autorizza deve pubblicare appunto gli incarichi autorizzati; l'amministrazione che incarica, a sua volta deve pubblicare il conferimento. La piena operatività della norma viene, però, a mancare laddove l'incarico sia assegnato a un dipendente pubblico da parte di un soggetto privato e rientri tra quelli che, ai sensi del comma 6, dell'articolo 53 del Testo unico sul lavoro pubblico non sono soggetti ad autorizzazione.
Si tratta della collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili; dell'utilizzazione economica di opere dell'ingegno e di invenzioni industriali; della partecipazione a convegni e seminari; di incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle spese documentate; di incarichi svolti in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo; da incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita; attività di formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministrazione.
In questo caso, nessuna pubblicazione è prevista. Non per il soggetto privato che incarica, ovviamente non tenuto ad applicare le previsioni del dlgs 33/2013, riferito esclusivamente alle amministrazioni pubbliche. Ma nessuna pubblicazione deve compiere nemmeno l'ente col quale il dipendente incaricato conduce il rapporto di lavoro, visto che si tratta, come rilevato prima, di incarichi per i quali non è prevista autorizzazione alcuna: poiché l'articolo 18 del decreto sulla trasparenza impone di pubblicare gli incarichi conferiti da una pubblica amministrazione o autorizzati, sempre da una pubblica amministrazione, nel caso di specie nessuna pubblicazione deve essere effettuata (articolo ItaliaOggi del 19.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Il sindaco che corre per il parlamento deve dimettersi dalla carica. Candidature differite. Accettazione dalla presentazione delle liste.
Il sindaco di un comune ha rassegnato le dimissioni dalla carica al fine di poter partecipare alle elezioni politiche, ai sensi dell'art. 1, comma 1, lett. d) del dl 18.12.2012, n. 223. L'accettazione della candidatura da parte del primo cittadino in data antecedente a quella in cui le dimissioni rassegnate dallo stesso diventino irrevocabili, ne comporta la decadenza ai sensi dell'art. 62 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267?

Le dichiarazioni di accettazione delle singole candidature, ai sensi dell'art. 20 del dpr 30.03.1957, n. 361, per l'elezione della camera dei deputati e dell'art. 9 del dlgs 20.12.1993, n. 533, per l'elezione del senato della repubblica, devono essere presentate, unitamente ai certificati di iscrizione elettorale dei candidati, a corredo della documentazione concernente la presentazione, da parte dei partiti e gruppi politici, delle liste dei candidati stessi, rispettivamente, dalle ore 8 del 35° giorno alle ore 20 del 34° giorno antecedenti quello della votazione e dalle ore 8 del trentacinquesimo giorno alle ore 20 del trentaquattresimo giorno antecedente quello della votazione.
Solo nel giorno stesso di presentazione della lista di candidati, può ritenersi che le dichiarazioni di accettazione delle candidature possano assumere giuridica rilevanza ed efficacia, in quanto, prima di quel momento, l'accettazione della candidatura rimane nella disponibilità della forza politica che l'ha raccolta e che, ovviamente, può desistere dal formalizzare la propria partecipazione alla competizione o può anche ritenere di modificare i componenti della propria lista.
Nel caso di specie, a decorrere dal giorno successivo a quello in cui le dimissioni dalla carica di sindaco, se non revocate, si saranno perfezionate, dovrà essere avviata la procedura di scioglimento del consiglio comunale ai sensi dell'art. 141, comma lett. b), n. 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (articolo ItaliaOggi del 19.04.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Incompatibilità.
È causa di incompatibilità, ex art. 63, comma 2, n. 4, del dlgs n. 267/2000, la posizione di un sindaco che è socio di una società di capitali che ha, nei confronti dell'ente locale, una lite pendente in materia tributaria?

L'art. 63, comma 1, n. 4, del decreto legislativo 267/2000 stabilisce che non può ricoprire la carica di sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, provinciale o circoscrizionale colui che ha lite pendente in quanto parte di un procedimento civile od amministrativo, rispettivamente con il comune o la provincia.
Premesso che la pendenza di una lite in materia tributaria, stante la norma di cui al citato art. 63, non determina incompatibilità, si soggiunge che la Corte di cassazione, con giurisprudenza costante, ha evidenziato che per la sussistenza della causa di limitazione all'espletamento del mandato elettivo è necessario far riferimento al concetto tecnico di parte in senso processuale.
Le parti del processo, anche in assenza di una espressa definizione legislativa, sono univocamente individuate, in dottrina e in giurisprudenza, in quei soggetti i quali, a seguito del compimento di determinati atti processuali (proposizione della domanda, costituzione nel processo), assumono la qualità e la conseguente titolarità di una serie di poteri e facoltà processuali.
La Suprema corte ha precisato che il concetto di «parte» del giudizio ha portata essenzialmente processuale e non è quindi riferibile alla diversa figura del «soggetto interessato all'esito della lite per le ricadute patrimoniali che possano derivargliene».
Tale concetto non può essere esteso a tutti coloro che potrebbero trarre vantaggio da una pronuncia giurisdizionale, in quanto si aprirebbe il varco ad una compressione ingiustificata del diritto costituzionalmente garantito di ricoprire una carica amministrativa.
Tale orientamento, volto a salvaguardare il più generale principio della tassatività delle ipotesi di ineleggibilità ed incompatibilità, è confermato dalla giurisprudenza della Suprema corte (Cass. civ. sez. I, 19/05/2001, n. 6880; Corte Cost., sent 240/2008).
Pertanto, nella fattispecie rappresentata, non sussiste la causa d'incompatibilità prevista dall'art. 63, comma 1, n. 4 del decreto legislativo 267/2000 (articolo ItaliaOggi del 19.04.2013).

ENTI LOCALISanzioni impugnabili al Tar.
È competente il Tar Lazio sui ricorsi presentati contro il patto di stabilità. Spetta infatti al Tar Lazio conoscere del ricorso proposto da un comune avverso il provvedimento con cui il ministero dell'interno irroga le sanzioni per violazione degli obblighi derivanti dal cosiddetto «patto di stabilità interno».

Questo è quanto afferma il Consiglio di stato nell'adunanza plenaria con ordinanza 02.04.2013 n. 6.
Il comune di Messina ha impugnato dinanzi alla sezione di Catania del Tar della Sicilia il decreto del dipartimento per gli affari interni e territoriali del ministero dell'interno del 26.07.2012, con il quale sono state irrogate le sanzioni di cui all'art. 7 del dlgs 06.09.2011, n. 149, ai comuni inadempienti agli obblighi rivenienti dal patto di stabilità relativo all'anno 2011. Il Tar della Sicilia, ritenuta la propria giurisdizione e competenza, ha accolto l'istanza incidentale di sospensiva formulata dal comune ricorrente.
Avverso detta ordinanza insorgono i ministeri dell'interno e dell'economia e delle finanze sostenendo che fosse competente il Tar Lazio. Secondo i giudici di Palazzo Spada è competente il Tar Lazio a conoscere del ricorso proposto dal comune di Messina in quanto il medesimo atto determina effetti diretti sia sul complessivo equilibrio finanziario dello stato che sulle finanze dei comuni.
I giudici ricordano come la stessa esistenza del patto di stabilità interno deriva dagli impegni che lo stato italiano ha assunto in sede europea per la riduzione e il contenimento del debito pubblico. Impegni la cui violazione espone a sua volta l'Italia a conseguenze e sanzioni sul piano comunitario indipendentemente dall'ascrivibilità della violazione stessa alle regioni o ad altre articolazioni territoriali interne. Al rispetto di tale impegno comunitario sono chiamati a concorrere anche le regioni e gli enti locali (articolo ItaliaOggi del 18.04.2013).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: E' senz’altro vero che ogni titolo edilizio ampiamente inteso esiste salvi i diritti dei terzi, e quindi è non automaticamente illegittimo allorquando contrasti con gli stessi in cui assentisca una costruzione a distanza inferiore alla legale; la conclusione però cambia quando l’ente competente a provvedere di tale contrasto sia a conoscenza: in tal caso, il titolo diventa illegittimo, e soggetto a interventi in senso ampio repressivi.
Ancòra una volta, ciò va ritenuto senz’altro ritenendo che la d.i.a. integrasse un atto abilitativo tacito, ma rimane valido anche aderendo alla citata tesi della d.i.a. come atto privato espressa da C.d.S. a.p. 15/2011 con riguardo alle norme vigenti all’epoca dei fatti: in linea generale, il Comune è comunque abilitato a intervenire a fronte di atti privati che si concretino in una costruzione abusiva.

Ciò posto, alla fattispecie si adatta l’insegnamento di TAR Liguria 11.07.2007 n. 1376.
In termini generali, è senz’altro vero che ogni titolo edilizio ampiamente inteso esiste salvi i diritti dei terzi, e quindi è non automaticamente illegittimo allorquando contrasti con gli stessi, come nel caso di rilievo, in cui assentisca una costruzione a distanza inferiore alla legale; la conclusione però cambia quando l’ente competente a provvedere di tale contrasto sia, come nella specie, a conoscenza: in tal caso, il titolo diventa illegittimo, e soggetto a interventi in senso ampio repressivi.
Ancòra una volta, ciò va ritenuto senz’altro ritenendo che la d.i.a. integrasse un atto abilitativo tacito, ma rimane valido anche aderendo alla citata tesi della d.i.a. come atto privato espressa da C.d.S. a.p. 15/2011 con riguardo alle norme vigenti all’epoca dei fatti: in linea generale, il Comune è comunque abilitato a intervenire a fronte di atti privati che si concretino in una costruzione abusiva (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 19.04.2013 n. 385 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’obbligo di invio del preavviso di diniego di cui all’art. 10-bis l. 07.08.1990 n. 241 non va visto in senso formalistico, e quindi, ove non rispettato, non rileva, se non si dimostra che nel caso concreto il possibile destinatario avrebbe potuto rappresentare elementi tali da orientare l’amministrazione in senso difforme.
Il ricorso, peraltro, è infondato nel merito.
Di esso è infondato il primo motivo, atteso che, per costante giurisprudenza, per tutte C.d.S. sez. V 03.05.2012 n. 2548, l’obbligo di invio del preavviso di diniego di cui all’art. 10-bis l. 07.08.1990 n. 241 non va visto in senso formalistico, e quindi, ove non rispettato, non rileva, se non si dimostra che nel caso concreto il possibile destinatario avrebbe potuto rappresentare elementi tali da orientare l’amministrazione in senso difforme (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 19.04.2013 n. 384 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di balconi da un lato modifica la fruizione di un edificio, dall’altro ne altera facciata e prospetto, sì che necessariamente richiede il permesso di costruire, e in mancanza di esso è sanzionata con la demolizione per cui è causa, ai sensi dell’art. 31 T.U. 380/2001.
I residui motivi vanno esaminati congiuntamente perché connessi, e risultano a loro volta infondati.
Come infatti ritenuto dalla giurisprudenza, esattamente in termini da TAR Piemonte sez. I 09.11.2012 n. 1181 e da TAR Campania Napoli sez. IV 28.10.2011 n. 5052, la realizzazione di balconi da un lato modifica la fruizione di un edificio, dall’altro ne altera facciata e prospetto, sì che necessariamente richiede il permesso di costruire, e in mancanza di esso è sanzionata con la demolizione per cui è causa, ai sensi dell’art. 31 T.U. 380/2001 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 19.04.2013 n. 384 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: La prima questione da affrontare è il rapporto tra le opere in cemento armato e le tipologie di progettazioni rientranti nella sfera di competenza professionale dei geometri.
Il punto di partenza ineludibile è la disposizione che impone ai geometri di astenersi dalla progettazione e dalla direzione lavori aventi ad oggetto opere in cemento armato, con la sola eccezione delle piccole costruzioni accessorie in zona agricola. Secondo un’interpretazione letterale le costruzioni civili in ambito non agricolo che comportino l’uso di cemento armato sarebbero sempre escluse dalla competenza dei geometri, anche quando si mantengano nei limiti delle modeste costruzioni.
La rigidità dell’interpretazione letterale è però attenuata dalla prassi di suddividere la progettazione e la direzione lavori in due segmenti, uno riferito alle opere in cemento armato e uno incentrato sugli aspetti architettonici. Questa soluzione si muove lungo un confine incerto, e potrebbe facilmente prestarsi a comportamenti elusivi della norma. Sono considerati comportamenti elusivi la controfirma o il visto del progetto da parte di un ingegnere o architetto e l’affidamento a questi ultimi dei calcoli relativi al cemento armato.
Tuttavia, se lo scorporo delle attività professionali riguardanti il cemento armato è effettivo e non simulato, e ciascun professionista (geometra da un lato, architetto o ingegnere dall’altro) riceve dal committente un incarico rientrante nel rispettivo ambito professionale assumendosi una responsabilità piena circa il contenuto della propria prestazione, con il solo vincolo di coordinarsi con gli altri professionisti dato il carattere unitario dell’edificazione, si apre la via verso una soluzione ragionevole consentita dall’art. 16 del RD 274/1929. In una simile prospettiva è infatti possibile trovare un punto di equilibrio tra la parte della norma che esclude il cemento armato dalla competenza professionale dei geometri in relazione alle costruzioni civili (lett. l) e quella che estende ai geometri la progettazione e la direzione lavori con riferimento alle costruzioni civili di modesta importanza (lett. m).
Poiché anche le costruzioni civili di modesta importanza possono richiedere l’impiego di cemento armato, non sarebbe corretto interdire in questi casi ai geometri una porzione rilevante della loro competenza professionale, quando sia invece possibile scorporare in modo chiaro ed effettivo dalla progettazione e dalla direzione lavori tutta l’attività riferibile al cemento armato, che richiede calcoli complessi. Lo scorporo appare la soluzione preferibile anche alla luce del principio di proporzionalità (non devono essere inflitte alla competenza professionale dei geometri limitazioni maggiori di quelle strettamente necessarie a garantire la sicurezza delle persone e degli edifici).
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Occorre poi sottolineare che in ogni caso l’eventuale superamento del confine tra le competenze dei diversi ordini professionali rileva sul piano privatistico come causa di nullità dell’incarico professionale ma non su quello pubblicistico come vizio del permesso di costruire. Affinché il titolo edilizio sia legittimo è sufficiente da un lato che i calcoli del cemento armato siano effettuati da un ingegnere o architetto, e dall’altro che il progetto redatto dal geometra (o in relazione al quale il geometra svolga la direzione lavori) non oltrepassi la tipologia delle modeste costruzioni civili.
In altri termini, quando i calcoli provengano da un ingegnere o architetto si può presumere che sussistano adeguate garanzie per la sicurezza delle persone e degli edifici. Di conseguenza l’interesse pubblico è pienamente tutelato e non si oppone alla realizzazione della costruzione, il che consente agli uffici comunali di limitarsi a verificare se l’opera sia effettivamente una modesta costruzione civile, tralasciando valutazioni di tipo privatistico sull’esistenza o meno di un valido incarico professionale tra il committente e il geometra.
Quando il titolo edilizio risulti legittimo nel senso appena chiarito, non vi sono ragioni per impedire il collaudo delle opere in cemento armato che compongono la costruzione assentita.
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Gli ordini e i collegi professionali hanno interesse e legittimazione a tutelare le prerogative delle rispettive categorie di professionisti, tanto in sede giurisdizionale quanto davanti all’autorità amministrativa, ma non possono utilizzare le procedure amministrative previste ad altri fini per ostacolare o sanzionare i professionisti della categoria concorrente che effettuano un’invasione di campo. In mancanza di norme puntuali un simile potere non è desumibile neppure dalle funzioni di interesse pubblico svolte da questi organismi.
Nello specifico quindi l’Ordine degli Architetti non è legittimato a bloccare la procedura di collaudo statico rifiutandosi di designare le terne per la scelta dei collaudatori. In questo modo infatti verrebbe interrotto l’iter che porta al rilascio del certificato di agibilità (v. art. 25, comma 3, e art. 67, comma 8, del DPR 380/2001) e vi sarebbe un’intromissione nei poteri di controllo dell’amministrazione comunale, la quale è l’unico soggetto titolato a decidere delle condizioni di utilizzabilità di un edificio.
L’Ordine degli Architetti può invece intervenire a difesa della categoria con altri strumenti:
(a) all’inizio del percorso di edificazione, impugnando il titolo edilizio che approva il progetto redatto dal professionista non competente, o invitando l’amministrazione comunale a effettuare un annullamento in autotutela;
(b) alla fine, segnalando all’amministrazione comunale che dal collaudo emerge il mancato rispetto della riserva sul cemento armato, o impugnando il certificato di agibilità che non tenga conto della violazione della suddetta riserva.

... per l'annullamento:
a) nel ricorso introduttivo:
- della nota dell’Ordine degli Architetti di Bergamo prot. n. 2011/5398 del 06.12.2011, con la quale è stata respinta la richiesta di designare una terna di professionisti per il collaudo di opere in cemento armato eseguite affidando a un geometra la direzione lavori per il progetto architettonico;
- della nota del 30.11.2011, con la quale l’Ordine degli Architetti di Bergamo ha rifiutato a Eurocostruzioni srl la designazione della terna di nomi per il collaudo di opere strutturali (in quanto progettista architettonico e direttore lavori per il progetto architettonico risulta essere stato un geometra);
b) nei motivi aggiunti:
- della deliberazione del consiglio dell’Ordine degli Architetti di Bergamo n. 135/2011 del 12.09.2011, con la quale è stata respinta la richiesta dell’impresa edile Bena Costruzioni srl finalizzata alla designazione della terna di professionisti per il collaudo di opere in cemento armato (in quanto direttore lavori per il progetto architettonico risulta essere stato un geometra);
- della nota del 10.02.2012, con la quale l’Ordine degli Architetti di Bergamo ha rifiutato a Edil 62 srl la designazione della terna di nomi per il collaudo di opere strutturali (in quanto progettista architettonico e direttore lavori per il progetto architettonico risulta essere stato un geometra);
...
Sulla competenza professionale dei geometri
11. Passando all’esame del merito, la prima questione da affrontare è il rapporto tra le opere in cemento armato e le tipologie di progettazioni rientranti nella sfera di competenza professionale dei geometri.
12. Il punto di partenza ineludibile è la disposizione che impone ai geometri di astenersi dalla progettazione e dalla direzione lavori aventi ad oggetto opere in cemento armato, con la sola eccezione delle piccole costruzioni accessorie in zona agricola. Secondo un’interpretazione letterale le costruzioni civili in ambito non agricolo che comportino l’uso di cemento armato sarebbero sempre escluse dalla competenza dei geometri, anche quando si mantengano nei limiti delle modeste costruzioni (v. Cass. civ. Sez. II 14.02.2012 n. 2153).
13. La rigidità dell’interpretazione letterale è però attenuata dalla prassi di suddividere la progettazione e la direzione lavori in due segmenti, uno riferito alle opere in cemento armato e uno incentrato sugli aspetti architettonici. Questa soluzione si muove lungo un confine incerto, e potrebbe facilmente prestarsi a comportamenti elusivi della norma. Sono considerati comportamenti elusivi la controfirma o il visto del progetto da parte di un ingegnere o architetto e l’affidamento a questi ultimi dei calcoli relativi al cemento armato (v. Cass. civ. Sez. II 02.09.2011 n. 18038).
14. Tuttavia, se lo scorporo delle attività professionali riguardanti il cemento armato è effettivo e non simulato, e ciascun professionista (geometra da un lato, architetto o ingegnere dall’altro) riceve dal committente un incarico rientrante nel rispettivo ambito professionale assumendosi una responsabilità piena circa il contenuto della propria prestazione, con il solo vincolo di coordinarsi con gli altri professionisti dato il carattere unitario dell’edificazione, si apre la via verso una soluzione ragionevole consentita dall’art. 16 del RD 274/1929. In una simile prospettiva è infatti possibile trovare un punto di equilibrio tra la parte della norma che esclude il cemento armato dalla competenza professionale dei geometri in relazione alle costruzioni civili (lett. l) e quella che estende ai geometri la progettazione e la direzione lavori con riferimento alle costruzioni civili di modesta importanza (lett. m).
15. Poiché anche le costruzioni civili di modesta importanza possono richiedere l’impiego di cemento armato, non sarebbe corretto interdire in questi casi ai geometri una porzione rilevante della loro competenza professionale, quando sia invece possibile scorporare in modo chiaro ed effettivo dalla progettazione e dalla direzione lavori tutta l’attività riferibile al cemento armato, che richiede calcoli complessi. Lo scorporo appare la soluzione preferibile anche alla luce del principio di proporzionalità (non devono essere inflitte alla competenza professionale dei geometri limitazioni maggiori di quelle strettamente necessarie a garantire la sicurezza delle persone e degli edifici).
Sulla necessità di separare questioni privatistiche e pubblicistiche
16. Occorre poi sottolineare che in ogni caso l’eventuale superamento del confine tra le competenze dei diversi ordini professionali rileva sul piano privatistico come causa di nullità dell’incarico professionale ma non su quello pubblicistico come vizio del permesso di costruire. Affinché il titolo edilizio sia legittimo è sufficiente da un lato che i calcoli del cemento armato siano effettuati da un ingegnere o architetto, e dall’altro che il progetto redatto dal geometra (o in relazione al quale il geometra svolga la direzione lavori) non oltrepassi la tipologia delle modeste costruzioni civili (v. CS Sez. IV 28.11.2012 n. 6036).
17. In altri termini, quando i calcoli provengano da un ingegnere o architetto si può presumere che sussistano adeguate garanzie per la sicurezza delle persone e degli edifici. Di conseguenza l’interesse pubblico è pienamente tutelato e non si oppone alla realizzazione della costruzione, il che consente agli uffici comunali di limitarsi a verificare se l’opera sia effettivamente una modesta costruzione civile, tralasciando valutazioni di tipo privatistico sull’esistenza o meno di un valido incarico professionale tra il committente e il geometra.
18. Quando il titolo edilizio risulti legittimo nel senso appena chiarito, non vi sono ragioni per impedire il collaudo delle opere in cemento armato che compongono la costruzione assentita.
Sui poteri di autotutela degli ordini professionali
19. Sotto un diverso profilo si osserva che gli ordini e i collegi professionali hanno interesse e legittimazione a tutelare le prerogative delle rispettive categorie di professionisti, tanto in sede giurisdizionale quanto davanti all’autorità amministrativa, ma non possono utilizzare le procedure amministrative previste ad altri fini per ostacolare o sanzionare i professionisti della categoria concorrente che effettuano un’invasione di campo. In mancanza di norme puntuali un simile potere non è desumibile neppure dalle funzioni di interesse pubblico svolte da questi organismi.
20. Nello specifico quindi l’Ordine degli Architetti non è legittimato a bloccare la procedura di collaudo statico rifiutandosi di designare le terne per la scelta dei collaudatori. In questo modo infatti verrebbe interrotto l’iter che porta al rilascio del certificato di agibilità (v. art. 25, comma 3, e art. 67, comma 8, del DPR 380/2001) e vi sarebbe un’intromissione nei poteri di controllo dell’amministrazione comunale, la quale è l’unico soggetto titolato a decidere delle condizioni di utilizzabilità di un edificio.
21. L’Ordine degli Architetti può invece intervenire a difesa della categoria con altri strumenti: (a) all’inizio del percorso di edificazione, impugnando il titolo edilizio che approva il progetto redatto dal professionista non competente, o invitando l’amministrazione comunale a effettuare un annullamento in autotutela; (b) alla fine, segnalando all’amministrazione comunale che dal collaudo emerge il mancato rispetto della riserva sul cemento armato, o impugnando il certificato di agibilità che non tenga conto della violazione della suddetta riserva. Queste circostanze sono però, come è evidente, estranee al presente giudizio.
Conclusioni
22. In base alle considerazioni sopra esposte il ricorso deve essere accolto, con il conseguente annullamento degli atti impugnati. L’Ordine degli Architetti è quindi tenuto a prestare la propria collaborazione nella formazione delle terne per la scelta dei collaudatori.
23. Questo accertamento appare satisfattivo dell’interesse della parte ricorrente, e dunque, tenuto conto anche della pronuncia cautelare anticipatoria del merito, non residuano margini per riconoscere un danno risarcibile, neppure sul piano morale.
24. La complessità di alcune questioni consente la compensazione delle spese di giudizio. Il contributo unificato è a carico dell’Ordine degli Architetti ai sensi dell’art. 13, comma 6-bis.1, del DPR 30.05.2002 n. 115 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 18.04.2013 n. 361 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il parametro valutativo dell’attività edilizia svolta dai privati resta circoscritto all’accertamento, da parte dell’autorità competente al rilascio del richiesto titolo abilitativo edilizio, della mera conformità dell’opera progettata alla disciplina urbanistica, sempre restando salvi i diritti dei terzi; nel senso che la legittimità del provvedimento ampliativo non interferisce, comunque, con l’assetto dei rapporti tra privati; e con la conseguenza che non sussiste un obbligo generalizzato, per detta autorità, di verificare l’insussistenza di limiti di matrice civilistica alla realizzazione di un intervento edilizio.
Tuttavia, ai sensi del comb. disp. artt. 11, comma 1, e 20, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, l’amministrazione ha il potere-dovere di accertare, nei confronti del richiedente, il possesso del requisito della legittimazione, ossia di un idoneo titolo di godimento sul bene riguardato dal progetto di trasformazione urbanistica sottopostole, allorquando, segnatamente, quest’ultimo provenga da un terzo non proprietario ovvero comproprietario dell’immobile.
Pertanto, il permesso di costruire può, bensì, essere richiesto con salvezza dei diritti dei terzi, e al richiedente essere legittimamente rilasciato, purché, però, non determini un evidente contrasto col diritto di altri che non lo abbia richiesto. E, quindi, se, di regola, l’autorità competente non è chiamata a svolgere complesse indagini volte a ricostruire le vicende concernenti la titolarità del bene attinto dagli interventi progettati, è, comunque, tenuta a verificare se l’istanza edificatoria sia sorretta dalla effettiva disponibilità del predetto bene, soprattutto nel caso in cui altri soggetti si attivino per esprimere la propria opposizione.

Ciò premesso, il Collegio non ignora, poi, che il parametro valutativo dell’attività edilizia svolta dai privati resta circoscritto all’accertamento, da parte dell’autorità competente al rilascio del richiesto titolo abilitativo edilizio, della mera conformità dell’opera progettata alla disciplina urbanistica, sempre restando salvi i diritti dei terzi; nel senso che la legittimità del provvedimento ampliativo non interferisce, comunque, con l’assetto dei rapporti tra privati; e con la conseguenza che non sussiste un obbligo generalizzato, per detta autorità, di verificare l’insussistenza di limiti di matrice civilistica alla realizzazione di un intervento edilizio.
Tuttavia, ai sensi del comb. disp. artt. 11, comma 1, e 20, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, l’amministrazione ha il potere-dovere di accertare, nei confronti del richiedente, il possesso del requisito della legittimazione, ossia di un idoneo titolo di godimento sul bene riguardato dal progetto di trasformazione urbanistica sottopostole, allorquando, segnatamente, quest’ultimo provenga da un terzo non proprietario ovvero comproprietario dell’immobile –come prospettato dalla Provincia di Caserta nella nota del 28.12.2010, prot. n. 122405, e dai controinteressati nelle note del 28.10.2010, prot. n. 106384, e del 05.05.2011, prot. n. 7976– (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20.09.2001, n. 4972; TAR Toscana, sez. III, 23.11.2001, n. 1651; TAR Emilia Romagna, Bologna, 21.03.2002, n. 183; TAR Marche, 28.06.2004, n. 784; TAR Valle d’Aosta, 17.11.2010, n. 63).
Pertanto, il permesso di costruire può, bensì, essere richiesto con salvezza dei diritti dei terzi, e al richiedente essere legittimamente rilasciato, purché, però, non determini un evidente contrasto col diritto di altri che non lo abbia richiesto (cfr. TAR Marche, 26.04.2007, n. 644). E, quindi, se, di regola, l’autorità competente non è chiamata a svolgere complesse indagini volte a ricostruire le vicende concernenti la titolarità del bene attinto dagli interventi progettati, è, comunque, tenuta a verificare se l’istanza edificatoria sia sorretta dalla effettiva disponibilità del predetto bene, soprattutto nel caso –come, appunto, quello in esame– in cui altri soggetti si attivino per esprimere la propria opposizione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20.09.2001, n. 4972; 21.10.2003, n. 6529; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 11.02.2005, n. 357; sez. III, 27.08.2010, n. 4414; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 18.05.2005, n. 6487)
(TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 11.04.2013 n. 1923 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Fondandosi gli atti impugnati su una motivazione plurima, solo l’accertata illegittimità di tutti i singoli profili su cui essi risultano incentrati avrebbe potuto comportare l’illegittimità e il conseguente effetto annullatorio dei medesimi.
A questo punto, il Collegio osserva che, in rapporto alla rilevata estraneità della superficie coperta dal muro di recinzione controverso rispetto alla domanda di condono, prot. n. 5329, del 28.03.1986, la contestata mancanza del titolo di legittimazione all’esercizio del ius aedificandi su detta superficie costituisce nucleo motivazionale del tutto autosufficiente e si rivela, quindi, suscettibile di sorreggere, di per sé, la rettifica del parere favorevole del 06.11.2009, prot. n. 125940, e il conseguente ritiro in autotutela del permesso di costruire n. 46 del 18.04.2011.
Fondandosi gli atti impugnati su una motivazione plurima, solo l’accertata illegittimità di tutti i singoli profili su cui essi risultano incentrati avrebbe potuto comportare l’illegittimità e il conseguente effetto annullatorio dei medesimi (cfr., in tal senso, ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 31.05.2007, n. 2882; 08.06.2007, n. 3020; sez. V, 28.12.2007, n. 6732; sez. IV, 10.12.2007, n. 6325; TAR Lazio, Roma, sez. II, 16.01.2007, n. 268; 28.03.2007, n. 2723; 04.05.2007, n. 3995; 02.07.2007, n. 5892; 01.08.2007, n. 7401; 03.10.2007, n. 9718; sez. I, 08.01.2008, n. 73; sez. II, 28 gennaio 2008, n. 608; 10 marzo 2008, n. 2165; 23.04.2008, n. 3505; 14.05.2008, n. 4127; 01.07.2008, n. 6346; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 26.06.2007, n. 6252; Salerno, sez. II, 26.09.2007, n. 1918; Napoli, sez. III, 02.10.2007, n. 8744; sez. VIII, 05.03.2008, n. 1102; Salerno, sez. II, 18.03.2008, n. 313; Napoli, sez. I, 17.06.2008, n. 5943; sez. III, 09.09.2008, n. 10065; sez. V, 05.08.2008, n. 9774; sez. VII, 06.08.2008, n. 9861; sez. I, 07.10.2008, n. 13437; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 30.11.2007, n. 6532; TAR Liguria, Genova, sez. II, 21.06.2007, n. 1188; sez. I, 29.11.2007, n. 1988; sez. II, 11.04.2008, n. 543; 26.11.2008, n. 2041; TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, 09.11.2007, n. 2032; 27.10.2008, n. 1847; TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, 17.06.2008, n. 314)
(TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 11.04.2013 n. 1923 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’intervento in autotutela presuppone, unitamente al riscontro dell’originaria illegittimità dell’atto inciso, la valutazione della rispondenza della sua rimozione o modificazione a un interesse pubblico non solo attuale e concreto, ma anche prevalente rispetto ad altri interessi militanti in favore della sua conservazione, e, tra questi, in particolare, rispetto all’interesse del privato che ha riposto affidamento nella legittimità e stabilità dell’atto medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco temporale.
Di qui la necessità che l’amministrazione espliciti in sede motivazionale la compiuta valutazione comparativa tra interessi confliggenti; impegno motivazionale tanto più intenso, quanto maggiore sia l’arco temporale trascorso dall’adozione dell’atto da rimuovere o modificare e solido appaia, pertanto, l’affidamento ingenerato nel privato.
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Tuttavia, in determinate ipotesi l’interesse pubblico all’eliminazione dell’atto illegittimo è da considerarsi in re ipsa.
Tra queste è annoverabile l’ipotesi di intervento in autotutela:
a) a fronte dell’assenza del necessario requisito di legittimazione ad ottenere il provvedimento ampliativo inciso e, quindi, della connessa situazione permanente contra ius;
b) a fronte della falsa, infedele, erronea o inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da parte dell’interessato, risultata rilevante o decisiva ai fini del predetto provvedimento ampliativo, non potendo l’interessato medesimo vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un beneficio ottenuto attraverso l’induzione in errore dell’amministrazione procedente;
c) a fronte della insussistenza di una specifica istanza di parte, prescritta ex lege, ai fini dell’adozione del provvedimento ampliativo.
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Laddove non vi sia spazio per complesse valutazioni di natura tecnico-discrezionale o, comunque, non sia necessario procedervi, l’organo decidente può legittimamente rinunciare all’apporto dell’organo consultivo nel caso di annullamento del provvedimento amministrativo rilasciato.
Il Collegio ritiene di dover aderire a tale soluzione, stabilmente invalsa, oltre che con riferimento all’attività vincolata di repressione degli abusi edilizi, per la quale è stata esclusa l’obbligatorietà dell’acquisizione del parere della commissione edilizia, anche con riferimento all’applicazione del principio del ‘contrarius actus’ alla preventiva acquisizione del parere della commissione edilizia in sede di annullamento di un titolo abilitativo, facendo eccezione al principio in parola l'ipotesi in cui l'amministrazione non debba compiere particolari valutazioni di ordine tecnico.

Al riguardo, occorre premettere, in via di principio, che l’intervento in autotutela presuppone, unitamente al riscontro dell’originaria illegittimità dell’atto inciso, la valutazione della rispondenza della sua rimozione o modificazione a un interesse pubblico non solo attuale e concreto, ma anche prevalente rispetto ad altri interessi militanti in favore della sua conservazione, e, tra questi, in particolare, rispetto all’interesse del privato che ha riposto affidamento nella legittimità e stabilità dell’atto medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco temporale.
Di qui la necessità che l’amministrazione espliciti in sede motivazionale la compiuta valutazione comparativa tra interessi confliggenti; impegno motivazionale tanto più intenso, quanto maggiore sia l’arco temporale trascorso dall’adozione dell’atto da rimuovere o modificare e solido appaia, pertanto, l’affidamento ingenerato nel privato (cfr. Cons. Stato, sez. V, 12.11.2003, n. 7218; sez. IV, 31.10.2006, n. 6465; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 22.06.2007, n. 6238; sez. III, 11.09.2007, n. 7483; sez. VIII, 30.07.2008, n. 9586; 01.10.2008, n. 12321; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 19.01.2007, n. 170; sez. II, 08.06.2007, n. 1652; TAR Liguria, sez. I, 11.12.2007, n. 2050; TAR Basilicata, sez. I, 19.01.2008, n. 15).
Ciò premesso in via di principio, occorre, però, rammentare che, in determinate ipotesi, l’interesse pubblico all’eliminazione dell’atto illegittimo è da considerarsi in re ipsa.
Tra queste è annoverabile l’ipotesi di intervento in autotutela:
a) a fronte dell’assenza del necessario requisito di legittimazione ad ottenere il provvedimento ampliativo inciso e, quindi, della connessa situazione permanente contra ius (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 23.02.2012, n. 1041; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 08.04.2005, n. 1983);
b) a fronte della falsa, infedele, erronea o inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da parte dell’interessato, risultata rilevante o decisiva ai fini del predetto provvedimento ampliativo, non potendo l’interessato medesimo vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un beneficio ottenuto attraverso l’induzione in errore dell’amministrazione procedente (cfr. Cons. Stato, sez. V, 12.10.2004, n. 6554; sez. IV, 24.12.2008, n. 6554; TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 03.11.2003, n. 2366; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 21.02.2005, n. 686; TAR Liguria. Genova, sez. I, 07.07.2005, n. 1027; 17.11.2006, n. 1550; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 13.02.2006, n. 2026; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 05.02.2008, n. 129; TAR Basilicata, Potenza, sez. I, 04.03.2004, n. 115; 10.05.2005, n. 299; 10.04.2006, n. 238; 18.10.2008, n. 643);
c) a fronte della insussistenza di una specifica istanza di parte, prescritta ex lege, ai fini dell’adozione del provvedimento ampliativo.
Ebbene, sotto tali profili, rileva che, nella specie, i ricorrenti:
- da un lato, non si sono dimostrati in possesso di un idoneo titolo di godimento sulla superficie coperta dal muro di recinzione controverso (cfr. retro, sub n. 1.1), avendo, quindi, infedelmente o erroneamente rappresentato quest’ultima, nel progetto assentito col permesso di costruire in sanatoria n. 46 del 18.04.2011, come di esclusiva proprietà di Coppola Alba;
- d’altro lato, non risultano aver richiesto alla competente Provincia di Caserta, con precipuo riguardo al medesimo muro di recinzione, la prescritta autorizzazione ex artt. 7 del r.d. n. 3267/1923 e 23 della l.r. Campania n. 11/1996.
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Non è, infine, ravvisabile una violazione del principio del ‘contrarius acuts’ nella circostanza che, a differenza del permesso di costruire n. 46 del 18.04.2011, il relativo provvedimento di “revoca” sia stato adottato senza il preventivo parere della Ripartizione tecnica Urbanistica del Comune di Mondragone.
Ed invero, non può escludersi il coinvolgimento procedimentale di tale struttura organizzativa, trattandosi dello stesso ufficio cui è preposto il titolare dell’organo promanante il provvedimento in autotutela impugnato (capo della Ripartizione tecnica Urbanistica del Comune di Mondragone).
Fermo restando quanto sopra osservato, è appena il caso di soggiungere, a definitiva confutazione del profilo di censura in scrutinio, che il riesame compiuto da entrambe le amministrazioni locali intimate non includeva specifici apprezzamenti di ordine tecnico, propri del menzionato ufficio comunale, ma atteneva unicamente alla cennata insussistenza di un idoneo requisito di legittimazione al rilascio del titolo abilitativo edilizio e di una specifica richiesta di autorizzazione rivolta, con riguardo al muro di recinzione de quo, all’autorità preposta alla tutela del vincolo idrogeologico.
Ebbene, una simile attività di verifica costituiva un presupposto la cui mancanza precludeva il segmento istruttorio di consultazione della Ripartizione tecnica Urbanistica del Comune di Mondragone.
In questo senso, valga richiamare la soluzione interpretativa, largamente condivisa, secondo cui, laddove non vi sia spazio per complesse valutazioni di natura tecnico-discrezionale o, comunque, non sia necessario procedervi, l’organo decidente possa legittimamente rinunciare all’apporto dell’organo consultivo (Cons. Stato, sez. V, 03.07.2003, n. 3974; TAR Piemonte, sez. I, 13.03.2002, n. 635; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 14.11.2002, n. 2931; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 13.06.2003, n. 7557; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 18.10.2006, n. 4967).
Il Collegio ritiene di dover aderire a tale soluzione, stabilmente invalsa, oltre che con riferimento all’attività vincolata di repressione degli abusi edilizi, per la quale è stata esclusa l’obbligatorietà dell’acquisizione del parere della commissione edilizia (cfr. TAR Basilicata, 20.02.2004, n. 103; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 16.07.2003, n. 8434; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 09.06.2004, n. 3540; TAR Lazio, Roma, sez. II, 25.05.2005, n. 4128), anche con riferimento all’applicazione del principio del ‘contrarius actus’ alla preventiva acquisizione del parere della commissione edilizia in sede di annullamento di un titolo abilitativo, facendo eccezione al principio in parola l'ipotesi in cui l'amministrazione non debba compiere particolari valutazioni di ordine tecnico (Cons. giust. amm. sic., sez. cons., 03.06.1999, n. 235; TAR Lazio, Latina, 27.03.2003, n. 300; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 18.04.2005, n. 672; Palermo, sez. II, 11.09.2007, n. 2008; TAR Campania, Napoli, sez. III, 10.04.2007, n. 3193; sez. II, 11.04.2008, n. 2073; sez. VIII, 11.06.2009, n. 3203)
(TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 11.04.2013 n. 1923 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una tettoia di rilevanti dimensioni, indipendentemente dalla sua eventuale natura pertinenziale, è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, nella misura in cui realizza “l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R..
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Il concetto di pertinenza, previsto dal diritto civile, va distinto dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso edilizio e urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire, come nell’ipotesi della realizzazione di una tettoia in ferro di rilevanti dimensioni.
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L'esercizio del potere repressivo dell’abuso edilizio costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione.
L’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di costruire, non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico.

Nella fattispecie in esame, l’opera oggetto dell’impugnata ordinanza di demolizione (come non contestato tra le parti) consiste nella realizzazione di una tettoia occupante una superficie di circa mq. 500, con altezza m. 5,00.
Si tratta quindi di opera sicuramente sottoposta al regime del permesso di costruire.
Al riguardo, è sufficiente richiamare il convergente ed unanime orientamento giurisprudenziale, secondo cui la realizzazione di una tettoia di rilevanti dimensioni (come nel caso di specie), indipendentemente dalla sua eventuale natura pertinenziale, è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, nella misura in cui realizza “l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R. (C.d.S., Sez. IV, 12.03.2007, n. 1219; TAR Campania Napoli, sez. IV, 13.01.2011, n. 84; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 21.12.2007, n. 16493, TAR Campania Napoli, sez. II, 02.12.2009, n. 8320; TAR Campania Napoli, sez. III, 09.11.2010, n. 23699).
In relazione alla specifica considerazione svolta dal ricorrente in ordine alla natura pertinenziale dell’opera realizzata, si deve in contrario osservare che il concetto di pertinenza, previsto dal diritto civile, va distinto dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso edilizio e urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire, come nell’ipotesi (di cui alla fattispecie in esame) della realizzazione di una tettoia in ferro di rilevanti dimensioni (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 25.01.2013, n. 598; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 20.03.2012, n. 1371).
Si deve infine rammentare, per completezza espositiva, che l'esercizio del potere repressivo dell’abuso edilizio costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione.
L’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di costruire, non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico (cfr. fra le tante, C.d.S., sez. IV, 12.04.2011, n. 2266) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 10.04.2013 n. 1905 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 15 del D.P.R. n. 380/2001, rubricato “efficacia temporale e decadenza del permesso di costruire”, il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno. Il suddetto termine può essere prorogato, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso. Ciò nondimeno, decorso il termine, il permesso decade di diritto per la parte non eseguita (cfr. comma 2).
La richiamata disposizione mira ad assicurare la certezza temporale dell’attività di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio, anche al fine di garantire un efficiente controllo sulla conformità dell’intervento edilizio a suo tempo autorizzato con il relativo titolo.
L’unanime giurisprudenza ha affermato che la decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio lavori opera di diritto e il provvedimento pronunciante la decadenza ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l’infruttuoso decorso del termine fissato dalla legge.
In materia è stato poi sostenuto che l’eventuale sospensione del termine di durata di un titolo edilizio non può realizzarsi in via automatica, essendo a tal fine necessaria la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve seguire un provvedimento motivato dell’amministrazione che accerti l’impossibilità del rispetto del termine per “factum principis”, ovvero per l’insorgenza di una causa di forza maggiore.
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L’amministrazione, di fronte a una richiesta di proroga di un titolo non più sussistente (scaduto), non può fare altro che prendere atto dell’intervenuta decadenza con un provvedimento di natura dichiarativa. In altri termini, allo scadere del termine di inizio lavori, l’amministrazione non dispone più del potere dilatorio previsto dalla legge e il cui esercizio è invece invocato con l’istanza de qua al di fuori dell’alveo normativo.

Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Lo stesso ricorrente rappresenta in fatto che il termine annuale per l’inizio dei lavori di realizzazione del deposito di cui al permesso di costruire n. 96/2004 è scaduto in data 22.02.2008. Solo in data successiva (e, segnatamente, una prima volta il 28.02.2008 e, una seconda, il 13.10.2011), l’interessato si è attivato per richiedere la proroga del termine. Domanda sulla quale con l’odierno gravame chiede l’accertamento dell’illegittima inerzia del Comune.
E’ necessario premettere, che ai sensi dell’art. 15 del D.P.R. n. 380/2001, rubricato “efficacia temporale e decadenza del permesso di costruire”, il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno. Il suddetto termine può essere prorogato, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso. Ciò nondimeno, decorso il termine, il permesso decade di diritto per la parte non eseguita (cfr. comma 2).
La richiamata disposizione mira ad assicurare la certezza temporale dell’attività di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio, anche al fine di garantire un efficiente controllo sulla conformità dell’intervento edilizio a suo tempo autorizzato con il relativo titolo (TAR Liguria, Genova, 08.01.2013, n. 34). L’unanime giurisprudenza ha affermato che la decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio lavori opera di diritto e il provvedimento pronunciante la decadenza ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l’infruttuoso decorso del termine fissato dalla legge (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 18.05.2012, n. 2915).
In materia è stato poi sostenuto che l’eventuale sospensione del termine di durata di un titolo edilizio non può realizzarsi in via automatica, essendo a tal fine necessaria la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve seguire un provvedimento motivato dell’amministrazione che accerti l’impossibilità del rispetto del termine per “factum principis”, ovvero per l’insorgenza di una causa di forza maggiore.
Tornando al caso che occupa, si deve quindi ritenere, da una parte, che l’intervenuto sequestro dell’area non ha determinato ex se la sospensione del termine annuale assegnato per la realizzazione dei lavori, dall’altra, che il permesso di costruire, in assenza di una formale richiesta di proroga (entro la scadenza del termine) è ormai decaduto. E ciò per il solo fatto del verificarsi del presupposto previsto dalla legge, costituito dal mancato inizio dell’attività edificatoria nel periodo assegnato. Dunque, la richiesta di proroga è intervenuta allorquando il permesso di costruire aveva ormai esaurito i suoi effetti.
Chiariti i contorni della questione, deve affermarsi che nessuna inerzia può imputarsi al Comune avverso la quale si possa invocare la tutela offerta dallo strumento processuale di cui all’art. 117 c.p.a. Il silenzio-rifiuto disciplinato dall'ordinamento, infatti, è istituto riconducibile a inadempienza dell’amministrazione, in rapporto a un sussistente obbligo di provvedere, che può discendere dalla legge, da un regolamento o anche da un atto di autolimitazione dell'amministrazione stessa, e in ogni caso deve corrispondere ad una situazione soggettiva protetta, qualificata come tale dall'ordinamento; al di là dell'obbligo normativamente imposto alla pubblica amministrazione di concludere il procedimento mediante l'adozione di un provvedimento espresso e motivato, siccome previsto dagli artt. 2 e 3, l. 07.08.1990 n. 241, l'amministrazione è parimenti tenuta a pronunciarsi laddove ragioni di giustizia ed equità le impongono l'adozione di un provvedimento, nonché tutte le volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni amministrative, quali che esse siano (ex multis, TAR Puglia, Lecce, 12.11.2012, n. 1863).
Nella fattispecie, per espressa previsione normativa, l’amministrazione, di fronte a una richiesta di proroga di un titolo non più sussistente, non potrebbe fare altro che prendere atto dell’intervenuta decadenza con un provvedimento di natura dichiarativa. In altri termini, allo scadere del termine di inizio lavori, l’amministrazione non dispone più del potere dilatorio previsto dalla legge e il cui esercizio è invece invocato con l’istanza de qua al di fuori dell’alveo normativo.
Deve, pertanto, concludersi che l’istanza in questione è inidonea a fondare un obbligo di provvedere in capo all’amministrazione comunale e la domanda di accertamento giudiziale dell’inerzia colpevole della stessa deve essere respinta (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 08.04.2013 n. 1864 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Un auto annullamento dell’atto è legittimo solo ove supportato da un interesse pubblico specifico, distinto dal mero interesse al ripristino della legalità, che ad un giudizio di comparazione prevalga sull’interesse del privato al mantenimento dell’atto stesso.
La comparazione dell’interesse privato con quello pubblico è regola assoluta, la quale “non tollera eccezioni di sorta, per quanto rilevante possa essere l'interesse pubblico a salvaguardia del quale l'autotutela viene in concreto esercitata”.
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Si è poi concordi nell’affermare che, ove si tratti di atti i quali non comportino esborso continuativo di danaro, la motivazione debba essere tanto più rigorosa quanto più risalente nel tempo è l’atto che si va ad annullare.
Nella specifica materia edilizia, è poi degno di nota l’orientamento condiviso da C.d.S., che considera in linea di principio ragionevole l’annullamento in autotutela di una concessione edilizia nel termine massimo di 10 anni dal suo rilascio, argomentando dall’identica estensione nel tempo del potere di annullamento regionale ai sensi dell’art. 39 T.U. 06.06.2001 n. 380.

Dispone al primo comma l’art. 21-novies della l. 241/1990: “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge”.
La norma, come è noto, è stata introdotta con l. 11.02.2005 n. 15 e recepisce regole pacifiche emerse dalla precedente elaborazione giurisprudenziale, per la quale si cita per tutte ad esempio C.d.S. sez. IV 17.07.2002 n. 3997; va quindi interpretata in conformità a tale elaborazione: un auto annullamento dell’atto è legittimo solo ove supportato da un interesse pubblico specifico, distinto dal mero interesse al ripristino della legalità, che ad un giudizio di comparazione prevalga sull’interesse del privato al mantenimento dell’atto stesso. Si veda, come particolarmente significativa, la recente C.d.S. sez. VI 20.09.2012 n. 4997, per cui la comparazione dell’interesse privato con quello pubblico è regola assoluta, la quale “non tollera eccezioni di sorta, per quanto rilevante possa essere l'interesse pubblico a salvaguardia del quale l'autotutela viene in concreto esercitata”.
Si è poi concordi nell’affermare che, ove si tratti, come evidente nella specie, di atti i quali non comportino esborso continuativo di danaro, la motivazione debba essere tanto più rigorosa quanto più risalente nel tempo è l’atto che si va ad annullare. Nella specifica materia edilizia, è poi degno di nota l’orientamento condiviso da C.d.S. sez. IV 03.08.2010 n. 5170, che considera in linea di principio ragionevole l’annullamento in autotutela di una concessione edilizia nel termine massimo di dieci anni dal suo rilascio, argomentando dall’identica estensione nel tempo del potere di annullamento regionale ai sensi dell’art. 39 T.U. 06.06.2001 n. 380. Si noti poi che il caso di specie riguardava un intervento di rilievo, ovvero una lottizzazione abusiva di diciotto fabbricati su un’area di circa 28.000 mq..
Applicando i suddetti principi al caso di specie, occorre dire che nel provvedimento di annullamento impugnato, e nella consequenziale ordinanza di demolizione, il Comune si è limitato ad enunciare un prevalente interesse pubblico, del quale non ha dato conto con riguardo alle circostanze, invero specifiche. Va infatti ricordato che le opere di cui si ragiona sono un accessorio –portico e terrazza- di un immobile abitativo già esistente, che secondo logica ricade anch’esso nella fascia del presunto vincolo: non è stato spiegato per qual ragione il fabbricato principale possa rimanere al suo posto, ma non con le opere in questione, e quale specifico pregiudizio da esse sia cagionato. Nemmeno è stato considerato che una di tali opere, il portico, pacificamente realizzato in abuso, esiste dal 1983 (doc. ti ricorrente da 2 a 9, cit.) e non pare avere sino ad ora cagionato pregiudizio alcuno. Infine, non è stato dato adeguato conto della preesistenza del vincolo all’opera, su cui non sono stati acquisiti elementi definitivi.
Anche sotto il profilo temporale, l’intervento in autotutela appare privo di motivazione, considerando non solo che interviene al di là del termine tendenziale di cui si è detto, ovvero nel novembre 2011 su una concessione del maggio 2001, concessione relativa all’opera su cui poggiano le altre, ma anche che tale sanatoria intervenne su una domanda addirittura del 1986 (sempre doc. ti ricorrente da 2 a 9, cit.), sì che all’amministrazione il tempo per attivarsi non era mancato.
Per tali ragioni, di carattere assorbente, in quanto riguardano la possibilità stessa di colpire l’abuso, gli atti impugnati vanno annullati, rimanendo appunto assorbiti i residui motivi (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 05.04.2013 n. 340 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La proposizione dell’istanza di sanatoria dopo la notifica del ricorso (avverso l'ordinanza di demolizione) determina l’improcedibilità di quest’ultimo, per effetto della traslazione dell’interesse della parte ricorrente sul contenuto e le sorti del provvedimento scaturente dal nuovo procedimento amministrativo così avviato, facendo venire meno ogni interesse alla pronuncia sul provvedimento originario contenente l’ordine di demolizione.
Considerato in fatto:
- che ai ricorrenti, in quanto soci dell’Azienda agricola Priore, è stata intimata la demolizione della “porzione avente lunghezza di mt. 64 e larghezza di mt. 5,20 del fabbricato D” e della “tettoia in aggetto sul lato sud del fabbricato D avente lunghezza pari a mt. 64 e sporgenza pari a mt. 2,50”;
- che, dopo il deposito del ricorso, i sig.ri Mingotti hanno presentato un’istanza di permesso di costruire in sanatoria con riguardo ai medesimi interventi già oggetto della diffida;
- che avverso il diniego comunale è stato proposto ricorso al TAR (R.G. 1141/05), poi dichiarato perento;
Ritenuto, in diritto:
- che la proposizione dell’istanza di sanatoria dopo la notifica del ricorso determini l’improcedibilità di quest’ultimo, per effetto della traslazione dell’interesse della parte ricorrente sul contenuto e le sorti del provvedimento scaturente dal nuovo procedimento amministrativo così avviato, facendo venire meno ogni interesse alla pronuncia sul provvedimento originario contenente l’ordine di demolizione.
In conformità alla giurisprudenza costante, anche di questo Tribunale (cfr, tra le tante, TAR Lombardia, Brescia, I, 28.12.2012, n. 2022), dunque, al Collegio non rimane che dichiarare la sopravvenuta improcedibilità del ricorso (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 04.04.2013 n. 329 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La notificazione del provvedimento di sospensione dell’efficacia del titolo edilizio rilasciato ha anche una funzione di comunicazione dell’avvio di un procedimento preordinato alla verifica della sussistenza di tutti i parametri di legge legittimanti la costruzione.
Per costante giurisprudenza, infatti, la notificazione del provvedimento di sospensione dell’efficacia del titolo edilizio rilasciato ha anche una funzione di comunicazione dell’avvio di un procedimento preordinato alla verifica della sussistenza di tutti i parametri di legge legittimanti la costruzione.
Anche nel caso di specie, dunque, la proprietaria dei terreni interessati dall’intervento edificatorio risulta essere stata resa edotta dell’avvio del procedimento preordinato alla suddetta verifica proprio in ragione del ricevimento della notifica degli atti di sospensione degli effetti del titolo edilizio abilitante all’edificazione, in possesso della medesima ricorrente (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 04.04.2013 n. 328 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Poiché le opere di cui si tratta (ndr: grandi strutture coperte) sono urbanisticamente ammissibili solo in quanto funzionali all'attività di cava, va da sé che esse debbano seguirne la sorte e dunque vadano abbattute al cessare dell’escavazione, senza che quest’ultima necessitata conseguenza possa essere invocata per sostenerne la gratuità e l’esenzione dagli oneri concessori dovuti per effetto della loro incidenza urbanistica durante tutto il non breve lasso temporale in cui risultano presenti sul territorio.
Ciò premesso, il Collegio ritiene che la presente controversia vada risolta alla stregua dell’orientamento ormai manifestatosi con chiarezza in seno alla giurisprudenza amministrativa e che distingue nettamente, sotto il profilo edilizio-urbanistico, tra:
- attività estrattiva in sé considerata e come tale non soggetta ad autorizzazione o concessione da parte dell'autorità comunale (cfr. Ad. Plen. Cons. Stato, 12.10.1991, n. 8);
- e installazione di strutture che, ancorché funzionali all'esercizio della cava, assumano rilevanza edilizia propria e, dunque, non siano esonerabili dall'ordinario regime concessorio (cfr. la menzionata TAR Catania sez. I, 29.11.2010, n. 4554, che richiama a sua volta TAR Lazio, sez. II, 12.04.2002 , n. 3164).
Nel caso di specie, non v’è dubbio che le strutture di cui si tratta rivestano rilevanza edilizia, in quanto consistono:
a) per la cava di via Bose, in tre coperture metalliche, di oltre 200 mq. di superficie ognuna e 8 metri di altezza, aperte sui lati e con una muratura in cemento armato alta tre metri, lungo i due lati di contenimento dell’inerte (cfr. relazione illustrativa allegata alla domanda 21.03.2003 del Gruppo Faustini);
b) per la cava di via Cerca, in una struttura di copertura dell’inerte, di oltre 600 mq. di superficie, 8 metri di altezza e muratura in c.a., lungo i due lati di contenimento dell’inerte, di mt. 3,85 di altezza; e nella costruzione di un locale, interamente in muratura, per i servizi degli addetti alla cava (attività amministrative e tecniche: scrivanie, computer, archivio, spogliatoi, blocco servizi igienici), di dimensioni 18 x 8 metri e 2,70 mt. di altezza.
La circostanza obiettiva che il manufatto per servizi sia interamente in muratura e che lungo due lati delle quattro strutture di copertura sia prevista una muratura in cemento armato di altezza compresa tra i metri 3 e metri 3,85 vale di per sé a integrare le caratteristiche di opere naturaliter destinate a “impattare” sul territorio e ad aumentarne il carico urbanistico (basti pensare al manufatto destinato a uffici e servizi): mentre, in contrario, non rileva che le stesse opere siano destinate alla rimozione, una volta cessata l’attività di cava cui sono funzionali, perché la circostanza che siano “a termine” (peraltro non breve: la durata prevista è di alcuni anni) non può, in alcun modo, depotenziarne le intrinseche qualità strutturali.
In sintesi: poiché le opere di cui si tratta sono urbanisticamente ammissibili solo in quanto funzionali a detta attività (il che è riconosciuto anche nelle relazioni accompagnatorie delle domande edilizie presentate dalla Società ricorrente il 21.03.2003, ove si dà atto delle diverse destinazioni previste in tali azzonamenti), va da sé che esse debbano seguirne la sorte e dunque vadano abbattute al cessare dell’escavazione, senza che quest’ultima necessitata conseguenza possa essere invocata per sostenerne la gratuità e l’esenzione dagli oneri concessori dovuti per effetto della loro incidenza urbanistica durante tutto il non breve lasso temporale in cui risultano presenti sul territorio (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 02.04.2013 n. 315 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'abuso edilizio costituisce un illecito permanente in relazione al quale l'amministrazione preposta alla vigilanza del rispetto della normativa urbanistica non può non emettere, una volta accertato il carattere abusivo dell'opus, gli atti volti a ripristinare lo stato dei luoghi e a sanzionare la condotta contra legem tenuta dall'autore della violazione, cosicché l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata è "in re ipsa" e non richiede una specifica motivazione in tal senso.
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E' sufficiente che nell'ordinanza repressiva siano prefigurate le conseguenze della mancata demolizione, giacché la corretta determinazione della misura dell'area da acquisire potrà avvenire solo dopo il rituale accertamento, da parte del Comune, dell’inottemperanza all'ingiunzione, con l'attivazione, nell'ambito del procedimento sanzionatorio, di un sub-procedimento finalizzato specificamente proprio alla precisazione delle aree da acquisirsi gratuitamente.
La sorte dell’abuso, in caso di inottemperanza alle determinazioni del Comune nell’esercizio dei poteri di vigilanza edilizia, è l’acquisizione gratuita dell’area al patrimonio comunale, e tale principio non è derogato dall’art. 11 della L. 47/1985 il quale si limita a regolare la fattispecie dell’impossibilità della riduzione in pristino, circostanza appena esclusa nel caso in esame (sulla base dei progetti di sanatoria elaborati ed accettati).
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L'effetto acquisitivo (sulle aree) opera ope legis e automaticamente, a seguito dell'inadempimento all'ordine di demolizione nel termine assegnato, tanto che l'atto di accertamento del predetto inadempimento e di acquisizione delle aree al patrimonio comunale ha natura meramente dichiarativa.

In materia vale il principio per cui l'abuso edilizio costituisce un illecito permanente in relazione al quale l'amministrazione preposta alla vigilanza del rispetto della normativa urbanistica non può non emettere, una volta accertato (come avvenuto nella specie) il carattere abusivo dell'opus, gli atti volti a ripristinare lo stato dei luoghi e a sanzionare la condotta contra legem tenuta dall'autore della violazione, cosicché l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata è "in re ipsa" e non richiede una specifica motivazione in tal senso (cfr. ex pluribus Consiglio di Stato, sez. IV – 8/1/2013 n. 32).
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Ritiene il Collegio, con riguardo a quest’ultimo profilo, che le due istanze di concessione edilizia in sanatoria (depositate da Finagen e positivamente vagliate dall’amministrazione) dimostrino l’esistenza e l’attuabilità di opzioni progettuali capaci di ricondurre l’immobile entro i limiti fissati dallo strumento urbanistico e al contempo di preservarne le originarie funzione e destinazione.
Per il resto, la mancata indicazione di soluzioni da parte dell’amministrazione non rende illegittimi gli atti impugnati: secondo la giurisprudenza è sufficiente che nell'ordinanza repressiva siano prefigurate le conseguenze della mancata demolizione, giacché la corretta determinazione della misura dell'area da acquisire potrà avvenire solo dopo il rituale accertamento, da parte del Comune, dell’inottemperanza all'ingiunzione, con l'attivazione, nell'ambito del procedimento sanzionatorio, di un sub-procedimento finalizzato specificamente proprio alla precisazione delle aree da acquisirsi gratuitamente (cfr. TAR Lazio Latina, sez. I – 17/12/2012 n. 978).
Sull’individuazione della frazione in esubero, il titolare delle unità colpite dalle determinazioni repressive mantiene la propria naturale prerogativa di disporre della possibilità edificatoria, da ricondurre entro la cornice del P.R.G. La sorte dell’abuso, infine, in caso di inottemperanza alle determinazioni del Comune nell’esercizio dei poteri di vigilanza edilizia, è l’acquisizione gratuita dell’area al patrimonio comunale, e tale principio non è derogato dall’art. 11 della L. 47/1985 il quale si limita a regolare la fattispecie dell’impossibilità della riduzione in pristino, circostanza appena esclusa nel caso in esame (sulla base dei progetti di sanatoria elaborati ed accettati).
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La censura è priva di pregio.
Innanzitutto l'effetto acquisitivo (sulle aree) opera ope legis e automaticamente, a seguito dell'inadempimento all'ordine di demolizione nel termine assegnato, tanto che l'atto di accertamento del predetto inadempimento e di acquisizione delle aree al patrimonio comunale ha natura meramente dichiarativa (sentenza sez. I – 08/11/2011 n. 1532)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 02.04.2013 n. 312 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La possibilità di variare il sedime è implicita nella previsione dell’obbligo di piano di recupero, e costituisce del resto una facoltà normalmente ricompresa nella nozione di ristrutturazione edilizia pesante di cui all’art. 10, comma 1-c, del DPR 06.06.2001 n. 380.
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Per quanto riguarda poi il problema delle distanze all’interno di un piano di recupero situato in zona A, non vige la regola della distanza minima di 10 metri dalle pareti finestrate, in analogia a quanto previsto per i piani particolareggiati relativi al centro storico.
I piani particolareggiati hanno infatti ampi margini di discrezionalità per disciplinare direttamente questi profili ma possono anche rimettere le scelte di dettaglio ai singoli piani di recupero fissando solo alcune disposizioni generali, come è avvenuto nel caso in esame.
L’unico limite per la zona A desumibile dall’art. 9 del DM 02.04.1968 n. 1444 è che non sia aggravata la situazione esistente.

Sulle questioni proposte nel ricorso si possono formulare le seguenti considerazioni:
Sul condono della tettoia abusiva
(c) il punto da cui occorre partire è quindi la data di realizzazione della tettoia. Nel provvedimento di sanatoria del 03.10.2000 si prende atto che la tettoia è stata realizzata prima del 01.09.1967, ossia prima dell’entrata in vigore della legge 06.08.1967 n. 765, come dichiarato dalla dante causa dei controinteressati nella domanda di condono presentata il 18.09.1986. L’ipotesi di condono utilizzata dal Comune è pertanto quella disciplinata dall’art. 31, comma 5, della legge 28.02.1985 n. 47. In questo caso la sanatoria è assoggettata al pagamento dell’oblazione ma non del contributo di concessione, dovuto invece per le opere abusive realizzate tra il 01.09.1967 e il 01.10.1983;
(d) a proposito dell’epoca di realizzazione della tettoia il Comune non ha svolto alcun approfondimento (ad esempio attraverso le aerofotogrammetrie) e dunque non è possibile stabilire se l’opera sia effettivamente anteriore al 01.09.1967;
(e) esiste però un elemento che avvicina notevolmente la presenza della tettoia alla data del 01.10.1983, utile per beneficiare del condono alle condizioni ordinarie e quindi con pagamento del contributo di concessione. Si tratta del provvedimento dell’assessore all’Urbanistica del 20.02.1985, con il quale sono stati autorizzati lavori di manutenzione straordinaria sulla tettoia. Questo provvedimento dimostra l’esistenza della tettoia. La retrodatazione della costruzione a un momento anteriore al 01.10.1983 può essere raggiunta in via presuntiva considerando (1) il carattere pertinenziale del manufatto rispetto all’attività produttiva, (2) il dato di comune esperienza secondo cui una manutenzione straordinaria interviene a una certa distanza temporale dalla costruzione, (3) la necessità di interpretare i casi dubbi a favore del soggetto che chiede il condono (v. TAR Brescia Sez. II 10.05.2012 n. 825; TAR Brescia Sez. I 22.11.2010 n. 4664);
(f) il fatto che la tettoia si trovasse a circa 2,5 metri dalla parete finestrata dell’edificio di proprietà del ricorrente non impediva la concessione del condono. Gli immobili sono infatti collocati in zona A, all’interno della quale in base all’art. 9 del DM 02.04.1968 n. 1444 non vige la regola della distanza minima di 10 metri. Occorre poi sottolineare che la sanatoria è comunque ammissibile quando sia accompagnata dal vincolo della traslazione del volume e della superficie oggetto di condono allo scopo di conseguire un complessivo riordino del comparto (v. TAR Brescia Sez. II 08.05.2012 n. 788).
Questa condizione nel caso in esame si è realizzata, in quanto la tettoia è stata assoggettata a condono esclusivamente per recuperarne la superficie e riversarla nel nuovo intervento edilizio regolato dal piano di recupero, con il coinvolgimento di un sedime in parte diverso da quello originario. Il punto di osservazione del problema delle distanze si trasferisce in questo modo dall’opera abusiva storica alla nuova disciplina del piano di recupero. In proposito si osserva che la possibilità di variare il sedime è implicita nella previsione dell’obbligo di piano di recupero, e costituisce del resto una facoltà normalmente ricompresa nella nozione di ristrutturazione edilizia pesante di cui all’art. 10, comma 1-c, del DPR 06.06.2001 n. 380 (v. TAR Brescia Sez. II 07.04.2011 n. 525);
(g) la prospettiva dell’utilizzo della superficie della tettoia a vantaggio di un nuovo edificio consente di completare la procedura di condono anche se nel frattempo il manufatto sia stato rimosso. Normalmente infatti l’esistenza materiale dell’opera abusiva è un presupposto per la condonabilità della stessa (v. TAR Brescia Sez. I 12.10.2009 n. 1741), ma se la demolizione era già stata in precedenza valutata e autorizzata in un provvedimento edilizio, o in un piano urbanistico almeno adottato, il diritto edificatorio corrispondente all’abuso si può considerare ormai scorporato dall’opera materiale e acquisito al patrimonio giuridico del proprietario del terreno, subordinatamente al rilascio del provvedimento formale di condono;
Relativamente al piano di recupero
(h) per quanto riguarda poi il problema delle distanze all’interno di un piano di recupero situato in zona A, parimenti non vige la regola della distanza minima di 10 metri dalle pareti finestrate, in analogia a quanto previsto per i piani particolareggiati relativi al centro storico.
I piani particolareggiati hanno infatti ampi margini di discrezionalità per disciplinare direttamente questi profili (v. TAR Brescia Sez. I 29.09.2009 n. 1712) ma possono anche rimettere le scelte di dettaglio ai singoli piani di recupero fissando solo alcune disposizioni generali, come è avvenuto nel caso in esame. L’unico limite per la zona A desumibile dall’art. 9 del DM 02.04.1968 n. 1444 è che non sia aggravata la situazione esistente, cosa che in concreto non sembra essersi verificata;
(i) circa gli aspetti propriamente qualitativi della progettazione, e in particolare sul disturbo che il nuovo edificio arreca a quello del ricorrente e sulla possibilità di individuare soluzioni di maggiore pregio urbanistico, si tratta di questioni che si collocano ai limiti della sindacabilità nel processo amministrativo.
La commissione edilizia nel parere del 03.04.2000 ha considerato soddisfacenti le controdeduzioni elaborate per conto dei controinteressati dall’ing. Angelo Laffranchini. Tale valutazione non presenta profili di irragionevolezza, e in definitiva non sembra che il Comune autorizzando l’intervento edilizio abbia favorito una parte procurando un danno ingiusto all’altra.
Le soluzioni urbanistiche alternative avrebbero infatti comportato sacrifici non necessari per la proprietà dei controinteressati, e la gronda del nuovo edificio non sembra idonea a provocare un oscuramento intollerabile del primo piano del ricorrente, mentre per quanto riguarda il piano terra, effettivamente oscurato, una concausa rilevante è il muro di confine posto a breve distanza;
(j) la superficie della tettoia trasferita nel nuovo intervento edilizio è pari a 93,35 mq, mentre la superficie indicata nella domanda di condono era pari a 87,50 mq e quella riportata sull’elaborato tecnico allegato alla suddetta domanda era pari a 85 mq. Le differenze sono certamente significative, ma non implicano che le misure del progetto siano sbagliate o non veritiere.
In realtà la misurazione effettuata ai fini del condono è diretta a stabilire se siano rispettati i limiti di legge entro cui la sanatoria è ammissibile e a individuare gli importi a carico del richiedente. Quando la superficie condonata deve essere traslata e riutilizzata valgono le normali regole della progettazione, ossia è richiesta una più accurata misurazione dell’opera mediante i punti fiduciali per armonizzarne i valori a quelli degli edifici confinanti (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 02.04.2013 n. 307 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In caso di delibera comunale, per la cui pubblicità è prescritta la pubblicazione all'albo, il termine decadenziale, ex art. 124, del d.lgs. 18.08.2000 n. 267, per la sua impugnativa, per quanto concerne i terzi, decorre dal 15° giorno da detta pubblicazione, mentre decorre dalla data di notifica o comunicazione dell'atto o di quella dell'effettiva piena conoscenza solo con riferimento a quei soggetti direttamente contemplati nell'atto o che ne siano immediatamente incisi anche se in esso non contemplati.
E, pur vero che, in caso di delibera comunale, per la cui pubblicità è prescritta la pubblicazione all'albo, il termine decadenziale, ex art. 124, del d.lgs. 18.08.2000 n. 267, per la sua impugnativa, per quanto concerne i terzi, decorre dal quindicesimo giorno da detta pubblicazione, mentre decorre dalla data di notifica o comunicazione dell'atto o di quella dell'effettiva piena conoscenza solo con riferimento a quei soggetti direttamente contemplati nell'atto o che ne siano immediatamente incisi anche se in esso non contemplati.
Tuttavia, a prescindere dalla circostanza se la attuale appellante fosse direttamente incisa o meno dagli effetti di detta deliberazione, va ricordato che per un provvedimento come quello di specie, conteneva bensì disposizioni non di indirizzo, ma di gestione (come meglio specificato in seguito), ma non immediatamente operative (la deliberazione n. 41/2006 incaricava il Responsabile del Servizio Ragioneria di effettuare le opportune variazioni in bilancio ai fini dell’acquisto del mezzo della Prinoth nelle more della concessione del contributo regionale richiesto, senza determinare la definitiva ed attuale espressione negoziale conclusiva del contratto, rinviata, in modo del tutto atipico, successivamente alla variazione contabile del Responsabile); in tale peculiare fattispecie, il termine per la impugnazione decorre dal momento in cui si è verificata la lesione dell'interesse sostanziale, cioè dal momento in cui sono stati adottati gli atti concretamente applicativi (nel caso di specie le deliberazioni del Responsabile del Servizio del Territorio di detto Comune n. 120 del 21.02.2006, recante impegno di spesa per l’acquisto di un battipista Prinoth mod. Husky, e n. 408 del 16.06.2006, con cui è stato disposto l’acquisto di detto mezzo), rispetto alla conoscenza dei quali il ricorso di primo grado era pienamente tempestivo
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.03.2013 n. 1775 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa garanzia fideiussoria, se vale certamente a rafforzare la posizione della Pubblica Amministrazione, quale creditore pecuniario, non impone però a quest’ultima la preventiva escussione del fideiussore né esclude un’attenuazione dell’obbligo del debitore principale, senza neppure trasformare l’obbligazione di quest’ultimo in una sorta di obbligazione sussidiaria rispetto a quella del fideiussore.
Questa Sezione ha peraltro già avuto modo di esaminare la questione, con dovizia di argomenti, nella propria pronuncia del 21.07.2009, n. 4405, nella quale ha preso motivatamente posizione a favore della soluzione interpretativa più rigorosa, escludendo che si possa <<configurare un obbligo dell’Amministrazione di escutere la fideiussione allo scadere del termine di pagamento>>.
Tale interpretazione appare, del resto, maggiormente rispettosa dei generali principi in materia di obbligazioni solidali (essendo tali l’obbligazione del fideiussore e quella del debitore principale, cfr. l’art. 1944, comma 1°, del codice civile), in forza dei quali il creditore può indifferentemente rivolgersi a qualsiasi degli obbligati in solido (cfr. art. 1292 del codice civile, per il quale, in caso di solidarietà fra debitori, <<ciascuno può essere costretto all’adempimento per la totalità>>).
Neppure potrebbe trovare applicazione, nella presente fattispecie, l’art. 1957 del codice civile, invocato anch’esso nel primo mezzo di gravame: infatti, il credito del Comune per il pagamento degli oneri concessori è soggetto a prescrizione ordinaria decennale ex art. 2946 del codice civile; mentre il credito per la riscossione delle somme di cui alla sanzione pecuniaria ex art. 42 del DPR 380/2001 si prescrive nel termine di cinque anni di cui all’art. 28 della legge 689/1981, senza contare che –in ogni caso- il contratto di fideiussione di cui è causa contiene l’espressa previsione della rinuncia ad avvalersi della facoltà di cui al citato art. 1957.

Nel primo motivo di ricorso si denuncia l’illegittimità della pretesa creditoria del Comune, in quanto quest’ultimo non avrebbe preventivamente avvisato il fideiussore dell’esistenza del debito del soggetto garantito (cioè Amimmobiliare Srl), mentre nel caso di specie la società garante avrebbe avuto notizia del debito soltanto attraverso le ingiunzioni impugnate, notificate direttamente sia al debitore principale sia al suo fideiussore.
La censura è infondata.
Per effetto del rilascio della fideiussione a garanzia del pagamento degli oneri concessori –e segnatamente del costo di costruzione– le società esponenti sono obbligate in solido al pagamento della somma garantita, senza che sussista alcun obbligo legale del Comune di avvisare o di escutere preventivamente il fideiussore; d’altronde la fideiussione vale a rafforzare la posizione del creditore (nel caso di specie il Comune), e non certo ad indebolirla.
Tale conclusione appare condivisa dalla giurisprudenza maggioritaria, alla quale aderisce anche lo scrivente Collegio, che tende a negare validità all’interpretazione propugnata dalle ricorrenti, affermando che la garanzia fideiussoria, se vale certamente a rafforzare la posizione della Pubblica Amministrazione, quale creditore pecuniario, non impone però a quest’ultima la preventiva escussione del fideiussore né esclude un’attenuazione dell’obbligo del debitore principale, senza neppure trasformare l’obbligazione di quest’ultimo in una sorta di obbligazione sussidiaria rispetto a quella del fideiussore (si vedano, in tal senso, Consiglio di Stato, sez. IV, 30.07.2012, n. 4320; 24.04.2009, n. 2581 e 10.08.2007, n. 4419; oltre a TAR Valle d’Aosta, 02.11.2011, n. 71).
Questa Sezione ha peraltro già avuto modo di esaminare la questione, con dovizia di argomenti, nella propria pronuncia del 21.07.2009, n. 4405, nella quale ha preso motivatamente posizione a favore della soluzione interpretativa più rigorosa, escludendo che si possa <<configurare un obbligo dell’Amministrazione di escutere la fideiussione allo scadere del termine di pagamento>> (cfr. la citata sentenza n. 4405/2009 con la giurisprudenza ivi richiamata ed anche le ulteriori sentenze di questa Sezione II, 06.07.2010, n. 2777 e 22.11.2010, n. 7308, costituenti entrambi precedenti specifici ai quali si rinvia).
Tale interpretazione appare, del resto, maggiormente rispettosa dei generali principi in materia di obbligazioni solidali (essendo tali l’obbligazione del fideiussore e quella del debitore principale, cfr. l’art. 1944, comma 1°, del codice civile), in forza dei quali il creditore può indifferentemente rivolgersi a qualsiasi degli obbligati in solido (cfr. art. 1292 del codice civile, per il quale, in caso di solidarietà fra debitori, <<ciascuno può essere costretto all’adempimento per la totalità>>).
Neppure potrebbe trovare applicazione, nella presente fattispecie, l’art. 1957 del codice civile, invocato anch’esso nel primo mezzo di gravame: infatti, il credito del Comune per il pagamento degli oneri concessori è soggetto a prescrizione ordinaria decennale ex art. 2946 del codice civile (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 28.11.2012, n. 6033); mentre il credito per la riscossione delle somme di cui alla sanzione pecuniaria ex art. 42 del DPR 380/2001 si prescrive nel termine di cinque anni di cui all’art. 28 della legge 689/1981 (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 29.12.2009, n. 6265), senza contare che –in ogni caso- il contratto di fideiussione di cui è causa contiene l’espressa previsione della rinuncia ad avvalersi della facoltà di cui al citato art. 1957 (cfr. il doc. 18 dei ricorrenti, ultima pagina) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.03.2013 n. 720 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimo il diniego della domanda di permesso di costruire in sanatoria giacché non esprime le ragioni della determinazione assunta, in misura sufficiente alla comprensione, il cui generico riferimento a un “contrasto con le normative vigenti” concreta l’unico dato esplicativo del diniego di sanatoria.
In tal modo venendo meno le garanzie di trasparenza dell’attività dei pubblici poteri, incardinate dalla Carta Costituzionale anche quale garanzia di difesa per gli amministrati.

... per l'annullamento del provvedimento di reiezione di domanda di permesso di costruire in sanatoria, comunicato con nota 10.11.2010 dell’Ufficio Tecnico Edilizia Privata, Dipartimento II, del Comune di Palestrina.
...
Il ricorso è fondato quanto alla censura con la quale è dedotto il difetto di motivazione; giacché non esprime le ragioni della determinazione assunta, in misura sufficiente alla comprensione, il generico riferimento a un “contrasto con le normative vigenti”, che concreta l’unico dato esplicativo del diniego di sanatoria. In tal modo venendo meno le garanzie di trasparenza dell’attività dei pubblici poteri, incardinate dalla Carta Costituzionale anche quale garanzia di difesa per gli amministrati.
La domanda di permesso del costruire in sanatoria, corredata da elaborati grafici e relazione tecnica, riguardava la realizzazione di un solaio intermedio sotto una copertura in legno già realizzata. L’istruttoria, richiamata dal provvedimento di diniego, è stata conclusa da verbalizzazione del Corpo Forestale dello Stato in data 04.06.2010, che accerta opere edilizie nuove consistenti in sopraelevazione da preesistente manufatto munito di concessione in sanatoria di mq 131 circa, con altezza al colmo di mt. 2.55 interna e mt. 1.5 sull’imposta, pari a mc. 268.55, allo stato grezzo privo di tramezzature, impianti e pavimenti, con tetto in legno con manto di copertura in tegole. L’ordine di demolizione riguarda l’intero complesso dell’opera abusiva.
Mancano del tutto gli elementi necessari della motivazione, tali da consentire all’interessato di comprendere le ragioni del rigetto della domanda di sanatoria. Infatti non è dato capire perché l’opera non è conforme alle normative vigenti, dal momento che non è nemmeno prospettato il richiamo delle specifiche norme violate (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 13.03.2013 n. 2647 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel procedimento mediante il quale la Soprintendenza annulla una autorizzazione paesistica ai sensi dell’art. 146 del d.lgs. 22.01.2004 n. 42 non è dovuto il preavviso di diniego, incompatibile come tale con la stringente tempistica imposta dalla norma che il potere di annullamento prevede.
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Il potere di annullamento di cui alla norma citata, così come correttamente sottolinea anche la difesa della ricorrente, si esercita per ragioni di legittimità, che pertanto non può tradursi in un riesame del merito della fattispecie per la quale si è ritenuto di rilasciare l’autorizzazione paesistica.
In tali termini, il potere in questione si può esercitare anche per il vizio di eccesso di potere per falso presupposto, ma deve limitarsi appunto ad apprezzare la figura sintomatica di tal vizio, che come è noto consiste nell’avere un provvedimento considerato una situazione di fatto difforme dal vero; non potrà invece sostituire una valutazione propria di tale fatto a quella, magari opinabile ma non errata, contenuta nel provvedimento sul quale interviene.

Il primo motivo di impugnazione è infondato, atteso che -per costante giurisprudenza, per tutte C.d.S. sez. VI 24.09.2012 n. 5063, che si cita come più recente- nel procedimento mediante il quale la Soprintendenza annulla una autorizzazione paesistica ai sensi dell’art. 146 del d.lgs. 22.01.2004 n. 42 non è dovuto il preavviso di diniego, incompatibile come tale con la stringente tempistica imposta dalla norma che il potere di annullamento prevede.
Il secondo motivo è invece fondato ed assorbente. Va premesso che il potere di annullamento di cui alla norma citata, così come correttamente sottolinea anche la difesa della ricorrente, si esercita per ragioni di legittimità, che pertanto non può tradursi in un riesame del merito della fattispecie per la quale si è ritenuto di rilasciare l’autorizzazione paesistica: così per tutte C.d.S. a.p. 14.12.2001 n. 9. In tali termini, il potere in questione si può esercitare anche per il vizio di eccesso di potere per falso presupposto, ma deve limitarsi appunto ad apprezzare la figura sintomatica di tal vizio, che come è noto consiste nell’avere un provvedimento considerato una situazione di fatto difforme dal vero; non potrà invece sostituire una valutazione propria di tale fatto a quella, magari opinabile ma non errata, contenuta nel provvedimento sul quale interviene (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 12.03.2013 n. 253 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’articolo 16 del d.p.r. n. 380 del 2001 prevede che le opere di urbanizzazione possano essere eseguite a scomputo (dei soli oneri di urbanizzazione) solo previo accordo con il Comune; difatti, avendo le opere di urbanizzazione un fine pubblico, è l’Ente locale che, nell’ambito dei propri compiti istituzionali e delle risorse a ciò destinate, deve decidere quali opere realizzare e quali costi sostenere a tal fine.
Tale disciplina, inoltre, è di stretta interpretazione, tanto più che essa appare anche derogatoria al regime generale dell’affidamento mediante pubblica gara dell’incarico di esecuzione di opere pubbliche (e difatti l’articolo 16, comma 2-bis, del d.p.r. n. 380 del 2001, come recentemente modificato, ammette tale deroga solo per lavori di importo sottosoglia comunitaria).
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L’istituto dell’indebito arricchimento non può essere utilizzato per ottenere il medesimo risultato che viceversa non si è realizzato proprio perché non ne sono stati rispettati i presupposti di legge.
Si realizzerebbe, in caso contrario, una palese contraddizione nell’ordinamento.
Proprio per tali ragioni, infatti, il requisito, fondamentale, della sussidiarietà, dell’azione di arricchimento senza causa, è inteso in giurisprudenza in senso astratto e non in concreto.
Vale a dire che se, in astratto, il fatto è regolato da una specifica fattispecie, ma la stessa non si è realizzata per la mancanza di un suo requisito essenziale (nel caso in questione, per la mancanza della preventiva approvazione da parte dell’Ente locale delle opere di urbanizzazione realizzate), non può trovare applicazione in via sussidiaria l’azione di indebito arricchimento, al fine di ottenere quel medesimo spostamento patrimoniale che sarebbe stato l’effetto della fattispecie non verificatasi.
In altre parole, è solo l’assenza in astratto e non la mera mancata realizzazione, in concreto, di una fattispecie idonea a giustificare lo spostamento patrimoniale, che può consentire, in via sussidiaria, l’applicazione dell’azione di indebito arricchimento.

Con la delibera impugnata, l’Amministrazione resistente ha approvato il progetto concernente le opere di urbanizzazione, già realizzate in proprio dalla ricorrente, su aree dalla medesima cedute a titolo gratuito all’Amministrazione (nell’ambito di un intervento edilizio volto alla realizzazione di un complesso residenziale), ai sensi dell’articolo 58 delle NTA del PRG vigente (che prevede, appunto, la cessione del 20% della superficie fondiaria per interventi sui lotti liberi, fermo restando il pagamento degli oneri concessori).
La ricorrente ha ritenuto di realizzare tali opere in virtù di quanto previsto nel medesimo articolo 58 delle NTA, laddove prevede che l’Amministrazione comunale provvede alla predisposizione di un piano di urbanizzazione e, in caso di inerzia di quest’ultima, i privati possono proporre un intervento diretto e a scomputo degli oneri concessori.
Deludendo le aspettative della ricorrente, l’Amministrazione resistente, tuttavia, con la delibera impugnata, si è limitata ad approvare e collaudare i lavori eseguiti, specificando tuttavia di non volersene accollare gli oneri, a scomputo di quelli di urbanizzazione, peraltro già ampiamente corrisposti dalla ricorrente stessa.
Ciò premesso, nel presente ricorso si lamenta la violazione del citato articolo 58 delle NTA dell’articolo 16 del d.p.r. n. 380 del 2001, laddove la P.A. pur accettando le opere così come eseguite dalla ricorrente ha ritenuto di non doverne scomputare il costo né dagli oneri di urbanizzazione né dai costi di costruzione; si osserva, a tal fine, inoltre, che in tal modo si realizzerebbe un indebito arricchimento a tutto vantaggio dell’Amministrazione stessa.
All’udienza del 07.02.2013, la causa è passata in decisione.
Il ricorso è infondato.
Come ammesso dalla stessa ricorrente, l’articolo 58 delle NTA del PRG vigente prevede che l’Amministrazione resistente avrebbe dovuto predisporre un piano di urbanizzazione.
Tuttavia, per l’ipotesi in cui, come nel caso di specie, essa sia inadempiente a tale obbligo, il medesimo articolo prevede che i privati “potranno proporre il proprio intervento diretto a scomputo degli oneri concessori”.
A ben vedere, quindi, già dal tenore testuale della disciplina richiamata, il privato ha l’onere di proporre preliminarmente il proprio progetto di intervento all’approvazione dell’Amministrazione comunale.
Nel caso di specie, viceversa, la ricorrente non si è conformata a tale paradigma e pertanto non né può reclamare gli effetti a proprio vantaggio, come se lo avesse fatto.
Del resto, in linea più generale e di principio, l’articolo 16 del d.p.r. n. 380 del 2001 prevede che le opere di urbanizzazione possano essere eseguite a scomputo (dei soli oneri di urbanizzazione) solo previo accordo con il Comune (cfr. Tar Catania, sentenza n. 279 del 2012); difatti, avendo le opere di urbanizzazione un fine pubblico, è l’Ente locale che, nell’ambito dei propri compiti istituzionali e delle risorse a ciò destinate, deve decidere quali opere realizzare e quali costi sostenere a tal fine (cfr. Tar Palermo, sentenza n. 126 del 2012).
Tale disciplina, inoltre, è di stretta interpretazione, tanto più che essa appare anche derogatoria al regime generale dell’affidamento mediante pubblica gara dell’incarico di esecuzione di opere pubbliche (e difatti l’articolo 16, comma 2-bis, del d.p.r. n. 380 del 2001, come recentemente modificato, ammette tale deroga solo per lavori di importo sottosoglia comunitaria).
In conclusione non ricorrono i presupposti di legge per scomputare i costi sostenuti dall’impresa dagli oneri di urbanizzazione dalla medesima dovuti al Comune.
A tal proposito, la medesima ricorrente osserva che, in ogni caso, il Comune ha accettato tali opere e pertanto in tal modo si realizzerebbe un indebito arricchimento del medesimo, che finirebbe per percepire gli oneri concessori oltre alla cessione a titolo gratuito delle opere di urbanizzazione.
La questione dell’indebito arricchimento, pertanto, non viene posta nel ricorso come fonte legale di un’obbligazione e quindi come causa petendi di una domanda di pagamento di una somma di denaro, ma ci si limita a prospettarla come conseguenza inaccettabile dell’interpretazione viceversa accolta dal Collegio.
Nei predetti limiti, pertanto, occorre farsi carico del suo esame.
A ben vedere, tale indebito arricchimento è frutto di una scelta consapevole della stessa ricorrente, la quale, al fine di realizzare le opere autorizzate, ha ritenuto di non voler o poter attendere la programmazione e realizzazione delle opere di urbanizzazione da parte del Comune, provvedendovi pertanto di propria iniziativa.
Quindi è indubbiamente un’attività che la ricorrente ha compiuto consapevolmente nel proprio interesse.
Ciò premesso, osserva il Collegio, che l’istituto dell’indebito arricchimento non può essere utilizzato per ottenere il medesimo risultato che viceversa non si è realizzato proprio perché non ne sono stati rispettati i presupposti di legge.
Si realizzerebbe, in caso contrario, una palese contraddizione nell’ordinamento.
Proprio per tali ragioni, infatti, il requisito, fondamentale, della sussidiarietà, dell’azione di arricchimento senza causa, è inteso in giurisprudenza in senso astratto e non in concreto (cfr. Tar Molise, sentenza n. 402 del 2012; Cassazione civile, sentenza n. 1216 del 2012; Tar Lazio, sentenza n. 1306 del 2012).
Vale a dire che se, in astratto, il fatto è regolato da una specifica fattispecie, ma la stessa non si è realizzata per la mancanza di un suo requisito essenziale (nel caso in questione, per la mancanza della preventiva approvazione da parte dell’Ente locale delle opere di urbanizzazione realizzate), non può trovare applicazione in via sussidiaria l’azione di indebito arricchimento, al fine di ottenere quel medesimo spostamento patrimoniale che sarebbe stato l’effetto della fattispecie non verificatasi.
In altre parole, è solo l’assenza in astratto e non la mera mancata realizzazione, in concreto, di una fattispecie idonea a giustificare lo spostamento patrimoniale, che può consentire, in via sussidiaria, l’applicazione dell’azione di indebito arricchimento.
Quindi nessun argomento contrario alla soluzione qui prescelta può derivare dal richiamo a tale azione di indebito arricchimento (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 21.02.2013 n. 129 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 18.04.2013

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Ma per farsi intendere, vuoi vedere che bisognerà cominciare a parlare (e scrivere) in cinese ?? Perché si continua a porre la stessa domanda per avere la stessa risposta ??

     Con l'aggiornamento al 28.01.2013 rappresentavamo -per l'ennesima volta- come la Corte dei Conti, all'unisono le varie sezioni regionali di controllo, si fosse pronunciata più volte nell'affermare che  l'incentivo alla progettazione, in materia urbanistica, spetti solamente laddove l’attività di pianificazione rientri nell’alveo di interventi pubblici o di opere di pubblico interesse, in relazione alle quali l’ente agirà in veste di stazione appaltante.

     Evidentemente, qualcuno non sa leggere l'italiano e aspetta che gli si risponda in cinese ...

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Per atto di pianificazione comunque denominato va inteso qualsiasi elaborato complesso, previsto dalla legislazione statale o regionale, composto da parte grafica/cartografica, da testi illustrativi e da testi normativi (es., norme tecniche di attuazione), finalizzato a programmare, definire e regolare, in tutto o in parte, il corretto assetto del territorio comunale, coerentemente con le prescrizioni normative e con la pianificazione territoriale degli altri livelli di governo.
Ai fini del riconoscimento dell’incentivo, la citata latitudine ermeneutica riconduce l’attività di pianificazione nell’alveo di interventi pubblici o di opere di pubblico interesse, in relazione alle quali l’ente agirà in veste di stazione appaltante.
L'
esclusivo riferimento ai lavori pubblici dell’art. 90 D.Lgs. 163/2206 induce a ritenere che l’art. 92, presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell’opera pubblica progettata. A fortiori, lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che l’incentivo alla progettazione venga ripartito “... tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto …” e, dunque, è di palmare evidenza come il riferimento normativo e la conseguente voluntas legis sia ascrivibile solo alla materia dei lavori pubblici, presupponendosi una procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un’opera di pubblico interesse.
La tassatività della normativa de qua e le ulteriori considerazioni di ordine sistematico e storico già esposte, inducono a ritenere che l’ambito di applicazione del citato art. 92, ivi compreso il comma 6 (e quindi con riferimento anche alla più generale attività di pianificazione), è esclusivamente limitato all’attività progettuale e tecnico–amministrative ad essa connesse, di opere e lavori pubblici, senza possibilità di estendere analogicamente tale disciplina ad altre tipologie di prestazioni.

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Le risorse incentivanti destinate a remunerare prestazioni professionali per la progettazione di opere pubbliche e per la redazione di atti di pianificazione devono ritenersi escluse dall’ambito applicativo dell’art. 9, comma 2-bis, della l. n. 122/2010.
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Con la nota indicata in epigrafe, il Sindaco del Comune di Volla (NA) ha sollecitato un parere in merito alla configurabilità ed all’ambito di applicazione dell’istituto giuridico dell’incentivo al personale interno per l’affidamento dell’attività di progettazione urbanistica ai sensi dell’art. 92 comma 6 del Codice degli Appalti, nonché, in relazione ai limiti contemplati dall’art. 9, comma 2-bis, del D.L. n. 78/2010, con riferimento al computo delle medesime voci incentivanti.
Preliminarmente l’Ente istante ha rappresentato che:
• Con delibera di Giunta Comunale ha affidato la redazione del Piano Urbanistico Comunale all’Ufficio tecnico, attribuendo la responsabilità dello stesso al relativo funzionario, con il supporto del Dipartimento di Progettazione Urbana e Urbanistica dell’Università di Napoli e, la redazione degli atti tecnici relativi al procedimento di Valutazione Ambientale Strategica ed allo Strumento di Intervento per l’Apparato Distributivo ad un professionista esterno.
In considerazione dell’orientamento espresso in sede consultiva dalla giurisprudenza della Corte dei conti, il Legale Rappresentante del Comune di Volla (NA) ha formulato i seguenti quesiti:
Se l’erogazione dell’incentivo per l’affidamento dell’attività di progettazione urbanistica di cui all’art. 92, comma 6, del Codice degli Appalti sia necessariamente subordinata alla realizzazione di opere pubbliche, nel senso che l’atto di pianificazione, comunque denominato, debba necessariamente riferirsi alla progettazione di opere pubbliche e non solo ad un atto di pianificazione territoriale redatto dal personale tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione;
Se detto compenso, obbligato com’è a transitare nel Fondo per la contrattazione decentrata, risenta del divieto di incremento di cui all’art. 9, comma 2-bis, della legge 31.07.2010, n. 122, nel senso che il suo ammontare vada considerato nel complesso delle voci relative al salario accessorio che, per effetto della disposizione sopra richiamata, non potrà superare il corrispondente importo dell’anno 2010.
Per completezza si precisa che in data 21.03.2013 è pervenuta un’ulteriore nota, a firma del Sindaco del Comune di Volla (NA), con la quale vengono trasmesse le osservazioni formulate dal Responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale in relazione alla richiesta di parere de quo.
...
Il primo quesito sottoposto all’attenzione della Sezione involge principalmente la portata interpretativa dell’art. 92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006, il quale prevede che il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un “atto di pianificazione comunque denominato” possa essere ripartito, con le modalità e i criteri previsti nell’apposito regolamento interno tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto.
La norma ricalca sostanzialmente quanto disposto dal previgente art. 18, comma 2, della L. n. 109/1994.
In particolare, l’Ente istante chiede di conoscere se all’atto di “pianificazione comunque denominato”, ai fini dell’erogazione dell’incentivo, debba necessariamente ricondursi l’attività di progettazione di un’opera, ovvero se possa considerarsi a tal fine, anche un mero atto di pianificazione. L’espressione utilizzata dal legislatore, appare generica nella sua formulazione e al più, sembrerebbe rinviare al regolamento comunale l’individuazione di norme con un contenuto descrittivo maggiormente dettagliato. Tuttavia, la giurisprudenza della Corte dei conti, in sede consultiva, ha già in numerose pronunce esplicitato in via definitoria che: “… per atto di pianificazione comunque denominato, vada inteso qualsiasi elaborato complesso, previsto dalla legislazione statale o regionale, composto da parte grafica/cartografica, da testi illustrativi e da testi normativi (es., norme tecniche di attuazione), finalizzato a programmare, definire e regolare, in tutto o in parte, il corretto assetto del territorio comunale, coerentemente con le prescrizioni normative e con la pianificazione territoriale degli altri livelli di governo ...” (Cfr. Corte dei conti, SS.RR. per la Regione siciliana in sede consultiva,
parere 03.01.2013 n. 2).
Ebbene, è imprescindibile la sussistenza di un contenuto tecnico-documentale degli elaborati che, richiedendo necessariamente specifiche competenze professionali reperibili esclusivamente all’interno dell’ente, fonderebbe il riconoscimento dell’istituto dell’incentivazione previsto dall’art. 92, comma 6, del D.Lgs n. 163/2006.
Inoltre, un consolidato orientamento delle Sezioni regionali di controllo, dal quale il Collegio non ritiene di doversi discostare, ha ritenuto che l’attività di pianificazione debba essere contestualizzata nell’ambito dei lavori pubblici, in un rapporto di necessaria strumentalità con l’attività di progettazione di opere pubbliche (in tale senso: Corte dei conti, Sezione regionale di controllo Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213, Corte dei conti, Sezione regionale di controllo Puglia, parere 16.01.2012 n. 1, Corte dei conti, Sezione regionale di controllo Campania, parere 10.07.2008 n. 14).
Ai fini del riconoscimento dell’incentivo, la citata latitudine ermeneutica riconduce l’attività di pianificazione nell’alveo di interventi pubblici o di opere di pubblico interesse, in relazione alle quali l’ente agirà in veste di stazione appaltante.
Questa interpretazione trova fondamento nella collocazione sistematica nell’ambito del cd. “Codice dei contratti pubblici”, sia dell’art. 90: rubricato “Progettazione interna ed esterna alle amministrazioni aggiudicatrici in materia di lavori pubblici”, che dell’art. 92: rubricato “Corrispettivi, incentivi per la progettazione e fondi a disposizioni delle stazioni appaltanti” del D.Lgs n. 163/2006, entrambi inseriti ne Capo IV del codice dei contratti pubblici (denominato “Servizi attinenti all'architettura e all'ingegneria”, Sezione I dedicata alla “Progettazione interna ed esterna, livelli della progettazione”).
Come già evidenziato da questa Sezione in un altro parere (deliberazione n. 67 del 13.03.2012): “… la stringente connessione tra gli artt. 90 e 92 del Codice dei contratti pubblici è ampiamente acclarata, non solo da ovvie valutazioni di ordine sistematico, ma soprattutto dalla storica derivazione degli stessi, dai medesimi artt. 17 e 18, legge n. 109/1994 (Legge-Quadro in materia di lavori pubblici), facilmente rinvenibile nei riferimenti normativi riportati nelle rispettive rubriche, così come inseriti dal legislatore del Codice dei contratti, mediante l’utilizzo di tale specifica tecnica compilativa …)”.
Pertanto, l’esclusivo riferimento ai lavori pubblici dell’art. 90 D.Lgs. cit. induce a ritenere che l’art. 92, presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell’opera pubblica progettata. A fortiori, lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che l’incentivo alla progettazione venga ripartito “... tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto …” e, dunque, è di palmare evidenza come il riferimento normativo e la conseguente voluntas legis sia ascrivibile solo alla materia dei lavori pubblici, presupponendosi una procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un’opera di pubblico interesse.
La tassatività della normativa de qua e le ulteriori considerazioni di ordine sistematico e storico già esposte, inducono a ritenere che l’ambito di applicazione del citato art. 92, ivi compreso il comma 6 (e quindi con riferimento anche alla più generale attività di pianificazione), è esclusivamente limitato all’attività progettuale e tecnico–amministrative ad essa connesse, di opere e lavori pubblici, senza possibilità di estendere analogicamente tale disciplina ad altre tipologie di prestazioni.
Il Collegio osserva che potrebbe comunque competere alla fonte regolamentare prevista dall’art. 92, commi 5 e 6, del D.Lgs. n. 163/2006 definire l’esatta portata ermeneutica del concetto di “atto di pianificazione comunque denominato”, anche prevedendo un’elencazione delle fattispecie di riferimento, che comunque tengano conto dell’alveo interpretativo elaborato dalla giurisprudenza contabile.
Il secondo quesito sottoposto all’attenzione della Sezione riguarda l’applicabilità all’incentivo previsto dall’art. 92 comma 6 citato, del divieto di incremento di cui all’art. 9, comma 2-bis, della legge 31.07.2010, n. 122, il quale contempla che il l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo dell'anno 2010.
Il Collegio osserva che, sulla scorta di quanto statuito dalle Sezioni Riunite della Corte dei Conti con
la deliberazione 04.10.2011 n. 51 alla luce del quadro normativo di riferimento e della ratio che ne costituisce il fondamento, l’art. 9, comma 2-bis precitato è una disposizione di stretta interpretazione. Sicché, in via di principio, essa non sembra possa ammettere deroghe od esclusioni (Cfr. anche Sezione regionale di controllo per il Veneto parere 03.05.2011 n. 285), in quanto la regola generale voluta dal legislatore è quella di porre un limite alla crescita dei fondi della contrattazione integrativa destinati alla generalità dei dipendenti dell’ente pubblico.
Ferma tale enunciazione generale, le Sezioni Riunite della Corte dei conti hanno ritenuto escluse dall’ambito applicativo del predetto art. 9, comma 2-bis, le sole risorse di alimentazione dei fondi destinate a remunerare prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati o individuabili e che potrebbero essere acquisite attraverso il ricorso all’esterno dell’amministrazione pubblica con possibili costi aggiuntivi per il bilancio dei singoli enti. In tali ipotesi dette risorse alimentano il fondo in senso solo figurativo, dato che esse non sono poi destinate a finanziare gli incentivi spettanti alla generalità del personale dell’amministrazione pubblica.
In relazione al quesito in oggetto ed in ossequio all’esegesi nomofilattica delle Sezioni Riunite, il Collegio segnala che detta caratteristica ricorre per quelle risorse finalizzate ad incentivare prestazioni poste in essere per la progettazione di opere pubbliche e per la redazione di atti di pianificazione, in quanto si tratta di risorse correlate allo svolgimento di prestazioni professionali specialistiche offerte da personale qualificato in servizio presso l’amministrazione pubblica. Peraltro, laddove le amministrazioni pubbliche non disponessero di personale interno qualificato, dovrebbero ricorrere al mercato attraverso professionisti esterni con possibili aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato.
Alla luce di quanto precede deve aggiungersi che, ai fini del calcolo del tetto di spesa cui fa riferimento il citato art. 9, comma 2-bis, e cioè per stabilire se l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale non superi il corrispondente importo dell’anno 2010, occorrerà sterilizzare, non includendole nel computo del 2010, le risorse destinate alla progettazione e alla pianificazione interna. Con tale accortezza sarà così possibile evitare effetti distorsivi nell’applicazione della norma, come ad esempio nel caso in cui un ente, nel 2010, abbia destinato consistenti risorse a dette finalità, con ciò elevando in modo improprio il tetto delle risorse complessive destinabili alla contrattazione integrativa.
In conclusione, le risorse incentivanti destinate a remunerare prestazioni professionali per la progettazione di opere pubbliche e per la redazione di atti di pianificazione devono ritenersi escluse dall’ambito applicativo dell’art. 9, comma 2-bis, della l. n. 122/2010 (Corte dei Conti, Sez. controllo Campania, parere 10.04.2013 n. 141).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: L’atto di pianificazione, comunque denominato, deve necessariamente riferirsi alla progettazione di opere pubbliche e non ad un mero atto di pianificazione territoriale redatto dal personale tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione.
La norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non a meri atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente.
L’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera, quale presupposto per l’erogazione di compensi incentivanti al personale in servizio per la redazione di progetti, è testualmente previsto nell’art. 92, comma 7, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, quale criterio da prendere in considerazione per lo stanziamento dei fondi necessari al finanziamento delle spese progettuali in sede di stesura dei bilanci dello Stato, delle amministrazioni statali, delle regioni e delle autonome locali.
In conclusione,
ciò che rileva ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale (piano regolatore o variante generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività d’ufficio per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante, senza attribuzione per legge di un ulteriore compenso specifico.
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Il sindaco del comune di Lecco, mediante nota n. 8927 del 05.02.2013, ha posto un quesito in merito al riconoscimento del compenso incentivante (di cui all’articolo 92, comma 6, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163) a favore del personale coinvolto nel progetto di redazione del Piano del Governo del Territorio.
Il sindaco riferisce che il Comune di Lecco, nel 2010, assunse la decisione di avvalersi del personale comunale (ritenuto competente) per la redazione del Piano di Governo del Territorio (articolato come da art. 7 L.R. 12/2005 nel Documento di Piano, Piano delle Regole e Piano del Servizi) e del Piano Urbano Generale dei Servizi del Sottosuolo (P.U.G.S.S.). Per tale attività di progettazione affidata al personale del settore Pianificazione e Territorio, sotto la direzione del Dirigente individuato quale responsabile del progetto, fu previsto il riconoscimento del compenso incentivante di cui all'art. 92, comma 6, del D. Lgs. 12.04.2006, n. 163.
Tale decisione apparve in linea anche con il parere reso da codesta Sezione Regionale di Controllo in data 30.11.2010 n. 1023 ("la realizzazione ad opera di personale tecnico dell'Ente del Piano di Governo del territorio ... sembra rientrare pacificamente tra gli atti di pianificazione comunque denominati che, ai sensi dell'art. 92, comma 6, del codice degli appalti, danno diritto alla corresponsione del premio incentivante nella misura del trenta per cento della tariffa professionale, da ripartire tra i dipendenti che lo abbiano redatta").
Si è successivamente appreso che sussistono diversi pronunciamenti in merito al riconoscimento del compenso di cui all'art. 92, comma 6, del predetto Codice degli Appalti per la redazione di atti di pianificazione urbanistica.
Il sindaco inoltre fa presente che:
• il P.G.T. di cui alla L. R. 12/2005 è un elaborato complesso, con un contenuto tecnico-documentale rientrante in specifiche competenze professionali, composto da parte grafica/cartografica, da testi illustrativi e da testi normativi; la predisposizione dello stesso, esclusivamente a cura del personale comunale, richiede un impegno di particolare complessità e consente all'Ente una significativa economia di spesa rispetto all'affidamento a professionisti esterni;
• la prestazione, situata nel contesto dell'attività di governo del territorio, non è stata esternalizzata ad un professionista esterno e richiede necessariamente l'utilizzo di specifiche competenze professionali che nel caso in questione sono reperite esclusivamente all'interno dell'ente. Il personale comunale non svolge, infatti, nel merito del redigendo P.G.T. attività sussidiarie, strumentali o di supporto rispetto alla elaborazione di atti di pianificazione affidata a professionisti esterni. La prestazione consiste, infatti, nella diretta e completa “redazione di un atto di pianificazione”, non in attività variamente sussidiarie alla predisposizione a cura di soggetti esterni, attività sussidiarie che possono senza dubbio rientrare nei doveri d'ufficio dei dipendenti;
• Il P.G.T, secondo quanto delineato dalla L.R. 12/2005, costituisce il documento fondamentale per la tutela e lo sviluppo del territorio comunale, in quanto, da un lato, regola l'attività edilizia privata e, dall'altro, definisce l'assetto delle strutture pubbliche e di interesse pubblico occorrenti per li migliore svolgimento della vita cittadina, risultando, pertanto, detto strumento pianificatorio intimamente connesso alla realizzazione delle opere pubbliche, per le quali il contrasto con le previsioni del P.G.T. costituisce elemento ostativo alla esecuzione.
Ciò premesso, il sindaco del comune di Lecco chiede il parere della Sezione Regionale di Controllo in ordine alla legittima possibilità di riconoscere il compenso di cui all'art. 92, comma 6, del D. Lgs. 12.04.2006, n. 163 al personale comunale incaricato della completa redazione del P.G.T. di cui alla L.R. 12/2005 (Documento di Piano, Piano delle Regole, Piano dei Servizi e dei P.U.G.S.S).
...
Il quesito ripropone questioni che rientrano in un consolidato orientamento consultivo delineato dalla Sezione, posto che nel precedente richiamato dall’amministrazione interpellante (SRC Lombardia, deliberazione n. 1023/2010/PAR), l’orientamento della Sezione ha avuto ad oggetto i requisiti di legge per poter affidare ai dipendenti gli incarichi di progettazione, piuttosto che la qualificazione giuridica degli atti di pianificazione ai sensi dell’art. 93, comma 6, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, a proposito della quale, il collegio si è espresso in termini potenziali e generali.
Al fine di determinare il corretto significato da attribuire alla locuzione “atto di pianificazione” inserita nel testo dell’art. 92, comma 6, del D. Lgs. 12.04.2006, n. 163, la Sezione richiama il condivisibile orientamento espresso dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte (cfr.
parere 30.08.2012 n. 290, riportato nel precedente SRC Lombardia, deliberazione n. 453/2012/PAR), a tenore del quale, l’atto di pianificazione, comunque denominato, debba necessariamente riferirsi alla progettazione di opere pubbliche e non ad un mero atto di pianificazione territoriale redatto dal personale tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione.
Stante la sedes materiae della norma sugli incentivi alla progettazione (Codice degli appalti), nonché la ratio della disposizione (contenere i costi connessi alla progettazione delle opere pubbliche valorizzando le professionalità interne alla pubblica amministrazione), si condivide l’argomentazione secondo cui “la norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non a meri atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente” (in termini, Sezione contr. Piemonte deliberazione cit.; cfr. altresì Sezione contr. Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259; parere 06.03.2012 n. 57; Sezione contr. Puglia, parere 16.01.2012 n. 1; Sezione contr. Toscana, parere 18.10.2011 n. 213).
Si osserva, inoltre, che l’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera, quale presupposto per l’erogazione di compensi incentivanti al personale in servizio per la redazione di progetti, è testualmente previsto nell’art. 92, comma 7, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, quale criterio da prendere in considerazione per lo stanziamento dei fondi necessari al finanziamento delle spese progettuali in sede di stesura dei bilanci dello Stato, delle amministrazioni statali, delle regioni e delle autonome locali.
In conclusione, ciò che rileva ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale (piano regolatore o variante generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività d’ufficio per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante, senza attribuzione per legge di un ulteriore compenso specifico.
Non sussistono pertanto motivi per discostarsi dagli orientamenti già espressi in materia (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 25.03.2013 n. 104).

     Adesso, stiamo a vedere quante altre volte -da qui in avanti- la Corte dei Conti dovrà perdere tempo nel pronunciarsi su una questione -ad oggi- trita e ritrita ...
18.04.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: L’Iva agevolata per il recupero degli edifici (articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: D.Lgs. 14.03.2013 n. 33 - Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni (marzo 2013 - tratto da www.funzionepubblica.gov.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: G.U. 12.04.2013 n. 86 "Disciplina sul rispetto dei livelli minimi di regolazione previsti dalle direttive europee, nonché aggiornamento del modello di Relazione AIR, ai sensi dell’articolo 14, comma 6, della legge 28.11.2005, n. 246" (direttiva P.C.M. 16.01.2013).

CORTE  DEI CONTI

APPALTILavori da saldare sempre a 30 giorni
È illegittima la clausola che subordina il pagamento di un corrispettivo di un appalto all'avvenuto finanziamento da parte di un ente terzo; è sempre a 30 giorni il pagamento dei lavori perché prevale il decreto 192 sul regolamento del codice dei contratti pubblici.

È quanto afferma la Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo per la Puglia, con il parere 14.03.2013 n. 53, che ha preso in considerazione due profili di particolare delicatezza su richiesta di parere di un ente locale.
Si chiedeva in primo luogo se, nei contratti stipulati con imprese relativi a lavori pubblici finanziati da altre amministrazioni, i pagamenti potessero essere effettuati dopo l'accredito delle relative somme da parte degli enti erogatori, mediante previsione espressa nei bandi di gara e nei relativi contratti d'appalto.
La Corte nega decisamente la legittimità di una clausola di gara come quella proposta dall'ente locale sul presupposto che il rapporto contrattuale investe infatti soltanto l'ente locale, ma non chi finanzia; è pertanto la stazione appaltante, all'atto dell'affidamento dei lavori che assume l'obbligo contrattuale diretto, rimanendo estraneo a tale rapporto la sussistenza di un rapporto di finanziamento con soggetti.
Per la delibera l'eventuale clausola che subordinasse la corresponsione del corrispettivo al ricevimento del finanziamento sarebbe illegittima. Stessa sorte avrebbe la clausola che dovesse escludere la maturazione di interessi a favore dell'appaltatore per effetto di ritardi da parte dell'ente finanziatore negli accrediti di rate di finanziamento. Da qui l'indicazione della Corte a che la stazione appaltante valuti la propria possibilità autonoma di pagamento e, in assenza di tale possibilità, non proceda all'affidamento dei lavori.
D'altro canto per principio generale le disposizioni dettate sui termini di pagamento e di corresponsione degli interessi di mora non possono essere derogate in danno dell'appaltatore.
In secondo luogo si poneva il problema se fosse tuttora applicabile ai pagamenti delle amministrazioni le norme del codice dei contratti pubblici (art. 133) e del regolamento (artt. 143 e 144 del dpr 207/2010). Premessa la prevalenza delle norme comunitarie di recepimento della direttiva «ritardati pagamenti», come recepite nel decreto 192/2012, la Corte dei conti precisa che alla luce della normativa Ue devono essere interpretate e applicate le norme nazionali con esse configgenti.
Pertanto non potranno essere considerate più applicabili le norme del dpr 207 che definiscono interessi di mora in misura diversa da quella prevista dal decreto 192/12 (tasso d'interesse pari a quello applicato dalla Bce, maggiorato dell'8% senza necessità di costituzione in mora). Inapplicabili sono, poi, le norme che fissano il termine di 45 giorni per l'emissione del certificato di pagamento del Sal (art. 143, comma 1, dpr n. 207/2010), oggi da considerare fissato a 30 giorni dalla normativa di recepimento della direttiva europea.
Pertanto risulta illegittimo, per la Corte, inserire clausole contrattuali che pattuiscano termini maggiori per i pagamenti, «nel nome di giustificazioni derivanti dalla natura o l'oggetto del contratto o da circostanze esistenti al momenti della sua stipulazione» (articolo ItaliaOggi del 16.04.2013).

QUESITI & PARERI

PATRIMONIO: Contratti di locazione passiva.
Domanda
È consentito a una pubblica amministrazione stipulare un contratto di locazione passiva?
Risposta
La locazione passiva è quel contratto di locazione dove la pubblica amministrazione è conduttore di un immobile di proprietà di terzi.
Gli ultimi interventi del legislatore in materia, in un'ottica di contenimento della spesa pubblica, tendono a disincentivare l'utilizzo di questa tipologia contrattuale da parte delle pubbliche amministrazioni. In particolare, l'art. 3 del decreto legge sulla spending review prevede la riduzione del canone di locazione del 15% rispetto a quanto attualmente corrisposto anche per i contratti in corso, nonché molte limitazioni al rinnovo del rapporto di locazione.
L'art. 3 del decreto sulla spending review, nell'ambito di una serie di misure finalizzate alla razionalizzazione del patrimonio pubblico, esprime pertanto un generalizzato disfavore per le locazioni passive, limitando la possibilità di rinnovare i contratti dopo la scadenza e di stipularne di nuovi e imponendo la riduzione dei relativi costi (cfr. Deliberazione della Corte dei conti, sez. regionale di controllo per il Lazio 09/01/2013 n. 3/2012) (articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2013).

PATRIMONIO: Natura del bene pubblico.
Domanda
Quale sia, tra la concessione amministrativa e la locazione, la tipologia contrattuale più idonea per la stipulazione di contratti che abbiano a oggetto l'utilizzazione di una struttura da destinare ad attività commerciale?
Risposta
Al fine di poter rispondere al presente quesito è necessaria una breve premessa in ordine alla natura dei beni immobili pubblici. Secondo quanto disposto dagli art. 822 e ss. c.c. i beni immobili di proprietà degli enti pubblici si distinguono in demaniali e patrimoniali. I beni patrimoniali, a loro volta, si distinguono in indisponibili e disponibili.
Il demanio e il patrimonio indisponibile, per la loro intrinseca natura a tutelare maggiormente l'interesse pubblico, sono inalienabili, inusucapibili e non possono formare oggetto di diritti a favore dei terzi se non nei limiti e modi stabiliti dalla legge. I beni patrimoniali disponibili seguono invece il classico regime privatistico ex codice civile.
Quel che più conta però, ai fini della risposta al quesito in esame, è che la corretta qualificazione giuridica del bene assume una decisiva rilevanza ai fini della scelta della tipologia contrattuale con cui affidarlo a terzi. Invero, la natura demaniale o patrimoniale indisponibile del bene determina l'applicazione dello strumento pubblicistico della concessione, mentre la natura disponibile del bene implica la possibilità di un affidamento in locazione (cfr. Corte conti reg. Sardegna, sez. contr., 07/03/2008, n. 4).
In conclusione quindi l'ente locale non gode di discrezionalità nel compiere la scelta tra i due strumenti (concessione e/o locazione) di attribuzione in godimento a soggetti terzi del bene ma che, nella scelta tra le varie soluzioni percorribili, debba avere quale parametro di riferimento esclusivo la natura del bene che determina il conseguente regime giuridico a cui lo stesso bene è sottoposto (articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2013).

TRIBUTI: La condizione di inagibilità.
Domanda
Possiedo un fabbricato che può essere considerato inagibile. Quali sono gli adempimenti che devo osservare?
Risposta
Se l'immobile può essere riconosciuto inagibile o inabitabile e non è utilizzato, il lettore è obbligato a presentare la dichiarazione ai fini dell'Imu. Il beneficio è riconosciuto relativamente al periodo durante l'anno nel quale permane tale situazione. L'accertamento dello stato di degrado è devoluto al comune, con perizia a carico del proprietario, il quale deve allegare l'apposita documentazione alla dichiarazione.
In alternativa, l'interessato può presentare una dichiarazione sostitutiva ai sensi del dpr n. 445/2000 con la quale dichiara di essere in possesso della perizia, redatta da un tecnico abilitato (articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Attività di C.T.U. e autorizzazione.
L'attività di c.t.u. (consulente tecnico d'ufficio) svolta da un pubblico dipendente per conto dell'autorità giudiziaria parrebbe non necessitare di preventiva autorizzazione da parte dell'amministrazione di appartenenza, atteso che la nomina del c.t.u. costituisce provvedimento giurisdizionale autonomo di scelta fiduciaria, che non può essere intaccato da atti promananti da altra autorità.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine all'assoggettamento, o meno, dell'attività di c.t.u. (consulente tecnico d'ufficio) svolta nell'ambito di un processo civile da un dipendente titolare di un rapporto di lavoro a tempo pieno, ad autorizzazione preventiva da parte dell'Ente ai sensi dell'art. 53 del d.lgs. n. 165/2001. L'Amministrazione si è posta nel contempo la questione se detta attività rientri viceversa tra quelle soggette a mera comunicazione preventiva da parte del dipendente, in virtù di una (eventuale) specifica disposizione normativa.
Ai fini di un corretto inquadramento della questione prospettata, è utile rammentare che il c.t.u. è la figura professionale, di particolare, competenza tecnica, alla quale si affida il giudice durante il processo civile, ai sensi dell'art. 61 del codice di procedura civile. La scelta dei consulenti tecnici deve essere normalmente effettuata tra le persone iscritte in albi speciali formati a norma delle disposizioni di attuazione al codice di procedura civile.
In tale codice, la consulenza tecnica non costituisce un mezzo di prova la cui ammissione, come per altri incombenti istruttori, è rimessa alla esclusiva disponibilità delle parti. Al contrario, essa consiste in uno strumento probatorio non soltanto sottratto alla disponibilità delle parti, bensì anche riservato all'esclusivo, prudente, apprezzamento del giudice. Detta consulenza, infatti, è finalizzata all'acquisizione di un parere tecnico necessario affinché il giudice possa valutare (ed infine decidere) argomenti e questioni che comportino specifiche conoscenze. Rientra, pertanto, nei poteri discrezionali del giudice stabilire se e quando egli ritenga necessaria la consulenza tecnica e la nomina del proprio ausiliario di giustizia.
Peraltro, nella designazione del consulente, il giudice non è obbligato a scegliere in albi predisposti, potendo egli fare ricorso a determinate conoscenze specialistiche acquisite direttamente da alcuni soggetti.
Conseguentemente non è escluso che la nomina del giudice possa anche riguardare un pubblico dipendente, in virtù della apprezzata competenza tecnica posseduta. Pertanto, l'individuazione del consulente tecnico avviene nella piena discrezionalità e autonomia del giudice, che nomina detto ausiliario, valutando il possesso di competenze e conoscenze ritenute indispensabili al processo in essere.
Premesso un tanto, con specifico riferimento all'attività di c.t.u. svolta da un pubblico dipendente, in relazione alla generale disciplina autorizzatoria per gli incarichi extraistituzionali contemplata all'art. 53 del d.lgs. 165/2001, si osserva che il Ministero di grazia e giustizia
[1] ha formulato le seguenti osservazioni.
Innanzitutto si è rimarcato in tale sede come il consulente tecnico d'ufficio sia un 'ausiliare del giudice' per cui, nello svolgimento di tale funzione, prevale l'aspetto del munus rispetto a quello della 'attività di lavoro subordinato od autonomo', alla quale fanno riferimento le norme che regolamentano il divieto per i pubblici dipendenti di assumere incarichi extra istituzionali senza la preventiva autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza
[2].
'Del resto -continua il Ministero- ove tale divieto fosse ritenuto applicabile anche in tema di nomina di periti e consulenti, non solo si svuoterebbe effettivamente di contenuto la concreta possibilità di scelta fiduciaria da parte del giudice, prevista dai vigenti codici di rito, ma si impedirebbe al medesimo, dominus del processo, di avvalersi di quelle nozioni tecniche ritenute indispensabili, individuate soltanto in quel determinato soggetto, che intende nominare consulente o perito'. Si potrebbe, infatti, frapporre in concreto un ingiustificato ostacolo all'accertamento giudiziario, e ciò in contrasto con la ratio che ha ispirato le varie norme disciplinanti il divieto in questione.
Si è richiamato, a tal proposito, anche l'orientamento espresso dalla Corte costituzionale
[3], che ha affermato che il principio di indipendenza della magistratura (sancito dall'art. 104 della Costituzione con riguardo ad ogni giudice, singolo o collegiale, in stretta correlazione all'autonomia dell'ordine giudiziario), non può non considerarsi scalfito da una norma che condiziona ad un atto vincolante di un'autorità amministrativa l'esercizio della funzione giurisdizionale, in un momento particolarmente delicato del processo quale è quello della scelta del consulente.
Pertanto, in detta fattispecie, sembrerebbe doversi ritenere inapplicabile la disciplina vigente che condiziona l'espletamento di incarichi extraistituzionali, da parte di pubblici dipendenti, alla previa autorizzazione rilasciata dall'amministrazione di appartenenza, in quanto l'incarico di c.t.u. svolto dal pubblico dipendente è conferito sulla base di una scelta fiduciaria dell'autorità giudiziaria.
Un tanto verrebbe confermato anche dal tenore del comma 8 dell'art. 53 del d.lgs. n. 165/2001. La richiamata norma prevede che le pubbliche amministrazioni non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti di altre amministrazioni pubbliche senza la previa autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi. Salve le più gravi sanzioni, il conferimento dei predetti incarichi, senza la previa autorizzazione, costituisce in ogni caso infrazione disciplinare per il funzionario responsabile del procedimento; il relativo provvedimento è nullo di diritto.
Il Ministero di grazia e giustizia fa notare, in proposito, come un provvedimento giurisdizionale non possa in alcun modo essere dichiarato nullo in base ad una norma sull'organizzazione amministrativa e come, in relazione al giudice, per la stessa configurazione dell'ordinamento giudiziario, non si attagli la figura del 'responsabile del procedimento'.
In conclusione, si è rilevato come l'applicazione delle norme in materia di incompatibilità dei pubblici dipendenti anche alla fattispecie in esame potrebbe comportare, sia per la specificità e particolare competenza necessaria ad espletare l'incarico di c.t.u., sia per l'urgenza di espletare tale compito, gravi situazioni di intralcio all'attività giudiziaria.
Pertanto, non potendo il potere giudiziario essere intaccato da atti promananti da altra autorità, nell'ipotesi in argomento dovrebbe ritenersi sufficiente che il dipendente comunichi all'ente di appartenenza il conferimento del predetto incarico, nel rispetto dei principi di correttezza e buon andamento.
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[1] Cfr. Direzione Generale degli Affari Civili e delle Libere Professioni, circolare del 04.01.1999. Si osserva che detta Direzione, in quella sede, ha precisato di aver mutato l'originario orientamento successivamente all'acquisizione del parere del C.S.M. reso con nota n. 152 del 15.04.1998.
[2] Cfr. art. 1, comma 60, l. n. 662/1996 e art. 58 del del d.lgs. 29/1993 ora trasfuso nell'art. 53 del d.lgs. 165/2001.
[3] Cfr. sentenza n. 440 del 1988
(12.04.2013 - link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: Parere sulla legittimità di un permesso di costruire rilasciato per la ricostruzione di un fabbricato distrutto dagli eventi bellici ai sensi dell'art. 10 della legge 13.07.1966 n. 610 - Comune di Cassino (Regione Lazio, parere 09.04.2013 n. 99247 di prot.).

NEWS

APPALTIAppalti solo alle imprese pulite. L'elenco delle aziende mafia-free aggiornato ogni anno. Pronto il dpcm che attua la legge anticorruzione. Domande di iscrizione anche via Pec.
Lavori solo alle imprese doc. L'elenco delle aziende mafia-free che, in qualità di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori saranno dispensate dal produrre l'informativa antimafia, sarà aggiornato di anno in anno e verrà articolato in sezioni a seconda dei settori di attività.
Le aziende che vorranno farne parte dovranno inoltrare domanda alla prefettura competente (anche telematicamente attraverso la posta elettronica certificata) la quale poi effettuerà le necessarie verifiche se l'impresa non è censita nella Banca dati nazionale unica antimafia istituita dal dlgs 159/2011. Viceversa, se essa è già presente nella Banca dati, l'iscrizione sarà automatica e la liberatoria antimafia potrà essere rilasciata immediatamente.

Con la messa a punto da parte del governo del dpcm che detta le istruzioni tecniche per l'istituzione e l'aggiornamento dell'elenco, l'operazione pulizia negli appalti pubblici prevista dalla legge anticorruzione (legge n. 190/2012) può dirsi completa. L'iscrizione nella lista delle imprese con la fedina penale pulita sarà su base volontaria e sarà ovviamente subordinata all'assenza di eventuali tentativi di infiltrazione. Ma soprattutto non sarà un'iscrizione a vita. Le prefetture competenti per territorio dovranno infatti effettuare verifiche periodiche sull'assenza di commistioni con le organizzazioni criminali e in caso di esito negativo disporre la cancellazione di chi non risulta in regola.
Come detto, l'elenco sarà suddiviso in tante sezioni quante sono le attività considerate come maggiormente esposte al rischio di infiltrazioni mafiose dalla legge anticorruzione. Si va dal trasporto di materiali a discarica al trasporto di rifiuti, dal movimento terra alla fornitura di calcestruzzo, dalla fornitura di ferro lavorato alla guardiania dei cantieri. Questo elenco potrà essere aggiornato entro il 31 dicembre di ogni anno, con apposito decreto del ministro dell'interno, adottato di concerto con i ministri della giustizia, delle infrastrutture e dei trasporti e dell'economia e delle finanze.
Le domande di iscrizione nell'elenco potranno essere inviate anche telematicamente alle prefetture che le valuteranno seguendo la procedura a doppio binario vista prima: iscrizione automatica nel caso in cui l'impresa sia già presente nella Banca dati nazionale antimafia o solo a seguito di verifiche in caso di mancata iscrizione nell'elenco. Le prefetture dovranno pronunciarsi entro 90 giorni dal ricevimento dell'istanza.
Le imprese presenti nell'elenco dovranno comunicare entro 30 giorni qualsiasi modifica del proprio assetto proprietario o degli organi sociali. Mentre le società quotate dovranno indicare anche le partecipazioni rilevanti. La mancata osservanza dell'obbligo di comunicazione comporterà la cancellazione dall'elenco. Almeno 30 giorni prima della scadenza annuale di validità dell'iscrizione, le imprese dovranno trasmettere alla prefettura la richiesta di restare iscritte all'elenco per lo stesso o per settori di attività diversi rispetto a quelli originari. Le prefetture potranno disporre controlli a campione per l'accertamento dei requisiti. E chi non sarà trovato in regola verrà cancellato.
Gli elenchi delle imprese «pulite» saranno pubblicati sul sito web delle prefetture nell'apposita sezione «Amministrazione trasparente» prevista dal dlgs 33/2013 (si veda altro pezzo in pagina). Per facilitare la comunicazione delle imprese con le prefetture attraverso la Pec, il ministero dell'interno pubblicherà sul proprio sito un elenco di indirizzi Pec dei singoli Uffici territoriali di governo (articolo ItaliaOggi del 17.04.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Amministrazioni senza segreti sul personale. I dati dovranno essere pubblicati sui siti web nella sezione dedicata alla trasparenza. Una nota dell'anci spiega il dlgs 33/2013.
Il conto annuale delle pubbliche amministrazioni dovrà contenere i dati sulla dotazione organica e sul personale in servizio effettivo. All'interno del conto dovranno essere indicate sia la diversa distribuzione tra le qualifiche e tra le aree professionali, sia le relative spese sostenute.
Tutte queste informazioni dovranno poi essere pubblicate sul sito delle amministrazioni, in una apposita sezione denominata amministrazione trasparente.

Questo è quanto emerge dalla nota informativa pubblicata ieri dall'Associazione nazionale comuni italiani (Anci), in merito al decreto recante disposizioni in materia di trasparenza nelle pubbliche amministrazioni (dlgs n. 33/2013).
La nota informativa dell'Anci, sottolinea inoltre, che a seguito dell'entrata in vigore del decreto trasparenza, ogni amministrazione sarà tenuta a creare una apposita banca dati all'interno della quale dovranno essere reperibili tutte le norme di legge che regolano il funzionamento dell'ente, della sua organizzazione e delle sue attività. Questo al fine di completare il quadro previsto dal nuovo accesso civico, in base al quale tutti i cittadini, senza obbligo di motivazione potranno avere accesso a ogni atto amministrativo del quale è prevista la pubblicazione.
La nota dell'Anci precisa poi che, al fine di vigilare sul corretto adempimento degli oneri sulla trasparenza, dovrà essere indicato un apposito responsabile. In base alla nuova normativa, spetterà infatti al responsabile per la trasparenza, segnalare all'ufficio per la disciplina, i casi di inadempimento o di adempimento parziale degli obblighi in materia di pubblicazioni.
A conclusione della nota informativa, l'Associazione sottolinea poi come l'inadempimento degli obblighi di pubblicazione previsti, costituirà elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale, nonché eventuale causa di responsabilità per danno all'immagine dell'amministrazione. Il tutto, sarà comunque valutato poi, ai fini della corresponsione della retribuzione e del trattamento accessorio collegato alla performance individuale dei responsabili (articolo ItaliaOggi del 17.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI: Norme Ue perimetrate. Decreti attuativi senza adempimenti extra. Una direttiva di palazzo Chigi aggiorna l'analisi di impatto (Air).
Applicazione delle direttive e dei regolamenti comunitari senza adempimenti ulteriori rispetto a quelli fissati dalla norma Ue. Arriva la bussola per i decreti attuativi delle norme comunitarie, grazie alla direttiva 16.01.2013 del Presidente del Consiglio dei ministri, (in G.U. del 12.04.2013) di disciplina sul rispetto dei livelli minimi di regolazione previsti dalle direttive europee, nonché di aggiornamento del modello Air, previsto dalla legge 246/2005.
Va ricordato che se una nuova direttiva europea non prevede adempimenti formali per avviare un'attività economica, né è rimessa una scelta agli stati membri, non è possibile prevedere alcun obbligo a carico delle imprese; ma se la direttiva comunitaria individua i requisiti inderogabili per svolgere una determinata attività e prevede che la relativa procedura sia definita dal diritto interno, permane autonomia per definire gli adempimenti necessari.
Tuttavia, nel caso in cui sia superato il livello minimo di regolazione fissato dalla Ue, deve essere seguita la procedura dell'analisi di impatto della regolamentazione prevista dal regolamento 170/2008. Insomma non c'è margine di manovra per aggirare i principi che vengono stabiliti a livello comunitario e lo Stato, quindi, fissa le regole operative perché le direttive comunitarie siano correttamente applicate.
Aggiornato l'Air. La novità del provvedimento è che, rispetto alle indicazioni contenute nel primo modello approvato con dpcm 170 del 2008, con la direttiva pubblicata la scorsa settimana, sono state introdotte apposite sezioni, relative alla valutazione di impatto sulle piccole e medie imprese nonché alla valutazione degli oneri informativi e dei relativi costi amministrativi introdotti o eliminati e, soprattutto, al rispetto dei livelli minimi di regolazione europea.
Gli oneri informativi. Tale provvedimento, peraltro, è soltanto uno dei tasselli con i quali è stato costruito il complesso percorso avviato con i decreti legge in materia di semplificazione e di liberalizzazione emanati negli ultimi anni. Altro regolamento di rilievo, infatti, è il 252/2012 pubblicato in G.U. il 4 febbraio di quest'anno e relativo ai criteri e modalità per la pubblicazione degli elenchi degli oneri a carico delle imprese introdotti ed eliminati.
L'obiettivo è quello di disporre del numero più ampio di elementi in relazione al mandato conferito al Governo di revisione complessiva della disciplina per l'esercizio delle attività economiche che dovrà anche individuate «le attività sottoposte ad autorizzazione, a segnalazione certificata di inizio di attività (Scia) con asseverazioni o a segnalazione certificata di inizio di attività (Scia) senza asseverazioni ovvero a mera comunicazione e quelle del tutto libere» così come ha previsto il dl 5/2012 (conv. 35/2012) al comma 4 dell'articolo 12, «Semplificazione procedimentale per l'esercizio di attività economiche».
Competenza regionale. Sta di fatto che le indicazioni della direttiva pubblicata il 12 aprile scorso sono vincolanti soltanto per lo Stato, anche se le regioni, con un'intesa sottoscritta a livello di Conferenza unificata già il 29.03.2007, si sono impegnate ad adottare il criterio dell'Air al fine di migliorare complessivamente la qualità della regolamentazione.
Ciò che è certo è che il rispetto del diritto comunitario, in base al primo comma dell'art. 117 Cost., compete a tutti i soggetti ai quali è affidata la potestà legislativa, con la conseguenza che la suddetta direttiva rappresenta un parametro di riferimento ottimale perché consente l'immediata verifica della compatibilità con le norme Ue e, attraverso la corretta compilazione delle diverse sezioni di cui è composto il modello di Air, il riscontro sugli effettivi esiti della regolamentazione (articolo ItaliaOggi del 17.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTIDECRETO PAGAMENTI/ Derogata la disciplina a regime (che demanda al consiglio).
Tares, parla anche la giunta. Competenza sulla scadenza e sul numero delle rate.
Scadenze e numero delle rate di versamento in acconto della Tares possono essere deliberate anche dalla giunta comunale. Per l'anno in corso, infatti, l'articolo 10 del dl 35/2013 deroga a quanto disposto dall'articolo 14 del dl 201/2011, che a regime demanda al consiglio comunale il compito di modificare le scadenze stabilite dalla legge.
Questa interpretazione si ricava dalla formulazione letterale dell'articolo 10 che, per il 2013, ha apportato delle modifiche alle regole contenute nell'articolo 14 del dl «salva Italia», che ha istituito la Tares. La nuova disposizione per accelerare l'iter per la riscossione del tributo in acconto e far fronte all'esigenza di comuni e gestori di anticipare la data di pagamento e l'incasso delle somme dovute dai contribuenti, al fine di garantire lo svolgimento del servizio di smaltimento dei rifiuti, ha introdotto delle deroghe alla disciplina della tassa. Scadenze e numero delle rate di versamento sono stabilite dal comune con deliberazione adottata, «anche nelle more della regolamentazione comunale del nuovo tributo», e pubblicata sul proprio sito web almeno 30 giorni prima della data indicata per il pagamento.
La prima rata, dunque, non dovrà più essere versata a luglio, come previsto dal dl rifiuti (1/2013), ma potrà essere anticipata, anche nel caso in cui il comune non abbia adottato il regolamento, il cui termine per la deliberazione è attualmente fissato al prossimo 30 giugno. Pertanto, anche in assenza di un'espressa previsione, si può ritenere che la giunta comunale abbia il potere di stabilire le scadenze e il numero delle rate. In caso contrario, non avrebbe senso la norma nella parte in cui consente la deliberazione nelle more del regolamento. Atto che è invece di competenza del consiglio comunale. Del resto, se così non fosse il legislatore avrebbe confermato ciò che è già previsto dall'articolo 14, vale a dire che le scadenze stabilite dalla norma a regime (gennaio, aprile, luglio, ottobre) possono essere modificate solo con regolamento. Come già evidenziato, la facoltà di deliberare le scadenze anche prima dell'approvazione del regolamento è dettata dall'urgenza che hanno comuni e gestori di incassare una quota parte del tributo per assicurare il servizio. E la delibera di giunta consente di raggiungere questo risultato in tempi brevi.
È poi espressamente disposto che per le prime due rate i comuni possono inviare ai contribuenti i modelli di pagamento precompilati già predisposti per il pagamento di Tarsu, Tia1 o Tia2 o indicare altre modalità di versamento giù utilizzate in passato. Considerato che la nuova disposizione prevede inoltre che i comuni hanno anche la facoltà di fare ricorso alle altre modalità di pagamento «già in uso per gli stessi prelievi», è sostenibile la tesi che concessionari e gestori possano incassare i versamenti in acconto. Le somme pagate verranno poi scomputate da quella dovuta, a titolo di Tares, per l'anno 2013, che verrà richiesta con l'ultima rata e che dovrà essere versata solo nelle casse comunali. Anche la maggiorazione sui servizi si pagherà con l'ultima rata, ma il gettito è riservato allo stato (articolo ItaliaOggi del 16.04.2013).

APPALTI: Strada in salita per lo sblocco dei pagamenti: incerti sia i tempi sia gli importi liquidati.
P.a., ecco chi sarà pagato. Forse. Via ai debiti degli enti locali. A patto che ci sia liquidità.

Con la pubblicazione del dl 35/2013, ossia il decreto che sblocca i pagamenti delle pubbliche amministrazioni, si è finalmente messa in moto la macchina che porterà nelle casse dei creditori delle p.a. circa 40 miliardi di euro da qui al 2014. Il percorso, tuttavia, è assai tortuoso, tanto da rendere incerti i potenziali beneficiari sui tempi effettivi di pagamento.
In attesa delle correzioni che potranno essere introdotte dal parlamento (come richiesto dalle principali associazioni imprenditoriali), proviamo a capire chi può nutrire una ragionevole aspettativa di ricevere i soldi. Migliore sembra essere la posizione di chi vanta crediti nei confronti degli enti locali, per i quali, infatti, il dl 35 prevede lo sblocco di 5 miliardi di pagamenti, concedendo una deroga ai vincoli del Patto di stabilità 2013. In pratica, comuni e province potranno utilizzare la liquidità di cui dispongono (e che il Patto ha finora congelato) per estinguere una parte dei loro debiti «di parte capitale». Si tratta, in particolare, di acquisti di beni mobili (arredi, attrezzature, macchinari, automezzi, ecc.), di interventi di realizzazione e/o manutenzione di opere pubbliche (strade, fognature ecc.), di acquisti o realizzazione di immobili. Ma vi rientrano anche, per esempio, le spese di progettazione a fronte di prestazioni di professionisti.
Il dl 35 consente di pagare due tipologie di debiti: 2) quelli «certi, liquidi ed esigibili» alla data del 31.12.2012; 2) quelli per i quali, alla medesima data, sia stata almeno emessa fattura (o richiesta equivalente di pagamento). Se per la seconda categoria non si pongono particolari questioni interpretative in quanto fa fede la data della fattura, qualche dubbio può sorgere rispetto alla prima. In proposito, si ricorda che un debito si considera certo quando non è controverso nella sua esistenza (per esempio per contestazioni giudiziali), liquido quando il suo ammontare risulta precisamente determinato o determinabile, esigibile quando non è sottoposto a condizioni o termini. In tali casi, si può anche prescindere dall'esistenza o meno della fattura, che presenta un valore più contabile (oltre che fiscale), che sostanziale. Per esempio, per le opere pubbliche sembra assumere rilevanza il certificato di pagamento, che viene rilasciato in coincidenza con gli stati di avanzamento lavori.
Si ritiene che l'esigibilità sussista anche prima di ottenere il Durc, fermo restando che quest'ultimo è necessario ai fini del pagamento effettivo. Analogo discorso vale per le verifiche presso Equitalia (per i pagamenti oltre 10 mila euro).
È incerto se possano essere considerati anche i debiti non commerciali (per esempio, a favore di soggetti espropriati): la norma non opera distinzioni, anche se la relazione di accompagnamento parla espressamente di debiti commerciali.
Al di là dei casi dubbi, lo sblocco avverrà in tempi rapidi, a patto che comuni e province dispongano di sufficienti risorse liquide. In tal caso, infatti, il dl 35 consente di pagare immediatamente fino al 13% della liquidità presente sui conti di tesoreria dei singoli enti.
Una volta esaurito il plafond iniziale, però le cose iniziano a complicarsi. A questo punto, infatti, occorrerà attendere il 15 maggio, allorché il Mef indicherà il bonus che ciascun ente potrà utilizzare per derogare dal Patto. Al momento, inoltre, non è chiaro se i 5 miliardi totali includano anche i pagamenti già effettuati nei primi mesi di quest'anno: se così fosse (come pare confermato dalla lettera delle norme), è ovvio che gli spazi per nuovi pagamenti si restringono.
Se poi l'ente debitore è a corto di cassa, le incognite aumentano ancora. Per fronteggiare tale evenienza, il dl 35 prevede due strumenti. Da un alto, aumenta il margine entro cui province e comuni possono attivare le anticipazioni di tesoreria, dall'altro consente loro di accedere a un prestito a lungo termine della Cassa depositi e prestiti. Ciò, oltre a comportare un allungamento dei tempi, non garantisce che le risorse che potranno essere acquisite siano sufficienti. Sul primo versante, molti enti sono già vicini al tetto delle anticipazioni. Quanto al secondo strumento, i 4 miliardi messi a disposizione dal dl 35 (2 quest'anno e 2 il prossimo) sono inferiori rispetto al reale fabbisogno. Inoltre, il meccanismo è viziato da un corto circuito: gli enti, infatti, devono presentare richiesta alla Cassa entro il 30 aprile, che è la stessa scadenza entro cui devono chiedere la deroga sul Patto. C'è quindi il rischio che i margini di spesa risultino inferiori alla reale capacità di pagamento.
Per coloro che resteranno a bocca asciutta, la strada si fa sempre più stretta. Entro ottobre è prevista una seconda iniezione di liquidità, ma solo per il 10% dello stanziamento 2013, mentre non è stabilito quadro verranno ripartiti i 2 miliardi stanziati per il 2014.
Vita ancora più dura per i creditori delle regioni e degli enti del servizio sanitario nazionale. In tali casi, il problema non è tanto legato alle risorse disponibili, che nel biennio ammontano complessivamente a 22 miliardi (su 26 totali di cash per gli enti territoriali). L'ostacolo qui è rappresentato dai tempi: per accedere al tesoretto, infatti, i governatori sono chiamati a predisporre, oltre al piano dei pagamenti, anche «idonee e congrue» misure di copertura finanziaria degli impegni assunti, anche a carattere legislativo. Spesso, si tratta di un passaggio tutt'altro che scontato, specialmente nelle regioni con i bilanci più traballanti.
Coloro che aspettano di essere pagati dalle p.a. statali, infine, dovranno sperare di essere inclusi nella prima tranche di pagamenti, che scatterà, anche in tal caso, a metà maggio sulla base degli elenchi cronologici che ciascun ministero è chiamato a predisporre entro fine aprile con riferimento ai propri debiti. Per chi resterà fuori, occorrerà aspettare che vengano definiti appositi piani di rientro, che prima di essere attuati dovranno passare al vaglio di parlamento e Corte dei conti.
A differenza dei bonus sul Patto, le iniezioni di liquidità possono essere destinate anche al pagamento di debiti di parte corrente (forniture di beni e servizi), sempre che certi, liquidi ed esigibili o muniti di fattura al 31 dicembre scorso. Per questi, infatti, non si pone un problema di Patto che vincola solo i pagamenti in conto capitale. Ma la torta è sempre quella e più aumentano i commensali più il numero di quelli destinati a restare ancora digiuni è destinato a crescere (articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: La Corte di giustizia: per il legno trattato con sostanze chimiche si applica il Reach. Rifiuti, recupero senza rischi. Se mancano ecoregole ad hoc, valgono altre norme Ue.
In mancanza di norme ambientali ad hoc, per valutare il corretto recupero di residui trattati con sostanze pericolose assumono rilevanza le regole tecniche rintracciabili in altri e indipendenti provvedimenti dell'ordinamento giuridico comunitario.

Questo, in estrema sintesi, il principio di diritto pronunciato dalla Corte di giustizia Ue in risposta alla questione pregiudiziale posta da un giudice nazionale sul valore delle norme tecniche dettate dal regolamento Ce n. 1907/2006 (cosiddetto «Reach») in materia di sostanze chimiche ai fini dell'applicazione delle generali norme sul recupero dei rifiuti contenute nella direttiva 2008/98/Ce.
Il caso. La questione è stata sollevata in via pregiudiziale da un giudice della Finlandia chiamato a decidere sulla legittimità del libero riutilizzo, quali elementi strutturali di una strada carrabile, di alcuni vecchi pali di legno trattati con una soluzione di rame, cromo arsenico (cosiddetto «Rca») sottraendoli così alla diversa gestione di rifiuti pericolosi.
Il tutto sul presupposto, spiega la Corte del rinvio, che il regolamento «Reach», pur non ammettendo in via generale l'uso di tali sostanze per la protezione del legno, ne ammette l'impiego qualora gli stessi materiali siano destinati a determinate applicazioni non comportanti rischi per le persone e per l'ambiente (come quelle industriali e professionali che non comportano contatto cutaneo con il pubblico).
La sentenza. Pronunciandosi sulla questione con sentenza 7 marzo 2013 n. C-358/11, la Corte di giustizia Ue ha riconosciuto che in linea di principio il rispetto delle condizioni di «utilizzo in deroga» previste dal regolamento Reach costituisce sicuramente uno degli elementi che, in base alla direttiva 2008/98/Ce, possono indurre a considerare il legno trattato con soluzioni Rca fuoriuscito dal regime dei rifiuti e riabilitato a comune bene, e ciò sulla base del fatto che entrambe le normative sono ispirate agli stessi principi di elevata protezione della salute umana e dell'ambiente. Il tutto rimettendo, però, alla valutazione del giudice nazionale la valutazione concreta se, nel caso di specie, tale protezione sia effettivamente garantita.
Il contesto normativo. Nel motivare la sua decisione, il giudice europeo si richiama infatti all'articolo 6 della direttiva sui rifiuti, articolo che stabilisce le condizioni generali da soddisfare affinché i rifiuti cessano di essere tali.
In base a tale articolo l'end of waste dei rifiuti è decretato dall'applicazione di una procedura di recupero all'esito della quale i residui: possono essere riutilizzati per scopi specifici; hanno un loro mercato; soddisfano standard esistenti per prodotti; non presentano rischi complessivi negativi per l'ambiente e la salute umana.
È pur vero, rileva il giudice comunitario, che tali condizioni generali sull'end of waste diventano operative solo a seguito di provvedimenti della Commissione Ue che ne declinino l'applicazione su singole categorie di rifiuti (come già accaduto con i regolamenti su rottami di ferro e vetro, ndr) ma è altrettanto vero, sottolinea la stessa Corte, che il medesimo articolo 6 autorizza gli stati membri, nelle more dell'adozione di tali provvedimenti Ue, a decidere caso per caso se un determinato rifiuto abbia cessato di essere tale tenendo conto (e da qui la rilevanza della sentenza in questione) «della giurisprudenza applicabile».
Orbene, argomenta La Corte Ue, nessuna norma comunitaria pare impedire che i rifiuti pericolosi possano cessare di essere tali se il procedimento di recupero ne consente un riutilizzo privo di effetti negativi per persone ed ambiente (come richiesto dal citato articolo 6 della direttiva rifiuti) e se (inoltre, come previsto dall'articolo 3 della stessa direttiva rifiuti) il suo detentore non ha l'obbligo di disfarsene.
E per valutare l'esistenza di tali due parametri (evidenzia la sentenza) ben può concorrere, nel silenzio del Legislatore comunitario, il rispetto delle norme sancite da altri provvedimenti Ue, come (appunto) quelle recate dal regolamento Ce n. 1907/2006 sulle sostanze chimiche.
Le norme particolari sull'end of waste. Come ricordato dal giudice comunitario nella sentenza in parola, le eventuali disposizioni nazionali sulla cessazione della qualifica di rifiuto per particolari categorie di residui hanno però valore (ex direttiva 2008/98/Ce) solo fino all'adozione di particolari regole Ue per specifiche categorie di residui.
E proprio in attuazione della direttiva 2008/98/Ce in parola l'Esecutivo comunitario ha già adottato, sgombrando dunque il campo da eventuali norme nazionali incompatibili, in relazione ai rottami di metallo il regolamento 333/2011/Ue (in vigore dallo scorso 09.10.2011) e in relazione ai rottami di vetro il regolamento Ue n. 1179/2012 (in vigore dal prossimo 11.06.2013). Tutto ciò mentre un terzo provvedimento (molto atteso dai gestori di rifiuti elettronici e veicoli fuori uso), quello sull'end of waste del rame, è già stato predisposto dalla stessa Commissione Ue lo scorso gennaio 2013 ed è in corso di definitiva approvazione (articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2013).

CONDOMINIO: Riscaldamento, spese più eque. Tra le novità la stima del consumo dovuto a dispersione. Pubblicata l'ultima versione della norma tecnica Uni 10200/2013 sulla climatizzazione.
Maggiore trasparenza nella contabilizzazione del consumo di calore in condominio.
È stata, infatti, pubblicata la nuova versione della norma tecnica Uni 10200/2013, elaborata dall'Ente nazionale italiano di unificazione e disponibile a pagamento sul sito internet www.uni.com, che fornisce i criteri per una corretta ed equa ripartizione della spesa per la climatizzazione invernale e per l'acqua calda sanitaria nei condomini serviti da impianto termico centralizzato o da impianto di teleriscaldamento. L'aggiornamento messo a punto dall'Ente nazionale italiano di unificazione offre, quindi, maggiori garanzie ai condomini, permettendo di calcolare in maniera più evidente la ripartizione pro quota della spesa totale per il riscaldamento.
Il sistema della contabilizzazione del calore. La contabilizzazione del calore è un sistema che consente di calcolare il consumo di ogni appartamento in modo da operare il riparto delle spese comuni tra i singoli condomini in base al consumo che ciascuno di questi abbia effettivamente registrato.
In questi casi il problema principale da affrontare è quello del criterio da utilizzare per procedere a detta rendicontazione. Solitamente negli edifici con impianto centralizzato c.d. a distribuzione orizzontale si ricorre alla c.d. contabilizzazione diretta. In questo caso i contatori vengono collocati in corrispondenza del punto di ingresso in ciascuna unità immobiliare della derivazione dell'impianto di distribuzione centralizzato, in modo da poter conteggiare la quantità di calore prelevata da ciascun condomino. Viceversa, negli edifici con impianto c.d. a distribuzione verticale, che rappresentano la tipologia oggi più diffusa, si procede all'installazione di specifici ripartitori, che sono programmati in virtù delle caratteristiche e della potenza termica dei corpi scaldanti sui quali sono installati e che consentono in tal modo di determinare i consumi.
La nuova norma Uni 10200/2013. La nuova Uni introduce quindi una maggiore trasparenza nella gestione della contabilizzazione del calore perché prevede che nella prima stagione di attività dell'impianto il responsabile debba fornire agli utenti un prospetto previsionale della spesa totale per climatizzazione invernale e acqua calda sanitaria. Dal punto di vista tecnico, invece, la novità principale è rappresentata dalla stima del consumo involontario dovuto alle dispersioni della rete di distribuzione e che influiscono comunque sulla spesa totale da ripartire tra i condomini.
Attualmente le specifiche tecniche della norma Uni/Ts 11300 consentono di utilizzare i ripartitori per effettuare anche detta stima.
Tuttavia la nuova norma Uni 10200 consente in alternativa di effettuare un calcolo semplificato con l'utilizzo di coefficienti che attribuiscono valori prestabiliti al consumo involontario.
Un'altra novità riguarda poi i c.d. millesimi di riscaldamento, poiché la nuova norma Uni 10200 prevede che gli stessi possano essere ricondotti non solo ai millesimi di potenza termica installata, come previsto sino a ora, ma anche ai millesimi di fabbisogno di energia utile, calcolati secondo le specifiche della predetta norma Uni/Ts 11300 (articolo ItaliaOggi Sette del 15.04.2013).

APPALTI: Il mosaico delle regole sblocca-pagamenti. L'utilizzo delle «vecchie» procedure continuerà ad essere decisivo per chi ora non sarà liquidato.
TASSELLI MANCANTI/ Il decreto legge 35 si inserisce e completa un quadro normativo molto articolato che alla prova dei fatti si è rivelato inefficace.

La manovra proposta dal Governo col decreto legge 35 non intende semplicemente immettere liquidità nel sistema -mediante la soddisfazione diretta dei creditori dello Stato e delle sue differenti amministrazioni- ma ha la più articolata (e difficoltosa) finalità di perfezionare e rendere (finalmente) funzionante un complesso sistema di norme messe in capo per porre rimedio ai ritardi dei pagamenti.
Un fenomeno -come emerge dal documento del Centro studi della Camera con le schede di lettura del Dl n. 35 2013- che nel corso degli anni ha conosciuto una crescita impressionante, sino a sfiorare il totale dei 90 miliardi (secondo stime Banca d'Italia), ovvero circa il 5,8% del Pil. Come se non bastasse, è lo stesso governo a confermare che, al momento, non esistono dati certi sull'ammontare dei debiti delle pubbliche amministrazioni verso le imprese.
Il governo, a più riprese, ha cercato una soluzione. Non fosse altro perché -a seguito del recepimento della direttiva 2011/7/UE- c'è stato un significativo giro di vite sulle sanzioni legate ai mancati pagamenti delle transazioni commerciali, ivi comprese quelle delle Pa. Per i contratti conclusi a decorrere dal 01.01.2013, poi, il termine massimo per i pagamenti della Pa è di 60 giorni e gli interessi moratori (circa l'8% su base annua) decorrono automaticamente alla scadenza del termine.
In altre parole, se fino ad ora "chiedere qualche sacrificio" ai fornitori era tollerato (e tollerabile) -magari con l'introduzione di specifiche clausole contrattuali negli accordi di fornitura, in deroga alle previsioni del Dlgs n. 231/02 che, in Italia, regola tempistica dei pagamenti commerciali e sanzioni per gli inadempimenti- tutto ciò non è più certamente possibile dal 1° gennaio di quest'anno. La conseguenza è che, oltre a indebolire il sistema imprenditoriale, il ritardi dei pagamenti generano anche un danno all'Erario.
In ogni caso, già l'articolo 9 del Dl n. 78/2009 -con il fine di prevenire la formazione di nuove situazioni debitorie della pubblica amministrazione- ha introdotto, tra l'altro, una specifica responsabilità disciplinare e amministrativa dei funzionari pubblici chiamati ad adottare provvedimenti che comportano impegni di spesa, laddove questi non accertino preventivamente la conformità del programma dei pagamenti coi relativi stanziamenti di bilancio.
Con obiettivi di certo più ambiziosi, poi, con l'articolo 9, comma 3-bis, del Dl n. 185/2008 è stata introdotta la cd "disciplina della certificazione dei crediti verso la Pa" (in prima battuta, solo quelli verso gli enti territoriali), anche ai fini della cessione pro-soluto dei medesimi a banche o altri intermediari finanziari (o, più verosimilmente, per utilizzarli in compensazione con debiti erariali). Per rendere più efficace questo nuovo istituto, la legge di stabilità per il 2012 ha introdotto la previsione secondo la quale, scaduto il termine di sessanta giorni, su nuova istanza del creditore, provvede alla certificazione la Ragioneria territoriale dello Stato competente per territorio, la quale, ove necessario, nomina un commissario ad acta con oneri a carico dell'ente territoriale.
Successivamente, il termine per la certificazione è stato ridotto da 60 a 30 giorni dall'articolo 13-bis del Dl 07.05.2012, n. 52 il quale ha, inoltre, reso obbligatoria -e non più eventuale- la nomina di un Commissario ad acta, su nuova istanza del creditore, qualora, allo scadere del termine previsto, l'amministrazione non abbia provveduto alla certificazione. Il meccanismo della certificazione dei crediti è stato esteso anche agli enti del Ssn dal Dl 52/2012 e, alle amministrazioni statali e agli enti pubblici nazionali, dall'articolo 12 del Dl 02.03.2012, n. 16. In un primo momento, la certificazione veniva rilasciata solo in forma cartacea. Dall'ottobre dello scorso anno è obbligatorio, invece, l'utilizzo di un'apposita piattaforma elettronica che, tra l'altro, ha il vantaggio che le cessioni dei crediti certificati in modalità telematica assolvono al requisito della forma per atto pubblico e all'obbligo di notificazione al l'amministrazione ceduta.
Nonostante questi sforzi, l'efficacia dei provvedimenti per l'accelerazione dei pagamenti della Pa è stata veramente minima. La mancanza (sinora) di sanzioni per le amministrazioni inadempienti sulla certificazione ha fatto si che si fermasse a soli 300 milioni di euro il totale delle certificazioni "cartacee" rilasciate fino a ottobre 2012 e a soli 31 milioni di euro quelle elettroniche. Un dato, questo, che non meraviglia, se si considera che le pubbliche amministrazioni che si sono accreditate sulla piattaforma elettronica sono solo 1.700, su un totale di oltre 20.000.
Questa situazione non fa bene al "sistema" di leggi sinora creato per lo sblocco dei debiti della Pa che non può -visti i numeri- reggersi solo sulle immissioni di liquidità garantite dal Dl 35. In altri termini, tutti gli strumenti disponibili per utilizzare i crediti verso la Pa devono essere resi efficacemente disponibili, soprattutto perché le imprese che non saranno "soddisfatte" (o non lo saranno per intero) in questa tornata di pagamenti potranno continuare a fare affidamento solo sugli strumenti alternativi sinora esistenti.
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Le responsabilità. Gli strumenti per evitare ulteriori ritardi. Sanzioni in agguato per i funzionari distratti.
PARADOSSI/ Appare però blanda la penalità prevista in caso di inadempienza sulla compilazione dell'elenco dei creditori.

Sembra chiaro che, col varo del Dl 35, il governo abbia ben presente i motivi per i quali il sistema delle norme, sinora messo in campo per "smobilizzare" i crediti vantati dalle imprese verso le Pa, non ha funzionato in maniera soddisfacente.
La scarsa responsabilizzazione delle amministrazioni (rectius, dei funzionari) chiamati a gestirlo -legata alla mancanza di sanzioni per gli inadempimenti e/o i ritardi- sembra essere una chiave di lettura ancora più efficace della scarsa liquidità dello Stato.
È per questo motivo che, molto probabilmente, più dei miliardi di anticipazioni messi in campo per immettere liquidità nel sistema si ha motivo di ritenere che lo "sblocco integrale dei crediti" verso la Pa passerà anche attraverso i canali alternativi di utilizzo dei medesimi già da tempo vigenti nel nostro ordinamento (si vedano l'articolo e la tabella in questa stessa pagina). Per inciso, oltre ad allentare temporaneamente i vincoli del patto di stabilità degli enti locali, il Decreto 35 istituisce un "Fondo per assicurare la liquidità per pagamenti dei debiti certi, liquidi ed esigibili", con una dotazione di 10 miliardi di euro per il 2013 e di 16 per il 2014, distinto in tre sezioni, rispettivamente "per assicurare la liquidità agli enti locali", "alle regioni e alle province autonome" e "al Servizio Sanitario Nazionale".
In ogni caso, la corresponsione in denaro di quanto dovuto -se e quando ci sarà- è utile alle sole (o prevalentemente alle) imprese creditrici dello Stato che non hanno, nel contempo, debiti erariali o che non sono efficientemente (ovvero, a tassi ragionevoli) in grado di cedere agli istituti di credito il proprio diritto. È, infatti, oltremodo increscioso - per uno Stato di diritto - che non si riesca a far funzionare un sistema di procedure per garantire uno dei diritti elementari dei sistemi giuridici di sempre: quello della possibilità di compensare debiti e crediti corrispondenti (in questo caso, tra le imprese e lo Stato, in tutte le sue forme). È altrettanto imbarazzante che non si riesca a far funzionare il sistema delle certificazioni dei crediti per far si che -chi ne abbia la possibilità- possa chiedere delle anticipazioni alle banche sui medesimi.
Per questo motivo, la sanzione pecuniaria introdotta per i funzionari che non richiedono gli spazi finanziari nei termini e secondo le modalità del decreto -così come quella stabilita per chi non procede, entro l'esercizio finanziario 2013, a effettuare pagamenti per almeno il 90% degli spazi concessi- è importante esattamente quanto quella stabilita per la mancata registrazione sulla piattaforma elettronica per la certificazione dei crediti entro 20 giorni dall'entrata in vigore del Dl 35.
È certamente utile e giusto che le amministrazioni debitrici comunichino -a partire dal 01.06.2013 e fino al 15.09.2013, utilizzando la piattaforma elettronica per le certificazioni dei crediti- l'elenco completo dei debiti certi, liquidi ed esigibili, maturati alla data del 31.12.2012, con l'indicazione dei dati identificativi del creditore. C'è, però, da considerare che -anche in ragione del fatto che questa comunicazione (correttamente e opportunamente) equivale a certificazione del credito (ai sensi dell'articolo 9, commi 3-bis e 3-ter, del Dl n. 185/2008)- troppo blanda appare la sanzione in questo caso prevista per l'inadempimento. Che si sappia, sono molto rari i casi di contestazioni di responsabilità dirigenziali e disciplinari per gli inadempimenti nelle nostre Pa.
La possibilità, poi, prevista anche in questo caso di chiedere la nomina di un commissario ad acta appare, ancora una volta, particolarmente irritante per chi si aspetterebbe di essere tutelato nei propri diritti esattamente con lo stesso zelo col quale, in alcuni casi, lo Stato esige quanto gli è dovuto per il contributo al suo funzionamento (articolo Il Sole 24 Ore del 15.04.2013).

APPALTI: Imposte indirette. Il perimetro del vincolo in caso di omessi versamenti
La solidarietà sull'Iva non si ferma agli appalti. Responsabilità anche per i beni soggetti a frode e gli immobili.

Non solo appalti. L'attenzione rivolta alla nuova responsabilità solidale per l'Iva (e le ritenute) nei contratti di subappalto, introdotta dall'articolo 13-ter del Dl 83/2012, non deve far dimenticare che esistono anche altre situazioni che stabiliscono un vincolo per il versamento dell'imposta e/o delle sanzioni in capo a soggetti diversi dal debitore naturale.
La responsabilità solidale sorge quando più soggetti sono tenuti in solido ad adempiere l'obbligazione (anche) tributaria. Secondo il Codice civile (articolo 1292), infatti, in presenza del vincolo di solidarietà ognuno dei coobbligati può essere tenuto all'adempimento integrale con conseguente liberazione degli altri. In via di principio, al coobbligato solidale che paga spetta il diritto di regresso per l'importo versato nei confronti degli altri obbligati.
Esaminiamo i casi principali (per un elenco più dettagliato si rinvia alla grafica a lato).
Le merci «sensibili»
La norma di riferimento in materia di responsabilità Iva è rappresentata dall'articolo 60-bis, comma 2, del Dpr 633/1972. La disposizione prevede il coinvolgimento del cessionario di beni considerati «sensibili» al rischio di frode. Si tratta dei prodotti individuati dal decreto 22.12.2005 (autoveicoli, telefoni, computer, animali vivi e carni), cui si affiancano, dal 4 dicembre dello scorso anno, quelli previsti dal Dm 31.10.2012 (pneumatici e gomme).
Affinché operi la solidarietà dell'acquirente soggetto passivo (la disposizione non opera per gli acquisti dei privati) è comunque necessario che la cessione dei beni in questione sia effettuata a un prezzo inferiore al valore normale e che il cedente non abbia versato la relativa imposta (verifica tutt'altro che semplice, visto che l'Iva si liquida per masse e non operazione per operazione). Il cessionario, in questi casi, può evitare di essere chiamato in causa per il pagamento del tributo (la solidarietà non si estende alla sanzione) solo se fornisce la prova documentale che il minor prezzo dei beni rispetto a quello corrente è stato determinato in ragione di eventi o situazioni di fatto oggettivamente rilevabili o, ancora, sulla base di specifiche disposizioni di legge: questo potrebbe rappresentare un ulteriore profilo di possibile incompatibilità comunitaria, se si considera che la prova contraria della presunzione legale in esame non deve essere eccessivamente difficile da fornire (causa C-384/04).
In pratica, secondo l'amministrazione finanziaria (circolare 41/E/2005) aver corrisposto un prezzo inferiore al valore normale dovrebbe trovare riscontro oggettivo in ragioni diverse dal mancato pagamento dell'imposta da parte del cedente.
I fabbricati
Senz'altro più ampia è la portata del comma 3-bis dell'articolo 60-bis. La norma, infatti, prevede che, se nell'atto di cessione di un immobile e nella relativa fattura, è dichiarato un corrispettivo diverso (inferiore) rispetto a quello reale (la responsabilità non scatta se l'accertamento si fonda su una divergenza fra corrispettivo e «valore normale» dell'immobile, si veda la circolare 8/E/2009), l'acquirente –anche se privato– è solidalmente responsabile con il cedente per il mancato versamento dell'imposta sulla differenza fra corrispettivo effettivo e prezzo dichiarato, oltre che della relativa sanzione (dal 100 al 200% di tale differenza).
Dal 26.06.2012, per effetto delle modifiche apportate dall'articolo 9 del Dl 83/2012, anche le imprese costruttrici che vendono fabbricati abitativi dopo cinque anni dall'ultimazione possono optare per l'applicazione dell'imposta. Una novità che, di fatto, aumenta le ipotesi di cessione di fabbricati imponibili Iva e amplia la platea dei soggetti che, acquistando un immobile, dovranno fare i conti con tale disposizione. Se poi si considera che, quando l'atto è imponibile Iva, l'acquirente privato non può neppure chiedere l'applicazione del meccanismo di tassazione su base catastale (il «prezzo valore»), valevole solo per le cessioni esenti Iva e soggette a registro, è ipotizzabile che anche la solidarietà giochi un ruolo nella trattativa fra le parti.
I depositi
Un altro vincolo di solidarietà è quello che impone al gestore del deposito Iva di rispondere in solido con i soggetti passivi, nel caso in cui si verifichi una mancata o irregolare applicazione del prelievo conseguente all'estrazione dei beni dal deposito (articolo 50-bis, comma 8, del Dl 331/1993). Anche per tale fattispecie, tuttavia, il consolidato orientamento della giurisprudenza comunitaria (sentenza nella causa C-499/10) impone di escludere la possibilità che gli Stati membri introducano forme di automatismo e, quindi, responsabilità di tipo oggettivo. Così l'obbligo non scatta quando il depositario è in buona fede o non sussistono colpe o negligenze da parte sua (articolo Il Sole 24 Ore del 15.04.2013).

GIURISPRUDENZA

CONDOMINIOÈ reato gettare oggetti dal balcone. Confermata la condanna di una vicina che rovesciava immondizia al piano di sotto.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con sentenza 11.04.2013 n. 16459 (Presidente Squassoni, Relatore Gazzara), ha confermato la condanna penale di una condomina che sistematicamente utilizzava il balcone sottostante al proprio appartamento come pattumiera gettando sigarette, cenere e detersivi corrosivi come la candeggina.
Lo segnala l'agenzia Agire, specializzata nel Real Estate.
La condomina maleducata aveva fatto ricorso contro la sentenza del Tribunale di Palermo del 02.12.2011, che l'aveva dichiarata colpevole del reato previsto dagli articoli 81 e 674 del Codice penale per avere arrecato molestie a una vicina gettando «
nel piano sottostante ove si trovava l'appartamento di quest'ultima, rifiuti, quali cenere e cicche di sigarette, nonché detersivi corrosivi, quale candeggina» e l'aveva condannata alla pena di 120 euro di ammenda.
L'importanza della sentenza è proprio l'aver considerato l'azione della condomina un reato: per la precisione, quello di «getto pericoloso di cose», sanzionato dall'articolo 674 del Codice penale. Nella sentenza il Tribunale ha anche aumentato la pena a causa delle reiterazione del reato, per cui è stato applicato il capoverso dell'articolo 81 del Codice penale (si vedano i testi di legge qui accanto).
La condomina molesta aveva presentato ricorso per Cassazione. Il ricorso, però, è stato dichiarato inammissibile perché «la argomentazione motivazionale, adottata dal decidente in relazione alla concretizzazione del reato in contestazione e alla ascrivibilità di esso in capo alla prevenuta, si palesa logica e corretta». La Cassazione ha quindi ritenuto corretto l'inquadramento del comportamento della condomina nell'ambito del reato di «getto pericoloso di cose», che in alternativa all'ammenda prevede l'arresto sino a un mese.
Senza contare che a nessuno fa piacere venire giudicato penalmente. Va quindi considerata l'importanza, ai fini della deterrenza, di una sentenza che, confermata dalla Cassazione, ha punito con severità un comportamento che normalmente viene fatto passare come illecito civile, dando vita, al massimo, a un risarcimento, con i tempi eterni del rito civile e l'esborso di pochi euro.
Ben diverso è pagare magari lo stesso importo ma con la segnalazione sul certificato del casellario giudiziario. Da ultimo, la Cassazione ha anche condannato la ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di 1.000 euro.
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LE NORME
Articolo 81. È punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata fino al triplo (..). Alla stessa pena soggiace chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge. (...)
Articolo 674. Chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l'arresto fino a un mese o con l'ammenda fino a duecentosei euro (articolo Il Sole 24 Ore del 17.04.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Le opere di recinzione di un edificio rientrano nel concetto di pertinenza, attesa la destinazione a scopo di protezione e delimitazione della cosa principale, senza che alle stesse possa essere riconosciuta alcuna sostanziale autonomia funzionale.
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Non possono svolgersi opere di ristrutturazione o di manutenzione straordinaria su un manufatto abusivo, mai oggetto di sanatoria edilizia; né tale ulteriore attività costruttiva può spiegare effetto preclusivo sulla potestà di reprimere l'opera abusiva nella sua interezza.
Infatti, «in presenza di manufatti abusivi non sanati, né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche), ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione».

Invero, le opere di recinzione di un edificio rientrano nel concetto di pertinenza, attesa la destinazione a scopo di protezione e delimitazione della cosa principale, senza che alle stesse possa essere riconosciuta alcuna sostanziale autonomia funzionale (TAR Napoli Campania sez. II 11.09.2009 n. 4935).
Di conseguenza, ferma restando la natura abusiva del fabbricato, colpito da più ordinanze di demolizione citate nell’atto impugnato, nella fattispecie deve applicarsi il principio secondo cui «non possono svolgersi opere di ristrutturazione o di manutenzione straordinaria su un manufatto abusivo, mai oggetto di sanatoria edilizia; né tale ulteriore attività costruttiva può spiegare effetto preclusivo sulla potestà di reprimere l'opera abusiva nella sua interezza» (TAR Campania Napoli, sez. VI, 12.11.2010 n. 24017); infatti, «in presenza di manufatti abusivi non sanati, né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche), ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione» (TAR Napoli Campania sez. VI 06.02.2013 n. 760 TAR Napoli Campania sez. VI 02.01.2013 n. 10; TAR Napoli Campania sez. VI 02.05.2012 n. 2000; TAR Napoli Campania sez. VI 02.05.2012 n. 2006).
Nel caso in esame, non risultando istanze o provvedimenti di condono, si rivela legittimo il diniego opposto dal Comune di Marcianise oggetto della presente impugnazione (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 11.04.2013 n. 1955 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Le preminenti esigenze di certezza connesse allo svolgimento delle procedure concorsuali di selezione dei partecipanti impongono di ritenere di stretta interpretazione le clausole del bando di gara, delle quali va preclusa qualsiasi esegesi non giustificata da un’obiettiva incertezza del loro significato, e che, parimenti, si devono reputare comunque preferibili, a tutela dell’affidamento dei destinatari e dei canoni di trasparenza e di par condicio, le espressioni letterali delle previsioni da chiarire, evitando che il procedimento ermeneutico conduca all’integrazione delle regole di gara palesando significati del bando non chiaramente desumibili dalla sua lettura testuale.
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La disciplina di gara ben può richiedere ai concorrenti requisiti di partecipazione e di qualificazione più rigorosi e restrittivi di quelli minimi stabiliti dalla legge, purché tali ulteriori prescrizioni si rivelino rispettose dei principi di proporzionalità e di ragionevolezza con riguardo alle specifiche esigenze imposte dall’oggetto dell’appalto, e comunque non introducano indebite discriminazioni nell’accesso alla procedura.

E' principio giurisprudenziale consolidato che le preminenti esigenze di certezza connesse allo svolgimento delle procedure concorsuali di selezione dei partecipanti impongono di ritenere di stretta interpretazione le clausole del bando di gara, delle quali va preclusa qualsiasi esegesi non giustificata da un’obiettiva incertezza del loro significato, e che, parimenti, si devono reputare comunque preferibili, a tutela dell’affidamento dei destinatari e dei canoni di trasparenza e di par condicio, le espressioni letterali delle previsioni da chiarire, evitando che il procedimento ermeneutico conduca all’integrazione delle regole di gara palesando significati del bando non chiaramente desumibili dalla sua lettura testuale (cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 11.02.2013 n. 768; Consiglio di Stato, Sez. V, 26.06.2012 n. 3752 e 19.09.2011 n. 5282; TAR Campania Napoli, Sez. I, 18.03.2011 n. 1498).
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Soccorre al riguardo il diffuso orientamento giurisprudenziale, seguito anche da questo Tribunale, che rimarca che la disciplina di gara ben può richiedere ai concorrenti requisiti di partecipazione e di qualificazione più rigorosi e restrittivi di quelli minimi stabiliti dalla legge, purché tali ulteriori prescrizioni si rivelino rispettose dei principi di proporzionalità e di ragionevolezza con riguardo alle specifiche esigenze imposte dall’oggetto dell’appalto, e comunque non introducano indebite discriminazioni nell’accesso alla procedura (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. V, 02.02.2010 n. 426; Consiglio di Stato, Sez. VI, 11.05.2007 n. 2304; TAR Lazio Roma, Sez. II, 09.12.2008 n. 11147) (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 11.04.2013 n. 1924 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI: I provvedimenti limitativi della circolazione stradale nei centri abitati e istitutivi di zone a traffico limitato sono espressione di scelte latamente discrezionali, devolute alla esclusiva competenza decisionale dell’autorità amministrativa e non suscettibili di sindacato di merito in sede giurisdizionale in ordine alla congruità delle scelte operate nella composizione e nel bilanciamento dei diversi interessi coinvolti, a meno che non si palesino vizi di forma o di procedura, ovvero che non emerga una manifesta irragionevolezza.
Inoltre, va rimarcato che la parziale compressione della libertà di locomozione e di iniziativa economica è sempre giustificata quando scaturisce dall’esigenza di tutela rafforzata di patrimoni culturali ed ambientali di assoluto rilievo mondiale o nazionale, tenendo presente che la gravosità delle limitazioni trova comunque giustificazione nel valore primario ed assoluto riconosciuto dalla Costituzione all’ambiente, al paesaggio ed alla salute.

I provvedimenti limitativi della circolazione stradale nei centri abitati e istitutivi di zone a traffico limitato sono espressione di scelte latamente discrezionali, devolute alla esclusiva competenza decisionale dell’autorità amministrativa e non suscettibili di sindacato di merito in sede giurisdizionale in ordine alla congruità delle scelte operate nella composizione e nel bilanciamento dei diversi interessi coinvolti, a meno che non si palesino vizi di forma o di procedura, ovvero che non emerga una manifesta irragionevolezza; inoltre, va rimarcato che la parziale compressione della libertà di locomozione e di iniziativa economica è sempre giustificata quando scaturisce dall’esigenza di tutela rafforzata di patrimoni culturali ed ambientali di assoluto rilievo mondiale o nazionale, tenendo presente che la gravosità delle limitazioni trova comunque giustificazione nel valore primario ed assoluto riconosciuto dalla Costituzione all’ambiente, al paesaggio ed alla salute (orientamento consolidato: cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. V, 13.02.2009 n. 825; TAR Campania Napoli, Sez. I, 18.03.2013 n. 1509) (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 11.04.2013 n. 1921 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Nel sistema urbanistico, ai sensi dell’art. 28 della legge 17.08.1942 n. 1150 come mod. dall'articolo 8 della legge 06.08.1967 n. 765, il piano di lottizzazione assume la valenza di piano urbanistico di attuazione, ossia di pianificazione al dettaglio, di piano esecutivo di urbanizzazione e di preconcessione edilizia.
Nei casi di lottizzazione su istanza del privato lottizzante trova quindi applicazione la disciplina di cui agli artt. 28, commi 2 e 5, della l. n. 1150/1942.
Il Comune, nel richiamare la disciplina di cui all’art. 21 del d.p.r. n. 380/2001 per la conclusione del procedimento di rilascio del permesso di costruire, ha sostenuto che nel caso di inutile decorso del termine per provvedere, sulla domanda si sarebbe formato il silenzio-rifiuto impugnabile in sede giurisdizionale.
Il menzionato provvedimento, privo di un minimum di determinazione volitiva tale da integrare un momento decisionale rispetto all'istanza del privato, si pone quale generico atto soprassessorio di omessa definizione della funzione amministrativa, privo di istruttoria nonché di una compiuta e definitiva rappresentazione dello stato del procedimento, in chiaro inadempimento del dovere di concludere il procedimento con un provvedimento espresso.
Sicché grava a carico dell'Amministrazione Comunale l'obbligo di pronunciarsi in maniera espressa e motivata sull’istanza di approvazione di piano di lottizzazione, dato che l’art. 2 della legge n. 241/1990 impone all'Amministrazione di fornire un riscontro esplicito e motivato, riguardo a ogni istanza proposta dal cittadino.

Il ricorso è fondato e merita accoglimento entro i termini che di seguito si vanno ad esporre.
Nel giudizio risulta impugnato l’atto con cui il Comune di Marcianise, nel pronunciarsi sulla diffida con cui la società istante richiedeva l’esame della pratica edilizia di cui all’istanza del 12.03.2010 di approvazione di un piano di lottizzazione convenzionata, ha affermato che il decorso dei termini per l’adozione del rilascio del permesso di costruire avrebbe comportato la formazione del silenzio rifiuto come previsto dal comma 9 dell’art. 20 del d.p.r. n. 380/2001.
Risulta fondata la censura sollevata da parte ricorrente circa la assoluta inconferenza rispetto ad un’istanza di approvazione di un piano di lottizzazione della normativa richiamata nel provvedimento impugnato di cui all’art. 20, comma 9, del d.p.r. n. 380/2001 in tema di rilascio del permesso di costruire. Tale normativa, peraltro, alla data di adozione del provvedimento impugnato, risalente al 06.07.2011, proprio sul punto del “silenzio rifiuto” era stata modificata rispetto alla sua versione originaria per effetto del d.l. 13.05.2011 n. 70 conv. in l. 12.07.2011 n. 106 nonché con il d.l. 22.06.2012 n. 83 conv. in l. 07.08.2012 n. 134.
Correttamente parte ricorrente ha opposto l’inapplicabilità nella specie della normativa sul rilascio del permesso di costruire, dal momento che l’istanza di approvazione di un piano di lottizzazione resta, come noto, assoggettata al diverso procedimento previsto per l’approvazione dei piani attuativi secondo lo schema di cui all’art. 11 della legge n. 241/1990 che disciplina gli accordi sostitutivi di provvedimento.
Nel sistema urbanistico, ai sensi dell’art. 28 della legge 17.08.1942 n. 1150 come mod. dall'articolo 8 della legge 06.08.1967 n. 765, il piano di lottizzazione assume la valenza di piano urbanistico di attuazione, ossia di pianificazione al dettaglio, di piano esecutivo di urbanizzazione e di preconcessione edilizia (C.d.S. sez. IV, 16.03.1999 n. 286) .
Nei casi di lottizzazione su istanza del privato lottizzante trova quindi applicazione la disciplina di cui agli artt. 28, commi 2 e 5, della l. n. 1150/1942 e, a livello regionale, dell’art. 27, comma 1, lett. c, prima parte, della l.r. Campania n. 16/2004. Il procedimento di approvazione degli strumenti urbanistici anche attuativi è stato da ultimo modificato del regolamento di attuazione per il governo del territorio n. 5 del 04.08.2011, approvato ex art. 43-bis della l.r. Campania n. 16/2004, pubblicato in forma esecutiva sul B.U.R.C. n. 53 dell’08.08.2011. L’art. 10, comma 7, del citato regolamento stabilisce che per i piani urbanistici attuativi di iniziativa privata il Comune si esprime nei termini previsti dalla legge n. 241/1990.
Tanto premesso, non v'è dubbio che il provvedimento impugnato costituisce evidente elusione dell’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso, dal momento che il Comune, nel richiamare la disciplina di cui all’art. 21 del d.p.r. n. 380/2001 per la conclusione del procedimento di rilascio del permesso di costruire, ha sostenuto che nel caso di inutile decorso del termine per provvedere, sulla domanda si sarebbe formato il silenzio-rifiuto impugnabile in sede giurisdizionale.
Il menzionato provvedimento, privo di un minimum di determinazione volitiva tale da integrare un momento decisionale rispetto all'istanza del privato, si pone quale generico atto soprassessorio di omessa definizione della funzione amministrativa, privo di istruttoria nonché di una compiuta e definitiva rappresentazione dello stato del procedimento, in chiaro inadempimento del dovere di concludere il procedimento con un provvedimento espresso.
Sicché grava a carico dell'Amministrazione Comunale l'obbligo di pronunciarsi in maniera espressa e motivata sull’istanza di approvazione di piano di lottizzazione, dato che l’art. 2 della legge n. 241/1990 impone all'Amministrazione di fornire un riscontro esplicito e motivato, riguardo a ogni istanza proposta dal cittadino (TAR Lazio-Latina - Sez. I - 13.01.2011 - n. 7) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 11.04.2013 n. 1915 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il silenzio serbato sull'istanza ex articolo 36 D.P.R. n. 380/2001 non ha natura di silenzio-inadempimento (cui conseguirebbe l'obbligo dell'Amministrazione di provvedere), ma di silenzio provvedimentale (avente contenuto tipizzato, di atto tacito di reiezione dell'istanza), con la conseguenza che, una volta decorso il termine di 60 giorni, si forma il silenzio-rigetto, che può essere impugnato dall'interessato in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua di un comune provvedimento, senza che però possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali i difetti di procedura o la mancanza di motivazione.
Secondo il pacifico orientamento della giurisprudenza formatasi sul punto, il silenzio serbato sull'istanza ex articolo 36 D.P.R. n. 380/2001 non ha natura di silenzio-inadempimento (cui conseguirebbe l'obbligo dell'Amministrazione di provvedere), ma di silenzio provvedimentale (avente contenuto tipizzato, di atto tacito di reiezione dell'istanza), con la conseguenza che, una volta decorso il termine di 60 giorni, si forma il silenzio-rigetto, che può essere impugnato dall'interessato in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua di un comune provvedimento, senza che però possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali i difetti di procedura o la mancanza di motivazione (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 13.01.2010, n. 100; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 08.06.2004, n. 9278; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 10.02.2010, n. 844) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 10.04.2013 n. 1903 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Le norme in materia di partecipazione al procedimento amministrativo di cui agli artt. 7 e segg. della legge 07.08.1990 n. 241 non vanno applicate meccanicamente e formalisticamente, nel senso che debba essere annullato ogni procedimento in cui sia mancata la fase formalmente partecipativa.
Esse vanno interpretate nel senso che la comunicazione è da ritenersi superflua -e riprendono, pertanto, espressione i principi di economicità e di speditezza dai quali è retta l’attività amministrativa-, quando l’interessato è venuto comunque a conoscenza di vicende che, per la loro natura conducono necessariamente all’adozione di provvedimenti obbligati, come nel caso di cui si controverte.
L’ipotesi tipica, nell’ambito della quale la omissione della comunicazione di avvio risulta non viziante o sanata ex post, è stata ben presto individuata dalla giurisprudenza con riferimento ai procedimenti per i quali è normativamente previsto un qualche atto attraverso il quale sia possibile realizzare una partecipazione dell’interessato, uguale a quella che gli consente la comunicazione di cui al citato art. 7.

La giurisprudenza, con un indirizzo condiviso dal Collegio, ritiene che le norme in materia di partecipazione al procedimento amministrativo di cui agli artt. 7 e segg. della legge 07.08.1990 n. 241 non vanno applicate meccanicamente e formalisticamente, nel senso che debba essere annullato ogni procedimento in cui sia mancata la fase formalmente partecipativa.
Esse vanno interpretate nel senso che la comunicazione è da ritenersi superflua -e riprendono, pertanto, espressione i principi di economicità e di speditezza dai quali è retta l’attività amministrativa-, quando l’interessato è venuto comunque a conoscenza di vicende che, per la loro natura conducono necessariamente all’adozione di provvedimenti obbligati, come nel caso di cui si controverte.
L’ipotesi tipica, nell’ambito della quale la omissione della comunicazione di avvio risulta non viziante o sanata ex post, è stata ben presto individuata dalla giurisprudenza con riferimento ai procedimenti per i quali è normativamente previsto un qualche atto attraverso il quale sia possibile realizzare una partecipazione dell’interessato, uguale a quella che gli consente la comunicazione di cui al citato art. 7 (cfr. V Sez. 09.08.1996, n. 999) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.04.2013 n. 1950 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’imponenza della recinzione che si estende per una lunghezza di circa 346 metri di lunghezza con altezza di metri 2,50 non lascia dubbi al fatto che si sia in presenza di un manufatto che necessita di apposita provvedimento edilizio abilitativo.
La realizzazione di una recinzione che presenti un elevato impatto urbanistico deve essere preceduta ex l. 10/1977 da provvedimento concessorio da parte dell’amministrazione comunale. Atto che non risulta necessario solo in presenza di una trasformazione che per l’utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le dimensioni dell’interevento non comportino un’apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale.
La distinzione tra esercizio dello jus aedificandi e dello jus excludendi alios va rintracciata quindi nella verifica concreta delle caratteristiche del manufatto. Sotto questo profilo appare utile rammentare la decisione secondo la quale: “La concessione edilizia non è necessaria per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti la recinzione rientra solo tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo "jus excludendi alios"; occorre, invece, la concessione, quando la recinzione è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica”.
Nello stesso senso la più recente secondo cui “Necessita di concessione edilizia la recinzione di un fondo rustico realizzata con installazioni permanenti, in quanto produce una significativa trasformazione urbanistica del territorio, a prescindere dalla realizzazione di volumetrie di qualunque natura” (cfr. in aggiunta, sez. VI, 23.05.2011, n. 3046; sez. IV, 30.06.2005, n. 3555 secondo cui <<la nozione di manutenzione ordinaria è di per sé incompatibile con la realizzazione di nuovi e consistenti manufatti, quand’anche vengano destinati ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti, fermo restando che si tratta comunque di attività edilizie in senso proprio, ossia di attività di trasformazione del territorio mediante un’attività antropica tesa alla formazione di un opus espressione di ius utendi (come nel caso di specie) più che di ius aedificandi; l’elemento ontologico qualificante dell’attività di manutenzione ordinaria fa sì che gli elementi da rinnovare, integrare e mantenere in efficienza possono anche risultare diversi da quelli oggetto di intervento, con il limite che il nuovo elemento non risulti né tipologicamente né funzionalmente diverso dal precedente, non potendosi dare origine ad un quid novi>>).
Uniforme appare anche la giurisprudenza della Suprema Corte secondo la quale: “La recinzione di un fondo rustico non necessita di concessione edilizia solo nel caso in cui la stessa venga attuata con opere non permanenti; il provvedimento autorizzativo è, invece, richiesto quando venga realizzata con materiale tipicamente edilizio tra cui rientra la zoccolatura in calcestruzzo”.

Ad ogni modo, risulta corretta la ricostruzione giuridica operata dal primo Giudice in ordine alla necessità che la recinzione de qua fosse preceduta da titolo edilizio, atteso che la giurisprudenza sia di questo Consiglio che della Suprema Corte di Cassazione ritiene che la realizzazione di una recinzione che presenti un elevato impatto urbanistico debba essere preceduta ex l. 10/1977 da provvedimento concessorio da parte dell’amministrazione comunale. Atto che non risulta necessario solo in presenza di una trasformazione che per l’utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le dimensioni dell’interevento non comportino un’apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale.
La distinzione tra esercizio dello jus aedificandi e dello jus excludendi alios va rintracciata quindi nella verifica concreta delle caratteristiche del manufatto. Sotto questo profilo appare utile rammentare la decisione di questa Sezione (Cons. Stato Sez. V, 26-10-1998, n. 1537), secondo la quale: “La concessione edilizia non è necessaria per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti la recinzione rientra solo tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo "jus excludendi alios"; occorre, invece, la concessione, quando la recinzione è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica”.
Nello stesso senso la più recente Cons. St., Sez. V, 23.02.2012, n. 976: “Necessita di concessione edilizia la recinzione di un fondo rustico realizzata con installazioni permanenti, in quanto produce una significativa trasformazione urbanistica del territorio, a prescindere dalla realizzazione di volumetrie di qualunque natura” (cfr. in aggiunta, sez. VI, 23.05.2011, n. 3046; sez. IV, 30.06.2005, n. 3555 secondo cui <<la nozione di manutenzione ordinaria è di per sé incompatibile con la realizzazione di nuovi e consistenti manufatti, quand’anche vengano destinati ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti, fermo restando che si tratta comunque di attività edilizie in senso proprio, ossia di attività di trasformazione del territorio mediante un’attività antropica tesa alla formazione di un opus espressione di ius utendi (come nel caso di specie) più che di ius aedificandi; l’elemento ontologico qualificante dell’attività di manutenzione ordinaria fa sì che gli elementi da rinnovare, integrare e mantenere in efficienza possono anche risultare diversi da quelli oggetto di intervento, con il limite che il nuovo elemento non risulti né tipologicamente né funzionalmente diverso dal precedente, non potendosi dare origine ad un quid novi>>).
Uniforme appare anche la giurisprudenza della Suprema Corte (a far data da Cass. pen., 30.09.1988), secondo la quale: “La recinzione di un fondo rustico non necessita di concessione edilizia solo nel caso in cui la stessa venga attuata con opere non permanenti; il provvedimento autorizzativo è, invece, richiesto quando venga realizzata con materiale tipicamente edilizio tra cui rientra la zoccolatura in calcestruzzo” (cfr. in aggiunta Cass. pen., sez. III, 02.10.2010, n. 41518; sez. III, 13.12.2007).
Nella fattispecie l’imponenza della costruzione che si estende per una lunghezza di circa 346 metri di lunghezza con altezza di metri 2,50 non lascia dubbi al fatto che si sia in presenza di un manufatto che necessita di apposita provvedimento edilizio abilitativo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.04.2013 n. 1922 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’importo degli oneri di urbanizzazione per interventi su edifici preesistenti non deve essere necessariamente inferiore a quello previsto per le nuove costruzioni, poiché gli oneri sono correlati alla carico urbanistico derivante dalla trasformazione che interviene sulle preesistenze; tali conseguenze possono comportare anche variazione degli standard ed in determinati casi causano addirittura impatti superiori a quelli derivanti da nuove costruzioni, ciò soprattutto ove la nuova destinazione abbia un rilievo quantitativamente e qualitativamente del tutto differente.
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La gratuità della concessione, ora contenuta negli artt. 6 e 17 d.P.R. n. 380/2001, è connessa all’interesse generale perseguito ed è evidente che una scuola per disabili inserita in zona destinata ad attrezzature pubbliche e sociali doveva beneficiare di quella esenzione dal contributo costo di costruzione e dagli oneri di urbanizzazione, ove poi fosse la stessa mano pubblica chiamata a realizzare l’opera, ponendo così a carico della fiscalità generale le spese per l’effettuazione di quelle opere di urbanizzazione accessorie alla nuova costruzione.

Come rilevato dallo stesso appellante, l’importo degli oneri di urbanizzazione per interventi su edifici preesistenti non deve essere necessariamente inferiore a quello previsto per le nuove costruzioni, poiché gli oneri sono correlati alla carico urbanistico derivante dalla trasformazione che interviene sulle preesistenze; tali conseguenze possono comportare anche variazione degli standard ed in determinati casi causano addirittura impatti superiori a quelli derivanti da nuove costruzioni, ciò soprattutto ove la nuova destinazione abbia un rilievo quantitativamente e qualitativamente del tutto differente, come nel caso di specie.
Infatti si è passati da un edificio destinato a scopi di istruzione per persone diversamente abili con una frequenza pari a poche decine di alunni, ad un immobile sede di uno dei tour operators tra i maggiori in Italia, con un numero di addetti che non può essere paragonato al numero di insegnanti e di scolari del passato -senza smentite si è insinuato un dato di alcune centinaia di unità- con la conseguente necessità della creazione di un parcheggio, elemento questo sufficientemente descrittivo delle modificazioni di carico urbanistico della zona adiacente.
Ma deve essere ancora aggiunto che per la scuola si era fatta applicazione del disposto di cui all’art. 9, lett. f), L. 10/1977, ossia dell’esenzione dai contributi concessori previsti per impianti, attrezzature ed opere pubbliche e di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti; la gratuità della concessione, ora contenuta negli artt. 6 e 17 d.P.R. n. 380/2001, è connessa all’interesse generale perseguito ed è evidente che una scuola per disabili inserita in zona destinata ad attrezzature pubbliche e sociali doveva beneficiare di quella esenzione dal contributo costo di costruzione e dagli oneri di urbanizzazione, ove poi fosse la stessa mano pubblica chiamata a realizzare l’opera, ponendo così a carico della fiscalità generale le spese per l’effettuazione di quelle opere di urbanizzazione accessorie alla nuova costruzione (Cons. Stato, V, 29.09.1997 n. 1067; id., 20.11.1989 n. 752).
L’attuale destinazione dell’edificio è invece volta a fini tipicamente imprenditoriali ed appare allora del tutto corretto che Alpitour Italia non possa ora giovarsi della gratuità di una concessione edilizia al tempo rilasciata per fini essenzialmente pubblici; è evidente che un abbattimento, sia pure parziale, degli oneri di urbanizzazione verrebbe a costituire una sorta di socializzazione indiretta dei costi derivanti da investimenti privati, la quale non trova copertura alcuna nella normativa urbanistica, sia vigente, sia abrogata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.04.2013 n. 1918 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nelle procedure per l'aggiudicazione di appalti pubblici l'allegazione della copia fotostatica del documento del sottoscrittore della dichiarazione sostitutiva, prescritta dall'art. 38, comma 3, t.u. 28.12.2000, n. 445, è un adempimento inderogabile atto a conferire, in considerazione della sua introduzione come forma di semplificazione, legale autenticità alla sottoscrizione apposta in calce alla dichiarazione, e giuridica esistenza ed efficacia all'autocertificazione.
Si tratta quindi di un elemento integrante della fattispecie normativa, teso a stabilire, data l'unità costituita dalla fotocopia del documento di identità e dalla dichiarazione sostitutiva, un collegamento tra la dichiarazione ed il documento, e a comprovare, oltre alle generalità del dichiarante, l'imputabilità soggettiva della dichiarazione al soggetto che la presta.
D’altra parte, è noto quanto consolidato sia l’insegnamento giurisprudenziale relativo all’istituto del c.d. dovere di soccorso codificato dall’art. 46 d.lgs. n. 163/2006, per cui l'omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti a pena di esclusione non può essere considerata alla stregua di un'irregolarità sanabile, e, quindi, non ne è permessa l'integrazione o la regolarizzazione postuma, non trattandosi di rimediare a vizi puramente formali. E ciò tanto più quando non sussistano equivoci o incertezze generati dall'ambiguità di clausole della legge di gara.

Questa Sezione ha avuto modo di ribadire anche recentemente, infatti, che nelle procedure per l'aggiudicazione di appalti pubblici l'allegazione della copia fotostatica del documento del sottoscrittore della dichiarazione sostitutiva, prescritta dall'art. 38, comma 3, t.u. 28.12.2000, n. 445, è un adempimento inderogabile atto a conferire, in considerazione della sua introduzione come forma di semplificazione, legale autenticità alla sottoscrizione apposta in calce alla dichiarazione, e giuridica esistenza ed efficacia all'autocertificazione. Si tratta quindi di un elemento integrante della fattispecie normativa, teso a stabilire, data l'unità costituita dalla fotocopia del documento di identità e dalla dichiarazione sostitutiva, un collegamento tra la dichiarazione ed il documento, e a comprovare, oltre alle generalità del dichiarante, l'imputabilità soggettiva della dichiarazione al soggetto che la presta (C.d.S., V, 26.03.2012, n. 1739; nello stesso senso cfr., ad es., IV, 02.09.2011, n. 4967).
D’altra parte, è noto quanto consolidato sia l’insegnamento giurisprudenziale relativo all’istituto del c.d. dovere di soccorso codificato dall’art. 46 d.lgs. n. 163/2006, per cui l'omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti a pena di esclusione non può essere considerata alla stregua di un'irregolarità sanabile, e, quindi, non ne è permessa l'integrazione o la regolarizzazione postuma, non trattandosi di rimediare a vizi puramente formali. E ciò tanto più quando non sussistano equivoci o incertezze generati dall'ambiguità di clausole della legge di gara (cfr., tra le più recenti: C.d.S., V, 02.08.2010, n. 5084; 02.02.2010, n. 428; 15.01.2008, n. 36) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.04.2013 n. 1915 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non è illegittima una motivazione anche succinta di un diniego di sanatoria di opere in quanto nel sistema non è ravvisabile a carico della p.a. l’obbligo di indicare, in una logica comparativa degli interessi in gioco, prescrizioni tese a rendere l’intervento compatibile con la bellezza di insieme tutelata, la cui protezione risponde ad un interesse pubblico normalmente prevalente su quello privato, anche per la rilevanza costituzionale che il primo presenta ex art. 9 Cost..
... come è stato rilevato in giurisprudenza, non è illegittima una motivazione anche succinta di un diniego di sanatoria di opere in quanto nel sistema non è ravvisabile a carico della p.a. l’obbligo di indicare, in una logica comparativa degli interessi in gioco, prescrizioni tese a rendere l’intervento compatibile con la bellezza di insieme tutelata, la cui protezione risponde ad un interesse pubblico normalmente prevalente su quello privato, anche per la rilevanza costituzionale che il primo presenta ex art. 9 Cost. (Cons. Stato, sez. V, 19.10.1999, n. 1587; Cons. Stato, sez. V, 07.09.2009, n. 5232).
Di qui la congruità della motivazione del provvedimento di cui si discute nella parte in cui si individua sia la demolizione delle volte sia l’aggetto al tetto della copertura quali fattori di intervento edilizio idonei ad impattare negativamente sull’amenità dei luoghi (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 09.04.2013 n. 1884 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTICosto dell'appalto detratto solo con contratto scritto.
Il costo dell'appalto non può essere detratto sulla base delle sole fatture ma è necessario un contratto scritto fra committente e appaltatore.

Lo ha sancito la Corte di Cassazione che, con l'ordinanza 28.03.2013 n. 7897, ha accolto il ricorso dell'amministrazione finanziaria.
Insomma a fronte di grossi lavori le fatture sono del tutto insufficienti, dice la Suprema corte, ai fini del beneficio fiscale. Infatti, dicono gli stessi Ermellini, un appalto di importo molto considerevole, come in questo caso, va stipulato con atto scritto, o comunque in maniera da lasciare una traccia documentale. Questo, rileva ancora la Corte, non risulta che sia avvenuto nel caso in esame, quindi appare legittima la conclusione che quel contratto non fosse stato mai stipulato. Tanto più che la parte privata non ha offerto alla valutazione del giudice argomenti per ritenere che nella specie la stipula di un contratto scritto non fosse necessaria per particolari ragioni, idonee a superare l'«id quod plerumque accidit».
Il fatto certo è che mancava la prova della redazione del contratto di appalto, quindi la contribuente non aveva diritto alla detrazione di imposta. In più la Cassazione ribadisce il principio generale per cui è il contribuente a dover fornire la prova dell'autenticità delle fatture.
Sul punto l'ordinanza precisa che qualora l'amministrazione contesti al contribuente l'indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, e fornisca attendibili riscontri indiziari sulla inesistenza di quelle fatturate, come nella specie, è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibili, non essendo sufficiente, a tal fine, la dimostrazione della regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili.
Dunque ora la causa dovrà tornare presso un'altra sezione della commissione tributaria regionale dell'Emilia Romagna che dovrà riconsiderare la vicenda e, nel caso il contribuente non provi l'esistenza di un contratto scritto, dovrà negare la detrazione al committente (articolo ItaliaOggi del 17.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

LAVORI PUBBLICI: La conduttura realizzata dal Comune di Firenze, costituente un tratto di fognatura destinato alla raccolta di acque meteoriche, non è annoverabile tra le opere idrauliche, in relazione alle quali sussiste la giurisdizione del Tribunale delle acque pubbliche, poiché le acque piovane convogliate in condutture sotterranee o in reti fognarie non sono suscettibili di alcuna utilizzazione idonea a soddisfare un pubblico interesse generale, ma sono destinate al mero smaltimento.
Invero, nel caso di specie non rilevano opere afferenti le acque pubbliche, non potendo essere qualificate come tali le acque piovane non convogliate in un corso d’acqua o non raccolte in invasi o cisterne preordinate al soddisfacimento di un pubblico interesse generale.
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Il Comune ha approvato il progetto esecutivo esclusivamente in linea tecnica, senza contestuale declaratoria di pubblica utilità, la quale è stata oggetto di approvazione successivamente, per effetto della delibera della giunta comunale n. 467 del 30.07.2008: il provvedimento dichiarativo della pubblica utilità, per scelta dell’amministrazione, nel caso in esame non è implicito nell’atto di approvazione del progetto.
Orbene, la lesione della posizione della deducente è configurabile solo relativamente alla dichiarazione di pubblica utilità, la quale soltanto comporta l’affievolimento ad interesse legittimo del diritto soggettivo del proprietario e la costituzione, in capo all’Ente, del potere espropriativo avente ad oggetto i terreni sui quali l’opera dovrà essere allocata, mentre l’approvazione del progetto in linea meramente tecnica costituisce atto endoprocedimentale, come tale di per sé non impugnabile.
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La tempestiva impugnazione della declaratoria di pubblica utilità dell’opera esime il ricorrente dal seguire il prosieguo dell’iter procedurale, avendo l’eventuale annullamento degli atti presupposti un effetto non già meramente viziante, ma caducante sul decreto espropriativo della proprietà o, come nel caso di specie, sul decreto espropriativo di un diritto reale minore.

E’ stato eccepito il difetto di giurisdizione, sull’assunto che la controversia in esame, riguardando l’occupazione di aree finalizzata all’esecuzione di opere idrauliche, sarebbe devoluta alla competenza del Tribunale delle acque pubbliche ex art. 140, comma 1, lett. d, del R.D. n. 1775/1933.
L’eccezione non può essere accolta.
La conduttura realizzata dal Comune di Firenze, costituente un tratto di fognatura destinato alla raccolta di acque meteoriche, non è annoverabile tra le opere idrauliche, in relazione alle quali sussiste la giurisdizione del Tribunale delle acque pubbliche, poiché le acque piovane convogliate in condutture sotterranee o in reti fognarie non sono suscettibili di alcuna utilizzazione idonea a soddisfare un pubblico interesse generale, ma sono destinate al mero smaltimento (ex multis: Cass. civ., I, 11.01.2001, n. 315).
Invero nel caso di specie non rilevano opere afferenti le acque pubbliche, non potendo essere qualificate come tali le acque piovane non convogliate in un corso d’acqua o non raccolte in invasi o cisterne preordinate al soddisfacimento di un pubblico interesse generale (TAR Puglia, Lecce, I, 25.01.2012, n. 120; idem, 08.04.2004, n. 2396; TAR Veneto, III, 04.12.2006, n. 3991).
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La società Il Poggio ha altresì eccepito l’irricevibilità del ricorso, osservando che la deliberazione di approvazione del progetto era conosciuta dalla ricorrente prima dei sessanta giorni precedenti la notifica dell’impugnativa.
L’obiezione non è condivisibile.
Il Comune, con deliberazione n. 15 del 15.01.2008, ha approvato il progetto esecutivo esclusivamente in linea tecnica, senza contestuale declaratoria di pubblica utilità, la quale è stata oggetto di approvazione successivamente, per effetto della delibera della giunta comunale n. 467 del 30.07.2008: il provvedimento dichiarativo della pubblica utilità, per scelta dell’amministrazione, nel caso in esame non è implicito nell’atto di approvazione del progetto.
Orbene, la lesione della posizione della deducente è configurabile solo relativamente alla dichiarazione di pubblica utilità, la quale soltanto comporta l’affievolimento ad interesse legittimo del diritto soggettivo del proprietario e la costituzione, in capo all’Ente, del potere espropriativo avente ad oggetto i terreni sui quali l’opera dovrà essere allocata, mentre l’approvazione del progetto in linea meramente tecnica costituisce atto endoprocedimentale, come tale di per sé non impugnabile (Cons. Stato, IV, 06.02.1995, n. 73; idem, 16.03.2010, n. 1540; TAR Friuli Venezia Giulia, 17.12.2009, n. 835).
Pertanto, il termine di ricorso non poteva che decorrere dalla conoscenza della seconda delibera, adottata nel luglio 2008, la quale costituisce il primo atto con cui il Comune ha dato avvio alla procedura costitutiva della servitù.
Il Collegio osserva ulteriormente che non può rilevare, quale motivo di inammissibilità del gravame, la mancata impugnazione del provvedimento dirigenziale n. 6871 del 18.06.2009, con cui il Comune ha costituito la servitù permanente di fognatura e di passo e transito (documento n. 21 depositato in giudizio dall’Ente).
Invero, l’impugnazione dell’atto preparatorio fa sì che non sia necessaria l’impugnazione del provvedimento finale allorquando tra i due atti vi sia un rapporto di presupposizione–consequenzialità immediata e diretta, nel senso che la determinazione successiva si pone come inevitabile conseguenza di quella precedente, perché non vi sono nuove e ulteriori valutazioni di interessi.
Su tale premessa la giurisprudenza amministrativa ha costantemente statuito che la tempestiva impugnazione della declaratoria di pubblica utilità dell’opera esime il ricorrente dal seguire il prosieguo dell’iter procedurale, avendo l’eventuale annullamento degli atti presupposti un effetto non già meramente viziante, ma caducante sul decreto espropriativo della proprietà o, come nel caso di specie, sul decreto espropriativo di un diritto reale minore (ex multis: Cons. Stato, IV, 12.07.2007, n. 3984; TAR Campania, Napoli, V, 13.11.2007, n. 12105; TAR Sicilia, Palermo, III, 04.11.2009, n. 1726)
(TAR Toscana, Sez. I, sentenza 21.03.2013 n. 433 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Il procedimento ablatorio disciplinato dal d.p.r. n. 327/2001 può colpire non solo il diritto di proprietà ma anche, in modo autonomo, un diritto reale minore, come avviene nell’ipotesi dell’imposizione di servitù. Invero l’art. 1 del d.p.r. n. 327/2001, analogamente al previgente art. 1 della legge n. 2359/1865, assume ad oggetto dell’espropriazione sia la piena proprietà, sia singoli diritti relativi ad immobili.
Pertanto, le fasi del procedimento espropriativo, indicate nell’art. 8 del d.p.r. n. 327/2001 e articolate nell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio, nella dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e nella determinazione dell’indennità, riguardano i provvedimenti impugnati, preordinati alla imposizione di una servitù permanente e quindi all’espropriazione di un diritto reale minore, il cui procedimento è inderogabilmente sottoposto alla disciplina contenuta nelle norme evocate dalla ricorrente.

Il procedimento ablatorio disciplinato dal d.p.r. n. 327/2001 può colpire non solo il diritto di proprietà ma anche, in modo autonomo, un diritto reale minore, come avviene nell’ipotesi dell’imposizione di servitù. Invero l’art. 1 del d.p.r. n. 327/2001, analogamente al previgente art. 1 della legge n. 2359/1865, assume ad oggetto dell’espropriazione sia la piena proprietà, sia singoli diritti relativi ad immobili (Cons. Stato, A.P., 18.07.1983, n. 21; Cons. Stato, A.G., 29.03.2001, n. 4; TAR Campania, Napoli, II, 23.11.1998, n. 3562).
Pertanto, le fasi del procedimento espropriativo, indicate nell’art. 8 del d.p.r. n. 327/2001 e articolate nell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio, nella dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e nella determinazione dell’indennità, riguardano i provvedimenti impugnati, preordinati alla imposizione di una servitù permanente e quindi all’espropriazione di un diritto reale minore, il cui procedimento è inderogabilmente sottoposto alla disciplina contenuta nelle norme evocate dalla ricorrente.
Nel caso di specie, in violazione del citato art. 8, la dichiarazione di pubblica utilità non è stata preceduta dalla necessaria apposizione del vincolo espropriativo, il quale avrebbe dovuto essere introdotto mediante variante urbanistica, secondo quanto statuito dagli artt. 9 e 10 del d.p.r. n. 327 del 2001; tali norme precisano quali sono gli atti attraverso i quali può essere disposto il vincolo stesso, individuati nella approvazione di uno strumento urbanistico generale o sua variante (che preveda la realizzazione dell’opera pubblica), ovvero nella conferenza di servizi, accordo di programma o altra intesa che comporti la variante al piano urbanistico
(TAR Toscana, Sez. I, sentenza 21.03.2013 n. 433 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 15.04.2013

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IN EVIDENZA

Il punto dirimente tra sottoposizione o meno a tutela ambientale ex art. 142, comma 1, lett. d), del D.Lgs. n. 42/2004 non è la quota altimetrica della base del manufatto (o del colmo dello stesso), ma la quota altimetrica del punto di osservazione (sopra o sotto i 1200 metri s.l.m.), cioè della posizione la cui visuale (da e verso altri luoghi) deve (o meno) essere preservata dalle interferenze visive che l’amministrazione preposta valuti incompatibili con le esigenze (paesaggistiche) di sua conservazione.

EDILIZIA PRIVATA: Montagne – Tutela ex art. 142 d.lgs. n. 42/2004 – Quota altimetrica superiore a 1200 mt. s.l.m. – Estensione della tutela – Visuale – Fattispecie: aerogeneratori con base a livello inferiore ai 1200 mt., ma con sviluppo in altezza a quota superiore.
 
Anche se la lettera d) dell’art. 142 D.Lgs. n. 42/2004 si riferisce a “le montagne”, ed anche se l’espressione va intesa come riferimento al suolo, cioè a tutte le posizioni del versante e della cima che si trovano oltre la linea altimetrica dei 1200 metri, l’oggetto della tutela è inequivocabilmente il paesaggio visibile da quelle posizioni e verso quelle posizioni, in cui entrano (nella fattispecie in modo assai rilevante per la loro mole e altezza) anche tutte le vicine costruzioni fondanti a quota inferiore ma svettanti a quota superiore, o comunque significativamente visibili sia verso l’alto che verso il basso), a meno che non siano abbastanza lontane da fuoriuscire dalla visuale significativamente percepibile da quelle posizioni e verso quelle posizioni.
Perciò, il punto dirimente tra sottoposizione o meno a tutela ex art. 142, comma 1, lett. d), del Codice ambiente non è la quota altimetrica della base del manufatto (o del colmo dello stesso), ma la quota altimetrica del punto di osservazione (sopra o sotto i 1200 metri s.l.m.), cioè della posizione la cui visuale (da e verso altri luoghi) deve (o meno) essere preservata dalle interferenze visive che l’amministrazione preposta valuti incompatibili con le esigenze (paesaggistiche) di sua conservazione.
Tanto premesso, tale lettura dell’art. 142, comma 1, lett. d), del Codice ambiente è, ad avviso del Collegio, l’unica compatibile con criteri di interpretazione letterale, logico-sistematica e teleologica delle norme di legge, e con la definizione del paesaggio come bene d’insieme recata dall’art. 131 del Codice ambiente.
Se la montagna per la parte eccedente i 1200 metri s.l.m. è sottoposta “alle disposizioni di questo titolo” (cfr. art. 142 Codice ambiente) per il suo “interesse paesaggistico” (non soltanto, ad esempio, geologico, idrogeologico o floristico), ciò significa che lo è in quanto paesaggio (secondo la definizione di contesto d’insieme che ne danno l’art. 131 del Codice ambiente e la pacifica giurisprudenza amministrativa e costituzionale), che comprende non soltanto il suolo, il sottosuolo, l’habitat, … ma anche, e forse anzitutto, la sua visuale come percepibile da qualsiasi (non soltanto da sopra ma, evidentemente anche da sotto quota 1200) punto di osservazione, nonché le visuali godibili da ogni punto della montagna sito oltre tale quota.
Se oggetto della tutela “ex lege” è anche la visuale della montagna, e dalla montagna, vi rientrano i coni visuali che da qualsiasi punto di osservazione ricomprendano versanti e cime oltre quota 1200 metri; nonché le visuali godibili, verso il basso e verso l’alto, da tutte le linee altimetriche superiori a tale quota; tutti gli interventi che interferiscano in tali visuali, cioè la cui percezione visiva sia in esse ricompresa, sono soggetti alla previa valutazione paesaggistica per verificarne la compatibilità dell’impatto visivo.
Se le montagne oltre quota 1200 mt. s.l.m. costituiscono paesaggio, meritevole di tutela ex art. 142/1° c., lett. d), D.Lgs. 42/2004, come tali devono essere protette non solo dalle trasformazioni del loro proprio territorio interno al perimetro della linea altimetrica dei 1200 m s.l.m. in quanto posto al di sopra di essa, ma anche dalle interferenze visive che ne pregiudichino la bellezza panoramica, percepibile dai punti di osservazione inferiori ed esterni al perimetro stesso, inserendosi nel cono visuale che da essi si diparte ed alterandone in modo significativo il contesto visivo da essi percepibile. Egualmente deve essere protetta la visuale percepibile, verso valle e verso monte, dai versanti (e dalle cime) oltre quota 1200, perché anche il panorama godibile da tali privilegiate posizioni è parte del bene paesaggistico costituito dalla montagna oltre 1200 mt s.l.m., che è tale –secondo la definizione di bene d’insieme che del paesaggio reca l’art. 131 D.Lgs. 42/2004– sia per la sua bellezza intrinseca come oggetto di visuale che, per il panorama che offre all’intorno, come punto privilegiato di osservazione del medesimo.
Del resto, se le bellezze panoramiche suscettibili della dichiarazione di notevole interesse pubblico, ai sensi degli articoli da 138 a 141 del Codice Ambiente, sono “considerate come quadri”, e comprendono pure “quei punti di vista o di belvedere, accessibile al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze” (cfr. art. 136 lett. d del Codice), tale concezione non può non essere comune a quelle più specifiche bellezze panoramiche (come le montagne oltre i 1200 mt.) che, nell’ambito della categoria, si individuano per essere dichiarate di notevole interesse pubblico per definizione legislativa, senza cioè che occorra la apposizione del decreto di vincolo; in altre parole, nessuna “ratio” potrebbe giustificare una protezione minore per quelle tutelate “ope legis”, rispetto a quelle vincolate con apposito D.M.
Per le stesse ragioni, esse (le montagne per la parte eccedente i 1200 mt. s.l.m.) sono anche oggetto della speciale ulteriore forma di tutela (indiretta), prevista dall’art. 152 del Codice ambiente, nei confronti di “condotte e impianti industriali e di palificazioni … in vista delle aree indicate alle lettere c) e d) dell’art. 136”, con “la facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le varianti, le quali … valgano ad evitare pregiudizio ai beni protetti da questo titolo”.
Che la norma riguardi anche i beni protetti “ex lege” (ex art. 142) è confermato dal suo secondo comma, che, pur non modificando l’ambito di estensione oggettivo della tutela ma recando solo una mera disposizione procedimentale (“la Regione consulta preventivamente le competenti soprintendenze”), contiene un riferimento testuale all’art. 142, nella implicita ma evidente presupposizione che anche ad esso si riferisca il precedente primo comma.
Lo conferma del resto l’art. 14.9, punto c), del citato D.M. 10.09.2010, che prevede la obbligatoria partecipazione del MIBAC, per l’esercizio dei poteri di cui all’art. 152 del Codice ambiente, nell’ambito della Conferenza per l’autorizzazione unica degli impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili, ogni qual volta l’impianto da realizzare sia localizzato ”in aree contermini a quelle sottoposte a tutela ai sensi del D.lgs. 42/2004”, senza distinguere affatto tra vincoli “ope legis” (ex art. 142) e vincoli imponibili con D.M. (ex art. 136).

La controversia introdotta con il primo motivo verte sostanzialmente sulla interpretazione dell’art. 142, 1° comma, lett. d), del Codice Ambiente: «sono comunque sottoposti alle disposizioni di questo titolo per il loro interesse paesaggistico: …..d) le montagne per la parte eccedente 1600 metri sul livello del mare per la catena alpina e 1200 metri sul livello del mare per la catena appenninica e per le isole».
Da essa dipende il giudizio sulla esattezza o meno del presupposto assunto dalla Soprintendenza a fondamento del suo parere favorevole, e cioè che il progettato parco eolico, ed anzi nessuno dei 13 aerogeneratori previsti, ricadrebbe in area vincolata ex art. 142, 1° c., lett. d), del Codice ambiente (D.Lgs. 42/2004). Tali aree tutelate, in cui ogni intervento è soggetto a previa valutazione di compatibilità paesaggistica ex art. 146 D.Lgs. 42/2004, sono vieppiù indicate, dall’allegato 3 (punto f) alle menzionate linee guida ex D.M. 10.09.2010, tra i siti preferenzialmente non idonei alla localizzazione di impianti di così rilevante impatto ambientale come quelli eolici.
Per cui la esatta rappresentazione delle caratteristiche normative dell’area (vincolata o no), da parte delle amministrazioni competenti alla valutazione dell’impatto, è a maggior ragione essenziale ai fini della legittimità della valutazione stessa.
Le ricorrenti censurano la presa d’atto della nuova collocazione di tutte le 13 turbine all’esterno del vincolo paesaggistico altimetrico (che interessa le aree di altitudine superiore ai 1200 mt. s.l.m.).
Le esponenti contrappongono a tale constatazione una diversa concezione del vincolo, secondo cui, pur essendo incontestato che tutti i basamenti delle turbine sono collocati ad un’altitudine inferiore a 1200 mt. s.l.m., il loro sviluppo in altezza comporterebbe una parziale “invasione” visiva dello spazio sovrastante.
Esse rilevano, incontestatamente, che le torri si ergeranno fino ad avvicinarsi o addirittura a superare in altezza la vette più significative del crinale (Monte Comero mt. 1371, Monte Castelvecchio mt. 1254, Poggio Biancarda mt. 1219), di fatto incidendo sulle visuali paesaggistiche più significative anche da distanze maggiori rispetto a quelle da cui è usuale l’osservazione di questo paesaggio appenninico.
La Provincia riconosce che l’elemento di novità, dal punto di vista progettuale, del lay out oggetto della presente valutazione, è dato dal fatto che tutte e 13 le pale dell’impianto eolico non ricadono all’interno di aree sottoposte a vincolo paesaggistico, ex art. 142, lett. d), del D.Lgs. 42/2004 e s.m.i., per cui la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici non ha reso un parere finalizzato all’ottenimento dell’autorizzazione paesaggistica relativamente a tale aspetto.
Le resistenti propugnano cioè una stretta e letterale interpretazione, secondo la quale oggetto della tutela sono soltanto “le montagne” (e non le visuali oltre i 1200 metri s.l.m.), per cui il limite dei 1200 metri andrebbe riferito esclusivamente alla quota altimetrica del suolo.
Se effettivamente fosse esatta questa accezione, basterebbe posizionare tutti i basamenti delle torri anche pochi metri al di sotto dei 1200 per non invadere l’area tutelata, ed esonerare così l’intervento dalla valutazione di compatibilità con il vincolo ex art. 142, lett. d), del Codice ambiente.
Tuttavia, tale interpretazione palesa tutta la sia illogicità se solo si considerano le aberranti conseguenze cui essa conduce: mentre sarebbe sottoposto a previa valutazione l’impatto di un fienile a metri 1201 s.l.m., non lo sarebbe la costruzione di un condominio o di un grattacielo a quota 1199 s.l.m..
D’altronde, anche se oggetto della tutela sono “le montagne” (che ben possono essere intese, tuttavia, nel senso di ambiente montano), anche sotto il profilo letterale la norma è assolutamente esplicita nell’individuare la sua finalità nella tutela del paesaggio, affermando che i beni indicati, e quindi le montagne, «sono sottoposti alle disposizioni di questo titolo per il loro interesse paesaggistico», vale a dire in quanto formano o concorrono a formare un paesaggio di pregio.
Se la finalità della tutela è la preservazione del paesaggio montano, lo spazio tutelato non può essere limitato al suolo.
Una diversa interpretazione, che riferisca il limite dei 1200 metri s.l.m. al colmo delle costruzioni da edificare, oltre ad essere meglio supportata dalla lettura testuale della norma nella sua interezza, già sarebbe in grado di evitare le irragionevoli conseguenze applicative sopra descritte, e di meglio corrispondere a un criterio interpretativo finalistico-teleologico.
La norma risale a tempi largamente precedenti l’approvazione delle linee–guida per gli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili (D.M. 10.09.2010), nei quali, pur essendo già disponibile una tecnologia di così rilevanti dimensioni, non era verosimilmente prevedibile e attuale la sua realizzazione su crinali montuosi.
Essa si pone a presidio della parte più caratterizzante e preziosa del paesaggio montano –le cime- per preservarlo da interventi idonei ad alternarne in modo significativo il profilo e la visuale a partire dai 1200 metri di altitudine s.l.m..
E’ di palmare evidenza che l’allontanamento di pochi metri (sia in altitudine che in linea d’aria orizzontale) dalla linea altimetrica dei 1200 metri s.l.m. (e nella fattispecie dalla sommità del crinale a 1219 metri s.l.m.) non può in alcun modo evitare l’interferenza visiva con la visuale della montagna oltre quota 1200 (cioè quella godibile da e verso le posizioni poste su tale linea altimetrica ed oltre), ove il colmo delle vicinissime costruzioni superi di gran lunga quota 1200 rientrando quasi interamente in tale visuale protetta (ma anche quando non la raggiunga ma soltanto vi si avvicini).
Viceversa, l’interpretazione sostenuta dai resistenti non è compatibile con la finalità di protezione del paesaggio montano oltre quota 1200 s.l.m., che deve essere preservato da tutti gli interventi eccessivamente impattanti su di esso, a prescindere dal livello altimetrico delle fondazioni, sotto alcun profilo considerato dalla norma vincolistica, la quale, da un lato, ha per oggetto, come visto, il paesaggio e non il suolo, e, dall’altro, definisce i limiti geografico-spaziali della tutela con esclusivo riguardo a tale oggetto, e non con riguardo alle caratteristiche (anche localizzative) degli interventi di cui prescrive la previa valutazione, le quali non vengono affatto prese in considerazione ai fini della delimitazione delle aree protette.
Perciò, in definitiva, anche se la lettera d) dell’art. 142 citato si riferisce a “le montagne”, ed anche se l’espressione va intesa come riferimento al suolo, cioè a tutte le posizioni del versante e della cima che si trovano oltre la linea altimetrica dei 1200 metri, l’oggetto della tutela è inequivocabilmente il paesaggio visibile da quelle posizioni e verso quelle posizioni, in cui entrano (nella fattispecie in modo assai rilevante per la loro mole e altezza) anche tutte le vicine costruzioni fondanti a quota inferiore ma svettanti a quota superiore, o comunque significativamente visibili sia verso l’alto che verso il basso), a meno che non siano abbastanza lontane da fuoriuscire dalla visuale significativamente percepibile da quelle posizioni e verso quelle posizioni.
Perciò, il punto dirimente tra sottoposizione o meno a tutela ex art. 142, comma 1, lett. d), del Codice ambiente non è la quota altimetrica della base del manufatto (o del colmo dello stesso), ma la quota altimetrica del punto di osservazione (sopra o sotto i 1200 metri s.l.m.), cioè della posizione la cui visuale (da e verso altri luoghi) deve (o meno) essere preservata dalle interferenze visive che l’amministrazione preposta valuti incompatibili con le esigenze (paesaggistiche) di sua conservazione.
Tanto premesso, tale lettura dell’art. 142, comma 1, lett. d), del Codice ambiente è, ad avviso del Collegio, l’unica compatibile con criteri di interpretazione letterale, logico-sistematica e teleologica delle norme di legge, e con la definizione del paesaggio come bene d’insieme recata dall’art. 131 del Codice ambiente.
Se la montagna per la parte eccedente i 1200 metri s.l.m. è sottoposta “alle disposizioni di questo titolo” (cfr. art. 142 Codice ambiente) per il suo “interesse paesaggistico” (non soltanto, ad esempio, geologico, idrogeologico o floristico), ciò significa che lo è in quanto paesaggio (secondo la definizione di contesto d’insieme che ne danno l’art. 131 del Codice ambiente e la pacifica giurisprudenza -es. TAR Lazio Roma II-quater 21.01.2011 n. 686 e Corte cost. n. 94/1985, n. 359/1985, n. 151/1986– amministrativa e costituzionale), che comprende non soltanto il suolo, il sottosuolo, l’habitat, … ma anche, e forse anzitutto, la sua visuale come percepibile da qualsiasi (non soltanto da sopra ma, evidentemente anche da sotto quota 1200) punto di osservazione, nonché le visuali godibili da ogni punto della montagna sito oltre tale quota.
Se oggetto della tutela “ex lege” è anche la visuale della montagna, e dalla montagna, vi rientrano i coni visuali che da qualsiasi punto di osservazione ricomprendano versanti e cime oltre quota 1200 metri; nonché le visuali godibili, verso il basso e verso l’alto, da tutte le linee altimetriche superiori a tale quota; tutti gli interventi che interferiscano in tali visuali, cioè la cui percezione visiva sia in esse ricompresa, sono soggetti alla previa valutazione paesaggistica per verificarne la compatibilità dell’impatto visivo.
Se le montagne oltre quota 1200 mt s.l.m. costituiscono paesaggio, meritevole di tutela ex art. 142/1° c., lett. d), D.Lgs. 42/2004, come tali devono essere protette non solo dalle trasformazioni del loro proprio territorio interno al perimetro della linea altimetrica dei 1200 m s.l.m. in quanto posto al di sopra di essa, ma anche dalle interferenze visive che ne pregiudichino la bellezza panoramica, percepibile dai punti di osservazione inferiori ed esterni al perimetro stesso, inserendosi nel cono visuale che da essi si diparte ed alterandone in modo significativo il contesto visivo da essi percepibile. Egualmente deve essere protetta la visuale percepibile, verso valle e verso monte, dai versanti (e dalle cime) oltre quota 1200, perché anche il panorama godibile da tali privilegiate posizioni è parte del bene paesaggistico costituito dalla montagna oltre 1200 mt s.l.m., che è tale –secondo la definizione di bene d’insieme che del paesaggio reca l’art. 131 D.Lgs. 42/2004– sia per la sua bellezza intrinseca come oggetto di visuale che, per il panorama che offre all’intorno, come punto privilegiato di osservazione del medesimo.
Del resto, se le bellezze panoramiche suscettibili della dichiarazione di notevole interesse pubblico, ai sensi degli articoli da 138 a 141 del Codice Ambiente, sono “considerate come quadri”, e comprendono pure “quei punti di vista o di belvedere, accessibile al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze” (cfr. art. 136 lett. d del Codice), tale concezione non può non essere comune a quelle più specifiche bellezze panoramiche (come le montagne oltre i 1200 mt.) che, nell’ambito della categoria, si individuano per essere dichiarate di notevole interesse pubblico per definizione legislativa, senza cioè che occorra la apposizione del decreto di vincolo; in altre parole, nessuna “ratio” potrebbe giustificare una protezione minore per quelle tutelate “ope legis”, rispetto a quelle vincolate con apposito D.M.
Per le stesse ragioni, esse (le montagne per la parte eccedente i 1200 mt. s.l.m.) sono anche oggetto della speciale ulteriore forma di tutela (indiretta), prevista dall’art. 152 del Codice ambiente, nei confronti di “condotte e impianti industriali e di palificazioni … in vista delle aree indicate alle lettere c) e d) dell’art. 136”, con “la facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le varianti, le quali … valgano ad evitare pregiudizio ai beni protetti da questo titolo”.
Che la norma riguardi anche i beni protetti “ex lege” (ex art. 142) è confermato dal suo secondo comma, che, pur non modificando l’ambito di estensione oggettivo della tutela ma recando solo una mera disposizione procedimentale (“la Regione consulta preventivamente le competenti soprintendenze”), contiene un riferimento testuale all’art. 142, nella implicita ma evidente presupposizione che anche ad esso si riferisca il precedente primo comma.
Lo conferma del resto (cfr. quarto motivo di ricorso) l’art. 14.9, punto c), del citato D.M. 10.09.2010, che prevede la obbligatoria partecipazione del MIBAC, per l’esercizio dei poteri di cui all’art. 152 del Codice ambiente, nell’ambito della Conferenza per l’autorizzazione unica degli impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili, ogni qual volta l’impianto da realizzare sia localizzato ”in aree contermini a quelle sottoposte a tutela ai sensi del D.lgs. 42/2004”, senza distinguere affatto tra vincoli “ope legis” (ex art. 142) e vincoli imponibili con D.M. (ex art. 136).
Anche sotto tale profilo, dunque, l’indagine sull’impatto visivo, che la Soprintendenza ha svolto nell’ottica di protezione delle visuali della (e dalla) vicina area protetta del Monte Fumaiolo (D.M. 30.12.1997), doveva essere estesa alla protezione delle visuali del (e dal) Poggio della Biancarda oltre quota 1200 mt. e cime circostanti, benché i basamenti delle torri siano posizionati appena sottoquota. Tale omissione integra un chiaro difetto dell’istruttoria dovuta, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 152 del Codice ambiente, anche se fosse vera la affermazione che il parco eolico non insista in area vincolata ex art. 142, 1° comma, lett. d), bensì soltanto in area contermini e in vista della stessa come ritengono i resistenti.
Invece tale indagine è stata limitata (come è agevole rilevare dalla lettura dei pareri 16.02.2011 e 09.02.2012 della Soprintendenza) alla adiacente area del Monte Fumaiolo, oggetto di tutela specifica ex D.M. 30.12.1997 ai sensi dell’art. 136, lett. d), del D.Lgs. 42/2004 e quindi della tutela indiretta ex art. 152, mentre la Soprintendenza ha ritenuto erroneamente di esserne dispensata con riguardo al Poggio della Biancarda, solo perché i basamenti di tutte le 13 torri sono posizionati poco al di sotto della quota altimetrica dei 1200 metri sul livello del mare, e quindi in area ritenuta non tutelata dall’art. 142.
Si noti che sul progetto originario la Soprintendenza, ritenendosi abilitata ad esercitare i suoi poteri perché alcune torri fondavano oltre i 1200 mt s.l.m., aveva espresso un parere fortemente negativo in data 14.01.2010 sullo specifico aspetto delle visuali del Poggio della Biancarda, aspetto poi tralasciato, come si è visto, sull’erroneo presupposto che lo spostamento di pochi metri al di sotto la dispensasse da tale esercizio di potere (il che non è –ripetesi– sia perché le torri si trovano ugualmente in area vincolata ex art. 142, 1° c., lett. d), Codice Ambiente, sia perché, comunque, tale area è oggetto della tutela indiretta ex art. 152 dello stesso codice ed art. 14 D.M. 10.09.2010).
Tale erroneo presupposto vizia l’intero procedimento (in via diretta il parere della Soprintendenza e in via derivata gli atti successivi) e comporta l’accoglimento del motivo primo aggiunto (violazione art. 142 D.Lgs. 42/2004 e travisamento), secondo (contraddittorietà con precedente parere), quarto (violazione D.M. 10.09.2010) e terzo (difetto di istruttoria).
Tale soluzione sconta evidentemente il rigetto delle eccezioni di inammissibilità per tardività, difetto di legittimazione delle ricorrenti e sconfinamento nel merito insindacabile.
In particolare:
- la notificazione dei motivi aggiunti avverso la DGP 121/12 è avvenuta il 22.06.2012, ovvero entro il termine decadenziale rispetto alla pubblicazione sul BUR. n. 71 del 26.04.2012 ma non rispetto a quella sull’Albo Pretorio: secondo la concorde giurisprudenza formatasi in tema di “concorrenza di più forme di publicizzazione”, la presunzione di conoscenza opera solo dopo che tutte siano state esperite purché previste dalla legge (cfr. Cons. Stato 2615/2005, art. 16/3° c. L.R. 9/1999 e art. 27 D.Lgs. 152/2006);
- la legittimazione delle associazioni di protezione ambientale nazionale, individuate con DM Ambiente 20.02.1987 ex art 13 legge n. 349/1986, è pacifica in giurisprudenza e fonda sull’art. 18, comma 5, della medesima legge;
- la censura esaminata ed accolta non involge alcuna interferenza con valutazioni e scelte di merito dell’amministrazione, limitandosi a verificare la erroneità di un presupposto in diritto, la erronea interpretazione di norme di legge, e la omissione di una istruttoria doverosa.
Conclusivamente, il ricorso per motivi aggiunti va accolto con assorbimento dei motivi non esaminati (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 21.03.2013 n. 225 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

COMPETENZE PROGETTUALI - INCARICHI PROGETTUALI: La progettazione di opere di sistemazione idraulica di corsi d'acqua rientra nelle competenze esclusive dell'ingegnere.
Lo svolgimento della progettazione richiamata in oggetto da parte di professionisti geometri è illegittima e, pertanto, non abilita la stazione appaltante al pagamento dei compensi professionali.
Il sub-affidamento delle attività di verifica idrogeologica ad un ingegnere è in contrasto con l'art. 91, comma 3, del D.Lgs. n. 163/2006 e s.m., inerente il divieto di subappalto dei servizi di ingegneria.
--------------
L'assegnazione degli incarichi in parola tramite affidamento diretto non è conforme alle indicazioni dell'art. 57, comma 5, lett. b) e dell'art. 125, comma 11, del D.Lgs. n. 163/2006 (in via transitoria DPR n. 384/2001), non ricorrendo i presupposti per l'applicazione delle norme citate.

... il Consiglio:
2) rileva che la progettazione di opere di sistemazione idraulica di corsi d'acqua rientra nelle competenze esclusive dell'ingegnere;
3) rileva che lo svolgimento della progettazione richiamata in oggetto da parte di professionisti geometri è illegittima e che pertanto non abilita la stazione appaltante al pagamento dei compensi professionali;
4) rileva che il sub-affidamento delle attività di verifica idrogeologica ad un ingegnere è in contrasto con l'art. 91, comma 3, del D.Lgs. n. 163/2006 e s.m., inerente il divieto di subappalto dei servizi di ingegneria;
5) rileva che l'assegnazione degli incarichi in parola tramite affidamento diretto non è conforme alle indicazioni dell'art. 57, comma 5, lett. b) e dell'art. 125, comma 11, del D.Lgs. n. 163/2006 (in via transitoria DPR n. 384/2001), non ricorrendo i presupposti per l'applicazione delle norme citate (Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture, deliberazione 20.12.2007 n. 316).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 09.04.2013 n. 83 "Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti (INI-PEC)" (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 19.03.213).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl diritto al rimborso delle spese legali (dei dipendenti ee.ll.) è condizionato ai seguenti presupposti:
- l’esistenza di esigenze di tutela di interessi e di diritti facenti capo all’ente pubblico;
- l’assenza di dolo e colpa grave in capo al dipendente sottoposto a giudizio;
- la stretta inerenza del procedimento giudiziario a fatti verificatisi nell’esercizio ed a causa della funzione esercitata o dell’ufficio rivestito dal dipendente pubblico, riconducibili quindi al rapporto di servizio e perciò imputabili direttamente all’amministrazione nell’esercizio della sua attività istituzionale;
- l’assenza di un conflitto di interesse tra il dipendente e l’ente di appartenenza che permette di procedere ad una nomina del difensore legale di comune accordo tra le parti.
Con riferimento alla scelta del difensore, l’ente deve comunque preliminarmente manifestare il “gradimento dell’ente” (che implica anche la condivisione della relativa strategia difensiva) atteso che la lettera dell’art. 67 del D.P.R. n. 268 del 1987 (ed oggi dell’art. 28 del CCNL di comparto), fa riferimento espresso alla necessità che il legale, che assumerà la difesa del dipendente con relativo onere a carico dell’ente locale, sia “di comune gradimento”.

Il Sindaco del Comune di Sant’Egidio alla Vibrata con nota del 04.11.2011 (ricevuta dalla Corte dei conti in data 08.11.2011), ha presentato una richiesta di parere in merito al rimborso delle spese legali avanzato da un dipendente in conseguenza di una sentenza del GIP di Teramo, resa al termine del giudizio abbreviato, con cui il suddetto dipendente è stato assolto dal reato ascritto in quanto “il fatto non sussiste.
...
Il rimborso delle spese legali, per i dipendenti del comparto Regioni ed autonomie locali è disciplinato dall’art. 28 del C.C.N.L. del 14.09.2000 che, richiamando l’art. 67 del D.P.R. 13.05.1987 n. 268, prevede che “l’Ente, anche a tutela dei propri diritti ed interessi, ove si verifichi l’apertura di un procedimento di responsabilità civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente connessi all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti di ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto di interessi, ogni onere di difesa sin dall’apertura del procedimento, facendo assistere il dipendente da un legale di comune gradimento”.
Il diritto al rimborso delle spese legali è pertanto condizionato ai seguenti presupposti: “- l’esistenza di esigenze di tutela di interessi e di diritti facenti capo all’ente pubblico; - l’assenza di dolo e colpa grave in capo al dipendente sottoposto a giudizio; - la stretta inerenza del procedimento giudiziario a fatti verificatisi nell’esercizio ed a causa della funzione esercitata o dell’ufficio rivestito dal dipendente pubblico, riconducibili quindi al rapporto di servizio e perciò imputabili direttamente all’amministrazione nell’esercizio della sua attività istituzionale; - l’assenza di un conflitto di interesse tra il dipendente e l’ente di appartenenza che permette di procedere ad una nomina del difensore legale di comune accordo tra le parti (Corte dei conti, Sez. Veneto delibera 05.04.2012, n. 245).
Con riferimento alla scelta del difensore, si è altresì precisato che
l’ente deve comunque preliminarmente manifestare il “gradimento dell’ente” (che implica anche la condivisione della relativa strategia difensiva) atteso che la lettera dell’art. 67 del D.P.R. n. 268 del 1987 (ed oggi dell’art. 28 del CCNL di comparto), fa riferimento espresso alla necessità che il legale, che assumerà la difesa del dipendente con relativo onere a carico dell’ente locale, sia “di comune gradimento (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, delibera 12.11.2009, n. 1000);
La sussistenza, in concreto, di tali indefettibili condizioni, non è rilevabile dagli atti prodotti dall’Amministrazione comunale, rientrando, in ogni caso, nella sua esclusiva discrezionalità.
In virtù di siffatti argomenti, costituisce compito dell’Amministrazione verificare, caso per caso, l’esistenza dei presupposti sopra enunciati per riconoscere il rimborso delle spese legali al dipendente assolto perché il fatto non sussiste (Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo, parere 05.04.2013 n. 15).

UTILITA'

APPALTI - URBANISTICATrasparenza e anticorruzione delle Pubbliche Amministrazioni: in arrivo nuovi obblighi su appalti, urbanistica e ambiente.
Dal prossimo 20.04.2013 le Amministrazioni Pubbliche avranno nuovi obblighi in materia di appalti, urbanistica, ambiente e calamità naturali.
Lo stabilisce il Decreto Legislativo n. 33 del 14.03.2013 che riordina la disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle amministrazioni pubbliche.
Obiettivo del decreto è quello di consentire ai cittadini di conoscere e controllare le attività delle amministrazioni, la loro efficienza e imparzialità.
Tra i nuovi obblighi a carico delle stazioni appaltanti:
obbligo di pubblicare sui propri siti internet le informazioni sugli appalti: per ciascun contratto devono indicare la determina di aggiudicazione definitiva, la struttura proponente, l'oggetto del bando, l'importo dell'aggiudicazione, l'aggiudicatario, la base d'asta, la procedura e la modalità di selezione del contraente, il numero di offerenti partecipanti, i tempi di completamento dell'opera, l'importo delle somme liquidate, le modifiche contrattuali e le decisioni di ritiro e recesso dei contratti;
obbligo di trasmettere tutte le informazioni pubblicate sui propri siti internet all’AVCP (Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici);
obbligo di pubblicare le informazioni relative ai tempi, ai costi unitari e agli indicatori di realizzazione delle opere pubbliche completate
obbligo di pubblicità dei dati e documenti, tra i quali i procedimenti di approvazione dei piani regolatori e delle varianti urbanistiche;
obbligo di pubblicare annualmente un “indicatore di tempestività dei pagamenti” che indica i propri tempi medi di pagamento per l’acquisto di beni, servizi e forniture.
Le PA che non rispettano questi obblighi incorrono in sanzioni fino a 51.545 euro.
L’AVCP entro il 30 aprile di ogni anno comunicherà alla Corte dei Conti l’elenco delle amministrazioni pubbliche inadempienti (11.04.2013 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATAEcco una utile guida alle pompe di calore.
La pompa di calore è una macchina in grado di trasferire energia termica da una sorgente a temperatura più bassa ad una sorgente a temperatura più alta o viceversa; questo processo, non essendo spontaneo, richiede un certo apporto energetico che può essere costituito da:
energia elettrica
combustibile
calore ad alta temperatura
Esempi comuni di macchine di questo tipo sono:
refrigeratori;
condizionatori d'aria;
pompa di calore a compressione di gas;
pompa di calore a cambiamento di fase;
pompa di calore termoelettrica a effetto Peltier;
pompa di calore a scambio geotermico;
Vortex, detto anche tubo di Ranque-Hilsch.
 RSE, società di ricerca del GSE (Gestore dei Servizi Energetici) ha reso disponibile una pubblicazione completa sulle pompe di calore.
Il documento utile a tutti gli addetti ai lavori (tecnici, progettisti, installatori, imprese), fornisce informazioni sui vantaggi derivanti dall’utilizzo di questa tecnologia, come ad esempio minori emissioni e consumi rispetto alle tecnologie concorrenti.
La guida, oltre ad illustrare i vantaggi, tratta gli aspetti tecnologici, impiantistici, prestazionali ed economici delle pompe di calore (11.04.2013 - link a www.acca.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Nuovo decreto sulla segnaletica stradale per attività lavorative in presenza di traffico veicolare (ANCE Bergamo, circolare 12.04.2013 n. 94).

APPALTIOggetto: Decreto-legge 08.04.2013, n. 35 - Misure per le amministrazioni tenute a certificare i crediti certi, liquidi ed esigibili fornitori maturati alla data del 31.12.2012 per somministrazioni, forniture e appalti. Prime indicazioni operative alle amministrazioni centrali e periferiche dello Stato in materia di accreditamento alla piattaforma elettronica e di ricognizione dei debiti (Ministero dell'Economia e Finanze, Ragioneria Generale dello Stato, circolare 10.04.2013 n. 17).

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI: OGGETTO: Verifiche delle Commissioni di vigilanza sui locali di pubblico spettacolo in occasione di manifestazioni aperte al pubblico con allestimento di attrazioni dello spettacolo viaggiante (Ministero dell'Interno, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Ufficio per l'Amministrazione Generale, Ufficio per gli Affari della Polizia Amministrativa e Sociale, nota 15.03.2013 n. 3595 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI: OGGETTO: Competenza delle commissioni di vigilanza sui locali di pubblico spettacolo - Verifiche sui locali con capienza pari o inferiore a 200 persone - Intervenuta abrogazione dell'art. 124, c. 2, Reg. TULPS - Quesito (Ministero dell'Interno, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Ufficio per l'Amministrazione Generale, Ufficio per gli Affari della Polizia Amministrativa e Sociale, nota 22.02.2013 n. 2622 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

CONDOMINIO: G. T. Gomitoni, Il “diritto” del condomino al distacco dall’impianto di riscaldamento dopo la Riforma (Immobili & proprietà n. 4/2013 - tratto da www.ispoa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: D. Sammartino, Demansionamento: scatta il risarcimento danni pari al 20% della retribuzione (10.04.2013 - link a www.leggioggi.it).

PUBBLICO IMPIEGO: S. Gamberini, Mobbing: per la Cassazione il demansionamento non è sufficiente (04.04.2013 - link a www.leggioggi.it).

LAVORI PUBBLICI: A. Lamantia, Le riserve nelle opere pubbliche (25.03.2013 - link a www.appaltieriserve.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: S. Glinianski e P. Russo, Enti locali: la nomina del Responsabile Prevenzione della corruzione (12.03.2013 - link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATA: G. P. Cirillo, LA TRASCRIZIONE DEI ‘DIRITTI EDIFICATORI’ E LA CIRCOLAZIONE DEGLI INTERESSI LEGITTIMI (link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Scarcella, Inquinamento di origine fisica: rumore ed inquinamento elettromagnetico (14.02.2013 - link a www.lexambiente.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Amministratori locali ed esercizio della libera professione: il regime di incompatibilità (ottobre 2012 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: D. Argenio, Il diritto di accesso agli atti da parte dei consiglieri (art. 43, 2° tuel) - RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE (18.11.2010).

QUESITI & PARERI

ATTI AMMINISTRATIVI - SEGRETARIO COMUNALE: Segretario comunale. Controllo successivo ex d.l. 174/2012.
Qualora il segretario comunale svolga compiti gestionali, il comune dovrà adottare, ai fini dei controlli successivi di cui all'art. 147 bis del d.lgs. 267/2000, opportuni strumenti atti a garantire l'insorgere di ipotesi di incompatibilità e conflitto di interesse, evitando la sovrapposizione del ruolo di 'controllato'e controllore'.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alle nuove incombenze previste, per il segretario comunale, dal d.l. 174 del 2012, in particolare in relazione ai controlli successivi imposti dall'art. 147-bis, comma 2, del d.lgs. 267/2000, come novellato. L'Ente rappresenta che al Segretario comunale sono stati attribuiti compiti gestionali che comportano l'adozione di atti per i quali è previsto il predetto controllo. In questa fattispecie e nel caso di eventuale conflitto di interesse del Segretario, l'Amministrazione si è posta la questione se il controllo successivo, a norma di legge, possa essere effettuato dal Vicesegretario che, a mente di quanto disposto dal regolamento degli uffici e dei servizi, sostituisce il Segretario in caso di assenza o impedimento.
Com'è noto, il d.l. 174/2012, convertito in l. 213/2012, è intervenuto introducendo alcune modifiche al d.lgs. 267/2000.
Ai fini che ci interessano l'art. 147, come novellato, dispone che gli enti locali, nell'ambito della loro autonomia normativa e organizzativa, individuano strumenti e metodologie per garantire, attraverso il controllo di regolarità amministrativa e contabile, la legittimità, la regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa, disciplinando un efficace sistema di controlli interni.
L'art. 147-bis, comma 1, prevede altresì che il controllo di regolarità amministrativa e contabile è assicurato, nella fase preventiva della formazione dell'atto, da ogni responsabile di servizio ed è esercitato attraverso il rilascio del parere di regolarità tecnica attestante la regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa. Il controllo contabile è effettuato dal responsabile del servizio finanziario ed è esercitato attraverso il rilascio del parere di regolarità contabile e del visto attestante la copertura finanziaria.
Il successivo comma 2 specifica che il controllo di regolarità amministrativa e contabile è inoltre assicurato, nella fase successiva, secondo principi generali di revisione aziendale e modalità definite nell'ambito dell'autonomia organizzativa dell'ente, sotto la direzione del Segretario, in base alla normativa vigente. Sono soggette al controllo le determinazioni di impegno di spesa, gli atti di accertamento di entrata, gli atti di liquidazione di spesa, i contratti e gli altri atti amministrativi, scelti secondo una selezione casuale effettuata con motivate tecniche di campionamento
[1].
Il comma 3 infine dispone che le risultanze del predetto controllo successivo siano trasmesse periodicamente, a cura del Segretario, ai responsabili dei servizi, ai revisori dei conti e agli organi di valutazione dei risultati dei dipendenti, come documenti utili per la valutazione, e al consiglio comunale.
A tal proposito, certa dottrina
[2] ha evidenziato come nella nuova formulazione della norma in esame, il legislatore non si sia preoccupato di disciplinare esplicitamente i casi in cui il Segretario comunale assuma direttamente la responsabilità di alcuni servizi, ai sensi dell'art. 97, comma 4, lett. d), del TUEL. Si è osservato che l'art. 147 bis citato pone in rilievo essenzialmente due aspetti: l'autonomia del singolo ente locale nell'organizzare tale forma di controllo e il ruolo di 'direzione' rivestito dal Segretario comunale.
In realtà, l'aver precisato che il Segretario assume tale ruolo di direzione non significa necessariamente che detto soggetto debba intervenire direttamente su tutte le attività riferite a tale forma di controllo, dovendo comunque garantire il coordinamento complessivo delle attività.
E' evidente che, in ogni caso, occorre garantire il rispetto del principio generale di separazione tra il soggetto che ha redatto gli atti ed il soggetto che effettua il controllo successivo sui medesimi. Nei comuni di piccole dimensioni, infatti, in cui al Segretario possono essere attribuite le funzioni di Responsabile di determinati servizi, il Segretario si ritroverebbe contemporaneamente nella duplice veste di controllato e controllore, pregiudicando l'imparzialità dei controlli
[3].
In merito a tale aspetto, si sono ipotizzate diverse soluzioni, che gli enti stanno attualmente elaborando per fronteggiare il problema concreto.
Ad esempio, in alcuni regolamenti si prevede che il comune si convenzioni con altri enti e che, per gli atti adottati dal Segretario nella funzione di responsabile di servizio, il controllo sia esercitato dal Segretario dell'altro comune convenzionato, prevedendo, in sostanza, uno 'scambio' tra soggetti controllori.
Appare valida anche la scelta di individuare l'O.I.V (organismo indipendente di valutazione), al fine di evitare situazioni di conflitto di interessi, considerato che detto organismo è composto da membri esterni (e pertanto opera in totale autonomia e indipendenza
[4]). Si è evidenziata, in detta fattispecie, l'opportunità che il Segretario, che mantiene la direzione di tale controllo, definisca una programmazione annuale dell'attività di controllo che intende realizzare. Nell'ambito di tale programmazione, dovrà acquisire dall'O.I.V. l'elenco dei procedimenti e le modalità di selezione del campione di atti redatti direttamente dal Segretario e che l'organo stesso si impegna ad esaminare.
Altra possibilità è quella di demandare il controllo di tali atti all'organo di revisione al quale, ai sensi dell'art. 239 del TUEL, già spetta il compito di effettuare verifiche sulla regolarità amministrativa, contabile e finanziaria mediante tecniche motivate di campionamento.
La stessa Corte dei conti
[5] ha rilevato come l'assetto di compiti/funzioni in capo ai Segretari comunali e ai dirigenti non venga interessato dal recente d.l. 174/2012. La magistratura contabile ha ribadito l'autonomia normativa, organizzativa e regolamentare riconosciuta dal legislatore in capo agli enti locali, rimarcando la possibilità loro rimessa di selezionare la concreta articolazione delle modalità dei controlli, da calibrare anche con riferimento alle caratteristiche dimensionali dei diversi enti, adottando strumenti comunque atti ad evitare l'insorgere di ipotesi di incompatibilità e conflitto di interesse.
---------------
[1] Come rappresentato dall'ANCI, il controllo nella fase successiva va limitato alle categorie di provvedimenti più significativi da scegliere con idonea campionatura (cfr. parere del 22.01.2013).
[2] Cfr. Sistema 24 PA Risponde del 03.02.2013, Controllo regolarità amministrativa di Bertocchi Marco.
[3] La legge di conversione del d.l. 174/2012 è intervenuta proponendo alcuni correttivi al nuovo articolo 147-bis del TUEL, che rimuovono in buona parte gli aspetti più critici. Ad esempio si è previsto che i controlli di fase successiva affidati al Segretario sono effettuati solo sulla regolarità amministrativa, e non anche sulla regolarità contabile degli atti. Si sono poi sottratti ai controlli successivi del Segretario gli atti di accertamento di entrata e di liquidazione della spesa (cfr. Controllo di regolarità amministrativa e contabile: cosa cambia il decreto enti locali, pubblicato da Fabio Federici e consultabile sul sito: www.larevisionelegale.it).
[4] Cfr. art. 6, comma 5, della L.R. 16/2010.
[5] Cfr. sez. di controllo per la Regione Sardegna, deliberazione n. 28/2013/PAR
(11.04.2013 - link a www.regione.fvg.it).

NEWS

TRIBUTIFisco-comuni. Scambio dati per la Tares.
Operative le regole tecniche per determinare la superficie catastale su cui i contribuenti dovranno pagare la Tares. Sono state infatti definite le modalità per lo scambio dei dati fra Agenzia delle entrate e comuni per acquisire le informazioni relative alle superfici degli immobili a destinazione ordinaria per calcolare il nuovo tributo sui rifiuti e i servizi.

Lo rende noto un comunicato stampa dell'Agenzia diffuso ieri.
Nel comunicato viene precisato che in un documento pubblicato sul sito internet (www.agenziaterritorio.it) sono indicati i formati utilizzati dalle Entrate per fornire ai comuni le superfici calcolate in base alle regole contenute nel dpr 138/1998. Nel comunicato viene inoltre specificato che le procedure di interscambio tra comuni e Agenzia sono state definite con il provvedimento del direttore delle Entrate del 29.03.2013. L'attività di collaborazione tra i due enti serve a determinare la superficie catastale degli immobili, che i contribuenti in futuro dovranno dichiarare per il pagamento della nuova tassa sui rifiuti e i servizi. Quando saranno ultimate le operazioni di interscambio, la superficie catastale dovrà essere utilizzata da tutti i comuni per l'accertamento tributario.
Come previsto dall'articolo 14 del dl 201/2011, richiamato nel comunicato, in seguito alle modifiche apportate dall'articolo 1, comma 387, della legge di stabilità (228/2012), sono state fissate le modalità per lo scambio tra Agenzia delle entrate e comuni delle informazioni relativi alla superficie degli immobili a destinazione ordinaria, iscritti in catasto e corredate di planimetria. Questi dati sono determinati scorporando dalla superficie catastale, per le sole destinazioni abitative, quella relativa a balconi, terrazzi e aree scoperte pertinenziali e accessorie, comunicanti o non comunicanti.
Il tracciato per la comunicazione delle superfici per la Tares è stato predisposto sulla base di quello già in uso per l'applicazione della Tarsu. Per ciascuna unità immobiliare devono essere trasmessi identificativo catastale, intestatari catastali e indirizzo presente nella banca dati. I comuni sono tenuti a segnalare all'Agenzia eventuali scostamenti significativi di dati della superficie degli immobili a destinazione ordinaria (articolo ItaliaOggi del 13.04.2013).

APPALTI: DECRETO PAGAMENTI/ La circolare della Rgs. P.a., debiti online. Sulla piattaforma entro il 29/04.
Scatta una vera e propria corsa contro il tempo per le amministrazioni statali che non hanno ancora provveduto a registrarsi alla piattaforma elettronica necessaria a certificare i crediti certi, liquidi ed esigibili vantati nei confronti della p.a. per forniture, somministrazioni ed appalti, alla luce delle novità introdotte con il decreto legge n. 35/2013.
Entro il prossimo 29 aprile, infatti, le p.a. sono obbligate a registrarsi pena la sanzione pecuniaria di 100 euro di ammenda per ogni giorno di ritardo nella registrazione a carico del dirigente responsabile e una segnalazione per responsabilità dirigenziale e disciplinare nei confronti dello stesso.

È quanto ricorda la Ragioneria generale dello stato nel testo della recente circolare 10.04.2013 n. 17, emanata a seguito delle novità introdotte dal decreto legge sui pagamenti della p.a., in particolare dalle disposizioni contenute all'articolo 7.
Secondo tale norma, entro 20 giorni dall'entrata in vigore della stessa (09.04.2013), le amministrazioni interessate provvedono a registrarsi sulla piattaforma elettronica, accessibile all'indirizzo http://certificazionicrediti.mef.gov.it/. Una piattaforma già attiva dallo scorso anno, a seguito delle novità introdotte dal decreto legge sviluppo (il n. 1/2012), in materia di pagamento dei crediti commerciali delle p.a. e dalle successive regolamenti attuativi operati dal Mineconomia con i decreti del 22/05 e 24/09/2012.
L'iscrizione non è certo facoltativa, ma costituisce un vero e proprio obbligo per tutte le p.a., in quanto il comma 2 del ricordato articolo 7, sancisce che la mancata registrazione entro il 29 aprile rilevi ai fini della misurazione e della valutazione della performance individuale dei dirigenti responsabili e comporta altresì l'attivazione di un procedimento di responsabilità dirigenziale e disciplinare, così come prevedono gli articoli 21 e 55 del Testo unico sul pubblico impiego (il dlgs n. 165/2001). Ma non è finita. La norma, al fine di evitare inutili rinvii, prevede altresì che al dirigente responsabile sia comminata una sanzione pecuniaria di cento euro, per ogni giorno di ritardo nella registrazione sulla piattaforma elettronica.
E proprio su questo punto, la circolare firmata dal Ragioniere generale dello stato, Mario Canzio, non va tanto per il sottile quando ricorda che alcune amministrazioni centrali e «numerose amministrazioni periferiche» risultano ancora inadempienti alla predetta registrazione. In pratica, ogni amministrazione, secondo le proprie necessità, può individuare i soggetti ritenuti alla registrazione. A titolo esemplificativo, ad esempio, dovranno iscriversi i capi dei dipartimenti, i segretari generali e i responsabili delle strutture quali i prefetti e i dirigenti scolastici. Ma anche chi ha il potere di spesa o a chi compete la gestione delle risorse è tenuto a farlo.
Sul versante operativo, poi, il documento della Rgs precisa che la certificazione dei crediti vantati nei confronti della p.a. sia comunicata esclusivamente per il tramite telematico. Ne consegue che, dallo scorso 8 aprile, non potranno più essere accolte istanze presentate dai creditori in modalità cartacea. Riepilogando, il primo passo da effettuarsi sarà la registrazione, mentre, sulla base di un apposito modello che sarà reso disponibile sul predetto portale, le amministrazioni debitrici dovranno comunicare l'elenco completo dei debiti certi, liquidi ed esigibili maturati al 31 dicembre dello scorso anno e tuttora in essere, con l'indicazione dei dati identificativi del creditore.
La finestra temporale per potervi provvedere scatterà dall'01/06 al 15 settembre. Anche in questo caso, l'omesso o tardivo inserimento costituisce elemento rilevante sia ai fini della misurazione e valutazione della performance individuale dei dirigenti responsabili che per la responsabilità dirigenziale e disciplinare degli stessi (articolo ItaliaOggi del 13.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI: Linea del mef. Pregresso forse fuori dal Patto.
I pagamenti relativi a debiti pregressi effettuati dagli enti locali nel 2013 ma prima dell'entrata in vigore del dl 35 potrebbero non essere esclusi dal Patto.

È questa la linea interpretativa su cui sembra attestarsi il Mef e che potrebbe essere confermata ufficialmente nei prossimi giorni e tradotta in un correttivo al testo da presentare durante l'iter di conversione in legge.
Il dubbio si è posto agli operatori fin dalle prime ore successive alla pubblicazione del decreto sblocca-debiti (si veda ItaliaOggi del 10 aprile). La deroga al Patto prevista dall'art. 1, comma 1, include anche i pagamenti già effettuati anteriormente all'8 aprile (data in cui il provvedimento è arrivato in G.U.), ovvero consente di solo di chiedere lo sblocco dei debiti ancora da saldare?
La prima soluzione pare più aderente alla formulazione letterale della norma, che consente di escludere dal saldo di competenza mista tutti i pagamenti «sostenuti nel corso del 2013», purché relativi ai debiti certi, liquidi ed esigibili al 31/12/2012 o per i quali alla stessa data vi fosse almeno fattura o analoga richiesta di pagamento.
Anche il primo prospetto per le richieste di comuni e province messo online dal Mef sembrava confermare questa lettura: esso, infatti, parlava solo di debiti al 31/12/2012 senza escludere quelli già pagati.
Nelle scorse ore, tuttavia, il modello è stato modificato ed ora contiene campi distinti, rispettivamente, per i debiti già estinti e per quelli ancora da pagare, individuando come discrimine temporale proprio l'8 aprile.
Tali modifiche sembrano rivelare l'intenzione di autorizzare la detrazione dei soli pagamenti effettuati in data successiva. Da via XX settembre potrebbe arrivare a breve una conferma ufficiale e non è esclusa la presentazione di un emendamento in tal senso durante i prossimi passaggi parlamentari (articolo ItaliaOggi del 13.04.2013).

TRIBUTIIl non uso salva dalla Tares. Esenti unità senza servizi, sia private sia industriali. Le linee guida del Mef. Che però confliggono con la relazione al decreto 201/2011.
Gli immobili inutilizzati destinati ad abitazioni private o ad attività commerciali e industriali non sono soggette al pagamento della Tares. Il ministero dell'economia e delle finanze, nelle linee guida che ha fornito ai comuni sulla corretta applicazione della nuova tassa sui rifiuti e i servizi, ha preso una posizione netta precisando che non sono soggette al pagamento le unità immobiliari prive di mobili e di allacci alle reti idriche ed elettriche, che di fatto non vengono utilizzate.
Questa tesi, però, non è in linea con quanto sostenuto nella relazione ministeriale di accompagnamento alla norma che disciplina il tributo (articolo 14 del dl 201/2011). Nella relazione viene richiamato il consolidato orientamento della Cassazione che ha chiarito quali sono i locali e le aree non suscettibili di produrre rifiuti. Per i giudici di legittimità sono esclusi dal prelievo solo quelli oggettivamente inutilizzabili, vale a dire gli immobili inagibili, inabitabili, diroccati, interclusi, in stato di abbandono.
Dall'interpretazione contenuta nelle linee guida, dunque, emerge che il ministero non è d'accordo con se stesso. Nelle istruzioni allegate al prototipo di regolamento Tares, infatti, viene indicato che non sono soggetti al tributo i locali e le aree che non possono produrre rifiuti o che non comportano, «secondo la comune esperienza, la produzione di rifiuti in misura apprezzabile per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati». E tra le unità immobiliari escluse dal prelievo rientrano quelle «adibite a civile abitazione prive di mobili e suppellettili e sprovviste di contratti attivi di fornitura dei servizi pubblici a rete».
Nella relazione sull'articolo 14 del dl «salva-Italia», che ha istituito il nuovo balzello, viene invece posto in rilievo che il legislatore, laddove assoggetta al tributo gli immobili «suscettibili di produrre rifiuti», ha inteso recepire «il consolidato orientamento della Corte di cassazione, riconducendo l'applicazione del tributo alla mera idoneità dei locali e delle aree a produrre rifiuti, prescindendo dall'effettiva produzione degli stessi».
In realtà, la Suprema Corte ha sempre posto dei limiti rigidi per l'esonero dal pagamento del tributo sui rifiuti, che è dovuto a prescindere dal fatto che il contribuente utilizzi l'immobile. Ex lege, vanno esclusi dalla tassazione solo gli immobili non utilizzabili (inagibili, inabitabili, diroccati). Non ha alcuna rilevanza la scelta soggettiva del titolare di non utilizzare l'immobile. Anche il mancato arredo non costituisce prova dell'inutilizzabilità dell'immobile e della inettitudine alla produzione di rifiuti. Un alloggio che il proprietario lasci inabitato e non arredato si rivela inutilizzato, ma non oggettivamente inutilizzabile.
Per la prima volta il principio è stato affermato con la sentenza 16785 del 30.11.2002. Regola ribadita con le sentenze 9920/2003, 22770/2009, 1850/2010 e altre. Da ultimo, sempre la Cassazione (ordinanza 1332 del 21.01.2013) ha stabilito che l'esonero dal pagamento del tributo non spetta neppure quando il contribuente fornisca la prova «dell'avvenuta cessazione di una attività industriale (nella specie: un oleificio)».
Anche il presupposto Tares, come la Tarsu, è l'occupazione, detenzione o conduzione di locali e aree scoperte a qualsiasi uso adibiti. Non sono soggetti solo gli immobili che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel corso dell'anno. Pertanto insuscettibili di produrre rifiuti, come quelli situati in luoghi impraticabili, interclusi o in stato di abbandono. Il contribuente può fare ricorso solo a prove vincolate per dimostrare che l'immobile sia inidoneo a produrre rifiuti e quindi non soggetto al pagamento.
È evidente che se i comuni si allineano alla tesi della Cassazione, richiamata nella relazione governativa alla norma di legge, ai contribuenti viene imposto di pagare la Tares anche nel caso in cui non producano rifiuti. Ma queste regole, con molta probabilità, daranno luogo a rilievi comunitari e a procedure d'infrazione per il mancato rispetto del principio «chi inquina paga» (articolo ItaliaOggi del 12.04.2013).

APPALTICentrale di committenza al via. Spacchettamento per i nuovi appalti.
Appalti spacchettati dopo la committenza unica. Dal 31.03.2013 la Centrale di Committenza è la modalità organizzativa attraverso la quale i comuni con popolazione inferiore a 5 mila abitanti «affidano obbligatoriamente a un'unica centrale di committenza l'acquisizione di lavori, servizi e forniture» ai sensi dell'art. 33, comma 3-bis, dlgs. 163 del 2006.

Sull'argomento è intervenuta anche la legge 13.08.2010, n. 136 («piano straordinario contro le mafie»), la quale stabilisce (all'art. 13) che con successivo decreto si sarebbero delineate le modalità per istituire in ambito regionale una o più stazioni uniche appaltanti (Sua), avente natura giuridica di centrale di committenza.
Ne consegue che il ciclo dell'appalto, così come delineato dal codice dei contratti e regolamento attuativo, ovvero programmazione-progettazione-affidamento-esecuzione viene a essere «spacchettato» fra due distinti soggetti e due responsabili diversi, con buona pace dell'unicità del Rup di cui all'articolo 10 del citato codice.
La tabella in pagina contiene in ordine cronologico le attività facenti capo ai «vecchi» responsabili unici di procedimento e ai nuovi responsabili delle Cdc. La suddivisione delle attività sviluppa il tracciato fissato dal dpcm 30.6.2011 e indica come passare dalla norma alla prassi operativa ovvero «chi fa cosa».
I Rup dei piccoli comuni mantengono la titolarità della fase «a monte» della programmazione dei lavori, servizi e forniture, della «progettazione del contratto» e la fase «a valle» della stipulazione ed esecuzione del contratto. La fase dell'affidamento diviene di competenza della Cdc, salvo naturalmente la verifica di disponibilità del prodotto o servizio presso la centrale «superiore» ovvero Consip spa.
Viene meno quindi l'impostazione originaria degli appalti, perché si perde l'univocità del responsabile del procedimento, derivante, per chi ne abbia memoria, dall'articolo 7 c. 1 della «vecchia» legge 109/94. È da sottolineare come questo profondo cambiamento non sia avvenuto attraverso un ripensamento strutturale della materia dei contratti, ma attraverso un comma, il 3-bis, aggiunto a un articolo in modo sottile e quasi «inconsapevole».
Infine si consideri che l'art. 33 parla di «gare bandite» da cui la riflessione che l'obbligo della gestione centralizzata sia precettivo per le procedure con confronto concorrenziale, mentre rimane in capo ai singoli comuni la facoltà di gestire autonomamente il procedimento contrattuale per l'acquisizione in economia, oppure nei casi per i quali la legge ammette la procedura negoziata diretta (cfr. artt. 56, 57, 125 dlgs n. 163/2006). In tal senso si è pronunciata anche la Corte dei conti Piemonte (Sez. Controllo n. 271/2012) (articolo ItaliaOggi del 12.04.2013).

PUBBLICO IMPIEGOPagella per i vigili urbani.
Arriva la pagella di tutti i comandi dei vigili urbani. Ma questa volta dovranno pagare dazio i servizi spendaccioni e non i soliti trasgressori.

È la conseguenza derivante dall'avvenuta pubblicazione del dpcm 21.12.2012 (G.U. n. 80 del 05/04/2013). Per la prima volta è stato analizzato il complesso e variegato mondo della polizia municipale per tentare di capire «cosa fanno» i vigili e quanto deve costare teoricamente un modello efficiente ed efficace di polizia locale.
La legge delega sul federalismo ha aperto le porte a questa difficile ricerca che è divenuta concreta con il dlgs 216/2010 che in pratica ha disposto che per arrivare al superamento del tradizionale concetto del costo storico dei sei servizi strategici degli enti locali (tra cui il servizio vigilanza), era necessario elaborare una ricognizione dei costi giusti, proporzionati alle reali esigenze del territorio.
Agli enti locali sono stati richiesti dati molto utili per confrontare la qualità del servizio erogato dai vigili in proporzione alle esigenze reali del territorio. L'esito? Una vera e propria pesatura dei singoli comandi.
Ma come evidenziato dalla commissione parlamentare per il federalismo fiscale della camera il 14 novembre scorso, i dati forniti non sono immediatamente fruibili. Oltre all'indicazione del coefficiente di riparto relativo al fabbisogno standard, specifica il documento, andrebbe evidenziata per ciascun comune anche la spesa effettivamente sostenuta dall'ente stesso per tali servizi. Al momento, un passo avanti per organizzare meglio i rapporti di forza in caso di unioni di comuni e convenzioni (articolo ItaliaOggi del 12.04.2013).

APPALTI - INCARICHI PROFESSIONALIContributi alla luce del sole. Dal 20 aprile trasparenza anche per incarichi e appalti. Ecco cosa cambierà con l'entrata in vigore del decreto legislativo n. 33 del 2013.
Cambia la pubblicità per contributi, incarichi e appalti. Il 20 aprile prossimo entrerà in vigore il dlgs 33/2013, decreto legislativo sul riordino della trasparenza, che spazza via l'articolo 18 del dl 83/2012, convertito in legge 134/2012, sostituito dagli articoli 26 e 27 del nuovo decreto.
In sostanza, il legislatore, sia pure con notevole confusione, distingue più nettamente le fattispecie di pubblicità che fino al 4 aprile scorso erano tutte comprese nell'abolito articolo 18: contributi, incarichi di collaborazione e appalti.
Contributi. È la fattispecie di provvedimenti più chiara. Non vi è alcun dubbio che gli articoli 26 e 27 si riferiscano a procedure mediante le quali le amministrazioni pubbliche assegnano «sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari alle imprese, e comunque vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati», in applicazione dell'articolo articolo 12 della legge 241/1990, se di importo superiore a mille euro.
In questo caso, si pubblicano senza alcun problema i dati elencati dall'articolo 27, comma 1, anche se occorre precisare che detta elencazione non menziona i provvedimenti di assegnazione, che, come vedremo in seguito, sono essenziali.
Incarichi di collaborazione. La nuova formulazione dell'articolo 26 del dlgs 33/2013 elimina il riferimento contenuto, precedentemente, nel comma 1 dell'articolo 18 ai «compensi a persone, professionisti, imprese ed enti privati». Dunque, gli incarichi professionali di collaborazione e consulenza, prima inclusi nell'articolo 18, sembrano estrapolati. In effetti, la disciplina della pubblicità degli incarichi di collaborazione esterna si riscontra prevalentemente nell'articolo 15, commi 2 e 3, del decreto di riordino, i quali sostituiscono l'articolo 1, comma 127, della legge 662/1996 e l'articolo 3, comma 18, della legge 244/2007, anch'essi aboliti.
Tuttavia, l'articolo 27, comma 1, continua a citare tra i dati da pubblicare il «curriculum del soggetto incaricato». Ora, poiché nell'ambito dell'erogazione di contributi e sussidi non vi è alcun soggetto «incaricato», e visto che la gran parte delle informazioni da rendere note ai sensi dell'articolo 15 coincidono con quelle richieste dall'articolo 27, comma 1, è corretto ritenere che per quanto riguarda gli incarichi esterni l'elenco dei dati da pubblicare sia quello previsto dall'articolo 27, comma 1, integrato con gli specifici elementi richiesti dall'articolo 15: in particolare, la «ragione dell'incarico».
Appalti. Gli articoli 26 e 27 non contengono più alcun riferimento indiretto agli appalti. L'elenco dei dati da pubblicare previsto dall'articolo 27, comma 1, alla lettera h) non contiene più il periodo, presente invece nell'abolito articolo 18, «nonché al contratto e capitolato della prestazione, fornitura o servizio». Dunque, gli articoli 26 e 27 non disciplinano la pubblicità degli appalti.
E questo è confermato dall'articolo 37 del decreto di riordino, il quale in modo espresso sancisce che la pubblicità relativa agli appalti di lavori, forniture e servizi è contenuta esclusivamente nelle specifiche norme del dlgs 163/2006 e nell'articolo 1, comma 32, della legge 190/2012 (legge «anticorruzione»).
Efficacia. Altra rilevantissima modifica apportata dal dlgs 33/2013 rispetto all'abolito articolo 18 concerne la condizione di efficacia, connessa alla pubblicazione dei dati. La norma abolita stabiliva che detta pubblicazione condizionasse l'efficacia del «titolo legittimante»; ciò significava che occorreva pubblicare il contratto o la convenzione regolanti i rapporti di appalto, collaborazione o contributo (era totalmente erronea la tesi che il titolo legittimante potessero essere le fatture).
L'articolo 26, comma 3, del decreto di riordino, invece, stabilisce che la pubblicazione costituisce «condizione legale di efficacia dei provvedimenti che dispongano concessioni e attribuzioni di importo complessivo superiore a mille euro nel corso dell'anno solare al medesimo beneficiario». Sparisce, quindi, il riferimento al titolo legittimante.
Occorre, allora, pubblicare il provvedimento di assegnazione (delibera, determina) e tale pubblicazione lo rende efficace, non dunque, la pubblicazione all'albo pretorio, che resta in ogni caso necessaria. Pertanto, sebbene l'articolo 27, comma 1, non li menzioni nel suo elenco di dati da pubblicare, è evidente che i provvedimenti di assegnazione dei contributi o sussidi, nonché degli incarichi di collaborazione, debbono essere necessariamente pubblicati, così da permettere l'acquisizione di efficacia.
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La Consip non è sempre obbligatoria.
Nessun obbligo di adesione alle convenzioni Consip per gli enti locali, tranne che per le forniture di energia, gas, combustibili e telefonia; è invece obbligatorio il rispetto dei parametri-qualità prezzo desunti dalle convenzioni stipulate dalle centrali di committenza.
È questo il quadro che si trae dalla lettura delle norme che si sono succedute in questi ultimi mesi e sulle quali sono sorte, in sede interpretative, alcune tesi difformi che meritano di essere meglio chiarite e specificate alla luce della normativa vigente.
In sintesi la situazione è tale per cui, alla luce del decreto c.d. spending review bis (legge 94/2012 di conversione del dl 52/2012), che ha rafforzato l'obbligo, per tutte le p.a., di fare ricorso alle convenzioni Consip per gli acquisti, ai sensi dell'art. 1, c. 499, della legge 296/2006, come modificato di recente dalla stessa legge 94, effettivamente esistono da un lato l'obbligo di adesione alle convenzioni Consip per le sole amministrazioni statali (tranne per quelle operanti nel settore dell'istruzione: scuole e università) e dall'altro l'obbligo di utilizzo delle convenzioni stipulate dalle centrali regionali da parte del servizio sanitario nazionale.
Per gli enti locali (ma sono esclusi gli enti con popolazione fino a 1.000 abitanti, o a 5.000 per i comuni montani), invece, i paletti sono due: utilizzare i parametri di qualità e prezzo, sia delle convenzioni stipulate dalla centrale di committenza statale o da quelle regionali, come limiti massimi per la stipulazione dei contratti; aderire alle convenzioni Consip per i contratti di fornitura di energia elettrica; gas; carburanti rete e carburanti extra-rete; combustibili per riscaldamento; telefonia fissa e telefonia mobile (le precise categorie merceologiche sono indicate dall'art. 1 c. 7, del dl 95/2012).
Sull'aggiudicatario dei contratti.
C'è poi, sull'altro versante (privato), l'obbligo di pagamento di una commissione non superiore all'1,5% del valore del contratto per l'aggiudicatario delle convenzioni stipulate da Consip, per l'aggiudicatario di gare su delega bandite da Consip nell'ambito del Programma di razionalizzazione degli acquisti del Dipartimento dell'amministrazione generale, del personale e dei servizi, nonché per l'aggiudicatario degli appalti basati su accordi quadro (articolo ItaliaOggi del 12.04.2013.

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: OSSERVATORIO VIMINALE/ Il caso: annullamento della delibera sul piano particolareggiato. Referendum in progress. È dell'ente l'interpretazione sulla valenza.
È possibile indire un referendum popolare al fine di annullare le scelte adottate dall'amministrazione comunale con una delibera avente per oggetto una variante ad un piano particolareggiato?

L'istituto dei referendum locali, contemplato dall'art. 8, comma 3, del Tuoel, costituisce un tipico istituto di democrazia diretta, una forma di partecipazione popolare di carattere opzionale, in quanto si configura quale elemento meramente eventuale e facoltativo dello statuto comunale.
Rispetto alla normativa previgente è stata ampliata la valenza dell'istituto del referendum popolare, attualmente configurabile non solo più come consultivo (unica tipologia prevista nell'originale formulazione della legge n. 142 del 1990, volta a consentire la consultazione della popolazione su rilevanti questione di interesse locale), ma anche come abrogativo (di provvedimenti a carattere generale degli organi istituzionali e burocratici dell'ente), propositivo (per approvare proposte di atti avanzate dalla stessa amministrazione o da altri soggetti), confermativo, di indirizzo e oppositivo-sospensivo.
Come sottolineato dalla prevalente dottrina, il dlgs n. 267/2000 nulla dice circa l'effetto dell'esito del referendum consultivo e gli statuti comunali tendono a escludere che l'esito sia vincolante per l'amministrazione, preferendo precisare che l'ente locale possa discostarsi dallo stesso, con adeguata motivazione, al fine di tutelare la piena autonomia politica del consiglio.
In tal senso, si è anche affermato che il potere statutario in materia resta ampio con riguardo all'oggetto del referendum (che è sufficiente che rientri tra le materie di competenza esclusiva dell'ente), alla determinazione del numero dei partecipanti per la sua validità a alla possibilità di prevedere effetti consequenziali per l'amministrazione locale legati all'esito del referendum con il solo limite della conservazione del potere decisionale in capo agli organi di governo.
La giurisprudenza amministrativa, inoltre, ha affermato che «il referendum consultivo impone solo all'amministrazione che lo ha indetto di tener conto della volontà popolare, ma non esplica alcun effetto sull'azione amministrativa che ne è stato oggetto, né tanto meno su vicende successive o di altre amministrazioni, né la volontà popolare espressa con il referendum è idonea ad attribuire all'ente locale poteri estranei alla sfera di attribuzione fissate con legge» (Consiglio di stato, sez. VI, 20.05.2004, n. 3263 e Tar Puglia , Bari, sez II, 10.03.2003, n. 1098).
Tale orientamento è stato confermato da successive pronunce (Consiglio di stato, sez IV, 29.07.2008, n- 3769 e Tar Veneto, Venezia, sez. II, 21.03.2007, n. 807), nelle quali si legge che «le consultazioni costituiscono strumento di partecipazione popolare all'elaborazione delle scelte amministrative, non strumento di verifica a posteriori da parte dei cittadini di scelte già definite con formali provvedimenti amministrativi (_). L'attività consultiva, per propria natura, deve precedere l'attività decisionale, non seguirla».
Nel caso in esame, inoltre, lo Statuto del comune prevede l'istituto del referendum consultivo «su questioni di interesse generale della comunità» e rinvia ad apposito regolamento la disciplina dei termini e delle modalità per l'indizione della consultazione referendaria.
In particolare, lo statuto prevede che spetta al collegio dei garanti la «valutazione sull'ammissibilità dell'iniziativa referendaria...» con le procedure indicate dal regolamento per lo svolgimento delle consultazioni referendarie. Tuttavia le argomentazioni formulate possono costituire meri elementi di valutazione della questione, in quanto soltanto il consiglio comunale, nella sua autonomia e in quanto titolare della competenza a dettare le norme cui conformarsi in tale materia, è abilitato a fornire un'interpretazione autentica delle norme statutarie e regolamentari di cui l'ente è dotato (articolo ItaliaOggi del 12.04.2013).

ENTI LOCALINomina revisori trasparente. Certezza sui nominativi estratti dalle prefetture. Ecco come funziona la procedura (e quali sono i dubbi ancora da dirimere).
Nelle ultime settimane vari colleghi hanno sottoposto alla nostra associazione un problema solo in apparenza banale: come fare a sapere con certezza i nominativi estratti dalle prefetture in occasione dei rinnovi degli organi di revisione di comuni e province?
La domanda, in realtà per niente oziosa, riguarda la trasparenza di tutta la procedura che porta alla nomina effettiva con l'assunzione dell'apposita delibera da parte dell'organo consiliare. Il decreto 15.02.2012 n. 23, prodigo di dettagli per quanto riguarda formazione ed aggiornamento dell'elenco dei revisori, in realtà lascia un'ampia zona grigia nella «Scelta dell'organo di revisione economico-finanziario»: l'articolo 5 si ferma infatti alla comunicazione che la prefettura deve fare all'ente locale dell'avvenuta estrazione (e del relativo verbale) e rimanda per la nomina alla delibera del consiglio dell'ente stesso, previa verifica di eventuali cause di incompatibilità (art. 236/Tuel) o di altri impedimenti (artt. 235 e 238/Tuel), «ovvero in caso di eventuale rinuncia», locuzione questa che non brilla certamente per chiarezza, non fosse altro per la difficile integrazione con il testo del comma 4 della norma.
Sulla «eventuale rinuncia» in realtà si addensano i principali dubbi: chi ne effettua l'accertamento e, soprattutto, con quali formalità?
Dalla consultazione dei colleghi responsabili delle sedi Ancrel è emerso un quadro di sicura buona volontà da parte del personale degli enti locali, che tuttavia non consente di delineare un percorso formale di assoluta sicurezza per i revisori estratti.
La «prassi» che si sta affermando è quella del contatto telefonico, con il quale il responsabile del servizio ragioneria (di solito) comunica al revisore che il suo nominativo è stato estratto e chiede se intende accettare la nomina. Primo problema: e se il telefono è spento o non raggiungibile?
Se l'interessato comunica telefonicamente l'immediata disponibilità (con i tempi che corrono i rifiuti riguardano solo piccoli comuni lontani dalla residenza del revisore, poco appetibili per la modesta entità del compenso) resta però il problema della formale conferma di questa disponibilità, che di solito si chiede di esprimere con un semplice messaggio di posta elettronica.
A ben vedere, un funzionario comunale poco ligio al dovere non avrebbe particolare difficoltà a «scorrere» i nominativi estratti sino ad arrivare a quello gradito (semmai ci fosse): senza una stabile e rigorosa forma di pubblicità delle nomine da parte delle Prefetture chi verrebbe mai a sapere se il suo nome è stato estratto o meno?
In assenza di indicazioni nel decreto 15.02.2012 n. 23 e nei successivi provvedimenti, purtroppo le prefetture oggi si attengono esclusivamente a quanto è scritto, procedendo per il resto in ordine sparso, ma con solo rari casi di pubblicità nella forma più immediatamente accessibile a tutti, ovvero la pubblicazione dei verbali di estrazione sul sito internet. Né sul punto si hanno riscontri presso le Sezioni regionali della Corte dei conti, che pure sono particolarmente attente ed interessate alla questione.
Serve quindi un passaggio formale, da parte del Ministero dell'interno, che con un decreto chiarisca in via definitiva le regole per la trasparenza della fase finale della procedura di estrazione a sorte, imponendo alle prefetture di dare preventiva pubblicità alle estrazioni (e non solo comunicazione agli enti locali interessati), quindi di pubblicare sistematicamente tutti i verbali, magari proprio sul sito del Ministero, nella sezione dedicata ai revisori, e infine di dare immediata comunicazione del verbale a tutti i revisori estratti, utilizzando l'indirizzo di posta elettronica certificata con il quale è stato imposto di gestire l'iscrizione nell'elenco. La procedura si potrebbe addirittura completare con la conferma del revisore alla prefettura.
In ogni caso, con lo stesso strumento della Pec dovrà quindi essere gestita ogni successiva comunicazione tra l'Ente e i revisori nominati, in modo che ne sia garantita correttamente la tracciabilità, anche grazie all'obbligo di protocollazione da parte dell'ente. È una questione in apparenza solo formale, ma che deve trovare soluzione garantendo la più assoluta trasparenza al procedimento di nomina mediante estrazione a sorte, che finalmente –seppure non da solo– sta portando ad una piena indipendenza la figura del revisore dell'Ente, nonostante continue e rinnovate difficoltà nel reperire e gestire dati ed informazioni.
Resta infine da formulare un ulteriore auspicio: che questo procedimento possa essere quanto prima esteso a tutte le nomine pubbliche che riguardano l'organo di revisione e, in particolare, a tutti gli organismi partecipati, dove ancora troppo spesso si avverte forte la necessità di indipendenza (articolo ItaliaOggi del 12.04.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa strana mutazione degli Organismi di valutazione. Da presidio della performance a ennesima struttura burocratica.
Il protocollo sottoscritto con CiVIT il 06.06.2012, nelle intenzioni del Cndcec avrebbe dovuto aprire nuove opportunità professionali agli appartenenti alla categoria, tant'è che venne anche istituita un'apposita Commissione di studio.
L'iniziativa era stata costruita intorno al termine «performance» citato ben 109 volte nel decreto Brunetta (dlgs 150/2009), mentre le parole «misurazione» e «trasparenza» sono ripetute rispettivamente 31 e 85 volte. Ne conseguì che nella fase iniziale della propria attività CiVIT indirizzò le proprie delibere sugli organismi indipendenti di valutazione (OIV) in funzione del più ampio ciclo della performance (art. 4, dlgs 150).
A seguito della nomina ad Autorità nazionale anticorruzione (legge 190/2012), però, CiVIT ha nei fatti privilegiato quest'ultima tra le funzioni attribuitele dall'art. 13 del dlgs 150, anche per un'oggettiva carenza di trasparenza e riferimenti certi in materia. In particolare negli enti locali, le delibere successive hanno spinto verso un'eccessiva burocratizzazione le loro strutture organizzative, spesso sottodimensionate agli adempimenti richiesti dalla legge 190/2012 e (sulla trasparenza) dall'art. 18 del dl 83/2012.
Per colpire gli enti che non operano correttamente, sono stati catapultati indietro di 20 anni quelli da sempre ben gestiti, ma soprattutto, in entrambi i casi ci si è allontanati dall'idea di performance costruita sull'efficienza, sull'efficacia e sull'economicità della gestione per avvicinarla a quella del semplice rispetto della norma, in cui il contenuto dei commi 1 e 3 dell'art. 11 dlgs 150/2009 è qualificato dal legislatore come livello essenziale delle prestazioni erogate. A meno che, con le dovute eccezioni, correlare la performance dell'ente con quanto emergerà dall'imminente esordio dei fabbisogni standard (legge 216/2010) possa significare qualcosa di più dell'essere sopra o sotto una mediana costruita su dati storici senza tener conto dell'apporto qualitativo e dell'outcome dell'azione gestionale.
Nel contesto descritto, la deliberazione di CiVIT n. 12 del 27/02/2013, con oggetto «requisiti e procedimento per la nomina dei componenti degli OIV», dà un impulso diverso rispetto al passato (delibere nn. 4/2010, 107/2010, 21/2012, 23/2012, 27/2012 e 29/2012) aprendo di fatto a chiunque di poterne far parte e accantonando i temi della performance nelle corde degli aziendalisti e asse portante della riforma Brunetta. Oltre alla composizione, al p.9 la delibera 12 presenta altre criticità quali l'esclusività e l'operare nella stessa area geografica. Conseguentemente nessun componente potrà più appartenere a più OIV o NdV a meno che, precisa CiVIT, si tratti di incarichi in enti di piccole dimensioni che trattano problematiche affini e che operano nella stessa area geografica, anche in relazione alla valutazione complessiva degli impegni desumibili dal curriculum. Tutti elementi apprezzabili soggettivamente e che non potranno che scontentare i destinatari.
CiVIT tra le righe evidenzia come la maggior parte degli OIV non funzioni correttamente, così come gli enti locali sono ancora troppo burocratizzati (è la stessa CiVIT ad aver rilevato che alcune amministrazioni hanno effettuato per ben 340 volte comunicazioni diverse relative allo stesso adempimento). Allora occorre dare seguito ai protocolli sottoscritti dalla Commissione con le associazioni degli attori in campo affinché si lavori su codici etici. Infatti chi ci dice che il componente di un solo OIV (esclusività) non sia poi assorbito da altri incarichi professionali? Occorre stabilire cosa devono fare veramente questi organi e non diventare in via residuale chi alla fine svolge controlli e adempimenti perché nelle amministrazioni pubbliche non si trova nessun altro disponibile.
Occorre inoltre stabilire compensi adeguati se si pretende l'esclusività. Una Regione italiana riconosce ben 135 mila euro al componente dell'OIV, mentre da un'altra indagine sembra che alcuni dei componenti degli OIV di altre regioni e ministeri non siano in regime di esclusiva. In più, la previsione di operare nella stessa area geografica lascia intendere una presenza assidua dell'OIV presso l'ente, non tenendo però conto degli attuali strumenti di mobilità. Da quanto su riportato agli enti locali conviene conservare i NdV (a cui non si applica la delibera 12 commentata) affinché possano esercitare la propria autonomia.
Infine, occorre porre fine alle riforme senza essersi prima soffermati su cosa si vuole ottenere e come; infatti non è detto che performance e controlli di regolarità amministrativa siano antitetici, bisogna solo strutturarli in modo corretto e gli ingredienti ci sono tutti (articolo ItaliaOggi del 12.04.2013).

APPALTIArriva il Testo unico sulla trasparenza. Da pubblicare on-line i tempi per le fatture.
Con il Testo unico sulla Trasparenza, che entra in vigore il 20 aprile, per tutte le amministrazioni scatta l'obbligo di pubblicare on-line i tempi medi con i quali si garantiscono i pagamenti ai fornitori.

Lo ha annunciato ieri il ministro per la Pa e la Semplificazione, Filippo Patroni Griffi, illustrando le principali novità del decreto n. 33 del marzo scorso.
Si tratta di uno strumento utile in vista dei nuovi limiti che dovranno essere rispettati dopo il recepimento delle disposizioni europee e consentirà, ha spiegato il ministro, di misurare «la capacità di spesa delle amministrazioni». Le sanzioni per i dirigenti responsabili che possono incidere sui trattamenti accessori.
Il Testo unico mette insieme tutti gli obblighi di pubblicità a carico della Pa e attiva il diritto del cittadino al «controllo sociale» delle amministrazioni. Si prevede tra l'altro l'obbligo di pubblicare le situazioni patrimoniali di politici e parenti entro il secondo grado, pena una multa da 500 a 10mila euro. Vanno pubblicati anche gli incarichi dirigenziali e le consulenze altrimenti si applica una sanzione pari alla somma corrisposta (articolo Il Sole 24 Ore del 12.04.2013).

TRIBUTI: Imu, un po' di respiro. Dichiarazioni da fare entro il 30 giugno. Il dl 35 spazza via il termine dei 90 giorni dall'evento da denunciare.
Più tempo per la dichiarazione Imu. Che potrà essere presentata entro il 30 giugno dell'anno successivo a quello in cui si è verificato l'evento da dichiarare.
Lo prevede l'art. 10, c. 4, lett. a), del dl 35/2013 sui pagamenti dei debiti della p.a. che, spazzando via l'angusto termine di 90 giorni originariamente previsto dall'art. 13, c. 12-ter, del dl 201/2011, non solo rimuove le difficoltà rilevate dai contribuenti nell'assolvimento dell'obbligo dichiarativo, ma risolve anche i problemi sorti in ordine all'applicazione del ravvedimento dei versamenti di acconti e saldi.
Resta solo da capire se entro il 30/6/2013, come è ragionevole ritenere, sarà possibile presentare, senza incorrere in sanzioni, dichiarazioni eventualmente omesse per eventi accaduti prima dell'entrata in vigore del dl 35/2013 (09/04/2013).
La norma. L'art. 13, c. 12-ter del dl 201/2011 prevedeva, fino alla recente modifica, che la dichiarazione Imu dovesse essere presentata entro 90 giorni dalla data in cui si era verificato uno dei casi indicati nelle istruzioni ministeriali allegate al modello approvato con dm 30/10/2012. Il che poneva due ordini di problemi. Il primo riguardava il rischio che i contribuenti venissero a conoscenza dell'adempimento in ritardo, e quindi, in molti casi, oltre il termine utile per ricorrere al ravvedimento. Il secondo, come riportato nella relazione governativa al dl 35/2013, era connesso agli «insolubili problemi» sorti nell'applicazione del cd. ravvedimento lungo, non essendosi più in presenza di una “dichiarazione periodica”.
La sostituzione, ad opera dell'art. 10, c. 4, del dl 35/2013, della locuzione “entro 90 giorni” con quella “entro il 30 giugno dell'anno successivo”, fa sì che entro la fine di giugno il contribuente possa dichiarare tutte le variazioni rilevanti intervenute l'anno precedente. Proprio come accadeva per l'Ici, con l'unica differenza che adesso il termine non è più legato a quello di presentazione della dichiarazione dei redditi ma è a data fissa per tutti i contribuenti: entro il 30 di giugno dell'anno successivo.
Il ravvedimento. Essendo fuori discussione che la dichiarazione Imu non riguarda più un singolo evento bensì l'intera annualità d'imposta, con effetto anche per gli anni successivi, non dovrebbero più esservi più dubbi sul fatto che il termine lungo (art. 13, c. 1, lett. b, dlgs 446/1997), utile a sanare omessi, insufficienti o tardivi versamenti di acconti e saldi, vada individuato nel 30 giugno dall'anno successivo; con applicazione della sanzione ridotta del 3,75%. L'omissione dichiarativa potrà invece essere sanata entro il 28 di settembre con una sanzione pari al 10% dell'imposta dovuta (con un importo minimo di 5 euro).
Il raggio d'azione. Rimossi così gli ostacoli posti dal termine “mobile” dei 90 giorni, resta ora da capire se la modifica in esame potrà operare retroattivamente o se, invece, riguarderà le sole variazioni intervenute dal 9/4/2013 in poi. A favore di un'applicazione della novella anche nei casi di variazioni significative accadute dall'1/1/2012, militerebbe la circostanza che l'Imu è entrata in vigore l'anno scorso, e quindi si potrebbe ragionevolmente parlare di una “riapertura dei termini”, fino al 30/06/2013, per la presentazione di dichiarazioni riguardanti le variazioni intervenute nel 2012.
Sennonché l'assenza di una disposizione derogatoria rispetto alla data di entrata in vigore del dl 35/2013, oltre al fatto che non è stato contestualmente abrogato l'ultimo periodo del comma 12-ter dell'art. 13 del dl 201/2012, che ha fissato al 04/02/2013 il termine per la presentazione della dichiarazione relativa alle variazioni 01/01-06/11/2012, non rende certa l'applicabilità della nuova scadenza a tutte le situazioni accadute dall'01/01/2012. Esigenze di semplificazione dovrebbero tuttavia portare il legislatore, in sede di conversione del decreto, o il ministero, in sede interpretativa, ad un superamento di tale ostacolo (articolo ItaliaOggi dell'11.04.2013).

APPALTI: Pubblicità legale, l'Autorità vuole chiarezza sulle norme.
L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici chiede a governo e parlamento di fare chiarezza sul regime giuridico applicabile alla pubblicità legale dei bandi e avvisi di gara.

Con l'atto di segnalazione 09.04.2013 a governo e parlamento, concernente le modalità di pubblicazione di avvisi e bandi di gara sui quotidiani, l'Authority prende atto dei diversi interventi normativi succedutisi dal 2009 ad oggi e che hanno creato una situazione di scarsa chiarezza rispetto all'applicazione dell'obbligo di pubblicazione di avvisi e bandi per estratto sui quotidiani, così come previsto dall'art. 66, comma 7, del Codice dei contratti; da ciò l'auspicio di un intervento normativo che coordini le diverse disposizioni intervenute.
In particolare l'art. 66 prescrive, al comma 7, che la pubblicazione degli avvisi e dei bandi avvenga «per estratto su almeno due dei principali quotidiani a diffusione nazionale e su almeno due a maggiore diffusione locale nel luogo ove si eseguono i contratti».
Parimenti, per i contratti di lavori pubblici sotto soglia, mentre l'art. 122, comma 5, prevede che l'avviso sui risultati della procedura di affidamento ed i bandi relativi a contratti di importo pari o superiore a cinquecentomila euro siano pubblicati «per estratto, a scelta della stazione appaltante, su almeno uno dei principali quotidiani a diffusione nazionale e su almeno uno dei quotidiani a maggiore diffusione locale nel luogo ove si eseguono i lavori». La segnalazione si è resa necessaria in considerazione del fatto che l'applicazione delle norme sulla pubblicità di avvisi e bandi per l'affidamento dei contratti pubblici è materia che reca con sé importanti implicazioni sulla regolarità delle procedure di gara.
L'Autorità presieduta da Sergio Santoro ritiene, dunque, auspicabile un intervento normativo che coordini le diverse disposizioni intervenute, in linea con le misure di modernizzazione, semplificazione e digitalizzazione dell'attività amministrativa, introdotte con i recenti interventi normativi, in tema di spending review e di sviluppo (articolo ItaliaOggi dell'11.04.2013).

ENTI LOCALI - VARIL'indice nazionale delle Pec di imprese e professionisti.
Istituito presso il ministero dello sviluppo economico il pubblico elenco denominato «indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti» (Ini-Pec). Con la finalità di favorire la presentazione per via telematica delle istanze, delle dichiarazioni e dei dati, nonché lo scambio di informazioni e documenti tra la pubblica amministrazione, imprese e professionisti.
Due sono le sezioni in cui è suddiviso l'Ini-Pec: «sezione imprese» e «sezioni professionisti». Tutto questo grazie alla pubblicazione in gazzetta ufficiale del 09.04.2013 n. 83 del decreto del ministero dello sviluppo economico 19.03.2013 rubricato «indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti (Ini-Pec)».
Il decreto Mise è stato emanato in attuazione dell'articolo 6-bis, comma 1, del dlgs 07.03.2005, n. 82 concernente «codice delle amministrazione digitale», introdotto dall'art. 5, comma 3, del dl 18.10.2012, n. 179, convertito dalla legge 17.12.2012, n. 221. L'Ini-Pec è realizzato e gestito in modalità informatica dal Mise avvalendosi del supporto di InfoCamere. È incardinato in una infrastruttura tecnologica e di sicurezza, che rende disponibili gli indirizzi Pec per il tramite del portale telematico.
In fase di prima costituzione, la sezione imprese verrà realizzata attraverso l'estrazione dal Registro delle imprese delle informazioni relative alle imprese che risultano attive e che hanno provveduto al deposito dell'indirizzo Pec. Mentre la sezione professionisti verrà realizzata con il trasferimento in via telematica da parte degli ordini e collegi professionali a InfoCamere, degli indirizzi Pec detenuti, che dovrà avvenire entro l'08.06.2013.
Inoltre in fase di prima applicazione gli ordini e collegi professionali sono tenuti a trasmettere gli aggiornamenti dei dati da inserire nell'Ini-Pec, ovvero a confermare l'assenza di aggiornamenti degli stessi, ogni 30 giorni mentre InfoCamere procede all'estrazione di tutti gli aggiornamenti intervenuti nel Registro delle imprese, relativamente ai dati da inserire nell'Ini-Pec, ogni 30 giorni (articolo ItaliaOggi dell'11.04.201).

APPALTITutti gli ostacoli sulla via dei pagamenti. I Comuni devono censire il quadro del dovuto, le Regioni varare «manovre» di ripiano.
IL PARADOSSO/ Il via libera immediato alle sole risorse depositate nella «tesoreria statale» può escludere proprio i fondi destinati agli investimenti.

Il calendario fissato dal decreto sui debiti della Pubblica amministrazione è rapido, e i primi provvedimenti attuativi seguono lo stesso ritmo, come impone l'acutezza dell'emergenza. La strada che può condurre il creditore al traguardo dell'incasso, però, può essere lunga e tortuosa, costretta com'è a divincolarsi fra la rigidità dei vincoli europei che rimangono in campo e la mole di un problema che si è accumulato negli anni. Lungo il sentiero, si incontra più di un ostacolo, su cui si dovrà esercitare l'«esame attento» dei testi già annunciato dai partiti e l'azione di «semplificazione» chiesta a gran voce da imprese e operatori.
Le prime incognite si incontrano fin dall'inizio del percorso, tra i Comuni che potrebbero riavviare la macchina senza aspettare gli interventi dell'Economia previsti per la metà di maggio. Il decreto è in vigore da martedì, ma di pagamenti immediati non se ne vedono perché tutti i Comuni carichi di arretrati devono ricostruire il puzzle dettagliato dei debiti al 31 dicembre scorso, e su questa base misurare la richiesta di sblocco dal Patto di stabilità che andrà presentata entro fine aprile. Anche chi ha i soldi in cassa, s'inceppa in un primo nodo interpretativo.
Il decreto consente di liberare fino al 13% della liquidità «detenuta presso la tesoreria statale» (articolo 1, comma 5), ma gli amministratori spiegano in coro che solo una parte delle risorse finisce in quei conti. Oltre a tagliare drasticamente l'ossigeno finanziario che si può immettere nel sistema senza aspettare la distribuzione delle quote da parte dell'Economia, una lettura restrittiva della regola finirebbe dritta in un paradosso: fuori dalla tesoreria statale ci sono le entrate prodotte dai mutui accesi per gli investimenti, cioè proprio le risorse che il decreto intende sbloccare e che invece tornerebbero a incagliarsi.
L'altro vincolo, che impedisce di pagare più del 50% delle somme che si intendono sbloccare con il meccanismo del decreto, rischia poi di imbrigliare i pagamenti nei Comuni più in ordine, che hanno pochi arretrati da smaltire e quindi pochi "bonus" da chiedere. A regime, invece, l'impatto del provvedimento sui creditori dei diversi Comuni dipenderà dalla somma che ogni sindaco chiederà, e riuscirà ad ottenere, al tavolo delle deroghe al Patto; la somma, a sua volta, è legata alla quantità dei «debiti certi, liquidi ed esigibili» accumulati al 31 dicembre scorso, spesso tutti da ricostruire, e dai criteri che saranno adottati per distribuirla. Sindaci e Governo hanno tempo fino al 10 maggio per trovare metodi diversi, altrimenti si applicherà il parametro proporzionale che finirà per premiare chi è più "audace" nelle istanze.
Una quota importante dei debiti degli enti locali è legata poi a finanziamenti regionali, che si possono riattivare in pieno solo se i Governatori procedono in tempi record nel tour de force loro riservato dal secondo articolo del decreto. Per ottenere l'anticipazione dall'Economia, da girare per il 66% agli enti locali, le Regioni devono scrivere provvedimenti in grado di coprire anticipo e interessi, presentare un piano dettagliato dei pagamenti e firmare un contratto con l'Economia per lo sblocco delle risorse. Il tutto senza dare più spazio all'interno del Patto di stabilità ai pagamenti diretti delle Regioni (sono esclusi solo quelli "girati" agli enti locali), che nella nuova versione «eurocompatibile» in vigore dal 2013 ha effetti ancora da misurare.
Per i debiti statali, la premessa obbligatoria è un elenco cronologico dei debiti in ogni ministero. Una tranche verrà sbloccata a metà maggio, ma chi non salirà sul primo treno dovrà aspettare i piani di rientro e il loro passaggio in Parlamento e Corte dei conti. Entro metà dicembre (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.04.2013).

APPALTI: Trasparenza totale per le gare della Pa. Pubblicato il decreto legislativo.
Non solo avvisi di gara su Gazzette, giornali e web. Con la pubblicazione del decreto legislativo 33/2013 la trasparenza nel settore degli appalti diventa un imperativo a 360 gradi per le Pa. Con nuovi obblighi che includono la pubblicazione di dati su tempi e costi delle opere in aggiunta a un indicatore capace di fotografare anche i tempi medi di pagamento.
Il quadro è però ancora lontano dall'essere chiaro. Anzi. La doverosa richiesta di massima trasparenza -anche in campo urbanistico- rischia di trasformarsi in un labirinto di impegni per i funzionari pubblici. Con il doppio pericolo di sovrapposizione di obblighi già previsti dall'ordinamento (vedi l'invio dei dati sugli appalti di importo superiore a 50mila euro all'Osservatorio gestito dall'Autorità) e di impossibilità di dar seguito ai nuovi impegni per l'assenza dei provvedimenti di attuazione .
Il decreto fa scattare innanzitutto l'obbligo per le amministrazioni di attrezzare l'home page dei siti istituzionali con un'apposita sezione denominata «Amministrazione trasparente» in cui, ogni sei mesi, devono confluire le informazioni e i documenti a pubblicazione obbligatoria, tra cui i dati sulle aggiudicazioni degli appalti.
Per definire l'organizzazione della sezione il decreto ha previsto l'emanazione di linee guida da parte del ministero della Funzione pubblica, che però non sono state ancora pubblicate. Un'altra novità del decreto si intreccia con la cronaca sul ritardo di pagamenti delle Pa. D'ora in avanti le amministrazioni dovranno pubblicare con cadenza annuale un indicatore dei tempi medi di saldo delle fatture per acquisto di beni, servizi e forniture.
Obbligatorio rendere pubbliche anche le informazioni su tempi e costi di realizzazione delle opere. I dati dovranno essere poi forniti all'Autorità «che ne cura la raccolta e la pubblicazione nel proprio sito web, al fine di consentirne un'agevole comparazione». Il tutto sulla base di uno schema-tipo che però Via Ripetta non ha ancora messo a punto e diffuso. Operazione trasparenza anche per gli appalti affidati a trattativa privata, senza pubblicazione di un bando di gara. In questo caso, il decreto impone di pubblicare la delibera a contrarre.
Infine, il provvedimento punta a fare luce anche sulle operazioni di trasformazione urbana. La novità principale è l'obbligo di pubblicare i documenti relativi alle proposte di trasformazione, anche privata, nel caso in cui prevedano bonus volumetrici o cessione di aree o volumi per finalità pubbliche.
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LE NOVITÀ
Tempi e costi delle opere
Sui siti internet degli enti dovranno essere pubblicate le informazioni su tempi e costi di realizzazione delle opere pubbliche, oltre a un indicatore sulla «tempestività dei pagamenti», da rendere noto con cadenza annuale
Trasformazione urbana
Novità anche nel settore urbanistico. Diventa obbligatorio pubblicare i documenti relativi alle proposte di sviluppo, con bonus volumetrici e cessione di aree a privati, anche se non comportano variante rispetto alle previsioni dello strumento di pianificazione (articolo Il Sole 24 Ore del 10.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTIDECRETO PAGAMENTI/ Una importante novità sulle superfici pertinenziali. Aree scoperte senza la Tares. Si alleggerisce il carico tributario sulle imprese.
Il tributo sui rifiuti e i servizi alleggerisce il carico fiscale sulle imprese. Non sono più soggette alla Tares le aree scoperte non operative, che possono essere considerate pertinenziali o accessorie a locali tassabili.

Lo prevede l'articolo 10 del dl sui debiti della p.a. (35/2013), che ha apportato delle modifiche alla disciplina della Tares.
Prima dell'intervento normativo, infatti, le aree scoperte pertinenziali erano soggette a tassazione, mentre fino al 2012 erano escluse dal pagamento sia della Tarsu che della Tia.
L'articolo 14 del del dl «salva Italia»(201/2011), che dal 2013 ha istituito il nuovo regime di prelievo sui rifiuti, esonerava dal pagamento solo le aree scoperte pertinenziali di civili abitazioni e quelle condominiali. Con un aumento notevole della tassazione per i soggetti che svolgono attività commerciali e industriali, qualora i comuni avessero applicato a superfici di ampie dimensioni la tariffa relativa alla specifica attività esercitata dall'impresa. Non a caso più volte dalle pagine di questo giornale era stata sollecitata una modifica normativa, per escludere dal pagamento della tassa le aree pertinenziali o accessorie, cosiddette non operative (per esempio, il parcheggio di un supermercato o l'area di manovra di uno stabilimento industriale).
L'articolo 10, inoltre, ribadisce l'esonero dal nuovo balzello delle aree scoperte pertinenziali o accessorie a civili abitazioni e quelle condominiali, a meno che non siano detenute o occupate in via esclusiva. Si intende per area accessoria o pertinenziale quella che viene destinata in modo permanente e continuativo al servizio del bene principale o che abbia con lo stesso un rapporto oggettivamente funzionale. Per esempio, un cortile o un giardino condominiale, un'area di accesso ai fabbricati civili e così via.
In effetti, presupposto del tributo è il possesso, l'occupazione o detenzione di locali o aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani. Quello che conta è la mera idoneità dei locali e delle aree a produrre rifiuti, a prescindere dall'effettiva produzione degli stessi. Rimangono infatti soggette integralmente al pagamento della Tares tutte le aree scoperte utilizzate nell'ambito di attività economiche e produttive, che non abbiano natura pertinenziale. Del resto, per le aree scoperte cosiddette operative esiste una presunzione di produzione di rifiuti.
L'orientamento giurisprudenziale è univoco nell'affermare che tutte le aree, a parte le ipotesi di esclusioni contemplate dalla legge, sono potenzialmente produttive di rifiuti. Anche gli specchi acquei sono aree scoperte soggette al prelievo. In materia di Tarsu, il cui presupposto impositivo è analogo alla Tares, la Cassazione ha più volte sostenuto non solo che l'amministrazione comunale si possa avvalere della presunzione di produzione dei rifiuti, ma, addirittura, che il contribuente non possa fornire qualunque prova per superare la presunzione di tassabilità di tutti gli immobili (articolo ItaliaOggi del 10.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTIDECRETO PAGAMENTI/ Nota della Ragioneria, mentre affiorano i primi dubbi.
Gli enti locali subito in moto. Applicazione per ottenere il via libera ai versamenti.
Al via le comunicazioni degli enti locali per ottenere il via libera al pagamento dei propri debiti. Ma intanto affiorano i primi dubbi sull'applicazione dei nuovi meccanismi.

Da ieri, comuni e province possono trovare sul sito web della ragioneria generale dello Stato (al consueto indirizzo http://pattostabilitainterno.tesoro.it) l'applicazione per trasmettere al Mef la richiesta degli spazi finanziari in deroga al Patto ai sensi del dl 35/2013.
I tempi sono strettissimi: per partecipare al primo riparto (che riguarderà il 90% dei 5 miliardi a disposizione e sarà definito entro il 15 maggio) c'è tempo solo fino al prossimo 30 aprile. I ritardatari dovranno accontentarsi del restante 10% (oltre alle eventuali quote non assegnate al primo giro), che verrà distribuito entro il 15 luglio.
Interessati alla misura sono tutti gli enti soggetti al Patto 2013, compresi, quindi, anche i comuni fra 1.001 e 5.000 abitanti, che fino allo scorso anno erano esenti. Il dl, infatti, pur se riferito a debiti pregressi, non opera distinzioni sul punto.
Le richieste possono riguardare due tipologie di debiti di parte capitale: 1) quelli certi, liquidi ed esigibili alla data del 31/12/2012; 2) quelli per i quali, alla medesima data, sia stata almeno emessa fattura o richiesta equivalente di pagamento.
Al momento, non è del tutto chiaro se possano essere comunicati anche i dati relativi ai pagamenti già effettuati prima della pubblicazione del dl o se viceversa si possa chiedere lo sblocco solo dei debiti ancora da saldare. La prima soluzione pare preferibile e più aderente alla formulazione letterale dell'art. 1, comma 1, che consente di escludere dal Patto tutti i pagamenti relativi ai debiti di cui sopra, senza distinzione rispetto alla data in cui sono stati effettuati. La stessa norma, del resto, con riferimento specifico ai pagamenti delle province a favore dei comuni (anch'essi pienamente rientranti nella deroga) espressamente precisa «sostenuti nel corso del 2013». Anche il prospetto da compilare on-line sembra confermare questa lettura: esso, infatti, parla di debiti al 31/12/2012 senza escludere quelli già pagati.
In questa prospettiva, l'importo da comunicare entro il 30 aprile è quello risultante dalla ricognizione di tutti i debiti al 31/12/2012 appartenenti alle tipologie richiamate. Gli eventuali pagamenti già effettuati sono comunque validi sia ai fini dell'esclusione dal Patto, sia ai fini della verifica del rispetto del 90% al di sotto della quale scattano le sanzioni a carico dei responsabili (pari due mensilità di stipendio), ai sensi dell'art. 1, comma 4, del dl.
Sul punto, comunque, proprio alla luce delle sanzioni previste (che scattano anche in caso di mancata richiesta senza che ricorra un giustificato motivo) non sarebbe superfluo un chiarimento ufficiale.
Altri dubbi riguardano le anticipazioni di liquidità che potranno essere erogate dalla Cassa depositi e prestiti agli enti a corto di cassa. Anche in tal caso, la richiesta va trasmessa entro il 30 aprile (art. 1, comma 13, del dl). La formulazione finale del testo, a differenza delle bozze circolate nei giorni scorsi, non contiene più la formulazione «possono chiedere», ma quella «chiedono», il che potrebbe prefigurare un obbligo di adesione. In senso contrario, va rilevato, però, che la relazione di accompagnamento mantiene la precedente formulazione. La scelta è tutt'altro che agevole, specialmente per gli enti che vantano consistenti crediti (residui attivi) e che potrebbero trovarsi nella paradossale situazione di chiedere l'intervento della Cassa e poi di non averne più bisogno, una volta riscosso il dovuto.
Molti enti, in particolare, vantano crediti nei confronti delle regioni e non a caso il dl contiene misure ad hoc per consentirne lo sblocco (art. 1, commi 7 e 8). Da qui la domanda: le anticipazioni della Cassa potranno essere restituite anticipatamente? E se sì, a che condizioni? Le risposta dovrà esser fornita in tempi rapidi attraverso l'apposito addendum alla Convenzione in essere fra la Cassa e il Mef, che fra l'altro dovrà definire uno schema di contratto tipo per regolare i prestiti (articolo ItaliaOggi del 10.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTIAlle imprese creditrici lettera entro giugno. Le aziende possono controllare l'inclusione nell'elenco di chi sarà pagato e sollecitare gli enti inadempienti. Un aiuto dalla certificazione.
La pubblicazione del decreto «sblocca crediti» dovrebbe mettere liquidità a disposizione delle imprese. Queste, però, devono fare qualcosa o tutti gli adempimenti sono a carico delle pubbliche amministrazioni debitrici?
Il decreto «sblocca crediti» propone una complessa manovra che ricade, in termini di adempimenti, in larga parte sulla Pa. Essa, però, non è scollegata da un filone di norme che, già dalla metà dello scorso anno, si sono susseguite per provare a fornire -ai creditori delle Pa- strumenti alternativi per il soddisfacimento dei propri crediti.
È in tale ambito che essa si inserisce e, dunque, le nuove norme devono coordinarsi con quelle precedenti che, peraltro, anche le imprese farebbero bene ad avere presenti. In particolare, si richiama l'attenzione degli operatori economici sulle procedure (già operative da qualche mese) per ottenere la cosiddetta «certificazione dei crediti».
Richiedere questa attestazione non è obbligatorio –ed, anzi, il decreto n. 35/2013 ne prevede ora una sorta di «rilascio in automatico»– ma poiché i pagamenti che saranno sbloccati sono quelli che risultano negli archivi dell'amministrazione debitrice come «certi, liquidi ed esigibile», la certificazione mette al riparo da brutte sorprese, anche in merito allo «sblocca crediti». ... (articolo Il Sole 24 Ore del 10.04.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Perché la nuova legge sulla trasparenza nella PA può rivelarsi controproducente.
Con il duplice obiettivo di contrastare la corruzione e rendere più trasparenti le informazioni relative all'operato della pubblica amministrazione, il Governo Monti ha recentemente adottato il decreto legislativo 33 del 14.03.013, il cui intento è riordinare in un unico corpo normativo le numerose disposizioni in materia di obblighi di informazione, trasparenza e pubblicità.
Con questo obiettivo si è dato vita a un provvedimento che -attraverso i suoi 53 articoli- ha notevolmente aggravato gli adempimenti cui le Pubbliche Amministrazioni sono tenute, anche nell'ambito degli appalti pubblici. Dal prossimo 20 aprile, infatti, le stazioni appaltanti rientranti nell'ambito di applicazione soggettiva del nuovo Testo unico in materia di trasparenza dovranno pubblicare sui rispettivi siti istituzionali il contenuto, l'oggetto del provvedimento, la spesa prevista e gli estremi dei documenti contenuti nel fascicolo del procedimento con cui è stato scelto il contraente per l'affidamento di un appalto di lavori, servizi e forniture.
A ciò si aggiungono, tra gli altri, l'obbligo di pubblicazione dei documenti di programmazione pluriennale delle opere pubbliche, dei documenti su tempi, costi unitari e indicatori di realizzazione delle opere pubbliche completate nonché -con cadenza annuale- di un indicatore dei tempi medi di pagamento.
Non ci si può non chiedere allora quale sarà l'impatto delle nuove misure sull'operatività della Pubblica Amministrazione, e quindi sui tempi di realizzazione degli appalti pubblici. Senza parlare inoltre dei sacrifici -in termini di costi e risorse- che l'adempimento a tali norme inevitabilmente comporterà per gli uffici pubblici, e ciò peraltro in un periodo di scarsezza generale di risorse pubbliche.
Ma la novità più dirompente introdotta dal decreto n. 33 è che, al potenziamento degli obblighi di trasparenza, corrisponde il diritto di qualsiasi cittadino di richiedere, al responsabile della Pubblica Amministrazione incaricato, ì documenti e le informazioni oggetto di pubblicazione, nel caso in cui quest'ultima non sia intervenuta.
Si tratta di una novità assoluta, atteso che fino a oggi il diritto d'accesso non poteva prescindere dalla sussistenza, in capo al privato richiedente i documenti, di un interesse differenziato, attuale e concreto, che legittimasse la sua richiesta. L'art. 5 del Testo unico, invece, scardina questo principio e -in applicazione della massima esigenza di trasparenza- consente a chiunque di prendere visione dei documenti e dunque di «controllare» in modo generalizzato come la Pubblica Amministrazione abbia operato e come siano state utilizzate le risorse pubbliche.
Non è chiaro a rigore -dal testo della nonna- se tale possibilità possa trovare applicazione anche con riferimento alla materia degli appalti pubblici, legittimando chiunque -a prescindere dalla partecipazione dalla gara- a visionare la documentazione relativa al procedimento di selezione del contraente e dunque le offerte presentate dai concorrenti. Ora, una lettura della stessa in conformità con i principi dettati dal Codice degli Appalti risulta obbligata se non si vuole ledere quella libera e leale concorrenza che rappresenta l'obiettivo principale delle nonne nazionali e dei principi comunitari in tema di appalti pubblici, e per il conseguimento della quale è necessario che le amministrazioni aggiudicatrici non divulghino informazioni relative a procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, il cui contenuto potrebbe essere utilizzato per falsare il libero gioco della concorrenza.
Infatti, interpretare diversamente la norma porterebbe qualunque soggetto terzo, del tutto estraneo alla procedura di gara medesima, a entrare in possesso di informazioni riservate, senza che tali conoscenze possano al tempo stesso servire al soggetto che le ha acquisite per far valere i propri diritti e interessi in relazione a quella procedura concorrenziale. A questo punto viene da chiedersi se un controllo generalizzato sull'operato della Pubblica Amministrazione possa giustificare un tale sovvertimento di regole e principi consolidati del nostro ordinamento (articolo Milano Finanza del 09.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTIDECRETO PAGAMENTI/ Gli enti devono indicare scadenze e numero di versamenti
Tares, un debutto a conguaglio. Nuova tassa e maggiorazione si pagano all'ultima rata.

La nuova tassa sui rifiuti e la maggiorazione sui servizi si pagheranno con l'ultima rata, a conguaglio delle somme versate in acconto che sono determinate in base a quanto già versato dai contribuenti nell'anno precedente per Tarsu, Tia1 e Tia2. Inoltre la maggiorazione, fissata nella misura di 0,30 euro per metro quadrato, non può essere aumentata dai comuni e il gettito è riservato allo stato. Gli enti locali, con propria deliberazione, sono tenuti a indicare scadenze e numero delle rate di versamento del tributo. I cittadini dovranno essere informati, anche con la pubblicazione sul sito internet del comune, almeno 30 giorni prima della data del versamento. Per le prime due rate le amministrazioni locali possono inviare i modelli già predisposti per il pagamento di Tarsu, Tia1 o Tia2. Gli acconti verranno scomputati dal quantum dovuto, a titolo di Tares, per l'anno 2013. Concessionari e gestori del servizio potranno continuare a riscuotere il tributo.
Sono queste le novità sulla tassa sui rifiuti e i servizi contenute nell'articolo 10 del dl «pagamenti p.a.» (35/2013).
Con questa disposizione il legislatore anziché rinviare al prossimo anno l'istituzione del tributo, come richiesto a gran voce da più parti, considerato che il nuovo balzello comporterà un aumento della tassazione, si limita a differire l'applicazione delle regole di determinazione della Tares al momento del saldo, con la richiesta di conguaglio di quanto dovuto dal contribuente in sede di pagamento dell'ultima rata.
Per l'anno in corso, infatti, scadenze e numero delle rate di versamento sono stabilite dal comune con deliberazione adottata, «anche nelle more della regolamentazione comunale del nuovo tributo», e pubblicata sul proprio sito web almeno 30 giorni prima della data fissata per il pagamento. La prima rata, dunque, non dovrà più essere versata a luglio, come previsto dal dl rifiuti (1/2013), ma potrà essere anticipata, anche nel caso in cui il comune non abbia adottato il regolamento, il cui termine di scadenza è attualmente fissato al prossimo 30 giugno. È espressamente stabilito che per le prime due rate i comuni possono inviare ai contribuenti i modelli di pagamento precompilati già predisposti per il pagamento di Tarsu, Tia1 o Tia2 o indicare altre modalità di versamento giù utilizzate in passato. Non si capisce però quale sia l'alternativa all'invio dei bollettini di pagamento precompilati, visto che il tributo non può essere pagato in autoliquidazione, ma deve essere determinato dal comune. I versamenti in acconto verranno scomputati dalla somma dovuta, a titolo di Tares, per l'anno 2013, che verrà richiesta con l'ultima rata.
Una delle novità di rilievo del decreto è rappresentata dalla maggiorazione per i servizi indivisibili, che da quest'anno va pagata unitamente alla tassa sui rifiuti. La misura della maggiorazione è solo quella standard, pari a 0,30 euro per metro quadrato. Viene sottratta ai comuni la facoltà di aumentarla fino a 0,40 euro e di differenziarla per zone di ubicazione e tipologie di immobili. L'articolo 10 del dl, infatti, riserva questa entrata allo stato. Anche il versamento della maggiorazione va fatto in unica soluzione unitamente all'ultima rata del tributo, con il modello F24 oppure utilizzando apposito bollettino di conto corrente postale.
La norma, infine, consente alle amministrazioni locali di continuare ad avvalersi per la riscossione del tributo dei soggetti affidatari del servizio di gestione rifiuti. Pertanto, l'attività potrebbe essere affidata sia ai gestori del servizio di smaltimento rifiuti sia ai concessionari iscritti all'albo ministeriale, considerato che questa possibilità è già prevista dall'articolo 14 del dl «salva Italia» (201/2011) in seguito alle modifiche apportate dall'articolo 1, comma 387, della legge di stabilità (228/2012). Del resto nella nozione di «gestione» rientrano tutte le attività dell'ente, che vanno dall'accertamento alla riscossione.
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Più tempo per denunce e delibere Imu.
Si allungano i termini per la presentazione della dichiarazione Imu. Slitta al 30 giugno dell'anno successivo all'acquisto del possesso dell'immobile il termine per denunciarne la titolarità o per dichiararne le variazioni. I versamenti in acconto e saldo dell'imposta, inoltre, devono essere effettuati in base alle aliquote e detrazioni dell'anno precedente se delibere e regolamenti non vengono pubblicate sul sito del ministero delle finanze, rispettivamente, entro il 16 maggio o il 16 novembre. Nel caso in cui venga pagato l'acconto in base alle vecchie aliquote e detrazioni, il saldo dell'imposta dovuta per l'intero anno dovrà essere versato a conguaglio della prima rata, in base agli atti pubblicati sul sito informatico entro il 16 novembre di ciascun anno d'imposta. È quanto prevede l'art. 10 del dl «pagamenti p.a.».
Dichiarazioni. Viene dunque ampliato il termine per presentare la dichiarazione della nuova imposta locale. Il termine breve di 90 giorni, oltre a rendere più difficoltosi gli adempimenti dei contribuenti, si legge nella relazione ministeriale, ha «ripercussioni negative sull'applicabilità delle norme in materia di ravvedimento». Del resto l'articolo 13 del decreto legislativo 472/1997, che disciplina il ravvedimento operoso, come indicato nella relazione di accompagnamento al decreto, prevede due diversi termini «collegati alla natura periodica o non periodica della dichiarazione».
Delibere comunali e versamenti. Dal 2013 ha effetto costitutivo la pubblicazione sul sito del Mef delle delibere di approvazione di aliquote e detrazioni d'imposta, nonché dei regolamenti comunali. Questi atti devono essere inviati solo per via telematica e vanno inseriti nell'apposito Portale del federalismo fiscale. Delibere e regolamenti, tra l'altro, condizionano anche i versamenti del tributo. Il quantum dovuto per l'imposta è infatti legato all'avvenuta pubblicazione sul sito ministeriale degli atti generali comunali. Se la pubblicazione non viene fatta entro il 16 maggio, i contribuenti sono legittimati a calcolare l'acconto, nella misura del 50%, sulla base delle aliquote e detrazioni dei 12 mesi dell'anno precedente.
Per rispettare la data del 16 maggio è però imposto ai comuni di inviare delibere e regolamenti entro il 9 maggio dell'anno di riferimento. Qualora non vengano pubblicati entro il 16 maggio, il versamento della seconda rata, a saldo dell'imposta dovuta per l'intero anno, con eventuale conguaglio sulla prima rata, deve essere eseguito tenendo conto degli atti pubblicati sul sito ministeriale entro il 16 novembre. In tal caso i comuni devono trasmettere le loro determinazioni entro il 9 novembre. Altrimenti, imposta calcolata con riferimento a aliquote e detrazioni dell'anno precedente (articolo ItaliaOggi del 09.04.2013).

EDILIZIA PRIVATALa Scia senza imposta di bollo. Le Entrate esonerano dal tributo, salvo altre certificazioni. Risoluzione dell'amministrazione finanziaria sul nullaosta in materia di prevenzione incendi.
No all'applicazione dell'imposta di bollo per la presentazione della Segnalazione certificata d'inizio attività (Scia), purché la stessa non preveda il rilascio di un provvedimento o, comunque, di certificazioni. Imposta di bollo nella misura di euro 14,62 a foglio, invece, per nulla osta di fattibilità che i titolari delle attività soggette ai controlli di prevenzione possono richiedere, al comando dei vigili del fuoco.
L'Agenzia delle entrate, con la risoluzione 08.04.2013 n. 24/E, risponde al quesito posto dal dipartimento dei vigili del fuoco in ordine al corretto trattamento da riservare, ai fini dell'imposta di bollo, su alcuni documenti. In pratica si tratta del nullaosta di fattibilità che i titolari delle attività soggette al controllo dei vigili del fuoco possono richiedere preventivamente al comando provinciale vigili del fuoco e delle richieste di verifiche in corso d'opera al fine di attestare la rispondenza delle opere alle disposizioni in materia di prevenzione incendi, anche durante la loro realizzazione.
I tecnici di prassi sostengono il nulla osta di fattibilità rientra tra gli «Atti e provvedimenti_» di cui all'articolo 4 della tariffa allegata al dpr n. 642 del 1972, «_ rilasciati (_) a coloro che ne abbiano fatto richiesta» e, pertanto, è soggetto all'imposta di bollo nella misura di euro 14,62 per ogni foglio. Nel caso delle richieste di verifiche in corso d'opera, se a seguito della effettuazione di queste visite, l'amministrazione proceda all'emanazione di un atto amministrativo, sia l'istanza presentata dall'ente o dal privato che il relativo atto rilasciato devono essere assoggettati ad imposta di bollo, ai sensi degli articoli 3 e 4 della tariffa del dpr n. 642 del 1972.
Per quanto riguarda la Scia, l'Agenzia delle entrate con la risoluzione 05.07.2001 n. 109, ha avuto modo di chiarire, con riferimento alle denunce di inizio attività di cui alla legge 07.08.1990 n. 241, che le stesse «_ non sono da assimilare alle istanze volte ad ottenere l'emanazione di un provvedimento_ Non essendo prevista l'emanazione di un provvedimento (_) non è possibile far rientrare tra le istanze_» di cui al citato articolo 3 dpr n. 642 del 1972 «_ le denunce di inizio attività (_) che sono infatti da considerare come semplici comunicazioni e pertanto non soggette ad imposta di bollo_».
Oggi, sulla base di tale risoluzione del 2001, i tecnici di prassi ritengono che la Scia, non deve essere assoggettata a imposta di bollo, sempreché la stessa non preveda il rilascio di un provvedimento o, comunque, il rilascio di certificazioni (articolo ItaliaOggi del 09.04.2013 - tratto da www.fiscooggi.it).

ENTI LOCALI: Elaborazione buste paga. Comuni contro il Mef. Convenzioni sui cedolini, un aggravio di costi.
I comuni interessati alle convenzioni sull'elaborazione delle retribuzioni imposte dal MEF chiedono di poter recedere dalle stesse, per tornare a ricercare sul mercato le soluzioni più convenienti e adatte alle proprie esigenze. Continuano, infatti, a giungere all'Anci (Associazione nazionale comuni italiani) segnalazioni su disguidi e malfunzionamenti che stanno comportando anche un considerevole aggravio dei costi, in aperto contrasto con gli obiettivi di risparmio della spending review. A carico dell'Amministrazione, infatti, aumentano le spese e questo non va nella direzione voluta dalla norma volta alla razionalizzazione e al contenimento degli stessi.
Il Mef, imponendo i parametri qualità/prezzo, dimentica la delicatezza, non solo dell'elaborazione dei cedolini, ma della consulenza del lavoro a corollario, il valore dei dati contenuti e la necessita che siano elaborati da soggetti qualificati.
Il ministero dell'Economia impone all'Anci l'applicabilità dell'art. 5, comma 10 del dl n. 95/2012 agli enti locali. Il ministero ha infatti ritenuto che «sotto il profilo soggettivo, i comuni sono sottoposti alla disciplina in quanto inclusi tra le pubbliche amministrazioni (art. 1, comma 2, dlgs n. 165/2001), diverse da quelle statali già obbligate dalla previgente normativa».
Il ministero chiarisce che lo schema di convenzione disponibile costituisce «uno standard, da adattare e utilizzare in relazione alle specificità e caratteristiche delle singole amministrazioni». Inoltre il Mef ricorda agli Enti che il decreto ministeriale del 06.07.2012 ha definito «contenuti e modalità di attivazione dei servizi in materia stipendiale erogati dal Mef alle Amministrazioni pubbliche»; nel decreto e definito il contributo dovuto dalle singole amministrazioni al ministero in relazione al servizio erogato.
A seguito dell'entrata in vigore del dl n. 95/2012, «i servizi e il relativo contributo definiti nel decreto rappresentano parametri di prezzo/qualità che le Amministrazioni pubbliche diverse da quelle statali devono rispettare per l'acquisto degli stessi servizi sul mercato di riferimento». La comparazione avviene con riferimento ai costi di produzione dei servizi, diretti e indiretti, interni ed esterni sostenuti dalle amministrazioni. Pertanto, ai fini di una corretta comparazione, occorrerà prendere in considerazione i costi attualmente sostenuti dall'Amministrazione per l'acquisizione dei servizi resi dal ministero dell'Economia.
In questo scenario l'Anci, in una lettera inviata al ministero dell'Economia, chiede un urgente incontro finalizzato a valutare le problematiche segnalate dagli Enti che, sulla base del dl n. 95/2012 (spending review), hanno aderito ai servizi stipendiali forniti dal Ministero.
Tenuto anche conto della prossima scadenza del termine per la sottoscrizione delle convenzioni per l'erogazione del servizio a decorrere dal 2014, nella citata nota si ribadisce la necessita di un «approfondimento sul tema volto a valutare le modalità e i margini di risoluzione delle problematiche segnalate, rendendo, ove possibile, lo strumento della convenzione maggiormente flessibile in relazione alle specificità e caratteristiche delle singole amministrazioni».
Questo al fine di «dare piena e compiuta attuazione alle finalità di razionalizzazione dei costi sottese al dettato normativo e per consentire alle amministrazioni locali di usufruire, progressivamente, di servizi il più rispondenti possibili alle proprie specifiche esigenze» (articolo ItaliaOggi del 09.04.2013).

PUBBLICO IMPIEGORetribuzioni adeguate da maggio. Emissione straordinaria ad aprile per gli arretrati
Vecchi scatti pagati. Poi si vedrà. Il nuovo decreto annulla le progressioni del 2013.

È fatta. Il lungo slalom, durato quasi un anno, per portare a pagamento gli scatti di anzianità maturati nel 2011 è riuscito, tra manifestazioni, sindacati divisi, tentennamenti dell'amministrazione, risorse carenti, accordi. Il Tesoro (messaggio 051 del 5 aprile scorso) ha dato disposizioni perché gli aumenti contrattuali per il 2011 siano pagati da maggio e che ad aprile ci sia un'emissione straordinaria a copertura degli arretrati.
Il recupero dell'anno congelato dal decreto legge n. 78/2010 sarà valido ai fini giuridici per tutti i lavoratori della scuola, mentre i benefici economici, nell'immediatezza della conquista dello scalone, interessano circa 180 mila insegnanti, che vedranno crescere la busta paga di circa cento euro al mese. Sui 1400 euro gli arretrati.
Resta ora da recuperare il 2012, l'ultimo anno del blocco. Anche in questo caso andranno certificati i risparmi conseguiti dal sistema dopo i tagli della riforma Gelmini, si dovrà verificare se c'è capienza per dare gli aumenti oppure se si dovrà ricorrere, come avvenuto in questa circostanza, al fondo di funzionamento della scuola per coprire quanto mancava. Ma il decreto 78 consente di recuperare per via negoziale tutti gli anni di servizio del triennio congelato. E dunque, anche se sarà una trafila lunga, ci sono i margini perché si possa trattare, come fatto con l'intesa siglata il 13 marzo scorso.
Discorso diverso invece per il futuro. Nell'aria, infatti, c'è già aria di nuovi blocchi: il decreto del presidente della repubblica con il quale si dispone la proroga per il 2013/2015 del blocco dei contratti pubblici, e con essi di tutte le progressioni individuali, comprende gli scatti di anzianità nella scuola per il 2013. Il decreto, inviato per i controlli di rito al Consiglio di stato prima della firma definitiva, prevede all'art. 1, comma 1, lettera b), «la proroga al 31.12.2013, con effetto sull'anno 2014, dei blocchi introdotti dall'art. 9, comma 23, del dl 78/2010, riguardanti il personale docente, educativo ed Ata della scuola».
Il dpr si è reso necessario, si legge nella bozza di relazione tecnica, per conseguire i risparmi fissati dall'art. 16, comma 1, del dl 98/2011, convertito con modificazioni in legge 15.07.2011 n. 111. Si tratta, ha precisato il Tesoro, di obiettivi di risparmio, valutati in 2,7 miliardi di euro, che sono stati già scontati ai fini dell'indebitamento netto. Per cui senza il decreto ci sarebbe un buco nel bilancio dello stato. Insomma, anche se il premier Mario Monti non ponesse alla firma del capo dello stato Giorgio Napolitano il provvedimento, è il ragionamento del ministero del tesoro guidato da Vittorio Grilli, si tratterebbe solo di un rinvio, il nuovo governo non potrebbe fare a meno di adottarlo.
«Per noi il blocco degli scatti va rimosso senza far gravare il ripristino a carico del salario accessorio di altri lavoratori», attacca Mimmo Pantaleo, numero uno della Flc-Cgil, da sempre contrario a risoluzioni per via negoziale (infatti l'intesa all'Aran non reca la sua firma), «l'unica via di uscita è ottenere il ripristino dei rinnovi dei contratti».
Per Francesco Scrima, segretario della Cisl scuola, «lo sblocco degli scatti è il risultato di un'azione sindacale concreta e utile per tutti i lavoratori. Senza attendere l'arrivo di un presunto governo amico». Il segretario Uil scuola Massimo Di Menna ammette: «Abbiamo superato, sostenuti dalla mobilitazione del personale, una lunga serie di ostacoli posti dal governo, dal ministero, dalle lentezze di una amministrazione che non si fida di se stessa, per ripristinare un diritto...Ora si ricomincia».
Parla di «scelta utile a difesa dell'unico strumento di incremento oggi disponibile delle paghe dei lavoratori», Marco Paolo Nigi, numero uno dello Snals-Confsal, e intanto Rino di Meglio, coordinatore Gilda, chiede di superare l'attuale situazione concentradosi «sull'insegnamento attivo e la sua valorizzazione» (articolo ItaliaOggi del 09.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI: DECRETO PAGAMENTI/ Riparto in due tranche dei 5 mld di valore della deroga.
Patto di stabilità meno pesante. Esclusi i debiti di parte capitale corredati di fattura.

Esclusione dal Patto per tutti i debiti di parte capitale per i quali al 31/12/2012 vi sia stata almeno l'emissione della fattura. Riparto in due tranche dei 5 miliardi di valore complessivo della deroga: 90% entro il 15 maggio, il resto a luglio. Per gli enti che hanno cassa sblocco immediato dei pagamenti fino al 13% della liquidità disponibile al 31 marzo, per gli altri obbligo di accedere alla anticipazioni erogate dalla Cassa depositi e prestiti e margini più ampi per attivare le anticipazioni di tesoreria. Sanzioni a largo raggio per i responsabili dei servizi che si metteranno di traverso.
Sono queste (al netto del capitolo tributi, su cui si veda articolo a pagina 25) le principali novità per gli enti locali contenute nel testo finale del decreto 35/2013 sullo sblocco dei debiti della p.a.
Confermato l'allentamento del Patto 2013 per un importo pari a 5 miliardi di euro, ma il ventaglio dei pagamenti consentiti si allarga, oltre che ai debiti certi, liquidi ed esigibili al 31/12/2012, anche a quelli per i quali, entro tale data, sia stata almeno emessa fattura o richiesta equivalente di pagamento.
Nell'immediato, il via libera riguarda solo gli enti che hanno cassa, che potranno pagare fino al 13% delle disponibilità liquide detenute presso la tesoriera statale al 31 marzo. In attesa del decreto che distribuirà l'intero plafond, nessun ente, però, potrà pagare più del 50% degli spazi finanziari che intende comunicare al Mef. Il riparto avverrà in due tranches: il primo 90% entro il 15 maggio, sulla base delle richieste che gli enti dovranno trasmettere entro il 30 aprile mediante il sistema web della Rgs; il restante 10%, oltre alle eventuali quote non assegnate in precedenza, entro il 15 luglio, sulla base delle richieste pervenute entro il 5 luglio. L'assegnazione avverrà sulla base dei criteri definiti in Conferenza stato-città e autonomie locali entro il 10 maggio ovvero, in mancanza, su base proporzionale.
Gli enti dovranno effettuare pagamenti almeno per il 90% degli spazi finanziari concessi. In mancanza, scatterà una sanzione pecuniaria pari a 2 mensilità di retribuzione per i responsabili dei servizi interessati. Analoga sanzione è prevista in caso di mancata adesione alla procedura senza giustificato motivo. La competenza spetta alle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti, che potranno agire anche su segnalazione dei revisori del conti.
Confermato anche lo stanziamento di 2 miliardi per ciascuno dei prossimi 2 anni a favore degli enti a corto di liquidità. L'adesione al fondo diviene obbligatoria, come si evince dalla formulazione del provvedimento pubblicato in G.u., che contiene il verbo «chiedono», anziché «possono chiedere». Le sanzioni di cui sopra non sembrano direttamente applicabili alle ipotesi di mancate adesione, ma anche in tal caso potrebbero comunque emergere delle responsabilità a carico dei responsabili. Per le richieste è prevista una corsia preferenziale rispetto alla disciplina del Tuel: esse, infatti, andranno in deroga agli artt. 42 (sulla competenza del Consiglio), 203 e 204 (che limitano il ricorso all'indebitamento). Le anticipazioni saranno erogate dalla CcDdPp (anche in tal caso su base proporzionale, salvo diverso accordo) e andranno restituite al massimo entro 30 anni, a rate costanti e con un tasso pari a quello dei Btp quinquennali. Per gli enti beneficiari non sono più previsti il blocco degli investimenti e il tetto alla spesa corrente, ma solo l'obbligo di portare al 50% il fondo svalutazione crediti. Per il solo 2013 e sino al 30 settembre, inoltre, il tetto alle anticipazioni di tesoreria sale da tre a cinque dodicesimi, ma sarà compensato da un vicolo, pari all'eccedenza, sulle entrate tributarie (da Imu per i comuni, da imposta Rc auto per le province).
Giro di vite, infine, sull'obbligo di accreditamento alla piattaforma del Mef per la certificazione dei crediti, che dovrà essere completato entro 20 giorni dall'entrata in vigore del decreto (quindi entro il 28 maggio), a pena di sanzioni a carico dei dirigenti responsabili (articolo ItaliaOggi del 09.04.2013).

GIURISPRUDENZA

PUBBLICO IMPIEGOCassazione. Reato limitato al pubblico ufficiale - Illecito contestabile anche all'incaricato di pubblico servizio ma come estorsione.
Concussione con nuovi confini. Scatta l'induzione indebita quando il privato ha una convenienza economica.

Lo "spacchettamento" della concussione operato dalla legge 190/2012 (nuovo articolo 317 del codice penale) la fa ricadere di fatto nelle «situazioni sostanzialmente corrispondenti alla estorsione». Mentre la induzione indebita (articolo 319–quater) si configura, oggi, nel caso in cui al privato non sia minacciato un danno ingiusto e lo stesso sia quindi in grado di avere addirittura «una convenienza economica nel cedere alle richieste del pubblico ufficiale» evitando «l'adozione di atti legittimi della amministrazione» a suo carico.
Con una lunghissima motivazione la VI Sez. penale della Corte di Cassazione (sentenza 12.04.2013 n. 16566) torna sul tema del rapporto patologico tra Pa e privati cittadini per fissare le linee guida destinate alle corti di merito.
Il caso è quello, storicamente molto articolato, di una serie di illeciti imputati a un tenente colonnello della Guardia di Finanza dell'Ufficio operazioni del Piemonte, sospettato di aver "sollecitato" una lunga teoria di piccoli pagamenti ai danni di imprenditori del Nordovest. Uno dei motivi di ricorso della difesa riguardava proprio la qualificazione giuridica di alcuni fatti –non contestati– per i quali si chiedeva la derubricazione in «induzione indebita», la forma lieve "spacchettata" dalla riforma Severino.
La questione teorica a cui il relatore dedica larga parte è, alla luce del dato normativo, la compatibilità delle due nuove fattispecie, sia nella prospettiva del soggetto attivo (considerato che l'«incaricato di pubblico servizio» è oggi "immune" dalla concussione, rimasta per il solo «pubblico ufficiale»), sia anche nella prospettiva del privato "intimidito", che resta ancora vittima della «concussione» ma è oggi correo della «induzione indebita».
Sul primo punto –il comportamento minatorio dell'incaricato di pubblico servizio, non più punibile per concussione– è inevitabile ritenere che queste condotte ricadano oggi sotto l'ombrello del reato di estorsione: altrimenti, se restasse un'induzione indebita, paradossalmente ne dovrebbe rispondere anche il privato cittadino, che invece negli stessi casi ma di fronte a un "pubblico ufficiale" risulterebbe vittima.
Ma quali sono allora i limiti della induzione indebita? Per la Sesta sezione, sono la presenza di metus publicae potestatis, di pressione psicologica nelle modalità di «persuasione, prospettazione o convenienza del cedere alle richieste del pubblico ufficiale/incaricato di pubblico servizio, piuttosto che la minaccia in senso tecnico», circostanza questa che farebbe scattare la concussione (per il pubblico ufficiale) o la estorsione (per l'incaricato di pubblico servizio).
Dal punto di vista del privato cittadino, valgono ancora le conclusioni recenti della Corte (40898/11) per separare la corruzione (comportamento attivo) dalla concussione (posizione passiva). Nel primo caso i due soggetti «trattano su livelli paritari e si accordano per il pactum sceleris, nella concussione invece non si verifica la par condicio contrattualis perché, di fatto, è il pubblico ufficiale a dettare le regole "estorsive".
In sintesi, conclude il relatore, compie induzione passiva «chi per ricevere indebitamente le stesse cose prospetta una qualsiasi conseguenza dannosa che non sia contraria alla legge» e cioè non una "minaccia". Così delimitato l'ambito di azione, l'articolo 319–quater fa salva da un lato la concussione (a carico del pubblico ufficiale) e dall'altro l'estorsione (per l'"incaricato di pubblico servizio") tenendo in questi casi immune la vittima–cittadino privato.
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LA SENTENZA
In una situazione in cui, pur a fronte di un comportamento prevaricatore, il pubblico ufficiale prospetta una situazione comunque vantaggiosa per il caso di corresponsione di quanto richiesto, si rientra certamente nell'ambito dei comportamenti esigibili (da parte del privato, ndr).
È infatti "esigibile" che il privato resista ad una tale pretesa, ancorché il complesso della situazione abbia fatto ragionevolmente optare per un livello di sanzione inferiore a quella del soggetto pubblico; ed è "rimproverabile" il privato nel caso in cui abbia invece optato per cedere alle richieste, senza però rischiare un danno ingiusto ma ottenendone, comunque, un vantaggio (Cassazione penale, sentenza 16566/2013) (articolo Il Sole 24 Ore del 13.04.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Il potere di annullamento del nulla-osta paesaggistico da parte della Soprintendenza statale non comporta un riesame complessivo delle valutazioni discrezionali compiute dalla regione o da un ente sub-delegato, tale da consentire la sovrapposizione o sostituzione di una propria valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio dell’autorizzazione, ma si estrinseca in un controllo di mera legittimità, che si estende a tutte le ipotesi riconducibili all’eccesso di potere per difetto d’istruttoria e carenza, illogicità o irrazionalità motivazionale.
Con particolare riguardo al regime transitorio di cui all’art. 159, comma 3, d.lgs. n. 42 del 2004, e s.m.i. -vigente fino al 31.12.2009 ed applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame- è stato condivisibilmente riaffermato il principio secondo cui, in materia di nulla-osta paesaggistico, l’autorità statale, in sede di esercizio dei suoi poteri di controllo, è munita degli stessi poteri di riscontro in termini di legittimità costantemente riconosciuti come ambito della sua potestà di annullamento, senza che possa profilarsi, in relazione alla “non conformità” dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dall’organo delegato dalla regione, un potere di riesame nel merito.

... si osserva, in linea di diritto, che secondo un consolidato orientamento di questo Consiglio di Stato, da cui non v’è motivo di discostarsi, il potere di annullamento del nulla-osta paesaggistico da parte della Soprintendenza statale non comporta un riesame complessivo delle valutazioni discrezionali compiute dalla regione o da un ente sub-delegato, tale da consentire la sovrapposizione o sostituzione di una propria valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio dell’autorizzazione, ma si estrinseca in un controllo di mera legittimità, che si estende a tutte le ipotesi riconducibili all’eccesso di potere per difetto d’istruttoria e carenza, illogicità o irrazionalità motivazionale (C.d.S., sez. VI, sent. 13.02.2009 n. 772; sent. 25.11.2008 n. 5771).
Con particolare riguardo al regime transitorio di cui all’art. 159, comma 3, d.lgs. n. 42 del 2004, e s.m.i. -vigente fino al 31.12.2009 ed applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame- è stato condivisibilmente riaffermato il principio secondo cui, in materia di nulla-osta paesaggistico, l’autorità statale, in sede di esercizio dei suoi poteri di controllo, è munita degli stessi poteri di riscontro in termini di legittimità costantemente riconosciuti come ambito della sua potestà di annullamento, senza che possa profilarsi, in relazione alla “non conformità” dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dall’organo delegato dalla regione, un potere di riesame nel merito (C.d.S., sez. VI, sent. 11.06.2012 n. 3401; sent. 02.04.2010 n. 1899; sent. 23.07.2009 n. 4630; sent. 23.02.2009 n. 1051) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.04.2013 n. 1991 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAL’articolo 6, paragrafo 3, della direttiva 92/43/CEE del Consiglio, del 21.05.1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche, deve essere interpretato nel senso che un piano o un progetto non direttamente connesso o necessario alla gestione di un sito pregiudicherà l’integrità di tale sito se è atto a impedire il mantenimento sostenibile delle caratteristiche costitutive dello stesso, connesse alla presenza di un habitat naturale prioritario, per conservare il quale, il sito in questione è stato designato nell’elenco dei siti di importanza comunitaria (SIC) conformemente alla suddetta direttiva.
Ai fini di tale valutazione occorre applicare il principio di precauzione.

L’articolo 6, paragrafo 3, della direttiva «habitat» prevede una procedura di valutazione volta a garantire, mediante un controllo preventivo, che un piano o un progetto non direttamente connesso o necessario alla gestione del sito interessato, ma idoneo ad avere incidenze significative sullo stesso, sia autorizzato solo se non pregiudicherà l’integrità di tale sito (v. sentenza Waddenvereniging e Vogelbeschermingsvereniging, cit., punto 34, nonché sentenza del 16.02.2012, Solvay e a., C‑182/10, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 66).
Detta disposizione prevede così due fasi. La prima, di cui al primo periodo della stessa disposizione, richiede che gli Stati membri effettuino un’opportuna valutazione dell’incidenza di un piano o un progetto su un sito protetto quando è probabile che tale piano o progetto pregiudichi significativamente detto sito (v., in tal senso, sentenza Waddenvereniging e Vogelbeschermingsvereniging, cit., punti 41 e 43).
Ebbene, un piano o un progetto non direttamente connesso o necessario alla gestione di un sito che rischi di comprometterne gli obiettivi di conservazione deve essere ritenuto pregiudicare significativamente tale sito. La valutazione di detto rischio va effettuata segnatamente alla luce delle caratteristiche e delle condizioni ambientali specifiche del sito interessato da un tale piano o progetto (v., in tal senso, sentenza Waddenvereniging e Vogelbeschermingsvereniging, cit., punto 49).
La seconda fase, di cui all’articolo 6, paragrafo 3, secondo periodo, della direttiva «habitat», che interviene una volta effettuata detta opportuna valutazione, subordina l’autorizzazione di un tale piano o progetto alla condizione che lo stesso non pregiudichi l’integrità del sito interessato, fatte salve le disposizioni del paragrafo 4 del medesimo articolo.
A tale riguardo, al fine di contestualizzare la portata dell’espressione «pregiudica l’integrità del sito», occorre precisare che, come ha rilevato l’avvocato generale al paragrafo 43 delle sue conclusioni, le disposizioni dell’articolo 6 della direttiva «habitat» devono essere interpretate come un insieme coerente con riferimento agli obiettivi di conservazione perseguiti dalla direttiva. In effetti, i paragrafi 2 e 3 di detto articolo mirano ad assicurare uno stesso livello di protezione degli habitat naturali e degli habitat delle specie (v., in tal senso, sentenza del 24.11.2011, Commissione/Spagna, C‑404/09, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 142), mentre il paragrafo 4 del medesimo articolo costituisce solo una disposizione in deroga al secondo periodo del paragrafo 3.
La Corte ha già affermato che le disposizioni dell’articolo 6, paragrafo 2, della direttiva «habitat» consentono di rispondere all’obiettivo essenziale della preservazione e della protezione della qualità dell’ambiente, compresa la conservazione degli habitat naturali nonché della fauna e della flora selvatiche, e stabiliscono un obbligo di tutela generale, al fine di evitare degrado o perturbazioni che possano avere conseguenze significative per quanto riguarda gli obiettivi di tale direttiva (sentenza del 14.01.2010, Stadt Papenburg, C‑226/08, Racc. pag. I‑131, punto 49 e la giurisprudenza ivi citata).
L’articolo 6, paragrafo 4, della direttiva «habitat» prevede che, qualora, nonostante conclusioni negative nella valutazione dell’incidenza effettuata in conformità all’articolo 6, paragrafo 3, prima frase, di detta direttiva, un piano o un progetto debba essere comunque realizzato per motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale o economica, e in mancanza di soluzioni alternative, lo Stato membro adotti ogni misura compensativa necessaria per garantire che la coerenza globale di Natura 2000 sia tutelata (v. sentenze del 20.09.2007, Commissione/Italia, C‑304/05, Racc. pag. I‑7495, punto 81, e Solvay e a., cit., punto 72).
Ebbene, in quanto disposizione derogatoria rispetto al criterio di autorizzazione previsto dal secondo periodo del paragrafo 3 dell’articolo 6 della direttiva «habitat», il paragrafo 4 del medesimo articolo può trovare applicazione solo dopo che gli effetti di un piano o di un progetto siano stati esaminati conformemente alle disposizioni di detto paragrafo 3 (v. sentenza Solvay e a., cit., punti 73 e 74).
Ne consegue che le disposizioni dell’articolo 6, paragrafi 2‑4, della direttiva «habitat» impongono agli Stati membri una serie di obblighi e di procedure specifiche intesi ad assicurare, come risulta dall’articolo 2, paragrafo 2, della medesima direttiva, il mantenimento o, se del caso, il ripristino, in uno stato di conservazione soddisfacente, degli habitat naturali e, in particolare, delle zone speciali di conservazione.
Ora, a termini dell’articolo 1, lettera e), della direttiva «habitat», lo stato di conservazione di un habitat naturale è considerato «soddisfacente» segnatamente quando la sua area di ripartizione naturale e le superfici che comprende sono stabili o in estensione e la struttura e le funzioni specifiche necessarie al suo mantenimento a lungo termine esistono e possono continuare ad esistere in un futuro prevedibile.
In proposito la Corte ha già affermato che le disposizioni della direttiva «habitat» mirano a che gli Stati membri adottino misure di salvaguardia appropriate al fine di mantenere le caratteristiche ecologiche dei siti che comprendono tipi di habitat naturali (v. sentenze del 20.05.2010, Commissione/Spagna, C‑308/08, Racc. pag. I‑4281, punto 21, e del 24.11.2011, Commissione/Spagna, cit., punto 163).
Se ne deve inferire, di conseguenza, che, per non arrecare pregiudizio all’integrità di un sito in quanto habitat naturale, ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 3, secondo periodo, della direttiva «habitat», lo si deve conservare in uno stato soddisfacente, e ciò implica, come ha osservato l’avvocato generale ai paragrafi 54‑56 delle sue conclusioni, il mantenimento sostenibile delle caratteristiche costitutive di tale sito, connesse alla presenza di un tipo di habitat naturale, per conservare il quale, il sito in questione è stato designato nell’elenco dei SIC conformemente a detta direttiva.
L’autorizzazione di un piano o di un progetto, ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 3, della direttiva «habitat», può quindi essere concessa solo a condizione che le autorità competenti, una volta identificati tutti gli aspetti di detto piano o progetto idonei, da soli o insieme ad altri piani o progetti, a compromettere gli obiettivi di conservazione del sito di cui trattasi, e allo stato della scienza, abbiano acquisito la certezza che esso è privo di effetti pregiudizievoli stabili per l’integrità di detto sito. Ciò avviene quando non sussiste alcun dubbio ragionevole da un punto di vista scientifico quanto all’assenza di tali effetti (v., in tal senso, citate sentenze del 24.11.2011, Commissione/Spagna, punto 99, e Solvay e a., punto 67).
Al riguardo, si deve constatare che, dovendo l’autorità negare l’autorizzazione per il piano o il progetto considerato quando non è certa l’assenza di effetti pregiudizievoli per l’integrità del sito, il criterio di autorizzazione previsto all’articolo 6, paragrafo 3, secondo periodo, della direttiva «habitat» integra il principio di precauzione e consente di prevenire efficacemente i pregiudizi all’integrità dei siti protetti dovuti ai piani o progetti previsti. Un criterio di autorizzazione meno rigoroso di quello in questione non può garantire in modo altrettanto efficace la realizzazione dell’obiettivo di protezione dei siti cui tende detta disposizione (sentenza Waddenvereniging e Vogelbeschermingsvereniging, cit., punti 57 e 58).
Analoga valutazione s’impone a fortiori nel procedimento principale, in quanto l’habitat naturale interessato dal progetto stradale in questione rientra fra i tipi di habitat naturali prioritari che l’articolo 1, lettera d), della direttiva «habitat» definisce come «tipi di habitat naturali che rischiano di scomparire» per la cui conservazione l’Unione europea ha una «responsabilità particolare».
Le autorità nazionali competenti non possono, pertanto, autorizzare gli interventi che rischiano di compromettere stabilmente le caratteristiche ecologiche dei siti che comprendono tipi di habitat naturali prioritari. Sarebbe questo il caso qualora l’intervento rischi di condurre alla scomparsa o alla distruzione parziale e irreversibile di un tipo di habitat naturale prioritario presente sul sito interessato (v., riguardo alla scomparsa di specie prioritarie, citate sentenze del 20.05.2010, Commissione/Spagna, punto 21, e del 24.11.2011, Commissione/Spagna, punto 163).
Per quanto attiene alla valutazione effettuata ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 3, della direttiva «habitat», occorre precisare che essa non può comportare lacune e deve contenere rilievi e conclusioni completi, precisi e definitivi atti a dissipare qualsiasi ragionevole dubbio scientifico in merito agli effetti dei lavori previsti sul sito protetto in questione (v., in tal senso, sentenza del 24.11.2011, Commissione/Spagna, cit., punto 100 e la giurisprudenza ivi citata). Spetta al giudice nazionale verificare se la valutazione dell’incidenza sul sito soddisfi tali condizioni (Corte di Giustizia UE, Sez. III, sentenza 11.04.2013 n. C-258/11 - link a www.http://eur-lex.europa.eu).

PUBBLICO IMPIEGO: Il bando costituisce la lex specialis concorsus da interpretare in termini strettamente letterali, per cui le regole da esso risultanti vincolano rigidamente l’operato dell’Amministrazione, obbligata alla loro applicazione senza alcun margine di discrezionalità.
Ciò in forza del principio di tutela della par condicio dei concorrenti, che sarebbe pregiudicata ove si consentisse la modifica delle regole di gara cristallizzate nella lex specialis e dell’altro più generale principio che vieta la disapplicazione del bando quale atto con cui l’Amministrazione si è originariamente autovincolata nell’esercizio delle potestà connesse alla conduzione della procedura selettiva.
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I requisiti prescritti per la partecipazione ad una selezione concorsuale debbano essere posseduti alla data di scadenza prevista per la presentazione delle relative domande

Come accertato dal TAR, a seguito di specifica istruttoria disposta, il bando di concorso, approvato dal consiglio della Comunità montana alla seduta del 06.11.1981, prevede come requisito essenziale per la partecipazione il solo possesso del titolo di laurea in architettura.
Il TAR ha quindi correttamente evidenziato, citando conforme giurisprudenza, che il bando costituisce la lex specialis concorsus da interpretare in termini strettamente letterali, per cui le regole da esso risultanti vincolano rigidamente l’operato dell’Amministrazione, obbligata alla loro applicazione senza alcun margine di discrezionalità.
Ciò in forza del principio di tutela della par condicio dei concorrenti, che sarebbe pregiudicata ove si consentisse la modifica delle regole di gara cristallizzate nella lex specialis e dell’altro più generale principio che vieta la disapplicazione del bando quale atto con cui l’Amministrazione si è originariamente autovincolata nell’esercizio delle potestà connesse alla conduzione della procedura selettiva.
Nel caso in esame il bando di concorso prevedeva, come si è detto, quale requisito richiesto per la partecipazione alla selezione pubblica, il possesso da parte dei candidati al momento della presentazione della domanda di partecipazione del diploma di laurea, ma non della abilitazione all’esercizio della professione (Consiglio di Stato, Sez. V, 03.07.2012, n. 4433).
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Sul punto è giurisprudenza costante, invero, che i requisiti prescritti per la partecipazione ad una selezione concorsuale debbano essere posseduti alla data di scadenza prevista per la presentazione delle relative domande (Cons. Stato, sez. VI, 04.02.2002 n. 6010) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.04.2013 n. 1969 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il giudizio comparativo tecnico-discrezionale sull’offerta economicamente più vantaggiosa -caratterizzato dalla complessità delle discipline specialistiche di riferimento e dall’opinabilità dell’esito delle valutazioni- sfugge al sindacato del giudice amministrativo ove non vengano in rilievo indici sintomatici del non corretto esercizio del potere, sotto il profilo dell’illogicità manifesta, dell’erroneità dei presupposti di fatto, dell’incoerenza del procedimento valutativo.
Secondo un consolidato orientamento (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, 01.03.2012, n. 1195; TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 10.01.2013, n. 240; TAR Lazio Roma, Sez. III, 24.04.2012, n. 3663), dal quale non v’è motivo di discostarsi, il giudizio comparativo tecnico-discrezionale sull’offerta economicamente più vantaggiosa -caratterizzato dalla complessità delle discipline specialistiche di riferimento e dall’opinabilità dell’esito delle valutazioni- sfugge al sindacato del giudice amministrativo ove non vengano in rilievo indici sintomatici del non corretto esercizio del potere, sotto il profilo dell’illogicità manifesta, dell’erroneità dei presupposti di fatto, dell’incoerenza del procedimento valutativo (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 03.04.2013 n. 3365 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi degli artt. 2, comma 7, e 3, comma 1, p. 52, del D.L.vo 30.04.1992 n. 285 (codice della strada), l'assoggettamento ad uso pubblico di una strada privata può derivare proprio dall’uso pubblico risalente nel tempo.
Ai sensi del richiamato codice della strada, quanto alla disciplina del traffico su strade di proprietà privata ricadenti all'interno del centro abitato, queste sono assoggettate agli ordinari poteri di regolamentazione assegnati al Sindaco dall'art. 7 D.L.vo n. 285 cit..

Occorre rilevare che le strade di cui è questione, interessate al disposto temporaneo divieto di sosta finalizzato alla esecuzione sulle stesse di lavori di asfaltatura, sono strade private aperte al pubblico transito. Sono esattamente strade consortili appunto aperte al pubblico transito, facenti parte del Consorzio stradale distacchi convenzionati Via Marconi – Comprensorio B, tuttavia non più operante poiché sciolto in data 01.11.1991.
Del resto, ai sensi degli artt. 2, comma 7, e 3, comma 1, p. 52, del D.L.vo 30.04.1992 n. 285 (codice della strada), l'assoggettamento ad uso pubblico di una strada privata può derivare proprio dall’uso pubblico risalente nel tempo (cfr. TAR Trento, 13.01.2012 n. 15).
Così come occorre anche ricordare che ai sensi del richiamato codice della strada, quanto alla disciplina del traffico su strade di proprietà privata ricadenti all'interno del centro abitato, queste sono assoggettate agli ordinari poteri di regolamentazione assegnati al Sindaco dall'art. 7 D.L.vo n. 285 cit..
Risulta pertanto legittima la determinazione dirigenziale con cui, attesa propria la fruizione pubblica delle strade, si è disposto per (soli) tredici giorni il divieto di sosta per consentire di asfaltare le strade medesime. La chiara ed inequivoca necessità di tutelare il pubblico interesse alla sicurezza della circolazione stradale è ragione sufficiente a reggere la avversata determinazione.
Deve in effetti il Collegio anche rilevare che appare difficile cogliere nella determinazione avversata contestata un pregiudizio grave ed irreparabile alla sfera giuridica dei ricorrenti in ragione del disposto divieto di sosta, finalizzato a mezzo dei lavori di asfaltatura a migliorare la circolazione sulle strade interessate e quindi la loro sicurezza, con beneficio innanzitutto di chi, come i ricorrenti, maggiormente ne usufruisce (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 03.04.2013 n. 3348 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI: Sul patto di stabilità è competente il TAR Lazio.
Sempre più spesso torna alla ribalta la posizione dei diversi enti locali che, soggetti alle restrizioni connesse al cd. patto di stabilità interno, hanno in più occasioni ipotizzato lo sforamento dei parametri imposti e, come noto, in alcuni casi, alle intenzioni sono seguiti i fatti, determinando conseguentemente l’applicazione delle relative sanzioni previste dalla legge.
Secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che si è pronunciata con l’ordinanza 02.04.2013 n. 6, le questioni connesse alla violazione degli obblighi derivanti dal c.d. patto di stabilità pongono aspetti da un lato riferibili all’ente interessato, ma, più in generale, assumono un’ampia portata, poiché attengono anche all’equilibrio della finanza statale.
Per tali ragioni, in caso di impugnazione dei provvedimenti sanzionatori, sussiste la competenza territoriale inderogabile del TAR del Lazio, ai sensi dell’art. 13 c.p.a.
Il caso trae spunto dall’impugnazione da parte del Comune di Messina del provvedimento con il quale sono state irrogate le sanzioni di cui all’art. 7 del decreto legislativo 06.09.2011, n. relazione alla contestazione degli inadempimenti agli obblighi di cui al patto di stabilità relativo all’anno 2011.
In primo grado, innanzi al TAR Catania, il predetto Comune aveva ottenuto l’accoglimento dell’istanza incidentale di sospensiva.
La sentenza segnalata scaturisce a seguito del ricorso per regolamento di competenza ai sensi dell’art. 16 c.p.a., con il quale i Ministeri dell’Interno e dell’Economia e delle Finanze hanno opposto, tra l’altro, l’incompetenza del TAR adito, chiedendo che fosse affermata la competenza territoriale del TAR del Lazio ai sensi dell’art. 13 c.p.a., considerato che “il provvedimento impugnato non può ritenersi avente efficacia circoscritta al solo territorio della Regione siciliana, in quanto alla stregua della normativa vigente alle sanzioni irrogate ai Comuni inadempienti sub specie di riduzione dei trasferimenti di risorse erariali consegue, nell’ambito di un più generale equilibrio della finanza statale, il riconoscimento di misure premiali ai Comuni "virtuosi", la cui determinazione è strettamente dipendente dall’entità delle predette sanzioni”.
Sulla base di tali osservazioni, i Giudici amministrazioni, in seduta Plenaria, hanno osservato che, se da un lato, l’irrogazione delle sanzioni ha un’immediata incidenza sulle finanze del Comune ricorrente, sotto altro profilo, “le predette sanzioni costituiscono parte di una manovra finanziaria unitaria, le cui ripercussioni sulla finanza pubblica statale non possono in alcun modo qualificarsi quali effetti indiretti non rilevanti ai fini suindicati”.
Inoltre il cd. patto di stabilità interno deriva dagli impegni che lo Stato italiano ha assunto in sede europea ed espone comunque il primo a sanzioni sul piano comunitario “indipendentemente dall’ascrivibilità della violazione stessa alle Regioni o ad altre articolazioni territoriali interne”.
Infine, è stato evidenziato che “è del tutto evidente che l’individuazione di un minor importo di risorse finanziarie da trasferire ai sensi della normativa sul federalismo fiscale incide direttamente sul complessivo equilibrio finanziario dello Stato, sotto il profilo della generale disponibilità di risorse da destinare agli altri obiettivi della più generale politica economica e finanziaria” (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Delibere degli Enti, l'obbligo di astensione non ''equivale'' sempre a reato.
La violazione dell'obbligo di astensione integra l'abuso d'ufficio solo se determina un vantaggio patrimoniale ingiusto. Secondo la Cassazione, ai fini dell'integrazione del reato di abuso di ufficio, anche nel caso di violazione dell'obbligo di astensione, è necessario che a tale omissione si aggiunga l'ingiustizia del vantaggio patrimoniale procurato o del danno arrecato.

L’affermazione è stata resa in una vicenda in cui al sindaco di un comune era stato contestato di non essersi astenuto dal partecipare alle sedute del consiglio comunale nel corso delle quali era stata adottata una deliberazione di variante al piano regolatore generale con la quale la zona di proprietà riconducibile a soggetti con i quali questi aveva avuto rapporti economici [quale perito si era occupato proprio delle questioni tecniche concernenti i terreni interessati alla variante] era stata trasformata da area a destinazione turistico-alberghiera in zona residenziale.
La Corte, pur riconoscendo sussistente l’obbligo di astensione, ha però evidenziato la carenza di motivazione sul requisito della “ingiustizia” del vantaggio derivato dal mutamento di destinazione d’uso dei costruendi fabbricati, che non poteva basarsi semplicisticamente su un asserito, generico interesse della collettività a che quella zona venisse conservata ad una destinazione esclusivamente di tipo turistico.
Proprio da queste premesse, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di condanna evidenziando la sommarietà della motivazione della sentenza di condanna resa in grado di appello che, riformando quella assolutoria di primo grado [che aveva escluso che la variante avesse importato la violazione delle norme oggettive regolanti l’assetto del territorio] si era limitata a sostenere sussistente il requisito dell’ingiustizia con l’argomento che la variante era stata attuata mediante un “ampliamento della zona residenziale a scapito della zona, ovviamente di interesse generale, destinata a favorire il turismo”.
E’ di interesse un altro principio pure affermato dalla Cassazione, con riferimento all’obbligo di astensione del sindaco che abbia un interesse personale in occasione delle delibere aventi ad oggetto il piano regolatore cittadino.
Il giudice di legittimità sul punto ha chiarito che il sindaco non ha il dovere di astenersi dalla delibera di approvazione del piano regolatore generale, trattandosi di un atto finale di un procedimento complesso in cui vengono valutati, ponderati e composti molteplici interessi, sia individuali che pubblici, sicché il voto espresso dagli amministratori non riguarda la destinazione della singola area o la specifica prescrizione, ma il contenuto generale del provvedimento, cioè l'assetto territoriale nel suo complesso.
Tale obbligo di astensione sussiste, invece, se il voto espresso dagli amministratori riguardi la destinazione della singola area o una specifica prescrizione, come, in particolare, nell’ipotesi in cui il voto riguardi una variante al piano regolatore, concernente un’area in relazione alla quale sia riconoscibile un interesse personale, anche indiretto, del pubblico amministratore (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione penale, sentenza 27.03.2013 n. 14457 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La conoscenza dell’atto non può essere separata dalla piena conoscenza della lesività dell’atto e dai possibili vizi che hanno inficiato l’agere dell’amministrazione.
Il concetto di "piena conoscenza" —il verificarsi della quale determina il dies a quo per il computo del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale— è integrato dalla percezione dell'esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l'attualità dell'interesse ad agire contro di esso, mentre la conoscenza "integrale" del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi.

Maggiormente suggestivo è l’argomento speso dalla difesa con la memoria del 15.01.2013, che riprende numerose pronunce di questo Consiglio sul tema della “piena conoscenza” dell’atto amministrativo dal quale decorre il termine per proporre impugnazione.
Negli ultimi anni, infatti, la giurisprudenza amministrativa ha mostrato maggiore sensibilità nella lettura della nozione di conoscenza dell’atto dalla quale decorre il termine per impugnare, sposando un approccio più attento alle ragioni del ricorrente, che deve poter essere in grado di apprezzare l’esercizio del potere dell’amministrazione e valutare anche le possibilità dell’esito favorevole del rimedio giurisdizionale.
Tutte le pronunce richiamate dall’appellante ribadiscono un principio ormai acquisito dalla giurisprudenza di questo Consiglio: la conoscenza dell’atto non può essere separata dalla piena conoscenza della lesività dell’atto e dai possibili vizi che hanno inficiato l’agere dell’amministrazione (sul tema da ultimo la rimessione operata all’Adunanza Plenaria da Cons. St., sez. VI, 11.02.2013, n. 790).
Così, pronunce anche più recenti di quelle richiamate dall’appellante chiariscono che: “Il concetto di "piena conoscenza" —il verificarsi della quale determina il dies a quo per il computo del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale— è integrato dalla percezione dell'esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l'attualità dell'interesse ad agire contro di esso, mentre la conoscenza "integrale" del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi” (Cons. St., 2974/2012) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.03.2013 n. 1829 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ai sensi dell'art. 21-nonies, comma 2, della l. n. 241 del 1990, che fa salva la possibilità del ricorso all’istituto della convalida (in cui è compresa anche la ratifica) del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole, l'Amministrazione ha il potere di convalidare o ratificare un provvedimento viziato.
Del resto, il potere di sanatoria rientra in via di principio nella potestà di autotutela spettante all'Autorità amministrativa, senza entrare in contrasto con i principi di effettività della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, nella misura in cui costituisce un implicito riconoscimento dei vizi da cui è affetto il provvedimento, anticipando la pronuncia del competente Giudice e nel contempo emendando l'azione amministrativa, senza attendere la instaurazione del giudizio e la successiva riedizione conformata del potere amministrativo all'esito di un giudicato, sempreché ovviamente si tratti di vizi che lasciano salvo l'eventuale successivo esercizio della funzione amministrativa.
L’atto di convalida deve tuttavia contenere una motivazione espressa e persuasiva in merito alla sua natura e in punto di interesse pubblico alla convalida, essendo insufficiente la semplice e formale appropriazione da parte dell'organo competente all'adozione del provvedimento, in assenza dell'esternazione delle "ragioni di interesse pubblico" giustificatrici del potere di sostituzione e della presupposta indicazione, espressa, della illegittimità per incompetenza in cui sarebbe incorso l’organo che ha adottato l’atto recepito in via “sanante”.
Pur se non è necessario che l'organo adottante il provvedimento di convalida debba ripercorrere, con obbligo di dettagliata motivazione, tutti gli aspetti (e gli atti del procedimento) relativi al provvedimento convalidato, è invero quanto meno necessario che emergano chiaramente dall'atto convalidante le ragioni di interesse pubblico e la volontà del'organo di assumere tale atto.

Ai sensi dell'art. 21-nonies, comma 2, della l. n. 241 del 1990, che fa salva la possibilità del ricorso all’istituto della convalida (in cui è compresa anche la ratifica) del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole, l'Amministrazione ha il potere di convalidare o ratificare un provvedimento viziato.
Del resto, il potere di sanatoria rientra in via di principio nella potestà di autotutela spettante all'Autorità amministrativa, senza entrare in contrasto con i principi di effettività della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, nella misura in cui costituisce un implicito riconoscimento dei vizi da cui è affetto il provvedimento, anticipando la pronuncia del competente Giudice e nel contempo emendando l'azione amministrativa, senza attendere la instaurazione del giudizio e la successiva riedizione conformata del potere amministrativo all'esito di un giudicato, sempreché ovviamente si tratti di vizi che lasciano salvo l'eventuale successivo esercizio della funzione amministrativa.
L’atto di convalida deve tuttavia contenere una motivazione espressa e persuasiva in merito alla sua natura e in punto di interesse pubblico alla convalida, essendo insufficiente la semplice e formale appropriazione da parte dell'organo competente all'adozione del provvedimento, in assenza dell'esternazione delle "ragioni di interesse pubblico" giustificatrici del potere di sostituzione e della presupposta indicazione, espressa, della illegittimità per incompetenza in cui sarebbe incorso l’organo che ha adottato l’atto recepito in via “sanante”.
Pur se non è necessario che l'organo adottante il provvedimento di convalida debba ripercorrere, con obbligo di dettagliata motivazione, tutti gli aspetti (e gli atti del procedimento) relativi al provvedimento convalidato, è invero quanto meno necessario che emergano chiaramente dall'atto convalidante le ragioni di interesse pubblico e la volontà del'organo di assumere tale atto (Consiglio di Stato, sez. IV, 12.05.2011, n. 2863) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.03.2013 n. 1775 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALILa violazione, da parte degli amministratori locali, del divieto di cui all'art. 78, t.u. 18.08.2000 n. 267, rivenendo il proprio fondamento di razionalità nel principio costituzionale di imparzialità dell'Amministrazione, ed essendo funzionale ad evitare che il consigliere comunale non si trovi in posizione di assoluta serenità rispetto alle decisioni di natura discrezionale che è chiamato ad assumere, vizia di per sé i provvedimenti adottati dall'organo nel corso della seduta a cui ha partecipato il soggetto in posizione di incompatibilità, e ciò a prescindere dalla c.d. prova di resistenza, in quanto la sola presenza del soggetto incompatibile è da ritenersi comunque influente sugli orientamenti del consesso e potenzialmente idonea a incidere negativamente sulla serenità degli altri consiglieri comunali.
Venendo al merito, sono fondate le censure con cui si lamenta l’illegittimità delle delibere del Consiglio Comunale di adozione della variante (nn. 57/95, 46/97 e 18/99), per essere state assunte senza l’astensione del Consigliere Comunale S.T., che avrebbe invece dovuto astenersi, in quanto proprietario di un terreno sito nel Comune (Fg. 9 mapp. 2252).
La violazione, da parte degli amministratori locali, del divieto di cui all'art. 78, t.u. 18.08.2000 n. 267, rivenendo il proprio fondamento di razionalità nel principio costituzionale di imparzialità dell'Amministrazione, ed essendo funzionale ad evitare che il consigliere comunale non si trovi in posizione di assoluta serenità rispetto alle decisioni di natura discrezionale che è chiamato ad assumere, vizia di per sé i provvedimenti adottati dall'organo nel corso della seduta a cui ha partecipato il soggetto in posizione di incompatibilità, e ciò a prescindere dalla c.d. prova di resistenza, in quanto la sola presenza del soggetto incompatibile è da ritenersi comunque influente sugli orientamenti del consesso e potenzialmente idonea a incidere negativamente sulla serenità degli altri consiglieri comunali (TAR Umbria, Sez. I, 07.09.2009 n. 509)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 21.03.2013 n. 751 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Comune può certamente dettare prescrizioni circa le modalità tecniche da osservare nella realizzazione delle recinzioni, nell'ambito della propria potestà pianificatoria, ma non può precluderne in toto l'edificazione, essendo pertanto illegittimo un generalizzato divieto di recinzione dei fondi.
Sono parimenti fondate le censure rivolte avverso gli artt. 31.3.6 e 32.5.1 delle N.T.A., nella parte in cui vietano qualsiasi tipo di recinzione delle proprietà nelle zone agricole E1 ed E2.
Il Comune può certamente dettare prescrizioni circa le modalità tecniche da osservare nella realizzazione delle recinzioni, nell'ambito della propria potestà pianificatoria, ma non può precluderne in toto l'edificazione, essendo pertanto illegittimo un generalizzato divieto di recinzione dei fondi (TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 05.02.2008 n. 40), come invece avvenuto nel caso di specie (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 21.03.2013 n. 751 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare di appalto, per chi partecipa accesso agli atti sempre riconosciuto.
Dev’essere accordato l’accesso agli atti di una procedura di appalto chiesto da una ditta in dichiarata qualità di soggetto partecipante alla gara, essendo pacifico che chi ha partecipato a una procedura concorsuale è portatore di un interesse differenziato da quello della generalità dei consociati.

Con la sentenza 21.03.2013 n. 442, il TAR Firenze, Sez. I, ha affrontato la quaestio relativa alla possibilità per le partecipanti a una gara di appalto di ottenere l’accesso agli atti della medesima procedura.
La ricorrente ha contestato l’illegittimità del provvedimento con cui la stazione appaltante, in violazione degli artt. 22 e ss., L. n. 241/1990, aveva negato alla medesima l’accesso agli atti di gara sulla scorta della considerazione per cui la relativa istanza avrebbe dovuto essere motivata alla stregua di un interesse concreto e meritevole di tutela.
Il giudicante ha accolto il gravame, all’uopo statuendo che la stazione appaltante avrebbe dovuto consentire l’accesso all’impresa poiché la stessa, avendo partecipato alla procedura in questione, era titolare di un interesse giuridicamente differenziato rispetto a quello del quisque de populo.
Il caso
La deducente ha preso parte a una procedura aperta indetta da un’azienda pubblica per la fornitura e manutenzione di due spazzatrici aspiranti idrostatiche.
In seguito all’adozione del provvedimento di esclusione dalla gara per mancanza dei requisiti tecnici, l’interessata ha presentato una formale istanza di accesso al fine di prendere visione dei verbali di gara e della documentazione amministrativa delle partecipanti alla medesima procedura.
La stazione appaltante, però, ha disposto l’accoglimento della predetta domanda rispetto al verbale di gara, mentre ha differito l’accesso alla documentazione amministrativa delle altre concorrenti.
Disposta medio tempore l’aggiudicazione dell’appalto, la ricorrente ha provveduto a reiterare la richiesta di accesso alla documentazione amministrativa: la stazione appaltante, indi, ha accordato quest’ultima istanza, così fornendo tutta la documentazione chiesta in ostensione.
Sta di fatto che l’impresa, per mezzo di un’ulteriore istanza di accesso, ha chiesto anche l’acquisizione della documentazione tecnica presentata dalle ditte partecipanti alla selezione.
La società pubblica, avuto riguardo a quest’ultima istanza, ha negato l’accesso, contestualmente suggerendo all’interessata la presentazione di una nuova domanda di accesso debitamente motivata, al fine di “dare dimostrazione dell’esistenza di un interesse concreto meritevole di tutela”.
Avverso siffatta determinazione è insorta la ricorrente, contestando la violazione e falsa applicazione dell’art. 97 Cost., nonché degli artt. 22 e ss., L. n. 241/1990 e dell’art. 13, D.Lgs. n. 163/2006.
Le norme violate
L’impresa ha eccepito, oltre al resto la violazione degli artt. 22 e ss., L. n. 241/1990, alla stregua della considerazione per cui la propria partecipazione al procedimento selettivo le avrebbe consentito di presentare l’istanza di accesso ai documenti tecnici offerti dalle imprese concorrenti, a prescindere dall’impugnabilità del provvedimento di aggiudicazione.
Orbene, in materia di accesso, si rammenta come l’art. 22 cit., con riferimento all’interesse del soggetto richiedente l’accesso agli atti, statuisce espressamente che: “Ai fini del presente del capo si intende: … b) per "interessati", tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”.
E ancora, con riferimento al diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento di contratti pubblici, l’art. 13, D.Lgs. n. 163/2006 prevedono che: “Fatta salva la disciplina prevista dal presente codice per gli appalti segretati o la cui esecuzione richiede speciali misure di sicurezza, sono esclusi il diritto di accesso e ogni forma di divulgazione in relazione: a) alle informazioni fornite dagli offerenti nell'ambito delle offerte ovvero a giustificazione delle medesime, che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell'offerente, segreti tecnici o commerciali; b) a eventuali ulteriori aspetti riservati delle offerte, da individuarsi in sede di regolamento” (comma 5); e ancora: “In relazione all'ipotesi di cui al comma 5, lett. a) e b), è comunque consentito l'accesso al concorrente che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto nell'ambito della quale viene formulata la richiesta di accesso” (comma 6).
La decisione del TAR
Il Tribunale di Firenze ha condiviso le doglianze formulate dalla deducente in merito all’illegittimità del gravato provvedimento di diniego emesso dalla stazione appaltante.
Sul proposito, ha rammentato che, in linea di principio, l’accesso ai documenti amministrativi si configura come un diritto soggettivo perfetto da esercitarsi indipendentemente dal giudizio sull’ammissibilità o fondatezza di un’eventuale impugnazione dei documenti acquisiti mediante l’accesso.
Di conseguenza, ha precisato che l’inoppugnabilità degli atti oggetto dell’istanza di ostensione non avrebbe potuto precludere l’esercizio del suddetto diritto, in quanto l’interesse presupposto dall’art. 22, L. n. 241/1990 è nozione diversa e più ampia dell’interesse all’impugnazione (a partire da Cons. Stato, Sez. VI, 24.11.2000, n. 6246).
Sicché il Collegio ha sottolineato che il rilascio della documentazione tecnica offerta dalle altre concorrenti era stato chiesto dalla ricorrente, nella dichiarata qualità di soggetto partecipante alla gara, al solo fine di prendere visione dei medesimi documenti.
In ragione di siffatta circostanza, ha ritenuto che non avrebbe potuto disconoscersi in capo all’impresa interessata la titolarità del diritto di accesso, atteso che la medesima, avendo partecipato alla procedura concorsuale, era portatrice di un interesse differenziato da quello della generalità dei consociati e, quindi, legittimata a chiedere copia degli atti prodotti dagli altri concorrenti (in tal senso, TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 11.02.2002, n. 430).
Alla stregua delle suddette argomentazioni, il G.A. di Firenze ha accolto il gravame e, per l’effetto, dichiarato l’obbligo della stazione di provvedere al rilascio delle copie della documentazione tecnica dei concorrenti, come chiesta in ostensione dalla deducente.
I precedenti ed i possibili impatti pratico-operativi
La pronuncia conferma il principio indicato negli arresti giurisprudenziali susseguitisi sull’argomento, in relazione alla doverosità per le stazioni appaltanti di consentire l’accesso agli atti di gara a tutte le imprese partecipanti che, in quanto tali, risultano essere detentrici di un interesse qualificato e differenziato da quello della generalità dei consociati.
Sul punto, è appena il caso di richiamare una recente pronuncia di Palazzo Spada che ha dichiarato l’illegittimità del provvedimento con cui una stazione appaltante aveva disposto il differimento dell’accesso agli atti relativi al sub procedimento di verifica dell’anomalia delle offerte presentate dalle imprese partecipanti (Cons. Stato, Sez. IV, 22.05.2012, n. 2974, in Guida al diritto, 2012, 24, 109).
Inoltre, il TAR di Roma ha dichiarato legittimo il provvedimento di rigetto di una domanda tendente a ottenere copia degli atti di una gara di appalto, avanzata da una ditta che, benché non avesse partecipato alla medesima procedura selettiva, aveva motivato la propria istanza con riferimento alla volontà di ottenere la rinnovazione della procedura per la propria partecipazione (TAR Lazio, Roma, Sez. III-ter, 10.05.2011, n. 4081, in Giur. Merito, 2011, 9, 2282).
E ancora, la Sez. VI del Consiglio di Stato non ha mancato di evidenziare il rapporto intercorrente tra la disciplina contemplata nel Codice dei contratti pubblici e la L. n. 241/1990, all’uopo precisando che, ai sensi dell’art. 13, D.Lgs. n. 163/2006, il carattere segreto delle informazioni tecniche e commerciali non può inibire l’esibizione della documentazione di gara non coinvolta da profili di meritevole segregazione (Cons. Stato, Sez. VI, 30.07.2010, n. 5062, in Foro amm., 2010, 7-8, 1644).
E pertanto, sulla scorta delle menzionate pronunce, si può ragionevolmente desumere che la partecipazione a una gara di appalto costituisce il requisito discriminante mediante il quale un’impresa, a prescindere da una sottesa volontà impugnatoria, può legittimamente chiedere l’esibizione dei documenti offerti dalle altre imprese concorrenti.
Né a differenti conclusioni si giunge avuto riguardo alla circostanza per cui i documenti potenzialmente oggetto di accesso possano riguardare documenti afferenti le caratteristiche tecniche di un’impresa.
Sul punto, infatti, si rileva che l’art. 13, comma 6, D.Lgs. n. 163/2006 non costituisce una previsione derogatoria di carattere generale, ma un’ipotesi di speciale deroga da applicare esclusivamente nei casi in cui l’accesso sia inibito in ragione della tutela di segreti tecnici o commerciali, motivatamente evidenziati dalla concorrente in sede di presentazione della offerta (commento tratto da www.ispoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sentenza del Consiglio di stato. P.a., in congedo per fare ricerca.
Il dipendente della pubblica amministrazione può essere collocato in congedo straordinario per motivi di studio, in relazione alla frequenza, per l'intera durata di un corso per conseguire il dottorato di ricerca, purché il corso sia istituito sul territorio italiano, e pertanto tale ipotesi non si può estendere ai corsi di dottorato frequentati all'estero.

Questa è l'interpretazione che il Consiglio di Stato, Sez. IV, con sentenza 19.03.2013 n. 1608, ha dato dell'art. 2 della legge n. 476 del 1984, il quale dispone che «il pubblico dipendente ammesso ai corsi di dottorato di ricerca è collocato a domanda, compatibilmente con le esigenze dell'amministrazione, in congedo straordinario per motivi di studio senza assegni per il periodo di durata del corso e usufruisce della borsa di studio ove ricorrano le condizioni richieste; in caso di ammissioni a corsi di dottorato di ricerca senza borsa di studio o di rinuncia a questa, l'interessato in aspettativa conserva il trattamento economico, previdenziale e di quiescenza in godimento da parte da parte dell'amministrazione pubblica».
La decisione del Consiglio di stato, che trova conferma anche in un precedente (Cons. stato, sez. VI, 02.10.2007 n. 5066), è del tutto coerente con la normativa dettata dal dpr 11.07.1980 n. 382 in tema di riordino della docenza universitaria e segnatamente con l'art. 74 disciplinante «riconoscimenti ed equipollenze», in cui si legge: «Coloro che abbiano conseguito presso università non italiane il titolo di dottore di ricerca o analoga qualificazione accademica possono chiederne il riconoscimento con domanda diretta al ministero della pubblica istruzione. La domanda può essere corredata dai titoli attestanti le attività di ricerca e dai lavori compiuti presso le università non italiane. L'eventuale riconoscimento è operato con decreto della pubblica istruzione su conforme parere del Consiglio universitario nazionale_».
Dunque il titolo di studio conseguito presso università estere dovrà essere subordinato a un'attività di intermediazione del ministero dell'istruzione che con apposita valutazione sarà chiamato a pronunciarsi circa l'inserimento di tale titolo nel sistema ordinamentale dei titoli accademici validamente conseguiti in Italia (articolo ItaliaOggi del 10.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI: La stazione appaltante deve consentire l'integrazione della cauzione insufficiente.
La stazione appaltante non può disporre l'esclusione del concorrente che abbia presentato la cauzione di importo inferiore a quello richiesto.
Così ha stabilito il Tar Sicilia nella sentenza in commento. Inoltre il principio di tassatività delle cause di esclusione, secondo i giudici amministrativi isolani, si applica anche per gli appalti di cui all'art. 20, allegato IIB del D.Lgs n. 163 del 2006.
La disposizione dell'art. 75, D.Lgs n. 163 del 2006, (Codice dei contratti pubblici), va intesa, alla luce del principio di tassatività delle cause di esclusione, nel senso che la stazione appaltante non può disporre l'esclusione del concorrente che abbia presentato la cauzione di importo inferiore a quello richiesto, e in applicazione della regola di cui all'art. 46, c. 1, del Codice dei contratti pubblici, deve consentire la regolarizzazione degli atti, tempestivamente depositati, ovvero consentire l'integrazione della cauzione insufficiente. Il principio di tassatività delle cause di esclusione così come previsto dall'art. 46, c. 1-bis, del D.Lgs n. 163 del 2006, aggiunto dall'art. 4, II c., n. 2, lett. "d" del D.L. n. 70 del 2011, si applica anche per gli appalti di cui all'art. 20, allegato IIB.
E' pacificamente riconosciuto in giurisprudenza, infatti, che la riconducibilità del servizio appaltato all'All. II B non esonera le amministrazioni aggiudicatrici dall'applicazione dei principi generali in materia di affidamenti pubblici desumibili dalla normativa comunitaria e nazionale e, in particolare dei principi di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa di cui all'art. 97 Cost..
E, del resto, è lo stesso art. 27 del Codice dei contratti pubblici che, proprio con riferimento alle prestazioni di cui all'allegato IIB, pone l'obbligo per le Amministrazioni di disporre siffatti affidamenti rientranti nell'ambito di applicazione oggettiva del medesimo d.lgs. n. 163 del 2006, "nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità" (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it -
 TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 19.03.2013 n. 647 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa fascia di rispetto cimiteriale risponde, da un lato, all'esigenza di tutela dell'interesse pubblico all'igiene di ogni tipo di costruzione destinata alla vita dell'uomo e, dall'altro, all'esigenza di assicurare decoro ai luoghi di sepoltura.
Il suddetto vincolo riguarda, pertanto, quelle costruzioni incompatibili con la funzione cimiteriale, in quanto destinate ad ospitare stabilmente l’uomo, quali: le abitazioni, gli alberghi, gli ospedali, le scuole. Tale vincolo non è quindi suscettibile di un’applicazione estensiva nei confronti della realizzazione di altri manufatti privi invece di tale funzione come nel caso, che qui interessa, delle strade e dei parcheggi.
Questa interpretazione è del resto avvalorata anche dal dato letterale della disposizione che vieta specificamente la realizzazione di nuovi “edifici” e non già la realizzazione di una qualsiasi opera.

Quanto alla asserita violazione della fascia di rispetto cimiteriale di 200 metri, il Collegio evidenzia che, come condivisibilmente affermato dalla giurisprudenza maggioritaria, la fascia di rispetto in questione risponde, da un lato, all'esigenza di tutela dell'interesse pubblico all'igiene di ogni tipo di costruzione destinata alla vita dell'uomo e, dall'altro, all'esigenza di assicurare decoro ai luoghi di sepoltura.
Il suddetto vincolo riguarda, pertanto, quelle costruzioni incompatibili con la funzione cimiteriale, in quanto destinate ad ospitare stabilmente l’uomo, quali: le abitazioni, gli alberghi, gli ospedali, le scuole. Tale vincolo non è quindi suscettibile di un’applicazione estensiva nei confronti della realizzazione di altri manufatti privi invece di tale funzione come nel caso, che qui interessa, delle strade e dei parcheggi.
Questa interpretazione è del resto avvalorata anche dal dato letterale della disposizione che vieta specificamente la realizzazione di nuovi “edifici” e non già la realizzazione di una qualsiasi opera (cfr. in termini TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 26.09.2011 n. 2295) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 19.03.2013 n. 417 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Impianti tecnologici, gli architetti possono progettarli. CdS: devono servire da completamento al fabbricato per rientrare tra le opere di edilizia civile.
La disciplina del regio decreto n. 2537 del 1925, fondamentale nella questione, è stata più volte vagliata dalla giurisprudenza, la quale ne ha dovuto sottolineare con maggior dettaglio le fattispecie comprese. In effetti, la delimitazione delle rispettive competenze è data da concetti non meglio definiti normativamente di “applicazioni della fisica” (art. 51) ed “opere di edilizia civile” (art. 52), e quindi di carattere descrittivo.
La natura di tali elementi, che fanno riferimento a dati extragiuridici, è implicitamente collegata alla necessità di adeguare la disciplina all’evoluzione della tecnica e delle qualificazioni professionali, permettendo così la sopravvivenza di norme anche risalenti nel tempo ma flessibili nella loro applicazione in concreto.
Le ragioni appena richiamate inducono la Sezione a valutare gli apporti recenti, conseguenti alla funzione interpretativa ed adeguatrice svolta dalla giurisprudenza nella decisione di casi contermini.
Non può quindi non notarsi che, sempre valorizzando il discrimine tra le due professioni di architetto e di ingegnere, la giurisprudenza recente postula una lettura riduttiva del concetto di applicazione delle leggi della fisica, sulla ovvia considerazione che, in una lettura ampia, qualsiasi tipo di manufatto dovrebbe esservi considerato. Sono quindi esclusivo appannaggio della professione di ingegnere solo le opere di carattere più marcatamente tecnico-scientifico (ad esempio le opere di ingegneria idraulica, di ammodernamento e ampliamento della rete idrica comunale).
Per altro verso, il secondo polo normativo di riferimento, ossia il concetto di edilizia civile, viene interpretato estensivamente, facendovi ricadere le realizzazioni tecniche anche di carattere accessorio che vengono collegate al fabbricato mediante l'esecuzione delle necessarie opere murarie (vedi Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 21.01.2005 n. 9, che, in relazione ad un sistema di videosorveglianza, ha ritenuto che si verta in un mero profilo di realizzazione di edilizia civile, dove invece il concetto di “applicazione della fisica” può rilevare semmai nella progettazione e realizzazione degli apparati industriali).
Si tratta di una tendenza interpretativa che la Sezione ritiene di condividere e fare propria, perché consona ad una lettura aggiornata e coerente della norma, che privilegi il momento unitario della costruzione dell’opera di edilizia civile, senza artificiose frammentazioni, e che tenga conto sia della trasformazione dei sistemi produttivi che dell’evoluzione tecnologica anche nelle applicazioni civili.
Nel caso in specie, si può affermare che il concetto di “opere di edilizia civile” si estenda sicuramente oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a ricomprendere l’intero complesso degli impianti tecnologici a corredo del fabbricato, e quindi non solo gli impianti idraulici ma anche quelli di riscaldamento compresi nell’edificazione. Non è dato quindi cogliere il profilo di razionalità del provvedimento gravato in primo grado che, di fronte alla progettazione di un impianto di riscaldamento e quindi di un’opera accessoria all’edificazione, ritiene che questo, poiché proposto come impianto collegato ad un edificio già esistente e non da realizzare, debba essere predisposto da un ingegnere.
Al contrario, trattandosi di impianto accessorio ad un edificio, la circostanza che il progetto sia presentato autonomamente non fa venire meno il collegamento univoco e funzionale con l’opera di edilizia civile e, quindi, permette che il progetto stesso sia sottoscritto anche da un architetto.

Come si è anticipato in narrativa, il fulcro del thema decidendum consiste nello stabilire l’ampiezza delle competenze riconosciute –rispettivamente– agli ingegneri e agli architetti ai sensi del combinato disposto degli articoli 51 e 52 del regio decreto 23.10.1925, n. 2537 (‘Approvazione del regolamento per le professioni di ingegnere e di architetto’).
In particolare, si tratta di stabilire se la previsione di cui al primo comma dell’articolo 52 (secondo cui “formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative”) comporti o meno la competenza degli architetti in materia di impianti soggetti ad omologazione ISPESL comunque afferenti ad opere di edilizia civile.
Al quesito deve essere fornita risposta in senso affermativo.
Come già affermato dalla giurisprudenza di questo Consiglio (sentenza 31.07.2009, n. 4866), la centralità delle disposizioni sopra indicate (articoli 51 e 52 del regio decreto n. 2537 del 1925) è confermata dal fatto che anche le successive normative in tema di progettazione d’impianti, ed in particolare la legge 05.03.1990, n. 46 (recante “Norme per la sicurezza degli impianti”), vigente al momento dell’emissione del provvedimento gravato, prevede che sia “obbligatoria la redazione del progetto da parte di professionisti, iscritti negli albi professionali, nell'ambito delle rispettive competenze”, facendo in tal modo implicito rinvio alla disciplina del 1924.
La disciplina del regio decreto n. 2537 del 1925, fondamentale nella questione, è stata più volte vagliata dalla giurisprudenza, la quale ne ha dovuto sottolineare con maggior dettaglio le fattispecie comprese. In effetti, la delimitazione delle rispettive competenze è data da concetti non meglio definiti normativamente di “applicazioni della fisica” (art. 51) ed “opere di edilizia civile” (art. 52), e quindi di carattere descrittivo. La natura di tali elementi, che fanno riferimento a dati extragiuridici, è implicitamente collegata alla necessità di adeguare la disciplina all’evoluzione della tecnica e delle qualificazioni professionali, permettendo così la sopravvivenza di norme anche risalenti nel tempo ma flessibili nella loro applicazione in concreto.
Le ragioni appena richiamate inducono la Sezione a valutare gli apporti recenti, conseguenti alla funzione interpretativa ed adeguatrice svolta dalla giurisprudenza nella decisione di casi contermini.
Non può quindi non notarsi che, sempre valorizzando il discrimine tra le due professioni di architetto e di ingegnere, la giurisprudenza recente postula una lettura riduttiva del concetto di applicazione delle leggi della fisica, sulla ovvia considerazione che, in una lettura ampia, qualsiasi tipo di manufatto dovrebbe esservi considerato. Sono quindi esclusivo appannaggio della professione di ingegnere solo le opere di carattere più marcatamente tecnico-scientifico (ad esempio le opere di ingegneria idraulica, di ammodernamento e ampliamento della rete idrica comunale, TAR Campania Napoli, sez. I, 14.08.1998 n. 2751).
Per altro verso, il secondo polo normativo di riferimento, ossia il concetto di edilizia civile, viene interpretato estensivamente, facendovi ricadere le realizzazioni tecniche anche di carattere accessorio che vengono collegate al fabbricato mediante l'esecuzione delle necessarie opere murarie (vedi Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 21.01.2005 n. 9, che, in relazione ad un sistema di videosorveglianza, ha ritenuto che si verta in un mero profilo di realizzazione di edilizia civile, dove invece il concetto di “applicazione della fisica” può rilevare semmai nella progettazione e realizzazione degli apparati industriali).
Si tratta di una tendenza interpretativa che la Sezione ritiene di condividere e fare propria, perché consona ad una lettura aggiornata e coerente della norma, che privilegi il momento unitario della costruzione dell’opera di edilizia civile, senza artificiose frammentazioni, e che tenga conto sia della trasformazione dei sistemi produttivi che dell’evoluzione tecnologica anche nelle applicazioni civili.
Nel caso in specie, si può affermare che il concetto di “opere di edilizia civile” si estenda sicuramente oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a ricomprendere l’intero complesso degli impianti tecnologici a corredo del fabbricato, e quindi non solo gli impianti idraulici ma anche quelli di riscaldamento compresi nell’edificazione. Non è dato quindi cogliere il profilo di razionalità del provvedimento gravato in primo grado che, di fronte alla progettazione di un impianto di riscaldamento e quindi di un’opera accessoria all’edificazione, ritiene che questo, poiché proposto come impianto collegato ad un edificio già esistente e non da realizzare, debba essere predisposto da un ingegnere.
Al contrario, trattandosi di impianto accessorio ad un edificio, la circostanza che il progetto sia presentato autonomamente non fa venire meno il collegamento univoco e funzionale con l’opera di edilizia civile e, quindi, permette che il progetto stesso sia sottoscritto anche da un architetto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.03.2013 n. 1550 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il documento contenuto in un'altra busta non integra inadempimento del bando di gara.
L’interpretazione delle clausole munite di sanzioni espulsive va condotta necessariamente alla luce dell’art. 46, c. 1-bis, d.lgs. n. 163 del 2006, che fa riferimento ai casi “di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte”.
Poiché, in questa circostanza i plichi erano integri, completi, sicuramente provenienti e sottoscritti e non mancava l’atto richiesto. Secondo i giudici del Consiglio di Stato non è quindi possibile interpretare tale contesto fuori dal principio di tassatività delle cause d’esclusione indicate dalla norma.
Più precisamente, nella pronuncia in commento si contestava la violazione della lex specialis di una procedura negoziata, in quanto la “domanda di autorizzazione di commercio all’ingrosso di farmaci” era stata rinvenuta nella busta della documentazione amministrativa, e non in quella della documentazione tecnica, come era invece richiesto dal bando.
Ma secondo i giudici di Palazzo Spada ciò non integra affatto un inadempimento della legge di gara, perché lo stesso seggio di gara dava atto che, nella busta della documentazione tecnica dell’aggiudicataria, era presente il predetto documento (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 14.03.2013 n. 1533 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'articolo 338 del testo unico delle leggi sanitarie di cui al R.D. n. 1265/1934 vieta l'edificazione nelle aree ricadenti in fasce di rispetto cimiteriale dei manufatti che possono qualificarsi come costruzione edilizie, come tali incompatibili con la natura dei luoghi e con l'eventuale espansione del cimitero.
Invero, in materia di vincolo cimiteriale la salvaguardia del rispetto dei duecento metri prevista dal citato articolo (o del limite inferiore di cui al d.p.r. numero 285/1990 che ha previsto la possibilità di riduzione della fascia di rispetto da 200 mt. a 100 mt.) "si pone alla stregua di un vincolo assoluto di inedificabilità che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale".
Ritiene il Collegio tuttavia di aderire all’opposto orientamento giurisprudenziale, di recente confermato, secondo cui “In sede di condono di opere insistenti su fascia di rispetto cimiteriale l'Amministrazione è tenuta a valutare se ed in quale misura l'opera in questione venga effettivamente a concretizzare una lesione per il vincolo cimiteriale di inedificabilità e, più in particolare, se le opere da sanare possano aggravare il peso insediativo dell'area con la realizzazione di volumi edilizi tali da considerarsi nuove costruzioni”.
Tale lettura interpretativa si fonda, esattamente, sulle finalità perseguite dalla normativa di tutela del vincolo cimiteriale, che sono sostanzialmente tre: garantire la futura espansione del cimitero; garantire il decoro di un luogo di culto; assicurare una cintura sanitaria attorno a luoghi per loro natura insalubri.

In punto di diritto, va ricordato che l'articolo 338 del testo unico delle leggi sanitarie di cui al R.D. n. 1265/1934, vigente ratione temporis, vieta l'edificazione nelle aree ricadenti in fasce di rispetto cimiteriale dei manufatti che possono qualificarsi come costruzione edilizie, come tali incompatibili con la natura dei luoghi e con l'eventuale espansione del cimitero.
Non sfugge al Collegio che, secondo cospicuo orientamento giurisprudenziale, in materia di vincolo cimiteriale la salvaguardia del rispetto dei duecento metri prevista dal citato articolo (o del limite inferiore di cui al d.p.r. numero 285/1990 che ha previsto la possibilità di riduzione della fascia di rispetto da 200 mt. a 100 mt.) "si pone alla stregua di un vincolo assoluto di inedificabilità che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale" (ex multis C.d.S., V, 14.09.2010, n. 6671; C.d.S., IV 12.03.2007, n. 1185, C.d.S., V, 12.11.1999, n. 1871; C.d.S., II, parere 28.02.1996, n. 3031/95; TAR Sicilia, Palermo, III, 18.01.2012, n. 77; TAR Campania, Napoli, IV, 29.11.2007, n. 15615; Tar Lombardia-Milano, 11.07.1997, n. 1253; Tar Toscana, I, 29.09.1994, n. 471).
Ritiene il Collegio tuttavia di aderire all’opposto orientamento giurisprudenziale, di recente confermato, secondo cui “In sede di condono di opere insistenti su fascia di rispetto cimiteriale l'Amministrazione è tenuta a valutare se ed in quale misura l'opera in questione venga effettivamente a concretizzare una lesione per il vincolo cimiteriale di inedificabilità e, più in particolare, se le opere da sanare possano aggravare il peso insediativo dell'area con la realizzazione di volumi edilizi tali da considerarsi nuove costruzioni” (cfr. TAR Genova Liguria sez. I, 20.06.2008, n. 1388).
Tale lettura interpretativa si fonda, esattamente, sulle finalità perseguite dalla normativa di tutela del vincolo cimiteriale, che sono sostanzialmente tre: garantire la futura espansione del cimitero; garantire il decoro di un luogo di culto; assicurare una cintura sanitaria attorno a luoghi per loro natura insalubri (cfr. TAR Liguria, 1^, 25.03.2004 n. 290; id., 09.07.1998 n. 373; id., 06.11.1995 n. 320; da ultimo Cons. Stato, V, 03.05.2007 n. 1933) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 06.03.2013 n. 128 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra camini, violazione di regolamenti comunali: è molestia possessoria.
Con l'interessante sentenza 06.03.2013 il TRIBUNALE di Taranto è intervenuto in materia di distanze tra camini risolvendo la questione proposta.
Nel caso di specie, alcuni condomini di uno stabile lamentavano l’illiceità di una sezione di sfiato, di forma circolare, della cappa situata all’interno di un locale a piano terra dello stabile; cappa destinata ad aspirare verso l’esterno le esalazioni provenienti dalla cottura di cibi per la ristorazione d’asporto. Tale infatti era l’utilizzo del locale concesso per permettere la gestione di una pizzeria da asporto.
Gli attori, proprietari degli appartamenti vicini al locale, lamentavano, sotto il profilo della manutenzione del possesso ex art. 1170 cod. civ. la violazione delle distanze prescritte dalla disciplina regolamentare applicabile in materia. Inoltre, gli stessi chiedevano una tutela in forma specifica per neutralizzare la fonte del pregiudizio lamentato in quanto le esalazioni proveniente dal locale–pizzeria pregiudicavano in ogni caso la salute ovvero il godimento sereno dell’abitazione. Si noti che l’esercizio dell’azione avveniva sia nella forma del ricorso per denuncia di nuova opera e di danno temuto sia in termini di ricorso d’urgenza ex art. 669-bis, avuto riguardo alla tutela obbligatoria ex art. 2043 c.c.
Il giudice, nel dirimere la questione, afferma che quando la proprietà individuale viene in conflitto con la presenza di canne fumarie –o con l’equiparabile ventola di sfiato di esalazioni provenienti da cucina– il legislatore ha inteso risolvere il tema con la regola generale di cui all’art. 890 del cod. civ., in base al quale è imposto che i camini ed opere simili a confine della proprietà devono rispettare le distanze prescritte dai regolamenti ed, in mancanza, quelle necessarie a preservare i fondi vicini da ogni danno alla solidità, salubrità e sicurezza. Grazie a questa norma –si legge nella sentenza– la proprietà risulta conformata nel suo contenuto, nel senso che i camini ed opere similari, come in questo caso lo sfiato di areazione di cucina commerciale, devono trovarsi alle prescritte distanze.
Conseguentemente la violazione delle prescrizioni regolamentari sulle distanze comporta una lesione petitoria e quindi, ricorrendone i presupposti anche soggettivi, una lesione al possesso. Questa forma di pregiudizio comporterà, alla fonte di formazione secondaria contenuta nell’art. 890 cod. civ. In buona sostanza, secondo i giudici di merito, i ricorrenti hanno agito correttamente ex art. 1170 cod. civ., dal momento che il mancato rispetto delle prescrizioni regolamentari tipizzate nel posizionamento di camini ed opere simili può integrare una molestia possessoria.
Infine, secondo il Tribunale, in caso di condotta che viola le prescrizioni regolamentari sulle distanze non è necessario accertare la ricorrenza in concreto della nocività per il vicino delle esalazioni; infatti imponendo la norma applicabile una certa distanza o una certa conformazione dell’impianto di areazione, quando si tratta di edificio condominiale, è il legislatore che ha già operato la valutazione di pericolosità. Rebus sic stanti bus, è evidente come la realizzazione dello sfiato a servizio dell’impianto di aerazione della pizzeria viola in primo luogo la prescrizione che impone che l’esalazione sia convogliata in canne ed in modo che trovino sicuro sfogo con apposito comignolo al di là del tetto; in secondo luogo quella sulla distanza minima di metri 2,5.
Da qui l’accoglimento della domanda in ordine alla eliminazione della sezione finale di sfiato della cappa a servizio del locale commerciale, situato al piano terra (TRIBUNALE di Taranto, Sez. II civile, sentenza 06.03.2013 - link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Abuso di ufficio nel reato urbanistico - Configurabilità - Presupposti - Giurisprudenza.
Il rilascio di un titolo abilitativo edilizio per la realizzazione di un immobile la cui edificazione non è consentita determina inequivocabilmente un vantaggio patrimoniale ingiusto nei confronti del privato che lo ottiene e che, in forza del titolo indebitamente conseguito, costruisce un manufatto il quale, oltre ad incrementare il valore dell'area ove insiste, ha un valore intrinseco e può essere successivamente alienato, locato o destinato comunque ad utilizzazioni economicamente vantaggiose (si veda anche Cass. Sez. VI n. 35856, 18/09/2008, fattispecie in tema di rilascio di concessione edilizia in sanatoria per opere realizzate in zona inedificabile. Cass. Sez. VI n. 44999, 07/12/2005 relativa al rilascio di una concessione edilizia in violazione del piano regolatore che avrebbe favorito il proprietario di un suolo limitrofo a quello del denunciante).
Reato di abuso d'ufficio - Violazione della normativa legale in materia urbanistica - Ingiusto vantaggio patrimoniale - Qualificazione - Art. 323 cod. pen..
Pur non potendosi qualificare gli strumenti urbanistici come norme di legge o di regolamento, la loro violazione rappresenta solo il presupposto di fatto della violazione della normativa legale in materia urbanistica alla quale si deve fare riferimento quale elemento strutturale del reato di abuso d'ufficio (giurisprudenza consolidata Cass. Sez. VI n. 46503, 03/12/2009; Sez. VI n. 11620, 20/03/2007; Sez. VI n. 16241, 20/04/2001; Sez. VI n. 9422, 05/09/2000; Sez. VI n. 6247, 29/05/2000; Sez. VI n. 13794, 01/12/1999; Sez. VI n. 12221, 26/10/1999).
Un ulteriore aspetto è quello concernente la individuazione del requisito dell'ingiustizia del danno e del vantaggio, in assenza del quale il reato di cui all'art. 323 cod. pen. non sarebbe sussistente. Precisando che, costituisce ingiusto vantaggio patrimoniale anche il semplice incremento di valore commerciale dell'immobile (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.03.2013 n. 10248 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Intervento edilizio in presenza di permesso illegittimo - Effetti.
Deve ritenersi sostanzialmente inesistente il titolo abilitativo emesso da soggetto totalmente privo del potere di emanarlo o frutto di attività criminosa del funzionario che lo rilascia o del privato che lo consegue.
Punto fermo è, dunque, che il reato di esecuzione di lavori edilizi in assenza di permesso di costruire può ravvisarsi anche in presenza di un titolo edilizia illegittimo (Cass. Sez. III n. 21487, 21/06/2006) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.03.2013 n. 10248 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Aree e costruzioni destinate a parcheggio - Legge Tognoli (L. 24/03/1989, n. 122) - Applicazione e limiti - Giurisprudenza.
La legge 24.03.1989, n. 122, riguarda esclusivamente aree e costruzioni destinate a parcheggio, con esclusione di qualsiasi altra destinazione incompatibile con il vincolo pubblicistico di natura funzionale introdotto dalla stessa legge (Cons. Stato, sez. V n. 2609, 24/04/2009).
Nello specifico, la legge 24.03.1989, n. 122 (c.d. Legge Tognoli) riguarda i parcheggi a servizio di edifici già esistenti e stabilisce, nell'art. 9, comma 1, che detti parcheggi, costruiti dai proprietari degli immobili, possono essere realizzati nel sottosuolo, ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti; possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici; devono essere destinati a pertinenza dei fabbricati; non possono essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale. I relativi atti di cessione sono nulli. Vengono fatte salve le disposizioni paesaggistiche ed ambientali.
Escludendo, nella specie, l'applicazione delle disposizioni in esame per la realizzazione, unitamente ad un garage interrato, di un insieme ulteriore di opere ad esso accessorie finalizzate ad una nuova sistemazione degli accessi all'edificio residenziale: terrazza con pensilina e scala di collegamento (Cass. Sez. III n. 28840, 11/07/2008), per parcheggi realizzati in superficie (Cass. Sez. III n. 23730, 08/06/2009; Sez. III n. 38841, 23/11/2006; Sez. III n. 37013, 15/10/2001) e per parcheggi costruiti con interramenti ottenuti per effetto del riporto di terra (Cass. Sez. III n. 26825 20/06/2003).
A conclusioni identiche è ripetutamente pervenuta anche la giurisprudenza amministrativa (v. ad es., Cons. Stato sez. IV n. 4645, 26/09/2008; Consiglio di Stato Sez. V n. 1608, 29/03/2006; Cons. Stato Sez. V n. 1662 29/03/2004) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.03.2013 n. 10248 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ordine giudiziale di demolizione - Natura - Autonoma funzione ripristinatoria - Art. 31 d.P.R. 380/2001 - Art. 445, c. 2, cod. proc. pen..
La diversa natura dell'ordine di demolizione previsto dall'art. 31 d.P.R. 380/2001 è stata da tempo delineata, trattandosi della medesima disposizione già contenuta nell'art. 7 della legge n. 47 del 1985, riconoscendo piena continuità normativa (Cass. Sez. III n. 32211, 31/07/2003). Inoltre, l'ordine giudiziale di demolizione ha natura di sanzione amministrativa di tipo ablatorio, che costituisce esplicitazione di un potere sanzionatorio autonomo e non residuale o sostitutivo rispetto a quello dell'autorità amministrativa, assolvendo ad una autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso (Cass. Sez. III n. 37120, 13/10/2005).
Per cui esso non è inscrivibile nel novero delle pene accessorie, tassativamente previste, e per tale ragione la demolizione ordinata dal giudice resta esclusa dall'applicabilità del beneficio della sospensione condizionale della pena (Cass. Sez. III n. 34297, 11/09/2007; Sez. III n. 36555, 04/11/2002), non è ricompresa nel divieto della «reformatio in peius» e resta eseguibile, qualora sia stata impartita con la sentenza di applicazione della pena su richiesta, anche nel caso di estinzione del reato conseguente al decorso del termine di cui all'art. 445, comma 2, cod. proc. pen. (Cass. Sez. III n. 18533, 11/05/2011; Sez. III n. 16552, 23/04/2001).
Conformità alla legge ed agli strumenti urbanistici - Accertamento del giudice penale - Poteri e limiti.
Il potere del giudice penale di accertare la conformità alla legge ed agli strumenti urbanistici di una costruzione edilizia trova un limite nei provvedimenti giurisdizionali del giudice amministrativo passati in giudicato che abbiano espressamente affermato la legittimità della concessione o della autorizzazione edilizia ed il conseguente diritto del cittadino alla realizzazione dell'opera (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.03.2013 n. 10248 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Varianti essenziali - Individuazioni - Diverso e autonomo permesso di costruire - Necessità - Interventi subordinati a denuncia di inizio attività - Art. 22 d.P.R. n.380/01.
In materia urbanistica, sono da qualificarsi "varianti essenziali" quelle che si distaccano dalla progettazione originaria in modo radicale sia sotto il profilo qualitativo che quantitativo e si risolvono nella realizzazione di un'opera completamente diversa da quella assentita (Cass. Sez. III n. 24236, 24/06/2010).
Esse non sono specificamente disciplinate e presuppongono, per la loro realizzazione, un diverso e autonomo permesso di costruire, mentre le varianti al permesso di costruire sono contemplate dall'art. 22 del d.P.R. n. 380/2001 e sono soggette a determinate condizioni: non devono incidere sui parametri urbanistici (indici di edificabilità, rapporti di copertura, superfici fondiarie etc.), tra i quali vanno ricomprese anche le distanze tra gli edifici (Sez. III n. 9922, 05/03/2009) e sulle volumetrie; non devono modificare la destinazione d'uso e la categoria edilizia, quest'ultima sostanzialmente corrispondente con la categoria catastale e non devono alterare la sagoma dell'edificio e violare le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.03.2013 n. 10248 - link a www.ambientediritto.it).

VARI: Invio di fax pubblicitario senza consenso? C’è il danno morale.
Il TRIBUNALE di Brescia, Sez. I civile, con la sentenza 04.03.2013 riprende una tematica molto delicata, che da tempo viene affrontata nelle aule giudiziarie, anche se con maggiore frequenza avuto riferimento all’uso illegittimo della posta elettronica (spamming) più che all’uso del fax, come nel caso di specie. In entrambi i casi, comunque, ci troviamo di fronte a dei sistemi automatizzati che rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 130 del Codice per la protezione dei dati personali.
Nel caso di specie l’attrice chiede la condanna della società di telefonia Wind Telecomunicazioni S.p.a. al risarcimento del danno patrimoniale e morale conseguente all’illecito trattamento dei propri dati personali in quanto, nonostante l’espressa richiesta di cessazione, la società ha continuato ad inviare a mezzo fax materiale pubblicitario all’utenza del suo studio professionale.
Il giudice considera convincenti le ragioni dell’attrice rigettando la “debole” difesa, per la verità, della convenuta che, al di là di eccezioni di carattere procedurale, sostiene nel merito che la parte attrice aveva espressamente autorizzato l’invio di materiale commerciale con riguardo ad una vecchia linea residenziale poi cessata, per cui tale autorizzazione doveva ritenersi estesa anche alla linea per cui è stata intentata causa, ai sensi dell’articolo 130, punto 4, del decreto legislativo 196/2003.
In realtà, come giustamente sostenuto dal tribunale, l’art. 130 del codice per la protezione dei dati personali sostiene che l'uso di sistemi automatizzati di chiamata o di comunicazione di chiamata senza l'intervento di un operatore per l'invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale è ammesso con il consenso del contraente o utente che tra l’altro può sempre revocare tale consenso. Nel caso di specie, poi , inequivocabile è la raccomandata della parte attrice con la quale si diffidava formalmente la convenuta dall’invio di materiale pubblicitario a mezzo fax. Tale circostanza rende, quindi, inutile il ricorso al comma 4 dell’art. 130 da parte della convenuta.
Alla luce di tali considerazioni il tribunale condanna la wind al risarcimento, oltre che del danno patrimoniale, anche del danno morale ai sensi dell’art. 15 del Codice privacy e dell’art. 1226 c.c., in considerazione del particolare patimento e disagio conseguente al continuo invio di fax da parte di Wind anche successivamente alla diffida e persino in corso di causa. Danno che viene quantificato in 5000,00 euro comprensivi del danno emergente costituito dal costo del toner e della carta.
Si ricorda che l’art. 15 del codice prende spunto dall’art. 23 della Direttiva 95/46/CE il quale sancisce che “Gli Stati membri dispongono che chiunque subisca un danno cagionato da un trattamento illecito o da qualsiasi altro atto incompatibile con le disposizioni nazionali di attuazione della presente direttiva abbia il diritto di ottenere il risarcimento del pregiudizio subito dal responsabile del trattamento”. Inoltre specifica al 2° comma che “il responsabile del trattamento può essere esonerato in tutto o in parte da tale responsabilità se prova che l’evento dannoso non gli è imputabile”.
In base a quanto prescritto dall'art. 15 chi ritiene di essere stato leso a seguito dell'attività di trattamento dei dati personali che lo riguardano può ottenere il risarcimento dei danni senza dover provare la "colpa" del titolare che ha trattato i suoi dati. Resta ovviamente a carico dell'interessato l'onere di provare eventuali danni derivanti dal trattamento dei dati.
Tanto in sede comunitaria quanto in quella nazionale, è stato ben chiaro che i rischi maggiori sono connessi all’uso “tecnologico” dei dati, ma, valutato che l’angolo visuale è, in ultima analisi, il valore della riservatezza e dei diritti della personalità, è prevalsa la posizione che la tutela della privacy debba estendersi a tutte le specie di dati personali.
Il 2° comma di dell’art. 15 apre, poi, la strada al riconoscimento del danno non patrimoniale che come ben sappiamo viene diversamente inteso in dottrina. Difatti secondo taluni essa viene a coincidere con la sofferenza psico-fisica del soggetto e meglio vi si attaglia la definizione di danno morale (SCOGNAMIGLIO), ma non manca chi tende a circoscrivere nell’area del danno morale i pregiudizi non suscettibili di valutazione economica mediante criteri obiettivi (BUSNELLI). Non bisogna dimenticare, inoltre, un altro indirizzo dottrinale che determina, in negativo, la figura del danno non patrimoniale, facendola coincidere con una serie di fenomeni eterogenei accomunati dalla non patrimonialità dell’interesse leso o dalla non valutabilità in denaro della lesione (DE CUPIS).
È plausibile, comunque, affermare che tale disposizione finisce per contenere una sorta di principio di “indemnisation integrale del danno non patrimoniale da trattamento dei dati personali”. Invero, è difficile scorgere una fattispecie che resti fuori dalla previsione dell’art. 11 e, dunque, non rilevi, ai fini riparatori, come violazione di detto articolo (link a www.altalex.com).

APPALTI SERVIZI: Il Comune può gestire in economia il servizio delle lampade votive.
Il tribunale amministrativo di Latina, nella sentenza in commento, si pronuncia sulla possibilità per l'amministrazione comunale di gestire in economia il servizio delle lampade votive all'interno del cimitero comunale.
È legittimo, ad avviso dei giudici amministrativi laziali, il provvedimento con cui la giunta municipale, revocando la precedente deliberazione recante la dichiarazione di pubblico interesse di un progetto presentato da un terzo nominato promotore, ha deciso di gestire direttamente il servizio delle lampade votive all'interno del cimitero comunale.
La disciplina normativa consente, infatti, alle amministrazioni pubbliche la gestione in economia (diretta o con cottimo fiduciario) "a condizione di ottenere conseguenti economie di gestione" (art. 6-bis, d. lg. 30.03.2001 n. 165) e, "qualora ne ricorrano le condizioni" ai sensi dell'art. 125, d. lg. 12.04.2006 n. 163. Sebbene, spiegano gli stessi giudici, dal quadro normativo complessivo, emerga la netta preferenza del legislatore per l'esternalizzazione dei servizi pubblici, tuttavia, non può non riconoscersi anche una -seppur limitata -possibilità, per l'ente pubblico, di gestione in economia di detti servizi.
Infatti, nonostante tutta la normativa in materia è finalizzata alla regolamentazione della concorrenza, essa non ha alcuna incidenza in ipotesi in cui l'ente pubblico decida, a monte e nei limiti in cui detta discrezionalità è riconosciuta dall'ordinamento, di gestire da sé medesimo il servizio pubblico.
Né può in radice escludersi detta possibilità in capo all'amministrazione, posto che il principio della concorrenza, a cui è ispirata la disciplina sui servizi pubblici, non può prevalere sui principi di efficienza ed economicità e buon andamento dell'attività amministrativa, laddove una ragionevole valutazione induca a ritenere preferibili soluzioni interne all'amministrazione interessata e dunque non competitive (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it
 - TAR Lazio-Latina, sentenza 28.02.2013 n. 207 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Viene meno il principio della eccezionalità del modello in house.
I giudici del Consiglio di Stato hanno sancito con la pronuncia in commento che a seguito dell'abrogazione referendaria dell'art. 23-bis d.l. n. 112/2008, è venuto meno il principio della eccezionalità del modello in house per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.
Stante l'abrogazione referendaria dell'art. 23-bis d.l. n. 112/2008 e la declaratoria di incostituzionalità dell'art. 4, d.l. n. 138/2011, e le ragioni del quesito referendario (lasciare maggiore scelta agli enti locali sulle forme di gestione dei servizi pubblici locali, anche mediante internalizzazione e società in house) è venuto meno il principio, con tali disposizioni perseguito, della eccezionalità del modello in house per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.
Venuto meno l'art. 23-bis d.l. n. 112/2008 per scelta referendaria, e dunque venuto meno il criterio prioritario dell'affidamento sul mercato dei servizi pubblici locali di rilevanza economica e l'assoluta eccezionalità del modello in house, la scelta dell'ente locale sulle modalità di organizzazione dei servizi pubblici locali, e in particolare la opzione tra modello in house e ricorso al mercato, deve basarsi sui consueti parametri di esercizio delle scelte discrezionali, vale a dire:
- valutazione comparativa di tutti gli interessi pubblici e privati coinvolti;
- individuazione del modello più efficiente ed economico;
- adeguata istruttoria e motivazione.
Trattandosi di scelta discrezionale, la stessa è sindacabile se appaia priva di istruttoria e motivazione, viziata da travisamento dei fatti, palesemente illogica o irrazionale (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.02.2013 n. 762 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACONCESSIONE IN SANATORIA ED ESTINZIONE DEI REATI ANTISISMICI.
Le violazioni della normativa antisismica, da cui non discende danno urbanistico, avendo finalità diverse rispetto allo sviluppo e all’assetto del territorio, non sono estinte dalla concessione in sanatoria.
Il tema oggetto di esame da parte della Suprema Corte nella sentenza in esame è quello dell’esatta delimitazione dell’ambito applicativo, a fini estintivi, della concessione edilizia in sanatoria, ossia se la stessa si applichi o meno a violazioni diverse da quelle urbanistiche.
La vicenda processuale vedeva imputato del reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001 (artt. 93, 94, 95) il proprietario di un immobile, cui era stato addebitato di aver eseguito un manufatto senza darne avviso al genio civile, senza la preventiva autorizzazione scritta di tale ufficio e senza la presentazione dei calcoli di stabilità. Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per cassazione la difesa dell’imputato, sostenendo, per quanto di interesse in questa sede, con un primo motivo, che il giudice di legittimità avrebbe dovuto pronunciare sentenza di annullamento senza rinvio per intervenuta estinzione del reato (durante il giudizio di primo grado l’imputata aveva, infatti, presentato istanza di sanatoria che era evasa dall’Assessorato Infrastrutture e Mobilità - Ufficio Genio Civile della Regione soltanto dopo l’emissione della sentenza).
Tesi, questa, che è stata rigettata dalla Cassazione che, sul punto, ha ricordato come la sanatoria edilizia prevista dalla L. 28.02.1985, n. 47 (art. 13), oggi contemplata dal D.P.R. n. 380 del 2001 (art. 36), è una fattispecie penale estintiva che trova applicazione ai soli reati edilizi, basandosi sull’accertamento dell’inesistenza di danno urbanistico mediante la verifica della doppia conformità agli strumenti urbanistici vigenti, sia al momento del rilascio della concessione in sanatoria, sia al momento della realizzazione dell’opera; nel caso di specie, però, essendo state contestate violazioni della normativa antisismica, da cui non discende danno urbanistico, in quanto le stesse hanno finalità diverse rispetto allo sviluppo e all’assetto del territorio, per tale diversa natura, non sono estinte dalla concessione in sanatoria (Cass. pen., sez. III, 21.05.2008, n. 20275, in Ced. Cass., n. 239871, che ritiene invece il condono operante -atteso il richiamo espresso operato dall’art. 38 all’art. 20 L. n. 64 del 1974- anche ai reati relativi a violazioni di disposizioni in materia di costruzioni in zona sismica) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.02.2013 n. 5984 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2013).

EDILIZIA PRIVATA: MANCANZA DEL PIANO PARTICOLAREGGIATO ED ESISTENZA DI OPERE DI URBANIZZAZIONE.
L’approvazione di interventi destinati a creare nuovi insediamenti in una zona per la quale il PRG subordina l’attività edificatoria all’adozione di Piani Particolareggiati ovvero di Piani di Lottizzazione Convenzionati, in assenza dei prescritti strumenti attuativi, rende necessaria, ai fini della legittimità dell’intervento, la prova rigorosa della preesistenza e sufficienza delle opere di urbanizzazione primaria, tali da rendere del tutto superfluo lo strumento attuativo.

Tema ricorrente nella giurisprudenza di legittimità della Corte di Cassazione quello afferente la configurabilità di un’ipotesi di lottizzazione abusiva ove gli interventi edilizi siano eseguiti in zone parzialmente urbanizzate.
La vicenda processuale vedeva indagato il legale rappresentante di una s.p.a., nei cui confronti era stato emesso un decreto di sequestro preventivo avente ad oggetto un complesso immobiliare in corso di realizzazione, ritenuto frutto di attività lottizzatoria illecita. In sede di riesame, il decreto veniva annullato dal Tribunale,  ritenendo che il decreto di sequestro si fondasse sugli accertamenti espletati dalla polizia giudiziaria in relazione ad interventi di ristrutturazione edilizia e cambio di destinazione d’uso di un ex complesso industriale, assentiti con un permesso di costruire ed una DIA; l’area ricadeva in zona D1 del PRG e l’art. 32 NTA prevedeva la possibilità di realizzare edifici destinati a uffici pubblici e privati, locali commerciali, alberghi autorimesse, previa redazione di un piano particolareggiato o di lottizzazione convenzionata.
Secondo i giudici di merito, la formale mancanza del piano particolareggiato non era sufficiente a configurare il fumus del reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001 (art. 44), in quanto secondo la giurisprudenza amministrativa e della Corte di Cassazione, la necessità dello strumento attuativo si verifica soltanto per le aree assolutamente inedificate o parzialmente edificate, e la valutazione del grado di urbanizzazione compete alla p.a.: la situazione di fatto dell’area e la natura dell’intervento, invece giustificava pienamente l’attestazione di conformità dell’intervento all’art. 32 delle NTA del PRG, sicché era da escludersi che vi fosse stata una violazione sostanziale delle norme che impongono l’adozione del piano attuativo, per cui i titoli rilasciati non potevano ritenersi illegittimi, né vi era stato alcun accertamento tecnico idoneo a confutare il giudizio di conformità espresso dall’Autorità amministrativa.
Contro l’ordinanza del tribunale del riesame proponeva ricorso per cassazione il P.M., sostenendo che l’intervento in questione, volto a trasformare un preesistente tessuto urbano (zona industriale imperniata su un ex pastificio) in una zona destinata a centri direzionali e attività commerciali (con negozi, uffici, depositi), non si inseriva in un quadro già urbanizzato, tanto che erano previsti nel progetto nuovi standards urbanistici per integrare quelli preesistenti (parcheggi, aree di verde); in definitiva, la mancanza del piano attuativo aveva consentito di fatto al privato di sostituirsi alla p.a. nelle scelte pianificatorie, con conseguente configurabilità dell’illecito lottizzatorio.
La Corte ha ritenuto fondato il ricorso della pubblica accusa, disponendo pertanto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza davanti al Tribunale del riesame. In particolare, la Corte, rilevava che l’intervento eseguito, di carattere palesemente lottizzatorio, richiedeva un piano particolareggiato e/o di lottizzazione convenzionata, come, del resto, previsto dall’art. 32 delle NTA del PRG. Premesso ciò in fatto, ha ritenuto la Cassazione che, nel caso di specie, era necessario un piano di attuazione o di edilizia convenzionata in quanto richiesto espressamente dal PRG, di talché -seguendo quanto rigorosamente affermato anche dalla giurisprudenza amministrativa- non può che ribadirsi come l’esonero dal piano di lottizzazione previsto in un piano regolatore generale può avvenire riguardo ai casi assimilabili a quello del ‘‘lotto intercluso’’, nel quale nessuno spazio si rinviene per un’ulteriore pianificazione, mentre detto esonero è precluso in caso di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (Cons. Stato, sez. V, 18.12.2003, n. 7799, in Foro Amm. CdS, 2003, 3742; sostanzialmente conf., sez. VI, 03.11.2003, n. 6833). 
Inoltre, è stato altresì reiteratamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa che l’approvazione del piano di lottizzazione, a differenza del permesso di costruire, non è atto dovuto, pur se conforme al piano regolatore generale, ma costituisce sempre espressione di potere discrezionale dell’autorità chiamata a valutare l’opportunità di dare attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico generale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 02.03.2004, n. 957; Cons. Stato, sez. IV, 02.03.2001, n. 1181).
Ed allora, conclude la Corte, appare indubbio che l’approvazione di interventi destinati a creare nuovi insediamenti in una zona per la quale il PRG, subordina l’attività edificatoria all’adozione di Piani Particolareggiati ovvero di Piani di Lottizzazione Convenzionati, in assenza dei prescritti strumenti attuativi, rende necessaria, ai fini della legittimità dell’intervento, la prova rigorosa della preesistenza e sufficienza delle opere di urbanizzazione primaria, tali da rendere del tutto superfluo lo strumento attuativo (v., in termini: Cass. pen., sez. III, 19.09.2008, n. 35880, in Ced Cass., n. 241031) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.02.2013 n. 5870 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2013).

EDILIZIA PRIVATATAMPONATURE LATERALI INSUFFICIENTI PER L’ULTIMAZIONE DELL’EDIFICIO.
La realizzazione al rustico del manufatto, rilevante ai fini dell’assoggettabilità temporale dello stesso al condono, comporta il necessario completamento della copertura e il tamponamento dei muri perimetrali.
La questione oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte verte, nel caso in esame, sulla individuazione dei requisiti minimi in presenza dei quali un’opera edilizia può considerarsi ‘‘ultimata’’ e, dunque, suscettibile di essere condonata.
La vicenda processuale segue alla condanna inflitta dai giudici di merito al proprietario di un immobile per il reato di cui al D.P.R. n. 445 del 2000 (art. 76) in relazione all’art. 483 c.p., cui era stato addebitato di avere falsamente attestato, in una dichiarazione inoltrata per ottenere il rilascio di un titolo in sanatoria, l’ultimazione di fabbricato prima della data del 31.03.2003. Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per cassazione l’imputato, sostenendo che, per ultimazione dell’opera, doveva intendersi, ai fini del condono, non la posa in opera del solaio di copertura bensì la sua tamponatura.
La tesi è stata ritenuta infondata dai giudici di legittimità che hanno respinto il ricorso.
In particolare, hanno osservato i Supremi Giudici, la nozione di ultimazione dell’opera, cui fare riferimento ai fini dell’applicabilità della disciplina del condono edilizio, coincide con l’esecuzione del rustico ed il completamento della copertura (per tutte, da ultimo: Cass. pen., sez. III, 24.02.2009, n. 8064, in Ced. Cass., n. 242740). Infatti, ha precisato la Corte, la L. n. 47 del 1985 (art. 31, comma 2) cui rinvia la L. n. 326 del 2003 (art. 32, comma 25), prevede che si intendono come ultimati «gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente»; tale disposizione di favore, secondo la Corte, non può trovare applicazione al di fuori del limitato ambito di operatività assegnatole dal legislatore con riferimento al condono, tant’è che la stessa è stata costantemente interpretata dalla giurisprudenza nel senso che la realizzazione al rustico del manufatto comporta che la copertura deve essere completata e i muri perimetrali debbono essere tamponati, donde non costituisce completamento della costruzione al rustico la semplice realizzazione delle strutture portanti in cemento armato, senza le tamponature laterali (v., tra le altre: Cass. pen., sez. III, 18.07.2011, n. 28233, in Ced. Cass., n. 250658).
Ed allora, proprio il richiamo a tale consolidata giurisprudenza rende evidente che, nella fattispecie, le opere non potevano considerarsi ultimate al rustico, posto che, nella specie, era stata predisposta la mera armatura in ferro per la successiva posa in opera del solaio di copertura (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.02.2013 n. 5494 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2013).

EDILIZIA PRIVATADISCIPLINA URBANISTICA E DEROGABILITA' DELLE NORME IN TEMA DI DISTANZE.
Le disposizioni in tema di distanze debbono considerarsi non derogabili dalla disciplina urbanistica, sicché il permesso di costruire rilasciato senza che siano stati rispettati tali limiti comporta la illegittimità dell’atto amministrativo; ne consegue che l’ente competente può procedere in via di autotutela qualora ravvisi l’esistenza di detta illegittimità.
La Corte Suprema si sofferma con la sentenza in esame su un tema che si pone nella sottile linea di confine tra la disciplina amministrativa e quella penale, riguardante segnatamente l’esercizio del potere di autotutela dell’amministrazione in presenza di atto amministrativo illegittimo.
La vicenda processuale vedeva imputato il proprietario e direttore dei lavori nonché l’esecutore degli stessi, ritenuti responsabili del reato previsto dall’art. 44, lett. b), del D.P.R. n. 547/1955; in particolare agli imputati era stato addebitato di avere proseguito, nonostante l’ordine di sospensione dei lavori di ristrutturazione ed elevazione, la realizzazione di un solaio di circa mq. 140 situato al terzo livello di un immobile urbano. In sede di merito, gli imputati erano stati condannati, nonostante le censure sollevate in appello, ed incentrate essenzialmente sulla illegittimità dell’ordine di sospensione dei lavori, a fronte di un previo rilascio di permesso di costruire, e dunque di lavori legittimamente avviati.
Secondo i giudici di appello l’ordine di sospensione era legittimo, e anzi doveroso, in quanto rispettoso del D.M. 02.04.1968, n. 1444 (art. 9) in tema di distanze tra edifici, che il permesso di costruire non aveva invece preso in considerazione così autorizzando opere non conformi alla disciplina primaria. Contro la sentenza di condanna proponevano ricorso per Cassazione gli imputati, sostenendo -per quanto di interesse con riferimento allo specifico profilo- che la Corte di appello avrebbe omesso di considerare che il permesso di costruire non era stato revocato e che l’ordinanza di sospensione dei lavori è illegittima se non preceduta da un provvedimento che in sede di autotutela intervenga sull’atto autorizzatorio: posto che il D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 è disposizione che ha come destinatari i soli enti territoriali e non i privati, non può sostenersi per la difesa che il permesso di costruire fosse illegittimo.
La testi ha convinto i giudici della Suprema Corte che hanno, sul punto, annullato con rinvio la decisione. In particolare, ha osservato la Cassazione, le disposizioni in tema di distanze debbono considerarsi non derogabili dalla disciplina urbanistica e il permesso di costruire rilasciato senza che siano stati rispettati tali limiti comporta la illegittimità dell’atto amministrativo (v. Cass. pen., sez. III, 16.03.2012, n. 10431, in Ced. Cass., n. 252247): ciò comporta, per la Corte, la conseguenza di ordine generale che l’ente competente può procedere in via di autotutela qualora ravvisi l’esistenza di detta illegittimità.
Venendo al contenuto della decisione impugnata, la Corte rileva che la sentenza d’appello è caduta in errore quando omette di rilevare che il provvedimento amministrativo opera un rinvio alla natura sismica del suolo. Tale rinvio potrebbe risultare coerente, secondo la Cassazione, qualora l’ordine di sospensione fosse stato emanato in ragione della tutela sismica; al contrario, il provvedimento che dispone la sospensione dei lavori venne emesso per motivi attinenti il rispetto delle distanze legali tra edifici, e non può certamente essere invocata la natura sismica del suolo come motivazione che ne prolunga gli effetti oltre il termine fissato dalla legge. Da qui, dunque, la necessità dell’annullamento (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.02.2013 n. 5487 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2013).

EDILIZIA PRIVATALA DOPPIA CONFORMITA` QUALIFICA LA ‘‘VERA’’ SANATORIA EDILIZIA.
Per il rilascio della sanatoria ex D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (art. 36) è necessario che l’intervento sia «conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda», ciò connettendosi ad un’attività vincolata della p.a., consistente nell’applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all’Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale.
Questione ricorrente e, proprio per questo, frutto di tentativi di interpretazione spesso contrario alla ratio normativa, quella oggetto di esame da parte della Suprema Corte nella sentenza in commento, in cui la Corte si sofferma ad analizzare il tema della configurabilità della sanatoria edilizia.
La vicenda processuale vedeva imputati due soggetti per avere realizzato, in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, in assenza del prescritto permesso di costruire, le strutture in legno di uno stabilimento balneare; la Corte aveva escluso la ‘‘precarietà’’ dei manufatti e, per quanto qui di interesse, aveva affermato che il reato non poteva ritenersi estinto in seguito all’avvenuto rilascio, da parte del Comune, di permesso di costruire, non potendo assimilarsi tale titolo edilizio a quello previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso il difensore degli imputati, il quale -per quanto qui di interesse- eccepiva l’erroneo disconoscimento di efficacia sanante al permesso di costruire rilasciato dal Comune, in quanto era pacifica la ‘‘doppia conformità’’ delle opere agli strumenti urbanistici vigenti, sia all’epoca della loro realizzazione sia a quella di rilascio del provvedimento, secondo le previsioni del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36.
La Corte, nel respingere il ricorso, coglie l’occasione per precisare le condizioni ed i requisiti in base ai quali può considerarsi ‘‘sanante’’ il rilascio del permesso di costruire agli effetti dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001.
In particolare, osserva la Corte, nella fattispecie in esame, il provvedimento rilasciato dal Comune:
a) non conteneva alcun riferimento all’indispensabile verifica di ‘‘doppia conformità’’ alle previsioni di piano;
b) non recava la menzione espressa dell’avvenuto versamento della somma di danaro dovuta a titolo di oblazione (che neppure risulta determinata e richiesta).
Da qui, dunque, la conclusione che il titolo edilizio rilasciato dal Comune non comportava l’estinzione del reato urbanistico, non essendo applicabile il D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (art. 45), difettandone i presupposti (in precedenza, sulla possibilità per il giudice, in tali casi, di disapplicare la concessione illegittima ex art. 5 della L. 20.03.1865 n. 2248, all. E): Cass. pen., sez. III, 20.05.2005, n. 19236, in Ced Cass., n. 231834) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.01.2013 n. 4131 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2013).

EDILIZIA PRIVATA: MEZZI MOBILI DI PERNOTTAMENTO E NUOVE COSTRUZIONI.
Rientra nella nozione di ‘‘nuova costruzione’’ l’installazione di manufatti non qualificabili come mezzi autonomi di pernottamento, trasportabili dal turista per via ordinaria e senza ricorrere a trasporto eccezionale, non potendo gli stessi rientrare in quella di ‘‘mezzi mobili di pernottamento’’ di cui alla L. 23.07.2009, n. 99 (art. 3, comma 9), la cui caratteristica precipua va individuata nella naturale destinazione ad offrire all’utilizzatore la possibilità di abbinare la facilità di spostamento con la costante disponibilità di un alloggio nel quale anche pernottare.
Altra decisione della Corte sul tema della presunta natura ‘‘libera’’ dell’intervento edilizio, stavolta, però, applicata con riferimento al regime di favore previsto dalla disciplina fissata dalla regione Sardegna.
La vicenda processuale vedeva imputato il proprietario di un’area di numerosi reati, tra cui, per quanto qui di interesse, il D.P.R. n. 380 del 2001 (art. 44, lett. c) per avere realizzato una lottizzazione abusiva a scopo edificatorio di un appezzamento di terreno di circa 2.700 mq., effettuando in esso opere di urbanizzazione primaria (reti idrica, elettrica e fognaria) e collocandovi n. 27 unità abitative prefabbricate nonché del D.P.R. n. 380 del 2001 (art. 44, lett. c), per avere realizzato le opere anzidette in assenza della prescritta concessione edilizia.
L’imputato era rappresentante legale di una società cooperativa che aveva assunto la gestione di un campeggio, sito in zona ‘‘F’’ (turistica) del piano urbanistico generale del Comune, regolarmente autorizzato ma di fatto abbandonato; nel corso di un sopralluogo, personale del Corpo Forestale aveva rilevato l’intervenuta installazione, nell’area del campeggio, di una serie di ‘‘case mobili’’, in mancanza di concessione edilizia e di autorizzazione dell’Ufficio Tutela del Paesaggio.
Si trattava di manufatti di mt. 8,50 circa di lunghezza, larghi ed alti circa mt. 2,90, attrezzati con servizi igienici, muniti di ruote e di un sistema di aggancio per il traino ma privi di targhe e di luci di posizione, sicché non potevano circolare su strada e a tale circolazione non erano omologati; essi erano stati collegati ai servizi già esistenti nel campeggio (rete idrica, fognaria ed elettrica) attraverso la nuova plurima realizzazione di tubature in PVC e pozzetti interrati. I manufatti erano stati stabilizzati poggiandoli su basamenti di cemento, in modo da lasciare sollevate le ruote, e ad essi erano state addossate verande di legno oppure pavimentazioni di mattonelle autobloccanti.
Contro la sentenza di condanna, proponeva ricorso per cassazione l’imputato, il quale eccepiva l’insussistenza della lottizzazione abusiva, pure a fronte delle disposizioni introdotte dalla L. 08.11.2011, n. 21 (art. 20) della Regione Sardegna, modificative della disciplina già posta dalla L.R. 14.05.1984, n. 22 (art. 4-bis); in secondo luogo, sosteneva la piena legittimità dell’insediamento libero (attuato cioè in assenza di titolo abilitativo edilizio) delle case mobili nell’area destinata a campeggio, essendo le stesse dotate di meccanismi di rotazione funzionanti, prive di alcun collegamento di natura permanente al suolo e con allacciamenti agli impianti rimovibili in ogni momento.
La tesi, pur suggestiva, è stata respinta dalla Cassazione che, dopo aver richiamato la normativa statale (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. e), n. 5); L. 23.07.2009, n. 99, art. 3, comma 9), e regionale (L.R. Sardegna 14.05.1984, n. 22, art. 5, comma 3, e art. 6, comma 4-bis; L.R. Sardegna 07.08.2009, n. 3, art. 5, comma 6; L.R. Sardegna 08.11.2011, n. 21, art. 20) applicabile, ha osservato come, per effetto della legislazione della Regione a statuto speciale, non costituiscono attività rilevante a fini urbanistici, edilizi e paesaggistici, gli allestimenti mobili di pernottamento che presentino i seguenti requisiti:
a) conservino i meccanismi di rotazione in funzione;
b) non posseggano alcun collegamento di natura permanente al terreno e gli allacciamenti alle reti tecnologiche;
c) gli accessori e le pertinenze siano rimovibili in ogni momento.
La sospetta incostituzionalità della disciplina regionale, è stata però legittimamente considerata irrilevante, a fronte degli elementi fattuali che caratterizzavano in concreto la vicenda in esame, allorché si consideri che:
a) gli allestimenti abitativi installati non potevano ad evidenza ritenersi diretti a soddisfare esigenze di carattere turistico meramente temporanee;
b) i meccanismi di rotazione dei quali i manufatti erano dotati, non erano destinati ad assicurare un normale e naturale spostamento di essi al di fuori del campeggio per l’inadeguatezza strutturale al viaggio su strada;
c) era stato realizzato un collegamento permanente al suolo mediante la stabilizzazione su basamenti di cemento e la realizzazione di pertinenze (verande ed accessi pavimentati) peculiari a ciascuna singola installazione e non precarie;
d) carattere di stabilità presentavano gli allacciamenti alle reti tecnologiche, la cui rimozione avrebbe dovuto comportare lavori di scavo e smantellamento delle opere di collegamento del singolo manufatto anche alle reti periferiche interrate. Da qui, dunque, non solo la configurabilità dell’illecito lottizzatorio, ma anche del connesso reato edilizio, necessitando tali strutture di permesso di costruire (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.01.2013 n. 4129 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2013).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Furto in condominio agevolato da ponteggi: chi ne risponde?
La sentenza in commento si pone sulla scia di quello che può essere considerato un orientamento giurisprudenziale unanime e ormai consolidato in tema di responsabilità dell’impresa appaltatrice e del condominio nell’ipotesi di furto consumato da persone introdottesi in un appartamento attraverso i ponteggi installati per i lavori di restauro/manutenzione dello stabile.
Tale pronuncia si differenzia da quelle emesse fino a questo momento per la particolarità del caso concreto e per la conclusione a cui è giunta la Corte d’Appello.
Nel caso de quo, per la prima volta, la Corte d’Appello, sulla base di un’analisi delle circostanze fattuali condivisa anche dal Supremo Collegio, ha dato rilievo ad elementi mai considerati prima d’ora, per quanto normativamente previsti quale causa di esonero di responsabilità.
Trattasi del comportamento colposo del condomino vittima del furto consistente, nel caso de quo, sia nella mancata adozione di cautele nella conservazione dei gioielli poi rubati, circostanza che secondo i giudici avrebbe agevolato, o comunque non evitato, la commissione del furto, sia soprattutto nell’aver aderito alla delibera con la quale il condominio decideva di non installare sui ponteggi l’impianto antifurto perché ritenuto troppo costoso.
Quest’ultimo elemento, in particolare, è stato ritenuto prevalente e determinante ai fini della decisione, con conseguente esclusione di ogni responsabilità, non solo in capo all’impresa esecutrice dei lavori, ma anche del condominio.
Quest’ultimo, proprio in ragione della decisione assunta, avrebbe potuto essere considerato l’unico responsabile del furto, responsabilità che, ai sensi dell’art. 1227 c.c., sarebbe stata diminuita in ragione del comportamento colposo del condomino che non conservava adeguatamente i propri valori.
All’impresa esecutrice dei lavori invece, essendosi limitata ad eseguire un ordine impartitegli dal condominio–committente, non poteva comunque essere imputato alcun profilo di responsabilità.
Invece, nel caso specifico, l’adesione del condomino alla delibera condominiale ha finito per annullare la responsabilità del condominio in quanto il condomino, aderendo alla decisione del condominio di non installare sui ponteggi alcun impianto antifurto, si era assunto il rischio di poter subire un furto.
Brevemente il fatto.
L’attore esponeva di aver subito nella propria abitazione un furto, assumendo che l’esecuzione dello stesso fosse stata agevolata dalla presenza di un ponteggio posto sulla facciata condominiale dall’impresa incaricata di eseguire i lavori.
Convenne pertanto in giudizio sia il condominio sia l’impresa appaltatrice, invocandone la responsabilità, rispettivamente, ai sensi dell’art. 2051 e dell’art. 2043, e chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni subiti.
Il Tribunale adito, applicati gli artt. 2043 e 2051, accoglieva la domanda attorea.
Proposto appello da parte del condominio e dell’impresa, la Corte d’Appello di Milano, in totale riforma della sentenza di primo grado, respingeva le domande proposte nei confronti degli appellanti.
Proponeva quindi ricorso in Cassazione l’attore in primo grado.
Il Supremo Collegio confermava in toto la decisione resa in secondo grado.
Vediamo ora gli orientamenti giurisprudenziali registrati in materia.
Tradizionalmente la giurisprudenza sia di merito sia di legittimità individua, nell’impresa appaltatrice, il soggetto responsabile in via principale ai sensi dell’art. 2043 c.c. e, nel condominio, il soggetto responsabile in via concorrente ai sensi dell’art. 2051 c.c.
Ovviamente, la responsabilità sia dell’impresa appaltatrice sia del condominio nei confronti del condomino è di tipo extracontrattuale, non essendo quest’ultimo parte del contratto di appalto stipulato direttamente tra il condominio e l’impresa esecutrice.
In particolare, la responsabilità dell’impresa appaltatrice è ravvisata qualora quest’ultima, trascurando le più elementari norme di diligenza e perizia e la doverosa adozione delle cautele idonee ad impedire l’uso anomalo delle impalcature, in violazione del principio del “neminen laedere”, abbia colposamente creato un agevole accesso ai ladri, ponendo così in essere le condizioni del verificarsi del danno
(cfr. ex multis: Appello Roma, Sez. III, 11.01.2011; Trib. Torino, Sez. IV, 23.07.2008; Cass. Civ., Sez. III, 23.05.2006, n. 12111; Cass. Civ., Sez. III, 12.04.2006, n. 8630; Cass. Civ., Sez. III, 11.02.2005, n. 2844; Cass. Civ. Sez. III, 10.06.1998, n. 5775; Cass., civ., Sez. III, 23.05.1991, n. 5840; Cass., civ., Sez. III, 24.01.1979, n. 539).
Dal punto di vista processuale,
il condomino che agisce per ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza di un furto deve dimostrare:
• l’evento dannoso, ovvero il furto subito e i danni conseguenti;
• la condotta colposa del danneggiante, consistente, ad esempio nella mancata adozione di idonee misure di cautela o nell’installazione di un sistema non conforme alle prescrizioni contrattuali;
• il nesso di causalità tra l’evento dannoso e la condotta colposa.

Dal canto suo,
l’impresa appaltatrice, per andare esente da responsabilità, deve fornire la prova di avere adottato tutte le cautele atte ad evitare che le impalcature divengano un agevole accesso ai piani per i ladri, e quindi idonee ad impedire una più facile esecuzione dei furti, nonché l’eventuale prova che i ladri non si siano serviti dei ponteggi per accedere all’appartamento del condomino vittima del furto.
Il condominio può essere, invece, chiamato a rispondere del danno patito dal condomino secondo un duplice titolo di responsabilità, ovvero sia quale custode del fabbricato ai sensi dell’art. 2051 c.c., sia per culpa in vigilando od in eligendo, allorché risulti che abbia omesso di sorvegliare l’operato dell’impresa appaltatrice oppure ne abbia scelta una manifestamente inadeguata per l’esecuzione dell’opera, oppure quando risulti che l’impresa sia stata una semplice esecutrice degli ordini del committente ed abbia agito quale “nudus minister” attuandone specifiche direttive (cfr., ex multis: Trib. Terni, 11.05.2011; Cass. Civ., Sez. III, 17.03.2009, n. 6435; Trib. Milano, Sez. X, 20.04.2006; Cass. Civ., 09.02.1980, n. 913).
Trattandosi di responsabilità di tipo oggettivo, l’onere probatorio a carico del condominio risulta in tal caso più gravoso.
Il condomino, infatti, dovrà limitarsi a fornire la prova del fatto e del danno subito, mentre il condominio si libererà solo fornendo prova del caso fortuito, inteso in senso lato e comprensivo, quindi, del fatto del terzo e della colpa esclusiva del danneggiato.
Tradizionalmente,
per riconoscere al condomino il diritto al risarcimento dei danni conseguenti al furto subito, i giudici, sia di merito sia di legittimità, hanno ritenuto sufficiente la dimostrazione dell’ingresso dei ladri nell’appartamento per mezzo dei ponteggi, della presenza dei ponteggi e dell’assenza di norme di cautela, ritenendo per contro irrilevanti eventuali comportamenti colposi realizzati dagli stessi condomini vittime di furti quali, ad esempio, l’aver lasciato aperte le finestre attraverso le quali erano penetrati i ladri, oppure l’aver lasciato incustoditi i beni di valore sottratti (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 28.01.2013 n. 1890 - link a www.altalex.com).

APPALTILegittima la revoca dell'aggiudicazione per indisponibilità delle risorse finanziarie.
E' legittima la revoca dell'aggiudicazione disposta per indisponibilità delle risorse finanziarie: lo ha ribadito il CGARS nella sentenza 25.01.2013 n. 47.
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale in materia di appalti pubblici, che i giudici amministrativi siciliani condividono, anche dopo l'intervento dell'aggiudicazione definitiva (nel caso di specie, solo provvisoria), non è precluso all'amministrazione appaltante di revocare l'aggiudicazione stessa, in presenza di un interesse pubblico individuato in concreto, del quale occorre dare atto nella motivazione del provvedimento di autotutela.
Sono elementi sufficienti per considerare adeguatamente motivato il provvedimento (specie ove si consideri che il procedimento era giunto alla fase dell'aggiudicazione provvisoria e non ancora a quella dell'aggiudicazione definitiva) il riferimento all'indisponibilità delle relative somme in bilancio e alla necessità di assicurare il rispetto delle previsioni del bilancio e del patto di stabilità (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: TRASFERIBILITA' DEI PARCHEGGI CONDOMINIALI.
L’art. 41-sexies della legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150, introdotto dall’art. 18 della L. 06.08.1967 n. 765, il quale dispone che nelle nuove costruzioni debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi, stabilisce un vincolo di destinazione, imponendo di riservare detti spazi ad uso diretto dei proprietari delle unità immobiliari comprese nell’edificio, e dei loro aventi causa.
Pertanto, sono nulle e sostituite ope legis dalla norma imperativa, ai sensi dell’art. 1419, comma 2, c.c., le clausole dei contratti di vendita che sottraggono le aree predette al loro obbligatorio asservimento all’uso ed al godimento dei condomini.
L’art. 12, comma 9, della L. 28.11.2005 n. 246, modificativo dell’art. 41-sexies della L. n. 1150/1942, in base al quale gli spazi per parcheggio possono essere trasferiti in modo autonomo rispetto alle altre unità immobiliari, non ha efficacia retroattiva e trova applicazione per le sole costruzioni non realizzate o per quelle per le quali, al momento della sua entrata in vigore, non erano ancora state stipulate le vendite delle singole unità immobiliari.

Con la sentenza in esame la Cassazione torna ad occuparsi del vincolo pertinenziale gravante sugli spazi per parcheggi realizzati in un edificio condominiale.
La vicenda trae origine dalla pretesa avanzata da alcuni condomini di un edificio, con area seminterrata destinata a superficie di parcheggio, nei confronti di una società immobiliare, la quale si era riservata la proprietà nonché l’uso esclusivo del seminterrato in questione, procedendo alla vendita delle singole unità abitative dell’edificio in via separata rispetto all’area accessoria di esso.
Accertato che il seminterrato era, in virtù della rilasciata licenza edilizia, destinato all’uso di parcheggio e che tale destinazione risultava permanente ai sensi della L. 06.08.1967, n. 765 e della L. 28.02.1985, n. 47, la controversia veniva decisa nel merito mediante la condanna della società immobiliare al risarcimento dei danni subiti dai condomini per il denegato uso del seminterrato a garage e mediante la dichiarazione di nullità delle clausole contenute nel regolamento di condominio e negli atti di compravendita, nella parte in cui, riservando la proprietà e l’uso esclusivo del seminterrato alla società immobiliare, avevano sottratto tale spazio alla sua inderogabile destinazione, escludendolo dalle operazioni di trasferimento.
Contro la decisione della Corte d’Appello la società immobiliare proponeva ricorso per Cassazione.
In particolare la società lamentava, per quanto qui di interesse, la mancata applicazione, al caso di specie, della normativa di cui all’art. 12, comma 9, L. 28.11.2005, n. 246, in base alla quale «gli spazi per parcheggi realizzati in forza della L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-sexies, comma 1 non sono gravati da vincoli pertinenziali di sorta né da diritti d’uso a favore dei proprietari di altre unità immobiliari e sono trasferibili autonomamente da esse», ritenendo che tale disciplina possa trovare applicazione anche nei giudizi già pendenti al momento dell’entrata in vigore della stessa, in cui non sia ancora stata definita una situazione giuridica con una pronuncia passata in giudicato.
E' noto come, secondo un costante orientamento, l’art. 41-sexies della L. n. 1150/1942, introdotto dall’art. 18 della L. n. 765/1967, disponendo che nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse debbano essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruzione (rapporto poi modificato dalla L. 24.03.1989, n. 122, che ha raddoppiato la superficie minima obbligatoria degli spazi riservati a parcheggio), ha posto in essere una norma imperativa ed inderogabile, in correlazione degli interessi pubblicistici da essa perseguiti, che opera non soltanto nel rapporto fra il costruttore o proprietario di edificio e l’autorità competente in materia urbanistica, ma anche nei rapporti privatistici inerenti a detti spazi, nel senso di imporre la loro destinazione ad uso diretto delle persone che stabilmente occupano le costruzioni o ad esse abitualmente accedono.
Ciò comporta, in ipotesi di fabbricato condominiale, che, qualora il godimento dello spazio per parcheggio non sia assicurato in favore del proprietario del singolo appartamento in applicazione dei principi sull’utilizzazione delle parti comuni dell’edificio o delle sue pertinenze, essendovi un titolo contrattuale che attribuisca ad altri la proprietà dello spazio medesimo, deve affermarsi la nullità di tale contratto nella parte in cui sottrae lo spazio per parcheggio alla suddetta inderogabile destinazione, e conseguentemente deve ritenersi il contratto stesso integrato ope legis con il riconoscimento di un diritto reale di uso di quello spazio in favore di detto condomino, salva restando la possibilità delle parti di ottenere, anche giudizialmente, un riequilibrio del sinallagma contrattuale (così, ad esempio, Cass., Sez. Un., 17.12.1984, n. 6602).
Tale orientamento non è mutato per effetto della entrata in vigore della L. 28.02.1985 n. 47, che, all’art. 26 ultimo comma ha stabilito che gli ‘‘spazi’’ di cui all’art. 18 cit. «costituiscono pertinenze delle costruzioni, ai sensi e per gli effetti degli artt. 817, 818 e 819 del codice civile». Secondo la Suprema Corte, tale disposizione «non ha portata innovativa, assolvendo soltanto alla funzione di conferire certezza testuale alle già evincibili regole secondo cui detti spazi possono essere oggetto di atti o rapporti separati, fermo però restando quel vincolo pubblicistico» (Cass. civ., sez. II, 17.12.1993, n. 12495).
In definitiva, pertanto, secondo l’orientamento consolidato «la norma richiamata istituisce fra costruzioni e spazi di parcheggio ad esse progettualmente annessi una relazione che ha connotazione di necessità e di indispensabile permanenza, di rilievo pubblicistico e con caratteristiche di realità, che, nell’ipotesi in cui la costruzione sia costituita da un fabbricato in condominio comporta che detti spazi ricadano fra le parti comuni dell’edificio condominiale ex art. 1117 c.c. quando appartengano in comunione a tutti i condomini, ovvero vengano a costituire oggetto di un diritto, reale, di uso spettante ai condomini medesimi quando la relativa proprietà competa a terzi estranei alla collettività condominiale o a uno solo dei componenti di questa»; «la normativa in discorso non vieta la negoziazione separata delle costruzioni e delle aree di parcheggio ad esse pertinenti, ma esclude che tale negoziazione possa incidere sulla permanenza del vincolo reale di destinazione gravante sulle aree cennate» (così Cass. civ., sez. II, 13.04.1998, n. 3422).
Come è noto, nel 2005 è intervenuto sul punto il legislatore, prevedendo che «Gli spazi per parcheggi realizzati in forza del primo comma dell’art. 41-sexies L. n. 1150/1942 non sono gravati da vincoli pertinenziali di sorta né da diritti d’uso a favore dei proprietari di altre unità immobiliari e sono trasferibili autonomamente da esse» (L. n. 246/2005).
La novità legislativa ha immediatamente suscitato un dibattito circa la sua applicabilità rispetto ai contratti già conclusi.
Nella sentenza che si commenta, la Suprema Corte si conforma alle sue precedenti pronunce sul punto, affermando che la nuova disposizione trova applicazione soltanto per il futuro, vale a dire per le sole costruzioni non realizzate o per quelle per le quali, al momento della sua entrata in vigore, non erano ancora state stipulate le vendite delle singole unità immobiliari; l’efficacia retroattiva della norma va pertanto esclusa (cfr. Cass. civ., sez. II, 24.02.2006, n. 4264; 13.01.2010, n. 378; 05.06.2012, n. 9090) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 24.01.2013 n. 1753 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2013).

EDILIZIA PRIVATALa Consulta sui poteri delle regioni. Distanze edifici? Solo se servono.
Le regioni possono introdurre deroghe alle distanze tra edifici solo per «interessi pubblici di territorio». La disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra infatti nella materia dell'ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale. Alle regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall'esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio.
Pertanto, la legislazione regionale che interviene in tale ambito è legittima solo in quanto persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico, rimettendo l'operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio». Le norme regionali che, disciplinando le distanze tra edifici, esulino da tali finalità, ricadono illegittimamente nella materia «ordinamento civile», riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.

Questo è quanto contenuto nella sentenza 23.01.2013 n. 6 della Corte Costituzionale.
Il fatto in sintesi: l'articolo 1, 2° comma, della legge della regione Marche 04/09/1979 n. 31 prevede che i comuni possono individuare gli edifici da ampliare nelle zone di completamento con destinazione residenziale. Procedura che ha l'efficacia di piano particolareggiato.
Sulla base di questa disposizione normativa, un cittadino aveva effettuato un ampliamento, ma il suo vicino ne aveva chiesto la demolizione. La Corte costituzionale ha precisato che la deroga alle distanze è consentita solo per interessi pubblici legati al governo del territorio. Ed ha affermato che le regioni possono introdurre delle deroghe in considerazione degli interessi e delle specificità territoriali.
Pertanto la disposizione della regione Marche è stata considerata illegittima in quanto non rispetta i limiti entro i quali la deroga è ammessa (articolo ItaliaOggi del 09.04.2013).

URBANISTICAINDIVIDUAZIONE DEGLI INDICI SINTOMATICI DELLA LOTTIZZAZIONE ABUSIVA.
Ai fini della configurabilità dell’illecito lottizzatorio, gli elementi qualificanti l’attività di lottizzazione abusiva sono individuabili:
a) nella utilizzazione del suolo che, indipendentemente dall’entità del frazionamento fondiario e dal numero dei proprietari, preveda la realizzazione contemporanea o successiva di una pluralità di edifici a scopo residenziale, turistico o industriale, che postulino l’attuazione di opere di urbanizzazione primaria o secondaria, occorrenti per le necessità dell’insediamento;
b) in nuovi interventi sul territorio tali da comportare una radicale e consistente trasformazione dell’assetto preesistente in zona non urbanizzata o non sufficientemente urbanizzata, per cui esiste la necessità di attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale attraverso la redazione e la stipula di una convenzione lottizzatoria adeguata alle caratteristiche dell’intervento di nuova realizzazione;
c) in interventi edilizi incompatibili per le loro connotazioni oggettive, con previsioni di zonizzazione e/o localizzazione dello strumento generale di pianificazione, che non possono esser modificati da piani urbanistici attuativi.

La questione oggetto di attenzione da parte della Corte di cassazione verte sulla individuazione degli elementi sintomatici in presenza dei quali può ritenersi configurabile l’illecito lottizzatorio previsto dal combinato disposto degli artt. 30 e 44, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001.
La vicenda processuale segue al rigetto da parte del Tribunale del riesame del decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP del Tribunale con il quale -per quanto qui rileva- veniva disposto il sequestro preventivo di un lotto di terreno, con relativi immobili, di proprietà di tre soggetti, indagati -unitamente ad altri- per i reati di lottizzazione abusiva e per il delitto paesaggistico previsto dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis.
Il Tribunale aveva ritenuto di dover inquadrare la condotta degli indagati nell’ambito della cd. ‘‘lottizzazione abusiva mista’’ (negoziale e materiale) in relazione alla radicale e consistente trasformazione di una zona a vocazione eminentemente agricola e sottoposta a vincolo ambientale paesaggistico, avvenuta a seguito di opere di edificazione rilevanti e incompatibili con la destinazione agricola del fondo, attesa, oltretutto, la presenza occasionale degli indagati circoscritta al periodo estivo e la relativa limitatezza degli impianti arborei ed ortofrutticoli in generale.
Contro l’ordinanza del Tribunale del riesame proponeva ricorso per cassazione la difesa degli indagati, censurandola, per quanto qui di interesse, per violazione di legge, attesa l’erronea qualificazione della condotta sotto lo schema della lottizzazione abusiva dal punto di vista oggettivo in quanto le opere realizzate, al più, potevano concretizzare l’ipotesi dell’abuso urbanistico per difformità rispetto al permesso di costruzione ma non opere di urbanizzazione o formazione di lotti a scopo edificatorio.
La tesi è stata respinta dalla Cassazione che ha ritenuto privo di fondamento il ricorso degli indagati. Sul punto, in particolare, i giudici di legittimità hanno osservato che gli interventi edilizi posti in essere risultavano caratterizzati, anzitutto, dal frazionamento dell’area ed, ancora, dall’esecuzione di interventi edilizi specifici che si collocano nell’ambito di un unico, evidente, proposito lottizzatorio. La lottizzazione in questione, dunque, per la Corte è stata esattamente qualificata di tipo ‘‘misto’’ in quanto caratterizzata dalla compresenza delle attività materiali (opere edificatorie) e negoziali (contratto di vendita e frazionamento): il frazionamento di un terreno agricolo in piccoli lotti non utilizzabili per l’esercizio dell’agricoltura è, infatti, uno degli elementi tipici della lottizzazione cartolare.
A tal proposito, ricorda la cassazione che le linee generali dell’attività lottizzatoria sono individuabili:
a) nella utilizzazione del suolo che, indipendentemente dall’entità del frazionamento fondiario e dal numero dei proprietari, preveda la realizzazione contemporanea o successiva di una pluralità di edifici a scopo residenziale, turistico o industriale, che postulino l’attuazione di opere di urbanizzazione primaria o secondaria, occorrenti per le necessità dell’insediamento;
b) in nuovi interventi sul territorio tali da comportare una radicale e consistente trasformazione dell’assetto preesistente in zona non urbanizzata o non sufficientemente urbanizzata, per cui esiste la necessità di attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale attraverso la redazione e la stipula di una convenzione lottizzatoria adeguata alle caratteristiche dell’intervento di nuova realizzazione;
c) in interventi edilizi incompatibili per le loro connotazioni oggettive, con previsioni di zonizzazione e/o localizzazione dello strumento generale di pianificazione, che non possono esser modificati da piani urbanistici attuativi (v., ad es., tra le tante: Cass. pen., sez. III, 30.12.1996, n. 11249, Pin Ced Cass., n. 207198) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.01.2013 n. 3259 - tratto da Urbanistica e appalti n. 4/2013).

APPALTIAccesso: know-how eccepibile solo se coperto da segreto tecnico.
E’ illegittimo il rigetto di una istanza ostensiva avanzata dalla ditta seconda classificata in graduatoria, tendente ad ottenere copia dell’offerta presentata dall’aggiudicataria, che sia motivato con riferimento alla necessità di tutelare la segretezza del know-how aziendale e quella relativa ai rapporti commerciali, nel caso in cui, da un lato, la domanda di accesso sia stata avanzata a fini difensivi, e dall’altro, l’attività da svolgere a seguito dell’aggiudicazione dell’appalto sia sostanzialmente priva di un segreto tecnico o commerciale.
L’art 13, comma 5, lett. a), del D. Lgs. n. 163 del 2006, richiamato nel provvedimento di diniego, spiegano i giudici del Tribunale amministrativo di Milano, ha introdotto un'ipotesi di speciale deroga rispetto alla disciplina di cui alla legge n. 241 del 1990, da applicare esclusivamente nei casi in cui l'accesso sia inibito in ragione della tutela di segreti tecnici o commerciali motivatamente evidenziati dall'offerente in sede di presentazione dell'offerta.
Ma in questa occasione, chiariscono i giudici lombardi, l’Ente in causa ha richiamato la disposizione sopra riportata, senza tuttavia rappresentare quali fossero le specifiche ragioni di tutela del segreto industriale e commerciale, in riferimento a precisi dati tecnici, dati che avrebbero già dovuti essere indicati in sede di offerta. Mentre di tale indicazione non vi è alcuna prova. La disposizione si riferisce infatti a documentazione suscettibile di rivelare il know-how industriale e commerciale contenuto nelle offerte delle imprese partecipanti, in modo da evitare che operatori economici in diretta concorrenza tra loro possano utilizzare l'accesso per giovarsi delle specifiche conoscenze possedute da altri, al fine di conseguire un indebito vantaggio commerciale all'interno del mercato.
E’ difficile, concludono gli stessi giudici, immaginare in un servizio di manutenzione del verde, in cui sono utilizzati ordinari mezzi agricoli e viene utilizzato personale tecnico con funzioni di operatore giardiniere, quale possa essere il "segreto tecnico o commerciale" da tutelare, dal momento che ciò che assume maggiore rilevanza, anche in termini di punteggio nella gara, è l’aspetto organizzativo del servizio (cioè la ripartizione del lavoro, la tipologia di interventi operativi, il contratto di lavoro applicato e il piano di formazione dei dipendenti) ambito in cui non è configurabile un know-how commerciale o industriale (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it -  TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 15.01.2013 n. 116 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La cessazione della materia del contendere si verifica quando l’amministrazione elimina ex tunc il provvedimento impugnato in aderenza alle pretese del ricorrente, con la conseguenza che quest’ultimo realizza in via amministrativa l’interesse che voleva ottenere in via giudiziale, rendendosi pertanto inutile la pronuncia del giudice (cfr. sul punto la più risalente pronuncia di Cons. Stato, Sez. V, 16.09.1994 n. 994, laddove espressamente si precisa –tra l’altro– che nel caso in cui gli effetti dell’atto lesivo vengano meno in dipendenza dell’adozione di un altro provvedimento privo di effetti retroattivi, la cessazione del contendere non può intendersi realizzata).
Come infatti ha ben evidenziato il TAR, è ius receptum che la cessazione della materia del contendere si verifica quando l’amministrazione elimina ex tunc il provvedimento impugnato in aderenza alle pretese del ricorrente, con la conseguenza che quest’ultimo realizza in via amministrativa l’interesse che voleva ottenere in via giudiziale, rendendosi pertanto inutile la pronuncia del giudice (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 30.05.2005 n. 2772, nonché la più risalente pronuncia di Cons. Stato, Sez. V, 16.09.1994 n. 994, laddove espressamente si precisa –tra l’altro– che nel caso in cui gli effetti dell’atto lesivo vengano meno in dipendenza dell’adozione di un altro provvedimento privo di effetti retroattivi, la cessazione del contendere non può intendersi realizzata) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.01.2013 n. 32 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Le modifiche della disciplina urbanistica non hanno effetto retroattivo: e ciò in applicazione del più generale principio dell’irretroattività degli atti amministrativi, il quale a sua volta discende dal fondamentale principio di legalità, deputato a garantire la certezza delle situazioni giuridiche in atto.
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Il mero sopravvenire di una nuova destinazione urbanistica non può ex se dispiegare un effetto sanante sulle opere realizzate in forza del titolo edilizio annullato, posto che a ciò osta l’art. 13 della L. 28.02.1985 n. 47, vigente all’epoca dei fatti di causa e ora riprodotto sul punto dall’art. 36, comma 1, del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380 nel testo integrato per effetto dell’art. 1 del D.L.vo 27.12.2002 n. 301, laddove segnatamente dispone che il titolo edilizio è rilasciato “in sanatoria allorquando la relativa opera risulta conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati, sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della domanda”.
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In presenza del requisito c.d. “doppia conformità” il rilascio del titolo edilizio in sanatoria costituisce atto dovuto, nel mentre ove ciò non fosse l’Amministrazione Comunale è vincolata all’adozione del provvedimento di diniego.
Il giudice di primo grado non ha dunque condiviso al riguardo la giurisprudenza minoritaria che reputa sufficiente la sussistenza della conformità edilizia all’atto dell’avvenuto mutamento della disciplina di piano, e la cui ratio ad essa sottesa è da individuarsi nell’esigenza di non imporre la demolizione di un’opera che, in quanto conforme alla disciplina urbanistica attuale, dovrebbe essere successivamente autorizzata su semplice presentazione di istanza di rilascio, in tal modo evitando uno spreco di attività inutili, sia per l’Amministrazione, che per il privato autore dell’abuso: indirizzo, questo, contraddistinto peraltro da una concezione antinomica tra principio di efficienza e principio di legalità e che –per l’appunto– assegna la prevalenza al primo rispetto al secondo.
Il giudice di primo grado ha rettamente denotato in tal senso che tale figura pretoria di sanatoria trovava apparentemente fondamento nell’art. 15, comma 12, della L. 28.01.1977 n. 10, il quale peraltro si limitava –a ben vedere- a liberalizzare la realizzazione di alcune varianti di importanza secondaria a progetti edilizi assentiti ma senza disciplinare la complessiva problematica della sanatoria amministrativa degli interventi abusivi, solo susseguentemente affrontata sul punto dall’anzidetto art. 13 della L. 47 del 1985 ma in termini che anche sotto l’immediato profilo letterale divergono da quello dell’anzidetto indirizzo giurisprudenziale rimasto minoritario.
In tale contesto il giudice di primo grado ha dunque esattamente inteso il titolo edilizio in sanatoria quale provvedimento tipico che elimina l’antigiuridicità dell’abuso estinguendo il reato ed il potere repressivo dell’Amministrazione, con la conseguenza che la sua applicazione ed i suoi limiti non possono che essere specificamente disciplinati dalla legge, non essendo con ciò possibile l’esercizio, da parte dell’amministrazione, di un potere di sanatoria che si estenda oltre i limiti imposti dal legislatore: anche perché non sarebbe ammissibile una interpretazione finalizzata alla protezione di interessi privati scaturenti da comportamenti antigiuridici, che permetterebbe, oltretutto, la possibilità di usufruire delle modifiche della disciplina urbanistica idonee a legittimare l’edificazione abusiva, addirittura, fino alla esecuzione della definitiva sanzione della demolizione; e, se così è, il principio di cui all’art. 97 della Cost., laddove farebbe ritenere illogica la demolizione dell’opera quando la stessa potrebbe essere assentita sulla base della sopravvenuta strumentazione urbanistica primaria,deve comunque intendersi recessivo rispetto al principio di legalità, il quale impone invece la necessaria e stretta osservanza della disciplina dettata dalla legge per la sanatoria delle opere abusive.

Nel caso di specie va in effetti evidenziato che la variante allo strumento urbanistico primario comunale, ancorché approvata mediante deliberazione della Giunta Regionale, non reca alcuna espressa disciplina di rimozione della deliberazione della medesima Giunta Regionale qui impugnata, la quale dunque seguita a dispiegare effetto per il passato; e, del resto, risulta pure assodato che le modifiche della disciplina urbanistica non hanno effetto retroattivo: e ciò in applicazione del più generale principio dell’irretroattività degli atti amministrativi, il quale a sua volta discende dal fondamentale principio di legalità, deputato a garantire la certezza delle situazioni giuridiche in atto (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, 26.11.2001 n. 5949).
Né, comunque, la disciplina introdotta dalla variante urbanistica è tale da consentire la convalida dell’anzidetto piano di lottizzazione, se non altro in considerazione della circostanza che con la variante medesima vengono introdotte ben più elevate dotazioni di aree a standard.
Va anche soggiunto che il mero sopravvenire di una nuova destinazione urbanistica non può ex se dispiegare un effetto sanante sulle opere realizzate in forza del titolo edilizio annullato, posto che a ciò osta l’art. 13 della L. 28.02.1985 n. 47, vigente all’epoca dei fatti di causa e ora riprodotto sul punto dall’art. 36, comma 1, del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380 nel testo integrato per effetto dell’art. 1 del D.L.vo 27.12.2002 n. 301, laddove segnatamente dispone che il titolo edilizio è rilasciato “in sanatoria allorquando la relativa opera risulta conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati, sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della domanda”.
A ragione il giudice di primo grado, pertanto, ha evidenziato che in presenza dei requisiti testé descritti (c.d. “doppia conformità”) il rilascio del titolo edilizio in sanatoria costituisce atto dovuto, nel mentre ove ciò non fosse l’Amministrazione Comunale è vincolata all’adozione del provvedimento di diniego (cfr. al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 02.11.2009 n. 6784).
Il giudice di primo grado non ha dunque condiviso al riguardo la giurisprudenza minoritaria che reputa sufficiente la sussistenza della conformità edilizia all’atto dell’avvenuto mutamento della disciplina di piano, e la cui ratio ad essa sottesa è da individuarsi nell’esigenza di non imporre la demolizione di un’opera che, in quanto conforme alla disciplina urbanistica attuale, dovrebbe essere successivamente autorizzata su semplice presentazione di istanza di rilascio, in tal modo evitando uno spreco di attività inutili, sia per l’Amministrazione, che per il privato autore dell’abuso: indirizzo, questo, contraddistinto peraltro da una concezione antinomica tra principio di efficienza e principio di legalità e che –per l’appunto– assegna la prevalenza al primo rispetto al secondo (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. V, 21.10.2003 n. 6498 e 13.02.1995 n. 238).
Il giudice di primo grado ha rettamente denotato in tal senso che tale figura pretoria di sanatoria trovava apparentemente fondamento nell’art. 15, comma 12, della L. 28.01.1977 n. 10, il quale peraltro si limitava –a ben vedere- a liberalizzare la realizzazione di alcune varianti di importanza secondaria a progetti edilizi assentiti ma senza disciplinare la complessiva problematica della sanatoria amministrativa degli interventi abusivi, solo susseguentemente affrontata sul punto dall’anzidetto art. 13 della L. 47 del 1985 ma in termini che anche sotto l’immediato profilo letterale divergono da quello dell’anzidetto indirizzo giurisprudenziale rimasto minoritario.
In tale contesto il giudice di primo grado ha dunque esattamente inteso il titolo edilizio in sanatoria quale provvedimento tipico che elimina l’antigiuridicità dell’abuso estinguendo il reato ed il potere repressivo dell’Amministrazione, con la conseguenza che la sua applicazione ed i suoi limiti non possono che essere specificamente disciplinati dalla legge, non essendo con ciò possibile l’esercizio, da parte dell’amministrazione, di un potere di sanatoria che si estenda oltre i limiti imposti dal legislatore: anche perché non sarebbe ammissibile una interpretazione finalizzata alla protezione di interessi privati scaturenti da comportamenti antigiuridici, che permetterebbe, oltretutto, la possibilità di usufruire delle modifiche della disciplina urbanistica idonee a legittimare l’edificazione abusiva, addirittura, fino alla esecuzione della definitiva sanzione della demolizione; e, se così è, il principio di cui all’art. 97 della Cost., laddove farebbe ritenere illogica la demolizione dell’opera quando la stessa potrebbe essere assentita sulla base della sopravvenuta strumentazione urbanistica primaria,deve comunque intendersi recessivo rispetto al principio di legalità, il quale impone invece la necessaria e stretta osservanza della disciplina dettata dalla legge per la sanatoria delle opere abusive.
Concludendo sul punto, il TAR ha pertanto a ragione ricusato di dichiarare nella specie la cessazione della materia del contendere, in quanto l’operato dell’Amministrazione susseguente alla proposizione della causa non si configura integralmente satisfattivo dell’interesse azionato (così, ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 18.10.2011 n. 5595)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.01.2013 n. 32 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Il Cons. Stato ha rimarcato la differenza dell’istituto di annullamento regionale rispetto al potere di annullamento d’ufficio delle concessioni di costruzione illegittime viceversa conferito al Sindaco dall’art. 10 della L. 06.08.1967 n. 765 e dall’art. 1 della L. 28.01.1977 n. 10, posto che l’Amministrazione Regionale è soltanto titolare di poteri di vigilanza e di controllo ma è priva della facoltà di sostituirsi al Comune nell’adottare determinate scelte ed è tenuta a valutare l’interesse pubblico con riferimento esclusivo alla conservazione della situazione esistente; viceversa il Sindaco deve valutare l’interesse pubblico alla rimozione dell’ atto invalido alla stregua delle altre possibilità di eliminare, in via alternativa, il vizio riscontrato, ossia mediante la modifica agli strumenti urbanistici, l’offerta di integrazione delle opere di urbanizzazione, ecc..
L’annullamento disposto dall’Amministrazione Regionale è configurato dal legislatore quale adattamento del generale potere di annullamento d’ufficio contemplato dall’allora vigente art. 6 del R.D. 03.03.1934 n. 383 (ora riferibile all’art. 2, comma 3, lett. p), della L. 23.08.1988 n. 400, nonché all’art. 138 del T.U. approvato con D.L.vo 18.08.2000 n. 267).
Quindi, l’esercizio del potere sostitutivo da parte dell’Amministrazione Regionale, a differenza del potere di autotutela riconosciuto sempre in via generale al Comune, non comporta un riesame del precedente operato da parte del soggetto titolare del potere di annullamento, ma è essenzialmente finalizzato ad assicurare da parte delle Amministrazioni comunali il rigoroso rispetto della normativa in materia edilizia.
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Il vizio di eccesso di potere per sviamento consiste nell’effettiva e comprovata divergenza fra l’atto e la sua funzione tipica, ovvero –detto altrimenti– allorquando il potere è stato esercitato per finalità diverse da quelle enunciate dal legislatore con la norma attributiva del potere medesimo e, in particolare, allorquando l’atto posto in essere sia stato determinato da un interesse diverso da quello pubblico.
Tuttavia, la censura di eccesso di potere per sviamento deve essere supportata da precisi e concordanti elementi di prova, idonei a dar conto delle divergenze dell’atto dalla sua tipica funzione istituzionale, non essendo a tal fine sufficienti semplici supposizioni o indizi che non si traducano nella dimostrazione dell’illegittima finalità perseguita in concreto dall’organo amministrativo; né il vizio in questione è ravvisabile allorquando l’atto asseritamene viziato risulta comunque adottato nel rispetto delle norme che ne disciplinano la forma e il contenuto e risulta in piena aderenza al fine pubblico al quale è istituzionalmente preordinato, anche se, attraverso la sua emanazione, l’amministrazione ha indirettamente consentito il perseguimento da parte di terzi di ulteriori finalità secondarie, lecite e non in contrasto con quella principale.

Giova quindi evidenziare, innanzitutto, che l’art. 27, primo comma, della L. 17.08.1942 n. 1150, intitolato “annullamento di autorizzazione comunali”, nel testo sostituito dall’art. 7 della L. 06.08.1967 n. 765 dispone al primo comma che “entro dieci anni dalla loro adozione le deliberazioni ed i provvedimenti comunali che autorizzano opere non conformi a prescrizioni del piano regolatore o del programma di fabbricazione od a norme del regolamento edilizio, ovvero in qualsiasi modo costituiscano violazione delle prescrizioni o delle norme stesse possono essere annullati, ai sensi dell’art. 6 del testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con R.D. 03.03.1934, n. 383, con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro per i lavori pubblici di concerto con quello per l’interno”.
Tale potere è stato trasferito alle Regioni a’ sensi dell’art. 1, lett. o), del D.P.R. 15.01.1972 n. 8, laddove segnatamente si prevede, nell’effettuare il trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di urbanistica, la clausola d’ordine generale che ricomprende nel trasferimento medesimo “ogni ulteriore funzione amministrativa esercitata dagli organi centrali e periferici dello Stato …” (cfr. in tal senso la dianzi citata decisione di Cons. Stato Sez. V, 30.09.1980 n. 801).
Il terzo comma dello stesso art. 27 dispone quindi che il provvedimento di annullamento “è preceduto dalla contestazione delle violazioni stesse al titolare della licenza, al proprietario della costruzione e al progettista, nonché alla Amministrazione comunale con l’invito a presentare controdeduzioni entro un termine all’uopo prefissato”.
Inoltre Cons. Stato, Sez. IV, 20.02.1998 n. 315 ha rimarcato la differenza dell’istituto in esame rispetto al potere di annullamento d’ufficio delle concessioni di costruzione illegittime viceversa conferito al Sindaco dall’art. 10 della L. 06.08.1967 n. 765 e dall’art. 1 della L. 28.01.1977 n. 10, posto che l’Amministrazione Regionale è soltanto titolare di poteri di vigilanza e di controllo ma è priva della facoltà di sostituirsi al Comune nell’adottare determinate scelte ed è tenuta a valutare l’interesse pubblico con riferimento esclusivo alla conservazione della situazione esistente; viceversa il Sindaco deve valutare l’interesse pubblico alla rimozione dell’ atto invalido alla stregua delle altre possibilità di eliminare, in via alternativa, il vizio riscontrato, ossia mediante la modifica agli strumenti urbanistici, l’offerta di integrazione delle opere di urbanizzazione, ecc..
L’annullamento disposto dall’Amministrazione Regionale è configurato dal legislatore quale adattamento del generale potere di annullamento d’ufficio contemplato dall’allora vigente art. 6 del R.D. 03.03.1934 n. 383 (ora riferibile all’art. 2, comma 3, lett. p), della L. 23.08.1988 n. 400, nonché all’art. 138 del T.U. approvato con D.L.vo 18.08.2000 n. 267).
A ragione il giudice di primo grado ha rimarcato in tal senso che l’esercizio del potere sostitutivo da parte dell’Amministrazione Regionale, a differenza del potere di autotutela riconosciuto sempre in via generale al Comune, non comporta un riesame del precedente operato da parte del soggetto titolare del potere di annullamento, ma è essenzialmente finalizzato ad assicurare da parte delle Amministrazioni comunali il rigoroso rispetto della normativa in materia edilizia.
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Né può condividersi la tesi de L’Alco secondo la quale la finalità perseguita dalla Giunta Regionale mediante l’annullamento da essa disposto non sarebbe in realtà deputata alla tutela dell’interesse alla legittimità dei provvedimenti urbanistico-edilizi, ma alla surrettizia protezione degli interessi strettamente commerciali che sono stati posti alla base della segnalazione pervenuta alla Giunta medesima da parte di Sermark.
Come a ragione ha affermato il giudice di primo grado, il vizio di eccesso di potere per sviamento consiste nell’effettiva e comprovata divergenza fra l’atto e la sua funzione tipica, ovvero –detto altrimenti– allorquando il potere è stato esercitato per finalità diverse da quelle enunciate dal legislatore con la norma attributiva del potere medesimo e, in particolare, allorquando l’atto posto in essere sia stato determinato da un interesse diverso da quello pubblico (cfr. sul punto, ex plurimis e tra le più recenti, Cons. Stato, Sez. V, 25.05.2010 n. 3321).
Tuttavia, la censura di eccesso di potere per sviamento deve essere supportata da precisi e concordanti elementi di prova, idonei a dar conto delle divergenze dell’atto dalla sua tipica funzione istituzionale, non essendo a tal fine sufficienti semplici supposizioni o indizi che non si traducano nella dimostrazione dell’illegittima finalità perseguita in concreto dall’organo amministrativo (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. V, 11.03.2010 n. 1418 e 15.10.2009 n. 6332); né il vizio in questione è ravvisabile allorquando l’atto asseritamene viziato risulta comunque adottato nel rispetto delle norme che ne disciplinano la forma e il contenuto e risulta in piena aderenza al fine pubblico al quale è istituzionalmente preordinato, anche se, attraverso la sua emanazione, l’amministrazione ha indirettamente consentito il perseguimento da parte di terzi di ulteriori finalità secondarie, lecite e non in contrasto con quella principale (così Cons. Stato, Sez. IV, 17.12.2003 n. 8306).
Nel caso di specie, se è ben vero che Sermark mediante la presentazione del suo esposto ha inteso tutelare propri interessi di carattere eminentemente commerciale e non già di ordine urbanistico-edilizio, risulta altrettanto assodato che la Giunta Regionale non poteva che disporre l’annullamento del piano di lottizzazione e del titolo edilizio conseguentemente rilasciato proprio in dipendenza dell’oggettiva loro illegittimità rappresentata dall’esponente, e ciò -quindi- anche a prescindere dall’interesse individuale di quest’ultima
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.01.2013 n. 32 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La “densità edilizia territoriale” è riferita a ciascuna zona omogenea e definisce il carico complessivo di edificazione che può gravare sull’intera zona; viceversa, la “densità edilizia fondiaria” è riferita alla singola area e definisce il volume massimo su di essa edificabile.
La differenza consiste nel fatto che la densità edilizia territoriale, riferendosi a ciascuna zona omogenea dello strumento di pianificazione, definisce il complessivo carico di edificazione che può gravare su ciascuna zona stessa, per cui il relativo indice è rapportato all’intera superficie della zona, ivi compresi gli spazi pubblici, quelli destinati alla viabilità, ecc.; viceversa, la densità edilizia fondiaria, concernendo la singola area e definendo il volume massimo edificabile sulla stessa, implica che il relativo indice sia rapportato all’effettiva superficie suscettibile di edificazione.

Nel D.M. 02.04.1968, recante la fissazione degli standards di edificabilità delle aree, la densità edilizia si distingue in territoriale e fondiaria.
La “densità edilizia territoriale” è riferita a ciascuna zona omogenea e definisce il carico complessivo di edificazione che può gravare sull’intera zona; viceversa, la “densità edilizia fondiaria” è riferita alla singola area e definisce il volume massimo su di essa edificabile.
La differenza consiste nel fatto che la densità edilizia territoriale, riferendosi a ciascuna zona omogenea dello strumento di pianificazione, definisce il complessivo carico di edificazione che può gravare su ciascuna zona stessa, per cui il relativo indice è rapportato all’intera superficie della zona, ivi compresi gli spazi pubblici, quelli destinati alla viabilità, ecc.; viceversa, la densità edilizia fondiaria, concernendo la singola area e definendo il volume massimo edificabile sulla stessa, implica che il relativo indice sia rapportato all’effettiva superficie suscettibile di edificazione (cfr. sul punto, tra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 22.03.1993 n. 182)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.01.2013 n. 32 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I “volumi tecnici” sono essenzialmente destinati ad ospitare impianti aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzazione dell’immobile (ossia, ad esempio, gli impianti idrici, gli impianti termici, gli ascensori e i macchinari in genere), nel mentre non possono rientrare in tale nozione i volumi che assolvano ad una funzione diversa, sia pur necessaria al godimento dell’edificio stesso e delle sue singole porzioni di proprietà individuale.
Non possono pertanto ragionevolmente configurarsi volumi tecnici la cupola e la galleria coperta, in quanto inoppugnabilmente trattasi di elementi che sono posti a servizio dei singoli esercizi che costituiscono, nel loro insieme, il centro commerciale, il quale a sua volta trova la ragione della propria realizzazione proprio nella comune utilizzazione degli spazi (parcheggi, gallerie coperte, ecc.) che consentono agli utenti di accedere contestualmente e comodamente ad una pluralità di negozi di variegata tipologia.

Per quanto riguarda il superamento delle altezze massime, va ribadito che l’avvenuto superamento dell’altezza massima contemplata dalla disciplina di zona non può essere giustificato dalla circostanza secondo la quale la cupola piramidale e la copertura della galleria costituirebbero meri volumi tecnici, in quanto tali non computabili anche per quanto attiene alla loro altezza.
I “volumi tecnici” sono infatti essenzialmente destinati ad ospitare impianti aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzazione dell’immobile (ossia, ad esempio, gli impianti idrici, gli impianti termici, gli ascensori e i macchinari in genere), nel mentre non possono rientrare in tale nozione i volumi che assolvano ad una funzione diversa, sia pur necessaria al godimento dell’edificio stesso e delle sue singole porzioni di proprietà individuale (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 04.03.2008 n. 918 e, più recentemente, anche Cons. Stato, Sez. IV, 08.02.2011 n. 812).
Non possono pertanto ragionevolmente configurarsi volumi tecnici la cupola e la galleria coperta, in quanto inoppugnabilmente trattasi di elementi che sono posti a servizio dei singoli esercizi che costituiscono, nel loro insieme, il centro commerciale, il quale a sua volta trova la ragione della propria realizzazione proprio nella comune utilizzazione degli spazi (parcheggi, gallerie coperte, ecc.) che consentono agli utenti di accedere contestualmente e comodamente ad una pluralità di negozi di variegata tipologia
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.01.2013 n. 32 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Gli spazi di parcheggio di cui all’art. 41-quinquies L. 1150/1942 costituiscono aree pubbliche da conteggiarsi ai fini della dotazione di standard, nel mentre i parcheggi di cui al successivo art. 41-sexies sono qualificati come aree private pertinenziali alle nuove costruzioni, con la conseguenza che l’art. 3, comma 2, lett. d), del D.M. 02.04.1968 n. 1444 espressamente li esclude dal computo nel calcolo della misura degli standards.
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Mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata alla imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standards essenzialmente pertiene al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione all’interno della specifica zona di intervento.
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La monetizzazione degli standard si configura quale facoltà eminentemente discrezionale dell’Amministrazione Comunale e non già quale diritto del privato, il quale non può pertanto ritenersi esente dall’onere di individuare le aree da computare in quota standard.

Da ultimo, per quanto attiene agli spazi per parcheggi, va rilevato quanto segue.
Il D.M. 02.04.1968 n. 1444, adottato in attuazione dell’art. 41-quinquies, commi ottavo e nono, della L. 1150 del 1942 come introdotto dall’art. 17 della L. 06.08.1967 n. 765, disciplina i cosiddetti standards urbanistici ed edilizi.
Per quanto qui segnatamente interessa, l’art. 5 di tale D.M. individua i rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti produttivi e gli spazi pubblici destinati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi, prescrivendo che:
1) nei nuovi insediamenti di carattere industriale o ad essi assimilabili compresi nelle zone D) la superficie da destinare a spazi pubblici o destinata ad attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi (escluse le sedi viarie) non può essere inferiore al 10% dell’intera superficie destinata a tali insediamenti;
2) nei nuovi insediamenti di carattere commerciale e direzionale, a 100 mq. di superficie lorda di pavimento di edifici previsti, deve corrispondere la quantità minima di 80 mq. di spazio, escluse le sedi viarie, di cui almeno la metà destinata a parcheggi (in aggiunta a quelli di cui al predetto art. 18 della L. 765 del 1967); tale quantità, per le zone A) e B) è ridotta alla metà, purché siano previste adeguate attrezzature integrative.
Gli spazi di parcheggi testé riferiti sono quindi aggiuntivi e non sostitutivi di quelli imposti dall’art. 18 della L. 765 del 1967, la cui misura è stata quindi modificata per effetto dell’art. 2 della L. dalla L. 24.03.1898 n. 122 (cfr. ivi: “nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni 10 metri cubi di costruzione”).
Si rinviene comprova di ciò dal differente contenuto dell’art. 41-quinquies, ottavo comma, della L. 1150 del 1942 e dell’art. 41-sexies della legge medesima.
Gli spazi di parcheggio di cui all’art. 41-quinquies costituiscono infatti aree pubbliche da conteggiarsi ai fini della dotazione di standard, nel mentre i parcheggi di cui al successivo art. 41-sexies sono qualificati come aree private pertinenziali alle nuove costruzioni, con la conseguenza che l’art. 3, comma 2, lett. d), del D.M. 02.04.1968 n. 1444 espressamente li esclude dal computo nel calcolo della misura degli standards.
Ciò posto, l’allora vigente art. 22 della L.R. 15.04.1975 n. 51 disponeva nel senso che “la dotazione minima di standard funzionali ai nuovi insediamenti di carattere commerciale stabilita dall’art. 5 del D.M. n. 1444 in misura dell’ 80% della superficie lorda di pavimento è elevata al 100%. Di tali aree almeno la metà dovrà essere destinata a parcheggi di uso pubblico”.
La finalità complessivamente perseguita dalle disposizioni sin qui riferite risulta ben evidente, ed è stata dianzi già enunciata: poiché i centri commerciali richiamano un elevato numero di consumatori è necessario, onde evitare disfunzioni e pericoli alla circolazione stradale e turbative alle proprietà che potrebbero essere causate dall’ingente numero di veicoli, predisporre un congruo numero di spazi destinati al parcheggio.
L’Alco si è invero riferita nelle sue difese all’istituto della c.d. “monetizzazione degli standards”, il quale –come è ben noto- consiste nel versamento al comune di un importo alternativo alla cessione diretta delle stesse aree, ogni volta che tale cessione non venga disposta: in tal modo, pertanto, è consentito al lottizzante di corrispondere all’Amministrazione Comunale un corrispettivo in danaro per ogni metro quadrato non ceduto, con il conseguente obbligo del Comune medesimo di utilizzare quanto ottenuto dalla monetizzazione per la realizzazione di opere pubbliche da localizzarsi ove pianificato.
Va opportunamente rimarcato che mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata alla imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standards essenzialmente pertiene al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione all’interno della specifica zona di intervento (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 16.02.2011 n. 1013).
Nella Regione Lombardia l’istituto della monetizzazione è attualmente normato dall’art. 46, comma 2, lettera a), ultimo periodo, della L.R. 11.03.2005 n. 12, in forza del quale “qualora l’acquisizione di tali aree non risulti possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa totale o parziale della cessione, che all’atto della stipulazione i soggetti obbligati corrispondano al comune una somma commisurata all’utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell'acquisizione di altre aree”.
Non dissimilmente l’art. 12, lett. a), della L.R. 05.12.1977 n. 60, vigente all’epoca dei fatti di causa, disponeva che, qualora l’acquisizione delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria e per le attrezzature pubbliche e di uso pubblico “non venga ritenuta opportuna dal Comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa totale o parziale della cessione, che all’atto della stipula i lottizzanti corrispondano al comune una somma commisurata all’utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell’acquisizione di altre aree”.
La legislazione regionale subordinava e subordina pertanto la monetizzazione degli standards a ben precisi presupposti, e ciò nella considerazione che la monetizzazione presupponeva -e presuppone- comunque un’offerta di aree, restando in facoltà del Comune la commutazione sulla base di un apprezzamento complesso, che investe sia l’idoneità o meno delle aree offerte in funzione dell’uso pubblico cui verrebbero destinate, sia la possibilità di acquisire aree alternative (con monetizzazione, quindi, a carico del lottizzante) al fine mantenere invariato il livello di dotazione di standards fissato dal piano regolatore e che non può comunque scendere al di sotto del minimo contemplato dalla legge ovvero dalla fonte autorizzata dalla legge.
Da tutto ciò discende quindi che la monetizzazione si configura quale facoltà eminentemente discrezionale dell’Amministrazione Comunale e non già quale diritto del privato, il quale non può pertanto ritenersi esente dall’onere di individuare le aree da computare in quota standard: e, se così è, deve ricavarsi la conseguenza che la Giunta Regionale, laddove ha affermato la sussistenza di una palese inopportunità della disposta monetizzazione, ha utilizzato il termine in senso improprio, avendo viceversa all’evidenza inteso censurare sotto il profilo della legittimità, segnatamente dell’eccesso di potere per illogicità, la mancanza dei presupposti nella per l’applicazione dell’istituto della monetizzazione, stante la mancata individuazione, da parte del Comune, di aree idonee ad integrare in altre parti del territorio comunale le superfici a standard rese necessarie dall’intervento de L’Alco
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.01.2013 n. 32 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: In house: è sufficiente controllo analogo congiunto.
In questa sentenza 20.12.2012 n. 2090 i giudici del TAR Toscana, Sez. I, fanno luce sui requisiti del controllo analogo congiunto nel caso di società partecipate da più enti locali.
Secondo i giudici toscani, nel caso di affidamento in house conseguente alla istituzione da parte di più enti locali di una società di capitali da essi interamente partecipata per la gestione di un servizio pubblico, il controllo, analogo a quello che ciascuno di essi esercita sui propri servizi, deve intendersi assicurato anche se svolto non individualmente ma congiuntamente dagli enti associati, deliberando se del caso anche a maggioranza, ma a condizione che il controllo sia effettivo, dovendo il requisito del controllo analogo essere verificato secondo un criterio sintetico e non atomistico.
Sicché è sufficiente che il controllo della mano pubblica sull'ente affidatario, purché effettivo e reale, sia esercitato dagli enti partecipanti nella loro totalità, senza che necessiti una verifica della posizione di ogni singolo ente (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla possibilità o meno di qualificare come “volumi tecnici” le soffitte, gli stenditori chiusi, le mansarde ed i sottotetti.
Devono considerarsi vani tecnici solo quelli destinati esclusivamente agli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione e che non possono essere collocati al suo interno e che, in quanto tali, non solo non sono abitabili, ma non sono nemmeno suscettibili di essere considerati dei volumi autonomi.
Altresì, vanno considerati come volumi tecnici (come tali non rilevanti ai fini della volumetria di un immobile) quei volumi destinati esclusivamente agli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione e che non possono essere ubicati al suo interno, mentre non sono tali -e sono quindi computabili ai fini della volumetria consentita- le soffitte, gli stenditori chiusi e quelli di sgombero, nonché il piano di copertura (impropriamente definito sottotetto, ma costituente in realtà una mansarda, in quanto dotato di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda).
Ulteriori pronunce hanno evidenziato come l’esistenza di una scala interna, così com’è presente nel caso di specie -e nell’ambito della realizzazione di un vano sottotetto-, costituisce un indice rivelatore dell'intento di rendere abitabile detto locale, “non potendosi considerare volumi tecnici i vani in esso ricavati.

Sul punto va ricordato che per un costante orientamento giurisprudenziale devono considerarsi vani tecnici, solo quelli destinati esclusivamente agli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione e che non possono essere collocati al suo interno e che, in quanto tali, non solo non sono abitabili, ma non sono nemmeno suscettibili di essere considerati dei volumi autonomi.
Come, peraltro, ha confermato una recente pronuncia di merito (TAR Lombardia Milano Sez. II, 05.01.2012, n. 38) ...”vanno considerati come volumi tecnici (come tali non rilevanti ai fini della volumetria di un immobile) quei volumi destinati esclusivamente agli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione e che non possono essere ubicati al suo interno, mentre non sono tali -e sono quindi computabili ai fini della volumetria consentita- le soffitte, gli stenditori chiusi e quelli di sgombero, nonché il piano di copertura (impropriamente definito sottotetto, ma costituente in realtà una mansarda, in quanto dotato di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda)”.
Ulteriori pronunce hanno evidenziato come l’esistenza di una scala interna, così com’è presente nel caso di specie -e nell’ambito della realizzazione di un vano sottotetto-, costituisce un indice rivelatore dell'intento di rendere abitabile detto locale, “non potendosi considerare volumi tecnici i vani in esso ricavati (TAR Lombardia Milano Sez. II, 29-04-2011, n. 1105)” (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 14.12.2012 n. 1563 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Il Comune non ha il potere di individuare i servizi locali.
L'individuazione delle funzioni fondamentali per il soddisfacimento dei bisogni primari delle comunità locali costituisce materia riservata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell'art. 117 della Costituzione.
L'elencazione dei servizi locali indispensabili per i Comuni è contenuta nel D.M. 28.05.1993 adottato dal Ministero dell'interno di concerto con il Ministero del Tesoro; tale D.M. costituisce applicazione dell'art. 11 del d.l. 18.1.1993 n. 8, conv. in l. 19.3.1993 n. 68 (Disposizioni urgenti in materia di finanza derivata e di contabilità pubblica). Ancorché il citato D.M. non risulti espressamente richiamato nell'art. 159 T.U.E.L. lo stesso integra atto di normazione secondaria con carattere di tassatività.
La fonte normativa del citato atto di normazione secondaria, art. 11 del d.l. 8/1993, conv. in l. 68/1993, è stato oggetto di espressa abrogazione ex art. 123, lett. q), del D.Lgs. 77/1995 come sostituito dall'art. 46 del D.Lgs. 11.6.1996 n. 336.
Tale circostanza non può ritenersi idonea a determinare il venir meno della competenza ministeriale in ordine alla individuazione dei servizi locali indispensabili, atteso che "l'individuazione delle funzioni fondamentali per il soddisfacimento dei bisogni primari delle comunità locali costituisce comunque materia riservata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato ai sensi del novellato art. 117 Cost., tant'è che la relativa disciplina ha formato oggetto di delega parlamentare al Governo (art. 2, c. 1, l. 05.06.2003 n. 131)".
La riserva di potestà esclusiva in favore dello Stato ai sensi dell'art. 117 Cost. così come riformulato a seguito delle modifiche del Titolo V Parte II della Costituzione, costituisce circostanza idonea a determinare la perdurante validità e vigenza del citato D.M. del 1993, colmando il vuoto normativo determinatosi a seguito dell'abrogazione dell'art. 11. del d.l. 18/1993.
Tuttavia, anche diversamente opinando, riconosciuto comunque il carattere derogatorio dell'art. 159 T.U.E.L., un ipotetico venir meno del potere di formazione primaria e secondaria in capo allo Stato non consentirebbe comunque al Comune un libero e indiscriminato uso del potere di individuazione dei servizi locali indispensabili (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it -  TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 07.12.2012 n. 2109 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Le ordinanze contingibili e urgenti non debbono per forza avere sempre il carattere della provvisorietà, dato che il loro connotato essenziale è la necessaria idoneità delle relative misure ad eliminare la situazione di pericolo che costituisce il presupposto della loro adozione, e quindi le misure stesse possono essere provvisorie o definitive a seconda del tipo di rischio che intendono fronteggiare, nel senso che occorre avere riguardo alle specifiche circostanze di fatto del caso concreto e allo scopo pratico perseguito attraverso il provvedimento sindacale.
La motivazione del ricorso allo strumento straordinario ben può evincersi dalla pluralità di elementi acquisiti al procedimento, se oggettivamente capaci di rivelare in sé le ragioni di urgenza che legittimano l'intervento eccezionale dell'Autorità sindacale.
Peraltro, la scelta dell'amministrazione di provvedere a porre rimedio a tale situazione con l'emanazione di un’ordinanza contingibile ed urgente a tutela dell'igiene e della sanità pubblica, nonché della sicurezza dei cittadini, in quanto concerne il merito dell'azione amministrativa sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, non risultando manifestamente inficiata da illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, oltre che da travisamento dei fatti.
Infine l'attualità della minaccia per l’incolumità pubblica e l'igiene esclude rilevanza al fatto che la situazione di pericolo fosse nota da tempo. Del resto la giurisprudenza ha precisato più volte che presupposto per l'adozione dell'ordinanza contingibile è la sussistenza e l'attualità del pericolo, cioè del rischio concreto di un danno grave e imminente, a nulla rilevando neppure che la situazione di pericolo fosse, come parrebbe nel caso di specie, nota da tempo.

... per l'annullamento quanto al ricorso principale:
- delle Ordinanze sindacali contingibili ed urgenti -in materia di incolumità pubblica- n. 92 del 14/07/2011, nn. 78 e 88 del 06/07/2011, recanti ordine di lasciare libero da persone e cose i prefabbricati in Via Di Vittorio, ai fini della rimozione delle lastre di cemento-amianto poste a coperture dei prefabbricati stessi, nonché della nota sindacale prot. n. 9846/11 del 06/06/2011;
...In ordine alla possibilità da parte del Comune di ricorrere allo strumento dell'ordinanza contingibile e urgente per eliminare definitivamente la situazione di pericolo accertata, il Collegio rileva che nella fattispecie in esame gli effetti pregiudizievoli per la salute pubblica derivanti dal pericolo di dispersione di fibre di amianto palesano una situazione di concreta ed immediata minaccia per la sanità e l'incolumità pubbliche, indice della necessità di interventi solleciti e non più dilazionabili.
A tal riguardo il Collegio condivide l'orientamento secondo cui le ordinanze contingibili e urgenti non debbono per forza avere sempre il carattere della provvisorietà, dato che il loro connotato essenziale è la necessaria idoneità delle relative misure ad eliminare la situazione di pericolo che costituisce il presupposto della loro adozione, e quindi le misure stesse possono essere provvisorie o definitive a seconda del tipo di rischio che intendono fronteggiare, nel senso che occorre avere riguardo alle specifiche circostanze di fatto del caso concreto e allo scopo pratico perseguito attraverso il provvedimento sindacale (cfr. TAR Veneto, III, 07.07.2010 n. 2887).
La motivazione del ricorso allo strumento straordinario ben può evincersi dalla pluralità di elementi acquisiti al procedimento, se oggettivamente capaci di rivelare in sé le ragioni di urgenza che legittimano l'intervento eccezionale dell'Autorità sindacale.
Peraltro, la scelta dell'amministrazione di provvedere a porre rimedio a tale situazione con l'emanazione di un’ordinanza contingibile ed urgente a tutela dell'igiene e della sanità pubblica, nonché della sicurezza dei cittadini, in quanto concerne il merito dell'azione amministrativa sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, non risultando manifestamente inficiata da illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, oltre che da travisamento dei fatti (cfr. Consiglio Stato,V, 28.09.2009, n. 5807).
Infine l'attualità della minaccia per l’incolumità pubblica e l'igiene esclude rilevanza al fatto che la situazione di pericolo fosse nota da tempo. Del resto la giurisprudenza ha precisato più volte che presupposto per l'adozione dell'ordinanza contingibile è la sussistenza e l'attualità del pericolo, cioè del rischio concreto di un danno grave e imminente, a nulla rilevando neppure che la situazione di pericolo fosse, come parrebbe nel caso di specie, nota da tempo (cfr. Consiglio di Stato, V, 28.03.2008, n. 1322) (TAR Basilicata, sentenza 05.12.2012 n. 543 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare: le cause di esclusione sono tassative.
Nelle gare pubbliche le cause di esclusione, incidendo sull'autonomia privata delle imprese e limitando la libertà di concorrenza nonché il principio di massima partecipazione, sono tassative e non possono essere interpretate analogicamente.
Ai sensi dell'art. 46, c. 1-bis, codice dei contratti, modificato dall'art. 4, c. II, lett. d), d.l. 13.05.2011 n. 70, nelle gare pubbliche le cause di esclusione, incidendo sull'autonomia privata delle imprese e limitando la libertà di concorrenza nonché il principio di massima partecipazione, sono tassative e non possono essere interpretate analogicamente e, qualora manchi una chiara prescrizione che imponga in modo esplicito l'obbligo dell'esclusione, vale il principio della più ampia partecipazione alla gara allo scopo di garantire il migliore risultato per l'Amministrazione stessa.
Inoltre, l'art. 46, c. 1-bis, del codice dei contratti, ha previsto la tassatività delle cause di esclusione, disponendo che la stazione appaltante può escludere i candidati o i concorrenti solo in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; ma i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di nullità delle clausole escludenti invocate dalla ricorrente incidentale in questa occasione (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 04.12.2012 n. 2904 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PATRIMONIOIllegittimo impedire l’ingresso dei cani nei parchi.
Sono illegittime le ordinanze urgenti che impongano il divieto di ingresso dei cani nei parchi. E’ illegittima una ordinanza contingibile ed urgente con la quale un Ente locale, per la tutela igienico sanitaria e/o la prevenzione di pericoli per la pubblica incolumità, disponga il divieto assoluto di introdurre cani in alcune aree verdi del territorio comunale, nel caso in cui difetti una situazione di effettiva eccezionalità ed imprevedibilità tale da far temere emergenze igienico sanitarie o pericoli per la pubblica incolumità.
Lo ha stabilito il TAR Sardegna, Sez. I, con la sentenza 30.11.2012 n. 1080.
E’ infatti noto, spiegano i giudici amministrativi isolani, che il potere di emanare ordinanze di cui all’art. 50, comma 5, d.lgs. 267 del 2000 (TUEL), peraltro riservato al Sindaco, permette anche l'imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico dei destinatari; tuttavia, il potere ivi previsto presuppone, da un lato, una situazione di pericolo effettivo, da esternare con congrua motivazione, e, dall'altro, una situazione eccezionale e imprevedibile, cui non sia possibile far fronte con i mezzi previsti in via ordinaria dall'ordinamento.
L'ordinanza non può, invece, essere utilizzata per soddisfare esigenze che siano prevedibili ed ordinarie (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 09.04.2013

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IN EVIDENZA

APPALTI: G.U. 08.04.2013 n. 82 "Disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonché in materia di versamento di tributi degli enti locali" (D.L. 08.04.2013 n. 35).

APPALTI: P.a., il pagamento è di rigore. A risponderne sarà il dirigente. Le novità del decreto legge che sblocca i debiti delle pubbliche amministrazioni.
Pagamento speedy delle fatture verso la p.a., a qualunque costo. Anche quello, per l'ente pubblico, di rischiare di sbagliare.
È il funzionario pubblico che autorizza la spesa a dover rendere conto e rimborsare l'ente, se a posteriori si scopre qualcosa che non va.
Il decreto legge sul pagamento dei crediti maturati verso la pubblica amministrazione fino al 31.12.2012 (D.L. 08.04.2013 n. 35), esaminato dal consiglio dei ministri, rende effettiva la possibilità di evitare ritardi dei pagamenti da parte degli enti pubblici.
Lo strumento usato è quello di depotenziare il possibile veto interno al pagamento da parte degli organi preposti al controllo degli atti.
Stiamo parlando delle modifiche che riguardano i pagamenti delle cosiddette transazioni commerciali e cioè i contratti, comunque denominati, tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo.
Il decreto legislativo 231/2002 prevede brevi termini di pagamento (di regola trenta giorni) oltre i quali scatta l'applicazione di pesanti interessi di mora.
Nelle transazioni commerciali in cui il debitore è una pubblica amministrazione il decreto 231/2002 prevede che le parti possono pattuire, purché in modo espresso, un termine per il pagamento superiore ai trenta giorni, quando sia giustificato dalla natura o dall'oggetto del contratto o dalle circostanze esistenti al momento della sua conclusione. In ogni caso i termini non possono essere superiori a sessanta giorni e la clausola relativa al termine deve essere provata per iscritto.
Il problema è sempre stato fare in modo che queste disposizioni non rimangano lettera morta. Vediamo le novità del decreto legge in esame.
Innanzi tutto è istituita una procedura per rispettare i termini di pagamento: gli atti di pagamento emessi a titolo di corrispettivo nelle transazioni commerciali devono pervenire all'ufficio di controllo almeno 15 giorni prima della data di scadenza del termine.
Le fasi interne di lavorazione delle fatture sono cadenzate in maniera che non subiscano lungaggini per questioni burocratiche.
L'ufficio di controllo deve espletare i riscontri di competenza, ma dà comunque corso al pagamento, entro il termine di scadenza previsto dal decreto legislativo 231/2002: questo sia in caso di esito positivo, sia in caso di formulazione di osservazioni o richieste di integrazioni e chiarimenti.
La necessità di approfondimenti istruttori non blocca il pagamento.
A questo punto se il dirigente responsabile non risponde alle osservazioni, oppure i chiarimenti forniti non sono accettabili, l'ufficio di controllo è tenuto a segnalare alla procura regionale della Corte dei conti eventuali ipotesi di danno erariale derivanti dal pagamento.
Quindi bisogna rispettare i termini di pagamento e se il pagamento non era dovuto scatta la responsabilità erariale del dirigente responsabile. La responsabilità individuale sarà uno stimolo efficace per evitare che si commettano irregolarità amministrative a monte, confidando di poter bloccare poi, a valle, i pagamenti. Il decreto legge in esame ribalta le cose: il pagamento si fa, salvo casi eccezionali, e il dirigente pubblico è chiamato a rispondere delle spese indebite.
Per evitare, tuttavia, clamorosi autogol il decreto legge sul pagamento dei debiti maturati al 31/12 mantiene fermi i divieti di pagamento previsti dal decreto 123/2011: per esempio spese fuori bilancio. Ma anche atti di spesa pervenuti oltre il termine perentorio di ricevibilità del 31 dicembre dell'esercizio finanziario cui si riferisce la spesa oppure casi di imputazione della spesa sia errata rispetto al capitolo di bilancio o all'esercizio finanziario, o alla competenza piuttosto che ai residui, di violazione delle disposizioni che prevedono specifici limiti a talune categorie di spesa.
In questi casi il divieto giustifica il mancato pagamento nei termini.
Responsabilità individuale. Il decreto legge sul pagamento dei debiti fino al 2012 mette alla sbarra i funzionari pubblici anche nel caso di mancato rispetto delle disposizioni da esso previste. Se dalla negligenza deriva una condanna dell'ente pubblico al pagamento di somme per risarcimento danni o per interessi moratori, il funzionario pubblico dovrà rimborsare l'amministrazione per tutte le somme pagate, senza sconti. La corte dei conti, infatti, non potrà esercitare, per espresso divieto, il potere di riduzione dell'addebito.
Con riferimento ai crediti maturati fino al 31.12.2012 sono da segnalare altre due novità. Innanzi tutto le somme destinate al loro pagamento sono insequestrabili e impignorabili. Quindi si attiva un particolare scudo protettivo.
In secondo luogo si individuano misure di semplificazione e agevolative della cessione del credito.
Gli atti di cessione dei crediti certi, liquidi ed esigibili maturati nei confronti delle pubbliche amministrazioni alla data del 31.12.2012 per somministrazioni, forniture e appalti sono esenti da imposte, tasse e diritti di qualsiasi tipo.
Inoltre l'autenticazione delle sottoscrizioni degli atti di cessione dei crediti nei confronti delle pubbliche amministrazioni potrà essere effettuata anche dall'ufficiale rogante dell'amministrazione debitrice (ad esempio il segretario comunale); in tale ipotesi la cessione si intende accettata ai sensi dell'articolo 1264 del codice civile. Nel caso in cui l'autenticazione delle sottoscrizioni sia, invece, effettuata da un notaio gli onorari sono comunque ridotti alla metà.
La notificazione degli atti di cessione, anche se precedenti all'entrata in vigore del decreto, potrà essere effettuata direttamente dal creditore anche a mezzo di piego raccomandato con avviso di ricevimento (e non necessariamente con notifica dell'ufficiale giudiziario) (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.04.2013).

dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

APPALTI SERVIZI - INCARICHI PROFESSIONALI: R. Lasca, I prodotti degli “Incarichi esterni” e degli “Appalti” e relativi contratti: due fattispecie sicuramente distinte oggi per le PP.AA. italiane? - La Corte dei Conti della Lombardia prova a distinguere con la delibera collaborativa n. 51/2013: ma qualcosa non torna …. in punto di diritto! Vediamo esattamente cosa (08.04.2013).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - URBANISTICA: E. Michetti, Le nuove norme in materia di obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni della P.A.: in G.U. il decreto sul riordino della disciplina (08.04.2013 - tratto da www.gazzettaamministrativa.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Imposta di bollo - segnalazione certificata inizio attività e altri atti previsti per l’esercizio di attività soggette alle visite e ai controlli di prevenzione incendi - Richiesta parere (Agenzia delle Entrate, risoluzione 08.04.2013 n. 24/E).
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A. R. Zannella, Comunicazione di inizio attività. “Scia” o “Dia”, il bollo non c’è.
La segnalazione certificata, che oggi viene presentata in sostituzione della denuncia, non sconta il tributo, trattandosi non di un’istanza, ma di un semplice avviso (link a www.fiscooggi.it).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Che fine ha fatto l'indennità di vacanza contrattuale nel pubblico impiego? (CGIL-FP di Bergamo, nota 08.04.2013).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Rete ecologica Natura 2000.
Domanda
Gli impianti eolici in siti appartenenti alla rete ecologica Natura 2000 sono soggetti a vincoli europei?
Risposta
La Corte di giustizia delle comunità europee, sezione prima, con la sentenza del 21.07.2011 (causa C-2/10) ha stabilito, in tema di location, sia in terra ferma, sia nelle distese marine, che la direttiva del 21.05.1992, 92/43/Cee, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche, che la direttiva del consiglio del 02.04.1979, 79/409/Cee, concernente la conservazione degli uccelli selvatici, che la direttiva del parlamento europeo e del consiglio del 27.09.2001, 2001/77/Cee, sulla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità, che la direttiva del parlamento europeo e del consiglio del 23.04.2009, 2009/28/Ce, sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/Cee e 2003/30/Ce devono essere interpretate nel senso che esse non ostano a una normativa che vieta l'installazione di aerogeneratori non finalizzati all'autoconsumo su siti appartenenti alla rete ecologica Natura 2000, senza alcuna previa valutazione dell'incidenza ambientale del progetto sul sito specificamente interessato, a condizione che i principi di non discriminazione e di proporzionalità siano rispettati.
Pertanto, la Corte di giustizia delle comunità europee, con la succitata sentenza, puntualizza che, nell'installazione di impianti eolici, deve essere tenuto bene presente il principio di diritto generale di inaccessibilità a divieti assoluti. Quindi, per la corte, le location di energie rinnovabili trovano un accoglimento migliore se esse sono corredate da studi comparativi sulle ripercussioni ambientali, alla luce delle aggiornate conoscenze tecno-scientifiche (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.04.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Campionamento acque reflue.
Domanda
Il campionamento delle acque reflue può avvenire attraverso un semplice esame visivo?
Risposta
La Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza del 03.04.2012, numero 12471, ha affermato che ai fini dell'affermazione della responsabilità di cui all'articolo 137 del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, il campionamento delle acque reflue non può avvenire soltanto attraverso l'esame visivo, ma deve essere utilizzato il metodo di analisi.
Al riguardo, l'allegato 5 alla parte III del suddetto decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, dispone che le determinazioni analitiche ai fini del controllo i conformità degli scarichi di acque reflue industriali devono, di norma, essere riferite a un campione medio prelevato nell'arco delle tre ore. È facoltà dell'Autorità preposta al controllo, di effettuare il campionamento su tempi diversi al fine di ottenere il campione più adatto a rappresentare lo scarico, qualora lo giustifichino particolari esigenze, quali quelle derivanti dalle prescrizioni contenute nell'autorizzazione dello scarico, dalle caratteristiche del ciclo tecnologico, dal tipo di scarico, dal tipo di accertamento (accertamento di routine, accertamento di emergenza ecc.).
L'esercizio di detta facoltà deve essere motivato nel verbale di campionamento. Le determinazioni analitiche devono essere riferite, di norma, ai fini del controllo di conformità degli scarichi, a un campione medio prelevato nell'arco di tre ore. Fornendo adeguata motivazione, l'Autorità preposta, può effettuare il campionamento in tempi diversi. Da ciò si evince che la regola è il campionamento medio, su indicato, mentre quello istantaneo è l'eccezione.
La Corte di cassazione, con la succitata sentenza ha puntualizzato che non può ravvisarsi alcuna nullità nel caso in cui non sia stato utilizzato il metodo ordinario di campionamento, dovendosi piuttosto verificare se il metodo in concreto adottato abbia prodotto risultati fallaci o comunque inattendibili. Si richiama, in materia, pure la sentenza del 21.04.20111, numero 16054, della Corte di cassazione, sezione III penale (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.04.2013).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONEAppalti. Per i giudici contabili il bonus va assegnato solamente per le opere pubbliche. Manutenzioni ed economie senza incentivo ai progetti.
LA SOMMA URGENZA/ Da valutare caso per caso l'erogazione del compenso straordinario negli interventi decisi in emergenza.

Per le manutenzioni ordinarie, per i lavori in economia e per le progettazioni diverse dalle opere pubbliche non spetta l'incentivo per la realizzazione di opere pubbliche, mentre nelle cosiddette «somme urgenze» occorre fare una valutazione caso per caso.
Sono queste le indicazioni di maggiore rilievo contenute nel parere 19.03.2013 n. 15 della sezione regionale di controllo della Corte dei Conti della Toscana.
In questo modo si spingono gli enti ad applicare in modo restrittivo l'incentivazione prevista dall'articolo 92 del Codice dei contratti (Dlgs n. 163/2006) ai dipendenti pubblici, pari al 2% dell'importo dell'opera.
Queste indicazioni vengono dopo i chiarimenti che varie sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti hanno fornito sul divieto di erogare questo compenso nel caso di interventi sul verde, di redazione di piani urbanistici effettuata all'esterno dell'ente e di strumenti urbanistici non collegati alla realizzazione di lavori pubblici. Ora, con il parere della magistratura contabile toscana arriva a compimento il processo di drastica delimitazione dei casi in cui l'incentivo può essere erogato.
Il parere parte dal richiamo al dettato normativo; esso fa «riferimento esclusivamente ai lavori pubblici, e l'articolo 92, comma 1, presuppone l'attività di progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell'opera pubblica progettata. A fortiori, lo stesso comma 6 dell'articolo 92 prevede che l'incentivo alla progettazione venga ripartito tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto». In altri termini, il dato normativo subordina il compenso alla realizzazione di opere pubbliche. Quindi occorre escludere «i lavori di manutenzione ordinaria, peraltro finanziati con risorse di parte corrente del bilancio. Lo stesso può concludersi in riferimento ai lavori in economia, siano essi connessi o meno ad eventi imprevedibili». Cioè non siamo in presenza in nessuna di queste due fattispecie di opere pubbliche.
Le conclusioni sono più differenziate per i lavori di somma urgenza. In questo caso «appare dirimente, alla luce delle interpretazioni proposte, valutare la natura del lavoro eseguito che dovrà presentare i caratteri dell'opera pubblica o del lavoro finalizzato alla realizzazione di un'opera di pubblico interesse per poter rientrare» nell'incentivazione.
Infine, viene chiarito che «l'attività di redazione del piano di gestione di una Zona di Protezione Speciale, non rientra in quelle oggetto di incentivo». Anche in questo caso alla base della esclusione vi è la considerazione che il dettato legislativo prevede l'incentivo solamente nel caso di realizzazione di lavori pubblici e non può essere estesa allo svolgimento di altre attività (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPersonale. La Corte dei conti fissa lo stop agli aumenti già nell'anno di sforamento.
Patto, blocco immediato per il Fondo accessorio. La certificazione avviene però solo nell'aprile successivo.

Il mancato rispetto del patto di stabilità e delle norme sul contenimento delle spese di personale, vietano l'incremento del fondo del salario accessorio già nell'anno in corso.
L'ormai unanime e consolidato orientamento della Corte dei conti è stato recentemente riassunto dalla Sezione regionale della Toscana nel parere 19.03.2013 n. 13.
Il fondo di parte variabile della contrattazione decentrata può essere incrementato di anno in anno. La riforma Brunetta ha, però, introdotto precise condizioni per legittimare questo comportamento. Il contenuto dell'articolo 40, comma 3-quinquies, del Dlgs 165/2001 è chiaro: l'ente deve rispettare il patto di stabilità e la riduzione delle spese di personale.
La norma, però, non ha precisato l'anno a cui fare riferimento, per la verifica dei vincoli. Le interpretazioni, in maniera costante, hanno ritenuto che si debba analizzare sia l'anno precedente (dato certo) che l'anno in corso. E se questo, a livello di principio non fa una piega, dal punto di vista operativo crea problemi rilevanti.
Ipotizziamo che un ente costituisca, nei primi mesi del 2013, il fondo delle risorse decentrate prevedendo anche incrementi di parte variabile, ad esempio, ai sensi dell'articolo 15, commi 2 e 5, del Ccnl 01.04.1999. Prima avrà accertato di aver rispettato il patto e il contenimento della spesa di personale nel 2012 e anche per il 2013, a livello previsionale. Sulla base degli importi stanziati nel fondo avviene la contrattazione integrativa e si stabiliscono i criteri per l'erogazione dei compensi correlati a quegli incrementi che devono essere assolutamente finalizzati al raggiungimento di specifici obiettivi.
Dopo i vari passaggi di verifica, da parte anche dell'organo di revisione, si giunge alla stipula del contratto e i dipendenti svolgono le attività lavorative pattuite.
Secondo la Corte dei conti della Toscana, qualora l'ente non rispettasse il patto di stabilità (o le spese di personale) nel 2013, non potrebbe procedere ad erogare le somme accessorie ai dipendenti. Ed è proprio qui che il sistema si inceppa. Infatti, i lavoratori -non senza ragione- potrebbero pretendere l'erogazione delle somme loro dovute, proprio perché trattasi di attività specifiche ed effettivamente realizzate, con misurazioni e indicatori trasparenti.
Tra l'altro, la certificazione ufficiale del rispetto dei vincoli potrebbe verificarsi, nei fatti, solo con il rendiconto, da approvarsi entro il 30.04.2014.
Se questa è l'interpretazione a cui si può giungere, viene da chiedersi quale ente deciderà di integrare il fondo di parte variabile, visto che, comunque, ci sarà sempre il rischio che queste somme non potranno essere erogate.
Soprattutto, questo rischio induce gli enti a svolgere la contrattazione integrativa sempre più avanti nel corso dell'esercizio finanziario. Operazione che, però, è sempre stata censurata da parte degli ispettori e dalla Corte dei conti stessa.
Un circolo vizioso da cui è difficile uscire. Parametri incerti e certificazioni non fanno altro che alimentare confusione e accrescere il rischio di contenzioso.
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L'impatto
01|LO STRUMENTO
Il fondo di parte variabile per la contrattazione integrativa previsto dal Ccnl del 1999 può essere incrementato di anno in anno e ancorato al raggiungimento di obiettivi specifici
02| LE CONDIZIONI
La riforma Brunetta ha vincolato l'incremento al rispetto del patto di stabilità e al raggiungimento di determinati obiettivi di riduzione dell'organico
03| L'INTERPRETAZIONE
La Corte dei conti della Toscana, in linea con precedenti orientamenti, ha ritenuto che i vincoli vadano osservati sia per l'anno precedente che per quello in corso. Ma il principio è di difficile applicazione operativa e rischia di spostare troppo avanti la contrattazione integrativa (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.04.2013).

NEWS

ENTI LOCALIVolontari senza compensi. Per realtà diverse dalle associazioni la regola risulta attenuata.
Dal punto di vista legislativo, il non profit è il prodotto, anche abbastanza confuso, di norme che regolano in modo assai differente le svariate tipologie di enti. ... (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.04.2013 - tratto da www.fiscooggi.it).

TRIBUTI: Verifiche, l'anticipo costa caro. È nullo l'accertamento emesso prima dei 60 giorni. Rassegna giurisprudenziale: il termine va sempre concesso (o quasi). Ecco le eccezioni.
Alla fine di ogni attività di verifica fiscale al contribuente deve essere concesso il termine di 60 giorni per le opportune memorie e repliche. La violazione di tale principio di civiltà giuridica, previsto nell'articolo 12, comma 7, dello statuto del contribuente, comporta la nullità dell'avviso di accertamento.
Il suddetto termine e le garanzie a esso connesse possono, invece, non essere concesse quando l'attività di verifica si estrinsechi nell'esame di una dichiarazione fiscale presentata dallo stesso contribuente; oppure quando l'accertamento sia scattato per effetto di segnalazioni, rapporti o comunicazioni pervenute presso gli uffici accertatori anche da altri organi dell'amministrazione; oppure a seguito di semplici richieste di esibizioni documentali, questionari, inviti e quant'altro.
L'esame delle ultimissime sentenze, sia di legittimità sia di merito, sull'annosa questione relativa alla concessione del termine di 60 giorni prima dell'emanazione dell'atto di accertamento evidenzia come il quadro di riferimento si stia facendo sempre più chiaro.
In linea generale si può affermare che tale diritto deve sempre essere concesso quando la verifica fiscale preveda accessi presso la sede del contribuente e/o acquisizione di documenti contabili, libri, registri ecc., fatti ovviamente salvi i particolari e motivati casi di urgenza previsti dalla stessa disposizione normativa.
Al contrario, in presenza di mere attività di controllo e liquidazione delle dichiarazioni fiscali o di verifiche che traggono spunto da altri indizi e segnalazioni quali, per esempio i controlli incrociati, tale termine non dovrà essere concesso e l'ufficio potrà procedere direttamente all'emissione dell'avviso di accertamento senza concedere alcun termine per repliche o memorie al contribuente.
La questione è di assoluto rilievo. L'omessa concessione del termine dei sessanta giorni comporta, infatti, la nullità dell'avviso di accertamento travolgendo a priori l'intera attività di verifica posta in essere dagli uffici.
In attesa che sullo specifico tema si pronuncino le sezioni unite della Cassazione appositamente investite, è utile esaminare, almeno in sintesi, il contenuto delle più recenti pronunce della giurisprudenza tributaria sulla questione (si veda tabella in pagina).
Cassazione, sentenza 16999/2012. Nel caso di specie i giudici di legittimità hanno accolto le istanze del contribuente, ribaltando il giudicato della regionale, dichiarando nullo l'accertamento e la decisione del giudice dell'appello per «non aver rilevato l'illegittimità dell'avviso impugnato, ancorché notificato prima dello scadere del termine di sessanta giorni dalla data di consegna del processo verbale di constatazione».
La circostanza che il contribuente, prima dello spirare dei 60 giorni dalla consegna del pvc e prima della notifica dell'accertamento avesse prodotto delle memorie di parte non rileva in alcun modo né si può pensare che con un tale atto si sia potuto interrompere o derogare, al termine di cui all'articolo 12, comma 7, dello statuto del contribuente.
Deve peraltro considerarsi, si legge in sentenza, che la Corte costituzionale con l'ordinanza n. 244/2009 e la stessa Corte di cassazione con la sentenza n. 22320/2010, hanno puntualizzato che la mancata osservanza della disposizione contenuta nel comma 7 dell'articolo 12 dello statuto del contribuente «implica la sanzione della nullità dell'avviso di accertamento emesso in violazione del termine dilatorio e in assenza di motivazione sull'urgenza che ne ha determinato l'adozione». Sanzione della nullità che scatta in applicazione delle seguenti disposizioni normative: l'articolo 7, comma 1, dello statuto del contribuente; articoli 3 e 21-septies della legge n. 241/1990 (cosiddetta trasparenza amministrativa); articolo 42, commi 2 e 3, del dpr 600/1973 per le imposte dirette e articolo 56, comma 5, del dpr 633/1972 per l'imposta sul valore aggiunto.
Ctr Toscana, sentenza 19/2013. Del tutto simile alle conclusioni della sentenza dei giudici di legittimità ora esaminata anche il dispositivo dei giudici della regionale toscana contenuto nella sentenza n. 19 del 18 gennaio scorso. Il caso riguardava un accertamento da studi di settore sulla base del quale l'ufficio aveva eseguito un'attività di controllo preceduta dalla richiesta di documentazione contabile relativa all'anno d'imposta 2003, alla quale era seguito un vero e proprio accesso presso i locali della società contribuente al preciso fine di reperire ulteriori documenti contabili.
L'avviso di accertamento veniva emesso dall'ufficio prima della scadenza del termine di 60 giorni decorrente dal rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni di verifica, senza peraltro dare menzione nello stesso della particolare e motivata urgenza alla base di tale mancato rispetto.
Preso atto di tutto ciò la regionale, considerando tale eccezione come preliminare e prevalente anche sul merito del ricorso stesso, ha deciso che «nell'avviso di accertamento in oggetto manca l'obbligatoria motivazione da parte dell'ufficio della particolare urgenza di anticipare l'emissione dell'avviso di accertamento con la conseguente invalidità dello stesso».
Ctr Campania, sentenza 243/2012. Se esistano validi motivi per derogare al termine dei 60 giorni, quali il fondato pericolo per la riscossione del credito erariale, questi devono comunque essere esplicitati nella motivazione dell'atto di accertamento altrimenti lo stesso non potrà che essere dichiarato nullo.
È quanto deciso dai giudici della regionale della Campania, nonostante l'accertamento fosse stato emesso nei confronti di una società che non aveva presentato la dichiarazione dei redditi e per la quale la guardia di finanza aveva accertato un reddito d'impresa di oltre 200 mila euro.
Inutile la difesa dell'ufficio che aveva controdedotto «evidenziando che esistevano i motivi di urgenza previsti dal comma 7 dell'articolo 12 della legge 212/2000, in quanto sussistevano fondate ragioni di pericolo per la riscossione del credito ritenuto che la società, in liquidazione dal 2006, poteva in qualsiasi momento procedere alla cessazione dell'attività».
La carenza motivazionale e il mancato rispetto della disposizione contenuta nello statuto del contribuente ha prevalso anche sulle postume argomentazioni dell'ufficio circa l'esistenza di validi motivi per derogare il termine.
Ctr Liguria, sentenza 97/2012. Qualunque atto e non soltanto il pvc di chiusura delle operazioni di verifica, deve essere assoggettato al termine dei 60 giorni previsto dallo statuto del contribuente.
Quando l'ufficio opera in contraddittorio con il contribuente, deve redigere un verbale di chiusura e concedere il termine per le memorie e repliche al contribuente prima di procedere con l'emissione dell'accertamento.
Vana la linea difensiva dell'amministrazione finanziaria che sosteneva di aver eseguito soltanto un accesso per acquisire documentazione e per rilevare la correttezza dei dati rilevanti ai fini dell'applicazione degli studi di settore (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

VARIScatola nera a prova di privacy. L'automobilista può dire stop in qualsiasi momento. Le prescrizioni contenute nel regolamento Ivass in consultazione fino al 30 aprile.
L'automobilista può staccare la scatola nera dell'auto in qualsiasi momento.

È uno degli accorgimenti per la tutela della privacy, che il garante ha inserito nel regolamento sulla disciplina la raccolta, la gestione e l'utilizzo dei dati trattati dalle cosiddette «scatole nere» (articolo 32, comma 1-bis, del dl 1/2012). Le scatole nere sono dispositivi elettronici che registrano l'attività dei veicoli sui quali sono installati.
Per la piena operatività della scatola nera sono previsti tre provvedimenti attuativi:
- un decreto che individua le caratteristiche tecniche (si veda ItaliaOggi del 06.02.2013);
- un regolamento Ivass, sulle modalità di raccolta (è il documento qui in esame);
- infine un decreto ministeriale sugli standard tecnologici comuni hardware e software, ai quali le imprese di assicurazione dovranno adeguarsi entro due anni.
Con la scatola nera si possono avere riscontri certi sui sinistri ed evitare frodi da incidenti inesistenti.
Da qui un vantaggio per le compagnie. Ma anche per i consumatori, che se accettando le scatole nere, possono fruire di tariffe scontate.
Un problema è, però, quello della privacy, visto che la scatola raccoglie molti dati personali.
Per arginare i pericoli il regolamento in itinere ha previsto una serie di garanzie. Lo schema di provvedimento predisposto di concerto dall'Ivass, dal ministero dello sviluppo economico e dal Garante della privacy è in consultazione pubblica fino al 30 aprile 2013, per raccogliere suggerimenti e proposte. Vediamo i contenuti più rilevanti dello schema.
La scatola nera. I costi dei meccanismi elettronici sono a carico delle imprese di assicurazione e la riduzione di premio va riconosciuta all'atto della stipulazione del contratto o in occasione delle scadenze successive. Le scatole nere possono servire per trattare i singoli sinistri.
Inoltre i dati raccolti (ad esempio tipo di strade percorse, chilometri percorsi, le ore e i giorni di utilizzo del veicolo) possono consentire di offrire coperture personalizzate.
Le scatole nere, dal punto di vista tecnologico, possono essere in grado di offrire ulteriori funzioni, finalizzate alla prestazione di servizi aggiuntivi rispetto al contratto di assicurazione Rc auto, legati ad esempio al furto del veicolo o alla prestazione di assistenza sul posto in caso di incidente. Inoltre, la prestazione di servizi assicurativi aggiuntivi non può costituire condizione per l'accesso al contratto di assicurazione Rc auto con scatola nera.
Dati. Le scatole nere raccolgono molti dati tra cui le percorrenze del veicolo e a quelli utilizzabili ai fini della ricostruzione della dinamica di un sinistro. Questi ultimi dati consentono la localizzazione del veicolo al momento dell'incidente e l'ubicazione del punto d'urto: sarà possibile valutare con maggiore attendibilità i danni connessi ai sinistri. Peraltro i dati possono essere conosciuti solo in caso di sinistro.
Stop alla registrazione. Su richiesta del garante della privacy è stato precisato che deve essere garantita al richiedente, in forma gratuita e mediante una funzione semplice, la possibilità di interrompere immediatamente il trattamento dei dati relativi all'ubicazione, anche attraverso modalità telefoniche o telematiche.
Privacy. Per la tutela della riservatezza il regolamento prevede che i meccanismi elettronici vengano configurati riducendo al minimo la rilevazione dei dati personali e utilizzando tecniche di cifratura adeguate a tutela delle informazioni. I dati personali trattati dalle imprese e dai soggetti terzi dovranno essere esatti, aggiornati e completi, nonché pertinenti e non eccedenti rispetto alle finalità che ne hanno giustificato la raccolta. Sempre a garanzia della privacy sono previsti: l'obbligo di informativa, anche a mezzo di apposite vetrofanie apposte sul veicolo, sulle caratteristiche dei trattamenti svolti; l'obbligo di adozione delle misure minime di sicurezza indicate dagli articoli 33 e seguenti e dall'allegato B del Codice della privacy.
La compagnia deve anche effettuare la notifica al Garante del trattamento dei dati che indicano la posizione geografica di persone od oggetti.
Il regolamento prevede che debba essere stabilito il periodo massimo di conservazione dei dati. In particolare il Garante prevede che per le finalità tariffarie i dati non possano essere conservati oltre il periodo strettamente necessario alla determinazione delle tariffe e, comunque, non oltre un termine massimo (da definire sulla base delle osservazioni che saranno formulate in pubblica consultazione) e, in caso di sinistro, non oltre due anni. I dati rilevati dalle scatole nere, ove memorizzati all'interno dei dispositivi, devono essere cancellati subito dopo la loro trasmissione agli eventuali soggetti terzi.
Preventivi. Lo schema di regolamento prescrive che le imprese debbano fornire preventivi personalizzati in relazione a prodotti con installazione di scatola nera attraverso i propri siti internet. Deve essere alimentato inoltre il servizio di preventivazione online (Tuopreventivatore) fornito da Ivass e MiSE. Così il consumatore potrà misurare il risparmio connesso alla stipulazione di polizze che prevedono l'installazione della scatola nera e nello stesso tempo di confrontare i prodotti di diverse imprese.
Portabilità. Lo schema di regolamento disciplina l'interoperabilità dei dispositivi in caso di sottoscrizione di un contratto Rc auto con un'impresa diversa da quella che li ha installati (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.04.2013).

TRIBUTILa giurisprudenza. Interpretazioni diverse sulla domanda di variazione. Per i fabbricati rurali rebus della retroattività.
LE ULTIME PRONUNCE/ A Mantova agevolazioni riconosciute dopo la semplice richiesta, a Modena serve la classificazione catastale.

Le domande di variazione catastale per ottenere la ruralità del fabbricato, presentate in base al Dl 70/2011 e al Dm 26.07.2012, hanno effetto retroattivo.
È questa la conclusione a cui è pervenuta la Ctp di Mantova con la sentenza del 10 gennaio scorso, annullando gli avvisi di accertamento Ici relativi alle annualità 2006 e 2007.
La controversia riguardava alcuni fabbricati in categoria C/2, C/6 e D/8, che per il contribuente non potevano essere assoggettati all'imposta in quanto da considerarsi rurali ai sensi dell'articolo 9 del Dl 557/1993, a prescindere dal loro inquadramento catastale. Nel 2011 era stata peraltro presentata domanda per il riconoscimento di ruralità.
Il Comune chiedeva il rigetto del ricorso in virtù del costante insegnamento della Cassazione sulla ruralità dei fabbricati vincolata alle risultanze catastali (categorie A/6 e D/10). Tuttavia la commissione tributaria ha ritenuto che la presentazione della domanda e l'inserimento negli atti catastali dell'annotazione consentono di riconoscere la ruralità a decorrere dal quinto anno antecedente alla domanda, come previsto dal Dm del 2012.
La decisione della Ctp di Mantova ripropone la querelle relativa alla valenza retroattiva delle domande per il riconoscimento della ruralità, tema sul quale la giurisprudenza si mostra oscillante.
A favore della retroattività si è tra l'altro schierata la Ctr di Bologna con la sentenza 65/2012, mentre sul fronte opposto si segnala la Ctr di Milano con la sentenza 77/2012. Più recentemente si è espressa la Ctp di Modena con la sentenza 75/2013 (si veda Il Sole 24 Ore del 31 marzo) che è andata al cuore del problema sottolineando che il Dl 70/2011 –con il quale veniva recepito l'orientamento della Cassazione sull'accatastamento in D/10 per i fabbricati strumentali– è stato abrogato dal Dl 201/2011 ed è rimasto in vigore fino al 31.12.2011: di conseguenza l'esenzione Ici spetta solo ai fabbricati che risultano classati in categoria rurale.
Dopo la sentenza 10/2013 della Ctp di Mantova, che fa leva sul Dm del 2012, la questione assume contorni sempre più confusi e resta il rebus retroattività. Sul punto si ritiene che il Dm 26.07.2012 abbia travalicato la fonte legislativa primaria (Dl 201/2011) che non prevede in alcun modo il riconoscimento retroattivo della ruralità, né lo prevedeva il Dl 70/2011.
La questione è risolvibile soltanto con un'espressa previsione normativa primaria che attribuisca effetto retroattivo alla variazione catastale. In assenza, è applicabile il principio contenuto nell'articolo 11 delle Preleggi secondo cui la legge non può avere effetto retroattivo (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il termine per impugnare il permesso di costruire da parte del proprietario confinante decorra di regola dalla data di ultimazione dei lavori, o comunque dal momento in cui questi manifestino in modo chiaro e univoco le loro caratteristiche essenziali, con la sola eccezione del caso in cui il ricorrente contesti in radice la stessa possibilità di edificazione.
Per questo, è jus receptum in giurisprudenza che il termine per impugnare il permesso di costruire da parte del proprietario confinante decorra di regola dalla data di ultimazione dei lavori, o comunque dal momento in cui questi manifestino in modo chiaro e univoco le loro caratteristiche essenziali, con la sola eccezione del caso –che nella specie non ricorre– in cui il ricorrente contesti in radice la stessa possibilità di edificazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.11.2012, nr. 5657; id., 30.07.2012, nr. 4287; id., 28.01.2011, nr. 678; id., 23.07.2009, nr. 4616) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.04.2013 n. 1904 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sui giudizi afferenti prove di esame o di concorso, il sindacato di legittimità del giudice amministrativo è limitato al riscontro del vizio di eccesso di potere per illogicità, con riferimento ad ipotesi di erroneità o irragionevolezza riscontrabile ictu oculi dalla sola lettura degli atti. Pertanto, solo in siffatte ipotesi è ammissibile il sindacato del giudice in subiecta materia, senza che si verifichi uno sconfinamento nel merito amministrativo e, quindi, una non ammessa sostituzione di una valutazione propria del giudice a quella rientrante nelle competenze proprie della Commissione di concorso.
Giova richiamare al riguardo che, in base a un consolidato orientamento che il Collegio condivide (non rinvenendosi ragioni per discostarsene), sui giudizi afferenti prove di esame o di concorso, il sindacato di legittimità del giudice amministrativo è limitato al riscontro del vizio di eccesso di potere per illogicità, con riferimento ad ipotesi di erroneità o irragionevolezza riscontrabile ictu oculi dalla sola lettura degli atti. Pertanto, solo in siffatte ipotesi è ammissibile il sindacato del giudice in subiecta materia, senza che si verifichi uno sconfinamento nel merito amministrativo e, quindi, una non ammessa sostituzione di una valutazione propria del giudice a quella rientrante nelle competenze proprie della Commissione di concorso (in tal senso –ex plurimis -: Cons. Stato, IV, 16.04.2012, n. 2196; id., III, 13.07.2011, n. 4229; id., VI, 23.12.2010, n. 9339; id., VI, 27.08.2010, n. 5988) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.04.2013 n. 1883 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Deve ritenersi legittima la variante di piano regolatore che, al fine di tutelare una parte del territorio comunale particolarmente rilevante per il suo pregio ambientale, storico o artistico, dispone restrizioni edificatorie e particolari salvaguardie della zona agricola, la cui funzione non è solo quella di valorizzare l’attività agricola vera e propria, ma anche quella di garantire ai cittadini l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando loro quella quota di valori naturalistici necessaria a compensare gli effetti dell’espansione dell'aggregato urbano.
Come, peraltro, condivisibilmente statuito da questo Consiglio di Stato in materia di pianificazione urbanistica, deve ritenersi legittima la variante di piano regolatore che, al fine di tutelare una parte del territorio comunale particolarmente rilevante per il suo pregio ambientale, storico o artistico, dispone restrizioni edificatorie e particolari salvaguardie della zona agricola, la cui funzione non è solo quella di valorizzare l’attività agricola vera e propria, ma anche quella di garantire ai cittadini l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando loro quella quota di valori naturalistici necessaria a compensare gli effetti dell’espansione dell'aggregato urbano (v., sul punto, per tutte, C.d.S., Sez. IV, 13.10.2010, n. 7478, in una fattispecie connotata dall’apposizione di un termine alle previsioni di una variante di piano regolatore in attesa dell’elaborazione di una futura variante generale, ritenuta legittima sulla base del condivisibile rilievo che la previsione di tale limite temporale costituiva una ragionevole misura cautelativa rientrante nei poteri di buona amministrazione e, per di più, introduceva una disciplina più favorevole ai privati, poiché, in mancanza di una tempestiva adozione della variante generale, le previsioni temporanee sarebbero state destinate a cadere) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.04.2013 n. 1882 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In sede di rilascio di concessione edilizia in sanatoria deve tenersi conto dei vincoli esistenti al momento dell’adozione del provvedimento, a prescindere dall’epoca di introduzione del vincolo stesso e, quindi, della sua vigenza al momento della realizzazione del manufatto.
Le concessioni edilizie in sanatoria, alla data di istituzione del parco non erano ancora state emesse e, una volta istituito il parco stesso, il rilascio del titolo edilizio non poteva avvenire senza il preventivo nulla osta dell’Ente Parco Nazionale delle Cinque Terre.
Nemmeno rileva la circostanza che le opere fossero state realizzate antecedentemente a tale istituzione (avvenuta, come detto, con d.P.R. 06.10.1999), atteso il consolidato orientamento (cfr., per tutte, Cons. Stato, VI, 23.02.2011, n. 1127 e 15.06.2009, n. 3806) secondo cui in sede di rilascio di concessione edilizia in sanatoria deve tenersi conto dei vincoli esistenti al momento dell’adozione del provvedimento, a prescindere dall’epoca di introduzione del vincolo stesso e, quindi, della sua vigenza al momento della realizzazione del manufatto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.04.2013 n. 1874 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: a) l’autorità delegata preposta alla tutela del vincolo deve esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla compatibilità con il vincolo paesaggistico dell’opera specificamente assentita, in relazione a tutte le circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o di istruttoria;
b) il potere di annullamento della Soprintendenza non consente il riesame nel merito delle valutazioni compiute dalla Regione, o dall’ente subdelegato, ma si esprime in un sindacato di legittimità, esteso a tutte le ipotesi riconducibili all'eccesso di potere, anche per difetto di motivazione o di istruttoria e dunque riguardante anche la compiuta presa in considerazione delle circostanze concrete e rilevanti per il giudizio di compatibilità;
c) l’autorità statale, con un tale potere di cogestione del vincolo, dato dalla legge ad estrema difesa del vincolo stesso, se ravvisa nell’atto oggetto del suo riesame un vizio di difetto di motivazione o di istruttoria, nel proprio provvedimento può motivare sulla non compatibilità degli interventi progettati rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel vincolo.
Nei singoli casi è quindi anzitutto necessario verificare se alla base dell’annullamento dell’autorizzazione esaminata da parte della Soprintendenza competente si riscontri l’incompiutezza o l’inadeguatezza della valutazione di compatibilità paesaggistica resa dalla Regione o dall’ente locale delegato; ciò che si verifica quando le caratteristiche dell’intervento non vi sono individuate, raffrontate e giustificate con i valori riconosciuti e protetti dal vincolo e la compatibilità paesaggistica è quindi soltanto asserita, senza che sia esposta l’analisi delle ragioni che la motivano.

Sui limiti dell’esame da parte della Soprintendenza dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione (o da un ente subdelegato), si richiama la giurisprudenza costante di questo Consiglio di Stato, per la quale:
a) l’autorità delegata preposta alla tutela del vincolo deve esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla compatibilità con il vincolo paesaggistico dell’opera specificamente assentita, in relazione a tutte le circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o di istruttoria;
b) il potere di annullamento della Soprintendenza non consente il riesame nel merito delle valutazioni compiute dalla Regione, o dall’ente subdelegato, ma si esprime in un sindacato di legittimità, esteso a tutte le ipotesi riconducibili all'eccesso di potere, anche per difetto di motivazione o di istruttoria e dunque riguardante anche la compiuta presa in considerazione delle circostanze concrete e rilevanti per il giudizio di compatibilità;
c) l’autorità statale, con un tale potere di cogestione del vincolo, dato dalla legge ad estrema difesa del vincolo stesso (Corte cost., 27.06.1986, n. 151; 18.10.1996, n. 341; 25.10.2000, n. 437), se ravvisa nell’atto oggetto del suo riesame un vizio di difetto di motivazione o di istruttoria, nel proprio provvedimento può motivare sulla non compatibilità degli interventi progettati rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel vincolo (Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9; VI, 11.06.2012, n. 3401; 22.06.2011, n. 3767; 26.07.2010, n. 4861; 22.03.2007, n. 1362).
Nei singoli casi è quindi anzitutto necessario verificare se alla base dell’annullamento dell’autorizzazione esaminata da parte della Soprintendenza competente si riscontri l’incompiutezza o l’inadeguatezza della valutazione di compatibilità paesaggistica resa dalla Regione o dall’ente locale delegato; ciò che si verifica quando le caratteristiche dell’intervento non vi sono individuate, raffrontate e giustificate con i valori riconosciuti e protetti dal vincolo e la compatibilità paesaggistica è quindi soltanto asserita, senza che sia esposta l’analisi delle ragioni che la motivano (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.03.2013 n. 1843 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALIDerivati. Contratti annullabili se ci sono stati meno concorrenti. Swap, serve una gara a cinque.
IL PARAMETRO/ Per il Tar Piemonte il requisito è essenziale perché l'ente deve sempre tendere a un concreto vantaggio economico.
I contratti derivati comportano spese che impegnano i bilanci per gli esercizi successivi. Spetta esclusivamente al consiglio comunale la competenza ad autorizzarli. Se la decisione è stata assunta dalla Giunta, la delibera può essere annullata (anche nove anni dopo la sua adozione) privando di effetti ex tunc pure i contratti stipulati.

Lo afferma, in termini molto netti, la sentenza 22.03.2013 n. 343 del TAR Piemonte, Sez. I (si veda Il Sole 24 Ore del 5 aprile).
La pronuncia contiene dei chiarimenti assai importanti. Se vengono in questione elementi del procedimento prodromico alla stipula (la incompetenza dell'organo, il mancato esperimento di una selezione della controparte), l'annullamento è sempre possibile e la conseguenza sarà la caducazione dei contratti. Se invece si tratta della violazione di obblighi informativi, dello squilibrio delle prestazioni contrattuali o di malafede, l'amministrazione non può utilizzare l'auotutela, ma deve agire davanti al giudice ordinario.
I contratti derivati, per quanto "servizi esclusi", devono comunque essere aggiudicati dopo una procedura comparativa almeno tra cinque concorrenti, perché l'ente pubblico deve sempre tendere al conseguimento delle migliori condizioni economiche. In mancanza, l'aggiudicazione può essere annullata.
In ogni caso, se l'annullamento viene deciso dopo nove anni dalla stipula, si tratta comunque di un «termine ragionevole» perché sono in gioco gravi illegittimità procedimentali. Su questo il collegio si spinge a ritenere che non merita alcuna tutela il legittimo affidamento posto dalle banche, se queste hanno a loro volta omesso obblighi informativi e agito in conflitto di interesse verso l'ente. A prescindere dai derivati, la sentenza costituisce un prezioso punto di riferimento giurisprudenziale perché ribadisce la tesi della caducazione automatica dei contratti in caso di autotutela validamente esercitata, inserendosi nel solco delle recenti posizioni del Consiglio di Stato.
In tal senso, la sentenza fissa un criterio di ragionevolezza che sposta molto in avanti (nove anni appunto) il termine per l'autotutela. Da questo punto di vista, la pronuncia mette in secondo piano l'affidamento posto dai privati sulla persistenza degli effetti dell'azione amministrativa (oggetto del successivo riesame), perché nega completamente le aspettative della banca ad un indennizzo (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

AGGIORNAMENTO ALL'08.04.2013

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IN EVIDENZA

La proroga del termine di ultimazione lavori non si può concedere nel caso della D.I.A. !!

EDILIZIA PRIVATA: Si deve escludere che l’istituto della proroga dei termini di ultimazione dei lavori, prevista per il permesso di costruire dall’art. 15 del DPR 380/2001, possa trovare applicazione anche alla denuncia di inizio attività (DIA).
Si deve escludere che l’istituto della proroga dei termini di ultimazione dei lavori, prevista per il permesso di costruire dall’art. 15 del DPR 380/2001, possa trovare applicazione –come vorrebbe invece la parte istante– anche alla denuncia di inizio attività (DIA).
L’art. 23, comma 2, del DPR 380/2001 (Testo Unico dell’edilizia), stabilisce, in caso di omessa ultimazione dei lavori di cui alla DIA, che <<La realizzazione della parte non ultimata dell’intervento è subordinata a nuova denuncia>>.
Inoltre, l’art. 42, comma 6, della legge della Regione Lombardia n. 12/2005 sul governo del territorio, prevede espressamente che i lavori di cui alla DIA debbano essere ultimati entro tre anni dall’inizio dei lavori, altrimenti: <<La realizzazione della parte di intervento non ultimata nel predetto termine è subordinata a nuova denuncia>>.
Tale ultima norma è interpretata, anche dalla dottrina, nel senso che non è ammissibile una formale proroga dei termini di ultimazione dei lavori oggetto di DIA, essendo solo consentita la presentazione di altra denuncia di inizio attività.
Del resto, visto che alla DIA deve riconoscersi natura di atto del privato, con il quale quest’ultimo sotto la propria responsabilità si assume l’onere di eseguire determinate opere in un tempo definito (cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 15/2011), non appare illogico o irragionevole che, in caso di mancata ultimazione dei lavori, debba presentarsi una nuova denuncia di inizio attività.
Ciò premesso e tenuto conto che il Comune di Como ha dato applicazione ad una precisa norma di legge (appunto, i citati art. 23 ed art. 42), senza alcuno spazio per altre e differenti valutazioni, non meritano accoglimento neppure le censure relative alla presunta violazione dell’art. 10-bis della legge 241/1990 e delle norme sul c.d. giusto procedimento.
E’ fatta ovviamente salva la facoltà per l’esponente di presentare apposita DIA per il completamento dei lavori, da esaminarsi da parte del Comune di Como (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.03.2013 n. 619 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Le PP.AA. devono parlarsi mediante e-mail.
     Indaffarati come siamo, ogni giorno, leggiamo troppo di fretta la Gazzetta Ufficiale e, magari, non analizziamo a fondo alcune norme che sembrano avere, di primo acchito, poca importanza ma così non è.
     Una di queste, di recente introduzione, riguarda la modalità di interlocuzione tra le varie PP.AA. e ciò che stride è che l'atteggiamento di forte ritrosia, nel conformarsi al nuovo modus operandi dettato dal legislatore, perviene proprio da enti che ci potrebbero/dovrebbero, in un qualche modo, anche bacchettare: Corte dei Conti, Procura della Repubblica, ecc.
     Venendo al dunque,
il D.Lgs. 07.03.2005 n. 82 (Codice dell'amministrazione digitale) all'art. 47 così recita: "Art. 47. Trasmissione dei documenti attraverso la posta elettronica tra le pubbliche amministrazioni.
1. Le comunicazioni di documenti tra le pubbliche amministrazioni avvengono mediante l'utilizzo della posta elettronica o in cooperazione applicativa; esse sono valide ai fini del procedimento amministrativo una volta che ne sia verificata la provenienza.
1-bis. L'inosservanza della disposizione di cui al comma 1, ferma restando l'eventuale responsabilità per danno erariale, comporta responsabilità dirigenziale e responsabilità disciplinare (comma introdotto dall'art. 6, comma 1, lettera a), legge 17.12.2012 n. 221)
2. Ai fini della verifica della provenienza le comunicazioni sono valide se:
   a) sono sottoscritte con firma digitale o altro tipo di firma elettronica qualificata;
   b) ovvero sono dotate di segnatura di protocollo di cui all'articolo 55 del d.P.R. 28.12.2000, n. 445;
   c) ovvero è comunque possibile accertarne altrimenti la provenienza, secondo quanto previsto dalla normativa vigente o dalle regole tecniche di cui all'articolo 71;
   d) ovvero trasmesse attraverso sistemi di posta elettronica certificata di cui al d.P.R. 11.02.2005, n. 68.
3. Le pubbliche amministrazioni e gli altri soggetti di cui all'articolo 2, comma 2, provvedono ad istituire e pubblicare nell'Indice PA almeno una casella di posta elettronica certificata per ciascun registro di protocollo. La pubbliche amministrazioni utilizzano per le comunicazioni tra l'amministrazione ed i propri dipendenti la posta elettronica o altri strumenti informatici di comunicazione nel rispetto delle norme in materia di protezione dei dati personali e previa informativa agli interessati in merito al grado di riservatezza degli strumenti utilizzati.
".
     Ebbene, troppo spesso -ancora oggi- tra le PP.AA. si interloquisce con lettera normale, raccomandata a.r., telefax ... Quindi, chi sottoscrive l'atto da inviare ad altra P.A. veda di memorizzare quanto dispone il sopra menzionato comma 1-bis e agisca di conseguenza se non vuol rimetterci col proprio portafoglio (e non solo) ... e se l'interlocutore (sempre una P.A.) pretende di comportarsi come nella vecchia 1^ Repubblica, disconoscendo le nuove tecnologie informatiche, mandatelo a quel paese ... (prima, però, ricordategli che nel qual caso sarete costretti ad informare il suo Superiore gerarchico ...).
08.04.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

UTILITA'

ENTI LOCALIPiccoli Comuni e Gestioni Associate - Documentazione.
Pubblichiamo una rassegna della documentazione relativa alla costituzione delle Gestioni Associate Obbligatorie
A seguito dell'introduzione nel nostro ordinamento di importanti Leggi e provvedimenti che hanno interessato i Piccoli Comuni e le forme associative, pubblichiamo una rassegna della normativa e dei materiali inerenti a queste tematiche.
- della Legge n. 135/2012 e, in particolare, dell'art. 19 in merito all'individuazione delle funzioni fondamentali dei Comuni e sulle modalitàdi esercizio associato delle funzioni e dei servizi comunali, pubblichiamo una prima nota di lettura sulle numerose novità introdotte per i Piccoli Comuni e le forme associative delle Unioni e delle Convenzioni (03.04.2013 - link a www.anci.lombardia.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 15 dell'08.04.2013, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 31.03.2013, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 03.04.2013 n. 35).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 05.04.2013 n. 80, suppl. ord. n. 26, "Adozione della nota metodologica e del fabbisogno standard per ciascun Comune e Provincia, relativi alle funzioni di polizia locale (Comuni), e alle funzioni nel campo dello sviluppo economico - servizi del mercato del lavoro (Province), ai sensi dell’art. 6 del decreto legislativo n. 216/2010" (D.P.C.M. 21.12.2012).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - URBANISTICA: G.U. 05.04.2013 n. 80 "Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni" (D.Lgs. 14.03.2013 n. 33).
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Sull'argomento, si legga un primo commento dell'Avv. Lorenzo Spallino: D.lgs. 33/2013: gli obblighi di pubblicazione on-line in materia urbanistica ed edilizia (07.04.2013 - link a http://studiospallino.blogspot.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: indirizzi di prevenzione incendi per le aree mercadali, fiere commerciali e manifestazioni varie a carattere temporaneo, svolte lungo le vie cittadine (Ministero dell'Interno, Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco di Reggio Emilia, lettera-circolare 26.03.2013 n. 3350 di prot.).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Il foglio dei lavoratori della Funzione Pubblica (CGIL-FP di Bergamo, marzo 2013).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: prosecuzione del servizio di un dipendente per mancato raggiungimento del minimo contributo (nota 04.04.2013 n. 15888 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: A. Savatteri, La cessione di cubatura alla luce delle ultime pronunce del Consiglio di Stato e delle recenti norme in materia di trascrizione (Urbanistica e appalti n. 4/2013).

APPALTI: S. Usai, La nomina della commissione aggiudicatrice nel cottimo fiduciario (Urbanistica e appalti n. 4/2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - URBANISTICA: L. Spallino, D.lgs. 33/2013: gli obblighi di pubblicazione on-line in materia urbanistica ed edilizia (07.04.2013 - link a http://studiospallino.blogspot.it).        (link a www.

APPALTI SERVIZI: D. Argenio, Gli appalti riservati ex art. 52 D.LGS. 163/2006 e la definizione dei c.d. "laboratori protetti" (26.11.2010 - link a www.dirittoelegge.it).

APPALTI: D. Argenio, Il responsabile unico del procedimento nel codice dei contratti pubblici: parte 1^ - parte 2^ - parte 3^ (01-18.04.2010 - link a www.dirittoelegge.it).

APPALTI: C. Bibi, Holding e avvalimento infragruppo (13.04.2010 - link a www.dirittoelegge.it).

LAVORI PUBBLICI: D. Argenio, Attestazioni di qualificazione delle SOA e poteri sanzionatori dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (art. 40 d.lgs. 163/2006) (07.01.2010 - link a www.dirittoelegge.it).

APPALTI: D. Argenio, L’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici: vecchi e nuovi compiti dopo il Codice De Lise (21.12.2009 - link a www.dirittoelegge.it).

APPALTI SERVIZI: F. Del Deo, Affidamento di servizi ed associazioni di volontariato (20.11.2009 - link a www.dirittoelegge.it).

APPALTI SERVIZI: D. Argenio, Servizi sociali e codice De Lise: Gli appalti di servizi dell’allegato II B esclusi dal D.Lgs. 163/2006 (26.10.2009 - link a www.dirittoelegge.it).

APPALTI: D. Argenio, Il subappalto nel nuovo codice dei contratti (01.10.2009 - link a www.dirittoelegge.it).

APPALTI: D. Argenio, I lavori in economia del D.Lgs. 163/2006: amministrazione diretta e cottimo fiduciario (01.10.2009 - link a www.dirittoelegge.it).

APPALTI: D. Argenio  e F. Del Deo, I lavori sotto soglia comunitaria nel codice dei contratti pubblici (01.10.2009 - link a www.dirittoelegge.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: D. Argenio, Gli interessi partecipativi, oppositivi e pretensivi e loro tutela giurisdizionale (10.11.2008 - link a www.dirittoelegge.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: D. Argenio, I controlli amministrativi nel testo unico degli enti locali (07.11.2008 - link a www.dirittoelegge.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: D. Argenio, Gli interessi collettivi nella legge 241 del 1990 (legittimazione procedimentale, legittimazione ad accedere e legittimazione processuale amministrativa) (07.11.2008 - link a www.dirittoelegge.it).

ESPROPRIAZIONE: D. Argenio, Espropriazione per pubblica utilità: procedura per decreto e procedure per atto di acquisizione coattiva sanante (07.11.2008 - link a www.dirittoelegge.it).

APPALTI: F. Decli, Esclusione automatica dalle gare d'appalto per anomalia dell'offerta. Due sentenze rilevanti (14.05.2008 - link a www.dirittoelegge.it).

CORTE DEI CONTI

EDILIZIA PRIVATA: Conclusivamente l’Amministrazione chiede:
a) se le valutazioni da compiersi da parte dell’ Agenzia delle Entrate – Ufficio del Territorio per l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 37, comma 3, del d.P.R. 380/2001, siano o meno a carattere oneroso;
b) nel caso tali stime siano giudicate a carattere oneroso, se il Comune possa attivare procedure alternative per non aggravare il bilancio e che consentano di:
   1) prendere a riferimento il valore stabilito in sede di accatastamento;
   2) stabilire previamente una tabella di casistiche con cui si possano collegare gli aumenti di valore all’importo della sanzione, da concertare e da approvare da parte del Comune con l’Agenzia delle Entrate – Ufficio del Territorio, evitando l’inoltro di singole richieste.
Ritiene il Collegio che
l’espressione del parere in questa sede consultiva non possa coinvolgere l’operato di altre Amministrazioni, né precostituire aspettative anche di mero fatto, ovvero regolare pretese, né tantomeno dirimere divergenze di posizioni tra soggetti pubblici diversi.
Il procedimento per l’applicazione delle sanzioni, che forma oggetto della richiesta di parere, costituisce inoltre esplicazione di poteri discrezionali da parte dell’Amministrazione, poteri rispetto ai quali la Corte dei conti non ha la possibilità di pronunciarsi compiutamente in questa sede consultiva, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 131/2003
.

Nei termini sopra esposti, il parere risulta pertanto inammissibile sotto il profilo oggettivo.
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Il Sindaco del Comune di Roccafluvione (prov. di Ascoli Piceno) ha formulato una richiesta di parere inerente al carattere oneroso della valutazione, da compiersi da parte dell’Agenzia del Territorio, in vista dell’applicazione di sanzioni pecuniarie commisurate all’aumento di valore in caso di opere edilizie realizzate in assenza di dichiarazione di inizio attività, ma comunque sussistendo la conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia.
Con la predetta richiesta, l’Amministrazione richiedente ha riferito e precisato:
- che l’art. 37 del d.P.R. 380/2001 (testo unico edilizia) dispone che le sanzioni pecuniarie per opere edilizie realizzate in assenza di dichiarazione di inizio attività sono stabilite dal responsabile del procedimento in relazione all’incremento di valore dell’immobile come valutato dall’Agenzia delle Entrate – Ufficio del Territorio;
- che l’ Agenzia delle Entrate – Ufficio del Territorio ha fatto presente che tale adempimento può essere svolto a titolo oneroso e previa sottoscrizione di accordo di collaborazione;
- che, secondo l’Amministrazione, sussisterebbero dubbi sul carattere oneroso delle operazioni di stima, in quanto tale adempimento sono svolte da un soggetto pubblico (l’ Agenzia delle Entrate – Ufficio del Territorio) e sono dirette all’esercizio di una funzione istituzionale di un altro soggetto pubblico (il Comune);
- che l’irrogazione della sanzione non è un servizio a domanda del Comune, ma corrisponde all’assolvimento di un’attività istituzionale doverosa;
- che i costi previsti per le operazione di stima superano l’importo minimo della sanzione (euro 516, come casistica più frequente), con il risultato che l’applicazione della sanzione risulterebbe per il Comune foriera di una spesa superiore all’entrata, sia pure nel contesto di un’attività di vigilanza disposta dalla normativa statale primaria;
- che gli accordi di collaborazione sono previsti dall’art. 38 del d.P.R. 380/2001, ove si richiamano gli articoli 32, comma 2, e 34, comma 2, ma non il 37, comma 4;
- che l’art. 17 della legge 241/1990 regola il procedimento di emanazione di valutazioni tecniche, nonché le conseguenza del decorso dei termini per l’acquisizione delle valutazioni stesse.
Conclusivamente l’Amministrazione chiede:
a) se le valutazioni da compiersi da parte dell’ Agenzia delle Entrate – Ufficio del Territorio per l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 37, comma 3, del d.P.R. 380/2001, siano o meno a carattere oneroso;
b) nel caso tali stime siano giudicate a carattere oneroso, se il Comune possa attivare procedure alternative per non aggravare il bilancio e che consentano di:
   1) prendere a riferimento il valore stabilito in sede di accatastamento;
   2) stabilire previamente una tabella di casistiche con cui si possano collegare gli aumenti di valore all’importo della sanzione, da concertare e da approvare da parte del Comune con l’ Agenzia delle Entrate – Ufficio del Territorio, evitando l’inoltro di singole richieste.
...
La Sezione è chiamata a esprimere un parere in ordine al carattere oneroso o meno delle operazioni di stima compiute dall’Agenzia delle Entrate – ufficio del Territorio, nel procedimento per l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 37, comma 4, del d.P.R. 380/2001, con specifico riferimento al conseguente aggravio che ne deriverebbe all’Amministrazione comunale richiedente.
L’art. 37, comma 4, del d.P.R. 380/2001 dispone quanto segue: “Ove l'intervento realizzato risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell'intervento, sia al momento della presentazione della domanda, il responsabile dell'abuso o il proprietario dell'immobile possono ottenere la sanatoria dell'intervento versando la somma, non superiore a 5164 euro e non inferiore a 516 euro, stabilita dal responsabile del procedimento in relazione all'aumento di valore dell'immobile valutato dall'agenzia del territorio”.
Ciò premesso, osserva il Collegio che il comma 4 del citato art. 37 prevede una fase di accertamento di conformità delle opere edilizie compiute in assenza di D.I.A., opere che comunque debbono risultare rispettose della disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione dell’intervento.
La sanzione irrogabile dal responsabile del procedimento, ai sensi dell’art. 37, quarto comma, può variare da un minimo di 516 ad un massimo di 5.164 euro, in funzione dell’incremento di valore del bene immobile, sulla base di una stima dell’Agenzia del Territorio (ora Agenzia delle Entrate – Ufficio del Territorio, per effetto dell’incorporazione ai sensi dell’art. 23-quater del decreto-legge n. 95/2012).
L’incremento di valore, oggetto della stima, non equivale pertanto all’importo della sanzione, ma costituisce il parametro per determinare la sanzione stessa.
Il responsabile del procedimento ha il compito di stabilire l’importo della sanzione tra il minimo e il massimo edittale.
Per giungere alla determinazione dell’importo della sanzione, la pubblica amministrazione procedente ha obbligo di agire con imparzialità e di rispettare il criterio di buon andamento dell’azione amministrativa, come stabilito dall’art. 97 della Costituzione.
L’importo della sanzione, pertanto, avrà tendenzialmente carattere proporzionale rispetto all’entità dell’incremento di valore del bene immobile per effetto delle opere realizzate.
Appare rispondente al predetto criterio di proporzionalità applicare la sanzione nella misura minima in caso di aumento di valore di entità nulla o molto esigua, mentre ad un incremento di valore molto alto potrà corrispondere una sanzione nella misura massima consentita; i casi intermedi verranno trattati in modo corrispettivo.
Per l’applicazione della sanzione, l’Amministrazione procede nell’esercizio dei propri poteri discrezionali, sia pure nel rispetto dei criteri di ragionevolezza, proporzionalità e parità di trattamento.
Ritiene il Collegio che
l’espressione del parere in questa sede consultiva non possa coinvolgere l’operato di altre Amministrazioni, né precostituire aspettative anche di mero fatto, ovvero regolare pretese, né tantomeno dirimere divergenze di posizioni tra soggetti pubblici diversi.
Il procedimento per l’applicazione delle sanzioni, che forma oggetto della richiesta di parere, costituisce inoltre esplicazione di poteri discrezionali da parte dell’Amministrazione, poteri rispetto ai quali la Corte dei conti non ha la possibilità di pronunciarsi compiutamente in questa sede consultiva, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 131/2003.
Nei termini sopra esposti, il parere risulta pertanto inammissibile sotto il profilo oggettivo.
Restano conseguentemente assorbite le altre questioni proposte (Corte dei Conti, Sez. controllo Marche, parere 25.03.2013 n. 20).

APPALTI SERVIZI: Il Comune istante chiede, partitamente, di conoscere il motivato avviso della Sezione in ordine:
al se ed in che misura sia possibile per le acquisizioni di lavori, servizi e forniture in economia procedere in forma tradizionale facendo applicazione delle previsioni del Regolamento per le gestioni in economia adottato dall’Ente giusta la previsione di cui all’art. 125 del D.lgs. 163/2006 prescindendo, dunque, dal ricorso al mercato elettronico non sussistendo un preciso obbligo;
al se ed in che misura al Comune di Ussita, in quanto Ente con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, possa ritenersi inapplicabile, giusta la previsione di cui al già richiamato art. 26, comma 3, Legge 488/1999, la disposizione di cui all’art. 1, comma 1, D.L. 95/2012 ed il conseguente regime di responsabilità disciplinare ed amministrativa.
Tanto premesso in fatto si osserva.
Ritiene, invero, la Sezione che, le pur indubbie specificità delle acquisizioni in economia –soggette ad un peculiare statuto per ciò che attiene ambito oggettivo e sia per ciò che attiene i presupposti legittimanti– non valgano a superare le conclusioni già rese circa la latitudine applicativa dell’obbligo di ricorso al mercato elettronico.
Sotto tale profilo giova, peraltro, evidenziare come i principi di semplificazione e celerità, tipici delle procedure in economia, non subiscano un vulnus, ma ben si concilino con le finalità sottese agli strumenti di e-procurement (su cui amplius 169/PAR/2012 Sezione Marche) e con quelle di razionalizzazione e di contenimento perseguite dal legislatore con i Decreti Spending review 1 e 2.
Di qui, a parere del Collegio, la necessità di una rivisitazione delle procedure tradizionali -e degli eventuali strumenti regolamentari già in essere– alla stregua della normativa sopravvenuta e del pressoché generalizzato obbligo di ricorso al mercato elettronico per le acquisizioni di beni e servizi sotto soglia, pur laddove ricorrano le condizioni per la procedura c.d. in economia.
Di converso deve, peraltro, confermarsi che siffatto obbligo sia esigibile esclusivamente per beni e categorie merceologiche presenti sul mercato elettronico e perfettamente confacenti alle esigenze funzionali dell’Ente mentre procedure tradizionali ed autonome possono ritenersi consentite –ancorché in via residuale- laddove il bene e/o servizio non possa essere acquisito mediante i richiamati sistemi di e-procurement ovvero laddove, pur disponibile, si appalesi inidoneo rispetto alle necessità della amministrazione procedente
(cfr. deliberazione 169/PAR/2012 anche con riguardo all’obbligo di motivazione).
Ciò posto, venendo alla ulteriore questione prospettata dall’Ente richiedente con riguardo al connesso profilo delle responsabilità,
ritiene il Collegio che, atteso il tenore letterale del disposto di cui all’art. 1, comma 1, D.L. 95/2012, il dato demografico (Comuni con popolazione sino a 1.000 abitanti o sino a 5.000 se montani) rilevi, atteso il richiamo all’art. 26, comma 3, L. 488/1999, solo con riferimento alla prima ipotesi evocata dalla norma sanzionatoria e non già con riferimento alla seconda ipotesi ed alla pretesa violazione degli obblighi di approvvigionarsi attraverso gli strumenti messi a disposizione di Consip Spa.
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Il Comune di Ussita con nota a firma del suo Sindaco ha formulato, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. 131/2003, una articolata richiesta di parere in ordine alla corretta interpretazione della novità normativa recata dal D.L. n. 52 del 07.05.2012 –convertito in L. n. 94 del 06.07.2012– in tema di acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla soglia comunitaria con specifico riguardo alla fattispecie degli acquisti c.d. in economia.
Richiamate, in particolare,
• le motivazioni poste a fondamento della deliberazione n. 169 del 29.11.2012 resa da questa Sezione in ordine alla portata cogente del novellato art. 1, comma 450, della L. 296/2006 (L.F. 2007) a mente del quale “fermo restando gli obblighi di cui all’art. 449 della L. 296/2006, le altre amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 d.lgs. 165/2001 per gli acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo art. 328 (del d.p.r. 327/2010);
• la ricostruzione invalsa presso alcuni Commentatori –cui l’Ente istante pare, peraltro, aderire– secondo la quale l’obbligatorietà del ricorso al mercato elettronico non potrebbe configurarsi rispetto agli affidamenti c.d. in economia rinvenendo gli stessi il loro referente normativo nell’art. 335 del d.p.r. 327/2010 cui l’art. 7 della L. 94/2012 non opera alcun rinvio;
• il disposto di cui all’art. 26, comma 3, della Legge 488/1999 che, in tema di acquisti centralizzati, esclude i Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti e per i Comuni montani con popolazione fino a 5.000 abitanti dalla platea dei soggetti incisi dalla norma,
il Comune istante chiede, partitamente, di conoscere il motivato avviso della Sezione in ordine:
al se ed in che misura sia possibile per le acquisizioni di lavori, servizi e forniture in economia procedere in forma tradizionale facendo applicazione delle previsioni del Regolamento per le gestioni in economia adottato dall’Ente giusta la previsione di cui all’art. 125 del D.lgs. 163/2006 prescindendo, dunque, dal ricorso al mercato elettronico non sussistendo un preciso obbligo;
al se ed in che misura al Comune di Ussita, in quanto Ente con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, possa ritenersi inapplicabile, giusta la previsione di cui al già richiamato art. 26, comma 3, Legge 488/1999, la disposizione di cui all’art. 1, comma 1, D.L. 95/2012 ed il conseguente regime di responsabilità disciplinare ed amministrativa.
...
L’esame delle questioni prospettate dall’Ente istante non può che prendere le mosse dal precedente parere reso dalla Sezione e dalle considerazioni svolte in ordine alla obbligatorietà per gli Enti locali di far ricorso -ai fini degli acquisti c.d. sotto soglia– al mercato elettronico previsto e disciplinato all’art. 328 d.p.r. 327/2010.
A tal riguardo giova, anzitutto, ribadire che vertendosi in tema di normativa vincolistica –asseritamente preordinata alla razionalizzazione ed al contenimento di uno specifico segmento di spesa– l’interpretazione della stessa deve essere condotta secondo rigorosi criteri ermeneutici con preclusione di inammissibili interventi additivi.
In questa prospettiva nell’evidenziare, ancora una volta, un indubbio problema di coordinamento della pluralità di norme –anche di diverso rango in ragione delle diverse fonti– che concorrono alla disciplina della specifica materia e, dunque, la opportunità di un intervento, se del caso normativo, che riconduca le stesse ad unità, deve rilevarsi come, valorizzando un’interpretazione letterale, non appaia configurabile un regime differenziato per le acquisizioni in economia ma come, anche per queste, debba farsi ricorso al mercato elettronico.
Nessun argomento, invero, appare desumersi né dal tenore letterale della disposizione né in via interpretativa in ordine alla intenzione del legislatore –pur intervenuto, di recente, sull’art. 1, comma 450, L.F. 2007 (cfr. art. 1, comma 149, lett. a – lett. b)– di introdurre, a fronte del predetto obbligo, una disciplina peculiare e, dunque, derogatoria per le acquisizioni in economia.
Sotto tale profilo, peraltro, la tesi prospettata dall’Ente richiedente non appare persuasiva laddove annette efficacia dirimente alla circostanza che il Regolamento di esecuzione ed attuazione del codice dei contratti dedichi alle acquisizioni di servizi e forniture sottosoglia ed in economia –pur accomunate sotto il medesimo titolo V– due distinti capi (rispettivamente il primo ed il secondo) ovvero al fatto che l’art. 7, comma 2, del D.L. 52/2012 faccia rinvio al mercato elettronico della p.a. e ad altri mercati istituiti ai sensi del medesimo art. 328 e non già all’art. 335 del d.p.r. 207/2010 che facultizza le stazioni appaltanti all’utilizzo del mercato elettronico per effettuare acquisti in economia.
Detti argomenti non si appalesano, invero, di particolare significatività per temperare la portata cogente del novellato art. 1, comma 450, L.F. 2007.
A parere del Collegio, il richiamo al citato art. 328 del Regolamento di attuazione rinvenibile in disposizioni relative alle acquisizioni di servizi in economia (cfr. art. 332 – 335 – 336) in uno alla previsione di cui al comma 4, lett. b), dello stesso art. 328 a mente del quale “avvalendosi del mercato elettronico le stazioni appaltanti possono effettuare acquisti di beni e servizi sotto soglia ……b) in applicazione delle procedure di acquisto in economia di cui al capo II”, militano, di contro per una ricostruzione unitaria dei due istituti – conformemente, peraltro, alle disposizioni del Codice dei contratti pubblici (cfr. artt. 121-125 sub Titolo II Contratti sotto soglia comunitaria).
Ritiene, invero, la Sezione che, le pur indubbie specificità delle acquisizioni in economia –soggette ad un peculiare statuto per ciò che attiene ambito oggettivo e sia per ciò che attiene i presupposti legittimanti– non valgano a superare le conclusioni già rese circa la latitudine applicativa dell’obbligo di ricorso al mercato elettronico.
Sotto tale profilo giova, peraltro, evidenziare come i principi di semplificazione e celerità, tipici delle procedure in economia, non subiscano un vulnus, ma ben si concilino con le finalità sottese agli strumenti di e-procurement (su cui amplius 169/PAR/2012 Sezione Marche) e con quelle di razionalizzazione e di contenimento perseguite dal legislatore con i Decreti Spending review 1 e 2.
Di qui, a parere del Collegio, la necessità di una rivisitazione delle procedure tradizionali -e degli eventuali strumenti regolamentari già in essere– alla stregua della normativa sopravvenuta e del pressoché generalizzato obbligo di ricorso al mercato elettronico per le acquisizioni di beni e servizi sotto soglia, pur laddove ricorrano le condizioni per la procedura c.d. in economia.
Di converso
deve, peraltro, confermarsi che siffatto obbligo sia esigibile esclusivamente per beni e categorie merceologiche presenti sul mercato elettronico e perfettamente confacenti alle esigenze funzionali dell’Ente mentre procedure tradizionali ed autonome possono ritenersi consentite –ancorché in via residuale- laddove il bene e/o servizio non possa essere acquisito mediante i richiamati sistemi di e-procurement ovvero laddove, pur disponibile, si appalesi inidoneo rispetto alle necessità della amministrazione procedente (cfr. deliberazione 169/PAR/2012 anche con riguardo all’obbligo di motivazione)
Ciò posto, venendo alla ulteriore questione prospettata dall’Ente richiedente con riguardo al connesso profilo delle responsabilità,
ritiene il Collegio che, atteso il tenore letterale del disposto di cui all’art. 1, comma 1, D.L. 95/2012, il dato demografico (Comuni con popolazione sino a 1.000 abitanti o sino a 5.000 se montani) rilevi, atteso il richiamo all’art. 26, comma 3, L. 488/1999, solo con riferimento alla prima ipotesi evocata dalla norma sanzionatoria e non già con riferimento alla seconda ipotesi ed alla pretesa violazione degli obblighi di approvvigionarsi attraverso gli strumenti messi a disposizione di Consip Spa (Corte dei Conti, Sez. controllo Marche, parere 25.03.2013 n. 17).

CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALILa condanna dell'assessore si estende al segretario
Rientra tra i doveri di servizio del segretario comunale fornire pareri in materia di regolarità delle deliberazioni adottate, sussistendo la colpa grave per violazione dei doveri di servizio, in quanto con un minimo di diligenza si sarebbe evidenziata la natura illegittima e dannosa della deliberazione stessa.

Il principio è contenuto nella sentenza 01.02.2013 n. 41 della Corte dei Conti, Sez. II giur. centrale d'appello.
In particolare, l'atto non rispettava il termine massimo per il conferimento di mansioni superiori, che secondo l'articolo 52 del dlgs n. 165/2001, può essere disposto nel caso di vacanza di posto in organico, per non più di sei mesi, prorogabili a dodici, nel caso in cui fossero state avviate le procedure per la copertura del posto vacante. La norma non prevede, inoltre, alcuna proroga ulteriore, né per problemi nell'espletamento del concorso, né per altre cause giustificative.
La Corte dei conti evidenzia che tali norme erano espressamente richiamate nell'atto oggetto del ricorso in appello e pertanto si presume note alla giunta comunale, che procedeva nonostante tutto a conferire le mansioni superiori a un dipendente al quale erano già state conferite per oltre 24 mesi.
Sussiste, pertanto, la colpa grave degli assessori che hanno votato la deliberazione, in quanto con un minimo di diligenza avrebbero potuto evidenziare la natura dannosa e illegittima dell'atto adottato. La condanna si estende anche al segretario comunale che la Corte presume conoscesse la normativa, sia per dovere d'ufficio, che per esperienza e per preparazione professionale derivante dalla categoria di appartenenza; nonostante ciò non fornì alcun parere sulla regolarità della deliberazione e verbalizzò la seduta senza osservazione alcuna. Il tutto in violazione dei suoi obblighi di assistenza giuridico-amministrativa (istruttoria e consultiva) agli organi di vertice dell'ente, in sede di adozione delle deliberazioni.
A fronte di un'evidente illegittimità, continua la Corte dei conti, la giunta decise di confermare le mansioni superiori senza il parere burocratico del segretario, senza effettuare tutti gli approfondimenti del caso, che sarebbero stati necessari (articolo ItaliaOggi del 05.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI: Norme applicabili in materia di durata della verifica di conformità.
Ai sensi dell'articolo 4, comma 6, del d.lgs. 231/2002 la verifica di conformità della prestazione ha una durata di 30 giorni; le parti possono concordare, prevedendolo espressamente e indicandolo nella documentazione di gara, un termine maggiore -purché non gravemente iniquo per il creditore ai sensi del successivo art. 7- che non può comunque essere superiore a quello indicato dal regolamento del codice dei contratti.
Il Comune rappresenta che i termini di durata della verifica di conformità delle prestazioni oggetto dei contratti, previsti rispettivamente dall'articolo 4, comma 6, d.lgs. 231/2002 e dagli articoli 313, 316, 325 del DPR 207/2010, paiono tra loro incompatibili.
L'Ente chiede, quindi, di conoscere come si debba procedere per individuare correttamente i suddetti termini di durata.
Si formulano al riguardo le seguenti considerazioni.
Il comma 6 dell'articolo 4 del d.lgs. 231/2002 (Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali), come sostituito dall'articolo 1, del d.lgs. n. 192/2012 recita: 'Quando è prevista una procedura diretta ad accertare la conformità della merce o dei servizi al contratto essa non può avere una durata superiore a trenta giorni dalla data della consegna della merce o della prestazione del servizio, salvo che sia diversamente ed espressamente concordato dalle parti e previsto nella documentazione di gara e purché ciò non sia gravemente iniquo per il creditore ai sensi dell'articolo 7. L'accordo deve essere provato per iscritto'. La citata norma è inserita in un provvedimento legislativo la cui finalità specifica è quella di rendere individuabile con certezza il momento entro il quale deve essere effettuato il pagamento, trascorso il quale opereranno le sanzioni previste per i ritardi di pagamento.
D'altro canto, i termini per il controllo volto ad accertare la conformità delle prestazioni oggetto del contratto risultano disciplinati dal d.lgs. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE) e dal relativo Regolamento di attuazione ed esecuzione (DPR 207/2010).
Il d.lgs. 163/2006 stabilisce all'art. 120, comma 1, che 'Per i contratti relativi a servizi e forniture il regolamento determina le modalità di verifica della conformità delle prestazioni eseguite a quelle pattuite, con criteri semplificati per quelli di importo inferiore alla soglia comunitaria.'.
A sua volta, il Regolamento prevede, con riguardo ai servizi e forniture, due distinte discipline di controllo della conformità, entrambe contenute nel Titolo IV, Parte IV e precisamente:
- la verifica di conformità di cui agli articoli 312 e seguenti;
- l'attestazione di regolare esecuzione di cui all'articolo 325.
La durata della verifica di conformità è disciplinata, in particolare, dagli articoli 313 (il quale prevede che la verifica di conformità debba iniziare entro 20 giorni dall'ultimazione della prestazione) e 316 (il quale prevede che la verifica debba essere conclusa entro il termine stabilito dal contratto e comunque non oltre 60 giorni dall'ultimazione dell'esecuzione delle prestazioni contrattuali).
L'attestazione di regolare esecuzione
[1] deve, invece, essere emessa entro 45 giorni dall'ultimazione dell'esecuzione, così come previsto dal citato articolo 325.
Le citate disposizioni, dunque, si occupano di individuare i termini massimi entro i quali deve essere contenuta la singola fase del procedimento di acquisizione di beni e servizi e, precisamente, la fase del controllo della prestazione ricevuta.
Con riferimento in generale alla contabilità ed al pagamento delle prestazioni relative a forniture e servizi, l'articolo 307, comma 2, del DPR 207/2010, operando un richiamo al d.lgs. 231/2002, statuisce espressamente che: '[...] Nel caso di ritardato pagamento resta fermo quanto previsto dal decreto legislativo 09.10.2002, n. 231.'.
L'articolo 4, comma 6, del d.lgs. 231/2002, nell'indicare un termine massimo di 30 giorni per la durata della verifica di conformità, lascia comunque all'accordo delle parti la possibilità di indicare per iscritto un diverso termine, purché previsto nella documentazione di gara e non gravemente iniquo per il creditore.
L'articolo 11, comma 2, del medesimo decreto legislativo prevede che: 'Sono fatte salve le vigenti disposizioni del codice civile e delle leggi speciali che contengono una disciplina più favorevole per il creditore'. Tale norma consente quindi di individuare nelle summenzionate norme del regolamento i limiti massimi entro i quali le parti possono negoziare un termine differente rispetto a quello posto dall'art. 4, comma 6, del d.lgs. 231/2002 per le verifiche di conformità della prestazione. Infatti, qualora le parti concordassero un termine superiore anche a quello previsto dal regolamento, opererebbe la clausola di maggior favore per il creditore, di cui al citato art. 11, comma 2, riconducendo il predetto termine a quello previsto dal regolamento in argomento.
Le disposizioni dettate dal codice dei contratti e dal relativo regolamento nella materia in argomento, vanno interpretate alla luce delle disposizioni di cui al d.lgs. 231/2002, come modificato dal d.lgs. 192/2012, ritenendo prevalenti queste ultime, laddove le parti non abbiano espressamente pattuito un diverso termine, comunque non superiore a quello previsto dal regolamento.
A conferma di un tanto, con riferimento ad analoghe questioni afferenti ai lavori pubblici e concernenti i termini per l'emissione dei certificati di pagamento e per l'emissione del certificato di collaudo, si è espresso il Ministero dello Sviluppo Economico con la nota prot. 1293 del 23.01.2013
[2] nella quale, premettendo che le disposizioni dettate dal codice dei contratti pubblici e dal regolamento di attuazione già vigenti per il settore dei lavori pubblici, relative ai termini di pagamento delle rate di acconto e di saldo nonché alla misura degli interessi da corrispondere in caso di ritardato pagamento, devono essere interpretate e chiarite alla luce delle disposizioni del decreto legislativo 09.11.2012, n. 192, ritenendosi prevalenti queste ultime sulle disposizioni di settore confliggenti, tenendo conto anche dell'espressa clausola di salvezza di cui all'art. 11, comma 2, d.lgs. 231/2002, ha chiarito che:
'- il termine di quarantacinque giorni previsto dall'art. 143, co. 1, primo periodo, del regolamento per l'emissione del certificato di pagamento dalla maturazione del SAL, risulta non compatibile con la previsione del comma 6 dell'articolo 4 del d.lgs. n. 231/2002, che fissa in trenta giorni il termine per la verifica preordinata al pagamento; detto termine deve pertanto essere inteso come ridotto a trenta giorni, ove non sia previsto nella documentazione di gara -e pattuito espressamente nel contratto- un termine maggiore, ma comunque, in virtù del già richiamato art. 11, co. 2, d.lgs. n. 231 del 2002 che fa «salve le vigenti disposizioni del codice civile e delle leggi speciali che contengono una disciplina più favorevole per il creditore» non superiore ai quarantacinque giorni;
- (omissis);
- il termine di sei mesi, elevabile fino ad un anno, di cui all'art. 141, co. 1, del codice dei contratti pubblici previsto per l'emissione del certificato di collaudo, nonché il termine di tre mesi di cui all'art. 141, co. 3, del medesimo codice, previsto per l'emissione del certificato di regolare esecuzione, risultano ancora applicabili, laddove siano espressamente concordati dalle parti e previsti nella documentazione di gara ai sensi dell'art. 4, co. 6 del d.lgs.231/2002
'.
Il medesimo percorso interpretativo potrebbe, pertanto, ritenersi corretto anche con riferimento all'odierno quesito con le seguenti conclusioni: la verifica di conformità della prestazione ha una durata di 30 giorni; le parti possono concordare, prevedendolo espressamente e indicandolo nella documentazione di gara, un termine superiore -purché non gravemente iniquo per il creditore
[3]- che non può comunque essere superiore a quello indicato dal regolamento del codice dei contratti.
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[1] Ai sensi dell'articolo 325, comma 1, del DPR 207/2010 'Qualora la stazione appaltante per le prestazioni contrattuali di importo inferiore alle soglie di cui all'articolo 28, comma 1, lettere a) e b), del codice, non ritenga necessario conferire l'incarico di verifica di conformità, si dà luogo ad una attestazione di regolare esecuzione emessa dal direttore dell'esecuzione e confermata dal responsabile del procedimento.'.
[2] Nella nota viene chiarito che la nuova disciplina dei ritardati pagamenti introdotta in attuazione della normativa comunitaria 7/2011/UE si applica ai contratti pubblici relativi a tutti i settori produttivi, inclusi i lavori, stipulati a decorrere dal 01.01.2013, ai sensi dell'art. 3, co. 1, del d.lgs n. 192 del 2012.
[3] Ai sensi del successivo articolo 7
(26.03.2013 - link a www.regione.fvg.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Incentivi per la progettazione e la realizzazione di lavori pubblici.
Stante quanto affermato dalla Corte dei conti - Sezione di controllo della Regione Friuli Venezia Giulia, con deliberazioni n. FVG/335/2010/PAR e n. FVG/336/2010/PAR del 06.12.2010, sembra doversi ritenere che le somme accantonate ai sensi dell'art. 11, comma 1, della L.R. 14/2002, prima di essere ripartite tra il personale dipendente ivi individuato, debbano essere decurtate della quota di spesa che l'Amministrazione sostiene a titolo di IRAP.
Il Comune, dopo aver rappresentato:
1) di aver adottato, nel novembre 2000, il 'Regolamento per la costituzione del fondo incentivante ex art. 18 della L. 109/1994' -che non è mai stato modificato- il cui art. 1, comma 4, prevede che «Il suddetto fondo è da considerarsi comprensivo dei compensi spettanti ai lavoratori dipendenti per l'attività svolta, le imposte e tasse corrispondenti e le quote di contributi a carico degli stessi nonché le quote di contributi previdenziali, assicurativi ed assistenziali a carico dell'Ente.»;
2) che l'art. 11, comma 1, secondo periodo, della legge regionale 31.05.2002, n. 14, dispone che «La percentuale effettiva, nel limite massimo dell'1,5 per cento, al netto dei relativi oneri previdenziali e assicurativi posti a carico dell'amministrazione aggiudicatrice, da ripartirsi esclusivamente tra i dipendenti, e le relative modalità di erogazione sono stabilite dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare.»;
3) che l'art. 92, comma 5, primo periodo
[1], del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, stabilisce che la somma da ripartire ai fini di cui trattasi è «comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione»;
4) che la Corte dei conti - Sezioni riunite in sede di controllo, con deliberazione 07.06.2010, n. 33, ha affermato che l'imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) costituisce onere a carico dell'Amministrazione, il quale deve, comunque, trovare copertura nell'ambito della somma incentiva in argomento,
chiede di conoscere se il pagamento delle spettanze al personale debba essere effettuato al netto o al lordo dei contributi previdenziali ed assistenziali a carico dell'Ente, nonché dell'IRAP.
Anzitutto, si rende necessario rammentare che, considerate anche le valutazioni espresse, per i profili di competenza, dal Servizio finanza locale, questo Ufficio ha già avuto modo di esprimersi, in numerosi pareri
[2], su questioni concernenti l'applicazione dell'istituto degli incentivi per la progettazione e la realizzazione di lavori pubblici, che il legislatore del Friuli Venezia Giulia -in virtù della propria competenza legislativa primaria in tema di lavori pubblici di interesse regionale e locale [3], nel cui contesto si colloca il predetto istituto- ha provveduto a disciplinare compiutamente con l'art. 11 della L.R. 14/2002, il quale costituisce la sola fonte legislativa di riferimento nel relativo ambito territoriale.
Un tanto premesso, occorre rilevare che la previsione contenuta nell'art. 1, comma 4, del regolamento adottato dall'Ente per le finalità incentive di cui trattasi, non risultando conforme alla disposizione recata dall'art. 11, comma 1, secondo periodo, della L.R. 14/2002, dovrebbe essere disapplicata.
Inoltre, atteso che il regolamento comunale, risalente al novembre 2000
[4], secondo quanto riferito dall'Ente non è mai stato modificato, l'adeguamento delle relative disposizioni alla sopravvenuta (e, in parte, innovativa) legislazione regionale consentirebbe anche di poter prevedere il riparto, tra i dipendenti, dell'ulteriore somma incentiva di cui all'art. 11, comma 1, ultimo periodo [5], della L.R. 14/2002 [6], atteso che la legittima attribuzione di tale beneficio aggiuntivo risulta subordinata alla sua esplicita previsione nell'ambito dello stesso regolamento locale.
Stabilito, quindi, che, stante l'espressa previsione di legge, la quota percentuale effettiva da accantonare, per il successivo riparto tra i dipendenti aventi titolo, deve intendersi al netto degli oneri previdenziali ed assicurativi di competenza dell'amministrazione, per quanto concerne l'IRAP, stante l'assenza di un'analoga disposizione, occorre fare riferimento all'orientamento assunto dalla Corte dei conti.
Lo scrivente Servizio, già interpellato al riguardo, si è espresso, in particolare, con parere 14.09.2010, n. 14909, nel quale, evidenziate le peculiarità della disciplina regionale rispetto a quella statale, ha rilevato la difficoltà di stabilire come, in questa Regione, possa trovare applicazione il principio, enunciato dalla Corte dei conti - Sezioni riunite in sede di controllo, con deliberazione n. 33/2010, secondo cui «l'onere fiscale non può gravare sul lavoratore dipendente in relazione ai compensi di natura retributiva», tenuto conto che, nel contempo, la Corte ha sancito che:
- «ai fini della quantificazione dei fondi per l'incentivazione [...] vanno accantonate, a fini di copertura, rendendole indisponibili, le somme che gravano sull'ente per oneri fiscali, nella specie, a titolo di Irap»;
- «mentre sul piano dell'obbligazione giuridica, rimane chiarito che l'Irap grava sull'amministrazione [...], su un piano strettamente contabile [...] l'amministrazione non potrà che quantificare le disponibilità destinabili ad avvocati e professionisti, accantonando le risorse necessarie a fronteggiare l'onere Irap, come avviene anche per il pagamento delle altre retribuzioni del personale pubblico [...]»;
- «Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui l'Irap) si riflette, in sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la progettazione [...] ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura dell'onere Irap gravante sull'amministrazione».
In tale circostanza, preso atto dell'autorevolezza del soggetto che ha elaborato la detta interpretazione e della complessità delle conclusioni cui essa perviene e atteso che queste muovono dal diverso regime statale dell'istituto incentivo, si è ritenuto doveroso suggerire, all'Amministrazione formulante il quesito, «la necessità di acquisire, al riguardo, apposito parere della Sezione regionale del Giudice contabile».
La Corte dei conti regionale è intervenuta, sulla questione, con le deliberazioni
[7] n. FVG/335/2010/PAR e n. FVG/336/2010/PAR del 06.12.2010 [8].
Nella prima di dette deliberazioni, dopo aver ripercorso l'analisi già svolta dalle Sezioni riunite ed aver rammentato il principio e le conclusioni cui essa perviene, la Corte del Friuli Venezia Giulia precisa che, ai fini della valutazione dell'applicazione della questione di massima in ambito regionale, essa è tenuta a conformarsi all'orientamento generale adottato dalle stesse Sezioni riunite
[9].
Quindi il Giudice contabile regionale espone le proprie osservazioni affermando che, «nonostante la differente formulazione della norma da parte del legislatore regionale (articolo 11 della legge regionale 31.05.2002, n. 14) 'rimane chiarito, sul piano dell'obbligazione giuridica, che l'Irap grava sull'amministrazione'», mentre «Diverse considerazioni devono svolgersi con riferimento all'applicabilità dei principi richiamati dalle Sezioni Riunite con riferimento alle modalità di quantificazione delle disponibilità destinabili ai fondi per la progettazione e della relativa copertura finanziaria.».
Di seguito, la Sezione regionale della Corte dei conti individua, nell'ambito delle ulteriori disposizioni già esaminate dalle Sezioni riunite, le norme applicabili in questo contesto regionale, in quanto princìpi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica,ovvero princìpi di copertura finanziaria degli oneri derivanti dalla contrattazione collettiva e di contenimento della spesa del personale.
Dopo aver sancito che «Il concorso degli enti locali alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica, anche mediante misure di contenimento delle spese del personale, costituisce pertanto un principio cui deve far riferimento il legislatore regionale anche laddove, come nella Regione Friuli Venezia Giulia, sia stato istituito il 'Comparto unico del pubblico impiego regionale e locale del Friuli-Venezia Giulia'» e che «il principio di contenimento e controllo della spesa per i dipendenti pubblici entro 'limiti massimi globali' nonché la previsione in bilancio dell'evidenziazione della 'spesa complessiva per il personale, a preventivo e consuntivo' costituisce per le Regioni a statuto speciale, ai sensi dell'articolo 2 della legge 23.10.1992, n. 421, norma fondamentale di riforma economico-sociale della Repubblica (art. 1, comma 3, d.lgs. 165/2001)», il Giudice contabile regionale precisa che «i principi sui quali si basa l'iter argomentativo delle Sezioni Riunite in sede di controllo trovano conferma non solo nella specifica disciplina relativa alla contrattazione collettiva del pubblico impiego vigente in ambito regionale, ma anche nelle specifiche norme regionali di coordinamento della finanza pubblica per gli enti locali del Friuli Venezia Giulia».
Effettuata, poi, l'analisi delle norme regionali concernenti specificatamente la spesa per il personale, la Sezione regionale della Corte dei conti conclude la propria articolata argomentazione affermando che:
- «Tutte le norme richiamate sono espressione dei principi di previsione di copertura finanziaria degli oneri di spesa (all'articolo 81, quarto comma, della Costituzione) e del contenimento della spesa del personale entro limiti massimi. L'applicazione di tali principi alla questione oggetto dell'odierno quesito, comporta che 'le somme indicate per fronteggiare in materia di pubblico impiego gli oneri di spesa costituiscono disponibilità massime e, pertanto, non superabili' e che sul bilancio regionale e degli altri enti pubblici non potranno gravare ulteriori oneri che non trovino adeguata copertura»;
- «l'iter argomentativo delle Sezioni Riunite può ben applicarsi anche in ambito regionale. In particolare, anche per gli enti locali del Friuli Venezia Giulia, valgono le considerazioni espresse dalle medesime Sezioni circa la necessità che le disponibilità di bilancio da destinare ai 'fondi' da ripartire tra il personale coinvolto nella progettazione e realizzazione dell'opera ai sensi dell'articolo 11 della legge regionale 14/2002 'non possono che essere quantificate al netto delle somme destinate (o destinabili) a coprire gli oneri che gravano sull'amministrazione a titolo di Irap, poiché, diversamente, una discorde interpretazione confliggerebbe non solo con il chiaro disposto delle richiamate disposizioni, ma anche con il principio di copertura degli oneri finanziari (art. 81, quarto comma, Cost.). Infatti, se si considera che l'Irap viene commisurata per le amministrazioni pubbliche alla spesa per il personale, l'incremento della retribuzione accessoria spettante, a qualsiasi titolo, determina anche l'espansione dell'imposta che deve, comunque, trovare copertura nell'ambito delle risorse quantificate e disponibili, in linea con l'obiettivo del contenimento di ogni effetto di incremento degli oneri di personale gravanti sui bilanci degli enti pubblici'»;
- «In conclusione, 'Ai fini della quantificazione dei fondi per l'incentivazione [...], vanno accantonate, a fini di copertura, rendendole indisponibili, le somme che gravano sull'ente per oneri fiscali, nella specie a titolo di Irap'»;
- «Pertanto, 'mentre sul piano dell'obbligazione giuridica, rimane chiarito che l'Irap grava sull'amministrazione (...) su un piano strettamente contabile, tenuto conto delle modalità di copertura di 'tutti gli oneri', l'amministrazione non potrà che quantificare le disponibilità destinabili al fondo per gli incentivi, accantonando le risorse necessarie a fronteggiare l'onere Irap, come avviene anche per il pagamento delle altre retribuzioni del personale pubblico. Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui l'Irap) si riflettono, in sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la progettazione ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura dell'onere Irap gravante sull'amministrazione'».
Stante quanto affermato dal Giudice contabile, sembra doversi ritenere che le somme accantonate ai sensi dell'art. 11, comma 1, della L.R. 14/2002, prima di essere ripartite tra il personale dipendente ivi individuato, debbano essere decurtate della quota di spesa che l'Amministrazione sostiene a titolo di IRAP.
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[1] «Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori.».
[2] I cui testi sono reperibili tramite il motore di ricerca presente sul Portale delle autonomie locali, all'indirizzo Internet http://autonomielocali.regione.fvg.it/
[3] V. art. 4, primo comma, n. 9, della legge costituzionale 31.01.1963, n. 1.
[4] Contenente, perciò, previsioni fondate sulla disciplina statale vigente a quell'epoca.
[5] «Il regolamento dell'amministrazione può stabilire un ulteriore incentivo nella misura massima dell'1 per cento, qualora le attività di responsabile unico del procedimento, le prestazioni relative alla progettazione, al coordinamento della sicurezza in fase di progettazione e di esecuzione, nonché alla direzione dei lavori siano tutte espletate dagli uffici di cui all'articolo 9, comma 1, lettere a), b) e c).».
[6] Che il legislatore statale non ha mai contemplato.
[7] Reperibili all'indirizzo Internet www.regione.fvg.it/corteconti/sezionecontrollo.htm.
[8] Tale deliberazione ribadisce le conclusioni cui giunge il parere n. 335, rinviando ad esso, per relationem, quanto al contenuto delle motivazioni.
[9] Ai sensi dell'art. 17, comma 31, del decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito, con modificazioni,dalla legge 03.08.2009, n. 1023, il quale dispone che «Al fine di garantire la coerenza nell'unitaria attività svolta dalla Corte dei conti per le funzioni che ad essa spettano in materia di coordinamento della finanza pubblica, anche in relazione al federalismo fiscale, il Presidente della Corte medesima può disporre che le sezioni riunite adottino pronunce di orientamento generale sulle questioni risolte in maniera difforme dalle sezioni regionali di controllo nonché sui casi che presentano una questione di massima di particolare rilevanza. Tutte le sezioni regionali di controllo si conformano alle pronunce di orientamento generale adottate dalle sezioni riunite.»
(25.03.2013 - link a www.regione.fvg.it).

NEWS

TRIBUTI La nuova super-Tares colpirà alla fine dell'anno. L'ipotesi del Governo conferma la stangata di dicembre.
IL PROBLEMA/ I comuni dovranno fissare le date di versamento almeno 30 giorni prima della scadenza Doppie modalità di pagamento.

Un riavvio quasi immediato per i pagamenti del servizio rifiuti, sotto forma di Tia o Tarsu a seconda delle regole applicate nel Comune l'anno scorso; senza però far scomparire la Tares, che va comunque pagata a conguaglio entro l'anno e si porta dietro la «maggiorazione» da 30 centesimi al metro quadrato trasformata in sovrattassa statale.
Le bozze del capitolo Tares circolate ieri, che potrebbero trovare spazio nel decreto sui pagamenti in programma questa mattina al Consiglio dei ministri o imboccare la via di un provvedimento autonomo, confermano le attese della vigilia. E ne confermano anche i problemi applicativi, a partire dal maxiconguaglio di fine anno che contribuirà a spingere la pressione fiscale nell'ultimo trimestre 2013 assai più in alto dei livelli record appena registrati dall'Istat per gli ultimi quattro mesi del 2012 (si veda la pagina a fianco).
Il provvedimento, almeno nelle bozze, prova a sposare le due esigenze che si contrappongono sul ring della Tares. Le aziende di igiene urbana e i Comuni non possono attendere fino all'estate-autunno i primi incassi e con il calendario Tares rischiano quindi di piombare in una crisi di liquidità che mette a rischio pagamenti ai fornitori e stipendi; lo Stato non intende rinunciare alla «copertura integrale» del costo del servizio rifiuti attraverso il tributo e al miliardo aggiuntivo della maggiorazione.
Per rispondere alla prima esigenza, si rimettono in campo i Comuni, che secondo la nuova norma potrebbero decidere in modo autonomo il calendario dei versamenti, avendo cura solo di pubblicare la delibera 30 giorni prima della scadenza della rata. Le prime rate, su cui l'autonomia degli enti locali sembra piena, potranno essere pagate con gli stessi strumenti utilizzati l'anno scorso, dai bollettini precompilati ai Mav.
Tanta libertà si esaurirà però all'ultima rata, «dovuta a titolo di Tares» come precisa la bozza, che avrà le caratteristiche previste per il nuovo tributo fin dal decreto «Salva-Italia» (Dl 201/2011, articolo 14) che l'ha istituito: si potrà pagare solo con F24 o bollettino postale ad hoc, e si dovrà garantire la «copertura integrale» dei costi del servizio in base ai piani finanziari che saranno predisposti nel corso dell'anno. Da "buona" Tares, sarà accompagnata dalla maggiorazione da 30 centesimi al metro quadrato da versare direttamente allo Stato: contestualmente, l'Erario "restituisce" ai Comuni il miliardo di euro che era stato tagliato in vista dell'attribuzione ai sindaci di questa sovrattassa.
Come si vede, il tentativo di compromesso fra due esigenze contrapposte rischia di creare più di un problema, soprattutto ai 40 milioni di italiani che abitano nei Comuni dove nel 2012 si applicava la Tarsu. Solo la tariffa Tia, applicata finora da 1.300 sindaci, già prevedeva la copertura integrale dei costi attraverso l'applicazione del «metodo normalizzato» per la determinazione del conto. L'impatto effettivo dipenderà dalla struttura delle aliquote di ogni Comune, ma in generale nel caso delle famiglie il rischio aumenti sarà collegato al tasso effettivo di copertura dei costi già raggiunto con i rincari della Tarsu negli ultimi anni.
Per negozi e piccole imprese commerciali, invece, parte l'applicazione del «metodo normalizzato» che misura il conto sulla base della quantità di rifiuti prodotti: rielaborando le stime diffuse nei giorni scorsi da Confcommercio, nel caso di pagamenti in tre scaglioni si può calcolare un'ultima rata pari a 10-20 volte le prime due a seconda della tipologia di esercizio commerciale.
Nei Comuni che sono già passati alla tariffa, invece, qualche problema potrebbe arrivare sul fronte procedurale, perché le bozze citano per ora solo «i Comuni» come autori degli invii delle bollette, mentre in molti casi l'invio viene fatto dalle aziende, soprattutto nei casi frequentissimi in cui il servizio è gestito dalla stessa impresa per molti enti (articolo Il Sole 24 Ore del 06.04.2013).

SEGRETARI COMUNALIUnioni, segretari senza convenzioni. Enti locali. Possono svolgere le funzioni solo se autorizzati dal sindaco e fuori.
Il segretario comunale, ove autorizzato dal suo ente, può svolgere al di fuori dell'orario di lavoro -ci chiede lumi Giuseppe Cofano- l'incarico di segretario di una unione dei comuni. Non è consentito il convenzionamento tra un comune ed una unione per lo svolgimento della funzione di segretario. Sono questi i pilastri fissati in via interpretativa, in modo consolidato, per le segreterie delle unioni dei comuni.

Queste ultime, pur essendo enti locali, non sono obbligate ad avere un segretario iscritto allo specifico albo gestito prima dalla specifica Agenzia ed adesso da una articolazione del ministero dell'Interno. Le unioni dei comuni possono, sulla base della propria regolamentazione, prevedere la utilizzazione di segretari comunali ovvero di dirigenti e/o responsabili degli enti aderenti. Molti statuti delle unioni dettano il vincolo per la utilizzazione del segretario di uno dei comuni come vertice amministrativo della gestione associata.
Non essendo previsto dal legislatore che le unioni debbano avere necessariamente un segretario iscritto allo specifico albo, viene negata in modo consolidato la possibilità che queste due amministrazioni possano stipulare una convenzione di segreteria, sul modello di quanto espressamente consentito dalla normativa contrattuale tra i comuni. Nella stessa scia vanno le indicazioni prevalenti sul divieto del comando parziale di un segretario da un comune ad una unione.
Sulla base delle indicazioni dettate dalla ex Agenzia per la gestione dell'albo dei segretari comunali e provinciali i segretari possono essere autorizzati dagli enti a svolgere l'incarico di segretari della unione. Si tratta di un rapporto che si deve stabilire al di fuori del normale orario di lavoro, sulla base delle previsioni di cui all'articolo 52 del Dlgs n. 165/2001.
Peraltro la stessa Agenzia ha considerato utile il servizio prestato dai segretari comunali presso le unioni ai fini della maturazione della anzianità in enti aventi una popolazione superiore a 10.000 abitanti al fine di consentire ai segretari la partecipazione al corso (denominato Sefa) per l'accesso alla fascia professionale più elevata, che corrisponde a quella che nella vecchia terminologia veniva denominata segreteria generale. Il che costituisce una dimostrazione di come questa attività, per quanto non direttamente connessa direttamente ai compiti svolti istituzionalmente, è per molti aspetti da considerare come parificata allo stesso. Secondo alcune interpretazioni, che sono comunque sostanzialmente minoritarie, le unioni dei comuni potrebbero avvalersi dei segretari anche sulla base del comma 557 della legge n. 311/2004, cioè la norma che consente a questi enti, alle comunità montane ed ai comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti di utilizzare, previa autorizzazione, dipendenti di comuni che continuano ad avere con lo stesso un rapporto di lavoro a tempo pieno.
Infine, nella gran parte delle realtà il trattamento economico al segretario utilizzato dalla unione è corrisposto da questo ente; il fatto che lo corrisponda il comune determina verosimilmente una misura più ridotta dello stesso (articolo Il Sole 24 Ore del 06.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOTotalizzazione p.a.. A casa con 20 anni di contributi. La funzione pubblica su chi è vicino alla pensione
La p.a. spierà nel cassetto previdenziale dei propri dipendenti per capire se può collocarli a riposo. A quelli vicini all'età di riposo (65 anni), infatti, verificherà se sommando tutti gli anni di contributi in possesso del lavoratore, questi raggiunga i 20 anni necessari alla pensione di vecchiaia e, in tal caso, licenziarlo.

Lo precisa la nota 04.04.2013 n. 15888 di prot. della Funzione pubblica.
Due questioni. La nota risponde a un quesito sulla possibilità per una pa di proseguire il rapporto di lavoro con un dipendente per fargli raggiungere il minimo contributivo (20 anni) per la pensione. La questione, secondo la funzione pubblica, va valutata alla luce della situazione contributiva complessiva del dipendente. Due le principali situazioni:
a) il dipendente non raggiunge i 20 anni per la pensione di vecchiaia considerando solo il rapporto di lavoro con la pa presso cui presta servizio, ma riesce a raggiungerli perché ha altre anzianità contributive prevedenti (lavoro svolto presso altre pa, oppure come dipendente o autonomo nel settore privato);
b) il dipendente ha complessivamente un'anzianità contributiva che risulta insufficiente ad arrivare al minimo di 20 anni per avere la pensione di vecchiaia.
I chiarimenti.
Nel primo caso la p.a. deve verificare se con tutte le anzianità contributive il lavoratore raggiunga o meno il minimo di 20 anni. A tal fine, precisa la Funzione pubblica, la p.a. deve consultare anche gli enti previdenziali. Se la somma di tutte le anzianità contributive, presso qualunque gestione (privati, pubblici, privati ecc.), è pari o superiore a 20 anni, la p.a. deve collocare a riposo il lavoratore al compimento dell'età limite ordinamentale di permanenza in servizio (65 anni) se egli matura prima del 31.12.2011 un qualsiasi diritto a pensione oppure lo deve licenziare al raggiungimento del nuovo requisito anagrafico previsto per la pensione di vecchiaia dalla riforma Fornero. Al fine di verificare il raggiungimento dei 20 anni, aggiunge la nota, la p.a. deve considerare le possibilità di ricongiunzione, totalizzazione e cumulo dei contributi (legge n. 228/2012).
Nel secondo caso se il lavoratore è titolare di anzianità contributive inferiore al minimo (presso tutte le gestioni), quindi insufficiente a conseguire la pensione di vecchiaia, allora la p.a. deve verificare se prolungando il rapporto di lavoro oltre il requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia e fino ai 70 anni il lavoratore raggiunga il requisito di anzianità minima per il diritto alla pensione. Se ciò si verifica, il dipendente va mantenuto in servizio; altrimenti la p.a. deve collocarlo a riposo una volta che abbia raggiunto l'età limite ordinamentale dei 65 anni (senza, ovviamente, incremento della speranza di vita) (articolo ItaliaOggi del 05.04.2013 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

ENTI LOCALI - EDILIZIA PRIVATAFiere, al comune il piano incendi. La prevenzione tocca all'ente locale.
Deve essere il comune competente alla gestione del mercato o della fiera a predisporre il piano di sicurezza antincendio, al fine di evitare che altri eventi luttuosi si ripetano.

Il Comando provinciale dei Vigili del fuoco di Reggio Emilia ha messo a punto una check list degli adempimenti necessari e l'ha inviata a tutti i sindaci della provincia. Ma la lettera-circolare 26.03.2013 n. 3350 di prot. fornisce «indirizzi di prevenzione incendi per le aree mercatali, fiere commerciali e manifestazioni varie a carattere temporaneo, svolte lungo le vie cittadine» di rilevante interesse per tutti gli enti locali.
Il grave incidente di Guastalla del marzo scorso causato dallo scoppio di una bombola del gas ha posto in primo piano, secondo il comandante provinciale, il problema della sicurezza delle manifestazioni temporanee che non risultano assoggettate ad alcun controllo o particolare autorizzazione antincendio da parte degli organismi preposti alla vigilanza.
Ciò non toglie, precisa la circolare, che in attesa di specifiche linee guida che il ministero dell'interno dovrebbe predisporre, al fine di evitare che accadimenti del genere possano ripetersi, sia necessario adottare, fin da subito, delle misure precauzionali. Più in particolare, il Comando di Reggio Emilia ritiene che ogni veicolo attrezzato con impianto di cottura gas debba essere dotato di un estintore a polvere da 6 kg in regola con la revisione semestrale di efficienza.
Peraltro, il titolare del veicolo attrezzato con impianto di cottura gas, dovrebbe esibire le certificazioni di conformità alle norme UNI CIG 7131/98, la certificazione di collaudo decennale di bidoni del gpl e la fattura di ultimo acquisto. Andrebbe richiesta anche la dimostrazione dell'avvenuta revisione annuale dei diversi tipi di impianto incorporati nel veicolo nonché la dichiarazione di conformità alle norme Cei per gli impianti elettrici e di terra provvisori eseguiti per l'occasione. Ma nessuna sicurezza si raggiunge se non c'è formazione in materia.
Pertanto, secondo il Comando reggino, sarà necessario, tra l'altro, che gli ambulanti partecipino ad un corso di almeno quattro ore di formazione ed addestramento in materia di prevenzione e lotta antincendio (articolo ItaliaOggi del 05.04.2013).

EDILIZIA PRIVATADal viminale. Antincendio. Nuove regole, ma da ieri.
Dal 4 aprile è entrata in vigore la nuova regola tecnica per gli impianti di protezione attiva contro l'incendio installati nelle attività soggette ai controlli di prevenzione incendi.

È con il decreto del ministero dell'interno 20.12.2012 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 3 del 04.01.2013) che viene disciplinata la progettazione, la costruzione, l'esercizio e la manutenzione degli impianti antincendio installati nelle attività soggette ai controlli di prevenzione incendi. Le nuove regole valgono per gli impianti di nuova costruzione, ma anche per quelli esistenti che hanno subito degli interventi di modifica, e si riferiscono ai prodotti conformi alle disposizioni comunitarie.
Sono invece esclusi gli impianti installati nelle attività a rischio di incidente rilevante, regolati dal dlgs 334/1999, negli edifici di interesse storico artistico destinati a biblioteche, archivi, musei e gallerie.
La nuova regola tecnica infine non si applica agli impianti di distribuzione stradale di Gpl e gas naturale per autotrazione, ai depositi di Gpl, di soluzioni idroalcoliche e di gas di petrolio liquefatto (articolo ItaliaOggi del 05.04.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGOOggi in Gazzetta Ufficiale il decreto sulla pubblicità delle informazioni degli enti. P.a. con patrimoni trasparenti. Via al diritto di accesso civico. Pubblici gli incarichi.
Istituzione del diritto di accesso civico; totale trasparenza sulle situazioni patrimoniali di politici e amministratori pubblici e sulle loro nomine; pubblici tutti gli incarichi di consulenza affidati a terzi; prevista l'adozione di un programma triennale per la trasparenza e la nomina del responsabile della trasparenza in ogni amministrazione.
Sono queste alcune delle novità contenute nel decreto legislativo recante la disciplina degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni da parte delle p.a. (D.Lgs. 14.03.2013 n. 33), approvato in via definitiva dal Consiglio dei ministri del 15.02.2013 e in pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale di oggi 05.04.2013.
Il provvedimento, modellato sul «Freedom of Information Act» della legislazione statunitense, afferma il principio generale dell'accessibilità immediata agli atti della pubblica amministrazione a semplice richiesta del cittadino. Si procede quindi all'introduzione de iure del diritto di accesso civico consistente nella potestà attribuita a tutti i cittadini di avere accesso e libera consultazione ai documenti relativi all'attività della pubblica amministrazione. Infatti si prevede che la richiesta di accesso civico non sia sottoposta ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente, che non debba essere motivata, che sia gratuita e presentata al «Responsabile della trasparenza», figura che ogni amministrazione dovrà istituire.
La maggior parte degli obblighi previsti dal decreto e che faranno capo alle amministrazioni pubbliche poggerà sulla piattaforma internet e sulle reti telematiche in generale. Su ogni sito istituzionale l'Amministrazione dovrà rendere accessibile e facilmente consultabile una apposita sezione ove devono essere pubblicati gli atti e le delibere per almeno cinque anni o fino a che non perdono effetto) cui il cittadino dovrà avere libero accesso. Non solo: al fine di una maggiore chiarezza di lettura ogni provvedimento o atto amministrativo dovrà contenere i link alle leggi di riferimento. Si prevede poi che ogni Amministrazione adotti un programma triennale per la trasparenza e l'integrità, da aggiornare annualmente, finalizzato a garantire un adeguato livello di trasparenza, legalità e «sviluppo della cultura dell'integrità».
Per quel che riguarda i politici, il regolamento stabilisce l'obbligo di pubblicità delle situazioni patrimoniali di politici e parenti entro il secondo grado. Dovranno essere rese pubbliche le nomine dei direttori generali delle Asl, oltre che gli accreditamenti delle strutture cliniche. Evidenza pubblica anche per la pubblicazione dei rendiconti dei gruppi consiliari regionali e provinciali, nonché per gli atti e le relazioni degli organi di controllo, da parte delle regioni, delle province autonome e delle province, evidenziando, in particolare, le risorse trasferite a ciascun gruppo, con indicazione del titolo di trasferimento e dell'impiego delle risorse utilizzate.
Trasparenza assoluta per gli incarichi dei dipendenti pubblici: si prevede infatti che siano pubblicati sul sito dell'amministrazione di appartenenza del dipendente l'elenco di tutti gli incarichi autorizzati, con l'indicazione della durata e del compenso spettante per ogni incarico, in aggiunta alla pubblicazione del singolo incarico sul sito dell'amministrazione conferente, diversa da quella di appartenenza. Per i soggetti esterni all'amministrazione rimane fermo l'elenco complessivo degli incarichi affidati consultabile sulla banca dati del Dipartimento della funzione pubblica. Da pubblicare anche i dati relativi all'ammontare complessivo dei premi stanziati per la performance dei dipendenti pubblici e l'ammontare dei premi effettivamente distribuiti.
Inoltre le amministrazioni dovranno pubblicare i dati relativi all'entità del premio mediamente conseguibile dal personale, i dati relativi alla distribuzione del trattamento accessorio, in forma aggregata. Previsto anche l'obbligo di pubblicazione annuale di un indicatore dei tempi medi di pagamento per l'acquisto di beni, servizi e forniture, denominato «indicatore di tempestività dei pagamenti (articolo ItaliaOggi del 05.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTIBandi e avvisi di gara sui giornali
Confermati gli obblighi di pubblicità legale dei bandi e avvisi di gara; obbligo di pubblicare sui siti internet i dati principali dei contratti stipulati dalle Amministrazioni con le imprese.

È quanto prevede l'articolo 37 del decreto sulla trasparenza e sulla pubblicità dell'azione amministrativa (D.Lgs. 14.03.2013 n. 33) che, con una formula omnicomprensiva, richiama tutti gli obblighi di pubblicazione, in materia di contratti pubblici, derivanti dalla normativa nazionale.
Fra questi sono citati anche quelli che si sostanziano nella pubblicazione sui quotidiani, locali e nazionali, per estratto, di avvisi e bandi di gara. La disposizione, quindi, conferma come sia del tutto vigente l'onere di pubblicazione per estratto di bandi e avvisi di gara in capo alle stazioni appaltanti che, peraltro, non sopportano più tali oneri a partire dal primo gennaio 2013. Infatti, saranno gli aggiudicatari di contratti pubblici a rifondere le stazioni appaltanti di quanto sostenuto per la pubblicazione, entro sessanta giorni dall'aggiudicazione del contratto. Nello stesso decreto si prevede anche, per le pubbliche amministrazioni, l'obbligo di pubblicare la delibera a contrarre nell'ipotesi di procedura negoziata senza pubblicazione del bando di gara.
Il decreto prevede poi l'obbligo per le pubbliche amministrazioni di pubblicare tempestivamente sui propri siti istituzionali l'oggetto del bando, l'elenco degli offerenti, l'aggiudicatario, l'importo di aggiudicazione, i tempi di completamento dell'opera, servizio o fornitura; l'importo delle somme liquidate. Entro il 31 gennaio di ogni anno, tali informazioni, relativamente all'anno precedente, dovranno essere pubblicate in tabelle riassuntive rese liberamente scaricabili in un formato digitale standard aperto, per un maggior controllo sull'imparzialità degli affidamenti, nonché una maggiore apertura degli appalti pubblici alla concorrenza. Infine massima pubblicità anche per i documenti di programmazione anche pluriennale delle opere pubbliche (articolo ItaliaOggi del 05.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTIBilanci e Imu separati in casa. Aliquote e preventivi, la tempistica non è coordinata. I comuni dovranno fissare sostanzialmente al buio le misure dell'imposta sugli immobili.
La tempistica per la fissazione delle aliquote dell'Imu non è coordinata con quella del bilancio comunale.
L'art. 13, comma 13-bis, del dl 201/2011, infatti, prevede, che, a decorrere dall'anno di imposta 2013, le deliberazioni con cui i comuni approvano le aliquote e la detrazione Imu acquistano efficacia dalla data di pubblicazione nel sito informatico del Dipartimento delle finanze e che i relativi effetti retroagiscono al 1° gennaio dell'anno di pubblicazione, a condizione che quest'ultima avvenga entro il 30 aprile.
A tale scopo, le deliberazioni devono essere inviate al predetto Dipartimento, esclusivamente in via telematica, entro il 23 aprile. Nei comuni che non rispettano questo timing, si intendono prorogate le aliquote e la detrazione relative all'anno precedente.
L'anticipazione di tali scadenze ha il fine di far conoscere per tempo ai contribuenti le misure adottate dai singoli comuni, in modo che entro il termine per il versamento dell'acconto Imu (ossia il 16 giugno) ciascuno possa calcolare compiutamente la propria imposta.
Essa, tuttavia, contrasta con la previsione di cui all'art. 1, comma 381, della legge 228/2012, che ha prorogato al 30 giugno il termine entro cui i comuni devono approvare il preventivo 2013. Quest'ultimo, come noto, è anche, in base alla disciplina generale, il termine entro cui i comuni devono fissare le tariffe e le aliquote relative ai tributi di loro competenza.
Per completare il quadro, va richiamato anche l'art. 1, comma 444, della stessa legge 228/2012, il quale stabilisce che, per ripristinare gli equilibri di bilancio, gli enti locali possono modificare le aliquote e le tariffe entro il 30 settembre. Anche tale disposizione (come la precedente) non si applica evidentemente all'Imu, considerata la vigenza, per quest'ultima, della disciplina speciale sopra richiamata.
In mancanza di modifiche legislative (che appaiono secondo gli osservatori specializzati quanto mai opportune), pertanto, i comuni dovranno fissare le aliquote Imu sostanzialmente «al buio», prima di approvare il bilancio di previsione o comunque in presenza di un documento contabile ampiamente approssimativo, considerata l'impossibilità di conoscere alcuni dati essenziali ai fini della sua quadratura, primo fra tutti il riparto del nuovo fondo di solidarietà comunale, che difficilmente sarà noto prima del mese di maggio. Tutti gli aumenti decisi dopo il 23 aprile o non pubblicati entro il 30 aprile saranno efficaci solo a partire dal prossimo anno (articolo ItaliaOggi del 05.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZICentrale unica di committenza, non solo acquisti. Anche i contratti per lavori e servizi rientrano nel perimetro di competenza.
Una centrale unica di committenza ad ampio raggio. Che opera, ad esempio, con riferimento generale ai contratti di interesse degli enti locali.
In attuazione della direttiva 2004/18/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, di lavori, di forniture e servizi, prendendo atto dello sviluppo negli stati della comunità di nuove tecniche di acquisto elettronico, che consentono un aumento della concorrenza e dell'efficacia della commessa pubblica, la legislazione italiana ha sperimentato l'utilizzo di procedure di acquisto elettronico, nel rispetto delle norme stabilite dalla direttiva medesima e dei principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza.
In questa direzione, il legislatore ha reso obbligatorio, per gli acquisti di beni e servizi, al di sotto della soglia di rilievo comunitario, nelle amministrazioni pubbliche, il ricorso, al mercato elettronico ovvero ad altri mercati elettronici ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento per lo svolgimento delle relative procedure (legge 27.12.2006, n. 296, art. 1, comma 450, e successive modifiche e integrazioni).
Già con il Piano straordinario contro le mafie, il Governo assunse l'impegno di incentivare una maggiore diffusione nelle amministrazioni pubbliche a promuovere l'istituzione, almeno in ambito regionale, di una o più stazioni uniche appaltanti (SUA), al fine di assicurare la trasparenza, la regolarità e l'economicità della gestione dei contratti pubblici e di prevenire il rischio di infiltrazioni mafiose (art. 13 della legge 13.08.2010, n. 136). Inoltre, per i comuni fino a 5.000 abitanti, il Codice dei contratti pubblici (comma 3-bis, articolo 33, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163) obbliga, a decorrere dal 01.04.2013, ad affidare mediante una centrale unica di committenza, l'acquisizione di ogni lavoro, servizio e fornitura, nell'ambito delle unioni dei comuni oppure mediante la costituzione di un accordo consortile, avvalendosi dei competenti uffici.
Resta ferma, la possibilità, per gli stessi comuni di effettuare acquisti attraverso gli strumenti elettronici gestiti da altre centrali di committenza di riferimento, ivi comprese le convenzioni di cui all'articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488 (mediante la CON.S.I.P. «Concessionaria Servizi Informativi Pubblici») e il mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui all'articolo 328, del dpr 05.10.2010, n. 207.
Dall'esame della normativa richiamata emergono alcuni interrogativi ai fini dell'effettiva applicazione.
La norma di cui al comma 3-bis dell'art. 33 del dlgs n. 163/2006 si riferisce a un accordo consortile e non a una convenzione.
A questo punto gli operatori si domandano quale disciplina sia applicabile? Quella dell'art. 31 del Testo unico enti locali (decreto legislativo 18.08.2000, n. 267) che disciplina i consorzi per la gestione associata di uno o più servizi e l'esercizio associato di funzioni oppure quella dell'art. 30 dello stesso Tuel, relativo alle convenzioni.
Ora posto che l'art. 2, comma 186, lett. e), della legge 23.12.2009, n. 191, ha soppresso i consorzi di funzioni, si dovrà supporre che l'accordo debba riferirsi a servizi. Tuttavia è possibile ritenere che il termine accordo consortile sia indicato in modo atecnico, avendo la legge, come riferimento lo strumento della convenzione, alternativo alle unioni dei comuni, alla stessa stregua dell'esercizio associato delle funzioni fondamentali dei comuni (articolo 14, commi 27 e 28 del decreto legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122 e successive modifiche ed integrazioni).
Se in un particolare ambito territoriale ottimale vi è un solo comune avente popolazione inferiore a 5.000 abitanti con quale altro comune deve sottoscrivere l'accordo? Come dovrà gestire eventuali resistenze da parte di altri comuni che non vi sono obbligati agli acquisti mediante centrale unica di committenza? Si trova in una situazione di stallo da cui se ne esce con molta difficoltà. In tale ipotesi, la stessa legge riconosce una soluzione alternativa ovvero la possibilità di effettuare i propri acquisti attraverso gli strumenti elettronici gestiti da altre centrali di committenza di riferimento, ivi comprese le convenzioni di cui all'articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488 (mediante la CON.S.I.P. «Concessionaria Servizi Informativi Pubblici») e il mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui all'articolo 328 del dpr 05.10.2010, n. 207 (MePA).
Con il termine acquisti cosa dovrà intendersi?
La conclusione di qualsiasi contratto pubblico sia esso relativo a lavori, a servizi oppure a forniture, nelle forme previste dal Codice dei contratti pubblici oppure ai soli acquisti di beni?
Si dovrà propendere per una classificazione più complessiva dei contratti pubblici e quindi anche per i contratti relativi, a lavori e servizi, anche se il legislatore fa riferimento solo agli acquisti.
L'obbligo di far ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento per lo svolgimento delle relative procedure, sussiste solo per gli acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario o si estende anche agli acquisti sopra soglia? L'Ente è tenuto comunque a costituire una centrale di committenza in forma consortile o associata ovvero potrà avvalersi dei servizi telematici di acquisti messi a disposizione, tra l'altro dalla regione?
È pur vero che alcune Regioni, al fine di favorire, nelle procedure contrattuali, i processi di semplificazione ed efficienza delle pubbliche amministrazioni nonché i principi di trasparenza e concorrenza, hanno promosso ed incentivato la diffusione e l'utilizzo tra le amministrazioni dei sistemi e degli strumenti telematici di acquisto, sotto e sopra soglia comunitaria, che prevedono l'effettuazione delle procedure di gara in modalità telematica e l'acquisto sul mercato elettronico. Si tratta di sistemi telematici di acquisti che non integrano i requisiti previsti alla normativa nazionale sull'istituzione di una Centrale unica di committenza, che per le ragioni sopra esposte debba considerarsi una vera opportunità per tutte le amministrazioni locali (articolo ItaliaOggi del 05.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOParola alla giunta. Trasparenza nell'anticorruzione. Si sciolgono tutti i dubbi sui soggetti competenti.
Chiarito che il termine per l'approvazione del piano triennale anti corruzione è ordinatorio e, dunque, le amministrazioni possono procedere anche oltre il 31.03.2013, resta ancora aperto, per gli enti locali, il tema dell'individuazione di quale sia l'organo competente.
Le tesi che si confrontano sono due. Una prima, propende per la competenza del consiglio. Tale tesi si fonda su due argomentazioni. La prima è letterale: poiché la legge 190/2012 assegna la competenza ad adottare il piano all'organo di indirizzo politico, si ritiene competente il consiglio, che ai sensi dell'articolo 42 del dlgs 267/2000 è appunto l'organo di indirizzo dell'ente locale. Una seconda argomentazione si fonda sulla durata pluriennale del piano.
La seconda tesi, al contrario, considera competente la giunta, per la circostanza che le attribuzioni del consiglio comunale sono determinate in un elenco che deve necessariamente essere tassativo ed assegnate espressamente. La legge 190/2012, come ha chiarito la Civit a proposito della nomina del responsabile della prevenzione della corruzione, si riferisce in senso lato all'organo di indirizzo politico, comprendendo tutti i possibili soggetti che nelle varie amministrazioni assolvano a tali competenze.
La legge non si riferisce di certo al consiglio comunale e provinciale, che, ai sensi del dlgs 267/2000 appunto svolge solo le funzioni di indirizzo e controllo espressamente ad esso riservate, ad esclusione di quelle attribuite al sindaco. Le rimanenti spettano alla giunta, che, infatti, è l'organo dotato di competenza generale e «residuale»: cioè adotta tutti quei provvedimenti attinenti alla funzione di indirizzo e controllo non espressamente assegnati dalla legge al consiglio.
La pluriennalità del piano anticorruzione non è argomentazione sufficiente ad escludere la competenza della giunta, che adotta certamente molti altri provvedimenti di valore pluriennale: ad esempio, il piano triennale delle assunzioni, oppure le autorizzazioni alla stipulazione dei contratti decentrati.
A dirimere, comunque, ogni dubbio, è, comunque, l'articolo 10 del decreto legislativo di riordino della trasparenza (D.Lgs. 14.03.2013 n. 33 oggi in G.U.).
Il comma 2 dispone che il programma triennale della trasparenza costituisce di norma una sezione del piano di prevenzione della corruzione. Il comma 3, precisa che gli obiettivi del programma della trasparenza vanno formulati in collegamento con la programmazione strategica e operativa, definita in via generale nel Piano della performance.
La disposizione conferma che per comuni e province il piano della performance non è obbligatorio. E si conferma che il piano della trasparenza, parte integrante di quello anticorruzione, dovendo essere integrato al Peg è cosa della giunta, competente ad adottare appunto il Peg (articolo ItaliaOggi del 05.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTISui pagamenti il nodo del Durc. A rischio l'efficacia del decreto.
Lo sblocco dei pagamenti delle amministrazioni pubbliche rischia di restare parecchio depotenziato, se non sarà accompagnato da provvedimenti ulteriori.

L'efficacia del futuro decreto rischia di essere fortemente limitata, in primo luogo, dall'incombente Moloch del Durc, il documento unico di regolarità contributiva, che attesta la regolarità dei versamenti assicurativi e contributivi delle imprese.
È evidente che aziende che vantino ingenti crediti dalle pubbliche amministrazioni rischiano seriamente di non trovarsi in regola con i versamenti a Inps, Inail e Cassa edile, proprio a causa della mancanza di flussi finanziari.
In assenza di una modifica alla disciplina del Durc, i pagamenti potrebbero essere sbloccati, ma comunque non destinabili alle aziende non in regola col documento, che resta comunque un fondamentale presupposto per la legittimità dei pagamenti stessi. Molte aziende, dunque, potrebbero rimanere comunque senza soldi.
Allo stesso modo, i pagamenti sono subordinati alla verifica della regolarità dei pagamenti di imposte e tasse, ai sensi 48-bis del dpr 602/1973, nel caso di somme superiori ai 10 mila euro. Anche in questo caso, vi potrebbero essere aziende andate in carenza di liquidità anche a causa dei ritardati pagamenti della pubblica amministrazione che potrebbero ritrovarsi segnalate come non in regola con gli adempimenti tributari e restare comunque a bocca asciutta.
La quantificazione del rischio di vanificare anche solo in parte la manovra sui pagamenti appare connessa all'effettivo avvio del processo, ma potrebbe trattarsi di una quantità molto importante di operatori economici.
In ogni caso, senza una modifica al criterio del saldo misto tra competenza e cassa del patto di stabilità (è l'obbligo di mantenere un tetto alle erogazioni di cassa che blocca i pagamenti), il vantaggio derivante dai pagamenti potrebbe limitarsi, per le aziende, al recupero di propri crediti e al rientro da eventuali esposizioni con le banche.
Un rilancio vero e proprio delle loro attività appare difficile, perché restando in piedi il sistema dei saldi vigente, le amministrazioni locali non possono materialmente pianificare appalti nuovi che comportino esborsi di cassa superiori a quanto consentito.
È ancora operante, infatti, l'articolo 9, comma 2, del dl 78/2009, convertito in legge 102/2009, ai sensi del quale nelle amministrazioni «al fine di evitare ritardi nei pagamenti e la formazione di debiti pregressi, il funzionario che adotta provvedimenti che comportano impegni di spesa ha l'obbligo di accertare preventivamente che il programma dei conseguenti pagamenti sia compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio e con le regole di finanza pubblica».
Le amministrazioni, dunque, debbono programmare una «stretta» agli appalti, per rispettare proprio le regole del patto di stabilità che limitano le erogazioni di cassa (articolo ItaliaOggi del 05.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Vincoli cedevoli. Richiesta di convocazione con indicazioni sommarie. L'odg si può cambiare. Piena sovranità all'assemblea consiliare
Quali sono i limiti del potere di verifica preventiva del consiglio comunale in merito alla convocazione dell'organo assembleare da parte di un quinto dei consiglieri, sensi dell'art. 39, comma 2, del dlgs 267/2000, e all'ammissibilità delle questioni da trattare? E' possibile inserire nell'ordine del giorno della seduta ulteriori argomenti rispetto a quelli richiesti? La richiesta di convocazione deve necessariamente contenere una «proposta», al fine di consentire anche agli altri consiglieri di avere piena cognizione di termini e finalità della discussione?

Se da un lato, il funzionamento dei consigli «_ nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal regolamento» (art. 38 del dlgs n. 267/2000), dall'altro il legislatore ha riconosciuto ai consiglieri il diritto di iniziativa mediante la richiesta di convocazione del consiglio, tutelato con la previsione di un potere sostitutivo attribuito al Prefetto dall'art. 39 del dlgs n. 267/2000.
Nel caso in questione, il comune ha disciplinato la materia in oggetto nel proprio regolamento che, con riferimento al funzionamento del consiglio comunale, fermi restando i poteri del presidente dello stesso come delineati dalla prevalente giurisprudenza, attribuisce alla conferenza dei capogruppo, presieduta dal Presidente del consiglio comunale, il compito di predisporre l'ordine del giorno. La citata disposizione regolamentare stabilisce, inoltre, che l'ordine del giorno è vincolante «_ fatta salva la diversa decisione adottata dal Consiglio comunale a maggioranza e su richiesta anche di un solo consigliere».
Il legislatore, infatti, ha attribuito al regolamento dell'ente sia la determinazione delle modalità di convocazione del consiglio, sia quelle per la formazione dell'ordine del giorno. Per quanto riguarda la verifica dell'ammissibilità delle questioni da trattare, una costante giurisprudenza ha stabilito che «_ appartiene ai poteri “sovrani” dell'assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell'ordine del giorno non debba essere discusso -questione pregiudiziale- ovvero se ne debba rinviare la discussione – questione sospensiva – (Tar per la Puglia, sezione di Lecce, sentenza 04.02.2004, n. 1022)».
Lo stesso giudice precisa che sono ammissibili «_ solo quelle questioni pregiudiziali che impediscono la discussione dell'argomento_ per ragioni interne e proprie della specifica procedura, con esclusione di questioni strumentalmente dirette a porre nel nulla la funzione del diritto di iniziativa _, ovvero _ di procedimenti coinvolgenti l'attività assembleare che, in quanto definiti per tempi e fasi da precise norme di legge non siano suscettibili di essere derogate e, quindi, utilmente e legittimamente richiamabili a base di una questione pregiudiziale. Il che avviene quando, come nella fattispecie, il procedimento, tipizzato con legge, ha la funzione di tutela di interessi indisponibili ed estranei alla sovranità dell'Assemblea che si realizzano proprio attraverso il rispetto di fasi e modalità del procedimento stesso_» (Tar Puglia ult.cit.).
In merito alla seconda questione, bisogna fare riferimento a quanto stabilito nel regolamento adottato dall'ente nell'ambito dell'autonomia attribuita dal legislatore in materia di funzionamento dei consigli. Nel caso specifico, il regolamento attribuisce alla conferenza dei Capogruppo la formazione dell'ordine del giorno: quest'ultimo dovrà necessariamente contenere gli argomenti per i quali è stata richiesta la convocazione del consiglio; in assenza di disposizioni contrarie, l'ordine del giorno potrà altresì riguardare le ulteriori questioni stabilite dalla conferenza dei capigruppo.
Infine, per quanto concerne il contenuto della richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, ossia se debba essere necessariamente formulata una «proposta_ al fine di consentire anche agli altri consiglieri di aver piena cognizione dei termini e finalità della discussione anche ai fini volitivi e decisori_», l'art. 39, comma 2, del dlgs n. 267/2000 utilizza la generica espressione «questioni richieste». Secondo un generale indirizzo giurisprudenziale, in tali ipotesi è sufficiente la sommaria e sintetica indicazione degli affari da trattare, purché sussista la presenza di quegli essenziali elementi identificativi idonei ad evitare dubbi od incertezze sulle questioni poste.
Per quanto riguarda la trattazione di proposte deliberative a contenuto dispositivo, ovviamente, è richiesta la iscrizione esplicita all'ordine del giorno. Spetta, tuttavia, al consiglio comunale trovare soluzioni per le singole questioni e valutare l'opportunità di indicare, con apposita modifica regolamentare, una disciplina di maggiore chiarezza e dettaglio nella materia trattata, al fine di assicurare le garanzie previste dal legislatore alla minoranza e l'ordinato svolgimento delle funzioni proprie dell'assemblea consiliare (articolo ItaliaOggi del 05.04.2013).

TRIBUTISentenza della corte di cassazione. Le unità collabenti scontano l'Ici e l'Imu.
Le unità collabenti, in particolari condizioni, sono tassate ai fini Ici e Imu in base al valore dell'area fabbricabile che sottintende l'immobile su cui insistono.

Una indiretta conferma di tale assunto potrebbe rinvenirsi nella giurisprudenza attuale della Corte di Cassazione, con la recentissima sentenza 01.03.2013 n. 5166.
Vale la pena di riassumere la questione su cui dibattiamo, che riguarda in sintesi l'inquadramento ai fini dell'Imposta comunale sugli immobili (cosiddetta Ici), dei fabbricati iscritti, ai fini delle risultanze catastali, come categoria F/2, cioè le cosiddette unità collabenti.
I profili che riguardano l'Imu (imposta municipale propria), che come è noto, è succeduta all'Imposta comunale sugli immobili, sono essenzialmente sovrapponibili, nel caso in esame, all'abrogata imposta.
Analogo problema si pone per le unità in corso di definizione (categoria F/4) che posso essere accomunate a quelle collabenti, per la stretta analogia (stesso inquadramento, assenza di rendita catastale ecc.) che presentano queste tipologie di immobili.
Ricordiamo che tali fabbricati, essendo descritti come «Unità collabenti (diroccate, in disuso, ruderi, non utilizzate), sono prive di rendita catastale.
A tal riguardo tali immobili, per godere di eventuali agevolazioni fiscali, devono essere effettivamente corrispondenti a ciò che il contribuente dichiara nella documentazione che è necessaria per richiedere tale accatastamento come unità collabenti.
Essendo prive di rendita catastale, non è sufficiente sostenere che esse per il solo fatto di non presentare la rendita, non siano soggette all'Ici (o all'Imu) in quanto il presupposto dell'imposta è quello dell'art. 2 del dlgs 504/1992, legge istitutiva dell'imposta Ici, la quale prescrive che è soggetta all'imposta «l'unità immobiliare iscritta o che deve essere iscritta nel catasto edilizio urbano».
Ricordiamo che soggiace a tassazione ai fini dell'Ici l'area fabbricabile (art. 1, comma 2, dlgs 504/1992), intendendosi per questa, l'area utilizzabile in base agli strumenti urbanistici generali o attuativi ovvero in base alle possibilità effettive di edificazione (art. 2, comma 1, lett b, del dlgs 504/1992).
In tal casi, la possibilità edificatoria è dimostrata dal fatto che insistono su tale area immobili precedentemente edificati, a prescindere dalle loro condizioni di manutenzione o dello stato di conservazione: ciò vale quindi anche gli immobili fatiscenti o per i ruderi.
Nelle fattispecie in esame, dato l'inserimento dei fabbricati e delle aree in categoria «F», che è transitoria, è obbligo del contribuente richiedere in capo a pochi mesi un nuovo accatastamento più consono, tenuto conto anche delle caratteristiche dei beni, e del fatto che la categoria «F» concerne immobili su cui si sta effettuando interventi di recupero o di manutenzione straordinaria.
Se invece su tali immobili di categoria «F» non sono in atto questi interventi di recupero, la permanenza di tale accatastamento nella categoria cennata non è permessa e quindi è di fatto illegittima.
Si ricorda sommessamente, che l'Agenzia del Territorio, in numerose sue circolari, anche recenti, ha ricordato che l'assegnazione della categoria catastale «F» definite «fittizie», ha natura transitoria, e non deve essere utilizzata dai contribuenti per lungo tempo, per consentire indebiti risparmi di imposta, data l'assenza di rendita catastale per tali immobili.
In particolare la circolare dell'Agenzia del territorio n. 4 del 29/10/2009, ma ve ne sono altre meno recenti, come quella del 21/02/2002 prot. n. 15232, ricordano come le categorie «F» in argomento «dovessero rappresentare solo una temporanea iscrizione negli atti catastali in attesa della definitiva destinazione conferita al bene».
Una delle poche sentenze disponibili in materia (la n. 164 dell'08/11/2001) della Comm. trib. prov. di Arezzo, respingeva il ricorso del ricorrente sulla base dello stesso principio, qui massimato: «Ai fini Ici, un edificio in rovina, dichiarato collabente dall'Ufficio tecnico erariale non può essere qualificato come fabbricato inagibile, ma bensì come area fabbricabile».
Una siffatta tesi sembra trovare conferma nella citata sentenza della Corte di cassazione n. 5166/2013, nella quale, occupandosi peraltro della tassazione ai fini delle imposte dirette della plusvalenza da cessione, la circostanza che il terreno, prima dell'atto di compravendita, avesse già ottenuto la concessione edilizia per il recupero di fabbricati ex rurali collabenti con opera di demolizione nuova costruzione, fa si che la potenzialità edificatoria la rendesse tassabile come area fabbricabile, ai fini dell'imposta comunale sugli immobili.
In tali casi il Comune, è bene precisarlo, dovrebbe valutare l'area fabbricabile avendo riguardo soprattutto anche della prospettiva di un recupero e quantificandone le relative attività e passività, cosicché la valutazione complessiva sia aderente alla realtà e all'attualità del bene, anche tenendo conto del riferimento al prezzo di mercato.
Va rilevato per completezza che la peculiarità del caso in esame, riferito a tali unità collabenti, fa sì che il problema sia marginalmente conosciuto soltanto agli enti locali impositori e ai contribuenti che siano in possesso di tali immobili (articolo ItaliaOggi del 05.04.2013).

APPALTISolo chi ha avanzi d'amministrazione può agire subito. La bozza del decreto: meno vincoli per le anticipazioni di cassa, dirigenti lenti nel mirino.
Via libera immediato ai pagamenti solo per gli enti che presentano avanzi di amministrazione. Meno vincoli per l'accesso alle anticipazioni di cassa. Coinvolgimento della Corte dei conti nell'irrogazione delle sanzioni ai responsabili dei mancati pagamenti e della Cassa depositi e prestiti nella gestione del fondo di liquidità a favore di comuni e province.
Sono queste alcune delle novità contenute nella bozza di decreto per lo sblocco dei debiti della p.a. verso le imprese, slittato ieri ma che sarà al massimo lunedì all'esame del consiglio dei ministri e relativamente al quale anche il Commissario Ue agli affari finanziari, Oli Rehn, ha richiesto approfondimenti.
Il nuovo testo, in effetti, presenta diverse novità, ovviamente non ancora definitive, rispetto alle versione circolate nei giorni scorsi (si veda ItaliaOggi di ieri).
Sostanzialmente confermato l'allentamento del Patto 2013 per gli enti locali per un importo pari a 5 miliardi di euro per onorare una quota dei debiti di parte capitale maturati al 31/12/2012.
Nell'immediato, essi potranno pagare fino al 35% dei rispetti avanzi di amministrazione, parametro diverso da quello dei residui passivi in precedenza previsto. Rimane fermo che, in attesa del decreto che ripartirà l'intero plafond, nessun ente potrà pagare più del 50% degli spazi finanziari che intende comunicare al Mef. Dopo il riparto, occorrerà garantirà pagamenti almeno per il 90% degli spazi finanziari concessi. In mancanza, scatterà una sanzione pecuniaria pari a due mensilità di retribuzione per i responsabili dei servizi interessati. Analoga penalizzazione è prevista in caso di mancata adesione alla procedura (deve ritenersi a fronte della sussistenza di passività certe, liquide ed esigibili). Saranno le sezioni giurisdizionali della Corte dei conti ad accertare le responsabilità e ad applicare le sanzioni.
Confermata anche l'istituzione di un apposito fondo da 2 miliardi per ciascuno dei prossimi due anni a favore degli enti locali a corto di liquidità. Per le erogazioni del 2013, il tasso d'interesse sarà pari al rendimento di mercato dei Btp a tre anni, rilevato alla data di entrata in vigore del decreto, per quelle del 2014 sarà determinato con apposito decreto del Mef. Ciascun ente locale dovrà stipulare con la Cassa depositi e prestiti un contratto di prestito e relativo piano di ammortamento, redatti secondo un contratto tipo. I rapporti tra la Cassa e il Mef saranno regolati mediante apposito atto aggiuntivo alla convenzione quadro stipulata tra gli stessi.
Per gli enti che accederanno al fondo scatteranno pesanti limitazioni, mutuate dal regime previsto per quelli che hanno sforato il Patto: da un lato, il divieto di impegnare spese correnti in misura superiore all'importo annuale minimo dei corrispondenti impegni effettuati nell'ultimo triennio, dall'altro quello di ricorrere all'indebitamento per gli investimenti e di prestare garanzie per la sottoscrizione di nuovi prestiti o mutui da parte di enti e società controllati o partecipati. Rispetto al testo iniziale, tuttavia, la durata di tali vincoli scende da 5 a 3 anni.
Nessun vincolo analogo, invece, è più previsto, al momento, per le regioni che beneficeranno delle erogazioni dell'analogo fondo che verrà costituito a loro favore per far fronte ai debiti diversi da quelli sanitari e finanziari e che avrà una dotazione di 3 miliardi per il 2013 e di 5 miliardi per il 2014. Esse dovranno comunque, oltre che sottoscrivere un apposito contratto col Mef, definire idonee e congrue misure, anche legislative, di copertura annuale dell'anticipazione di liquidità, maggiorata degli interessi, e presentare un piano di pagamento dei predetti debiti.
Le regioni potranno anche contare sui 14 miliardi (5 quest'anno, 9 il prossimo) finalizzati a favorire l'accelerazione dei pagamenti dei debiti degli enti del Ssn.
Nel decreto dovrebbero trovare posto anche misure procedurali per favorire i pagamenti delle p.a. Fra queste, dopo lo stralcio della facoltà per le regioni di aumentare l'addizionale Irpef e oltre all'obbligo per tutte le p.a. di registrarsi (a penna di sanzioni) sulla piattaforma elettronica per la gestione telematica del rilascio delle certificazioni, potrebbe rientrare un po' a sorpresa anche l'impignorabilità delle somme destinate ai risarcimenti concessi ai sensi della legge Pinto detenute dalla tesoreria centrale e dalle tesorerie provinciali dello stato. Prevista, infine, la compressione dei tempi previsti dal dlgs 123/2011 per il controllo preventivo di regolarità amministrativa e contabile per adeguarli alla nuova tempistica prevista dal dlgs 192/2012.
Province: ripartiti i tagli della spending review
L'art. 7 della bozza di decreto sullo sblocco dei debiti verso la p.a. contiene anche alcune modifiche rilevanti al dl 95/2012. In particolare, viene rivisto l'art. 16, comma 7, che ha previsto a carico delle province ulteriori tagli per 1.200 milioni sul 2013 e sul 2014 e per 1.250 milioni a partire dal 2015.
Per i primi due anni, il riparto di tali riduzioni si stacca dal criterio proporzionale alle spese per consumi intermedi rilevate dal Siope e viene operato direttamente dal decreto. Dal 2015, invece, si tornerà a tale meccanismo, salvo diverso accordo da raggiungere in Conferenza unificata entro il 31 dicembre dell'anno precedente (articolo ItaliaOggi del 04.04.2013).

ENTI LOCALIIl viminale. Per i giostrai serve il placet del comune.
L'intervento preventivo della commissione di vigilanza è obbligatorio nel caso di allestimento di un «parco divertimento». Ma anche nel caso di allestimenti di spettacoli viaggianti che benché privi dei requisiti dei «parchi di divertimento», siano comunque suscettibili di esporre a rischi potenziali per la pubblica incolumità e per l'igiene. A causa del numero di attrazioni e della entità dell'afflusso di pubblico, creando così uno spazio sufficientemente definito.

Questo è quanto contenuto nel parere 18.03.2013 del Ministero dell'interno, con il quale viene chiarito quando è necessario l'intervento della commissione di vigilanza in occasione di manifestazioni all'aperto nella quale vengono installate attrazioni dello spettacolo viaggiante.
Le caratteristiche del parco divertimento, ricordano i tecnici, sono: l'unitarietà della gestione, collegata alla titolarità della licenza, una chiara delimitazione dell'area (mediante recinzione permanente ovvero transenne), la presenza di entrate e di vie d'esodo, la presenza di servizi comuni e di strutture a ciò organizzate (articolo ItaliaOggi del 04.04.2013).

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGOComuni. Trattenuti due mesi di stipendio ai responsabili dei servizi finanziari. Sanzioni ai dirigenti se l'Ente non paga.
SBLOCCO PROPORZIONALE/ Ogni ente locale si vedrà fissare entro il 15 maggio, con decreto dell'Economia, la cifra da liberare, che dovrà essere spesa al 90%.

Il primo via libera ai pagamenti nei Comuni e nelle Province imbocca la via tradizionale dello sblocco proporzionale all'entità delle risorse incagliate, e classificate nei «residui passivi» in conto capitale nei bilanci (faranno fede i consuntivi del 2010). Ogni ente locale si vedrà fissare entro il 15 maggio prossimo, con decreto dell'Economia, la cifra da liberare, e dovrà mantenere l'impegno: la responsabilità tocca prima di tutto ai responsabili dei servizi finanziari che, se non riusciranno a pagare entro l'anno almeno il 90% della somma liberata dal decreto, si vedranno trattenere due mesi di stipendio netto (comprese le indennità accessorie).
Ma il pacchetto enti locali contenuto nella bozza di decreto che sarà oggi sul tavolo del consiglio dei ministri non si limita a questo intervento, che sanzioni a parte, ricalca le vecchie una tantum sui residui passivi che erano abituali in tempi di finanza pubblica più rilassata.
L'ultimo comma dell'articolo 1 sospende per il 2013 un intero articolo che era stato dedicato ai Comuni dal decreto sulle «semplificazioni fiscali» di un anno fa (Dl 16/2012). Nell'articolo, che è il 4-ter, c'è prima di tutto il «Patto di stabilità orizzontale», cioè un meccanismo nato proprio per cercare di favorire un po' di pagamenti in conto capitale: in pratica, secondo questo sistema i sindaci che registrano un surplus rispetto al Patto possono correre in aiuto dei colleghi in crisi, liberando spazi finanziari che questi ultimi devono utilizzare proprio per pagare i fornitori.
La "rarità" dei Comuni in surplus, insieme all'esigenza di non sovrapporre troppe regole convergenti in un panorama ormai affollatissimo, può aver giustificato la sospensione del Patto orizzontale nel 2013. Nell'articolo "sospeso", però, c'è anche altro, a partire dal ritocco che ha innalzato dal 20 al 40% il turn-over negli enti locali. Se la sospensione sarà confermata, gli spazi del turn-over torneranno a dimezzarsi, scompariranno le regole di favore per il calcolo delle assunzioni nella Polizia locale e nei servizi socio-assistenziali, e per i Comuni sotto i mille abitanti il parametro di riferimento tornerà a essere l'archeologico 2004.
Una novità ulteriore è invece limitata alle sole Province, che dalla bozza di decreto si vedono redistribuire i tagli da spending review decisi con il decreto 95/2012 (articolo Il Sole 24 Ore del 03.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTIGli obblighi sulla tracciabilità sufficienti per la tutela erariale. Stazioni appaltanti escluse dalla solidarietà tributaria.
TRA I REQUISITI/ Per far valere l'esenzione deve essere sottoscritto un contratto disciplinato dal Codice degli appalti pubblici.

Le stazioni appaltanti (articolo 3, comma 33, del Dlgs 163/2006) sono escluse dalla solidarietà tributaria in tema di appalti, poiché il legislatore ha ritenuto gli obblighi già vigenti (quali quelli di tracciabilità dei pagamenti) sufficienti a presidiare la tutela erariale. Occorre però fare attenzione: come ogni esclusione in ambito tributario, va interpretata molto rigidamente e non sono ammesse analogie.
Il principio, espresso dall'articolo 35, comma 28-ter, del Dl 223/2006, è che tutti i soggetti Ires (articoli 73 e 74 Tuir) sono normalmente soggetti alla solidarietà, anche quando operano fuori dalla sfera commerciale («in ogni caso»). L'articolo 3 fa rinvio all'articolo 32, dove viene elencata una serie di soggetti, tra cui compaiono amministrazioni aggiudicatrici, società con capitale pubblico anche non maggioritario e soggetti privati.
Secondo le «linee guida» Ance (gennaio 2013) andrebbe meglio specificato il concetto di «altri soggetti aggiudicatori»: si ritiene comunque che per far valere l'esonero dalla responsabilità, oltre a presentare i requisiti disposti dalla legge, l'appaltatore debba anche aver sottoscritto un contratto disciplinato dal Codice degli appalti pubblici, cioè (articolo 3) rientrante tra «i contratti di appalto o di concessione aventi per oggetto l'acquisizione di servizi, o di forniture, ovvero l'esecuzione di opere o lavori, posti in essere dalle stazioni appaltanti, dagli enti aggiudicatori, dai soggetti aggiudicatori», nell'ambito delle prestazioni descritte dal Dlgs 163/2006. Se il contratto non rientra in questa disciplina, il soggetto non può far valere l'esonero "automatico" dalla responsabilità.
Oltre a nutrire dubbi sull'aspetto soggettivo, i lettori manifestano numerose perplessità anche su quello oggettivo. Gli obblighi della responsabilità solidale, infatti, spingono a porre in rilevo le distinzioni tra il contratto di appalto e quello di somministrazione, spesso utilizzati impropriamente come sostitutivi. Secondo l'articolo 1655 del Codice civile l'appalto è il contratto con cui una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro.
La somministrazione (articolo 1559) è invece il contratto con cui una parte si obbliga, verso corrispettivo di un prezzo, a eseguire, a favore dell'altra, prestazioni periodiche o continuative di cose. Ed è qui la discriminazione: nonostante nel linguaggio comune si parli indifferentemente di prestazioni di beni o di servizi, non si deve dimenticare che la legge, regolando la somministrazione, cita solo il termine «cose», sinonimo di beni e non di servizi.
La terminologia usata dalle parti non inficia la validità del contratto, ma per l'articolo 1362 del Codice civile nel qualificare il contratto si deve indagare sulla comune intenzione delle parti, e non limitarsi al senso letterale delle parole, con la conseguenza che un contratto di presunta somministrazione di servizi sarà considerato appalto, con il vincolo della solidarietà.
Poiché se il contratto «prevede la prestazione, a titolo oneroso, di specifici servizi, non si è a fronte a un rapporto di somministrazione, ma a un contratto d'opera o di appalto
» (Tribunale Bologna, sezione II, 08.08.2008). Il distinguo sta nel fatto che la somministrazione è un contratto traslativo, come la vendita, l'appalto invece è un contratto per la prestazione di servizi, incentrato su un "facere", che ha ad oggetto la prestazione non già di cose (come la somministrazione) ma di un'opera o un servizio.
È però arduo distinguere tra i due quando il somministrante è anche produttore delle cose: occorre allora «operare la distinzione in base al criterio della prevalenza del lavoro, che avvicina il contratto all'appalto, rispetto alla materia, che l'avvicina invece alla somministrazione» (articolo Il Sole 24 Ore del 03.04.2013).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza è ferma nel riconoscere i caratteri di "rudere" in un manufatto "costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali" ovvero in un immobile in cui sia "presente solo parte della muratura perimetrale, vi è assenza di copertura e di strutture orizzontali".
Quanto agli interventi di ripristino di edifici diruti, la giurisprudenza precisa la relativa nozione riportandola agli organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali e privi di copertura e, correttamente, nega che essi possano essere classificati come restauro e risanamento conservativo.
Essa pone, inoltre, una condivisibile distinzione tra le ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione, nel quale caso è possibile parlare di demolizione e fedele ricostruzione, e dunque di ristrutturazione (o risanamento); e le ipotesi in cui, invece, manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare, configurandosi in quest'evenienza, invero, un intervento di nuova costruzione, per l'assenza degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente "abitato" o "abitabile", esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali.
In ipotesi siffatte, si esclude che la ricostruzione di un rudere possa essere ascritta ad ipotesi di ristrutturazione edilizia e men che meno di risanamento conservativo, integrando in sostanza un'attività di nuova costruzione, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare.

Si è già detto della condizione di estrema fatiscenza del fabbricato diroccato, riscontrata in sede di sopralluogo e avvalorata dalla documentazione fotografica versata in atti (cfr. doc. 3, 8 e 9 fasc. resist.): il rudere si presenta privo di copertura, di orizzontamenti e di strutture murarie definite, oltre che in condizioni generali che non consentono di definirne la consistenza originaria.
Orbene, la giurisprudenza è ferma nel riconoscere i caratteri di "rudere" in un manufatto "costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali" (TAR Veneto, Sez. II, 05.06.2008, n. 1667) ovvero in un immobile in cui sia "presente solo parte della muratura perimetrale, vi è assenza di copertura e di strutture orizzontali" (TAR Salerno, Sez. II, 26.09.2007, n. 1927).
Quanto agli interventi di ripristino di edifici diruti, la giurisprudenza precisa la relativa nozione riportandola agli organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali e privi di copertura (TAR Napoli, sezione IV, 14.12.2006 n. 10553) e, correttamente, nega che essi possano essere classificati come restauro e risanamento conservativo (TAR Napoli, sez. VIII, 04.03.2010, n. 1286 e sez. VI, 09.11.2009 n. 7049; TAR Latina, 15.07.2009, n. 700).
Essa pone, inoltre, una condivisibile distinzione tra le ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione, nel quale caso è possibile parlare di demolizione e fedele ricostruzione, e dunque di ristrutturazione (o risanamento); e le ipotesi in cui, invece, manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare, configurandosi in quest'evenienza, invero, un intervento di nuova costruzione (TAR Napoli, Sez. VIII, 04.03.2010, n. 1286; TAR Veneto sez. II, 05.06.2008, n. 1667), per l'assenza degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente "abitato" o "abitabile", esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali (Cons. St., sez. V, 10.02.2004, n. 475).
In ipotesi siffatte, si esclude che la ricostruzione di un rudere possa essere ascritta ad ipotesi di ristrutturazione edilizia e men che meno di risanamento conservativo, integrando in sostanza un'attività di nuova costruzione, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare (TAR Napoli, 09.11.2009 n. 7049; Cons. St., Sez. VI, 15.09.2006 n. 5375) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 04.04.2013 n. 410 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - VARICassazione. Il beneficio resta in piedi. Il ritardo della Pa non brucia i bonus.
LA SALVAGUARDIA/ Riconosciuto il diritto allo sconto fiscale se la mancanza dei certificati dipende dagli uffici.
Il cittadino non deve subire conseguenze dalle inefficienze e ritardi degli uffici. Per questo ha diritto alle agevolazioni fiscali se ha fatto tutto quello che era di sua competenza. Sbaglia perciò l'Ufficio che revoca l'agevolazione perché il contribuente, senza colpa, presenta il certificato rilasciato in ritardo dall'ispettorato provinciale dell'agricoltura.

Per la Corte di Cassazione, sentenza 03.04.2013 n. 8052, la responsabilità del ritardo nel rilascio del certificato non può essere addebitata al contribuente e, perciò, deve essere annullato l'atto di revoca del beneficio. E' bene raccontare i fatti che hanno interessato un cittadino siciliano, quasi 30 anni fa, visto che la lite è arrivata in Cassazione, dopo tre gradi di giudizio. Nel 1990 l'ufficio di Lentini emette un atto con il quale nega i benefici dell'imposta di registro spettanti per l'acquisto di terreni agricoli per la piccola proprietà contadina.
La motivazione è che il contribuente "perde" le agevolazioni fiscali, avendo presentato il certificato attestante i requisiti oltre i termini previsti. Il fatto curioso è che la lite, dopo quasi 30 anni, è arrivata alla Cassazione, anche perché dopo i due primi gradi di giudizio, i giudici della soppressa Commissione tributaria centrale, esaminando il ricorso con molta superficialità, accolgono il ricorso dell'ufficio, costringendo il contribuente a un quarto grado in Cassazione.
Nel ricorso presentato alla Suprema corte, il contribuente segnala che, nel ritenere maturata la decadenza dal diritto all'agevolazione, considerando irrilevanti i motivi del ritardo nel rilascio del certificato «pur se dovuto a cause burocratiche» e addebitandogli il mancato assolvimento all'onere di accelerarne il rilascio, i giudici della Commissione tributaria centrale sono incorsi in violazioni di legge e in vizio di motivazione.
Per la Cassazione, i motivi sono fondati. La stessa Cassazione aveva già condivisibilmente affermato che «in tema di agevolazioni fiscali per l'acquisto di terreni agricoli stabilite, a favore della piccola proprietà contadina (...) ove il contribuente non adempia l'obbligo di produrre all'ufficio il previsto certificato definitivo entro il prescritto termine decadenziale, non perde il diritto ai benefici qualora provi che il superamento del termine è stato dovuto a colpa degli uffici competenti, che abbiano indebitamente ritardato il rilascio della documentazione, pur dovendo anche dimostrare di aver operato con adeguata diligenza allo scopo di conseguire la certificazione in tempo utile» (Cassazione, n. 14671/2005, n. 9159/2010; n. 10406/2011).
Entrambi gli elementi emergono, in modo chiaro, visto che il certificato, era stato rilasciato 20.01.1987 e chiesto il 30.12.1983, prima ancora della registrazione dell'atto, intervenuta il 18.01.1984, restando così acquisito in giudizio l'adempimento, da parte del contribuente, del dovuto comportamento diligente per conseguire, tempestivamente, il certificato, non potendo a lui addossarsi l'onere di porre in essere ulteriori sollecitazioni.
Insomma, al contribuente non restava che farsi il certificato da solo, cosa non prevista dalla legge. Per fortuna è intervenuta la Cassazione (articolo Il Sole 24 Ore del 06.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOCassazione. Demansionamento insufficiente. Per il giudice il mobbing richiede l'intento vessatorio.
Il mobbing può essere accertato dal giudice del lavoro solo se viene data la prova circa una serie di atti vessatori compiuti ai danni di un lavoratore, collegati tra loro allo scopo di arrecare un danno alla persona.

Questo concetto, già affermato in passato dalla giurisprudenza del lavoro, è stato ribadito dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 02.04.2013 n. 7985.
I giudici di legittimità hanno respinto definitivamente la causa promossa da un lavoratore, il quale riteneva di aver subito dei danni per la dequalificazione professionale e il mobbing attuati nei suoi confronti, ma non era stato in grado di supportare queste richieste mediante l'allegazione di fatti specifici e rilevanti rispetto alle proprie richieste.
Piuttosto che supportare la propria azione con queste domande, il lavoratore (tramite il proprio legale) aveva proposto nel ricorso introduttivo una serie di capitoli di prova che contenevano solo valutazioni, e in quanto tali non potevano essere oggetto di testimonianza.
La Corte nella sentenza precisa anche che, ai fini della ricorrenza del mobbing, non basta ipotizzare un semplice svuotamento di mansioni, ma bisogna anche dimostrare che il datore di lavoro ha realizzato un insieme di azioni coordinate per emarginare il dipendente (articolo Il Sole 24 Ore del 03.04.2013).

EDILIZIA PRIVATAGli alberi? Si può anche abbatterli. Cds sulla tutela piante in aree industriali.
La legge posta a tutela del paesaggio non vieta l'abbattimento di un centinaio di pini posti trent'anni fa a dimora per mimetizzare uno stabilimento siderurgico. Ciò in quanto il Codice dei beni culturali e del paesaggio non tutela, in generale, la cosa in quanto tale, ma il valore paesaggistico del quale essa è portatrice. In sostanza, non sempre un insieme di alberi costituisce un bosco.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 29.03.2013 n. 1851.
Via libera, quindi, e senza ulteriori intoppi alla riconversione dell'intera area di Bagnoli voluta da Comune, Provincia e Regione, ma stoppata dalla Soprintendenza regionale e dal Corpo forestale. La prima, esprimendo parere contrario al rilascio della autorizzazione paesaggistica necessaria a sanare le violazioni commesse a seguito del taglio dei pini, il secondo, ponendo sotto sequestro l'intera area sul presupposto che, trattandosi di un «bosco» era necessaria anche una specifica autorizzazione regionale.
La nozione di «bosco» richiamata dall'art. 142 del cosiddetto Codice Urbani (dlgs 42/2004) è in principio normativa, ha chiarito il Collegio, perché fa espresso rinvio alla definizione di bosco stabilita dall'art. 2 dlgs 227/2001 che, peraltro, demanda alle regioni di stabilirne eventualmente una diversa. Ed è dalla corretta interpretazione di tali disposizioni che, a giudizio del Collegio, il quale ha capovolto la decisione del Giudice di primo grado, un insieme di 268 piante, prevalentemente di pino domestico e messe a dimora a filari paralleli, non corrisponde alla nozione di «bosco»: né alla luce della legge regionale, né alla luce della nozione generale stabilita dall'art. 2, comma 6, del dlgs n. 227 del 2001, né alla luce, comunque, del comune significato proprio della parola.
La decisione della VI Sezione, in sostanza, è stata motivata dal fatto che foreste e boschi sono presunti di notevole interesse e, quindi, meritevoli di salvaguardia quando sono elementi originariamente caratteristici del paesaggio, cioè del territorio espressivo di identità. E per questa ragione ne sono esclusi gli insiemi arborati, come nel caso in questione, che non costituiscono elementi propri e tendenzialmente stabili della forma del territori (articolo ItaliaOggi del 04.04.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Per riconoscere ai fini dell’art. 142 del Codice dei beni culturali e del paesaggio la presenza di un bosco occorre un terreno di una certa estensione, coperto con una certa densità da “vegetazione forestale arborea” e -tendenzialmente almeno- da arbusti, sottobosco ed erbe. Questa copertura, per rispondere ai detti caratteri, deve costituire un sistema vivente complesso (non perciò caratterizzato da una monocoltura artificiale), di apparenza non artefatta (come ad es. se a filari).
Deve inoltre essere tendenzialmente permanente: perciò non solo non destinato all’espianto o alla produzione agricola, ma anche, in virtù del dato naturale, mediamente presumibile come capace di autorigenerarsi perché dotato di risorse tali da consentirne il rinnovamento spontaneo, caratteristica che la norma regionale richiamata contiene nell’ampio concetto di “densità piena”, dove la “pienezza” della massa boschiva sta non solo a significare il livello di copertura del suolo, ma anche ad evocare la naturale capacità di rigenerazione o rinnovazione.
Il bosco è un complesso organismo vivente, nel quale le nuove risorse sono in grado di sostituire spontaneamente quelle in via di esaurimento. Non è quindi sufficiente la presenza di piante, quand’anche numerose, ma non strutturate fino a sviluppare un ecosistema in grado di autorigenerarsi.
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Nel caso in esame, si è in presenza di una copertura arborea artificiale con carattere quasi integrale di monocultura (pino domestico), disposta per filari paralleli (cioè in modo innaturale), priva di strato arbustivo ed erbaceo; e nella quale lo stato fitosanitario degli elementi arborei è del tutto scadente, con chioma rarefatta, con visibile presenza di miceli di parassiti fungini.
Pertanto, deve escludersi che all’insediamento in questione possa attagliarsi, ai fini paesaggistici che qui interessano, la definizione di bosco, difettandone la morfologia, la complessità e la vitalità endogena e compiuta.
La mancanza del valore paesaggistico presunto dall’art. 142, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 42 del 2004 esclude quindi che il terreno in questione -per di più ricadente in zona definita nella strumentazione urbanistica comunale dapprima come industriale e, successivamente, di riqualificazione urbanistica compresa nella superficie fondiaria edificabile- possa essere considerato tra quelli sottoposti a tutela paesaggistica ex lege ai sensi dello stesso art. 142, e per le cui trasformazioni il successivo art. 146 e l’art. 17 della detta legge regionale campana n. 11 del 1996 rendono necessarie, rispettivamente, l’autorizzazione paesistica e quella forestale.
Questa conclusione è corroborata dalla considerazione che oggetto della tutela del Codice non è, in generale, la cosa in quanto tale, ma il valore paesaggistico del quale essa è portatrice.
Il tema da decidere si concentra così sulla questione se sussistevano i presupposti del (violato) obbligo di autorizzazione paesaggistica: vale a dire se nella specie sussisteva il vincolo paesaggistico ex lege dell’art. 142, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 42 del 2004, che riguarda “i territori coperti da foreste e da boschi […] come definiti dall'articolo 2, commi 2 e 6, del decreto legislativo 18.05.2001, n. 227”.
Si tratta dunque di verificare, alla luce degli espletati accertamenti in fatto, se qui si era in presenza di un vero e proprio “bosco”.
Premesso che si tratta di una nozione di ordine sostanziale, per la cui operatività in concreto non è necessario un previo atto amministrativo di ricognizione e perimetrazione, va rilevato che la nozione di “bosco” richiamata ai fini della tutela paesaggistica dall’art. 142 è in principio normativa, perché fa espresso rinvio alla “definizione di bosco” dell’art. 2 d.lgs. 18.05.2001, n. 227 (Orientamento e modernizzazione del settore forestale, a norma dell’articolo 7 della legge 05.03.2001, n. 57), che (comma 2) demanda alle regioni di stabilire la definizione stessa e che (comma 6) nelle more, “ove non diversamente già definito dalle regioni stesse”, prevede cosa si debba considerare per “bosco”.
L’art. 14, comma 1, della ricordata legge regionale campana n. 11 del 1996, che non appare in contrasto con questa successiva legge statale e che comunque va, anche per esigenze di omogeneità nazionale, a questa rapportata, considera “boschi” “i terreni sui quali esista o venga comunque a costituirsi, per via naturale o artificiale, un popolamento di specie legnose forestali arboree od arbustive a densità piena, a qualsiasi stadio di sviluppo si trovino, dalle quali si possono trarre, come principale utilità, prodotti comunemente ritenuti forestali, anche se non legnosi, nonché benefici di natura ambientale riferibili particolarmente alla protezione del suolo ed al miglioramento della qualità della vita e, inoltre, attività plurime di tipo zootecnico”.
Nella fattispecie in esame il terreno era coperto da un insieme di 268 piante, prevalentemente di pino domestico, messe a dimora a filari paralleli negli anni ’80 del secolo scorso.
A giudizio del Collegio, questo insieme non corrisponde alla nozione di “bosco”: né alla luce della detta disposizione regionale, né alla luce della nozione generale stabilita dall’art. 2, comma 6, del d.lgs. n. 227 del 2001, né alla luce, comunque, del comune significato proprio della parola.
Poiché qui si verte di tutela del paesaggio, è essenziale considerare che il rinvio alla definizione normativa, che è propria del distinto ordinamento del settore forestale, è sottoposto all’insuperabile limite di ragionevolezza e di proporzionalità rispetto alla finalità propria di questa tutela (diversamente, l’apparato autorizzatorio e sanzionatorio del paesaggio verrebbe incongruamente traslato ad apparato autorizzatorio e sanzionatorio dell’interesse forestale: così in particolare dicasi per gli interventi di distruzione o di “modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione” ai sensi dell’art. 146). Come altri vincoli “morfologici” del medesimo art. 142 d.lgs. n. 42 del 2004, questo vincolo per categoria legale muove dalla considerazione che foreste e boschi sono presunti di notevole interesse e meritevoli di salvaguardia perché elementi originariamente caratteristici del paesaggio, cioè del “territorio espressivo di identità” (art. 131) (cfr. Cons. Stato, VI, 12.11.1990, n. 951). Per questa ragione ne sono esclusi gli insiemi arborati che non costituiscono elementi propri e tendenzialmente stabili della forma del territorio, quand’anche di imboschimento artificiale; ma che rispetto ad essa costituiscono inserti artefatti o naturalmente precari.
Al tempo stesso, va considerato che “foreste e boschi” sono a questi propositi evidentemente altro da “i giardini e i parchi […] che si distinguono per la loro non comune bellezza” e non tutelati come beni culturali individui, di cui parla il precedente e contestuale art. 136, comma 1, lett. b), a proposito dei beni paesaggistici che possono essere vincolati in via amministrativa (non vi sarebbe ragione di un vincolo in via amministrativa se già vi fosse il vincolo ex lege).
Perciò, in coerenza con queste distinzioni, per riconoscere ai fini dell’art. 142 del Codice dei beni culturali e del paesaggio la presenza di un bosco occorre un terreno di una certa estensione, coperto con una certa densità da “vegetazione forestale arborea” e -tendenzialmente almeno- da arbusti, sottobosco ed erbe. Questa copertura, per rispondere ai detti caratteri, deve costituire un sistema vivente complesso (non perciò caratterizzato da una monocoltura artificiale), di apparenza non artefatta (come ad es. se a filari).
Deve inoltre essere tendenzialmente permanente: perciò non solo non destinato all’espianto o alla produzione agricola, ma anche, in virtù del dato naturale, mediamente presumibile come capace di autorigenerarsi perché dotato di risorse tali da consentirne il rinnovamento spontaneo, caratteristica che la norma regionale richiamata contiene nell’ampio concetto di “densità piena”, dove la “pienezza” della massa boschiva sta non solo a significare il livello di copertura del suolo, ma anche ad evocare la naturale capacità di rigenerazione o rinnovazione. Il bosco è un complesso organismo vivente, nel quale le nuove risorse sono in grado di sostituire spontaneamente quelle in via di esaurimento. Non è quindi sufficiente la presenza di piante, quand’anche numerose, ma non strutturate fino a sviluppare un ecosistema in grado di autorigenerarsi.
Nel caso in esame, i risultati della verificazione disposta dal primo giudice evidenziano la presenza di una copertura arborea artificiale con carattere quasi integrale di monocultura (pino domestico), disposta per filari paralleli (cioè in modo innaturale), priva di strato arbustivo ed erbaceo; e nella quale lo stato fitosanitario degli elementi arborei è del tutto scadente, con chioma rarefatta, con visibile presenza di miceli di parassiti fungini.
In base a tale accertamento, secondo il Collegio deve escludersi che all’insediamento in questione possa attagliarsi, ai fini paesaggistici che qui interessano, la definizione di bosco, difettandone la morfologia, la complessità e la vitalità endogena e compiuta.
La mancanza del valore paesaggistico presunto dall’art. 142, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 42 del 2004 esclude quindi che il terreno in questione -per di più ricadente in zona definita nella strumentazione urbanistica comunale dapprima come industriale e, successivamente, di riqualificazione urbanistica compresa nella superficie fondiaria edificabile- possa essere considerato tra quelli sottoposti a tutela paesaggistica ex lege ai sensi dello stesso art. 142, e per le cui trasformazioni il successivo art. 146 e l’art. 17 della detta legge regionale campana n. 11 del 1996 rendono necessarie, rispettivamente, l’autorizzazione paesistica e quella forestale.
Questa conclusione è corroborata dalla considerazione che oggetto della tutela del Codice non è, in generale, la cosa in quanto tale, ma il valore paesaggistico del quale essa è portatrice.
Le considerazioni che precedono, riferite al dato sostanziale della tutela del paesaggio, consentono di prescindere dall’indagine sul dato formale forestale, se cioè questo insieme arboreo vada escluso da quella stretta nozione di “bosco” in virtù dell’art. 15 (Colture ed apprezzamenti non considerati boschi), commi 1 e 2, della stessa l.r. Campania n. 11 del 1996, perché qualificabile tra le “piantagioni arboree dei giardini e parchi urbani”: distinzione che comunque riflette, ai fini paesaggistici, quella esplicitata dal confronto dell’art. 142 comma 1, lett. g), con il ricordato art. 136, comma 1, lett. b), del Codice (Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 29.03.2013 n. 1851 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Abbandonare il posto di lavoro per una pausa caffè legittima il licenziamento.
Allontanarsi dal posto di lavoro per una pausa caffè può legittimare il licenziamento del dipendente, soprattutto se questa pausa determina rallentamenti all'attività lavorativa.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 28.03.2013 n. 7819, che ha dato ragione al Credito Emiliano nella causa di licenziamento di un impiegato di banca siciliano che il 27.11.1997 aveva abbandonato il suo posto per andare al bar, incurante della presenza di ben quindici clienti in fila.
Varie le contestazioni avanzate dalla banca nei confronti del dipendente, addetto alla cassa: oltre all'episodio del bar, avvenuto senza «apposito permesso», il dipendente, il giorno prima, cioè il 26.11.1997, si sarebbe allontanato dal posto di lavoro senza procedere alla chiusura della cassa. E sei giorni prima, aveva sostanzialmente rifiutato un'operazione richiesta da un cliente e prevista da un manuale portato a conoscenza di tutti i dipendenti.
Nel contestare il licenziamento, l'uomo ha ricordato anzitutto che rivestiva le funzioni di rappresentante sindacale aziendale e che, avendo già promosso più di un giudizio per la tutela dei suoi diritti, era di fatto finito nel mirino della banca. A suo dire, in relazione alla mancata effettuazione di un'operazione richiesta da un cliente, non c'era la prova della consegna al lavoratore del manuale operativo. E l'allontanamento dal posto di lavoro del 26.11.1997 rientrava in una prassi aziendale che consentiva di farlo senza chiedere permessi. L'aver consumato un caffè al bar il giorno dopo, poi, «non avrebbe sortito alcun effetto sui quindici clienti in attesa, al massimo determinando un leggero ritardo nelle operazioni: in ogni caso operavano altre casse».
La Cassazione, sul punto, è stata molto chiara: «La giusta causa di licenziamento di un cassiere di banca, affidatario di somme anche rilevanti, deve essere apprezzata con riguardo non soltanto all'interesse patrimoniale della datrice di lavoro ma anche, sia pure indirettamente, alla potenziale lesione dell'interesse pubblico alla sana e prudente gestione del credito. Né il rigoroso rispetto delle regole di maneggio del denaro può essere sostituito da non meglio specificate regole di buon senso, inidonee ad assicurare la conservazione del denaro della banca e dei clienti».
Per i giudici della sezione lavoro, poi, «il fatto di non aver tenuto conto nella decisione impugnata che, al momento dell'allontanamento di I. per la pausa caffè, operavano più casse, non è decisivo perché la presenza di una pluralità di casse, delle quali non è detto se tutte in funzione, non esclude comunque che il venir meno di una cassa rallentava le operazioni delle altre sulle quali venivano dirottati i clienti in fila che comunque erano in numero cospicuo» (tratto da e link a www.diritto24.ilsole24ore.com).

APPALTI: Appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto asseriti inadempimenti degli obblighi contrattuali da parte della ditta appaltatrice, verificatisi nel corso di esecuzione del rapporto.
La controversia avente ad oggetto asseriti inadempimenti degli obblighi contrattuali da parte della ditta appaltatrice, verificatisi nel corso di esecuzione del rapporto involge posizioni di diritto soggettivo ed appartiene pertanto, secondo il generale criterio di riparto, alla giurisdizione del giudice ordinario.
La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo comprende, infatti, solo le controversie relative alle procedure per l'affidamento dei lavori o dei servizi pubblici e non quelle conseguenti all'applicazione degli obblighi contrattualmente assunti tra le parti a seguito dell'affidamento stesso.
Le questioni nascenti dalla esecuzione di un contratto di appalto, infatti, si collocano nella fase successiva a quella della scelta del contraente e gli atti posti in essere dalla p. a. in tale fase hanno natura negoziale ed investono in via diretta ed immediata posizioni di diritto soggettivo. La giurisdizione va pertanto declinata, ai sensi dell'art. 11 c.p.a. in favore dell'A.G.O. (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 28.03.2013 n. 1695 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTIBenché l'Ad. plen. n. 4 del 2011 (v. § 40.) ammette la possibilità, per il ricorrente che ha partecipato legittimamente alla gara, di far valere tanto un interesse “finale” al conseguimento dell’appalto affidato al controinteressato, quanto, in via alternativa (e normalmente subordinata) l’interesse “strumentale” alla caducazione dell’intera gara e alla sua riedizione sempre che sussistano, in concreto, ragionevoli possibilità di ottenere l’utilità richiesta”, il criterio dell’interesse strumentale va contemperato con le peculiarità in fatto che caratterizzano la procedura per la quale è causa, [con la conseguenza che] non si può prescindere dalla verifica della c.d. prova di resistenza, con riferimento alla posizione della parte ricorrente rispetto alla procedura selettiva le cui operazioni sono prospettate come illegittime, nel senso che è inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso contro un provvedimento qualora, dall’esperimento della c.d. prova di resistenza, in esito a una verifica a priori, risulti con certezza che il ricorrente non avrebbe comunque ottenuto il bene della vita perseguito nel caso di accoglimento del ricorso. Occorre avere riguardo, cioè, alla possibilità concreta di vedere soddisfatta la pretesa sostanziale fatta valere.
Sulla scorta dei riferiti presupposti non si può che richiamare un condivisibile orientamento giurisprudenziale secondo il quale, benché «Ad. plen. n. 4 del 2011 (v. § 40.) ammette la possibilità, per il ricorrente che ha partecipato legittimamente alla gara, di far valere tanto un interesse “finale” al conseguimento dell’appalto affidato al controinteressato, quanto, in via alternativa (e normalmente subordinata) l’interesse “strumentale” alla caducazione dell’intera gara e alla sua riedizione sempre che sussistano, in concreto, ragionevoli possibilità di ottenere l’utilità richiesta”, il criterio dell’interesse strumentale va contemperato con le peculiarità in fatto che caratterizzano la procedura per la quale è causa, [con la conseguenza che] non si può prescindere dalla verifica della c.d. prova di resistenza, con riferimento alla posizione della parte ricorrente rispetto alla procedura selettiva le cui operazioni sono prospettate come illegittime, nel senso che è inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso contro un provvedimento qualora, dall’esperimento della c.d. prova di resistenza, in esito a una verifica a priori, risulti con certezza che il ricorrente non avrebbe comunque ottenuto il bene della vita perseguito nel caso di accoglimento del ricorso. Occorre avere riguardo, cioè, alla possibilità concreta di vedere soddisfatta la pretesa sostanziale fatta valere
» (Consiglio di Stato, V, 15.10.2012, n. 5276).
Nel caso di specie, in assenza della espressa deduzione di un interesse strumentale alla ripetizione della gara e in mancanza di una dimostrazione della utilità per la società ricorrente dell’esito rappresentato dalla ripetizione della gara, i ricorsi non possono che essere dichiarati inammissibili (cfr. TAR Sicilia, Palermo, II, 26.06.2012, n. 1300) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 28.03.2013 n. 815 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Un Ente ecclesiastico (che ha tra gli scopi statutari l’attività d’istruzione scolastica, è un ente senza fini di lucro ed ha ottenuto il riconoscimento di scuola paritaria) nel costruire una nuova scuola deve versare il contributo di costruzione.
L’azione di ripetizione degli oneri rientra nell’ambito del diritto soggettivo all’esatta quantificazione del contributo concessorio, e la controversia appartiene per legge alla giurisdizione del GA ed è soggetta a termini di prescrizione decennale.
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Il contributo di costruzione rappresenta una compartecipazione comunale all'incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore a seguito della nuova edificazione.
Mentre il contributo per gli oneri di urbanizzazione ha funzione recuperatoria delle spese sostenute dalla collettività comunale riguardo alla trasformazione del territorio assentita al singolo, il contributo per costo di costruzione, che è rapportato alle caratteristiche e alla tipologia delle costruzioni e non è alternativo ad altro valore di genere diverso, afferisce alla mera attività costruttiva in sé valutata.
L'obbligazione contributiva per costo di costruzione, dunque, è fondata sulla produzione di ricchezza connessa all'utilizzazione edificatoria del territorio ed alle potenzialità economiche che ne derivano e, pertanto, ha natura essenzialmente paratributaria.
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L'art. 9, lettera f), della legge n. 10/1977 subordina la gratuità della concessione ad un requisito oggettivo ed uno soggettivo: deve trattarsi di opere pubbliche o di interesse pubblico da cui la collettività possa trarre un utile ovvero la cui fruizione in via diretta o indiretta soddisfi interessi generali.
I destinatari del beneficio sono dunque certamente in prima battuta gli enti pubblici, per loro natura "istituzionalmente competenti", alla cura dell’interesse generale loro affidato, ma accanto a questi si rinvengono nell’ordinamento anche altri soggetti che agiscono per la cura dello stesso interesse generale.
Sul piano oggettivo è pacifico che l’opera in costruzione abbia la destinazione a scuola paritaria (doc. 6 ricorso) e che la legge n. 62/2000 ai sensi dell’art. 1, comma 3, afferma che “le scuole paritarie svolgono un servizio pubblico”.
Ulteriore elemento che corrobora l’elemento oggettivo è costituito dalla delibera comunale (doc. 2) che dichiara espressamente che l’opera in questione rientra nel nuovo Polo educativo per Albenga, accertando così definitivamente la destinazione a scuola dell’immobile.
Tuttavia, per riconoscere l’esonero dal contributo ai sensi della disciplina sul pagamento degli oneri di concessione occorre la contemporanea presenza anche del requisito soggettivo, cioè deve trattarsi di opera eseguita da un ente istituzionalmente competente.
La giurisprudenza è sempre stata molto attenta a distinguere le ipotesi in cui l’attività attuata portasse ad un'utilità pubblica alla collettività, da iniziative private che avessero invece un più o meno diretto scopo di lucro, talora mascherato da interesse generale.
Qualora, come nel caso di specie, la realizzazione dell’opera d’interesse pubblico non avvenga da parte degli enti istituzionalmente competenti, cioè da parte di soggetti cui sia demandata in via istituzionale la realizzazione di opere d’interesse generale, ma da parte di privati si è distinta in giurisprudenza l’ipotesi dei concessionari dell'ente pubblico, purché le opere fossero inerenti all'esercizio del rapporto concessorio.
Nel caso di realizzazione da parte di privati, deve dunque sussistere un ben preciso vincolo relazionale tra il soggetto abilitato a operare nell'interesse pubblico e il materiale esecutore della costruzione, e tale vincolo deve contrassegnare fin dall'inizio (cioè, fin dalla richiesta del titolo edilizio) la realizzazione dell'assentito intervento edificatorio, al fine di ottenere l'esenzione dal contributo di costruzione.
La correlazione indicata dalla norma tra gli elementi dell'"ente istituzionalmente competente" e della "realizzazione" dell’opera d’interesse generale non può essere infatti dilatata al punto da esporre l'amministrazione comunale a richieste di sgravio contributivo, in conformità a utilizzazioni intervenute e concordate in un secondo momento, frutto dell'attività imprenditoriale o commerciale dell'impresa costruttrice e comunque del tutto esulanti dagli specifici intenti realizzativi iniziali, e questo seppur l'intervento edilizio riguardi zone tendenzialmente destinate ad interventi edificatori di interesse generale. Non si può, in definitiva, recuperare ex post il legame tra soggetti realizzatori e finalità pubbliche che, seppur con moduli organizzatori non del tutto tipizzati, deve contraddistinguere l'intervento edilizio ab initio.
Nel caso di specie tuttavia siamo di fronte ad un Ente ecclesiastico che ha tra gli scopi statutari l’attività d’istruzione scolastica; è un ente senza fini di lucro ed ha ottenuto il riconoscimento di scuola paritaria.
Resta la vexata quaestio esistente tra scuola pubblica e privata nell’ambito del perimetro circoscritto dall’art. 33 della Costituzione.
Se infatti è pacifico il diritto di istituzione di scuole ed istituti d’istruzione privati, ciò deve avvenire senza oneri a carico dello Stato, laddove l’esenzione dei contributi di concessione costituirebbe un onere improprio per la collettività che non beneficerebbe delle somme così non incassate dal comune.
Inoltre la scuola privata, imponendo il pagamento di rette per la frequenza non sarebbe accessibile a tutti e, quindi, diversamente dalla scuola pubblica, avrebbe uno scopo di lucro che impedirebbe di beneficiare dell’esonero dai contributi, anche qualora, come nel caso di specie la ricorrente dimostri la mancanza di un fine speculativo o lucrativo nell’attività esercitata.
Secondo la giurisprudenza è indubbio che la disposizione invocata (art. 9 L. 10/1977) deve ritenersi di stretta interpretazione, in quanto introduce talune ipotesi di deroga alla previsione generale la quale assoggetta a contributo tutte le opere che comportino trasformazione del territorio.
Secondo il TAR Veneto, l'opera, per conseguire il beneficio, deve essere necessariamente realizzata da un Ente pubblico, non spettando lo stesso per le opere eseguite da soggetti privati, quale che sia la rilevanza sociale dell'attività esercitata nella o con l'opera edilizia alla quale la concessione si riferisce.
In ogni caso, ammettendo l'iniziativa di un privato, questo deve agire per conto di un Ente pubblico, come nell'istituto della concessione di opera pubblica o in altre analoghe figure organizzatorie ove l'intervento è realizzato da soggetti non animati dallo scopo di lucro o che accompagnano tale obiettivo con un legame istituzionale con l'azione dell'amministrazione per la cura degli interessi della collettività.
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Per enti istituzionalmente competenti alla realizzazione di opere pubbliche o di interesse pubblico debbano intendersi enti pubblici ovvero altri soggetti che realizzino l'opera per conto di un ente pubblico come nel caso di concessionario di opera pubblica o altre analoghe figure organizzatorie (cfr. ad es. Cons. Stato sez. IV, 10.05.2005, n. 2226; ed sez. V, 12.07.2005, n. 3774; e, casi questi, in cui è stato escluso il diritto all'esenzione, anche sulla base del rilievo che l'opera non era rivolta alla collettività in senso generale, ma tendeva al soddisfacimento di interessi privatistici o comunque alle esigenze di un numero limitato di persone - v. sent. CdS V n. 3774/2005 ovvero che l'opera era destinata a rimanere nella piena disponibilità del privato esecutore, senza alcun vincolo atto a preservare la funzione nel tempo).

... per l'annullamento del provvedimento di richiesta pagamento contributi concessori per il ritiro del permesso di costruire.
...
Il ricorso non è fondato.
Preliminarmente va confermato che l’azione di ripetizione degli oneri rientra nell’ambito del diritto soggettivo all’esatta quantificazione del contributo concessorio, e la controversia appartiene per legge alla giurisdizione del GA (Tar Campania Na II n. 4356/2011) ed è soggetta a termini di prescrizione decennale (Tar Sicilia Pa II n. 1554/2011).
Nel caso di specie, comunque, il ricorso è tempestivo anche relativamente ai termini di decadenza decorrenti dal rilascio del titolo edilizio avvenuto il 07.04.2009.
La richiesta avanzata dalla parte riguarda l’esonero dal pagamento richiesto e in parte già incassato dal comune del contributo di costruzione, che rappresenta una compartecipazione comunale all'incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore a seguito della nuova edificazione (cfr. TAR Abruzzo Pescara - 18/10/2010 n. 1142).
Mentre il contributo per gli oneri di urbanizzazione ha funzione recuperatoria delle spese sostenute dalla collettività comunale riguardo alla trasformazione del territorio assentita al singolo, il contributo per costo di costruzione, unica voce qui in discussione, che è rapportato alle caratteristiche e alla tipologia delle costruzioni e non è alternativo ad altro valore di genere diverso, afferisce alla mera attività costruttiva in sé valutata.
L'obbligazione contributiva per costo di costruzione, dunque, è fondata sulla produzione di ricchezza connessa all'utilizzazione edificatoria del territorio ed alle potenzialità economiche che ne derivano e, pertanto, ha natura essenzialmente paratributaria (TAR Campania Salerno, sez. II - 11/06/2002 n. 459).
Tornando al merito della controversia, il Collegio è a conoscenza della giurisprudenza che si è formata sull'applicabilità in concreto della previsione di cui all'art. 9 , lettera f) richiamato.
Ma proprio la necessità di verificare, di volta in volta, l’esistenza delle condizioni stabilite dalla legge per consentire l’esonero dal pagamento degli oneri convince il Collegio della non fondatezza del ricorso nel caso di specie.
L'art. 9, lettera f), della legge n. 10/1977 subordina infatti la gratuità della concessione ad un requisito oggettivo ed uno soggettivo: deve trattarsi di opere pubbliche o di interesse pubblico da cui la collettività possa trarre un utile ovvero la cui fruizione in via diretta o indiretta soddisfi interessi generali.
I destinatari del beneficio sono dunque certamente in prima battuta gli enti pubblici, per loro natura "istituzionalmente competenti", alla cura dell’interesse generale loro affidato, ma accanto a questi si rinvengono nell’ordinamento anche altri soggetti che agiscono per la cura dello stesso interesse generale.
Sul piano oggettivo è pacifico che l’opera in costruzione abbia la destinazione a scuola paritaria (doc. 6 ricorso) e che la legge n. 62/2000 ai sensi dell’art. 1, comma 3, afferma che “le scuole paritarie svolgono un servizio pubblico”.
Ulteriore elemento che corrobora l’elemento oggettivo è costituito dalla delibera comunale (doc. 2) che dichiara espressamente che l’opera in questione rientra nel nuovo Polo educativo per Albenga, accertando così definitivamente la destinazione a scuola dell’immobile.
Tuttavia, per riconoscere l’esonero dal contributo ai sensi della disciplina sul pagamento degli oneri di concessione occorre la contemporanea presenza anche del requisito soggettivo, cioè deve trattarsi di opera eseguita da un ente istituzionalmente competente.
La giurisprudenza, anche di questo Tribunale (Tar Liguria, I sez. n. 3565 del 09.12.2009) è sempre stata molto attenta a distinguere le ipotesi in cui l’attività attuata portasse ad un'utilità pubblica alla collettività, da iniziative private che avessero invece un più o meno diretto scopo di lucro, talora mascherato da interesse generale.
Qualora, come nel caso di specie, la realizzazione dell’opera d’interesse pubblico non avvenga da parte degli enti istituzionalmente competenti, cioè da parte di soggetti cui sia demandata in via istituzionale la realizzazione di opere d’interesse generale, ma da parte di privati si è distinta in giurisprudenza l’ipotesi dei concessionari dell'ente pubblico, purché le opere fossero inerenti all'esercizio del rapporto concessorio.
Nel caso di realizzazione da parte di privati, deve dunque sussistere un ben preciso vincolo relazionale tra il soggetto abilitato a operare nell'interesse pubblico e il materiale esecutore della costruzione, e tale vincolo deve contrassegnare fin dall'inizio (cioè, fin dalla richiesta del titolo edilizio) la realizzazione dell'assentito intervento edificatorio, al fine di ottenere l'esenzione dal contributo di costruzione.
La correlazione indicata dalla norma tra gli elementi dell'"ente istituzionalmente competente" e della "realizzazione" dell’opera d’interesse generale non può essere infatti dilatata al punto da esporre l'amministrazione comunale a richieste di sgravio contributivo, in conformità a utilizzazioni intervenute e concordate in un secondo momento, frutto dell'attività imprenditoriale o commerciale dell'impresa costruttrice e comunque del tutto esulanti dagli specifici intenti realizzativi iniziali, e questo seppur l'intervento edilizio riguardi zone tendenzialmente destinate ad interventi edificatori di interesse generale. Non si può, in definitiva, recuperare ex post il legame tra soggetti realizzatori e finalità pubbliche che, seppur con moduli organizzatori non del tutto tipizzati, deve contraddistinguere l'intervento edilizio ab initio (così Cons. di St., V, 02.12.2002, n. 6618).
Nel caso di specie tuttavia siamo di fronte ad un Ente ecclesiastico che ha tra gli scopi statutari l’attività d’istruzione scolastica; è un ente senza fini di lucro ed ha ottenuto il riconoscimento di scuola paritaria.
Resta la vexata quaestio esistente tra scuola pubblica e privata nell’ambito del perimetro circoscritto dall’art. 33 della Costituzione.
Se infatti è pacifico il diritto di istituzione di scuole ed istituti d’istruzione privati, ciò deve avvenire senza oneri a carico dello Stato, laddove l’esenzione dei contributi di concessione costituirebbe un onere improprio per la collettività che non beneficerebbe delle somme così non incassate dal comune.
Inoltre la scuola privata, imponendo il pagamento di rette per la frequenza non sarebbe accessibile a tutti e, quindi, diversamente dalla scuola pubblica, avrebbe uno scopo di lucro che impedirebbe di beneficiare dell’esonero dai contributi (Tar Piemonte I 10.03.2007 n. 1164), anche qualora, come nel caso di specie la ricorrente dimostri la mancanza di un fine speculativo o lucrativo nell’attività esercitata.
Secondo la giurisprudenza è indubbio che la disposizione invocata (art. 9 L. 10/1977) deve ritenersi di stretta interpretazione, in quanto introduce talune ipotesi di deroga alla previsione generale la quale assoggetta a contributo tutte le opere che comportino trasformazione del territorio (cfr. TAR Puglia Bari, sez. III - 11/06/2010 n. 2420).
Secondo il TAR Veneto, (sez. II - 16/06/2011 n. 1047), l'opera, per conseguire il beneficio, deve essere necessariamente realizzata da un Ente pubblico, non spettando lo stesso per le opere eseguite da soggetti privati, quale che sia la rilevanza sociale dell'attività esercitata nella o con l'opera edilizia alla quale la concessione si riferisce (Consiglio di Stato, sez. V - 15/12/2005 n. 7140; TAR Lombardia Milano, sez. II - 17.09.2009 n. 4672).
In ogni caso, ammettendo l'iniziativa di un privato, questo deve agire per conto di un Ente pubblico, come nell'istituto della concessione di opera pubblica o in altre analoghe figure organizzatorie ove l'intervento è realizzato da soggetti non animati dallo scopo di lucro o che accompagnano tale obiettivo con un legame istituzionale con l'azione dell'amministrazione per la cura degli interessi della collettività (Consiglio di Stato, sez. IV - 10/05/2005 n. 2226).
Così circoscritta la vicenda, il Collegio è dell’avviso che il contributo debba essere pagato dall’ente ricorrente.
La giurisprudenza -espressasi con riferimento all'art. 9, l. n. 10/1977- ha affermato che per enti istituzionalmente competenti alla realizzazione di opere pubbliche o di interesse pubblico debbano intendersi enti pubblici ovvero altri soggetti che realizzino l'opera per conto di un ente pubblico come nel caso di concessionario di opera pubblica o altre analoghe figure organizzatorie (cfr. ad es. Cons. Stato sez. IV, 10.05.2005, n. 2226; ed sez. V, 12.07.2005, n. 3774; e, casi questi, in cui è stato escluso il diritto all'esenzione, anche sulla base del rilievo che l'opera non era rivolta alla collettività in senso generale, ma tendeva al soddisfacimento di interessi privatistici o comunque alle esigenze di un numero limitato di persone - v. sent. CdS V n. 3774/2005 ovvero che l'opera era destinata a rimanere nella piena disponibilità del privato esecutore, senza alcun vincolo atto a preservare la funzione nel tempo (CdS IV 11.01.2006, n. 51) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 28.03.2013 n. 552 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIContro i monopoli. Tar Lombardia. Illegittimo il bando per creare privative.
IL PRINCIPIO/ Le università non possono restringere il numero dei fotografi nelle sedute di laurea - Pagamento lecito per le postazioni.

Via libera a tutti i fotografi in occasione delle lauree universitarie: lo impone il TAR Lombardia-Milano, Sez. I, con l'ordinanza 28.03.2013 n. 380, sospendendo un bando dell'università di Pavia in nome del principio della libertà dei servizi (decreto legislativo 59/2010).
Il caso esaminato riguarda fotografi professionisti, che hanno contestato un bando dell'università la quale chiedeva offerte a chi fosse interessato a riprendere circa 4mila cerimonie di laurea ogni anno.
Per partecipare occorreva migliorare l'offerta base per l'università, fissata in 12mila euro annuali, garantendo poi agli utenti prezzi standard e filmati di durata non inferiore a 10 minuti. Questa gara è stata sospesa dal Tar perché l'università non può istituire una "privativa" (cioè una presenza esclusiva con finalità commerciali) sostenendo di voler agevolare il mercato. Per i giudici, l'effetto-privativa, del tutto illegittimo, è «implicito nella volontà di sostituire un regime di concorrenza "nel" mercato con uno di concorrenza "per" il mercato».
La gara, secondo i giudici amministrativi, ha come risultato un limite alla concorrenza, mentre l'attività di impresa deve rimanere libera.
Nello stesso settore vi sono stati contrasti anche nel 2011: secondo il Tar Firenze (sentenza 1406), l'università di Pisa non può impedire la prestazione dei servizi, ma può solo assegnare con gara un'area attrezzata (un tavolino con sedie).
Quindi, vi è libertà di iniziativa per i fotografi, ed al massimo la gara può garantire una sede comoda.
Queste pronunce, ferma restando la possibilità del fai da te di familiari e conoscenti, garantiscono la libertà di iniziativa (decreto legislativo 59/2010), con divieto di restrizioni e di tariffe imposte.
Spetterà poi ai consumatori scegliere l'offerta migliore, tenendo presente che la legge 4/2013 sulle professioni non organizzate ammette la possibilità che i professionisti introducano, su base volontaria, requisiti di qualità e codici di comportamento.
Se utenti e fornitori si avvantaggiano attraverso scelte più ampie, la concorrenza complica le scelte delle pubbliche amministrazioni, perché le gare non possono generare privative o monopoli.
Se il buon andamento delle sedute di laurea, in altri termini, non basta alle università per limitare la presenza di fotografi, allo stesso modo il ricorso alle gare non può essere totalizzante (per tempi e modi), cioè assumere dimensioni tali da danneggiare la concorrenza.
Questo principio di massima partecipazione va tenuto presente sia nella scelta di un professionista che opera in un settore riservato (con ordine professionale), sia per le attività che hanno una base associazionistica volontaria, sia infine per liberi operatori.
Le gare, sembra di capire, non possano generare privative o monopoli, restringendo il mercato: rischio che appunto è stato percepito dai giudici milanesi a favore dei fotografi (articolo Il Sole 24 Ore del 03.04.2013 - tratto da www.cndcec.it).

APPALTI: Qualora il bando commini espressamente l'esclusione obbligatoria in conseguenza di determinate violazioni, la stazione appaltante è tenuta a dare precisa ed incondizionata esecuzione a tale previsione.
Nelle gare pubbliche la presentazione delle offerte va effettuata in scrupolosa osservanza del bando e della lettera d'invito e la stazione appaltante non può legittimamente disattendere le predette prescrizioni, non avendo alcuna discrezionalità al riguardo; pertanto, qualora il bando commini espressamente l'esclusione obbligatoria in conseguenza di determinate violazioni, la stazione appaltante è tenuta a dare precisa ed incondizionata esecuzione a tale previsione, senza alcuna possibilità di valutare la rilevanza dell'inadempimento, l'incidenza di questo sulla regolarità della procedura selettiva e la congruità della sanzione contemplata nella lex specialis, alla cui osservanza l'Amministrazione si è autovincolata al momento dell'adozione del bando.
Pertanto, nel caso di specie, a fronte della chiara formulazione della prescrizione di gara, l'omissione delle dichiarazioni tassativamente previste comportava, per il concorrente privo dei requisiti di partecipazione richiesti, l'esito inevitabile dell'esclusione dalla gara (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.03.2013 n. 1824 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sull'obbligo di custodia dei documenti di una gara pubblica da parte della stazione appaltante.
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Sulla funzione del giudizio di anomalia dell'offerta.

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In presenza del generale obbligo di custodia dei documenti di una gara pubblica da parte della stazione appaltante, è da presumere che lo stesso sia stato assolto con l'adozione delle ordinarie garanzie di conservazione degli atti amministrativi, tali da assicurare la genuinità ed integrità dei relativi plichi.
In tal caso, la generica doglianza, secondo cui le buste contenenti le offerte non sarebbero state adeguatamente custodite, è irrilevante allorché non sia stato addotto alcun elemento concreto, quali in generale anomalie nell'andamento della gara ovvero specifiche circostanze atte a far ritenere che si possa essere verificata la sottrazione o la sostituzione dei medesimi plichi, la manomissione delle offerte o un altro fatto rilevante al fini della regolarità della procedura.
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I singoli prezzi sottoposti a verifica di anomalia non devono essere considerati isolatamente ma alla luce della loro incidenza sull'offerta globale; infatti, la funzione del giudizio di anomalia dell'offerta è quella di garantire un equilibrio tra la convenienza della P.A. ad affidare l'appalto al prezzo più basso e l'esigenza di evitarne l'esecuzione con un ribasso che si attesti al di là del ragionevole limite dettato dalle leggi di mercato, giacché il sub-procedimento di verifica dell'anomalia non tende a selezionare l'offerta che è più conveniente per la stazione appaltante; la ratio cui è preordinato l'indicato meccanismo di controllo consiste, invece, nell'assicurare la piena affidabilità della proposta contrattuale.
Di conseguenza un'offerta non può essere considerata anomala solo perché determinate voci di prezzo si discostano da quelle di mercato, ma occorre invece che gli scostamenti rendano l'offerta nel suo complesso inaffidabile, e dunque inidonea a garantire la serietà dell'esecuzione del contratto.
Ciò implica la necessità di valutare l'incidenza di ciascuna voce di cui si compone l'offerta sull'offerta globalmente intesa al fine di valutare se il rispettivo carattere anormalmente basso si traduca nell'inattendibilità e mancanza di serietà dell'intera offerta o se i singoli elementi di costo eventualmente affetti da anomalia possano essere compensati da economie, ravvisabili negli altri elementi e/o nella complessiva offerta, idonee a controbilanciare le voci ritenute deficitarie (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.03.2013 n. 1815 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn caso di sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità della norma di legge sulla quale si fonda il provvedimento impugnato, va considerato illegittimo in via derivata l’atto medesimo qualora l’interessato nel ricorso abbia posto in rilievo la norma di che trattasi, ancorché non censurandola specificamente sotto il profilo della poi dichiarata incostituzionalità.
Infatti, va richiamato il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo il quale, in caso di sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità della norma di legge sulla quale si fonda il provvedimento impugnato, va considerato illegittimo in via derivata l’atto medesimo qualora l’interessato nel ricorso abbia posto in rilievo la norma di che trattasi, ancorché non censurandola specificamente sotto il profilo della poi dichiarata incostituzionalità (da ultimo C.d.S., sez. IV, 02/11/2010 n. 7735; idem 14.04.2010 n. 2102) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 27.03.2013 n. 798 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa vetustà dell'opera non esclude il potere di controllo e il potere sanzionatorio del comune in materia urbanistico-edilizia, perché l'esercizio di tale potere non è soggetto a prescrizione o decadenza.
Si consideri pure che l'affermazione secondo cui il fondo era da decenni adibito a tale attività non esclude il carattere abusivo dell'opera.
È, difatti, orientamento consolidato di questo Tribunale che la vetustà dell'opera non esclude il potere di controllo e il potere sanzionatorio del comune in materia urbanistico-edilizia, perché l'esercizio di tale potere non è soggetto a prescrizione o decadenza (Tar Lombardia Milano, sez. II, 11.03.2010 n. 583) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 27.03.2013 n. 796 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di concessione edilizia l'Amministrazione deve dar conto all'interessato delle precise ragioni che rendano il provvedimento autorizzatorio non rilasciabile, indicando le norme dello strumento urbanistico che si presumono violate, senza limitarsi ad una generica affermazione di contrasto con il P.R.G..
In altri termini, il rigetto della domanda di concessione edilizia deve essere sorretta da una motivazione che indichi puntualmente le ragioni ostative al rilascio, affinché l'interessato sia messo in grado di conoscere l'iter logico seguito dall'Amministrazione: di guisa che deve considerarsi illegittimo il diniego di concessione che non consenta all'interessato di comprendere le reali motivazioni del diniego oppostogli, né di far valere, eventualmente, le proprie ragioni difensive innanzi al giudice amministrativo.
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Nel caso di specie l'Amministrazione comunale ha negato la concessione facendo un generico riferimento alla "mancanza di una pubblica fognatura", omettendo, pertanto, quella puntuale citazione delle norme violate che la giurisprudenza amministrativa ritiene necessaria ed imprescindibile, cosicché non risulta soddisfatta la condizione -in presenza di cui soltanto può rifiutarsi il rilascio del titolo concessorio- del contrasto delle difformità rilevate con la disciplina edilizia ed urbanistica vigente.
In particolare, trattandosi di un intervento di adeguamento igienico e tecnologico da eseguire su un edificio già esistente, occorreva, ai fini della legittimità del diniego, da un lato il richiamo a puntuali NTA ostative al rilascio della concessione edilizia semplice su aree prive di adeguato allacciamento alla rete dei servizi di fognatura e dall’altro la valutazione, in esito a puntuali verifiche, circa l’inidoneità del sistema fognario interno, indicato nella relazione tecnica allegata alla domanda di concessione edilizia.

Tanto premesso in punto di fatto, va considerato in punto di diritto che appare fondata la censura di difetto di motivazione sollevata da parte ricorrente.
Ed invero, secondo giurisprudenza consolidata, in materia di concessione edilizia l'Amministrazione deve dar conto all'interessato delle precise ragioni che rendano il provvedimento autorizzatorio non rilasciabile, indicando le norme dello strumento urbanistico che si presumono violate, senza limitarsi ad una generica affermazione di contrasto con il P.R.G.
In altri termini, il rigetto della domanda di concessione edilizia deve essere sorretta da una motivazione che indichi puntualmente le ragioni ostative al rilascio, affinché l'interessato sia messo in grado di conoscere l'iter logico seguito dall'Amministrazione: di guisa che deve considerarsi illegittimo il diniego di concessione che non consenta all'interessato di comprendere le reali motivazioni del diniego oppostogli, né di far valere, eventualmente, le proprie ragioni difensive innanzi al giudice amministrativo (C.d.S., Sez. I, parere 23.10.1996, n. 1175/95; idem, 13.11.1996, n. 199/96; TRGA Trentino-Alto Adige, 18.02.2000, n. 32; TAR Veneto, 15.03.2000, n. 774., idem sez. II 23.02.2001 n. 432).
Orbene, nel caso di specie l'Amministrazione comunale ha negato la concessione facendo un generico riferimento alla "mancanza di una pubblica fognatura", omettendo, pertanto, quella puntuale citazione delle norme violate che la giurisprudenza amministrativa ritiene necessaria ed imprescindibile, cosicché non risulta soddisfatta la condizione -in presenza di cui soltanto può rifiutarsi il rilascio del titolo concessorio- del contrasto delle difformità rilevate con la disciplina edilizia ed urbanistica vigente.
In particolare, trattandosi di un intervento di adeguamento igienico e tecnologico da eseguire su un edificio già esistente, occorreva, ai fini della legittimità del diniego, da un lato il richiamo a puntuali NTA ostative al rilascio della concessione edilizia semplice su aree prive di adeguato allacciamento alla rete dei servizi di fognatura e dall’altro la valutazione, in esito a puntuali verifiche, circa l’inidoneità del sistema fognario interno, indicato nella relazione tecnica allegata alla domanda di concessione edilizia.
Per le considerazioni suesposte il ricorso va accolto (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 27.03.2013 n. 794 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAE' vero che le convenzioni urbanistiche stipulate tra i privati e l'amministrazione, avendo natura contrattuale e disciplinando il rapporto tra le parti con valore vincolante, escludono la possibilità che l'Amministrazione o il privato, che a tale regolamentazione dei reciproci rapporti si sono assoggettati, possano legittimamente avanzare la pretesa di modificarne unilateralmente il contenuto; da cui, il corollario secondo cui, in virtù della convenzione, il privato è obbligato ad eseguire puntualmente tutte le prestazioni ivi assunte, a nulla rilevando che queste possano eccedere originariamente o successivamente gli oneri di urbanizzazione.
Pertanto, è vero che le convenzioni urbanistiche stipulate tra i privati e l'amministrazione, avendo natura contrattuale e disciplinando il rapporto tra le parti con valore vincolante, escludono la possibilità che l'Amministrazione o il privato, che a tale regolamentazione dei reciproci rapporti si sono assoggettati, possano legittimamente avanzare la pretesa di modificarne unilateralmente il contenuto; da cui, il corollario secondo cui, in virtù della convenzione, il privato è obbligato ad eseguire puntualmente tutte le prestazioni ivi assunte, a nulla rilevando che queste possano eccedere originariamente o successivamente gli oneri di urbanizzazione (C.d.S., sez. V, 10.01.2003, n. 33; C.d.S., Sez. V, 10.06.1998, n. 807; Tar Lombardia, Milano, 10.05.2000, n. 3180; Tar Lombardia, Milano 25.06.2001, n. 4523) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.03.2013 n. 780 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl vincolo imposto sul terreno di proprietà della ricorrente (senz’altro ormai decaduto, essendo trascorso il periodo di validità quinquennale ex art. 9, comma 2, d.P.R. n. 327 del 2001) determinava inedificabilità del suolo, privando il diritto di proprietà del suo sostanziale valore economico, con la conseguenza che, alla sua scadenza, è sorto il dovere dell’amministrazione di provvedere ad una nuova tipizzazione del territorio.
Tuttavia, questo TAR non può riconoscere alla ricorrente la soddisfazione della pretesa sostanziale, laddove l’attività di pianificazione urbanistica comporta scelte di alta discrezionalità da parte dell’amministrazione le quali non possono essere assunte in sede giurisdizionale.
Di conseguenza, va ordinato al Comune di provvedere all’istanza avanzata dalla ricorrente e di avviare, quindi, il procedimento volto ad una nuova tipizzazione urbanistica del terreno interessato, entro il termine perentorio di giorni trenta dalla notificazione o, se anteriore, dalla comunicazione della presente sentenza.

- considerato che, a seguito dell’istanza presentata dalla ricorrente, il Comune è rimasto inerte, venendosi così a configurare un’ipotesi di silenzio-inadempimento;
- che, sul punto, deve infatti riconoscersi che il vincolo imposto sul terreno di proprietà della ricorrente (senz’altro ormai decaduto, essendo trascorso il periodo di validità quinquennale ex art. 9, comma 2, d.P.R. n. 327 del 2001) determinava inedificabilità del suolo, privando il diritto di proprietà del suo sostanziale valore economico, con la conseguenza che, alla sua scadenza, è sorto il dovere dell’amministrazione di provvedere ad una nuova tipizzazione del territorio (cfr., di recente, ex multis: TAR Campania, Napoli, sez. VIII, n. 10204 del 2008; TAR Campania, Salerno, sez. II, n. 1944 del 2008; TAR Sicilia, Catania, sez. I, n. 485 del 2007);
- che, di conseguenza, a seguito dell’istanza inoltrata dall’interessata, sussisteva il preciso dovere dell’amministrazione di rispondere, avviando un provvedimento volto ad una nuova configurazione urbanistica dell’area;
- che, pertanto, il ricorso in epigrafe è fondato, nel senso che va dichiarato l’inadempimento dell’obbligo del Comune di Santhià all’obbligo di provvedere;
- che tuttavia, al tempo stesso, questo TAR non può riconoscere alla ricorrente la soddisfazione della pretesa sostanziale, l’attività di pianificazione urbanistica comportando scelte di alta discrezionalità da parte dell’amministrazione le quali non possono essere assunte in sede giurisdizionale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 5307 del 2012);
- che, di conseguenza, va ordinato al Comune di Santhià di provvedere all’istanza avanzata dalla ricorrente e di avviare, quindi, il procedimento volto ad una nuova tipizzazione urbanistica del terreno interessato, entro il termine perentorio di giorni trenta dalla notificazione o, se anteriore, dalla comunicazione della presente sentenza;
- che, in caso di ulteriore inadempimento dell’amministrazione, si nomina sin d’ora il commissario ad acta –che provvederà in luogo del Comune inadempiente– nella persona del Direttore del Settore “Programmazione strategica, Politiche territoriali ed Edilizia” della Regione Piemonte, od un funzionario da questi delegato (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 27.03.2013 n. 400 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIn caso di società costituita da due soli soci, ciascuno detentore del 50 per cento del capitale sociale, l'obbligo della dichiarazione di cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 grava su entrambi i soci, posto che ciascuno dei due soci è in grado di esercitare un potere determinante sulle scelte della società e che, di conseguenza, sarebbe elusivo dello scopo della citata norma esentare dalle dichiarazioni richieste l'uno dei due soci soltanto perché non titolare della rappresentanza legale della stessa.
Scopo della norma è quello di assicurare che in capo a soggetti suscettibili, in ragione della loro quota sociale, di esercitare un determinante potere di direzione o comunque di influenza sulle scelte strategiche e sulla gestione di una società con scarso numero di soci, non pendano né i procedimenti, né vi siano state condanne ovvero non risultino le circostanze di cui alle lettere b), c) ed m-ter) del citato art. 38.
E, come correttamente indicato dall'Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici nella determinazione n. 1 del 2012 e nei pareri n. 58 e n. 70 del 2012, due soci al 50% già “sono, ciascuno per suo conto, espressione di una convergente potestà dominicale e direzionale della società”: sicché ricadono nelle ragioni della previsione normativa; ciò in quanto nella gestione della società ciascun socio paritario, per quanto non sia di maggioranza assoluta, ha comunque il potere di impedire l'approvazione di scelte che non condivide, poiché l'altro socio non può imporle autonomamente, con l'effetto di condizionare in modo determinante la direzione della società sia in negativo, impedendo scelte non concordate, che in positivo permettendo soltanto quelle su cui consente.
Conferma se ne rinviene, per le società a responsabilità limitata, dalla lettura dell'art. 2479-bis c.c., nel cui terzo comma sono fissati i quorum costitutivi e deliberativi dell'assemblea, in ogni caso non superiori alla "metà del capitale sociale": ne consegue che il titolare di una tale porzione del capitale sociale è già in grado di assumere poteri strategici diretti e poteri di condizionamento indiretto sulle scelte di gestione della società, e non soltanto di carattere negativo.

Nel merito, giova premettere che –in tema di dichiarazioni che le imprese devono rendere sui requisiti di ordine generale, ai sensi dell’art. 38 del codice dei contratti– il decreto-legge n. 70 del 2011, convertito in legge n. 106 del 2011, allo scopo di garantire un più efficace sistema di controllo sull’idoneità morale degli operatori economici, ha reso più severa la relativa disciplina, prevedendo (per quello che qui rileva) che le società di capitali aventi meno di quattro soci sono tenute a dichiarare, in sede di domanda di partecipazione alle gare, l’inesistenza di condanne o di misure di prevenzione nei confronti del proprio “socio di maggioranza”.
Il problema interpretativo che ne è derivato è se quest’ultima espressione possa ricomprendere anche il caso di partecipazione paritaria al capitale sociale, con particolare riferimento alla società composta da due soli soci entrambi al 50% del capitale.
Si sono registrate, sul punto, interpretazioni giurisprudenziali non univoche, talune nel senso che entrambi i soci al 50% vanno considerati, ai fini della norma, come se fossero “di maggioranza” (cfr., ad es., TAR Sicilia, Catania, sez. I, n. 2705 del 2011; Cons. Stato, sez. V, n. 4654 del 2012), altre nel senso opposto (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, n. 1624 del 2012). Da ultimo, è tornata sulla questione la sezione VI del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 513 del 2013 (di riforma della citata decisione del TAR Campania, n. 1624 del 2012), con la quale è stato tracciato un significativo (e del tutto condivisibile) arresto sul tema che occupa.
Ivi il Giudice di appello è giunto alla conclusione che, in caso di società costituita da due soli soci, ciascuno detentore del 50 per cento del capitale sociale, l'obbligo della dichiarazione di cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 grava su entrambi i soci, posto che ciascuno dei due soci è in grado di esercitare un potere determinante sulle scelte della società e che, di conseguenza, sarebbe elusivo dello scopo della citata norma esentare dalle dichiarazioni richieste l'uno dei due soci soltanto perché non titolare della rappresentanza legale della stessa.
Scopo della norma –si è infatti argomentato– è quello di assicurare che in capo a soggetti suscettibili, in ragione della loro quota sociale, di esercitare un determinante potere di direzione o comunque di influenza sulle scelte strategiche e sulla gestione di una società con scarso numero di soci, non pendano né i procedimenti, né vi siano state condanne ovvero non risultino le circostanze di cui alle lettere b), c) ed m-ter) del citato art. 38.
E, come correttamente indicato dall'Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici nella determinazione n. 1 del 2012 e nei pareri n. 58 e n. 70 del 2012, due soci al 50% già “sono, ciascuno per suo conto, espressione di una convergente potestà dominicale e direzionale della società”: sicché ricadono nelle ragioni della previsione normativa; ciò in quanto nella gestione della società ciascun socio paritario, per quanto non sia di maggioranza assoluta, ha comunque il potere di impedire l'approvazione di scelte che non condivide, poiché l'altro socio non può imporle autonomamente, con l'effetto di condizionare in modo determinante la direzione della società sia in negativo, impedendo scelte non concordate, che in positivo permettendo soltanto quelle su cui consente.
Conferma se ne rinviene, per le società a responsabilità limitata (come l’odierna controinteressata), dalla lettura dell'art. 2479-bis c.c., nel cui terzo comma sono fissati i quorum costitutivi e deliberativi dell'assemblea, in ogni caso non superiori alla "metà del capitale sociale": ne consegue che il titolare di una tale porzione del capitale sociale è già in grado di assumere poteri strategici diretti e poteri di condizionamento indiretto sulle scelte di gestione della società, e non soltanto di carattere negativo (così Cons. Stato, sez. VI, n. 513 del 2013, cit.).
Con riferimento alla fattispecie in esame, quindi, la società controinteressata (composta da due soli soci, ciascuno al 50% del capitale sociale) avrebbe dovuto rendere le dichiarazioni di cui all’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 con riferimento ad entrambi i soci, in quanto entrambi da considerarsi “di maggioranza” ai sensi (e secondo la ratio) della richiamata disposizione.
Le dichiarazioni sono invece state rese con riferimento ad uno solo dei sue soci “di maggioranza” (quello che ne assumeva anche la carica di amministratore), con ciò perpetrandosi una violazione di legge ridondante in illegittimità della successiva ammissione/partecipazione alla gara, per effetto della mancata esclusione della società.
Né ciò appare in contrasto con la previsione della tipizzazione delle cause di esclusione, introdotta dal medesimo decreto-legge n. 70 del 2011, convertito in legge n. 106 del 2011, in quanto (come ulteriormente precisato dalla ricordata decisione n. 513 del 2013 del Consiglio di Stato) si tratta di una causa di esclusione da ritenere essenziale ai fini della salvaguardia sostanziale delle garanzie di affidabilità dei contraenti stabilite dall'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 e, perciò, ragione di esclusione conseguente al “mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice” (art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006).
Il motivo di doglianza sollevato dalla ricorrente è, pertanto, fondato, con conseguente annullamento del provvedimento di ammissione in gara della ditta “Dedalo Costruzioni” s.r.l. (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 27.03.2013 n. 399 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIntegra la nozione di "volume tecnico", non computabile nella volumetria della costruzione, l'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi –quali quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore– di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali dell'abitazione e che non possono essere ubicati nella stessa.
Trattandosi, all’evidenza, di volume tecnico –così come argomentato dalla ricorrente– tale superficie va espunta dal calcolo della sanzione, in aderenza ai principi elaborati, in proposito, dalla giurisprudenza secondo la quale integra la nozione di "volume tecnico", non computabile nella volumetria della costruzione, l'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi –quali quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore– di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali dell'abitazione e che non possono essere ubicati nella stessa (cfr., di recente: TAR Umbria, n. 46 del 2013; Cassaz., sez. II civ., n. 20886 del 2012; Cons. Stato, sez. IV, n. 678 del 2011; Cons. Stato, sez. V, n. 236 del 2009) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 27.03.2013 n. 390 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini di ritenere integrato un cambio di destinazione d’uso è sufficiente che sia intervenuto un “completamento funzionale”, nel senso che le opere, pur non perfette nelle finiture, possano dirsi individuabili nei loro elementi strutturali e con le caratteristiche idonee ad assolvere la funzione cui sono destinate: in altri termini, l’immobile deve risultare già fornito di opere indispensabili a rendere effettivamente possibile un uso diverso da quello asserito, in modo tale da risultare incompatibile con l'originaria destinazione.
Proprio questa è la situazione che si è venuta a determinare nel caso di specie, laddove nel vano de quo sono sicuramente presenti opere funzionali ad una destinazione (lavanderia) diversa da quella originaria (cantina).

Ai fini di ritenere integrato un cambio di destinazione d’uso –secondo la giurisprudenza– è sufficiente che sia intervenuto un “completamento funzionale”, nel senso che le opere, pur non perfette nelle finiture, possano dirsi individuabili nei loro elementi strutturali e con le caratteristiche idonee ad assolvere la funzione cui sono destinate: in altri termini, l’immobile deve risultare già fornito di opere indispensabili a rendere effettivamente possibile un uso diverso da quello asserito, in modo tale da risultare incompatibile con l'originaria destinazione (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. I-quater, n. 12734 del 2005; TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, n. 837 del 2007).
Proprio questa è la situazione che si è venuta a determinare nel caso di specie, laddove nel vano de quo sono sicuramente presenti opere funzionali ad una destinazione (lavanderia) diversa da quella originaria (cantina) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 27.03.2013 n. 389 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAGli oneri di urbanizzazione sono considerati un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione ai benefici che la nuova costruzione ne ritrae, cosicché il tipo di uso offre la giustificazione giuridica all’an debeatur, mentre le modalità concrete dell’uso danno la ragione del quantum.
Ne deriva che il fatto da cui in concreto nasce l’obbligo di corrispondere gli “oneri“ anzidetti è l’aumento del carico urbanistico, derivi esso dalla realizzazione di interventi edilizi o da mutamenti di destinazione d’uso (anche in assenza di opere). La quota per oneri di urbanizzazione compensa, in altri termini, l’aggravamento del carico urbanistico della zona, indotto dal nuovo insediamento.
L’incremento del peso insediativo non consegue, infatti, soltanto agli interventi di ristrutturazione generale e globale di un edificio, ma anche alle ristrutturazioni meno marcate, che comunque trasformino la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica dell’immobile. In tal caso la necessità di sottoporre la concessione al pagamento dei contributi è riferita all’oggettiva rivalutazione dell’immobile ed è funzionale a sopportare il carico socio-economico che la realizzazione comporta sotto il profilo urbanistico.
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L’intervento in concreto realizzato, che ha consentito di trasformare un fienile in un unità abitativa composta da soggiorno con angolo cottura, due camere da letto, servizio igienico e relativo disimpegno, al quale è possibile accedere con una rampa scale esterna, comporta, invero, aggravi di carico urbanistico identici a quelli derivanti da nuove costruzioni.

... per l'annullamento della non debenza da parte del sig. Battaglia delle somme (pari ad euro 11.774,78) che il Comune di Avigliana ha richiesto con lettera prot. 7847/2005 del 01/04/2005 a titolo di integrazione del contributo di urbanizzazione per il condono edilizio per cambio di destinazione d'uso di parte di un immobile da fienile a civile abitazione;
...
In via generale, osserva, invero, il Collegio che, secondo la posizione interpretativa maggiormente affermata in giurisprudenza, da cui non v’è motivo di discostarsi, gli oneri di urbanizzazione sono considerati un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione ai benefici che la nuova costruzione ne ritrae, cosicché il tipo di uso offre la giustificazione giuridica all’an debeatur, mentre le modalità concrete dell’uso danno la ragione del quantum (cfr. C.d.S., V, 21.04.2006, n. 2258; idem 27.02.1998, n. 201; idem 23.05.1997, n. 529).
Ne deriva che il fatto da cui in concreto nasce l’obbligo di corrispondere gli “oneri“ anzidetti è l’aumento del carico urbanistico, derivi esso dalla realizzazione di interventi edilizi o da mutamenti di destinazione d’uso (anche in assenza di opere). La quota per oneri di urbanizzazione compensa, in altri termini, l’aggravamento del carico urbanistico della zona, indotto dal nuovo insediamento.
L’incremento del peso insediativo non consegue, infatti, soltanto agli interventi di ristrutturazione generale e globale di un edificio, ma anche alle ristrutturazioni meno marcate, che comunque trasformino la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica dell’immobile (cfr. TAR Emilia Romagna, Parma, 19.02.2008, n. 100). In tal caso la necessità di sottoporre la concessione al pagamento dei contributi è riferita all’oggettiva rivalutazione dell’immobile ed è funzionale a sopportare il carico socio-economico che la realizzazione comporta sotto il profilo urbanistico (cfr. C.d.S., V, 03.03.2002, n. 1180).
Orbene, ciò precisato, non v’è dubbio che la ristrutturazione in questione, seppur realizzata mediante limitati interventi di carattere edilizio, abbia comportato un effettivo aumento del carico urbanistico.
A tal proposito il Collegio non può, peraltro, che condividere l’inquadramento operato dall’ente civico ai fini della corresponsione degli oneri di urbanizzazione, dato che l’intervento condonato, avendo portato alla creazione di un organismo radicalmente diverso, dal punto di vista del carico urbanistico, da quello preesistente e avendo, anzi, dato origine ad un’unità immobiliare autonoma, pare ragionevolmente riconducibile alla categoria n. 1 degli interventi a carattere “residenziale” di cui alla D.G.C. n. 231/2004.
L’intervento in concreto realizzato, che ha consentito di trasformare un fienile in un unità abitativa composta da soggiorno con angolo cottura, due camere da letto, servizio igienico e relativo disimpegno, al quale è possibile accedere con una rampa scale esterna, comporta, invero, aggravi di carico urbanistico identici a quelli derivanti da nuove costruzioni (per un’ipotesi similare dal punto di vista del “risultato” edilizio ottenuto vedasi TAR Lombardia Brescia, 21.07.2009, n. 4455).
A nulla rileva, peraltro, che, ai fini del condono, le opere realizzate siano state ascritte alla tipologia 3 (“Opere di ristrutturazione edilizia come definite dall'articolo 3, comma 1, lettera d, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 realizzate in assenza o in difformità dal titolo abilitativo edilizio”) dell’allegato 1 del d.l. 30.09.2003, n. 269, dato che da un’attenta lettura delle disposizioni di tale decreto si evince che il legislatore non ha assolutamente inteso prevedere una corrispondenza diretta tra tipologia d’illecito commesso e misura degli oneri di concessione, ma ha stabilito un criterio diverso, che non può che essere applicato tenendo conto della funzione tipica assolta dagli oneri di urbanizzazione.
La tabella D avente ad oggetto la “Misura dell’anticipazione degli oneri di concessione” individua, infatti, solo due categorie di interventi edilizi ovvero le “Nuove costruzioni e ampliamenti” e le “Ristrutturazioni e modifiche della destinazione d’uso”, diversamente da quanto stabilisce, invece, la tabella C per la “misura dell’oblazione”, che tiene conto della tipologia d’illecito concretamente commesso.
Ad avviso del Collegio, è da ritenersi, dunque, rimessa al prudente apprezzamento tecnico-discrezionale delle singole Amministrazioni la valutazione in ordine alla riconducibilità dell’intervento realizzato all’una o all’altra delle due macro-categorie dianzi indicate ai fini della corresponsione degli oneri di urbanizzazione, in ragione dell’effettiva incidenza sul carico antropico provocata dalle opere per cui è stato chiesto il condono.
La deliberazione giuntale n. 231/2004, con cui vengono determinati gli importi degli oneri di urbanizzazione per le opere del condono in questione, laddove fa riferimento al concetto di unità immobiliare autonoma o potenzialmente tale, pare, peraltro, pienamente rispondente alla definizione di “nuova costruzione” fornita dall’art. 2 legge regionale n. 33/2004 recante disposizioni regionali per l’attuazione della sanatoria edilizia ove si legge, per l’appunto, che “ai fini della presente legge si intende per nuova costruzione il manufatto che risulti realizzato in forma autonoma non connesso o pertinente ad altro manufatto esistente”.
Contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, essa non introduce alcuna nuova fattispecie di opere edilizie rispetto a quelle ordinarie, con buona pace, dunque, del rispetto di quanto al riguardo stabilito dall’art. 32, comma 10, del d.l. n. 269 del 2003 e dell’art. 5 della l.r. dianzi citata e delle fattispecie residenziali ordinarie contemplate dalla D.G.C. n. 59 dell’08.06.1995, laddove la linea di discrimine viene, invero, individuata tra interventi di nuova costruzione e interventi di ristrutturazione ovvero attuati su volumi preesistenti.
Ne deriva che, tenuto conto del risultato complessivo dell’intervento condonato (diversa strutturazione e fruibilità dell’immobile) e del correlato aumento del peso insediativo, l’Amministrazione ha legittimamente provveduto a calcolare il quantum dovuto dal signor Battaglia applicando la misura degli oneri stabilita per gli interventi di nuova costruzione, nel cui ambito rientrano quelli che, come quello realizzato, generano unità immobiliari autonome (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 27.03.2013 n. 381 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASerra fotovoltaica senza più limiti. Il Tar Lazio cancella i limiti di superficie.
Annullati i limiti di installazione di impianti fotovoltaici sulle serre. Il rapporto del 50% tra la superficie delle serre e i pannelli fotovoltaici non sono sufficienti a garantire la coltivazione. Il fatto che il limite del 50% debba essere rispettato in tutto il territorio nazionale non tiene conto delle diverse condizioni di luminosità e di calore delle regioni italiane.
Per garantire le coltivazioni sono necessari altri parametri quali: il clima, la luminosità, la qualità del territorio e le risorse idriche.

Questo è quanto previsto dal TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter, con la sentenza 26.03.2013 n. 3143.
I giudici amministrativi della capitale hanno annullato la disposizione normativa contenuta nell'articolo 14, 2 comma, del dm 05.05.2011 (cd. quarto conto energia). La quale stabilisce che dopo l'installazione dei pannelli fotovoltaici sulle serre, per poter garantire la coltivazione il rapporto tra la proiezione al suolo della superficie dei pannelli e la superficie di copertura della serra non deve superare il 50%.
Il Tar Lazio era stato chiamato a pronunciarsi su un ricorso presentato da una società contro i limiti fissati dall'articolo 14, 2 comma, del dm del 2011. Dopo il ricorso, il Gse e il Mise, sostenevano che la norma era indirizzata a contrastare l'uso eccessivo dei moduli fotovoltaici per non rendere le serre inadatte al loro scopo originario, cioè alla coltivazione. Il Tar ha al contrario dato ragione alla società ricorrente.
Secondo i giudici amministrativi, infatti, i limiti posti dal quarto conto energia oltre ad essere illogici e contraddittori non sono sufficienti a garantire le coltivazioni in serra. Per i motivi suindicati giudici hanno annullato la disposizione specificando che solo il Mise può far valere i limiti per alcune tipologie di serre (articolo ItaliaOggi del 04.04.2013).

ENTI LOCALIRevisione=funzione. Commercialisti punto di riferimento. Sentenza Tar Lazio sulla nomina negli enti locali.
L'inclusione degli iscritti all'Albo dei dottori commercialisti tra i soggetti dell'elenco dei revisori dei conti presso gli enti locali è pienamente legittima. Ed è una previsione che si pone «in una linea di continuità, razionalità, logicità e ragionevolezza» rispetto a tutte le norme nazionali e alle direttive comunitarie.
Con una sentenza 26.03.2013 n. 3092 che non lascia spazio a dubbi e interpretazioni, il TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, rinvia al mittente il ricorso con cui l'Istituto nazionale dei revisori legali aveva chiesto l'annullamento del decreto del ministero dell'interno (n. 23 del 15.02.2012) il quale prevedeva che a decorrere dal primo rinnovo dell'organo di revisione successivo alla data di entrata in vigore dello stesso decreto-legge, i revisori dei conti degli enti locali fossero scelti per estrazione da un elenco nel quale possono essere inseriti i soggetti iscritti nel registro dei revisori legali nonché gli iscritti all'Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili.
Ed era proprio questo passaggio a non andare giù all'Istituto guidato da Virgilio Baresi, che nel ricorso fa appello all'illeggittimità comunitaria e costituzionale e punta il dito contro «l'incompetenza» del ministero dell'interno che ha ampliato «la cerchia di soggetti da abilitare all'esercizio della professione di revisore legale anche attraverso una pretesa equiparazione delle competenze previste dalle norme relative all'abilitazione dei dottori commercialisti e quelle disciplinanti l'esercizio della revisione legale».
Tutte «censure» giudicate infondate dai giudici capitolini che innanzitutto precisano l'inesistenza di alcun contrasto tra le disposizioni contenute nel decreto in questione e la normativa di rango primario (dl 138/2011) «perché entrambe hanno previsto l'istituzione di un elenco di revisori definendone, nello stesso tempo, i criteri». Ma non solo perché il Tar aggiunge anche che la previsione di inserire anche gli iscritti all'ordine dei commercialisti «si pone in continuità con le specifiche disposizioni contenute in materia di disciplina di revisione degli enti locali nel Tuel».
Infine analizzando la norma che disciplina l'esercizio della funzione di revisione ricorda sì che questa disciplina lo svolgimento delle funzioni di revisore contabile presso i soggetti di diritto privato, gli enti di interesse pubblico e anche presso enti locali, ma sottolinea però che in questo ultimo caso, il legislatore delegato «ha coerentemente stabilito una specifica e autonoma previsione legislativa di rango primario la quale riferendosi a un diverso settore d'applicazione è per questo soggetto a regole specifiche, rispetto a quello disciplinato dal decreto legislativo n. 39/2010».
Una sentenza «estremamente significativa» per l'ex presidente del consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, Claudio Siciliotti, perché, una volta per tutte, chiarisce «come la revisione sia una delle funzioni della più ampia professione di commercialista» (articolo ItaliaOggi del 06.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALINegli enti locali revisione anche ai commercialisti. Il Tar Lazio sull'elenco per la scelta.
Il Dm 15.02.2012 che ha regolato l'elenco dei candidati per la revisione negli enti locali, includendo –a domanda– sia i revisori legali sia gli iscritti all'Albo dei dottori commercialisti, è conforme alla legge.

Lo ha stabilito il TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, con la sentenza 26.03.2013 n. 3092, respingendo il ricorso dell'Istituto nazionale revisori legali.
Il Tar ha chiarito che il Dm 15.02.2012, in seguito alla legge 148/2011, si pone in continuità con l'articolo 234 del Testo unico sugli enti locali, laddove si prevede che il collegio dei revisori è costituito da tre componenti, uno iscritto al «collegio dei revisori contabili, con funzione di presidente, uno tra gli iscritti all'Albo dei dottori commercialisti, l'altro tra gli iscritti all'Albo dei ragionieri». Non vale l'obiezione dell'Istituto nazionale revisori legali, secondo cui la legge 148 e il Dm non hanno rispettato la direttiva comunitaria in materia di revisione legale, attuata con decreto legislativo 39/2010, che ha la prevalenza sulla disciplina nazionale.
Il Tar esamina le attività del revisore nell'ente locale. Tra le altre, pareri su: strumenti di programmazione economico-finanziaria; bilancio; ricorso all'indebitamento; riconoscimento di debiti fuori bilancio e transazioni; regolamento di contabilità. «Appare evidente –scrive il Tar– che la funzione di revisore dei conti presso gli enti locali, stante le attribuzioni (...) presenta proprie peculiarità e specificità connesse soprattutto alla funzione pubblica dei soggetti presso i quali la funzione medesima è esercitata». Peraltro, il decreto legislativo 39/2010 riguarda –nota il Tar– lo svolgimento della revisione legale presso soggetti di diritto privato, nonché enti di interesse pubblico, ma non gli enti locali.
«Questa sentenza -commenta l'ex presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti, Claudio Siciliotti- chiarisce come la revisione sia una delle funzioni della più ampia professione di commercialista. Proprio sulla necessità di far definitiva chiarezza tra i concetti di professione e funzione, il Consiglio nazionale da me presieduto aveva condotto una lunga battaglia». Per il presidente dell'Istituto nazionale revisori, Virgilio Baresi, invece, la sentenza è irragionevole e si andrà al Consiglio di Stato (articolo Il Sole 24 Ore del 06.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI SERVIZI: I valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle ministeriali costituiscono un parametro di valutazione della congruità dell'offerta.
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Sulla rateizzazione dei debiti tributari.

I valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle ministeriali non costituiscono un limite inderogabile, ma semplicemente un parametro di valutazione della congruità dell'offerta sotto tale profilo, ai sensi dell'art. 86 del d.lvo 12.04.2006, nr. 163: di modo che l'eventuale scostamento da tali parametri delle relative voci di costo non legittima ex se un giudizio di anomalia, potendo essere accettato quando risulti puntualmente (e rigorosamente) giustificato.
La verifica di anomalia dell'offerta deve avere a oggetto la congruità dell'offerta economica non con riferimento a ciascuna singola voce di essa, ma nella sua interezza e globalità, servendo le giustificazioni dell'impresa, e il contraddittorio che su di esse s'instaura ai sensi del citato art. 86, ad accertare l'effettiva sostenibilità e affidabilità dell'offerta nel suo complesso
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La presenza di provvedimenti del fisco di rateizzazione dei debiti tributari, purché anteriore alla presentazione dell'offerta, determina una sostanziale novazione dell'obbligazione tributaria, in modo da escludere che possa trattarsi di violazione "definitivamente accertata" (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.03.2013 n. 1633 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ENTI LOCALITar Piemonte. Sì all'autotutela. Finanza comunale, illegittimo lo swap deciso dalla Giunta.
IL PRINCIPIO/ L'operazione che non sia passata dal Consiglio può essere annullata anche se è stata sottoscritta da otto anni.

Il del TAR Piemonte, Sez. I, con la sentenza 22.03.2013 n. 343 riapre la strada agli annullamenti in autotutela dei derivati da parte dei Comuni, strada che invece era stata chiusa dagli ultimi interventi di Tar Toscana e Consiglio di Stato.
I giudici piemontesi hanno dato ragione agli amministratori di Omegna, 16mila abitanti nel Verbano Cusio Ossola, che nel maggio 2012 avevano deciso di chiudere in via unilaterale in autotutela due derivati sottoscritti nel 2004 e 2006 con Unicredit.
A consentire la mossa al Comune, e a determinare quindi il «no» opposto dai giudici amministrativi al ricordo da parte della banca, è stata una questione procedurale. Il via libera ai contratti era infatti stato dato dalla Giunta, senza passare dal Consiglio comunale che in base al Testo unico degli enti locali (Dlgs 267/2000: articolo 42, comma 2, lettera i), ha la competenza su tutti gli atti produttori di «spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi».
Il "vizio" genetico della procedura ha permesso ai giudici amministrativi di pronunciarsi sul punto, confermando invece che la competenza sul merito dei contratti è del giudice ordinario perché in quel caso gli atti di autotutela «pur essendo rivestiti di forma pubblicistica, costituiscono nella sostanza meri negozi giuridici unilaterali». In questo modo il Tar Piemonte non entra in contrasto con le tante sentenze toscane sulla competenza in materia di autotutela sugli swap, e fonda la propria pronuncia solo sull'illegittimità del procedimento amministrativo che ha condotto alla firma dei due swap.
È vero, spiegano i giudici, che i derivati, con i quali è stato ristrutturato un precedente debito con Cassa depositi e prestiti, sono nati non per produrre spesa ma per risparmiare; tuttavia «tuttavia la possibilità che gli swap comportino spese per l'amministrazione che li stipula e che tali spese gravino a carico degli esercizi successivi a quello di sottoscrizione del contratto è un'eventualità tutt'altro che remota, anzi appare del tutto connaturata alla natura “aleatoria” del contratto», per cui la stipula deve passare dal Consiglio.
Del tutto ignorata, invece, un'altra obiezione dei giudici toscani, che nella sentenza 263/2013 (su cui si veda «Il Sole 24 Ore» del 23 febbraio) avevano stabilito l'intangibilità dei contratti più vecchi di tre anni (limite fissato dall'articolo 1, comma 136, della legge 311/2004 per l'autotutela nei rapporti con i privati).
Sul punto il Tar Piemonte è molto tranchant e, con un richiamo implicito alla regola generale dell'autotutela (articolo 21-nonies, comma 1, della legge 241/1990) spiega che il termine entro cui il potere di annullamento d'ufficio è stato esercitato (nove anni dal primo contratto e sei dall'ultimo) non pare irragionevole
» (articolo Il Sole 24 Ore del 05.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

URBANISTICALe osservazioni dei privati agli strumenti urbanistici generali costituiscono un mero apporto collaborativo, per cui deve escludersi in caso di mancato accoglimento delle medesime un onere di puntuale e specifica motivazione in capo all’Amministrazione.
Inoltre, deve richiamarsi l’indirizzo giurisprudenziale, largamente diffuso e ribadito di recente in importanti arresti del Giudice Amministrativo d’appello, sull’ampia discrezionalità di cui godono i Comuni nell’esercizio della potestà di pianificazione urbanistica, nei confronti della quale i privati possono godere di aspettative qualificate soltanto in un numero limitato di casi, peraltro insussistenti nella presente fattispecie.

La scelta comunale di non accoglimento delle osservazioni sfugge però alle censure di difetto di motivazione e di eccesso di potere svolte nel secondo mezzo.
Sul punto, occorre in primo luogo rilevare come le osservazioni dei privati agli strumenti urbanistici generali costituiscono un mero apporto collaborativo, per cui deve escludersi in caso di mancato accoglimento delle medesime un onere di puntuale e specifica motivazione in capo all’Amministrazione (cfr. da ultimo, fra le tante, Consiglio di Stato, sez. IV, 12.02.2013, n. 845, con la giurisprudenza ivi richiamata e sez. VI, 20.06.2012, n. 3571).
Inoltre, deve richiamarsi l’indirizzo giurisprudenziale, largamente diffuso e ribadito di recente in importanti arresti del Giudice Amministrativo d’appello, sull’ampia discrezionalità di cui godono i Comuni nell’esercizio della potestà di pianificazione urbanistica, nei confronti della quale i privati possono godere di aspettative qualificate soltanto in un numero limitato di casi, peraltro insussistenti nella presente fattispecie (cfr., fra le tante, la fondamentale sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 10.05.2012, n. 2710, richiamata e confermata dalla successiva sentenza della stessa Sezione IV, 28.11.2012, n. 6040; Consiglio di Stato, sez. IV, 28.12.2012, n. 6703 e 21.12.2012, n. 6656; oltre che, fra le decisioni di primo grado, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.02.2013, n. 532 e 08.02.2012, n. 437, unitamente a TAR Basilicata, 16.12.2011, n. 602) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.03.2013 n. 719 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAtti di polizia accessibili
Una insegnante ha diritto di accedere anche ad un verbale della Polizia di Stato per poter tutelare la sua posizione giuridica.

Lo ha sancito il TAR Toscana, Sez. I, con la sentenza 19.03.2013 n. 411.
Nel caso in esame una docente in servizio presso un istituto tecnico di Lucca era stata coinvolta, in occasione degli esami di riparazione, in un episodio che aveva dato luogo all'intervento di personale della Polizia di Stato e che successivamente era stato causa dell'applicazione di una sanzione disciplinare nei suoi confronti.
La professoressa aveva così chiesto al Questore di Lucca, ai sensi dell'art. 22 della legge n. 241/1990, il rilascio del verbale redatto dagli agenti relativamente all'intervento e la registrazione della telefonata richiedente l'intervento o, in alternativa, la dichiarazione sul contenuto della telefonata. Non avendo ottenuto riscontro favorevole sulla base della disposizione di cui all'art. 3 del D.M. n. 415/1994, l'insegnante si era rivolta al Tribunale amministrativo.
I giudici hanno accolto il ricorso. Secondo il collegio, infatti, sussiste il presupposto per l'accesso dal momento che la ricorrente è titolare di «un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso».
Inoltre -precisa la sentenza- ai sensi dell'art. 8, comma 5, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 27.06.1992, n. 352, le relazioni di servizio sono sottratte all'accesso in relazione all'esigenza di salvaguardare l'ordine pubblico e la prevenzione e repressione della criminalità ma caso per caso, per evitare i rischi di una sottrazione generalizzata (articolo ItaliaOggi del 02.04.2013).

APPALTI: Sulla violazione dell'obbligo della specificazione delle parti di servizio imputate alle singole imprese del raggruppamento.
Nel caso in cui l'oggetto dell'appalto non si presenta come un unico servizio omogeneo, da svolgere eseguendo un'unica tipologia di prestazioni, ma si articola in servizi e prestazioni distinte in relazione alle attività da svolgere, alle forniture da eseguire, al personale ed ai mezzi da impiegare nei servizi da rendere, come nel caso di specie, le imprese che fanno parte del costituendo RTI devono indicare, oltre alle quote di partecipazione, anche le parti del servizio di cui ciascuna intende occuparsi.
La violazione dell'obbligo della specificazione delle "parti" di servizio imputate alle singole imprese del raggruppamento, sancito dall'art. 11, c. 2, l. n. 157 del 1995 (attuale art. 37, c. 4, d.lgs. n. 163 del 2006), non si risolve in una violazione meramente formale, ma incide, in modo sostanziale sulla serietà, affidabilità, determinatezza e completezza, e dunque sugli elementi essenziali dell'offerta, la cui mancanza, pena la violazione dei principi della par condicio e della trasparenza, non è suscettibile di regolarizzazione postuma.
Incide, inoltre, sui poteri di verifica della stazione appaltante in relazione alla coerenza dei requisiti di capacita degli operatori raggruppati con riguardo alla natura della prestazione, in funzione della garanzia della qualità delle prestazioni oggetto dell'appalto e sul un corretto assetto concorrenziale, evitando l'elusione delle norme di ammissione stabilite dai bandi e impedendo la partecipazione fittizia di imprese, non chiamate (o chiamate in modo inappropriato) ad effettuare le prestazioni oggetto della gara (TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, sentenza 15.03.2013 n. 2705 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTIGare d'appalto, sì al concordato
L'istanza di concordato preventivo non è ragione sufficiente per l'esclusione da una gara di appalto. Questo a seguito della reintroduzione, ad opera del decreto sviluppo del 2012, dell' istituto del concordato con continuità aziendale previsto dall'art. 186-bis del rd 267/1942. In base al dettato normativo, l'istanza di concordato preventivo, non è da considerarsi ostativa alla partecipazione alle gare, ma bensì come un'eccezione all'operatività della causa di esclusione.

Così ha stabilito il TAR Friuli-Venezia Giulia, con la sentenza 07.03.2013 n. 146.
La vicenda, che si è conclusa con la dichiarazione di infondatezza del ricorso, ha avuto come protagonista un'impresa partecipante ad una gara d'appalto per l'assegnazione di un servizio in materia ambientale. La ricorrente, che contestava l'assegnazione della gara in questione alla prima classificata, sosteneva che la stessa non potesse essere ritenuta la reale assegnataria definitiva della gara.
L'impresa argomentava sostenendo che la prima classificata, non avrebbe nemmeno dovuto partecipare alla gara, a causa della situazione fiscale e finanziaria tutt'altro che tranquilla. Il giorno dopo la scadenza del termine per presentare le domande infatti, aveva proposto istanza di concordato preventivo. La ricorrente basava il proprio ragionamento sull'art. 38 del dlgs 163 del 2006.
In base a quanto previsto dalla norma infatti «sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti: a) che si trovano in stato di fallimento, di liquidazione coatta, di concordato preventivo, salvo il caso di cui all'articolo 186-bis del regio decreto 267/1942, o nei cui riguardi sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni» (si veda ItaliaOggi del 7 marzo). Proprio in base all'analisi della norma, il Tar ritiene di dover respingere il ricorso. Il Tribunale friulano, argomenta su due punti fondamentali.
In prima battuta viene posta in evidenza la questione temporale. In base a quest'ultima infatti, risulta che l'istanza di concordato preventivo era stata presentata a seguito della presentazione di domanda di partecipazione alla gara d'appalto, ragion per cui se i controlli fossero stati effettuati precedentemente alla presentazione della richiesta, sarebbero risultati del tutto in regola. In secondo luogo, il Tribunale spiega come l'art. 38, così come modificato dal decreto sviluppo 2012, nonostante preveda effettivamente quanto sostenuto dalla ricorrente, sia stato oggetto di un errore interpretativo. In base a quest'ultimo infatti, l'istanza di concordato preventivo, non è da considerarsi come un ostacolo alla partecipazione alle gare d'appalto, ma anzi come un' eccezione all'operatività della causa di esclusione.
«Del resto», conclude il Tar, «è lo stesso art. 186-bis del rd 267/1942 a dettare le condizioni per una legittima partecipazione alle gare d'appalto in costanza di ammissione a tale tipologia di concordato preventivo». I requisiti previsti dalla norma sono infatti: una relazione di un professionista che attesta la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento del contratto e la dichiarazione di altro operatore che dichiara di farsi garantire del corretto svolgimento di quanto previsto dal contratto di appalto.
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La massima
L’istanza di concordato preventivo, non è da considerarsi come un ostacolo alla partecipazione alle gare d’appalto, ma anzi come un’eccezione all’operatività della causa di esclusione (articolo ItaliaOggi del 02.04.2013).

AGGIORNAMENTO AL 02.04.2013

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IN EVIDENZA
... per tutti i comuni lombardi che, ancora oggi, non hanno il P.G.T.

EDILIZIA PRIVATAL'art. 25 della L.R. 12/2005, come modificato da ultimo dalla L.R. 21/2012, non sembra imporre un’automatica decadenza dei titoli edilizi ai sensi dell’art. 15, comma 4, del DPR 380/2001, quanto piuttosto una loro sospensione, in attesa della definitiva approvazione del Piano di Governo del Territorio (PGT).
... per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia:
- del provvedimento prot. 2647/13 del 14.01.2013;
- di ogni atto preordinato, conseguente e comunque connesso, con particolare riguardo all'ordine di sospensione dei lavori n. 396/13 del 21.01.2013, nonché ove occorra ai verbali della Polizia Locale di Como del 01.01.2013 e dell'11.01.2013;
...
Considerato che:
- dal momento del rilascio del permesso di costruire, l’esponente non è rimasta inerte, provvedendo alla notifica preliminare di inizio cantiere di cui all’art. 99 del D.Lgs. 81/2008, alla stipulazione del contratto d’appalto ed alla progettazione (cfr. i documenti dal n. 10 al n. 18 della ricorrente), sicché deve escludersi l’assenza di un idoneo intento costruttivo in capo alla ricorrente, visto anche il periodo di ferie natalizie successivo al rilascio del titolo;
- l’art. 25 della legge regionale 12/2005, come modificato da ultimo dalla legge regionale 21/2012, non sembra imporre un’automatica decadenza dei titoli edilizi ai sensi dell’art. 15, comma 4, del DPR 380/2001, quanto piuttosto una loro sospensione, in attesa della definitiva approvazione del Piano di Governo del Territorio (PGT);
- sono apprezzabili anche i profili del periculum in mora, visto che si tratta dell’unico intervento edilizio della società ricorrente, che sarebbe irrimediabilmente pregiudicata dall’esecuzione del provvedimento (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ordinanza 25.03.2013 n. 363 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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In merito alla suddetta ordinanza si legga un primo commento dell'Avv. Lorenzo Spallino:
Collegato Ordinamentale 2013 e titoli edilizi rilasciati ante 31.12.2012 (27.03.2013 - link a http://studiospallino.blogspot.it).

dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

PUBBLICO IMPIEGO: R. Lasca, DOPO IL PICCOLO* TSUNAMI ANTICORRUZIONE (*MA COL NUOVO GOVERNO ARRIVERA’ IL GRANDE!) EX L. 190/2012 ALLA LUNGA NEGLI EE.LL. ITALIANI (E NON SOLO EE.LL.), CON O SENZA DIRIGENZA, CHI AVRA’ I REQUISITI PER SVOLGERE “FUNZIONI DIRETTIVE” ? NESSUNO O QUASI ! - Che sia l’anticamera del licenziamento di massa della burocrazia di vertice delle PP.AA. italiane, ante adozione DPCM che dovevamo leggere entro il 31.12.2012 ?? (25.03.2013).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Il fondo PERSEO ed i proventi delle multe (CGIL-FP di Bergamo, nota 26.03.2013).

ENTI LOCALI - EDILIZIA PRIVATA: La nullità del contratto individuale di lavoro (CGIL-FP di Bergamo, nota 25.03.2013).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOggetto: Anagrafe delle prestazioni. Modifiche introdotte dalla legge 06.11.2012, n. 190 all'art. 53 del D.Lgs. 165/2001 (Ministero dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, circolare 29.03.2013 n. 16).

TRIBUTI: OGGETTO: Imposta municipale propria (IMU) di cui all’art. 13 del D.L. 06.12.2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214. Termine di presentazione della dichiarazione IMU concernente i fabbricati classificabili nel gruppo catastale D, non iscritti in catasto, ovvero iscritti, ma senza attribuzione di rendita, interamente posseduti da imprese e distintamente contabilizzati. Quesito (Ministero dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento delle Finanze, risoluzione 28.03.2013 n. 6/DF).

TRIBUTI: OGGETTO: Imposta municipale propria (IMU) di cui all’art. 13 del D. L. 06.12.2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214. Modifiche recate dall’art. 1, comma 380, della legge 24.12.2012, n. 228. Quesiti in materia di pubblicazione delle deliberazioni concernenti le aliquote, di pagamento della prima rata dell’imposta e di assegnazione della casa coniugale (Ministero dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento delle Finanze, risoluzione 28.03.2013 n. 5/DF).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica ai sensi degli artt. 8 e ss. del decreto del Presidente della Repubblica 24.11.1971, n. 1199. Verifiche di regolarità contributiva, ai sensi degli artt. 13, comma 6-bis e 6-bis.1, 247, 248 e 249 del decreto del Presidente della Repubblica 30.05.2002, n. 115 (Ministero dell'Interno, Dipartimento per gli Affari Interni e Territoriali, circolare 27.03.2013 n. 9/2013).

INCARICHI PROGETTUALIOggetto: Abolizione tariffe professionali e pareri congruità (Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati, nota 06.03.2013 n. 2377 di prot.).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOggetto: Prefettura di Treviso - Quesito del Consorzio Polizia Municipale Piave - Guida veicoli ad uso speciale della Polizia Locale (Ministero dell'Interno, nota 14.11.2012 n. 15918 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia n. 13 del 26.03.2013 "Secondo aggiornamento 2013 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (deliberazione G.R. 19.03.2013 n. 2579).

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 25.03.2013 n. 71 "Modalità attuative delle disposizioni in materia di pubblicità dei prezzi praticati dai distributori di carburanti per autotrazione, di cui all’articolo 15, comma 5, del decreto legislativo 06.09.2005, n. 206, e di cui all’articolo 19 del decreto-legge 24.01.2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27" (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 17.01.2013).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G.U. 20.03.2013 n. 67 "Criteri generali di sicurezza relativi alle procedure di revisione, integrazione e apposizione della segnaletica stradale destinata alle attività lavorative che si svolgono in presenza di traffico veicolare" (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, decreto 04.03.2013).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: F. Grilli, Parere della Corte dei Conti Lombardia sui contratti elettronici della pubblica amministrazione - La Corte dei Conti della Lombardia con la deliberazione n. 97 del 18.03.2013 sembra sparigliare le carte (26.03.2013 - link a www.leggioggi.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: S. Usai, Illegittima la deliberazione con assunzione di impegno di spesa priva del parere di regolarità contabile (Diritto e Pratica Amministrativa n. 3/2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: C. Bortotello, AUTORIZZAZIONI RICHIESTE PER ATTUARE LA MOBILITÀ VOLONTARIA (tratto dalla newsletter di www.publika.it n. 53 - marzo 2013).

APPALTI: G. Gavelli e G. Valcarenghi, L’Agenzia delle entrate «alleggerisce» la solidarietà fiscale per appalti e subappalti (Corriere Tributario n. 12/2013 - tratto da www.ispoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E. Moro, Il frazionamento abusivo di una villa in due autonomi appartamenti determina incommerciabilità dell’intero fabbricato (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, 28.11.2012 n. 21204) (18.03.2013 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Amendola, Ecopiazzole: la cassazione fa il punto della situazione attuale (link a www.industrieambiente.it

LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: P. Marzaro, La semplificazione nei procedimenti di variante degli strumenti di pianificazione territoriale e degli strumenti urbanistici in sede di dismissione e alienazione del patrimonio immobiliare; i Piani delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari e i programmi unitari di valorizzazione (Rivista Giuridica di Urbanistica n. 4/2012).

EDILIZIA PRIVATA: Fondazione De Iure Publico, IL TRASFERIMENTO DEI DIRITTI EDIFICATORI DOPO LE MODIFICHE ALL’ ART. 2643 DEL CODICE CIVILE (ART. 5, COMMA 3, L.N. 106/2011) - LA “VEXATA QUAESTIO” DELLA NATURA GIURIDICA DI TALI DIRITTI (Geometra Orobico n. 4/2012).

EDILIZIA PRIVATA: Fondazione De Iure Publico, EDILIZIA, UNO SPORTELLO SEMPRE PIÙ "UNICO (Geometra Orobico n. 4/2012).

EDILIZIA PRIVATA: Fondazione De Iure Publico, IL TRASFERIMENTO DEI DIRITTI EDIFICATORI: PROFILI FISCALI (Geometra Orobico n. 4/2012).

EDILIZIA PRIVATA: Fondazione De Iure Publico, RECUPERO A FINI ABITATIVI DEI SOTTOTETTI: DISTANZE ED EFFICIENZA ENERGETICA (Geometra Orobico n. 3/2012).

CONSIGLIERI COMUNALI: Fondazione De Iure Publico, QUANTO AL DOVERE DI ASTENSIONE DEI CONSIGLIERI COMUNALI (Art. 78, Comma 2, d.lgs. n. 267/2000–TUEL) NELLA VOTAZIONE DEL PIANO DI GOVERNO DEL TERRITORIO (PGT) DI CUI ALLA L.R. LOMBARDIA N. 12/2005 (Geometra Orobico n. 3/2012).

UTILITA'

SICUREZZA LAVOROCome redigere un POS (Piano Operativo di Sicurezza): dal CPT di Firenze un modello versatile.
Il POS è il documeno in cui sono contenute tutte le misure di prevenzione e protezione da adottare nelle attività di cantiere al fine di salvaguardare la salute e l'incolumità fisica dei lavoratori.
Il Testo Unico per la Sicurezza (D.Lgs. 81/2008) prevede l'obbligo del datore di lavoro di un’impresa esecutrice di redigere il POS (Piano Operativo di Sicurezza) con i contenuti minimi previsti all’Allegato XV e l’onere per il coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione di verificare l’idoneità di questo documento.
In allegato all’articolo proponiamo uno schema di POS, elaborato dal Comitato Paritetico Territoriale per la sicurezza sul lavoro (CPT) di Firenze.
Il documento rappresenta uno strumento versatile a disposizione di tutti gli operatori del settore (imprese, committenti e coordinatori) improntato alla praticità, all’efficacia e alla concretezza.
In esso vengono schematizzate sinteticamente tutte le informazioni e le misure di sicurezza da inserire nel POS.
Il modello contiene le seguenti sezioni:
anagrafica dell’impresa (soggetti interessati, interventi formativi ed informativi)
dati relativi al cantiere e ai lavori da eseguire
soggetti di riferimento per la sicurezza
indicazione delle lavorazioni affidate in subappalto
elenco delle lavorazioni
elenco dei ponteggi, dei ponti su ruote o altre opere provvisionali, delle macchine o attrezzature che si utilizzeranno in cantiere
elenco dei DPI (Dispositivi di protezione individuale) forniti ai lavoratori
caratteristiche dell’impianto elettrico
elenco delle sostanze e prodotti pericolosi che saranno utilizzati
scheda tipo della fase di lavorazione (descrizione, individuazione dei rischi, modalità di gestione della fase lavorativa e misure di prevenzione, D.P.I. necessari) (28.03.2013 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazioni edilizie: Iva al 10% ecco quando si applica (27.03.2013 - link a www.leggioggi.it).

ENTI LOCALI - VARI: Rassegna della giurisprudenza penale di legittimità - La giurisprudenza delle Sezioni Unite e le principali linee di tendenza della Corte di cassazione - anno 2012 (Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario, 17.01.2013).

ENTI LOCALI - VARI: Rassegna della giurisprudenza di legittimità - Gli orientamenti delle Sezioni Civili - anno 2012 (Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario, volume I + volume II - 07.01.2013).

QUESITI & PARERI

ATTI AMMINISTRATIVI: Le convenzioni.
DOMANDA:
Il comma 2 dell’art. 6 del decreto sviluppo-bis ha espressamente previsto che, a far data dal 01.01.2013, gli accordi tra pubbliche amministrazioni (art. 15, comma 2l, della legge 07.08.1990, n. 241 “(…) sono sottoscritti con firma digitale, ai sensi dell'articolo 24 del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, con firma elettronica avanzata, ai sensi dell'articolo 1, comma 1, lettera q-bis), del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, ovvero con altra firma elettronica qualificata, pena la nullità degli stessi".
Dagli elementi offerti dal diritto positivo sembra desumersi che la disciplina degli accordi di cui all’articolo 15, comma 1 della Legge 07.08.1990, n. 241 faccia riferimento a moduli consensuali che costituiscono il quadro di riferimento normativo generale per tutte le altre figure di accordo specificamente disciplinate nell’ambito dell’ordinamento degli enti locali.
In questa prospettiva si chiede conferma circa la necessità di assoggettate le convenzioni ex art. 30 TUEL alle previsioni del comma 2 dell’art. 6 del decreto sviluppo-bis.
RISPOSTA:

Il comma 2 dell’art. 6 del d.l. 179/2012 convertito dalla legge 221/2012 ha inserito un secondo comma all'art. 15 della legge 241/1990 per cui a fare data dal 01.01.2013 gli accordi tra pubbliche amministrazioni per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune sono sottoscritti con firma digitale o con firma elettronica avanzata, ai sensi del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, pena la nullità degli stessi. Oltre all’art. 15 della legge 241/1990, nel nostro panorama giuridico, sono presenti anche numerosi altri istituti di diritto positivo, particolarmente nell’ordinamento degli enti locali, che disciplinano gli accordi tra pubbliche amministrazioni.
In dottrina si è molto discusso sui questi diversi regimi e sulla loro interdipendenza anche al fine di ricercare eventuali principi di carattere generale capaci di ricostruire una figura che potesse integrare e completare la disciplina giuridica definita positivamente per ciascuna figura. Secondo la dottrina la disciplina prevista dall’articolo 15 della legge 241/1990 definirebbe una fattispecie di carattere generale suscettibile di integrazioni e precisazioni da parte di normative specifiche quali quelle relative a istituti presenti nella legislazione degli enti locali.
Conseguentemente qualsiasi accordo tra enti pubblici, stipulato nell’esercizio di poteri pubblicistici, rientra all’interno del genus enucleato all’art. 15 della L. 241/1990 ed è, perciò, sottoposto alla stessa disciplina, fatte salve, ovviamente, le deroghe che si possano desumere dalla peculiare normativa applicabile. Sulla base di questo principio l’obbligo di sottoscrivere gli accordi con firma digitale, pena la nullità degli stessi, si estenderebbe a qualsiasi tipo di accordo tra enti pubblici compresi agli accordi di programma previsti dall’art. 34 del Tuel e soprattutto le convenzioni stipulate tra enti locali per la gestione di servizi o per la costituzione di consorzi, unioni di comuni, previste dagli artt. 30, 31, 32 e 33 del Tuel.
Sicuramente questa interpretazione trova anche la sua motivazione nel contesto normativa di riferimento. L’art. 6 del d.l. 179/2012 è compreso nella sezione del decreto definita ”Amministrazione digitale e dati di tipo aperto” e la maggior parte delle disposizioni del decreto 179/2012 sono rivolte a stimolare e obbligare le pubbliche amministrazioni ad un maggior utilizzo delle procedure informatiche e per un contenimento della spesa pubblica e soprattutto per un recupero del divario tecnologico con le altre nazioni.
Tuttavia la formulazione letterale dell’art 6, 2° comma del d.l. 179/2012 e l’assenza di riferimenti specifici ad altri tipi di accordi, convincono, al momento, per dare una interpretazione più restrittiva alla disposizione normativa ritenendo l’obbligo limitato ai soli accordi sottoscritti esclusivamente ai sensi dell’art. 15 della legge 241/1990, in attesa di chiarimenti specifici e di interpretazioni giurisprudenziali.
E’ però auspicabile anzi doveroso che le pubbliche amministrazioni ed in particolare gli enti locali, senza costrizione, ma manifestando volontà di cambiamento e spirito di innovazione, si attivino e fin da subito sottoscrivano convenzioni, contratti e accordi esclusivamente con firma digitale ai sensi del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82 (28.03.2013 - tratto da www.ancirisponde.ancitel.it).

APPALTI: Partecipazione a pubblica gara: difformità del modulo rispetto al bando, quali le conseguenze?
Domanda.
Nel caso in cui il partecipante ad una pubblica gara produca alla stazione appaltante la documentazione amministrativa prevista nel bando redigendola su appositi formulari prestampati dalla stessa ed allegati al disciplinare di gara, i quali risultino poi incompleti e irregolari, non per errori del compilatore, ma per discrasie tra le previsioni del bando ed i facsimile prestampati dall'Amministrazione stessa, la stazione appaltante deve disporre l'esclusione del concorrente per violazione della lex specialis e, quindi, per garantire il rispetto della par condicio e la stretta osservanza di esplicite prescrizioni di gara?
Risposta.

Il modulo, nel linguaggio corrente, è un foglio di carta prestampato, talora predisposto per la lettura ottica, che l'interessato distribuisce agli offerenti e che costoro devono compilare. In tal modo -e tale sembra essere l'utilità della eventuale prescrizione di un bando di gara che ne prescriva l'impiego- si costringono gli aspiranti a recarsi presso la committenza in un momento preciso -e non prima- per ritirare il modulo prima di formulare l'offerta, e si evitano possibili frodi.
In questi casi, la eventuale difformità del modulo rispetto alle prescrizioni del bando non può che essere imputabile alla stazione appaltante. Considerato che la predisposizione di un modulo per la domanda di partecipazione ad una gara d'appalto e la richiesta di compilare la domanda in modo conforme a detto modello ingenerano nel partecipante, oltre che un dovere, un affidamento, è onere della P.A. verificare che il modello sia predisposto in modo conforme e coerente con gli obblighi previsti dal bando, soprattutto quando le dichiarazioni contenute nel modello sono richieste a pena di esclusione (TAR Puglia-Lecce Sez. II, 08.06.2006, n. 3290).
Nell'ipotesi in cui il concorrente abbia compilato un modulo di domanda e di dichiarazione allegate al bando ed al disciplinare messi a disposizione della stazione appaltante, nei quali non era assunto l'obbligo, esplicitamente previsto nel bando, di costituire ATI in caso di aggiudicazione, ciò non può comportare la sua esclusione. Infatti, se una incongruenza vi è stata tra il bando ed il modulo questa non può che essere imputata alla Pubblica Amministrazione in base al principio di correttezza, buona fede, trasparenza e certezza dei rapporti.
Ne deriva che, se l'Amministrazione avesse escluso la concorrente sulla base di un proprio errore nella predisposizione dei moduli, che la ditta ha dovuto obbligatoriamente compilare, avrebbe posto in essere una condotta illegittima e senz'altro censurabile. Sul punto la Giurisprudenza Amministrativa ha chiarito che, in applicazione dei principi di favor partecipationis e di tutela dell'affidamento, non può procedersi all'esclusione di un'impresa nel caso in cui questa abbia compilato l'offerta in conformità al modulo all'uopo approntato dalla stazione appaltante (Cons. Stato sez. VI, 10.11.2004, n. 7278).
D'altro canto si osserva che la lex specialis della gara d'appalto risulta costituita, non solo, dalle espresse previsioni contenute nel bando di gara, nella lettera d'invito e nel capitolato, ma anche dal complesso normativo presupposto e richiamato da questi ultimi, oltre che dalle regole ermeneutiche che la stazione appaltante ha posto in essere nel momento antecedente la valutazione delle offerte. In sede di predisposizione del bando di gara, infatti, l'amministrazione può motivatamente integrare o sostituire le clausole contenute negli schemi di bandi-tipo nel caso di lacune nello schema o difformità rispetto alla normativa (TAR Puglia-Lecce, sez. II, 10.07.2007, n. 2716).
Differente è invece l'ipotesi in cui la stazione appaltante predispone uno schema, ovvero un facsimile del contenuto dell'offerta, che ogni concorrente deve ricopiare di sua iniziativa, completandolo con i dati a lui richiesti.
In tal caso, è ovvio che fra lo schema e l'offerta non vi sarà mai perfetta congruenza. Ne deriva che in caso di difformità tra la domanda presentata dal concorrente e le prescrizioni del bando può residuare, in concreto, una responsabilità del privato laddove le prescrizioni del bando fossero precise e puntuali e lo schema predisposto sia piuttosto generico, lasciando ampi margini di compilazione al partecipante.
Ancora diversa è l'ipotesi in cui il concorrente non si attenga allo schema predisposto dalla stazione appaltante, ma rediga una sua domanda di partecipazione, diversa dal fac-simile, sebbene conforme alle prescrizioni di bando.
Il TAR Lombardia-Brescia Sez. I Sent., 16.11.2007, n. 1263 ha ritenuto illegittima l'esclusione dalla gara disposta dalla stazione appaltante, perché la domanda di partecipazione era stata redatta non utilizzando lo schema allegato, ma su propria carta intestata che riproduceva il contenuto dello schema, ad esclusione dell'indicazione numerica dei punteggi attribuibili a ciascun elemento. Un'interpretazione estensiva, che assimilasse i due concetti di modulo e di schema, si risolverebbe nel restringere la partecipazione alle gare, e quindi non è sostenibile in base al principio generale di massima partecipazione.
Successivamente, questo principio di elaborazione giurisprudenziale è stato mutuato dall'art. 74, comma 3, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 -come modificato dall'art. 2 del D.Lgs. 31.07.2007, n. 113 e successivamente dall'art. 2, comma 1, lettera o), del D.Lgs. 11.09.2008, n. 152- che stabilisce che "Salvo che l'offerta del prezzo sia determinata mediante prezzi unitari, il mancato utilizzo di moduli predisposti dalle stazioni appaltanti per la presentazione delle offerte non costituisce causa di esclusione" (26.03.2013 - tratto da www.ipsoa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocato e preventivo.
Domanda
Chiediamo conferma in seguito a dibattito nato tra colleghi in studio: sussiste l'obbligo per l'avvocato di proporre preventivo scritto al cliente?
Risposta
No, non esiste un obbligo generalizzato, ma solo laddove il cliente ne faccia esplicita richiesta.
Come chiarito all'art. 13, comma 5 della legge 247/2012, infatti, «il professionista è tenuto, nel rispetto del principio di trasparenza, a rendere noto al cliente il livello della complessità dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento alla conclusione dell'incarico; a richiesta è altresì tenuto a comunicare in forma scritta a colui che conferisce l'incarico professionale la prevedibile misura del costo della prestazione, distinguendo fra oneri, spese, anche forfetarie, e compenso professionale» (articolo ItaliaOggi Sette del 25.03.2013).

LAVORI PUBBLICI: Sponsor e sponsee.
Domanda
Contributo in forma di servizi per il restauro di un monumento, all'interno di un contratto con l'amministrazione locale che riprodurrà il marchio dell'azienda specializzata nella gestione del servizio: è inequivocabilmente configurabile come sponsorizzazione?
Risposta
Sì, la fattispecie descritta pare configurarsi in modo chiaro come sponsorizzazione.
Infatti, come chiarito all'articolo 120 del Codice dei beni culturali e del paesaggio «è sponsorizzazione di beni culturali ogni contributo, anche in beni o servizi, erogato per la progettazione o l'attuazione di iniziative in ordine alla tutela ovvero alla valorizzazione del patrimonio culturale, con lo scopo di promuovere il nome, il marchio, l'immagine, l'attività o il prodotto dell'attività del soggetto erogante».
Perciò l'amministrazione locale citata si configura come sponsee e l'azienda erogante il servizio, in cambio dell'associazione del marchio all'iniziativa, come sponsor (articolo ItaliaOggi Sette del 25.03.2013).

CONDOMINIO: Sottotetto esclusivo.
Domanda
In base a quali elementi, in caso di dissapori, è possibile stabilire se un sottotetto di un edificio condominiale sia bene comune o parte privata esclusiva?
Risposta
Quello proposto è un tema che spesso costituisce oggetto di divergenze fra condomini e in ordine al quale si è pertanto formata una significativa giurisprudenza anche a livello di Corte di cassazione. In effetti, anche di recente la suprema corte si è dovuta occupare di un contenzioso di questo tipo e lo ha risolto (sent. 12840/2012) confermando le sentenze dei primi due gradi di merito ma, soprattutto, ribadendo e richiamando il consolidato orientamento formatosi presso di essa. In pratica, il principio di diritto da seguire è che l'appartenenza del sottotetto (e, nel caso da ultimo esaminato, anche di una terrazza, entrambi condominiali) va determinata in base al titolo di provenienza.
In mancanza o nel silenzio di questo, non essendo il sottotetto compreso nel novero delle parti comuni dell'edificio essenziali per la sua esistenza o necessarie all'uso comune (art. 1117 c.c.) la presunzione di comunione ai sensi del predetto articolo è applicabile solo nel caso in cui il vano, per le sue caratteristiche strutturali e funzionali, risulti oggettivamente destinato all'uso comune o a un servizio di interesse condominiale. Nel caso, oggetto della sentenza, ciò è stato escluso, considerato che dalle verifiche compiute si era anche rilevato che l'appartamento era collegato al sottotetto, non abitabile, da una scala interna e che a quest'ultimo non si poteva accedere da altro ingresso.
Pertanto, in casi come questo i giudici sono ormai soliti valorizzare la funzione del sottotetto di mera camera d'aria, volta a proteggere l'appartamento sottostante dal caldo e dal freddo, escludendo la natura condominiale del bene (articolo ItaliaOggi Sette del 25.03.2013).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Gli incentivi per la progettazione.
Domanda
Il servizio istante sta approntando il capitolato speciale di appalto per il servizio di raccolta e spazzamento rifiuti solidi urbani nell’intero territorio comunale.
Si vuole sapere se nel quadro economico del progetto è possibile inserire gli incentivi ex art. 92 del decreto legislativo n. 163/2006 e regolamento regionale in quanto un comune di questa provincia ha incluso nel quadro di somme a disposizione l’importo dell’incentivo.

Risposta

Come si evince dal tenore letterale delle stesse disposizioni di cui all’art. 92 del Codice dei contratti pubblici, il compenso incentivante ivi previsto non può che riferirsi al settore della progettazione di opere o lavori pubblici (comma 1) o alle ipotesi di attività di pianificazione nei termini e modi ivi stabiliti (comma 2; si veda l’applicazione di tale comma, da ultimo, il recente parere della Corte dei conti n. 290/2012).
Trattandosi di norma eccezionale e quindi di stretta applicazione, si ritiene che non possa trovare applicazione estensiva in genere al settore degli appalti o concessione di servizi, tra cui rientra sicuramente anche quello di raccolta e spazzamento di rifiuti solidi urbani indicato nel quesito.
Come ribadito infatti più volte in giurisprudenza (cfr. sezione regionale di controllo per la Campania, parere 10.07.2008 n. 14) “le disposizioni di cui all’art. 92 del Dlgs n. 163/2006 (che per la loro puntualità descrittiva non sono suscettibili di interpretazione analogica) trovano applicazione unicamente in materia di lavori pubblici, per i casi in cui il comune agisca in veste di amministrazione aggiudicatrice di un’opera o di un lavoro rientrante in una delle ipotesi richiamate all’art. 3 del medesimo decreto”.
Anche con il parere n. 14/2008 la sezione regionale di controllo per la Campania ha ribadito che: “Le disposizioni di cui all’art. 92 del Dlgs n. 163/2006 (che per la loro puntualità descrittiva non sono suscettibili di interpretazione analogica) trovano applicazione unicamente in materia di lavori pubblici, per i casi in cui il comune agisca in veste di amministrazione aggiudicatrice di un’opera o di un lavoro rientrante in una delle ipotesi richiamate all’art. 3 del medesimo decreto”.
Anche la sezione regionale di controllo per la Toscana, con il parere 18.10.2011 n. 213, ha specificato che lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che l’incentivo alla progettazione venga ripartito “tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto” e, dunque, è di palmare evidenza come il riferimento normativo e la conseguente ‘voluntas legis’ sia ascrivibile solo alla materia dei lavori pubblici, presupponendosi una procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un’opera di pubblico interesse (Corte dei conti, sez. controllo Puglia, parere 16.01.2012 n. 1) (tratto da Guida al Pubblico Impiego n. 3/2013).

APPALTIOggetto: Quesiti sull'applicazione dell'art. 11, comma 13, del decreto legislativo n. 163 del 2006 come modificato dall'art. 6, comma 3, del D.L. 179 del 2012 sulle modalità di stipulazione dei contratti pubblici (Ministero per la Pubblica Amministrazione e la Semplificazione, nota 28.02.2013 n. 77 di prot.).
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Il Capo dell'Ufficio Legislativo del Ministro risponde all'ANCE in ordine ai seguenti cinque interrogativi:
1) se la disposizione dell'art. 11, comma 13, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, come modificato dall'art. 6, comma 3, del decreto-legge n. 179 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 221 del 2012, preveda come obbligatorio il ricorso alle modalità elettroniche in caso di utilizzo della forma amministrativa ovvero della scrittura privata;
2) cosa si deve intendere per "modalità elettroniche" e, in particolare, se occorre ricorrere alla firma digitale;
3) se la previsione di cui all'art. 11, comma 13, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, come modificato dall'art. 6, comma 3, del decreto-legge n. 179 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 221 del 2012 implichi anche l'utilizzo di modalità elettroniche per la registrazione e conservazione dei contratti;
4) se in mancanza di firma digitale da parte dell'aggiudicatario del contratto, possa ricorrersi all'autenticazione della firma mediante acquisizione digitale della sottoscrizione autografa (scannerizzazione e attestazione del pubblico ufficiale);
5)
se sia opportuno che la stazione appaltante porti a conoscenza dei concorrenti la forma di sottoscrizione del contratto prescelta e le modalità elettroniche previste.

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALISpending review. Corte dei conti. Fondi legittimi ai servizi generali.
IL VINCOLO/ Il divieto di contributi si applica solo a fondazioni e società che svolgono servizi diretti all'ente di riferimento.

Il divieto per le pro loco, le fondazioni, le società e le associazioni che forniscono servizi (anche gratuiti) alla pubblica amministrazione, di ricevere contributi pubblici, si applica solo se i servizi offerti sono rivolti direttamente all'ente pubblico. Il blocco, al contrario, non opera nei casi in cui le attività sono svolte direttamente a favore dei cittadini.
La lettura più favorevole della norma della spending review (articolo 4, comma 6, del Dl 95/2012), arriva dalla Corte dei conti Sezione di controllo per la Lombardia,
parere 14.03.2013 n. 89
, in risposta al quesito di un Comune comasco.
Il divieto di cumulo fra prestazioni di servizi e contributi a carico delle finanze pubbliche, entrato in vigore dal 1° gennaio di quest'anno, sta facendo riorganizzare l'attività degli uffici cultura e turismo, di Comuni e Province.
Alla luce dell'importante chiarimento offerto dai magistrati contabili occorre esaminare le convenzioni concretamente stipulate dalle associazioni, pro loco, fondazioni per desumere la compatibilità con il divieto e, quindi, con la possibilità di ricevere contributi pubblici. Il discrimine, secondo i magistrati contabili lombardi, è individuato sulla base del soggetto al quale è reso il servizio: il divieto opera se il beneficiario è l'ente pubblico, mentre non si estende quando i fruitori sono i cittadini (collettività amministrata), seppure si rientri sempre nell'ambito delle finalità istituzionali dell'ente locale.
Va ricordato che la norma, nel testo convertito, ha escluso dal divieto sia alcuni settori di attività, sia alcune tipologie di enti. Non si applica ai settori dei servizi socio-assistenziali, dei beni e attività culturali, dell'istruzione e della formazione, associazioni rappresentative, di coordinamento e di supporto degli enti territoriali e locali. Sono inoltre escluse: associazioni di promozione sociale (legge 383/2000); enti di volontariato (legge 266/1991); Ong (legge 49/1987); cooperative sociali (legge 381/1991); associazioni sportive dilettantistiche (legge 289/2002).
Certamente le pro loco iscritte come associazioni di promozione sociale non subiscono alcuna limitazione da parte di questa norma della spending review.
Un'altra novità è prevista a partire dal 01.01.2014 e riguarda il divieto di affidamenti diretti di beni e servizi. Con esclusione (oltre che delle società in house) dei casi di affidamenti e acquisizioni in via diretta di beni e servizi, per importi massimi di 200mila euro annui, da associazioni di promozione sociale, dagli enti di volontariato, dalle associazioni sportive dilettantistiche, dalle organizzazioni non governative e dalle cooperative sociali. Per l'affidamento di servizi per importi superiori a tale cifra, le pubbliche amministrazioni saranno obbligate ad affidare il servizio tramite bando di gara. Gli affidamenti già in essere, infine, varranno fino alla scadenza naturale e, comunque, fino al 31.12.2014 (articolo Il Sole 24 Ore del 31.03.2013).

EDILIZIA PRIVATAPagamenti illegittimi per la Corte dei conti. Catasto, per le città planimetrie gratis.
CODICE DELLA PA DIGITALE/ Il Territorio può chiedere compensi solo per «costi eccezionali» connessi a servizi finalizzati a particolari esigenze.

La Corte dei Conti dell'Emilia Romagna (parere 31.01.2013 n. 37) ribadisce l'obbligo per le amministrazioni di rendere accessibili i dati ogni volta che siano necessari per lo svolgimento di compiti istituzionali di un'altra amministrazione, senza oneri a carico di quest'ultima.
Alla Corte dei Conti si sono rivolti alcuni Comuni per avere conferma della legittimità dei pagamenti pretesi dall'agenzia del Territorio per la fornitura in formato digitale delle planimetrie catastali e degli elaborati planimetrici delle unità immobiliari urbane.
La richiesta delle planimetrie catastali era motivata con la necessità di implementare i sistemi informativi comunali, anche per i controlli urbanistici oltre che per i tributi locali e per la partecipazione all'accertamento dei tributi erariali.
La Corte ricorda che l'articolo 50 del Dlgs 82/2005 prevede che qualunque dato trattato da una Pa, nel rispetto della normativa sulla protezione dei dati personali, è reso accessibile e fruibile alle altre amministrazioni, e che l'articolo 59 precisa che nell'ambito dei dati territoriali di interesse nazionale rientra la banca dati catastale gestita dal Territorio (incorporata dal 01.12.2012 nell'agenzia delle Entrate). Le regole per l'utilizzo dei dati catastali sono state definite con il decreto del direttore del Territorio del 13.11.2007, nel quale si precisa che sono a carico della Pa richiedente solo «eventuali costi eccezionali» sostenuti dall'Agenzia per realizzare ed erogare servizi specifici connessi a particolari esigenze.
Il Territorio, per fornire ai Comuni le planimetrie catastali, chiede la fornitura di un supporto magnetico e circa 0,20 euro a planimetria. Questa pretesa è stata ritenuta illegittima dalla Corte in quanto i costi eccezionali non sono giustificati se connessi alle modalità di erogazione dei dati e non alla peculiare natura del servizio richiesto.
Il tema della fruibilità e della gratuità dei dati è stato affrontato molteplici volte dal legislatore, e da ultimo anche in fatto di Tares, laddove l'articolo 14 del Dl 201/2011 prevede al comma 37 che i Comuni possano richiedere dati e notizie a uffici pubblici oppure a enti di gestione di servizi pubblici in esenzione da spese e diritti.
Sarebbe però necessario affrontare in modo organico una volta per tutte questo problema, e non solo con riferimento alle banche dati gestite dalle Pubbliche amministrazioni ma anche alle banche dati pubbliche gestite in modo privatistico, quali il registro nazionale delle imprese, gestito da Infocamere, e soprattutto l'archivio della motorizzazione, gestito da Aci e Motorizzazione, il cui accesso è pagato dai Comuni a caro prezzo (articolo Il Sole 24 Ore del 25.03.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

INCARICHI PROFESSIONALICon riferimento a quegli enti che nel corso dell’anno 2009 non hanno sostenuto alcuna spesa a titolo di incarichi per studi e consulenze questa Sezione ha avuto modo di osservare che <<la ratio sottesa alla legge statale in esame è quella di rendere operante, a regime, una riduzione della spesa per gli incarichi di consulenza e di studio; tuttavia, il Legislatore non ha inteso vietare agli enti locali la possibilità di conferire incarichi esterni quando ne ricorrono i presupposti di legge.
In questo senso, verrebbe disattesa la finalità perseguita dal legislatore per quegli enti locali che nel corso dell’anno 2009 non hanno sostenuto alcuna spesa a titolo di incarichi per studi e consulenze; infatti, se si adottasse una interpretazione letterale, si finirebbe per ritenere che la norma de qua fissa un divieto assoluto alla stipula di questa tipologia di contratti.
Diversamente, interpretando la norma in chiave funzionale –ovvero, valorizzando che la finalità della norma è quella di ridurre l’incidenza che questa tipologia di spesa ha sui bilanci degli enti locali e non quella di vietare agli enti medesimi di conferire incarichi esterni quando vi sussistono i presupposti di legge- si deve giungere alla conclusione che la norma de qua, per quegli enti locali che nel corso dell’anno 2009 non hanno sostenuto alcuna spesa a titolo di incarichi per studi e consulenze, va applicata individuando un diverso parametro di riferimento.
D’altra parte, se non si adottasse questa interpretazione, la riduzione “lineare” prevista dall’art. 6, comma 7, cit. finirebbe per premiare gli enti meno virtuosi che, nel corso dell’anno 2009, hanno sostenuto una spesa per consulenze rilevante; al contrario, si tradurrebbe in un divieto assoluto per gli enti più virtuosi che, quello stesso anno, hanno sostenuto una spesa pari a zero
>>.

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Il Sindaco del Comune di Botticino ha posto alla Sezione un quesito in ordine all’applicazione della disciplina in materia di conferimento di incarichi di consulenza e, più in particolare, sulla portata dell'articolo 6, comma 7, del D.L. n. 78/2010 che prevede che le Pubbliche Amministrazioni (tra cui rientrano anche i Comuni) possano, per l'anno in corso, conferire incarichi di consulenza, nel limite del 20% della spesa effettivamente sostenuta nell'anno 2009.
...
La richiesta di parere concerne l’esegesi dell’art. 6, comma 7, del d.l. n. 78/2010 (convertito nella l. n. 122/2010) che recita: <<al fine di valorizzare le professionalità interne alle amministrazioni a decorrere dall’anno 2011 la spesa annua per studi ed incarichi di consulenza, inclusa quella relativa a studi ed incarichi di consulenza conferiti a pubblici dipendenti, sostenuta dalle pubbliche amministrazioni di cui al comma 3 dell’art. 1 della legge 31.12.2009 n. 196, incluse le autorità indipendenti, escluse le università, gli enti e le fondazioni di ricerca e gli organismi equiparati nonché gli incarichi di studio e di consulenza connessi ai processi di privatizzazione e alla regolamentazione del settore finanziario, non può essere superiore al 20 per cento di quella sostenuta nell’anno 2009. L’affidamento di incarichi in assenza dei presupposti di cui al presente comma costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle attività sanitarie connesse con il reclutamento, l’avanzamento e l’impiego del personale delle Forze Armate, delle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco>>.
Nella richiesta di parere il sindaco rappresenta che <<nell'anno 2009 la spesa sostenuta dal Comune di Botticino per il conferimento di incarichi di consulenza fu di € 13.000,00; il limite normativamente stabilito per l'anno in corso, quindi, è di € 2.600,00; quanto sopra come comunicato dal servizio Finanziario dell'Ente>>.
In particolare, l’ente locale chiede se il limite di spesa stabilito dalla norma innanzi richiamata, <<possa essere motivatamente derogato, in quanto: si tratta di conferire un parere ad un legale specializzato in materia di contrattualistica e procedimenti in materia di coltivazione di cave; l'incarico deve essere conferito per individuare la corretta procedura finalizzata a conseguire il valore economico maggiore a favore della Amministrazione Comunale e, nel contempo, rispettare il ruolo di ente coinvolto nel procedimento di formazione del piano di coltivazione; data la specificità della materia, all'interno dell'Ente non vi sono figure tecnico professionali in grado di effettuare l'analisi e rilasciare il parere richiesto>>.
Prima di soffermarsi sulla questione ermeneutica prospettata dall’ente locale istante, occorre tuttavia precisare che la decisione se procedere o meno ad affidare un incarico di consulenza legale per una problematica di particolare difficoltà attiene al merito dell’azione amministrativa e rientra, ovviamente, nella piena ed esclusiva discrezionalità e responsabilità dell’ente che potrà orientare la sua decisione in base alle conclusioni contenute nel parere che segue.
L’art. 6, comma 7, del d.l. n. 78/2010, pone un chiaro limite di spesa storicizzato alla frazione di un quinto di quella sostenuta nel 2009, quale requisito per la legittimità del conferimento dell’incarico di consulenza e studio, con un espresso presidio sanzionatorio in termini di responsabilità erariale e disciplinare. In sede di referto sulla gestione, la Sezione ha già sottolineato, in merito a questa norma, che il superamento del vincolo di spesa e la violazione del regime restrittivo si traduce in una violazione di legge, costituendo vizio di validità del provvedimento amministrativo, motivo per l’annullamento d’ufficio dell’atto di affidamento sotto il profilo amministrativo, illecito disciplinare e causa di responsabilità erariale (delibera 13.12.2010 n. 1051 – indagine sul fenomeno degli incarichi di consulenza e di collaborazione autonoma affidati dagli enti locali della Lombardia nell’anno 2009).
In sede consultiva, questa Sezione ha poi precisato che <<come emerge dal tenore letterale della norma, la portata della disposizione limitativa concerne gli incarichi per studi e consulenze, senza ricomprendere né quelli di ricerca né le altre collaborazioni autonome>> (Lombardia/68/2011/PAR del 07.02.2011).
Ad ogni modo, la richiesta di parere formulata dal sindaco del Comune di Bottino ha ad oggetto un incarico di consulenza legale per una problematica di particolare difficoltà, per cui la fattispecie rientra nell’ambito applicativo della norma in esame. Infatti, <<la giurisprudenza contabile (sin dalla deliberazione SS.RR. in sede di controllo n. 6 del 15.02.2005) ha fornito un’articolata definizione degli istituti oggetto del limite di spesa: per gli incarichi di studio il riferimento è all’articolo 5 D.P.R. n. 338/1994 che richiede sempre la consegna di una relazione scritta espositiva della soluzione proposta al fine di orientare la successiva attività dell’ente, mentre le consulenze si sostanziano nella richiesta di parere ad un esperto esterno. Queste ultime possono assumere un vario contenuto (ad es. soluzione di questioni e problemi controversi, consulenze legali stragiudiziali, tecniche, tributarie e contabili), sfociando anche in valutazioni, espressioni di giudizi e supporti specialistici>> (Lombardia/68/2011/PAR del 07.02.2011).
Con riferimento a quegli enti che nel corso dell’anno 2009 non hanno sostenuto alcuna spesa a titolo di incarichi per studi e consulenze questa Sezione ha avuto modo di osservare <<la ratio sottesa alla legge statale in esame è quella di rendere operante, a regime, una riduzione della spesa per gli incarichi di consulenza e di studio; tuttavia, il Legislatore non ha inteso vietare agli enti locali la possibilità di conferire incarichi esterni quando ne ricorrono i presupposti di legge. In questo senso, verrebbe disattesa la finalità perseguita dal legislatore per quegli enti locali che nel corso dell’anno 2009 non hanno sostenuto alcuna spesa a titolo di incarichi per studi e consulenze; infatti, se si adottasse una interpretazione letterale, si finirebbe per ritenere che la norma de qua fissa un divieto assoluto alla stipula di questa tipologia di contratti. Diversamente, interpretando la norma in chiave funzionale –ovvero, valorizzando che la finalità della norma è quella di ridurre l’incidenza che questa tipologia di spesa ha sui bilanci degli enti locali e non quella di vietare agli enti medesimi di conferire incarichi esterni quando vi sussistono i presupposti di legge- si deve giungere alla conclusione che la norma de qua, per quegli enti locali che nel corso dell’anno 2009 non hanno sostenuto alcuna spesa a titolo di incarichi per studi e consulenze, va applicata individuando un diverso parametro di riferimento. D’altra parte, se non si adottasse questa interpretazione, la riduzione “lineare” prevista dall’art. 6, comma 7, cit. finirebbe per premiare gli enti meno virtuosi che, nel corso dell’anno 2009, hanno sostenuto una spesa per consulenze rilevante; al contrario, si tradurrebbe in un divieto assoluto per gli enti più virtuosi che, quello stesso anno, hanno sostenuto una spesa pari a zero>> (Lombardia, parere n. 227/2011; in senso contrario Sez. contr. Piemonte delibera n. 21/2012/SRCPIE/PAR dell’08.03.2012).
Nel caso di specie, tuttavia, l’interpretazione in chiave funzionale sin qui prospettata –ovvero, volta a limitare le spese per incarichi di collaborazione esterna e non ad eliminare detta voce di spesa dal bilancio degli enti locali- non può trovare spazio. Infatti, nella richiesta di parere il sindaco rappresenta che <<nell'anno 2009 la spesa sostenuta dal Comune di Botticino per il conferimento di incarichi di consulenza fu di € 13.000,00>>.
In conclusione, con riferimento alla fattispecie rappresentata dal Comune di Botticino, il parametro di riferimento per poter applicare il limite di spesa fissato dall’art. 6, comma 7, del d.l. n. 78/2010 è di facile individuazione in quanto l’ente locale, nel corso dell’anno del 2009, ha sostenuto spese per incarichi di studio e di consulenza; conseguentemente trova applicazione il vincolo di finanza pubblica nei termini posti dal legislatore, ovvero secondo il parametro del 20 per cento della spesa sostenuta nell’anno 2009 (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 28.03.2012 n. 88).

INCARICHI PROFESSIONALILa Sezione ha già sottolineato in merito a questa norma (ndr: art. 6, comma 7, del d.l. n. 78/2010, convertito nella l. n. 122/2010) che il superamento del vincolo di spesa e la violazione del regime restrittivo si traduce in una violazione di legge, costituendo vizio di validità del provvedimento amministrativo, motivo per l’annullamento d’ufficio dell’atto di affidamento sotto il profilo amministrativo, illecito disciplinare e causa di responsabilità erariale.
Come emerge dal tenore letterale della norma, la portata della disposizione limitativa concerne gli incarichi per studi e consulenze, senza ricomprendere né quelli di ricerca né le altre collaborazioni autonome.
L
addove l’incarico conferito dalla Pubblica Amministrazione al soggetto terzo si configuri stricto sensu quale consulenza o studio, la Sezione non ritiene possibile individuare in via interpretativa tipologie di esclusione dal tetto di spesa ex art. 6, comma 7, d.l. 78/2010, valorizzando ad esempio “l’autofinanziamento” dell’attività, atteso il chiaro tenore precettivo della disposizione e la puntuale individuazione legale dei casi di esclusione.
Invece, nel caso in cui l’incarico –rientrante nell’ampio genus delle collaborazioni autonome- non sia sussumibile in queste due specifiche prestazioni (studio o consulenza), esso non rientra nel limite di spesa in oggetto: a questo proposito, infatti, è preferibile valorizzare un’interpretazione letterale delle attività rientranti nel “tetto di spesa” in stretto raccordo con l’espresso presidio sanzionatorio.
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Con nota n. 33012 del 16.12.2010 (prot. c.c. n. 15 del 03.01.2011) il Sindaco del Comune di Garbagnate Milanese (MI) formula a questa Sezione un quesito in ordine alla deroga al limite degli incarichi per consulenza.
Nel dettaglio, la Civica Amministrazione chiede se sia possibile derogare al limite di spese per consulenze previsto dall’art. 6, comma 7, del d.l. n. 78/2010 convertito nella l. n. 122/2010, ammettendo quelle che portano ad un incremento delle entrate migliorando il saldo complessivo tra entrate e spese. Si ipotizza che un ente debba conferire un incarico professionale con compenso in percentuale sulle maggiori entrate o economie di spesa superando, con il preventivo assenso dei revisori, il limite di cui al d.l. n. 78/2010.
L’organo rappresentativo del Comune si interroga se sia possibile assimilare tale fattispecie all’esclusione dall’alveo delle spese per il personale degli incentivi per il recupero dell’ICI, a fronte dell’autofinanziamento con l’incremento delle entrate ed il conseguente miglioramento del saldo complessivo tra entrate e uscite. L’Amministrazione da ultimo osserva che, opinando in senso negativo, le finanze comunali patirebbero un significativo pregiudizio in quanto la limitazione di tali consulenze comporterebbe la perdita di maggiori entrate o economie di spesa anche di entità significativa.
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La richiesta di parere concerne l’esegesi dell’art. 6, comma 7, del d.l. n. 78/2010 (convertito nella l. n. 122/2010) che statuisce quanto segue: “al fine di valorizzare le professionalità interne alle amministrazioni a decorrere dall’anno 2011 la spesa annua per studi ed incarichi di consulenza, inclusa quella relativa a studi ed incarichi di consulenza conferiti a pubblici dipendenti, sostenuta dalle pubbliche amministrazioni di cui al comma 3 dell’art. 1 della legge 31.12.2009 n. 196, incluse le autorità indipendenti, escluse le università, gli enti e le fondazioni di ricerca e gli organismi equiparati nonché gli incarichi di studio e di consulenza connessi ai processi di privatizzazione e alla regolamentazione del settore finanziario, non può essere superiore al 20 per cento di quella sostenuta nell’anno 2009. L’affidamento di incarichi in assenza dei presupposti di cui al presente comma costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle attività sanitarie connesse con il reclutamento, l’avanzamento e l’impiego del personale delle Forze Armate, delle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco”.
La disposizione pone un chiaro limite di spesa storicizzato alla frazione di un quinto di quella sostenuta nel 2009, quale requisito per la legittimità del conferimento dell’incarico di consulenza e studio, con un espresso presidio sanzionatorio in termini di responsabilità erariale e disciplinare.
In sede di referto sulla gestione la Sezione ha già sottolineato in merito a questa norma che il superamento del vincolo di spesa e la violazione del regime restrittivo si traduce in una violazione di legge, costituendo vizio di validità del provvedimento amministrativo, motivo per l’annullamento d’ufficio dell’atto di affidamento sotto il profilo amministrativo, illecito disciplinare e causa di responsabilità erariale (delibera 13.12.2010 n. 1051 – indagine sul fenomeno degli incarichi di consulenza e di collaborazione autonoma affidati dagli enti locali della Lombardia nell’anno 2009).
Come emerge dal tenore letterale della norma, la portata della disposizione limitativa concerne gli incarichi per studi e consulenze, senza ricomprendere né quelli di ricerca né le altre collaborazioni autonome.
Al fine di cogliere nel concreto i confini di tale summa divisio tra attività ricomprese ed escluse dall’alveo dell’art. 6, comma 7, d.l. n. 78/2010, il Collegio rammenta che la giurisprudenza contabile (sin dalla deliberazione SS.RR. in sede di controllo n. 6 del 15.02.2005) ha fornito un’articolata definizione degli istituti oggetto del limite di spesa: per gli incarichi di studio il riferimento è all’articolo 5 D.P.R. n. 338/1994 che richiede sempre la consegna di una relazione scritta espositiva della soluzione proposta al fine di orientare la successiva attività dell’ente, mentre le consulenze si sostanziano nella richiesta di parere ad un esperto esterno. Queste ultime possono assumere un vario contenuto (ad es. soluzione di questioni e problemi controversi, consulenze legali stragiudiziali, tecniche, tributarie e contabili), sfociando anche in valutazioni, espressioni di giudizi e supporti specialistici.
Premesse tali generali coordinate ermeneutiche, laddove l’incarico conferito dalla Pubblica Amministrazione al soggetto terzo si configuri stricto sensu quale consulenza o studio, la Sezione non ritiene possibile individuare in via interpretativa tipologie di esclusione dal tetto di spesa ex art. 6, comma 7, d.l. 78/2010, valorizzando ad esempio “l’autofinanziamento” dell’attività, atteso il chiaro tenore precettivo della disposizione e la puntuale individuazione legale dei casi di esclusione.
Invece, nel caso in cui l’incarico –rientrante nell’ampio genus delle collaborazioni autonome- non sia sussumibile in queste due specifiche prestazioni (studio o consulenza), esso non rientra nel limite di spesa in oggetto: a questo proposito, infatti, è preferibile valorizzare un’interpretazione letterale delle attività rientranti nel “tetto di spesa” in stretto raccordo con l’espresso presidio sanzionatorio.
Allo stato –ferma la mancanza dei necessari elementi di fatto per una compiuta cognizione della fattispecie– non appare agevole inquadrare le attività indicate dal Comune nell’alveo degli incarichi di consulenza e di studio ut supra descritti. Nella fattispecie oggetto del quesito, infatti, sembra venire in emersione una modalità di provvista dell’apparato comunale per lo svolgimento di attività nuove o diverse rispetto a quelle ordinarie svolte dall’ente locale mediante i propri uffici tecnici ed amministrativi: orbene, queste attività ulteriori non paiono comunque esaurirsi nella consegna al Comune di una relazione scritta o nella richiesta di parere o di giudizio ad un esperto extraneus all’Amministrazione.
Per completezza, si precisa che il conferimento dell’incarico di collaborazione finalizzato alla provvista del predetto apparato, benché tale da comportare un saldo finanziario positivo, deve rispettare puntualmente i requisiti di legittimità ex art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001 sui quali si è più volte soffermata la giurisprudenza della Sezione (da ultimo, cfr. la citata delibera 13.12.2010 n. 1051) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 07.02.2011 n. 68).

NEWS

TRIBUTIImu allo 0,2%, gettito allo stato. I comuni non potranno più ridurre l'aliquota allo 0,1%. I chiarimenti del dipartimento delle finanze sui fabbricati rurali ad uso strumentale
Il gettito dell'Imu relativo ai fabbricati rurali ad uso strumentale classificati nel gruppo catastale D è riservato allo stato ad aliquota 0,2%, che i comuni non possono più ridurre allo 0,1%. Per gli altri immobili ad uso produttivo, il gettito Imu è riservato allo stato ad aliquota standard dello 0,76%, che i comuni possono solo aumentare fino a 0,3 punti percentuali, ma non ridurre. I comuni devono modificare le disposizioni regolamentari che stabiliscono per detti immobili un'aliquota inferiore a quella standard.

Questi sono i principi che si ricavano dalla
risoluzione 28.03.2013 n. 6/DF
della direzione legislazione tributaria e federalismo fiscale del dipartimento delle finanze del Mineconomia (si veda ItaliaOggi del 29.03.2013).
La questione è connessa al fatto che il comma 380 dell'art. 1 della legge n. 228/12 stabilisce che il gettito dell'Imu, derivante dagli immobili ad uso produttivo classificati nel gruppo catastale D, è calcolato ad aliquota standard dello 0,76%, prevista dal comma 6, primo periodo, dell'art. 13 del dl n. 201/2011. Detta norma non fa alcuna menzione del gettito relativo ai fabbricati rurali ad uso strumentale classificati nel gruppo catastale D.
È stato chiarito che il gettito Imu che deriva da detti immobili deve comunque essere attribuito allo stato sia pure con l'aliquota dello 0,2%, prevista dall'art. 13, comma 8, del dl n. 201. La soluzione offerta trova una sua motivazione nella circostanza che per questi immobili il legislatore dell'Imu ha creato un particolare regime agevolato prevedendo espressamente l'aliquota ridotta allo 0,2%. Ciò comporta che le disposizioni del comma 380, dell'art. 1 della legge n. 228/2012, non possono avere il significato di calpestare tale sistema per così dire «speciale» e legittimare l'applicazione per i fabbricati rurali ad uso strumentale dell'aliquota standard dello 0,76%. Anche dal punto di vista logico tale argomentazione non sembra avere alcun supporto, in quanto l'aliquota Imu per tali immobili potrebbe paradossalmente passare dallo 0,1% al 1,06%, per effetto del possibile aumento di tre punti percentuali.
Secondo i tecnici del ministero, l'unico effetto della norma della legge di stabilità per il 2013 per i fabbricati rurali ad uso strumentale all'attività agricola, classificati nel gruppo catastale D, è quello di riservare allo stato il gettito con l'aliquota dello 0,2%, che peraltro i comuni non possono certo ridurre dello 0,1%, come consentiva loro il comma 8 dell'art. 13 del dl n. 201/2011.
Le modifiche della legge di stabilità sono destinate a condizionare la manovrabilità delle aliquote da parte dei comuni che, per effetto della riserva allo stato del gettito dell'Imu derivante dagli immobili ad uso produttivo classificati nel gruppo D, ad aliquota dello 0,76%, potranno intervenire solo aumentando detta aliquota sino a 0,3 punti percentuali, assicurandosi tale maggior gettito, ma non potranno, invece, ridurla. Ciò determina l'incompatibilità delle nuove norme con le disposizioni dell'art. 13 del dl n. 201/2011 che:
• al comma 9, stabilisce che i comuni possono ridurre l'aliquota di base fino allo 0,4% nel caso di immobili non produttivi di reddito fondiario ai sensi dell'art. 43 Tuir, di immobili posseduti dai soggetti passivi dell'Ires, o di immobili locati;
• al comma 9-bis accorda ai comuni la possibilità di ridurre l'aliquota di base fino allo 0,38% per i fabbricati costruiti e destinati dall'impresa costruttrice alla vendita, fintanto che permanga tale destinazione e non siano in ogni caso locati, e comunque per un periodo non superiore a tre anni dall'ultimazione dei lavori.
Tali innovazioni influenzano le disposizioni regolamentari adottate dai comuni per il 2012, giacché le disposizioni che stabiliscono un'aliquota inferiore a quella dello 0,76% con riferimento agli immobili ad uso produttivo classificati nel gruppo D non sono più applicabili per il 2013, per cui i comuni devono approntare le necessarie modificazioni (articolo ItaliaOggi del 30.03.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIncarichi. Compensi comunicati in 15 giorni.
Dal 28 novembre scorso, i soggetti pubblici o privati che erogano compensi ai dipendenti pubblici per incarichi devono comunicare entro 15 giorni l'avvenuta erogazione e la relativa somma all'amministrazione di appartenenza del dipendente. E scatta l'illecito disciplinare per il dirigente che non si sia preoccupato di effettuare tale comunicazione.

È quanto ricorda la Ragioneria generale dello stato nel testo della
circolare 29.03.2013 n. 16
, con cui fa chiarezza sulla portata applicativa delle disposizioni contenute all'articolo 1, comma 42 della legge anticorruzione che ha modificato il testo dall'articolo 53, comma 11 del Testo unico sul pubblico impiego. Come noto, la norma contenuta nella legge n. 190/2012, dispone che entro 15 giorni dall'erogazione del compenso, i soggetti pubblici o privati sono tenuti a darne comunicazione all'amministrazione di appartenenza.
Ne consegue, scrive il documento firmato dal Ragioniere dello stato, Mario Canzio, che dal 28.11.2012 (data di entrata in vigore della predetta legge n. 190), i compensi erogati siano soggetti al termine di comunicazione sopra evidenziato. Mentre, per quanto riguarda i compensi erogati ai dipendenti pubblici in data anteriore al 28/11/2012, resta invariato la scadenza prevista del 30.04.2013 per l'inoltro delle comunicazioni.
Sul versante delle modalità di comunicazione, la stessa Rgs precisa che le informazioni sui compensi dovranno avvenire tramite Posta elettronica certificata (Pec), sottolineando come, per effetto delle disposizioni contenute nel codice dell'amministrazione digitale, ogni amministrazione pubblica, incluse le società interamente partecipate da enti pubblici o a prevalenza di capitale pubblico, è tenuta ad istituire e a pubblicare sul proprio sito istituzionale almeno una casella Pec.
La circolare, poi, evidenzia che rimangono invariate le modalità di inoltro delle comunicazioni dei compensi relativi agli incarichi ricoperti da dirigenti di prima e seconda fascia, che sono sottoposti al regime di onnicomprensività del trattamento economico (articolo ItaliaOggi del 30.03.2013).

EDILIZIA PRIVATAConsulenti esperti della pubblica amministrazione. La valorizzazione del patrimonio architettonico dei comuni passa dai professionisti. Al via l'elenco su base provinciale.
Si chiama Vol (Valorizzazione online) ed è una opportunità concreta per accedere ad un elenco provinciale di consulenti esperti per valutare e valorizzare il patrimonio immobiliare di piccoli e grandi comuni e, in generale, delle amministrazioni pubbliche.
L'idea è quella di recuperare la ricchezza contenuta in palazzi, edifici, caserme, scuole e abitazioni dismesse, la cui mancata riqualificazione si configura come uno dei veri grandi sprechi della cosa pubblica. Grazie ad un progetto pilota, cui va dato merito ai colleghi geometri di averne curato la fattibilità, ora i periti industriali liberi professionisti possono formare ed aggiornare le loro competenze per analizzare e censire il patrimonio pubblico, per poi seguire la fattibilità e l'esecuzione dei relativi progetti di riqualificazione.
In sostanza, è un'occasione per intensificare l'affidamento di incarichi direttamente dalle pubbliche amministrazioni locali verso i liberi professionisti che si sono accreditati come consulenti esperti.
Cosa fare?
Si tratta di abilitarsi alla piattaforma Vol accedendo a www.abitantionline.it  seguendo le indicazioni contenute nel sito o, in alternativa, esplicitate in www.eppi.it, accedendo direttamente a una pagina guida online. La piattaforma operativa è realizzata dalla Cassa depositi e prestiti, in collaborazione con la Cassa geometri e condivisa a livello istituzionale con la Fondazione patrimonio comune dell'Anci, l'Associazione nazionale dei comuni italiani.
L'Eppi, in sintonia con il Consiglio nazionale, è intervenuto come socio promotore della Fondazione patrimonio comune, che ha il fine di guidare e assistere, in modalità interattiva, le amministrazioni pubbliche appunto interessate a recuperare e valorizzare il proprio patrimonio. Tale partecipazione diretta permette di coinvolgere i periti industriali in questo progetto: tutti coloro accreditati e in grado di utilizzare la procedura Vol potranno richiedere l'iscrizione in un elenco provinciale dal quale i comuni o le amministrazioni pubbliche potranno agevolmente procacciarsi le professionalità necessarie al loro specifico progetto esecutivo.
Accredito gratuito
Gli enti di previdenza che partecipano alla Fondazione patrimonio comune non solo hanno promosso l'iniziativa ma garantiscono che il rilascio dell'attestato sia gratuito, a condizione però che la posizione dell'iscritto che intenda formarsi sia regolare, altrimenti la partecipazione al Vol è libera ma a pagamento (145 euro). Va anche detto, per trasparenza, che la conoscenza della procedura è obbligatoria solo per le consulenze con il comune, o più in generale l'ente locale o amministrazione pubblica, che intende valorizzare il proprio patrimonio con un intervento economico della Cassa depositi e prestiti e un'assistenza della Fondazione patrimonio comune.
Per tutti gli altri affidamenti o incarichi professionali che il comune o la pubblica amministrazione riterrà di conferire per attività professionali anche identiche, senza però avvalersi degli importanti contributi stanziati dalla Cassa depositi e prestiti, non servirà conoscere la procedura Vol perché l'Ente locale potrà procedere in maniera discrezionale (articolo ItaliaOggi del 29.03.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTIChiamata Imu per le imprese. Capannoni, la dichiarazione 2012 entro il 2 aprile. Una risoluzione delle Finanze sui beni su cui sono stati computati costi aggiuntivi.
Il termine di presentazione della dichiarazione Imu relativa ai fabbricati classificabili nel gruppo catastale D, non iscritti in catasto, ovvero iscritti, ma senza attribuzione di rendita, interamente posseduti da imprese e distintamente contabilizzati per i quali sono stati computati costi aggiuntivi a quelli di acquisizione, decorre dai 90 giorni dalla data della chiusura del periodo di imposta relativo alle imposte sui redditi.
Il periodo d'imposta è quello in cui il contribuente è in possesso di tutti gli elementi necessari per la determinazione della base imponibile. La dichiarazione relativa all'Imu 2012 deve essere presentata entro il prossimo 02.04.2013, sulla base dei coefficienti fissati nel dm 05.04.2012. Quella relativa all'Imu per l'anno 2013 dovrà essere presentata entro 90 giorni dal 31.12.2013, e cioè entro il 31.03.2014.

Sono questi, in sintesi, i concetti che si deducono dalla
risoluzione 28.03.2013 n. 6/DF della Direzione legislazione tributaria e federalismo fiscale del Dipartimento delle finanze del Ministero dell'economia e delle finanze, questa volta alle prese con la disciplina dei fabbricati classificabili nel gruppo catastale D, non iscritti in catasto, ovvero iscritti, ma senza attribuzione di rendita, interamente posseduti da imprese e distintamente contabilizzati.
Per detti immobili l'art. 5, comma 3, del dlgs n. 504 del 1992 stabilisce che fino all'anno nel quale i fabbricati sono iscritti in catasto con attribuzione di rendita, il valore è determinato alla data di inizio di ciascun anno solare ovvero, se successiva, alla data di acquisizione ed è costituito dall'ammontare, al lordo delle quote di ammortamento, che risulta dalle scritture contabili, applicando per ciascun anno di formazione dello stesso, i coefficienti aggiornati ogni anno con decreto del Ministero dell'economia e delle finanze, sulla base dei dati risultanti all'Istat sull'andamento del costo di costruzione di un capannone.
Tale valore ai fini Imu è, pertanto, formato dal costo originario di acquisto/costruzione compreso il costo del terreno, dalle spese incrementative, dalle rivalutazioni economico/fiscali, eventualmente effettuate, dagli interessi passivi capitalizzati e dai disavanzi di fusione, come risultante dalle scritture contabili al 1° gennaio dell'anno in riferimento al quale è dovuta l'Imu.
Il problema prospettato ai tecnici del Mef è l'esatto termine che l'art. 13, comma 12-ter, del dl 06.12.2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214, stabilisce quale data «in cui il possesso degli immobili ha avuto inizio o sono intervenute variazioni rilevanti ai fini della determinazione dell'imposta» dal quale far decorrere i 90 giorni per presentare la dichiarazione Imu.
Già nelle istruzioni allegate al modello di dichiarazione Imu, approvato con dm 30.10.2012, al paragrafo «1.5 - Quando deve essere presentata la dichiarazione» è stato precisato che per tale tipologia di immobili «per i quali sono stati computati costi aggiuntivi a quelli di acquisizione, la data da considerare, ai fini della decorrenza dei 90 giorni è quella della chiusura del periodo di imposta relativo alle imposte sui redditi».
Ora però ci si chiede se la chiusura del periodo di imposta, a partire dal quale deve essere computato il termine di 90 giorni per la presentazione della dichiarazione, debba identificarsi con:
• quello nel quale sono stati contabilizzati i costi aggiuntivi che generano l'obbligo dichiarativo e, quindi, se la dichiarazione deve essere presentata entro 90 giorni dalla chiusura del periodo d'imposta nel quale sono stati sostenuti i costi incrementativi;
• quello in cui l'incremento del valore dovuto ai costi aggiuntivi ha efficacia ai fini del versamento dell'Imu, ossia il periodo d'imposta di riferimento per la determinazione del valore che costituisce la base imponibile per il versamento della relativa imposta annuale.
Nella risoluzione viene chiarito che il periodo d'imposta dalla chiusura del quale decorrono i 90 giorni non può che essere quello in cui il contribuente è in possesso di tutti gli elementi necessari per la determinazione della base imponibile.
Nel primo caso, infatti, potrebbero mancare i coefficienti per la determinazione del valore contabile dei fabbricati, considerato che il decreto di aggiornamento di detti coefficienti viene normalmente emanato successivamente alla scadenza dei 90 giorni dalla chiusura del periodo d'imposta nel quale sono stati sostenuti i costi incrementativi.
E così, ad esempio, se i costi incrementativi del valore degli immobili sono stati sostenuti nel corso del 2012, l'incremento del valore dell'immobile deve essere preso in considerazione per il versamento dell'Imu relativo all'anno 2013, poiché è in questo anno che il contribuente viene a conoscenza dei coefficienti di aggiornamento del valore degli immobili. Ciò comporta che:
- la dichiarazione dell'Imu per l'anno 2013 dovrà essere presentata entro 90 giorni dal 31.12.2013, ossia entro il 31.03.2014;
- la dichiarazione relativa all'Imu 2012 deve essere presentata entro il prossimo 02.04.2013, sulla base dei coefficienti fissati nel dm 05/05/ 2012.
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Le detrazioni e le aliquote valide solo se su internet.
Dal 2013 l'efficacia delle deliberazioni di approvazione delle aliquote e della detrazione dell'Imu, decorre dalla data di pubblicazione nel sito informatico www.finanze.it a condizione che la pubblicazione avvenga entro il 30 aprile dell'anno a cui la delibera si riferisce. Il diritto di abitazione che attribuisce la soggettività passiva Imu all'ex coniuge prevale in tutte le ipotesi in cui l'assegnazione della casa coniugale sia disposta con provvedimento giudiziale, ma non nel caso in cui è oggetto di un contratto di locazione.
Sono due chiarimenti offerti dalla
risoluzione 28.03.2013 n. 5/DF
delle Finanze.
Essa ribadisce che in caso di mancata pubblicazione sul sito delle Finanze entro il termine del 30 aprile, le aliquote e la detrazione si intendono prorogate di anno in anno. Per far sì che tale meccanismo funzioni perfettamente è necessario che dette aliquote siano inviate dal comune al Dipartimento entro il 23.04.2013. Pertanto il contribuente, chiamato a versare la prima rata dell'Imu entro il 17 giugno (visto che il 16 è domenica) deve calcolarlo tenendo conto delle aliquote pubblicate, entro il 30.04.2013, sul sito www.finanze.it.
Se il comune intende modificare per il 2013 le aliquote approvate per l'anno 2012, deve inviare le nuove deliberazioni esclusivamente inserendole nell'apposita sezione del Portale del federalismo fiscale, entro il 23.04.2013. Se vuole confermare le aliquote 2012 deve solo accertarsi che la deliberazione 2012 sia stata pubblicata sul sito. In assenza, il contribuente applicherà le aliquote di legge.
L'ulteriore caso che può verificarsi è che al 30.04.2013 non ci sia sul sito nessuna deliberazione del comune relativa al 2013; se ciò accadrà il contribuente dovrà verificare se risulta pubblicata la deliberazione relativa al 2012 che, risulta valida anche per il 2013. Nell'ipotesi in cui non risulti pubblicata sul sito neanche la deliberazione per l'anno 2012, il contribuente non potrà far altro che applicare le aliquote fissate dalla legge (si veda ItaliaOggi del 20/03/2013).
Casa coniugale
Per quanto riguarda l'applicazione dell'Imu alla ex casa coniugale, per legge «l'assegnazione della casa coniugale al coniuge, disposta a seguito di provvedimento di separazione legale, annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, si intende in ogni caso effettuata a titolo di diritto di abitazione». Questo, «in ogni caso», fa propendere per l'interpretazione in base alla quale il diritto di abitazione deve prevalere in tutte le ipotesi in cui l'assegnazione della casa coniugale al coniuge sia disposta con provvedimento giudiziale.
Fa eccezione il caso in cui il legislatore ha disciplinato espressamente la fattispecie, come è avvenuto con l'art. 6 della legge 27.07.1978, n. 392, il quale prevede che «in caso di separazione giudiziale, di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili dello stesso, nel contratto di locazione succede al conduttore l'altro coniuge, se il diritto di abitare nella casa familiare sia stato attribuito dal giudice a quest'ultimo».
I tecnici del Ministero hanno precisato che in questa ipotesi il legislatore ha previsto direttamente la successione nel contratto di locazione da parte del coniuge assegnatario, che, pertanto, utilizza l'immobile sulla base di un titolo giuridico diverso da quello del diritto reale di abitazione previsto, dall'art. 4, comma 12-quinquies del dl n. 16 del 2012.
Tali valutazioni portano alla conclusione che quest'ultima norma opera solo se l'immobile assegnato sia di proprietà, interamente o pro-quota, del coniuge non assegnatario e in quello in cui lo stesso immobile sia stato concesso in comodato, ma non se esso sia oggetto di un contratto di locazione (articolo ItaliaOggi del 29.03.2013).

APPALTI - ENTI LOCALITriplice scadenza in comune. Spending review, centrale committenza, Patto 2012. Al 31 marzo si concentrano una serie di appuntamenti importanti per gli enti.
Comunicazione agli Interni degli importi tagliati dalla spending review e non utilizzati per l'estinzione o la riduzione del debito. Invio al Mef della certificazione relativa al Patto 2012. Avvio della centrale unica di committenza. Tre scadenze importanti per i comuni che si sovrappongono tutte nella stessa data: il 31 marzo 2013.
Il primo adempimento (previsto dall'art. 16, comma 6-bis, del dl 95/2012) riguarda solo i municipi soggetti al Patto dello scorso anno (sono esclusi, pertanto, quelli sotto i 5 mila abitanti).
Esso impone di comunicare alla Prefettura-Utg (che a sua volta la inoltrerà al Viminale) la quota del taglio previsto dal comma 6 del medesimo art. 16 (pari, complessivamente, a 500 milioni) eventualmente non utilizzata dagli enti per ridurre il proprio «rosso» e che, quindi, verrà decurtata sulle spettanze 2013. Al riguardo, si rammenta che si possono considerare utilmente perfezionate le operazioni di estinzione o di riduzione anticipata del debito per le quali il relativo impegno di spesa sia stato effettuato entro il 31.12.2012 e il relativo mandato di pagamento risulti emesso entro la medesima data del 31.12.2012, anche se poi tale mandato risulti estinto dal tesoriere nei primi giorni di gennaio 2013. Il Ministero dell'interno ha anche precisato che saranno valide le comunicazioni effettuate entro il 2 aprile, quale primo giorno seguente non festivo successivo alla scadenza del termine.
Analoga precisazione, invece, non è arrivata rispetto al secondo adempimento, ovvero la certificazione del Patto 2012 (regolata dall'art. 31, comma 20, della l 183/2011). Pertanto, è opportuno che l'invio alla Ragioneria generale dello Stato della raccomandata contenente il modello e i relativi prospetti, debitamente sottoscritti dal rappresentante legale, dal responsabile del servizio finanziario e dai revisori, avvenga entro domani (farà fede la data del timbro postale). Anche in tal caso, sono esclusi i piccoli comuni.
Questi ultimi, invece, sono interessati dalla terza scadenza, certamente la più complessa. Entro il 31 marzo, infatti, essi devono rendere operative le centrali uniche di committenza, accorpando gli uffici che gestiscono gli appalti per la realizzazione di lavori pubblici e per l'acquisizione di beni e servizi. Lo prevede l'art. 33, comma 3-bis, del dlgs 163/2006, introdotto dall'art. 23, comma 4, del dl 201/2011, la cui disciplina si applica alle gare bandite successivamente al 31.03.2013.
Due le modalità attuative: in via prioritaria, l'unione di comuni ex art. 32 tuel, ovvero, in subordine, un accordo consortile (da intendersi verosimilmente come convenzione ai sensi dell'art. 30 Tuel). In mancanza, scatta l'obbligo di rivolgersi alle centrali di committenza già esistenti o di passare attraverso il mercato elettronico della p.a. (articolo ItaliaOggi del 29.03.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Un quorum arrotondato. Ma vince l'autonomia normativa dell'ente. Il computo dei due terzi dei consiglieri e il peso del voto del sindaco.
Quesito: Per l'approvazione delle modifiche dello statuto comunale, il voto del sindaco deve essere computato ai fini del quorum strutturale del consiglio comunale? Quale criterio viene adottato qualora il computo dei due terzi dei consiglieri, richiesto per l'approvazione delle norme statutarie, assommi a una cifra decimale?

Sull'argomento in questione non si riscontrano univoci orientamenti giurisprudenziali (cfr. Tar Puglia sent. 1301/2004, Tar Lazio, sez. II-ter, sentenza n. 497/2011 e Tar Lombardia sentenza n. 1604/2011); si osserva che l'art. 6, comma 4, del Tuoel n. 267/2000 dispone che «gli statuti sono deliberati dai rispettivi consigli con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche alle modifiche statutarie».
La normativa in esame ha previsto un «procedimento aggravato» per l'approvazione delle norme statutarie, nonché delle relative modifiche, sia disponendo che, in caso di mancata approvazione dei due terzi dell'assemblea si debba ripetere la votazione entro 30 giorni, sia prescrivendo che lo statuto sia approvato se ottiene per due volte -in sedute successive- il voto favorevole della maggioranza assoluta dei membri assegnati al collegio.
L'approvazione dello statuto, pertanto, attesa la natura di atto normativo «fondamentale» sua propria, comporta che su di esso converga il più elevato numero di consensi attraverso un'ampia discussione e comparazione d'interessi da parte della maggioranza e dell'opposizione consiliare. Tale particolare esigenza ha determinato, conseguentemente, la previsione di maggioranze speciali disponendo che i quorum, rispettivamente della prima e delle altre votazioni, siano ragguagliati ai due terzi o alla maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati.
Pertanto, l'iter deliberativo di approvazione dello statuto e delle sue modifiche comporta che in sede di prima votazione la delibera sia approvata con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati ivi compreso il sindaco, che è componente del consiglio comunale ai sensi dell'art. 37 del citato Testo unico.
Si osserva, infatti, che nelle ipotesi in cui l'ordinamento non ha inteso computare il sindaco, o il presidente della provincia, nel quorum richiesto per la validità di una seduta, lo ha indicato espressamente usando la formula «senza computare a tal fine il sindaco ed il presidente della provincia».
Ove il quorum non venga raggiunto, si apre un'ulteriore fase procedimentale per la quale lo statuto è approvato «se ottiene per due volte il voto favorevole dalla maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati».
Le due votazioni per le quali la legge richiede la maggioranza assoluta, da tenersi entro trenta giorni, termine che dalla lettura della norma appare ordinatorio, possono anche non essere consecutive, ma intervallate da una o più votazioni infruttuose.
Nell'ipotesi in cui lo statuto non sia approvato alla prima votazione con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati, è sempre necessario procedere alle previste ulteriori due votazioni a «maggioranza assoluta», con la conseguenza che, complessivamente, le votazioni assommeranno al numero di tre.
Secondo la linea interpretativa ritenuta preferibile, qualora l'ente, nella propria autonomia normativa non abbia fornito indicazioni in merito alla regola da applicarsi in tutti i casi in cui il computo dei consiglieri necessario a vari fini assommi ad una cifra decimale, può trovare applicazione il criterio dell'arrotondamento aritmetico che ha, di per sé, carattere oggettivo e risulta indicato in varie norme di diritto positivo, come ad esempio, l'art. 47, comma 1, del dlgs n. 267/2000.
Detto criterio implica, com'è noto, che in caso di cifra decimale uguale o inferiore a 50, l'arrotondamento debba essere effettuato per difetto, mentre nel caso in cui essa sia superiore a 50 si procederà ad arrotondamento per eccesso (articolo ItaliaOggi del 29.03.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAnticorruzione avanti Piano. Il termine del 31 marzo per il varo non è perentorio. Lo chiarisce la Civit rispondendo ai quesiti di molte amministrazioni pubbliche.
Più tempo per adottare i piani anticorruzione. Il termine del 31.03.2013 non è da considerare perentorio.
Lo chiarisce la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche (Civit) nella sua veste di Autorità nazionale anticorruzione, in risposta a una serie di quesiti posti da molte amministrazioni pubbliche.
Spiega la Civit che il termine del 31 marzo, entro il quale gli organi di governo debbono approvare il piano triennale di prevenzione della corruzione non è perentorio. Sono, infatti, perentori esclusivamente i termini la cui violazione comporti la decadenza dalla possibilità di esercitare il potere o la funzione o l'obbligazione ad esso connessi.
La Civit osserva che il termine del 31 marzo non può essere considerato perentorio perché la sua violazione non comporta alcuna perdita del potere/dovere delle amministrazioni di adottare il piano anticorruzione.
Pertanto, le amministrazioni, ivi comprese regioni ed enti locali, avranno maggior tempo a disposizione di quello fissato dalla legge 190/2012, anche in considerazione, spiega ancora la Civit, del fatto che non è stato ancora adottato il piano nazionale anticorruzione, i cui contenuti debbono essere una guida ed una direttiva per la redazione dei piani di ciascuna singola amministrazione.
L'avviso espresso dalla Civit specifica che «per quanto riguarda le amministrazioni centrali e gli enti nazionali, il Piano triennale dovrà essere adottato entro il tempo strettamente necessario e secondo le linee indicate nel Piano nazionale anticorruzione, dopo l'approvazione dello stesso da parte della Commissione». Ma nulla vieta che gli enti si sforzino di adottare il piano ancora prima e di adattarlo successivamente alla vigenza del piano nazionale.
Le indicazioni della Civit risultano particolarmente utili non tanto per risolvere la questione sul valore, perentorio o meno, del termine. La semplice lettura delle disposizioni della legge 190/2012 era sufficiente per rendersi conto che si trattava di un termine solo ordinatorio o sollecitatorio. Piuttosto, laddove la Civit evidenzia la possibilità per gli enti di attendere i contenuti del piano nazionale, chiarisce indirettamente che in questa fase l'adozione dei piani oltre i termini fissati dalla legge non può comportare alcuna responsabilità.
Occorre ricordare che la Civit, quale Autorità nazionale anti corruzione, dispone di poteri ispettivi e sanzionatori nei riguardi delle amministrazioni. Riconoscendo che in questo primo avvio del sistema anticorruzione il termine del 31 marzo è solo ordinatorio, la Civit sostanzialmente si priva della possibilità di attivare procedure sanzionatorie (articolo ItaliaOggi del 28.03.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ricorsi straordinari da pagare. Le prefetture dovranno vigilare sul contributo unificato. Il Dipartimento per gli affari interni sulla verifica del versamento dell'imposta di bollo.
Sui ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica, notificati dal 06.07.2011 in poi, le prefetture dovranno preliminarmente verificare l'obbligo di pagamento del contributo unificato, oggi fissato nella misura di 650 euro. In caso negativo, gli uffici dovranno invitare la parte ricorrente a provvedervi entro un mese e, qualora tale obbligo fosse ulteriormente disatteso, a trasmettere il carteggio all'ufficio dell'Agenzia delle entrate per la successiva riscossione.
Per i ricorsi presentati entro la predetta data del 06.07.2011 e che tuttora restano in fase istruttoria, le prefetture dovranno accertare il regolare assolvimento dell'imposta di bollo.

È quanto ha precisato il Dipartimento per gli affari interni e territoriali del ministero dell'interno, nel testo della
circolare 27.03.2013 n. 9/2013
, che sgombera il campo dagli ultimi dubbi in materia di applicazione del contributo unificato anche sui ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica.
Un obbligo, questo, introdotto con le misure anticrisi contenute all'articolo 37, comma 6, del dl 98/2011 e che di recente, con l'articolo 1, comma 25, della legge di stabilità per il 2013 è stato oggetto di revisione, almeno nella parte in cui innalza la misura fissa del contributo da 600 a 650 euro.
La nota del Viminale interviene dopo che il ministero dell'economia ha fornito risposta a vari quesiti applicativi in materia, soprattutto sull'individuazione dell'ufficio competente ad esigere il contributo e alle modalità di versamento. Sulla scorta di queste indicazioni, pertanto, il documento in esame prescrive che sui ricorsi notificati dopo il 06.07.2011 presso le prefetture o presso gli uffici del ministero, gli uffici competenti verifichino l'avvenuto pagamento integrale del contributo unificato e, in caso negativo, assegnino al ricorrente il termine di un mese per provvedere all'obbligo. Scaduto infruttuosamente tale termine, il carteggio dovrà essere trasmesso senza alcun indugio al locale ufficio dell'Agenzia delle entrate, competente per la fase della riscossione.
Della procedura vengono investiti anche gli enti locali. Nel caso di ricorsi presentati presso tali enti, infatti, il Viminale si preoccupa che tali enti dispongano la verifica di cui sopra attraverso i propri uffici e, in caso di omesso versamento, procedano nei riguardi degli interessati informando contestualmente le prefetture sullo stato del procedimento. Infine, precisa la circolare, per i ricorsi antecedenti al 06.07.2011 ed ancora in fase istruttoria, gli uffici preposti dovranno verificare il regolare assolvimento delle disposizioni in materia di imposta di bollo, anche qui investendo gli uffici tributari in caso di mancata osservanza di tale obbligo.
Resta inteso che sarebbe opportuno che le stesse prefetture, nell'emanazione di qualsiasi provvedimento suscettibile di essere impugnato per via amministrativa, adottino una formula da includere nel testo che informi i destinatari sulle disposizioni che regolano la materia, anche con riferimento al versamento del contributo unificato (articolo ItaliaOggi del 28.03.2013).

TRIBUTI: La moschea è sempre esente dall'Ici
Per il riconoscimento delle agevolazioni fiscali agli immobili adibiti al culto prevale la sostanza sulla forma. Dunque, un immobile destinato a moschea non paga l'Ici anche se è iscritto in catasto come opificio. Nonostante questa destinazione sia solo parziale.

Lo ha stabilito la commissione tributaria regionale di Milano, sezione XIII, con la sentenza 28.12.2012 n. 176.
Per i giudici d'appello, prevale l'uso effettivo dei locali sia sull'accatastamento sia sulla formale indicazione degli scopi statutari di chi utilizza l'immobile. Infatti, l'immobile in questione ancorché catastalmente classificato come «D/1» (opificio) e non come «E/7» (fabbricato per l'esercizio di culto), di fatto era utilizzato come luogo di culto, in determinate fasce orarie della giornata, e luogo di ritrovo degli iscritti a un'associazione.
Secondo la commissione, queste attività «rappresentano una ulteriore manifestazione dell'esercizio del culto della religione islamica che detta precise regole di accoglienza e di assistenza dei propri fedeli». Peraltro viene richiamata nella sentenza una pronuncia del tribunale di Lecco, che aveva riconosciuto l'edificio come luogo di culto utilizzato dalla comunità di religione musulmana.
In effetti l'articolo 7, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 504/1992 riconosce l'esenzione ai fabbricati, e loro pertinenze, destinati esclusivamente all'esercizio del culto, purché compatibile con i principi contenuti negli articoli 8 e 19 della Costituzione. Esercitare in privato il culto è un diritto costituzionalmente garantito a tutti.
Del resto la Cassazione (sentenza 6316/2005), a proposito di un fabbricato utilizzato dal vescovo, ha affermato che è esente dall'Ici, anche se non si tratti di immobile avente finalità dirette di culto, a condizione che venga destinato allo svolgimento delle funzioni pastorali. Per i giudici di legittimità, il primo scopo di un ordine religioso è la formazione di comunità in cui si esercita la vita associativa quale presupposto per la catechesi, l'elevazione spirituale dei membri e la preghiera in comune.
Pertanto, la classificazione catastale di un fabbricato non può condizionare il riconoscimento di un'agevolazione fiscale. L'esenzione spetta agli enti non commerciali anche se l'inquadramento catastale dell'immobile non sia coerente con la loro attività istituzionale. La situazione di fatto prevale rispetto all'accatastamento del bene, considerato che per la normativa Ici quello che conta è la destinazione concreta dell'immobile, a prescindere dal dato formale (articolo ItaliaOggi del 27.03.2013).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Decreto sulla segnaletica nei cantieri. Lavori in corso, sicurezza doc.
I lavoratori impegnati sulle strade dove scorre il traffico veicolare devono essere specificamente formati alla particolare mansione. Evidenti cautele dovranno poi essere osservate dal datore di lavoro in condizioni meteorologiche avverse.

Lo ha evidenziato il decreto interministeriale 04.03.2013 che fissa i criteri per l'apposizione della segnaletica stradale destinata alle attività lavorative che si svolgono in presenza di traffico veicolare.
Il comunicato dell'avvenuta emanazione è stato pubblicato sulla G.U. n. 67 del 20.03.2013. In sostanza ai sensi del dlgs 81/2008, gli enti proprietari delle strade e le imprese appaltatrici, esecutrici o affidatarie, dovranno applicare nuovi criteri minimi di sicurezza per chi lavora in presenza di traffico veicolare.
Il provvedimento prevede che in caso di nebbia, precipitazioni nevose o, comunque, condizioni che limitano notevolmente la visibilità o le caratteristiche di aderenza della pavimentazione, non si potranno eseguire operazioni che comportano l'esposizione al traffico di operatori e di mezzi. Qualora tali condizioni meteorologiche avverse sopraggiungano, le attività dovranno essere immediatamente sospese, rimuovendo ogni sbarramento e segnalamento, salvo che si tratti di lavori di emergenza o indifferibili.
Per la regolamentazione del senso unico alternato o comunque per le fermate temporanee del traffico, i movieri dovranno essere avvicendati con altri operatori con una cadenza non superiore a 45 minuti. Sono imposte particolari misure di sicurezza per gli spostamenti sulla carreggiata a piedi oppure con i mezzi operativi.
Inoltre, il decreto prevede l'adozione di importanti cautele per l'installazione e la rimozione del cantiere, per l'entrata e l'uscita del personale dal cantiere e per la gestione delle situazioni emergenza, come per esempio i sinistri. I lavoratori adibiti all'installazione e alla rimozione della segnaletica di cantieri stradali in presenza di traffico o comunque addetti ad attività in presenza di traffico dovranno frequentare uno specifico corso di formazione e addestramento, con una prova di verifica finale, e, ogni quattro anni, un corso di aggiornamento (articolo ItaliaOggi del 26.03.2013).

COMPETENZE GESTIONALIConsiglio di Stato. Indirizzi dalla Giunta. Il dirigente può fissare gli organici.
È legittima la determinazione con cui il dirigente comunale, previa individuazione dei profili professionali ritenuti utili, ha rideterminato la dotazione organica dell'ente. La Giunta ha dettato i principi in base ai quali intervenire sulla dotazione organica, demandando al dirigente l'attuazione. La determinazione pertanto non costituisce autonomo esercizio di governo, ma è espressione del potere gestionale di organizzazione del personale.

Questo il principio sancito dal Consiglio di Stato, con la sentenza n. 96/2013 con cui è stato respinto il ricorso presentato da un dipendente del Comune contro la determina del dirigente.
I giudici amministrativi hanno chiarito che la Giunta, avendo dettato i principi in base ai quali intervenire sulla dotazione organica, ha legittimamente demandando al dirigente competente per materia l'attuazione della concreta struttura organizzativa.
La Giunta non ha quindi delegato propri poteri al dirigente, ma ha invece correttamente demandato a quest'ultimo la concretizzazione della propria impostazione di principio. Secondo i giudici, con l'atto di indirizzo la Giunta avrebbe rispettato l'articolo 48, comma 3, del Tuel, secondo cui «è di competenza della giunta l'adozione dei regolamenti sul l'ordinamento degli uffici e dei servizi, sulla base dei principi stabiliti dal consiglio», e nella determina l'articolo 107, in base al quale «spettano ai dirigenti gli atti di organizzazione e gestione del personale». Secondo il consiglio di stato, la Giunta può approvare solo i principi in base ai quali intervenire. Per prassi, negli enti il potere della Giunta sull'organizzazione del personale è sempre stato esercitato con atti di contenuto prevalentemente gestionale.
La dotazione organica, ad esempio, è approvata generalmente con delibera di Giunta in cui sono definiti non solo i profili professionali necessari, ma sono indicati anche i contingenti quantitativi che costituiscono l'assetto ottimale. L'interpretazione fornita dal Consiglio di stato appare innovativa, anche se risulta in linea con il dettato testuale del Tuel.
L'autonomo esercizio di governo, al più alto livello amministrativo, del potere di organizzazione del personale dovrebbe effettivamente essere attuato approvando atti di indirizzo che definiscono i principi cui dovranno attenersi i dirigenti nello svolgimento delle loro attività (articolo Il Sole 24 Ore del 25.03.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI: Patroni Griffi contraddice l'Autorità: contratti elettronici anche per i cottimi fiduciari.
La stipula va fatta sempre con la nuova formula telematica. No all'interpretazione dell'Autorità che apriva all'uso della carta per le scritture private.

Il contratto elettronico sarà obbligatorio sempre anche per le scritture private. Il ministero della Funzione pubblica ha da poco diffuso la nota 28.02.2013 n. 77 di prot. con la quale chiarisce alcuni dubbi sulla stipulazione dei contratti in forma digitale, prevista dall'articolo 11, comma 13, del Codice appena modificato dal decreto sviluppo-bis (Dl 179/2012). E, nello sgombrare il campo dalle incertezze esistenti tra le imprese, la circolare ne crea di nuove: il documento, infatti, si distacca, in alcuni passaggi, dalla determinazione 13.02.2013 n. 1/2013 dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, che aveva affrontato il problema un mese fa.
La nota, a firma del capo dell'ufficio legislativo del ministero e datata 28 febbraio, affronta l'interpretazione della norma entrata in vigore a partire dal primo gennaio 2013, che prevede la stipulazione dei contratti di appalto, «a pena di nullità, con atto pubblico notarile informatico, ovvero, in modalità elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione appaltante, in forma pubblica amministrativa a cura dell'ufficiale rogante dell'amministrazione aggiudicatrice o mediante scrittura privata».
Secondo Palazzo Vidoni, i contratti elettronici dovranno essere sottoscritti sempre in forma elettronica, che diventa così «l'unica forma scritta richiesta a pena di nullità per tutti i contratti pubblici». Il documento informatico, infatti, è prescritto «non solo per la validità dei contratti rogati con atto pubblico notarile, ma anche per quelli stipulati con atto pubblico amministrativo o con scrittura privata».
Una differenza netta rispetto alla posizione espressa dalla determinazione dell'Autorità, che aveva sottolineato come, invece, esista ancora la possibilità di «preferire la forma cartacea o forme equipollenti ammesse dall'ordinamento» nel caso di scrittura privata. Si crea, così, un piccolo caso, dal momento che la sanzione per chi non rispetta la legge è la nullità del contratto. Per evitare problemi gravi, allora, bisognerà rispettare l'interpretazione del ministero piuttosto che quella dell'Avcp.
Sarà, comunque, possibile organizzarsi per tempo, dal momento che la nota obbliga le pubbliche amministrazioni a indicare esplicitamente nel bando la disciplina applicabile al momento della sottoscrizione del contratto da parte dell'aggiudicatario. In questo modo l'impresa avrà modo di verificare con anticipo il possesso dei requisiti richiesti dal disciplinare di gara.
Una buona notizia, invece, arriva in materia di firma digitale. Il decreto non ne parla esplicitamente e, per questo, il ministero ritiene che non esista un obbligo generale per le aziende di dotarsi dello strumento. Sarà la Pa che sottoscrive il contratto insieme all'impresa o, in alternativa, il notaio a doversi assumere un onere extra, nel caso in cui i privati non siano dotati di firma digitale, attestando la veridicità della sottoscrizione. Anche nel caso in cui ci sia una semplice firma autografa scannerizzata.
La buona notizia, comunque, è solo parziale perché nel caso di sottoscrizione tramite scrittura privata non è prevista, per definizione, la presenza di una pubblica amministrazione o di un notaio che possano attestare la veridicità della firma. E, quindi, non si potrà applicare la scappatoia indicata da Palazzo Vidoni. Resta, allora, l'urgenza per tutte le imprese di dotarsi al più presto di una firma elettronica, sottolineata anche dall'Ance. Soprattutto perché questo strumento servirà per l'utilizzo del sistema Avcpass, obbligatorio per la maggior parte degli appalti a partire dal prossimo primo luglio
(articolo Edilizia e Territorio del 21.03.2013 tratto da http://venetoius.it).

APPALTIIl labirinto-trasparenza, guida a tutti i nuovi obblighi delle amministrazioni.
Si moltiplicano i vincoli di pubblicità per le amministrazioni alle prese con i lavori pubblici. In una maxi-tabella la guida a cosa (e quando) pubblicare, atto per atto.

All'insegna di una sempre più penetrante attuazione del principio di trasparenza aumentano in maniera esponenziale gli obblighi di pubblicità cui sono tenuti gli enti committenti in relazione all'affidamento e all'esecuzione dei contratti pubblici. Agli adempimenti tradizionali previsti da tempo dal Dlgs 163/2006, si aggiungono quelli introdotti dal decreto legislativo sulla trasparenza (già approvato dal Consiglio dei ministri e in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale) –emanato in attuazione della legge 190/2012– e, da ultimo, quelli imposti dal Dm 26.02.2013.
Ne deriva un quadro complesso, riassunto in questa maxi-tabella, non pienamente coordinato e con inevitabili sovrapposizioni. L'effetto pratico è che, al di là della condivisibile esigenza di incrementare il livello di trasparenza nel settore dei contratti pubblici, si delinea è un percorso tutt'altro che agevole per gli enti committenti. Aumentano i dati da pubblicare, si moltiplicano le comunicazioni e le modalità di pubblicazione e cresce il rischio di incorrere in sanzioni per il mancato adempimento agli obblighi di pubblicità.
In questo contesto, non si può realisticamente ignorare che, a fronte dei benefici conseguenti all'innalzamento del livello di trasparenza, vi è comunque un costo da considerare in termini di appesantimento della macchina amministrativa. L'esatto adempimento di tutti gli obblighi di pubblicità comporta necessariamente un significativo impiego di risorse, in termini di tempi e di costi. Volendo cercare di seguire velocemente il percorso degli obblighi di pubblicità, si comincia con la pubblicazione sul sito informatico del Mit del programma triennale e dell'elenco annuale delle opere pubbliche (articolo 128, Dlgs 163). Vi sono poi gli usuali strumenti di pubblicità relativi alla singola gara, che vanno dall'eventuale avviso di preinformazione, al bando fino all'avviso sui risultati della procedura di aggiudicazione (tutti previsti dal Dlgs 163).
I dati relativi all'affidamento e all'esecuzione di tutti i contratti di importo superiore a 50.000 euro devono poi essere trasmessi all'Osservatorio presso l'Autorità dei contratti pubblici (articolo 7, comma 8, Dlgs 163). Mentre dati analoghi relativi a ogni procedura di gara devono essere contemporaneamente pubblicati sui siti web istituzionali degli stessi enti appaltanti (articolo 1, comma 32, legge 190/2012). Con una inevitabile sovrapposizione, è poi previsto anche che, sempre in relazione alle procedure di gara effettuate, un'altra serie di dati –parzialmente coincidenti con quelli di cui sopra– devono essere pubblicati, con aggiornamento semestrale, nella sezione «amministrazione trasparente» dei rispettivi siti istituzionali (articolo 23 Dlgs sulla trasparenza).
I dati complessivi relativi a tutte le procedure di gara vanno poi trasmessi, in forma di tabella riassuntiva, all'Autorità dei contratti pubblici con cadenza annuale (articolo 1, comma 32, legge 190/2012). Sempre nella sezione «amministrazione trasparente» vanno poi inseriti i dati delle opere pubbliche relativi alla programmazione (che si sovrappongono a quelli contenuti nel programma triennale), alla valutazione degli investimenti, ai tempi, ai costi e agli indicatori di realizzazione (articolo 38, Dlgs sulla trasparenza). Mentre una serie molto articolata di dati, relativi a tutto il ciclo di realizzazione dell'opera (dal finanziamento, all'affidamento dei lavori, all'esecuzione) vanno trasmessi alla banca dati istituita presso la Ragioneria generale dello Stato (ma quest'obbligo di trasmissione non sussiste per i dati già trasmessi all'Autorità dei contratti pubblici, che tuttavia non coincidono integralmente con quelli destinati alla Ragioneria) (Dm 26.02.2013).
Infine, sempre sui rispettivi siti istituzionali, ogni ente deve pubblicare l'indicatore dei tempi di pagamento relativo ad acquisti di beni, servizi e forniture (articolo 33 Dlgs sulla trasparenza) (articolo Edilizia e Territorio del 19.03.2013).

GIURISPRUDENZA

CONSIGLIERI COMUNALILa revoca dell'incarico di assessore comunale non richiede comunicazione dell'avvio del procedimento poiché è provvedimento rimesso all’autonomo apprezzamento del solo Sindaco, che è responsabile dell’indirizzo politico-amministrativo della sua Giunta e ne deve se mai rispondere al Consiglio comunale, restando escluso che sulle sue decisioni possa influire l’apporto partecipativo di altri soggetti.
- che il primo motivo di ricorso è infondato. Come chiarito da giurisprudenza anche recente, per tutte C.d.S. sez. V 05.12.2012 n. 6228, la revoca dell'incarico di assessore comunale non richiede comunicazione dell'avvio del procedimento poiché è provvedimento rimesso all’autonomo apprezzamento del solo Sindaco, che è responsabile dell’indirizzo politico-amministrativo della sua Giunta e ne deve se mai rispondere al Consiglio comunale, restando escluso che sulle sue decisioni possa influire l’apporto partecipativo di altri soggetti (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 29.03.2013 n. 299 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La motivazione del provvedimento amministrativo è finalizzata a consentire al cittadino la ricostruzione dell'iter logico e giuridico attraverso cui l'amministrazione si è determinata ad adottare un dato provvedimento, controllando, quindi, il corretto esercizio del potere a esso conferito dalla legge e facendo valere, eventualmente nelle opportune sedi, le proprie ragioni.
Pertanto, la garanzia di adeguata tutela delle ragioni del privato non viene meno per il fatto che nel provvedimento amministrativo finale non risultino chiaramente e compiutamente rese comprensibili le ragioni sottese alla scelta fatta dalla pubblica amministrazione, allorché le stesse possano essere agevolmente colte dalla lettura degli atti afferenti alle varie fasi in cui si articola il procedimento, e ciò in omaggio ad una visione non meramente formale dell'obbligo di motivazione, ma coerente con i principi di trasparenza e di lealtà desumibili dall'art. 97 cost..

Al contrario di quanto affermano gli appellanti, il tema della motivazione dell’atto amministrativo è oramai improntato, a livello giurisprudenziale e dottrinale, a una valutazione funzionale degli obblighi spettanti alla pubblica amministrazione.
Superando le impostazioni delle teorie formali, la giurisprudenza afferma che la motivazione del provvedimento amministrativo è finalizzata a consentire al cittadino la ricostruzione dell'iter logico e giuridico attraverso cui l'amministrazione si è determinata ad adottare un dato provvedimento, controllando, quindi, il corretto esercizio del potere a esso conferito dalla legge e facendo valere, eventualmente nelle opportune sedi, le proprie ragioni.
Pertanto, la garanzia di adeguata tutela delle ragioni del privato non viene meno per il fatto che nel provvedimento amministrativo finale non risultino chiaramente e compiutamente rese comprensibili le ragioni sottese alla scelta fatta dalla pubblica amministrazione, allorché le stesse possano essere agevolmente colte dalla lettura degli atti afferenti alle varie fasi in cui si articola il procedimento, e ciò in omaggio ad una visione non meramente formale dell'obbligo di motivazione, ma coerente con i principi di trasparenza e di lealtà desumibili dall'art. 97 cost. (da ultimo Consiglio di Stato IV, 30.05.2005, n. 2770; conformemente id., 14.02.2005 , n. 435; id. V, 20.10.2004, n. 6814) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.03.2013 n. 1715 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il sopravvenire di una disciplina urbanistica, in assenza di atti di assensi del Comune a istanze di mutamento di destinazione, non può ex se mutare le destinazioni formalizzate a catasto.
Infatti il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è solo quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, posto che nell'ambito delle stesse categorie catastali possono anche aversi mutamenti di fatto, ma che, come tali, sono irrilevanti sul piano urbanistico.
In un caso identico la giurisprudenza aveva espressamente ricordato come l'abuso eventualmente commesso dal proprietario -che destina a scopi commerciali una parte di un immobile con destinazione industriale- non vale in alcun caso ad imprimere allo stesso una destinazione formale diversa da quella risultante cartolarmente.
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è dunque soltanto quello che interviene legittimamente tra categorie funzionalmente autonome sotto il profilo urbanistico, posto che il mutamento di fatto, da “produttivo" ad attività di commercio all'ingrosso -o anche al dettaglio- non configura come un mutamento di destinazione d'uso giuridicamente ed urbanisticamente rilevante.

Di fronte alla qualificazione catastale in cat. D/1, irrilevante appare poi in ogni caso che la destinazione “di fatto” sarebbe tra quelle ammissibili in zona BB dalle sopravvenute previsioni urbanistiche, in quanto riconducibile alla “funzione di servizi”, ed in particolare tra quelle previste all’articolo 43. 4.7 lett. a) n.d.a. del PUC “connettivo urbano”.
Il sopravvenire di una disciplina urbanistica, in assenza di atti di assensi del Comune a istanze di mutamento di destinazione, non può ex se mutare le destinazioni formalizzate a catasto.
Infatti il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è solo quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, posto che nell'ambito delle stesse categorie catastali possono anche aversi mutamenti di fatto (cfr. Consiglio Stato, sez. V 22.03.2010 n. 1650), ma che, come tali, sono irrilevanti sul piano urbanistico.
In un caso identico la giurisprudenza aveva espressamente ricordato come l'abuso eventualmente commesso dal proprietario -che destina a scopi commerciali una parte di un immobile con destinazione industriale- non vale in alcun caso ad imprimere allo stesso una destinazione formale diversa da quella risultante cartolarmente (cfr. Consiglio Stato sez. V 11.06.2003 n. 3295).
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è dunque soltanto quello che interviene legittimamente tra categorie funzionalmente autonome sotto il profilo urbanistico, posto che il mutamento di fatto, da “produttivo" ad attività di commercio all'ingrosso -o anche al dettaglio- non configura come un mutamento di destinazione d'uso giuridicamente ed urbanisticamente rilevante (cfr. Consiglio Stato sez. V 13.02.1993 n. 245) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.03.2013 n. 1712 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione urbanistica di pertinenza è per sua natura collegata non solo all’esigenza di un oggettivo nesso funzionale e strumentale rispetto alla "cosa" principale ma sopratutto al fatto che comunque deve trattarsi di un’opera di dimensioni modeste e ridotte, altrimenti si rovescerebbe lo stesso nesso di pertinenzialità.
Nel caso, la struttura stessa di un muro di cemento armato per la realizzazione di un terrapieno artificiale alto mediamente ben 12.50 mt. costituiva senza dubbio un intervento che realizzava un “ampliamento volumetrico” di consistenza tale da integrare una notevole trasformazione del territorio, per cui sarebbe stato necessario il previo rilascio di un permesso di costruire.
Né l’assunta esclusiva natura pertinenziale poteva nullificare tale rilievo urbanistico. Al riguardo si concorda totalmente con l’affermazione della difesa dell’Amministrazione appellante per cui la nozione di pertinenza urbanistica ha una sua peculiarità propria, autonoma e distinta dalla nozione civilistica.
La pertinenza urbanistica deve avere non solo una propria identità fisica ed una propria conformazione strutturale, ma non deve essere suscettibile di avere una destinazione autonoma e diversa e non deve possedere un autonomo valore di mercato. Sulla scia di un antico e consolidato indirizzo giurisprudenziale la considerazione delle dimensioni dell’opera in questione deve far escludere che trattasse di una mera pertinenza dato che:
- nel campo urbanistico, costituisce "pertinenza" quella per la cui realizzazione è (ed era fin dall’art. 7 d.l. n. 9/1982, conv. in l. n. 92/1982), richiesto non già il permesso di costruire, bensì la mera autorizzazione edilizia;
- la pertinenza è per sua natura caratterizzata dalle dimensioni ridotte e modeste del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce, per cui non può essere considerata tale, e quindi soggiace a concessione edilizia, la realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni che modifica l'assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla "res principalis", indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa.

La nozione urbanistica di pertinenza è, infatti, per sua natura collegata non solo all’esigenza di un oggettivo nesso funzionale e strumentale rispetto alla "cosa" principale ma sopratutto al fatto che comunque deve trattarsi di un’opera di dimensioni modeste e ridotte, altrimenti si rovescerebbe lo stesso nesso di pertinenzialità (cfr. Cons. Stato, sez. IV, sent. 15.01.2013 n. 211).
Nel caso, la struttura stessa di un muro di cemento armato per la realizzazione di un terrapieno artificiale alto mediamente ben 12.50 mt. costituiva senza dubbio un intervento che realizzava un “ampliamento volumetrico” di consistenza tale da integrare una notevole trasformazione del territorio, per cui sarebbe stato necessario il previo rilascio di un permesso di costruire (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 25.05.2011 n. 3134).
Né l’assunta esclusiva natura pertinenziale poteva nullificare tale rilievo urbanistico. Al riguardo si concorda totalmente con l’affermazione della difesa dell’Amministrazione appellante per cui la nozione di pertinenza urbanistica ha una sua peculiarità propria, autonoma e distinta dalla nozione civilistica.
La pertinenza urbanistica deve avere non solo una propria identità fisica ed una propria conformazione strutturale, ma non deve essere suscettibile di avere una destinazione autonoma e diversa e non deve possedere un autonomo valore di mercato. Sulla scia di un antico e consolidato indirizzo giurisprudenziale (Cfr. Cons. Stato, sez. IV sent. 02.02.2012 n. 615 Cons. Stato, sez. II, 12.05.1999 n. 729; sez. V, 23.03.2000 n. 1600; idem 31.03.2009 n. 1998) la considerazione delle dimensioni dell’opera in questione deve far escludere che trattasse di una mera pertinenza dato che:
- nel campo urbanistico, costituisce "pertinenza" quella per la cui realizzazione è (ed era fin dall’art. 7 d.l. n. 9/1982, conv. in l. n. 92/1982), richiesto non già il permesso di costruire, bensì la mera autorizzazione edilizia;
- la pertinenza è per sua natura caratterizzata dalle dimensioni ridotte e modeste del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce, per cui non può essere considerata tale, e quindi soggiace a concessione edilizia, la realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni che modifica l'assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla "res principalis", indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.03.2013 n. 1709 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le Norme tecniche di attuazione sono atti a contenuto generale, recanti prescrizioni a carattere normativo e programmatico, che hanno la precipua funzione di essere destinate a regolare la futura attività edilizia.
Proprio per la loro natura regolamentare esse non sono derogabili né dai privati e nemmeno dallo stesso Comune che sono tenuti a rispettarle ed a farle rispettare.
Le attività edilizie devono dunque necessariamente rispettare le indicazioni tecniche delle NTA, le quali non possono essere aggirate con artifici momentanei di natura assolutamente transitoria (come è il caso “classico” del temporaneo riempimento degli spazi al fine di escluderli dal computo nella superficie utile lorda).

Deve al riguardo rilevarsi che le Norme tecniche di attuazione sono atti a contenuto generale, recanti prescrizioni a carattere normativo e programmatico, che hanno la precipua funzione di essere destinate a regolare la futura attività edilizia (cfr. Consiglio Stato sez. V 06.03.2007 n. 1052).
Proprio per la loro natura regolamentare (cfr. Consiglio Stato sez. VI 05.08.2005 n. 4159) esse non sono derogabili né dai privati e nemmeno dallo stesso Comune che sono tenuti a rispettarle ed a farle rispettare.
Le attività edilizie devono dunque necessariamente rispettare le indicazioni tecniche delle NTA, le quali non possono essere aggirate con artifici momentanei di natura assolutamente transitoria (come è il caso “classico” del temporaneo riempimento degli spazi al fine di escluderli dal computo nella superficie utile lorda) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.03.2013 n. 1702 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - INCARICHI PROFESSIONALI: In caso di appello proveniente da un organo di ente pubblico la leggibilità della firma è del tutto irrilevante ai fini dell’ammissibilità del gravame in quanto, fatti salvi i casi di falso materiale, la certezza dell’attribuibilità del gravame è specificamente garantita dall’apposizione dei relativi timbri e dall’intestazione dell’ente.
In tali casi non può infatti sussistere alcuna incertezza sulla persona fisica firmataria a cui fare riferimento per l’imputazione degli effetti giuridici del gravame.
La mancata indicazione del nominativo e l'illeggibilità della firma del Sindaco nella procura rilasciata dal Comune al difensore, non determina affatto l’invalidità della procura stessa, atteso che la persona fisica che riveste pro tempore detta qualità è un dato di pubblico dominio, accertabile senza alcuna difficoltà presso lo stesso ente.
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A partire dall'art. 36, comma 1, l. 08.06.1990 n. 142, recante il nuovo ordinamento delle autonomie locali, compete esclusivamente al Sindaco il potere di conferire al difensore del Comune la procura alle liti, senza alcuna necessità di autorizzazione della Giunta municipale.
La titolarità esclusiva del potere di rappresentanza processuale del Comune è dunque conferita direttamente dalla legge all'organo monocratico.
Il sindaco, quale rappresentante legale dell'ente locale, ai sensi dell'art. 50, comma 2, d.lgs. 18.08.2000 n. 267, è dunque l'organo che lo rappresenta in giudizio ed ha il potere di conferire la procura al difensore senza che occorra alcuna deliberazione di autorizzazione alla lite da parte della Giunta, fatto salvo il caso che lo Statuto la richieda espressamente.

Contrariamente a quanto sostengono gli appellati, in caso di appello proveniente da un organo di ente pubblico la leggibilità della firma è del tutto irrilevante ai fini dell’ammissibilità del gravame in quanto, fatti salvi i casi di falso materiale, la certezza dell’attribuibilità del gravame è specificamente garantita dall’apposizione dei relativi timbri e dall’intestazione dell’ente.
In tali casi non può infatti sussistere alcuna incertezza sulla persona fisica firmataria a cui fare riferimento per l’imputazione degli effetti giuridici del gravame (cfr. Consiglio Stato sez. V 21.04.2009 n. 2402).
La mancata indicazione del nominativo e l'illeggibilità della firma del Sindaco nella procura rilasciata dal Comune al difensore, non determina affatto l’invalidità della procura stessa, atteso che la persona fisica che riveste pro tempore detta qualità è un dato di pubblico dominio, accertabile senza alcuna difficoltà presso lo stesso ente.
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eve essere rigettata anche l’eccezione concernente l’inammissibilità dell’appello per mancata produzione dell’autorizzazione della Giunta Municipale, prevista per evitare possibili “abusi”.
A parte che, in materia di tutela dei propri interessi, è comunque difficilmente comprensibile il riferimento agli “abusi” di cui parlano gli appellati, si deve osservare che, a partire dall'art. 36, comma 1, l. 08.06.1990 n. 142, recante il nuovo ordinamento delle autonomie locali, compete esclusivamente al Sindaco il potere di conferire al difensore del Comune la procura alle liti, senza alcuna necessità di autorizzazione della Giunta municipale.
La titolarità esclusiva del potere di rappresentanza processuale del Comune è dunque conferita direttamente dalla legge all'organo monocratico (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V 11.05.2012 n. 2730).
Il sindaco, quale rappresentante legale dell'ente locale, ai sensi dell'art. 50, comma 2, d.lgs. 18.08.2000 n. 267, è dunque l'organo che lo rappresenta in giudizio ed ha il potere di conferire la procura al difensore senza che occorra alcuna deliberazione di autorizzazione alla lite da parte della Giunta, fatto salvo il caso che lo Statuto la richieda espressamente.
Di qui l’ammissibilità dell’appello sotto tale profilo
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.03.2013 n. 1700 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di una strada vicinale, per questo come tale giuridicamente equiparata alle strade comunali, non possono esservi dubbi sulla sussistenza del rispetto delle relative fasce stradali inedificabili.
Al riguardo deve premettersi che, per l’art. 2, VI° co., lett. D), ultimo periodo del d.lgs. n. 285/1992 Codice della Strada: “… Ai fini del presente codice, le strade "vicinali" sono assimilate alle strade comunali…”.
Nel caso in esame, l’estratto delle mappe catastali del PRG (allegate all’appello sub 2) individua come “Strada Cavallara” il sedime della via che, intersecando la Provinciale n. 18, ricollega le case sparse “Cason” e la proprietà Schio alla medesima strada provinciale.
Tale ultimo particolare, da solo, esclude assolutamente la natura meramente campestre o interpoderale del tracciato, come indica anche il segno grafico identificativo, che è quello di una “strada vicinale”.
E’ dunque evidente l’errore sui presupposti della decisione del TAR, che ha qualificato come interpoderale Via Cason, ed ha indebitamente escluso l’esigenza di rispettare le relative fasce stradali.
Al contrario, dato che la strada in questione era vicinale, e per questo come tale giuridicamente equiparata alle strade comunali, non possono esservi dubbi sulla sussistenza nel caso in esame di un vincolo di inedificabilità stradale.
In tali considerazioni, nelle quali restano assorbiti i restanti profili di censura, l’appello deve essere accolto
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.03.2013 n. 1700 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della tempestività del ricorso in materia di titoli edilizi rilasciati a terzi, occorre distinguere:
- nel caso di impugnazione del titolo edilizio "ordinario" -salvo che non venga fornita la prova certa di una conoscenza anticipata del provvedimento abilitativo- il termine di decadenza decorre dal completamento dei lavori, cioè dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale portata dell'intervento in precedenza assentito;
- nel caso di impugnazione del titolo edilizio "in sanatoria": il termine decorre invece solamente dalla data in cui sia portato a conoscenza che, per una determinata opera abusiva già esistente, è stata rilasciata la concessione edilizia in sanatoria.

Ai fini della tempestività del ricorso in materia di titoli edilizi rilasciati a terzi, occorre distinguere:
- nel caso di impugnazione del titolo edilizio "ordinario" -salvo che non venga fornita la prova certa di una conoscenza anticipata del provvedimento abilitativo- il termine di decadenza decorre dal completamento dei lavori, cioè dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale portata dell'intervento in precedenza assentito (cfr. Cons. St., Ad. Plen., 29.07.2011 n. 15; Cons. St., sez. VI, 10.12.2010 n. 8705; Cons. St., sez. IV, 29.05.2009 n. 3358);
- nel caso di impugnazione del titolo edilizio "in sanatoria": il termine decorre invece solamente dalla data in cui sia portato a conoscenza che, per una determinata opera abusiva già esistente, è stata rilasciata la concessione edilizia in sanatoria (cfr. Consiglio Stato, sez. IV 11.11.2010 n. 8017; Cons. St., sez. VI, 27.12.2007 n. 6674; Cons. St., sez. V, 21.12.2004 n. 8147) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.03.2013 n. 1699 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli "usi civici" sono diritti reali millenari di natura collettiva, volti ad assicurare un’utilità o comunque un beneficio ai singoli appartenenti ad una collettività .
Essi sono disciplinati, in linea generale, dalla legge 16.06.1927, n. 1766 (mantenuta in vigore dall’allegato 1 del comma 1 dell’art. 1, D.Lgs. 01.12.2009, n. 179, limitatamente agli articoli da 1 a 34 e da 36 a 43) e del relativo regolamento di cui al r.d. n. 332/1928.
Il legislatore, nel disciplinare la destinazione delle terre sulle quali gravano usi civici all’art. 12, II° co. della L. n. 1766 cit., ha sancito, in via di principio, l’inalienabilità e l’impossibilità di mutamento di destinazione, dei terreni convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente e -solo in via di eccezione- salva la possibilità di richiedere l’autorizzazione (oggi di competenza della Regione in luogo del Ministero) a derogare dai predetti limiti.
Tale deroga all'utilizzazione del terreno, comportando necessariamente limitazioni dei diritti d’uso civico per le collettività cui appartengono, anche oggi ha carattere tipicamente eccezionale e non può né deve risolversi nella perdita dei benefici, anche solo di carattere ambientale per la generalità degli abitanti, unicamente a vantaggio di privati.
In tale direzione, se i beni di uso civico sono di norma inalienabili, incommerciabili ed insuscettibili di usucapione, esattamente il TAR ha fatto proprio l’univoco orientamento della Corte di Cassazione, per cui essi sono sostanzialmente riconducibili al regime giuridico della demanialità.
In tale scia, le terre appartenenti ai diritti civici risultano, di norma, incompatibili con l'attività edificatoria per l’evidente ragione che “privatizzano” a tempo indeterminato un bene, i cui diritti spettano invece ad una collettività, sottraendo spesso definitivamente alla pubblica utilità i benefici provenienti dalla terra, dai boschi e dalle acque.

Come è noto, gli "usi civici" sono diritti reali millenari di natura collettiva, volti ad assicurare un’utilità o comunque un beneficio ai singoli appartenenti ad una collettività .
Essi sono disciplinati, in linea generale, dalla legge 16.06.1927, n. 1766 (mantenuta in vigore dall’allegato 1 del comma 1 dell’art. 1, D.Lgs. 01.12.2009, n. 179, limitatamente agli articoli da 1 a 34 e da 36 a 43) e del relativo regolamento di cui al r.d. n. 332/1928.
Il legislatore, nel disciplinare la destinazione delle terre sulle quali gravano usi civici all’art. 12, II° co. della L. n. 1766 cit., ha sancito, in via di principio, l’inalienabilità e l’impossibilità di mutamento di destinazione, dei terreni convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente e -solo in via di eccezione- salva la possibilità di richiedere l’autorizzazione (oggi di competenza della Regione in luogo del Ministero) a derogare dai predetti limiti.
Tale deroga all'utilizzazione del terreno, comportando necessariamente limitazioni dei diritti d’uso civico per le collettività cui appartengono, anche oggi ha carattere tipicamente eccezionale e non può né deve risolversi nella perdita dei benefici, anche solo di carattere ambientale per la generalità degli abitanti, unicamente a vantaggio di privati (cfr. Consiglio Stato sez. IV 25.09.2007 n. 4962; Consiglio Stato sez. VI 06.03.2003 n. 1247).
In tale direzione, se i beni di uso civico sono di norma inalienabili, incommerciabili ed insuscettibili di usucapione, esattamente il TAR ha fatto proprio l’univoco orientamento della Corte di Cassazione, per cui essi sono sostanzialmente riconducibili al regime giuridico della demanialità (cfr. di recente Cass. Civ. III, 28.09.2011 n. 19792; Cass. Civ. III, 28.09.2011 n. 19792; Cass. Civ., sez III, n. 1940/2004; idem Sez. V, n. 11993/2003).
In tale scia, le terre appartenenti ai diritti civici risultano, di norma, incompatibili con l'attività edificatoria (arg. Consiglio Stato sez. IV 19.12.2003 n. 8365) per l’evidente ragione che “privatizzano” a tempo indeterminato un bene, i cui diritti spettano invece ad una collettività, sottraendo spesso definitivamente alla pubblica utilità i benefici provenienti dalla terra, dai boschi e dalle acque.
La pur condivisibile finalità dell’incremento delle fonti di energia rinnovabili non può portare il Collegio ad accettare la qualificazione come “provvisorie” di strutture di carattere oggettivamente permanente, quali sono quelle che conseguono all’apposizione al suolo di cinque tralicci d’acciaio (la cui altezza minima in genere è di oltre 60 mt.), oltre alle relative opere accessorie (linee di adduzione, cabine, strade di accesso ecc.).
Contrariamente a quanto mostrano di ritenere le società appellanti, in sostanza le collettività –sia nel loro insieme che in testa a ciascuno dei suoi componenti uti singulus– vantano nei confronti dei relativi beni un diritto collettivo di natura reale che si esercita in forma “duale” con il Comune il quale, ente esponenziale dei diritti della collettività, ordinariamente li amministra in suo nome, mentre per iniziative di carattere straordinario è sottoposto alla diretta ed indefettibile vigilanza della Regione.
In tali casi la eccezionalità della deroga rispetto all’ordinario regime di intangibilità di tali diritti si impone proprio perché il “mutamento di destinazione”, nella realtà delle cose, implica il venir meno della possibilità stessa di usufruire dei frutti dei terreni di uso civico.
Del tutto inconsistente è quindi la tesi delle società appellanti per cui l’amministrazione comunale sarebbe la titolare unica dei diritti di disposizione, perché se così fosse i diritti civici scolorirebbero addirittura alla stregua dei meri beni del “patrimonio disponibile”.
Quando il mutamento di destinazione “in deroga” delle terre sottoposte ad uso civico si risolve in un’attribuzione a terzi di diritti spettanti alla collettività, l’iter per il rilascio della relativa autorizzazione deve quindi essere necessariamente ricondotto all’ambito proprio dei procedimenti di concessione dei beni demaniali, in quanto ha l’identico effetto di privare i componenti della collettività (che ne sono i veri titolari) del beneficio, per trasferirlo a soggetti privati che richiedono l'utilizzazione imprenditoriale del terreno a fini di lucro personale per un consistente lasso di tempo.
Infatti, se i diritti appartengono alla collettività e questi sono solo amministrati dal Comune sotto il controllo della Regione, è evidente che le relative dinamiche procedimentali di gestione non solo debbano corrispondere al predetto assetto istituzionale, ma soprattutto debbano comunque avvenire nel rispetto dei cardini della pubblicità, imparzialità, trasparenza e non discriminazione in quanto, analogamente alle concessioni di beni demaniali, anche qui il procedimento finisce per costituire un utilizzo privato di beni della collettività che, nel favorire le possibilità di lucro di un determinato imprenditore in danno degli altri, altera le naturali dinamiche del mercato (arg. ex Corte Conti 13.05.2005 n. 5).
La natura comunque “pubblica” dei diritti di uso civico comporta,in linea generale, l’applicazione dei principi di derivazione comunitaria, di concorrenza, parità di trattamento, trasparenza, non discriminazione, e proporzionalità, di cui all'articolo 1 della legge n. 241 del 1990 e s.m.i, i quali non solo si applicano direttamente nel nostro ordinamento, ma debbono informare il comportamento della P.A., anche quando, come nel caso di concessioni di diritti su beni pubblici, non vi è una specifica norma che preveda la procedura dell'evidenza pubblica (cfr. Consiglio di Stato Sezione V, 19.06.2009, n. 4035).
In coerenza di tale ultima considerazione e della ricordata natura collettiva “duale” dei diritti reali, l’interpretazione costituzionalmente orientata ai cardini di cui all’art. 97 Cost. impone che le procedure concernenti le richieste di autorizzazione al mutamento di destinazione debbano anche rispettare le regole di cui alla legge 07.08.1990, n. 241, e s.m.i. ed in particolare i principi generali:
- del contraddittorio, di informazione e di partecipazione pubblica: pertanto, prima di procedere a qualunque iniziativa in materia di deroga ex art. 12 della L. n. 1766/1927, le amministrazioni comunali -la cui rappresentanza è pur sempre in nome della loro collettività- devono dare massima notorietà a mezzo di pubblici avvisi anche sul proprio sito internet, dell’esistenza dell’iniziativa ed delle relative condizioni generali, al fine di consentire la partecipazione e richieste di chiarimenti, l’emersione del dissenso, il vaglio delle eventuali obiezioni dei soggetti appartenenti alla comunità che sono i reali titolari dei diritti civici;
- di trasparenza, pubblicità ed imparzialità: la procedura ad evidenza pubblica non può che seguire il canone generale di cui all’art. 12 della L. n. 241/1990 che è espressione concreta dei cardini costituzionali di cui all’art. 97 della Costituzione a presidio dei principi dell’imparzialità e della trasparenza (cfr. Consiglio Stato sez. V 10.05.2005 n. 2345). La predetta norma (oltre ai casi “… di sovvenzioni e sussidi, ecc., ..” ) disciplina, senza distinzioni di sorta, tutte le concessioni concernenti “…l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati” tra i quali rientrano indubitabilmente anche le fattispecie di cui all’art. 12 della L. n. 1766/1927. Pertanto, l’autorizzazione alla cessione ovvero al mutamento di destinazione di un bene civico deve essere senz’altro “…subordinata alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle Amministrazioni procedenti dei criteri e delle modalità cui le Amministrazioni devono attenersi” (come recita il cit. art. 12).
E ciò a prescindere dal fatto che il procedimento de quo sia stato iniziato, o meno, ad istanza di parte. Infatti anche nell’ipotesi in cui il procedimento inizi non già per volontà dell'amministrazione bensì sulla base di una specifica richiesta di uno dei soggetti interessati all'utilizzo del bene, le concessioni di beni civici non sfuggono ai principi che impongono comunque l'espletamento di un confronto concorrenziale per l’individuazione di tutti i soggetti potenzialmente interessati e per il conseguimento del massimo utile per l’universitas civium.
In definitiva, in materia di usi civici l’applicazione dell’art. 12 della L. n. 1766 non può in nessun caso prescindere dal previo esperimento della pubblicità e dalla predeterminazione dei criteri di assegnazione che devono essere resi previamente noti a garanzia della trasparenza e dell’imparzialità dell'azione amministrativa e dalla successiva puntuale verifica dell’applicazione degli stessi nel provvedimento comunale di richiesta alla Regione di assenso al mutamento di destinazione.
Sotto altro profilo poi, contrariamente a quanto affermano le società appellanti, quando, come nel caso in esame, la richiesta di mutamento di destinazione comporti una rilevante e permanente alterazione dello stato dei luoghi non è escluso che -a maggior garanzia dell’eventuale ripristino dei luoghi e del rispetto delle regole per la definizione dei rapporti giuridici successivi alla scadenza del periodo tra affidatari e collettività- il beneficiario dell’autorizzazione per lo sfruttamento “in deroga” ex art. 12 della L. n. 1766 di terreni gravati da usi civici possa essere individuato attraverso l’esperimento di una procedura di "project financing", ex art. 153, del d.lgs. 12/04/2006, n. 163 e s.m.i. (“Codice dei contratti”).
In conseguenza delle affermazioni che precedono, dunque pertanto, il Comune nel caso in esame:
- in primo luogo, avrebbe dovuto dare pubblica notizia (es. con pubbliche affissioni, albo pretorio. siti informatici, ecc. ecc.), dell’esistenza di una richiesta di deroga al diritto civico delle società;
- in secondo luogo, era tenuto a procedere alla pubblicazione dell’avviso diretto ad altri possibili operatori professionali del settore contenenti i requisiti ed elementi di ammissione (ovvero una sintesi delle proposte di utilizzo e delle utilità promesse), i criteri di valutazione delle eventuali richieste alternative, nonché le modalità procedimentali per la valutazione delle diverse ipotesi (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.03.2013 n. 1698 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In linea generale, la possibilità di ricorrere avverso il rilascio di una concessione edilizia da parte di 'chiunque' è stata riconosciuta fin dall'art. 31, comma 9, l. n. 1150 del 42 (come modificato dall'art. 10 L. n. 765 del 1967). Tale norma, se non configurava un nuovo tipo di azione popolare, riconosceva la posizione di interesse a chi comunque si trovi in una situazione di rapporto stabile con la zona.
La legittimazione alla proposizione del ricorso per l'annullamento di una concessione edilizia, discende direttamente dalla c.d. “vicinitas”, cioè da una situazione di stabile collegamento giuridico con l’area oggetto dell'intervento costruttivo. Tale situazione di norma esime sia dall’accertamento concreto dell’effettivo pregiudizio, e sia dalla stretta dimostrazione dell’esistenza dei titoli di legittimazione del soggetto che propone l'impugnazione.
Salvo il caso di una prova contraria, sempre concessa alla controparte, della totale inesistenza di un interesse o di una situazione di vicinitas, si è infatti sempre ritenuto corretto riconoscere, a chi si affermi danneggiato, un interesse tutelato a ché il provvedimento dell'Amministrazione sia procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme vigenti in materia.
Ciò premesso, del tutto esattamente il TAR ha qui disatteso l’eccezione di carenza di legittimazione, essendo a tale riguardo sufficiente a radicare il suo preciso interesse all’impugnazione il titolo giuridico di comodataria (anziché di locataria) del capannone posto sul confine.
Nel caso in esame non vi sono dubbi in punto di fatto che la ricorrente era realmente la “conduttrice” dell’immobile.
Tale nozione è stata manifestamente utilizzata dal TAR, nel suo senso più ampio, di soggetto che aveva la legittima disponibilità di una cosa, in base ad un titolo giuridico negoziale (ma sul punto vedi anche amplius infra).
Il comodato, di cui all’art. 1803 c.c., è infatti il contratto con cui una parte consegna all'altra un bene ”... affinché se ne serva per un tempo o un uso determinato, con l'obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta”, che peraltro anche condizionatamente all’adempimento di un modus; o di un onere, come ad es. la relativa manutenzione.
In ogni caso il comodato di un bene immobile in forza di un titolo contrattuale attribuisce al destinatario la qualifica di "detentore qualificato autonomo" nel suo esclusivo interesse.
La sua natura come contratto tipico e la previsione di una durata normalmente prestabilita, fa sì che il contratto di comodato, non meno che la locazione, ben dunque possa costituire un titolo sufficiente ad integrare una posizione soggettiva giuridicamente diversificata come tale meritevole di tutela.

In linea generale la possibilità di ricorrere avverso il rilascio di una concessione edilizia da parte di 'chiunque', era infatti stata riconosciuta fin dall'art. 31, comma 9, l. n. 1150 del 42 (come modificato dall'art. 10 L. n. 765 del 1967). Tale norma, se non configurava un nuovo tipo di azione popolare, riconosceva la posizione di interesse a chi comunque si trovi in una situazione di rapporto stabile con la zona.
Come la giurisprudenza della Sezione ha sottolineato più volte (cfr. da ultimo n. 361 del 22/01/2013) la legittimazione alla proposizione del ricorso per l'annullamento di una concessione edilizia, discende direttamente dalla c.d. “vicinitas”, cioè da una situazione di stabile collegamento giuridico con l’area oggetto dell'intervento costruttivo. Tale situazione di norma esime sia dall’accertamento concreto dell’effettivo pregiudizio, e sia dalla stretta dimostrazione dell’esistenza dei titoli di legittimazione del soggetto che propone l'impugnazione.
Salvo il caso di una prova contraria, sempre concessa alla controparte, della totale inesistenza di un interesse o di una situazione di vicinitas, si è infatti sempre ritenuto corretto riconoscere, a chi si affermi danneggiato, un interesse tutelato a ché il provvedimento dell'Amministrazione sia procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme vigenti in materia (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 05.01.2011, n. 18).
Ciò premesso, del tutto esattamente il TAR ha qui disatteso l’eccezione di carenza di legittimazione, essendo a tale riguardo sufficiente a radicare il suo preciso interesse all’impugnazione il titolo giuridico di comodataria (anziché di locataria) del capannone posto sul confine.
Nel caso in esame non vi sono dubbi in punto di fatto che, all’introduzione del ricorso di primo grado ed all’attualità, la ricorrente Fadaf sas, –come esattamente affermato dal TAR– era realmente la “conduttrice” dell’immobile.
Tale nozione è stata manifestamente utilizzata dal TAR, nel suo senso più ampio, di soggetto che aveva la legittima disponibilità di una cosa, in base ad un titolo giuridico negoziale (ma sul punto vedi anche amplius infra).
Il comodato, di cui all’art. 1803 c.c., è infatti il contratto con cui una parte consegna all'altra un bene ”... affinché se ne serva per un tempo o un uso determinato, con l'obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta”, che peraltro anche condizionatamente all’adempimento di un modus; o di un onere, come ad es. la relativa manutenzione (cfr. Cass. Civ. Sent. n. 485/2003); ovvero al pagamento di una somma a titolo di mero rimborso delle spese (cfr. Cass. Civ. Sent. n. 4976 del 1997; Cass. Civ. Sent. n. 3021 del 2001; Cass. Civ. Sent. n. 2091 del 1985).
In ogni caso il comodato di un bene immobile in forza di un titolo contrattuale attribuisce al destinatario la qualifica di "detentore qualificato autonomo" nel suo esclusivo interesse.
La sua natura come contratto tipico e la previsione di una durata normalmente prestabilita, fa sì che il contratto di comodato, non meno che la locazione, ben dunque possa costituire un titolo sufficiente ad integrare una posizione soggettiva giuridicamente diversificata come tale meritevole di tutela. Di qui la piena legittimazione della ricorrente in primo grado Fadaf.
Tutti i motivi vanno dunque respinti
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.03.2013 n. 1693 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il fattore “tempo” non può comportare alcuna aspettativa giuridicamente qualificata in capo all’abusivista in quanto il comportamento illecito dei privati è sempre sanzionabile, qualunque sia il tempo trascorso e qualunque sia l'entità dell'infrazione.
Nel caso di un abuso edilizio la circostanza che un manufatto sia risalente nel tempo è infatti giuridicamente irrilevante dato che l'abuso edilizio costituisce un illecito permanente. Per questo, in linea di principio, non può mai parlarsi di né “usucapione” (e tantomeno) del “diritto all’abuso”.
In conseguenza i terzi mantengono intatto il loro interesse alla declaratoria dell’illiceità della costruzione senza che abbia alcun rilievo il decorso del tempo dalla ultimazione delle opere edilizie contestate.
Al pari di quanto previsto per l'impugnazione delle concessioni edilizie, chiunque si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dalla costruzione oggetto di sanatoria, è infatti legittimato ad impugnare le concessioni in sanatoria di cui all'art. 31, l. n. 47 del 1985, ritenute illegittime a decorrere dal momento della piena conoscenza del contenuto del condono. Il sopravvenire della sanatoria del Comune che legittimava l’abuso a seguito dell’istanza dell’interessato che ha giuridico rilievo per i terzi.
In tal caso infatti l’interesse del terzo è sempre attuale in quanto, contrariamente a quanto afferma l’appellante, l’annullamento della concessione edilizia in sanatoria, comporta automaticamente il conseguenziale ordine demolizione delle opere abusive o in difetto l’acquisizione che è, a sua volta, automatica conseguenza del mancato rispetto dell’ordine di demolizione.

In primo luogo si deve ricordare che il fattore “tempo” non può comportare alcuna aspettativa giuridicamente qualificata in capo all’abusivista in quanto il comportamento illecito dei privati è sempre sanzionabile, qualunque sia il tempo trascorso e qualunque sia l'entità dell'infrazione (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 04.05.2012 n. 2592).
Gli artt. 33 e 40, primo comma, della legge 28.02.1985 n. 47 dispongono che le sanzioni previste dal capo I erano applicabili indistintamente a tutte le opere realizzate anteriormente e non sanate, e realizzate senza il prescritto titolo, anche prima dell'entrata in vigore della legge n. 10 del 1977.
Nel caso di un abuso edilizio la circostanza che un manufatto sia risalente nel tempo è infatti giuridicamente irrilevante dato che l'abuso edilizio costituisce un illecito permanente (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 27.12. 2011 n. 6873). Per questo, in linea di principio, non può mai parlarsi di né “usucapione” (e tantomeno) del “diritto all’abuso”.
In conseguenza i terzi mantengono intatto il loro interesse alla declaratoria dell’illiceità della costruzione senza che abbia alcun rilievo il decorso del tempo dalla ultimazione delle opere edilizie contestate. Al pari di quanto previsto per l'impugnazione delle concessioni edilizie, chiunque si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dalla costruzione oggetto di sanatoria, è infatti legittimato ad impugnare le concessioni in sanatoria di cui all'art. 31, l. n. 47 del 1985, ritenute illegittime a decorrere dal momento della piena conoscenza del contenuto del condono (cfr. Consiglio Stato sez. V 07.05.2008 n. 2086; Consiglio Stato sez. V 05.02.2007 n. 452). Il sopravvenire della sanatoria del Comune che legittimava l’abuso a seguito dell’istanza dell’interessato che ha giuridico rilievo per i terzi.
In tal caso infatti l’interesse del terzo è sempre attuale in quanto, contrariamente a quanto afferma l’appellante, l’annullamento della concessione edilizia in sanatoria, comporta automaticamente il conseguenziale ordine demolizione delle opere abusive o in difetto l’acquisizione che è, a sua volta, automatica conseguenza del mancato rispetto dell’ordine di demolizione (cfr. Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd. 19.03.2002 n. 155; Consiglio Stato, sez. V 12.12.2008 n. 6174 ed in precedenza Consiglio Stato, sez. V 26.01.2000 n. 341)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.03.2013 n. 1693 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 167, comma 4, del Codice n. 42 del 2004 non consente di sanare le opere edilizie che abbiano comportato l’aumento di volumi (anche tecnici), ma osserva nel contempo che l’art. 167, proprio perché intende valorizzare e salvaguardare le aree sottoposte al vincolo paesaggistico, consente alla Soprintendenza di esaminare favorevolmente l’istanza di sanatoria (ovviamente, ferme restando tutte le altre valutazioni di sua competenza), quando l’istanza preveda la demolizione di volumi, del tutto legittimamente realizzati, per ‘compensare’ il mantenimento di altri, realizzati senza titolo.
In altri termini, purché si mantenga il rispetto dei limiti legittimamente assentibili in tema delle superfici e dei volumi, ben può la Soprintendenza ritenere accoglibile l’istanza di sanatoria, quando la demolizione di volumi legittimamente assentiti consenta di ritenere che, nel suo complesso, la volumetria legittimamente assentibile non sia inferiore a quella da porre a base del provvedimento di sanatoria.

Per ciò che riguarda l'utilizzazione della demolizione dei manufatti esterni all’edificio al fine di compensare l'aumento di volumetria ad abitazione civile di cui al decimo e al dodicesimo motivo, osserva la Sezione che dalla documentazione acquisita risulta con chiarezza una circostanza senz’altro decisiva per la soluzione della controversia.
Con i provvedimenti impugnati in primo grado, è stata assentita la sanatoria degli incrementi di volume che hanno riguardato l’edificio, poiché la relativa istanza ha chiesto di tenere conto della volumetria del corpo di fabbrica immediatamente adiacente, di cui è stata prevista la demolizione (per ottenere la sanatoria) ed è stato poi effettivamente demolito.
Stando così le cose, la Sezione ritiene di ribadire il proprio orientamento (tra le altre, Sez. VI, 20.06.2012, n. 3578) per il quale l’art. 167, comma 4, del Codice n. 42 del 2004 non consente di sanare le opere edilizie che abbiano comportato l’aumento di volumi (anche tecnici), ma osserva nel contempo che l’art. 167, proprio perché intende valorizzare e salvaguardare le aree sottoposte al vincolo paesaggistico, consente alla Soprintendenza di esaminare favorevolmente l’istanza di sanatoria (ovviamente, ferme restando tutte le altre valutazioni di sua competenza), quando l’istanza preveda la demolizione di volumi, del tutto legittimamente realizzati, per ‘compensare’ il mantenimento di altri, realizzati senza titolo.
In altri termini, purché si mantenga il rispetto dei limiti legittimamente assentibili in tema delle superfici e dei volumi, ben può la Soprintendenza ritenere accoglibile l’istanza di sanatoria, quando la demolizione di volumi legittimamente assentiti consenta di ritenere che, nel suo complesso, la volumetria legittimamente assentibile non sia inferiore a quella da porre a base del provvedimento di sanatoria.
Ciò è quanto è avvenuto nella specie.
L’aumento di volumetria sul fabbricato destinato ad abitazione, pari a 236,88 metri cubi, è risultato inferiore al volume derivante dalla demolizione (effettivamente disposta) degli annessi, pari a 277,02 metri cubi.
Invece, per quanto esposto in precedenza, non rilevano il corpo scala ed il loggiato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.03.2013 n. 1671 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In sede di previsioni di zona di piano regolatore, la valutazione dell’idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici, rientra nei limiti dell’esercizio del potere discrezionale, rispetto al quale, a meno che non siano riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità, non è configurabile neppure il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti.
Ed invero la valutazione da parte del Consiglio comunale in sede di adozione di una variante al piano regolatore circa l'idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici, costituisce l'esercizio di un potere di scelta, a carattere discrezionale, rispetto al quale non è ipotizzabile -in relazione a zone contigue od affini che siano assoggettate a regimi diversi- un'identità di posizioni soggettive ed oggettive che costituisce il presupposto per poter configurare il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento.

Infatti “in sede di previsioni di zona di piano regolatore, la valutazione dell’idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici, rientra nei limiti dell’esercizio del potere discrezionale, rispetto al quale, a meno che non siano riscontrabili errori di fatto o abnormi illogicità, non è configurabile neppure il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti”. (Consiglio Stato, sez. IV, 21.04.2010, n. 2264; Consiglio Stato , sez. IV, 18.06.2009, n. 4024; in senso analogo TAR Lombardia Milano, sez. II, 24.07.2003, n. 3654).
Ed invero “la valutazione da parte del Consiglio comunale in sede di adozione di una variante al piano regolatore circa l'idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici, costituisce l'esercizio di un potere di scelta, a carattere discrezionale, rispetto al quale non è ipotizzabile -in relazione a zone contigue od affini che siano assoggettate a regimi diversi- un'identità di posizioni soggettive ed oggettive che costituisce il presupposto per poter configurare il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento” (TAR Piemonte Torino, sez. I, 19.11.2003, n. 1602)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.03.2013 n. 1639 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’espansione della zona cimiteriale costituisce solo una delle molteplici ragioni del vincolo cimiteriale e il vincolo non può dirsi interrotto per la presenza di una strada.
Invero, "la fascia di rispetto cimiteriale prevista dall'art. 338 t.u. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265, misurata a partire dal muro di cinta del cimitero, costituisce un vincolo assoluto d'inedificabilità, tale da imporsi anche a contrastanti previsioni di piano regolatore generale, che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che sono da individuarsi in esigenze di natura igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale; segue da ciò che non esiste ragione alcuna per ritenere tale vincolo applicabile solo ai centri abitati e non ai fabbricati sparsi, così come, ai fini dell'applicazione del vincolo, appare ininfluente che, a distanza inferiore ai 200 metri, vi sia una strada, atteso che essa non interrompe la continuità del vincolo”.

Infondata è, parimenti, la censura contenuta nel terzo motivo di ricorso, relativa all’asserita non configurabilità nell’ipotesi di specie del vincolo di rispetto cimiteriale, in quanto parte ricorrente non riferisce tale inesistenza all’inconfigurabilità del criterio distanziale, posto ope legis a base di tale vincolo, ma alla natura del cimitero –non connotato da possibilità espansive– ed al fatto che nell’ipotesi di specie vi sarebbe una strada comunale che interromperebbe la continuità con l’area cimiteriale.
Entrambi i presupposti sono privi di fondamento, atteso che l’espansione della zona cimiteriale costituisce solo una delle molteplici ragioni del vincolo cimiteriale e che il vincolo non può dirsi interrotto per la presenza di una strada (cfr., in tal senso Consiglio di Stato sez. IV, 20.07.2011 n. 4403 secondo cui “La fascia di rispetto cimiteriale prevista dall'art. 338 t.u. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265, misurata a partire dal muro di cinta del cimitero, costituisce un vincolo assoluto d'inedificabilità, tale da imporsi anche a contrastanti previsioni di piano regolatore generale, che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici che di opere incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che sono da individuarsi in esigenze di natura igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale; segue da ciò che non esiste ragione alcuna per ritenere tale vincolo applicabile solo ai centri abitati e non ai fabbricati sparsi, così come, ai fini dell'applicazione del vincolo, appare ininfluente che, a distanza inferiore ai 200 metri, vi sia una strada, atteso che essa non interrompe la continuità del vincolo”)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.03.2013 n. 1639 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Non sussiste alcun obbligo per l'Amministrazione di pronunciarsi su un' istanza volta a ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile dall'esterno l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità dell'atto amministrativo mediante l'istituto del silenzio-rifiuto e lo strumento di tutela offerto (oggi dall'art. 117 c. p. a.): infatti, il potere di autotutela si esercita discrezionalmente d'ufficio, essendo rimesso alla più ampia valutazione di merito dell'Amministrazione, e non su istanza di parte e, pertanto, sulle eventuali istanze di parte, aventi valore di mera sollecitazione, non vi è alcun obbligo giuridico di provvedere.
Lo stesso art. 21-nonies della legge n. 241/1990, nell'affermare che il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio sussistendone le ragioni di interesse pubblico rimette la scelta sull'annullamento a un apprezzamento di natura preventiva affidato alla P.A. e, pertanto, opinare diversamente, ossia seguire la tesi secondo la quale, in presenza di un’istanza diretta a sollecitare l'esercizio della potestà di autotutela, l'Amministrazione sia obbligata a una pronuncia esplicita vorrebbe dire neutralizzare la condizione di inoppugnabilità del provvedimento amministrativo che non sia stato contestato nei modi ed entro i termini di legge, vanificando la garanzia di certezza dei rapporti giuridici e avvilendo lo stesso principio di economicità dell'azione amministrativa, che verrebbe posto nel nulla ove si imponesse, a semplice richiesta dell'interessato, l'obbligo di riesame di provvedimenti restati inoppugnati.

- il Collegio ritiene di dover ribadire l’insussistenza, in capo all’amministrazione resistente, di un obbligo giuridico di pronunciarsi in maniera esplicita su un’istanza diretta essenzialmente a ottenere un provvedimento in autotutela;
- il Collegio, in particolare, ritiene che non vi siano, nel caso di specie, valide ragioni per discostarsi dal consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui "non sussiste alcun obbligo per l'Amministrazione di pronunciarsi su un' istanza volta a ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile dall'esterno l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità dell'atto amministrativo mediante l'istituto del silenzio-rifiuto e lo strumento di tutela offerto (oggi dall'art. 117 c. p. a.): infatti, il potere di autotutela si esercita discrezionalmente d'ufficio, essendo rimesso alla più ampia valutazione di merito dell'Amministrazione, e non su istanza di parte e, pertanto, sulle eventuali istanze di parte, aventi valore di mera sollecitazione, non vi è alcun obbligo giuridico di provvedere” (cfr. Consiglio Stato, VI, n. 4308/2010; Consiglio Stato, V, n. 6995/2011);
- che secondo quanto affermato dal Consiglio di Stato in una recentissima sentenza, lo stesso art. 21-nonies della legge n. 241/1990, nell'affermare che il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio sussistendone le ragioni di interesse pubblico rimette la scelta sull'annullamento a un apprezzamento di natura preventiva affidato alla P.A. e, pertanto, opinare diversamente, ossia seguire la tesi secondo la quale, in presenza di un’istanza diretta a sollecitare l'esercizio della potestà di autotutela, l'Amministrazione sia obbligata a una pronuncia esplicita vorrebbe dire neutralizzare la condizione di inoppugnabilità del provvedimento amministrativo che non sia stato contestato nei modi ed entro i termini di legge, vanificando la garanzia di certezza dei rapporti giuridici e avvilendo lo stesso principio di economicità dell'azione amministrativa, che verrebbe posto nel nulla ove si imponesse, a semplice richiesta dell'interessato, l'obbligo di riesame di provvedimenti restati inoppugnati (cfr. in termini Consiglio Stato, IV, n. 355/2013) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.03.2013 n. 1638 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sebbene l'istanza di condono sia relativa ad opere realizzate prima dell'imposizione del vincolo paesaggistico deve ribadirsi l'obbligatorietà dell'acquisizione del parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, ai sensi dell'articolo 32 della legge n. 47/1985.
Infatti, anche se il citato articolo 32 non precisa in quale momento il vincolo debba essere stato imposto perché sorga la necessità di acquisire il suddetto parere, in applicazione del principio tempus regit actum, si ritiene che debba essere applicata la normativa vigente al momento del rilascio della concessione in sanatoria.
Peraltro, risulta dirimente sul punto la decisione dell'Adunanza Plenaria n. 20 del 22.07.1999 che ha enunciato il principio secondo cui "la disposizione dell'art. 32, L. 28.02.1985, n. 47, in tema di condono edilizio, nel prevedere la necessità del parere dell'amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ai fini del rilascio delle concessioni in sanatoria, non reca alcuna deroga ai principi generali e pertanto essa deve interpretarsi nel senso che l'obbligo di pronuncia dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto. Ciò in quanto tale valutazione corrisponde all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente."

Il Collegio ritiene che, in base alla documentazione allegata e alle motivazioni espresse dalla Commissione Tutela dei beni Ambientali, è evidente che il Comune resistente non potesse che denegare il condono richiesto dal ricorrente poiché, secondo la consolidata e condivisibile giurisprudenza, sebbene l'istanza di condono sia relativa ad opere realizzate prima dell'imposizione del vincolo paesaggistico deve ribadirsi l'obbligatorietà dell'acquisizione del parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, ai sensi dell'articolo 32 della legge n. 47/1985 (cfr. Consiglio Stato, IV, 30.06.2010, n. 417; TAR Lazio, Roma; II-quater, 04.02.2011, n. 1044; TAR Campania, Napoli, VII, 14.06.2010, n. 14166; TAR Puglia, Bari, III, 03.12.2008, n. 2765).
Infatti, anche se il citato articolo 32 non precisa in quale momento il vincolo debba essere stato imposto perché sorga la necessità di acquisire il suddetto parere, in applicazione del principio tempus regit actum, si ritiene che debba essere applicata la normativa vigente al momento del rilascio della concessione in sanatoria.
Peraltro, risulta dirimente sul punto la decisione dell'Adunanza Plenaria n. 20 del 22.07.1999 che ha enunciato il principio secondo cui "la disposizione dell'art. 32, L. 28.02.1985, n. 47, in tema di condono edilizio, nel prevedere la necessità del parere dell'amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ai fini del rilascio delle concessioni in sanatoria, non reca alcuna deroga ai principi generali e pertanto essa deve interpretarsi nel senso che l'obbligo di pronuncia dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto. Ciò in quanto tale valutazione corrisponde all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente." (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.03.2013 n. 1635 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell’esenzione del permesso di costruire, l’opera deve essere destinata “ad un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente e sollecita eliminazione, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo”.
In primo luogo, non rileva dunque il carattere stagionale del manufatto realizzato, atteso che esso non implica la precarietà dell'opera, potendo essere la stessa destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la perpetuità della sua funzione; né rileva a tale riguardo la circostanza che l’impiego del bene sia circoscritto ad una sola parte dell'anno, ben potendo la stessa essere destinata a soddisfare un bisogno non provvisorio ma regolarmente ripetibile e dunque ciclico e continuativo.
In questa direzione non implica precarietà dell'opera e richiede, pertanto, il permesso di costruire, il carattere stagionale ossia l’utilizzo annualmente ricorrente della struttura stessa, potendo quest'ultima essere destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione.
La stagionalità, dunque, qualora sia al servizio di un'attività perdurante nel tempo va qualificata costruzione ai sensi del testo unico sull'edilizia.
In secondo luogo, il carattere di precarietà di una costruzione non va desunto dalla possibile facile e rapida amovibilità dell'opera, ovvero dal tipo più o meno fisso del suo ancoraggio al suolo, ma dal fatto che la costruzione appaia destinata a soddisfare una necessità contingente ad essere poi prontamente rimossa

Quanto al motivo sub a) si rammenta che, ai sensi dell’art. 6 del testo unico edilizia (DPR n. 380 del 2001), “sono eseguiti senza alcun titolo abilitativo: … b) le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni”.
La giurisprudenza ha avuto modo di affermare al riguardo che, ai fini dell’esenzione del permesso di costruire, l’opera deve essere destinata “ad un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente e sollecita eliminazione, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo” (Cass. penale, sez. III, 21.06.2011, n. 34763).
In primo luogo, non rileva dunque il carattere stagionale del manufatto realizzato, atteso che esso non implica la precarietà dell'opera, potendo essere la stessa destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la perpetuità della sua funzione; né rileva a tale riguardo la circostanza che l’impiego del bene sia circoscritto ad una sola parte dell'anno, ben potendo la stessa essere destinata a soddisfare un bisogno non provvisorio ma regolarmente ripetibile e dunque ciclico e continuativo (TAR Puglia Bari, sez. II, 31.08.2009, n. 2031; TAR Emilia Romagna Bologna, sez. II, 14.01.2009, n. 19; TAR Lombardia Brescia, sez. I, 22.09.2010, n. 3555).
In questa direzione non implica precarietà dell'opera e richiede, pertanto, il permesso di costruire, il carattere stagionale ossia l’utilizzo annualmente ricorrente della struttura stessa, potendo quest'ultima essere destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione (Cass. penale, sez. III, 21.06.2011, n. 34763; Cons. Stato, sez. IV, 22.12.2007, n. 6615).
La stagionalità, dunque, qualora sia al servizio di un'attività perdurante nel tempo va qualificata costruzione ai sensi del testo unico sull'edilizia (TAR Liguria, sez. I, 27.01.2009, n. 119).
In secondo luogo, il carattere di precarietà di una costruzione non va desunto dalla possibile facile e rapida amovibilità dell'opera, ovvero dal tipo più o meno fisso del suo ancoraggio al suolo, ma dal fatto che la costruzione appaia destinata a soddisfare una necessità contingente ad essere poi prontamente rimossa (TAR Puglia Bari, sez. II, 31.08.2009, n. 2031).
Per le ragioni sopra indicate il primo motivo di ricorso è dunque infondato, dato che correttamente l’amministrazione comunale ha ritenuto necessario al riguardo l’ottenimento del permesso di costruire al fine di consentire la realizzazione dell’opera di cui si controverte (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.03.2013 n. 1626 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In assenza di rilascio di titolo edilizio in sanatoria per quanto realizzato in precedenza, le ulteriori opere eseguite dopo la presentazione dell’istanza di condono devono dirsi abusive e in prosecuzione dell’illecita pregressa attività edilizia, non essendo stato –peraltro– attivato il procedimento per il completamento previsto dall’art. 35 L. 47/1985.
Va quindi ribadito che, in assenza di rilascio di titolo edilizio in sanatoria per quanto realizzato in precedenza, le ulteriori opere eseguite dopo la presentazione dell’istanza di condono devono dirsi abusive e in prosecuzione dell’illecita pregressa attività edilizia, non essendo stato –peraltro– attivato il procedimento per il completamento previsto dall’art. 35 L. 47/1985 (cfr. TAR Campania-Napoli n. 2635 del 05.06.2012; TAR Campania-Napoli n. 184/2008; TAR Campania-Salerno n. 1742/2006; TAR Campania-Napoli n. 2692/2006; TAR Sicilia-Palermo n. 1856/2007; TAR Campania-Napoli n. 1417/2005): per esse quindi, indipendentemente dalla loro consistenza, sarebbe occorso il previo rilascio di un permesso di costruire e di una autorizzazione paesaggistica (trattandosi di zona assoggettata a vincolo d’insieme di tal genere)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.03.2013 n. 1620 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il mero decorso del tempo non può giustificare il mantenimento dell’opera, non essendo suscettibile di decadenza il potere della P.A. in tema di vigilanza sull’assetto del territorio, né, peraltro, è configurabile un’aspettativa tutelabile del privato in tal senso, quando non vi sia stata contezza degli organi amministrativi dell’edificazione (in questo caso ulteriore) realizzata.
In presenza di un intervento edilizio realizzato in assenza del prescritto titolo abilitativo, l'ordine di demolizione costituisce atto dovuto, mentre la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla verifica dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi.

Quanto, poi ai rimanenti profili di censura proposti dal ricorrente, va detto che:
- il mero decorso del tempo non può giustificare il mantenimento dell’opera, non essendo suscettibile di decadenza il potere della P.A. in tema di vigilanza sull’assetto del territorio, né, peraltro, è configurabile un’aspettativa tutelabile del privato in tal senso, quando non vi sia stata contezza degli organi amministrativi dell’edificazione (in questo caso ulteriore) realizzata;
- in presenza di un intervento edilizio realizzato in assenza del prescritto titolo abilitativo, l'ordine di demolizione costituisce atto dovuto, mentre la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla verifica dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi (cfr. TAR Campania-Napoli n. 1098 del 05.03.2012; TAR Campania-Napoli n. 1542 del 03.04.2012; TAR Campania-Salerno n. 702 del 13.04.2011; TAR Campania-Napoli n. 2499 del 04.05.2010)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.03.2013 n. 1620 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: In tutti i casi in cui l'Amministrazione intende emanare un atto di secondo grado (annullamento, revoca, decadenza) incidente su posizioni giuridiche originate da un precedente atto, è necessario l'avviso dell'avvio del procedimento, sempre che non sussistano ragioni di urgenza da esplicitare adeguatamente nella motivazione del provvedimento, ovvero quando all'interessato sia stato comunque consentito di evidenziare i fatti e gli argomenti a suo favore.
... e ciò sulla considerazione che la giurisprudenza è univoca nell’affermare che “In tutti i casi in cui l'Amministrazione intende emanare un atto di secondo grado (annullamento, revoca, decadenza) incidente su posizioni giuridiche originate da un precedente atto, è necessario l'avviso dell'avvio del procedimento, sempre che non sussistano ragioni di urgenza da esplicitare adeguatamente nella motivazione del provvedimento, ovvero quando all'interessato sia stato comunque consentito di evidenziare i fatti e gli argomenti a suo favore” (così Cons. di Stato sez. VI, n. 6413 del 26.10.2006; Cons. di Stato sez. V, n. 7553 del 18.11.2004; TAR Palermo n. 1716 del 02.11.2009; TAR Puglia-Bari n. 61 del 15.01.2009; TAR Sardegna n. 2117 del 26.11.2007; TAR Lazio-Roma n. 10123 del 09.10.2006) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.03.2013 n. 1618 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO DELL’ENERGIA – Istanze dirette all’installazione di impianti fotovoltaici – Unicità del progetto (ai fini della verifica di compatibilità ambientale) – Elementi indiziari o sintomatici – Punto di connessione.
L’amministrazione deve evitare comportamenti surrettizi dei privati che, mediante una artificiosa parcellizzazione degli interventi di propria iniziativa, risultino in concreto preordinati ad eludere la applicazione di una normativa che potrebbe rivelarsi più gravosa rispetto ad un’altra, diversamente improntata a criteri di maggiore celerità procedimentale.
In particolare, in presenza di più istanze dirette alla installazione di impianti fotovoltaici, l’amministrazione competente può legittimamente trarre la conclusione di trovarsi al cospetto di un unico progetto, con la conseguenza di assoggettare il medesimo a verifica di compatibilità ambientale in caso di superamento delle soglie di potenza previste dalla normativa di settore: il collegamento funzionale tra le istanze può ben desumersi da alcuni elementi indiziari o sintomatici dell’unicità dell’operazione imprenditoriale, quali la unicità dell’interlocutore che ha curato i rapporti con l’amministrazione, la medesimezza della società alla quali vanno imputati gli effetti giuridici della domanda di autorizzazione e, per finire, la unicità del punto di connessione.
E questo perché, pur potendosi considerare rilevante l’obiettivo di incentivare la produzione di energia da fonti rinnovabili, appare altrettanto meritevole di tutela l’interesse ad una corretta valutazione dell’impatto ambientale degli impianti di cui si discute, al fine di non sacrificare oltre ogni ragionevole limite il bene ambientale nel suo complesso (Tar Lecce, sez. I, 16.04.2010, n. 926; 17.09.2011, n. 1113; 16.07.2012, n. 1307) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 21.03.2013 n. 620 - link a www.ambientediritto.it).

ENTI LOCALI - VARIBolletta dell'acqua più leggera. Ko la remunerazione del capitale investito nel servizio. Dal Tar Toscana stop ai gestori dei servizi che hanno applicato il prelievo del 7%.
Bolletta dell'acqua più leggera dopo il referendum. Stop alla remunerazione del capitale investito nel servizio grazie ai soldi dell'utente. Grazie all'abrogazione del parametro dell'adeguatezza anche se non indicato nel quesito della consultazione popolare. L'effetto? L'addio alla cosiddetta «voce del 7%».

È quanto emerge dalla sentenza 21.03.2013 n. 436, pubblicata dalla I Sez. del TAR Toscana.
Acqua dunque più leggera, almeno nella bolletta a carico dell'utente, dopo il referendum del 12 e 13.06.2011.
La voce della remunerazione del capitale investito non può essere ricompresa nella regolamentazione tariffaria generale dell'erogazione del servizio. E ciò anche se il parametro della «adeguatezza» di cui al decreto del primo agosto 1996 del ministero per i lavori pubblici non era espressamente indicato nel quesito della consultazione popolare. Stop, dunque, all'Ato e al gestore del servizio che hanno continuato ad applicare la percentuale riconosciuta nella misura del 7% dal metodo normalizzato approvato con il decreto ministeriale.
Il Tar ha accolto il ricorso del forum locale dei Movimenti per l'acqua. I giudici toscani si allineano al parere del Consiglio di stato. Il referendum del 2011 ha abrogato l'articolo 154, comma 1, del dlgs 152/06, che tra i criteri di determinazione della tariffa del servizio idrico integrato ricomprende quello (abrogato) della remunerazione del capitale investito. Il decreto ministeriale previsto dall'articolo 154 non è stato emanato e ha quindi continuato ad avere applicazione, per via della norma transitoria di cui all'articolo 170 del dlgs 152/2006, il decreto ministeriale primo agosto 1996: quest'ultimo costituisce attuazione della normativa all'epoca vigente (articolo 13 della legge 36/1994) e prevede come una delle componenti della tariffa di riferimento la remunerazione del capitale investito.
Secondo Palazzo Spada l'abrogazione incide anche sul riferimento che allo stesso parametro era espresso nel decreto ministeriale primo agosto 1996: il referendum abrogativo, infatti, assume una valenza espansiva rispetto alle disposizioni normative che, pur non essendo espressamente coinvolte dal quesito oggetto della consultazione popolare, sono incompatibili con la volontà manifestata dagli elettori.
E dunque i giudici amministrativi toscani impongono lo stop all'ambito territoriale ottimale e al gestore del servizio laddove i provvedimenti non si sono adeguati all'esito del voto popolare per le tariffe del triennio 2011-2013 (articolo ItaliaOggi del 26.03.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cessione di cubatura – Nozione – Effetti.
L’istituto del cd. asservimento di terreno per scopi edificatori (o cessione di cubatura) consiste in un accordo tra proprietari di aree contigue, aventi la medesima destinazione urbanistica, in forza del quale il proprietario di un'area "cede" una quota di cubatura edificabile sul suo fondo per permettere all'altro di disporre della minima estensione di terreno richiesta per l'edificazione, ovvero di realizzare una volumetria maggiore di quella consentita dalla superficie del fondo di sua proprietà.
E' circostanza indubbia in proposito che gli effetti che ne derivano hanno carattere definitivo ed irrevocabile, integrano una qualità oggettiva dei terreni e producono una minorazione permanente della loro utilizzazione da parte di chiunque ne sia il proprietario.
Vincolo di asservimento – Costituzione – Possibilità edificatorie – Volumetria residua.

Il "vincolo di asservimento" si costituisce per effetto del rilascio del permesso di costruire cui esso è orientato, senza oneri di forma pubblica o di trascrizione, ed incide definitivamente sulla disciplina urbanistica ed edilizia delle aree interessate (cfr. Cons. Stato sez. 5 n. 3637/2000; Cass. civ. n. 1352/96 e n. 9081/98; Cass. pen. sez. 3 n. 21177/09), derivandone l'impossibilità di assentire e di richiedere ulteriori ed eccedenti realizzazioni di volumi costruttivi sul fondo asservito, per la parte in cui esso è rimasto privo della potenzialità edificatoria già utilizzata dal titolare del fondo in favore del quale ha avuto luogo l'asservimento (così testualmente Cass. penale da ultimo citata). Le possibilità edificatorie sull'area asservita sono dunque definitivamente perdute, per il semplice fatto che di esse si è già irreversibilmente disposto.
In altri termini, qualora una porzione di suolo sia stata in concreto utilizzata ai fini del computo della cubatura per l'edificazione di un manufatto edilizio, essa non può essere adoperata allo stesso scopo in futuro, neppure in caso di ulteriore frazionamento ed alienazione dell'area residua, altrimenti si consentirebbe al proprietario-frazionante che avesse già sfruttato la potenzialità edificatoria dell'area rimasta libera, di consentire ad un terzo, indebitamente, attraverso l'alienazione dell'area, un'ulteriore utilizzazione di quanto già da lui utilizzato.
La possibilità di ulteriore edificazione è però configurabile quando la costruzione già realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento dell'ulteriore richiesta di permesso di costruire (cfr. sul punto Cass. sez 4 n. 23230 del 22.04.2004) (TRIBUNALE di Salerno, sentenza 21.03.2013 n. 224 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Conseguimento di un permesso di costruire illegittimo attraverso la rappresentazione di presupposti di fatto insussistenti – Reato di truffa ai danni dell’amministrazione comunale – Presupposto del pregiudizio economico dell’ente pubblico territoriale.
Il conseguimento di un permesso di costruire illegittimo, attraverso la rappresentazione artificiosa di presupposti di fatto in realtà insussistenti, può senz'altro integrare il reato di truffa ai darmi dell'amministrazione comunale, sempre che però si evidenzi, in concreto, un pregiudizio economico dell'ente pubblico territoriale, che non può essere rappresentato dalla mera lesione di interessi collettivi all'ordinato assetto urbanistico del territorio, ma può consistere, ad esempio, nell'apprestamento di opere di urbanizzazione eventualmente rese necessarie dal permanere della costruzione abusiva, ovvero nel dispendio dei mezzi occorrenti per il ripristino dello stato dei luoghi o comunque per l'attività di autotutela necessaria a rimuovere il provvedimento oggettivamente illegittimo e i suoi effetti (cfr. Cass. sez. 2 n. 2529/97 e n. 7259/00) (TRIBUNALE di Salerno, sentenza 21.03.2013 n. 224 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGOIl danno da mobbing è una fattispecie che si fa risalire, quanto alla natura giuridica, alla responsabilità datoriale, di tipo contrattuale, prevista dall’art. 2087 del codice civile che pone a carico del datore di lavoro l’onere di adottare nell’esercizio di impresa tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro.
Il concetto di mobbing, sia in punto di fatto che in punto di diritto, è alquanto indeterminato, ancorché quanto ad una ragionevole sua definizione, possa considerarsi tale quell’insieme di condotte vessatorie e persecutorie del datore di lavoro o comunque emergenti nell’ambito lavorativo concretizzanti la lesione della salute psico-fisica e dell’integrità del dipendente e che postulano, ove sussistenti, una adeguata tutela anche di tipo risarcitorio.
Attesa la indeterminatezza della nozione, la giurisprudenza si è preoccupata di indicare una serie di elementi e/o indizi caratterizzanti il fenomeno del mobbing dai quali far emergere la concreta sussistenza di una condotta offensiva nei sensi sopra esposti, come tradottasi con atti e comportamenti negativamente incidenti sulla reputazione del lavoratore, su i suoi rapporti umani con l’ambiente di lavoro e sul contenuto stesso della prestazione lavorativa.
Così per aversi mobbing è richiesto l’azione offensiva posta in essere a danno del lavoratore deve essere sistematica e frequente posta in essere con una serie prolungata di atti e avere le caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione o rivelare intenti meramente emulativi.
Di contro non si ravvisano gli estremi del mobbing nell’accadimento di episodi che evidenziano screzi o conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro e che per loro stessa natura non sono caratterizzati da volontà persecutoria essendo in particolare collegati a fenomeni di rivalità, ambizione o antipatie reciproche che pure sono frequenti nel mondo del lavoro.

Il danno da mobbing è una fattispecie che si fa risalire, quanto alla natura giuridica, alla responsabilità datoriale, di tipo contrattuale, prevista dall’art. 2087 del codice civile che pone a carico del datore di lavoro l’onere di adottare nell’esercizio di impresa tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro (cfr. Cassazione sezione lavoro 25.05.2006 n. 1244).
Il concetto di mobbing, sia in punto di fatto che in punto di diritto, è alquanto indeterminato ancorché, quanto ad una ragionevole sua definizione, possa considerarsi tale quell’insieme di condotte vessatorie e persecutorie del datore di lavoro o comunque emergenti nell’ambito lavorativo concretizzanti la lesione della salute psico-fisica e dell’integrità del dipendente e che postulano, ove sussistenti, una adeguata tutela anche di tipo risarcitorio (in tal senso, Cass. Sezione Lavoro 26.03.2010 n. 1307).
Attesa la indeterminatezza della nozione, la giurisprudenza si è preoccupata di indicare una serie di elementi e/o indizi caratterizzanti il fenomeno del mobbing dai quali far emergere la concreta sussistenza di una condotta offensiva nei sensi sopra esposti, come tradottasi con atti e comportamenti negativamente incidenti sulla reputazione del lavoratore, su i suoi rapporti umani con l’ambiente di lavoro e sul contenuto stesso della prestazione lavorativa.
Così per aversi mobbing è richiesto l’azione offensiva posta in essere a danno del lavoratore deve essere sistematica e frequente posta in essere con una serie prolungata di atti e avere le caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione o rivelare intenti meramente emulativi (Cass. Sezione lavoro n. 4774/2006; Trib. Roma 07.03.2008 n. 69).
Di contro non si ravvisano gli estremi del mobbing nell’accadimento di episodi che evidenziano screzi o conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro e che per loro stessa natura non sono caratterizzati da volontà persecutoria essendo in particolare collegati a fenomeni di rivalità, ambizione o antipatie reciproche che pure sono frequenti nel mondo del lavoro (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.03.2013 n. 1609 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIDeve ritenersi assolto l’obbligo della motivazione del provvedimento anche quando questa sia esplicitata in maniera succinta, a condizione che risulti idonea a disvelare l’iter logico e procedimentale che consente di inquadrare la fattispecie nell’ipotesi astratta considerata dalla legge.
In particolare, si ritiene che l’obbligo in argomento sia assolto anche in presenza di una motivazione per relationem purché:
a) sia possibile desumere le ragioni in base alle quali la volontà dell’amministrazione si è determinata;
b) l’atto indicato al quale viene fatto riferimento sia reso disponibile agli interessati;
c) non vi siano pareri richiamati che siano in contrasto con altri pareri o determinazioni rese all’interno del medesimo procedimento.
Come ha messo in evidenza la Sezione I di questo Tribunale (cfr. sentenza 09/01/2013 n. 4), la giurisprudenza (cfr. ex multis Cons. St. Sez. IV, 18.02.2010 n. 944) ha affermato che deve ritenersi assolto l’obbligo della motivazione del provvedimento anche quando questa sia esplicitata in maniera succinta, a condizione che risulti idonea a disvelare l’iter logico e procedimentale che consente di inquadrare la fattispecie nell’ipotesi astratta considerata dalla legge.
In particolare, si ritiene (cfr. Cons. giust. amm., 20.01.2003, n. 31; sez. VI, 24.10.1995, n. 1201; sez. IV, 07.03.1994, n. 204) che l’obbligo in argomento sia assolto anche in presenza di una motivazione per relationem purché:
a) sia possibile desumere le ragioni in base alle quali la volontà dell’amministrazione si è determinata;
b) l’atto indicato al quale viene fatto riferimento sia reso disponibile agli interessati;
c) non vi siano pareri richiamati che siano in contrasto con altri pareri o determinazioni rese all’interno del medesimo procedimento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 19.03.2013 n. 274 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl parere dell’autorità preposta alla salvaguardia del vincolo deve comunque recare l’indicazione delle ragioni assunte a fondamento della ritenuta compatibilità o incompatibilità di un dato intervento edilizio con le esigenze di tutela paesistica sottese all’imposizione del vincolo stesso.
Ne discende che l’eventuale diniego deve essere assistito da un apparato motivazionale che –sia pure in forma sintetica– si soffermi sulla realtà dei fatti e sugli elementi ambientali che sconsigliano di assentire un determinato intervento: devono quindi emergere in concreto le ragioni per le quali il manufatto, per le sue caratteristiche architettoniche ed estetiche, viene giudicato pregiudizievole dell’integrità del contesto paesaggistico in cui si inserisce e, con essa, degli specifici interessi pubblici alla cui tutela il vincolo è preordinato.
Osserva il Collegio che la giurisprudenza –esprimendosi sulle zone sottoposte a regime di tutela ambientale (ove viene inciso un bene primario, direttamente tutelato dall’art. 9 della Costituzione)– ha sottolineato che il parere dell’autorità preposta alla salvaguardia del vincolo deve comunque recare l’indicazione delle ragioni assunte a fondamento della ritenuta compatibilità o incompatibilità di un dato intervento edilizio con le esigenze di tutela paesistica sottese all’imposizione del vincolo stesso.
Ne discende che l’eventuale diniego deve essere assistito da un apparato motivazionale che –sia pure in forma sintetica– si soffermi sulla realtà dei fatti e sugli elementi ambientali che sconsigliano di assentire un determinato intervento: devono quindi emergere in concreto le ragioni per le quali il manufatto, per le sue caratteristiche architettoniche ed estetiche, viene giudicato pregiudizievole dell’integrità del contesto paesaggistico in cui si inserisce e, con essa, degli specifici interessi pubblici alla cui tutela il vincolo è preordinato (TAR Toscana, sez. II – 14/03/2008 n. 295; TAR Liguria, sez. I – 22/12/2008 n. 2187; TAR Lazio Roma, sez. II – 05/02/2009 n. 1212; sentenza Sezione 18/03/2011 n. 440).
Nella fattispecie né l’area interessata dall’opera né l’edificio sul quale l’impianto è collocato soggiacciono ad alcun vincolo di natura paesaggistica ovvero storica (salvi i profili che saranno esaminati di seguito ai paragrafi 3.2 e 3.3), per cui in tale quadro fattuale si rendeva necessario un maggior dettaglio valutativo che, sulla base delle caratteristiche dei luoghi, desse conto dell’impossibilità di mantenere il cartello nel contesto urbano ed ambientale.
La formula utilizzata nel provvedimento, in altri termini, non soddisfa certamente i requisiti motivazionali minimi per supportare il diniego essendo richiesta, in questo caso, un’esternazione più puntuale, la quale contempli la reale consistenza del manufatto e la specifica situazione dei luoghi nei quali ricade, e specifichi per quale ragione quel particolare fabbricato (tenuto conto delle sue caratteristiche costruttive individuali) non può ospitare il cartello (si veda anche la sentenza di questa Sezione 12/04/2011 n. 536)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 19.03.2013 n. 274 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn forza dell’art. 878 del codice civile “il muro di cinta e ogni altro muro isolato che non abbia un'altezza superiore ai tre metri non è considerato per il computo della distanza indicata dall'articolo 873 cod. civ.”.
In linea generale tuttavia quando un intervento edilizio determini (o faccia venir meno) un dislivello rispetto al fondo interessato, si realizza una modifica del terreno normalmente assimilata a una nuova costruzione, ed il muro che delimita il terrapieno perde la qualificazione di muro di cinta per assumere quella di muro di sostegno.
In tal senso la Corte di Cassazione ha affermato che “In tema di muri di cinta tra fondi a dislivello, qualora l'andamento altimetrico del piano di campagna -originariamente livellato sul confine tra due fondi- sia stato artificialmente modificato, deve ritenersi che il muro di cinta abbia la funzione di contenere un terrapieno creato "ex novo" dall'opera dell'uomo, e vada, per l'effetto, equiparato a un muro di fabbrica, come tale assoggettato al rispetto delle distanze legali tra costruzioni”.

In forza dell’art. 878 del codice civile “il muro di cinta e ogni altro muro isolato che non abbia un'altezza superiore ai tre metri non è considerato per il computo della distanza indicata dall'articolo 873 cod. civ.”. In linea generale tuttavia quando un intervento edilizio determini (o faccia venir meno) un dislivello rispetto al fondo interessato, si realizza una modifica del terreno normalmente assimilata a una nuova costruzione, ed il muro che delimita il terrapieno perde la qualificazione di muro di cinta per assumere quella di muro di sostegno (cfr. sentenza Sezione 24/08/2012 n. 1462).
In tal senso la Corte di Cassazione (sez. II civile – 04/06/2010 n. 13628) ha affermato che “In tema di muri di cinta tra fondi a dislivello, qualora l'andamento altimetrico del piano di campagna -originariamente livellato sul confine tra due fondi- sia stato artificialmente modificato, deve ritenersi che il muro di cinta abbia la funzione di contenere un terrapieno creato "ex novo" dall'opera dell'uomo, e vada, per l'effetto, equiparato a un muro di fabbrica, come tale assoggettato al rispetto delle distanze legali tra costruzioni”.
Nel caso di specie, tuttavia, parte ricorrente ha argomentato in fatto (fornendo in proposito documentazione probante) la preesistenza di un manufatto in muratura che cingeva le proprietà laterali, il quale è stato ripristinato come in origine, sistemando il terreno alla stessa quota di quelli limitrofi; né in giudizio sono stati esibiti elementi di prova in senso contrario, stante la mancata costituzione dell’amministrazione e della controinteressata.
Il Collegio deve quindi applicare l’art. 64 del codice del processo amministrativo il quale statuisce che “Spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni” (comma 1) e che “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti nonché i fatti non specificamente contestati dalle parti costituite” (comma 2). In effetti, a fronte del ripristino di un muro già esistente e posizionato in loco, deve ritenersi che la modifica artificiale abbia ricondotto la situazione dei luoghi allo stadio originario, recuperando il muro stesso al suo andamento “storico” e naturale. In presenza di tale peculiare condizione non è applicabile l’orientamento giurisprudenziale di cui si è dato conto al precedente paragrafo, e l’opera deve ritenersi ammissibile in quanto rispondente alle condizioni introdotte dall’art. 878 del c.c. (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 19.03.2013 n. 273 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA I cambi di orientamento nella pianificazione urbanistica rientrano in una sfera di ampia discrezionalità. La reformatio in peius e parallelamente il diniego di reformatio in melius non richiedono una motivazione puntualmente riferita a ogni singola proprietà che subisca il ridimensionamento delle facoltà edificatorie o veda frustrata la propria vocazione residenziale.
Le scelte urbanistiche non possono però essere arbitrarie. È sempre necessario che il disegno alla base della nuova disciplina sia complessivamente ragionevole, e che i sacrifici imposti ai proprietari siano proporzionati alle finalità dichiarate e correttamente suddivisi secondo i canoni della perequazione.
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Il secondo profilo di danno parte dal presupposto, corretto, che ogni reiterazione di vincoli espropriativi (categoria a cui appartengono anche le destinazioni urbanistiche in esame: attrezzature per il gioco e lo sport, parcheggi, nuova viabilità) esige la previsione di un indennizzo.
La regola, inizialmente formulata dalla giurisprudenza costituzionale, è ora codificata nell’ordinamento interno dall’art. 39, comma 1, del DPR 327/2001. Si tratta di un principio coerente con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che tutela non solo la proprietà in sé ma anche la certezza della situazione giuridica, messa in pericolo dall’incombenza di poteri appropriativi e ablatori utilizzabili dall’amministrazione in un ampio arco temporale.
Le posizioni giuridiche che derivano dalla mancata previsione dell’indennizzo (risarcimento del danno, liquidazione dell’indennizzo) devono essere tenute distinte. In astratto il danno potrebbe infatti coprire un’area più ampia del semplice mancato indennizzo per reiterazione del vincolo espropriativo. Questa situazione si verifica in particolare quando i provvedimenti urbanistici contenenti il vincolo reiterato siano illegittimi: in tale ipotesi non solo deve essere corrisposto l’indennizzo ma devono essere ristorate anche tutte le perdite ulteriori (ad esempio la perdita di opportunità di vendita o di sfruttamento economico del bene).
Anche quando la reiterazione del vincolo sia legittima (come nel caso in esame) è possibile individuare un’area di danno distinta dal mancato indennizzo. Bisogna però darne una precisa rappresentazione in concreto. Quest’ultima potrebbe consistere nell’affermazione di disagi e inconvenienti prodottisi a cascata per la mancata previsione dell’indennizzo, oppure nell’affermazione di una responsabilità da atto lecito, ossia derivante dalle stesse scelte urbanistiche (che per sé sono legittime: l’omessa previsione dell’indennizzo è infatti illegittima ma non rende illegittimo il piano urbanistico). Nello specifico tuttavia non è stata fornita alcuna prova di perdite patrimoniali appartenenti a queste tipologie. Si può quindi ritenere che il solo danno ristorabile sia la mancata previsione (e corresponsione) dell’indennizzo.
Questa voce risarcitoria, coincidendo con l’indennizzo, fuoriesce però dalla giurisdizione amministrativa e non può dunque essere trattata nella presente sentenza. In questa sede la domanda della ricorrente deve piuttosto essere convertita, applicando estensivamente l’art. 34, comma 3, cpa, da azione di condanna ad azione di accertamento. Più precisamente, viene accertato che la destinazione data al terreno della ricorrente dalla variante del 2005 oggetto di impugnazione costituiva reiterazione di un vincolo espropriativo, alla quale dovevano conseguire necessariamente la previsione e la corresponsione di un indennizzo ai sensi dell’art. 39, comma 1, del DPR 327/2001. Compiuto questo accertamento la giurisdizione amministrativa incontra il suo confine e deve arrestarsi. Ogni ulteriore azione con la quale la ricorrente intenda far valere (e quantificare) il proprio diritto all'indennizzò dovrà essere proposta davanti al giudice ordinario ai sensi dell’art. 39, commi 2-4, del DPR 327/2001.

1. La società ricorrente Immobiliare Rino Roncelli srl (attualmente Riro srl) è proprietaria di un terreno situato nel Comune di Capriate S. Gervasio in via Colombo (mappali n. 2479 e 2482). La superficie dell’area è pari a circa 7.200 mq.
2. Nel previgente PRG approvato nel 1985 il terreno era classificato in parte come “Verde attrezzato – Attrezzature sportive” e in parte come strada di progetto. Una volta decaduto il vincolo espropriativo la ricorrente ha ripetutamente ma inutilmente chiesto tra il 1997 e il 2004 la trasformazione del terreno in area edificabile.
3. Il Comune con deliberazioni consiliari n. 10 del 10.03.2005 e n. 34 del 30.07.2005 ha rispettivamente adottato e approvato una variante generale al PRG. Il terreno della ricorrente è stato classificato in parte come “Aree attrezzate per il gioco e lo sport”, in parte come “Aree per il parcheggio” e in parte come “Aree per nuove strade”. A fronte della reiterazione del vincolo espropriativo non è stato previsto alcun indennizzo.
4. Contro i suddetti provvedimenti la ricorrente ha presentato impugnazione con atto notificato il 14.11.2005 e depositato il 05.12.2005. Le censure possono essere sintetizzate come segue: (i) difetto di motivazione a proposito della reiterazione del vincolo espropriativo; (ii) disparità di trattamento rispetto al terreno vicino, che è stato inserito in zona residenziale soggetta a piano di lottizzazione (PL12) benché fosse stato ceduto gratuitamente al Comune dalla stessa ricorrente con atto del 20.06.2002 quando era parimenti gravato da vincolo espropriativo con destinazione a verde attrezzato; (iii) violazione dell’art. 39 del DPR 08.06.2001 n. 327, in quanto non è stato previsto alcun indennizzo per la reiterazione del vincolo espropriativo. Oltre all’annullamento degli atti impugnati è stata chiesta la condanna al risarcimento del danno, la cui illustrazione è stata rinviata a una successiva fase processuale.
5. Il Comune non si è costituito in giudizio.
6. Con memoria depositata il 16.11.2012 la ricorrente ha comunicato che le proprie istanze sono state recepite dal Comune, sia pure in ritardo, all’interno del PGT adottato con deliberazione consiliare n. 24 del 21.10.2011 e approvato con deliberazione consiliare n. 10 del 20.03.2012. Il terreno in questione è stato infatti inserito in un ambito di trasformazione (ATR2) con destinazione residenziale per una superficie territoriale pari a 5.646 mq (v. doc. 11 della ricorrente).
7. Nonostante la modifica in senso favorevole la ricorrente insiste nella domanda di risarcimento evidenziando il fatto di aver subito per anni un vincolo espropriativo reiterato senza alcun indennizzo.
8. Così riassunta la vicenda, si possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) la domanda di risarcimento proposta dalla ricorrente ha due profili. Da un lato si afferma che il danno deriverebbe dall’illegittimo diniego della trasformazione in senso residenziale del terreno in questione, dall’altro si sostiene che la reiterazione del vincolo espropriativo sarebbe essa stessa fonte di danno in quanto non bilanciata da un indennizzo;
(b) il primo profilo di danno non può trovare accoglimento. Per consolidata giurisprudenza (v. CS Sez. VI 20.06.2012 n. 3571) i cambi di orientamento nella pianificazione urbanistica rientrano in una sfera di ampia discrezionalità. La reformatio in peius e parallelamente il diniego di reformatio in melius non richiedono una motivazione puntualmente riferita a ogni singola proprietà che subisca il ridimensionamento delle facoltà edificatorie o veda frustrata la propria vocazione residenziale;
(c) le scelte urbanistiche non possono però essere arbitrarie. È sempre necessario che il disegno alla base della nuova disciplina sia complessivamente ragionevole, e che i sacrifici imposti ai proprietari siano proporzionati alle finalità dichiarate e correttamente suddivisi secondo i canoni della perequazione;
(d) nello specifico la scelta operata dal Comune nel 2005 di mantenere sul terreno della ricorrente una destinazione ad attrezzature pubbliche non presenta, per quanto emerge dai documenti a disposizione, aspetti di illogicità o irragionevolezza. In particolare, il confronto con il terreno vicino non è significativo, perché quest’ultimo faceva parte già dal 1986 di una lottizzazione residenziale (v. doc. 7 della ricorrente) e dunque risultava ormai acquisito all’ambito edificato del territorio comunale. Di conseguenza era ragionevole che il Comune, in conformità al principio di graduale completamento degli spazi liberi, distribuisse i nuovi diritti edificatori permettendo l’edificazione anche sulla porzione di tale terreno che inizialmente era destinata ad attrezzature pubbliche. La conseguenza di questa impostazione, ossia la concentrazione degli standard urbanistici sul terreno della ricorrente, era parimenti ragionevole, in quanto le attrezzature pubbliche risultavano in questo modo più distanti dagli edifici esistenti e più vicine alla viabilità di progetto;
(e) d’altra parte lo stesso principio di graduale completamento ha poi favorito la ricorrente nella pianificazione successiva, in occasione del PGT, perché a quel punto, esaurita l’edificazione sul terreno vicino, il terreno della ricorrente era il candidato naturale a ospitare i nuovi diritti edificatori individuati come necessari dal Comune per lo sviluppo della collettività;
(f) nessun risarcimento può quindi essere attribuito alla ricorrente per il ritardo con cui il Comune ha classificato il terreno in questione come edificabile;
(g) il secondo profilo di danno parte dal presupposto, corretto, che ogni reiterazione di vincoli espropriativi (categoria a cui appartengono anche le destinazioni urbanistiche in esame: attrezzature per il gioco e lo sport, parcheggi, nuova viabilità) esige la previsione di un indennizzo. La regola, inizialmente formulata dalla giurisprudenza costituzionale (v. C.Cost. 20.05.1999 n. 179), è ora codificata nell’ordinamento interno dall’art. 39, comma 1, del DPR 327/2001. Si tratta di un principio coerente con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che tutela non solo la proprietà in sé ma anche la certezza della situazione giuridica, messa in pericolo dall’incombenza di poteri appropriativi e ablatori utilizzabili dall’amministrazione in un ampio arco temporale (v. CEDU Sez. I 15.07.2004, Scordino, punti 71, 94-99; altri riferimenti in TAR Brescia Sez. I 24.06.2009 n. 1308);
(h) le posizioni giuridiche che derivano dalla mancata previsione dell’indennizzo (risarcimento del danno, liquidazione dell’indennizzo) devono essere tenute distinte. In astratto il danno potrebbe infatti coprire un’area più ampia del semplice mancato indennizzo per reiterazione del vincolo espropriativo. Questa situazione si verifica in particolare quando i provvedimenti urbanistici contenenti il vincolo reiterato siano illegittimi: in tale ipotesi non solo deve essere corrisposto l’indennizzo ma devono essere ristorate anche tutte le perdite ulteriori (ad esempio la perdita di opportunità di vendita o di sfruttamento economico del bene);
(i) anche quando la reiterazione del vincolo sia legittima (come nel caso in esame) è possibile individuare un’area di danno distinta dal mancato indennizzo. Bisogna però darne una precisa rappresentazione in concreto. Quest’ultima potrebbe consistere nell’affermazione di disagi e inconvenienti prodottisi a cascata per la mancata previsione dell’indennizzo, oppure nell’affermazione di una responsabilità da atto lecito, ossia derivante dalle stesse scelte urbanistiche (che per sé sono legittime: l’omessa previsione dell’indennizzo è infatti illegittima ma non rende illegittimo il piano urbanistico – v. CS Ap 24.05.2007 n. 7). Nello specifico tuttavia non è stata fornita alcuna prova di perdite patrimoniali appartenenti a queste tipologie. Si può quindi ritenere che il solo danno ristorabile sia la mancata previsione (e corresponsione) dell’indennizzo;
(j) questa voce risarcitoria, coincidendo con l’indennizzo, fuoriesce però dalla giurisdizione amministrativa e non può dunque essere trattata nella presente sentenza. In questa sede la domanda della ricorrente deve piuttosto essere convertita, applicando estensivamente l’art. 34, comma 3, cpa, da azione di condanna ad azione di accertamento. Più precisamente, viene accertato che la destinazione data al terreno della ricorrente dalla variante del 2005 oggetto di impugnazione costituiva reiterazione di un vincolo espropriativo, alla quale dovevano conseguire necessariamente la previsione e la corresponsione di un indennizzo ai sensi dell’art. 39, comma 1, del DPR 327/2001. Compiuto questo accertamento la giurisdizione amministrativa incontra il suo confine e deve arrestarsi. Ogni ulteriore azione con la quale la ricorrente intenda far valere (e quantificare) il proprio diritto all'indennizzò dovrà essere proposta davanti al giudice ordinario ai sensi dell’art. 39, commi 2-4, del DPR 327/2001 (v. CS Sez. IV 03.03.2009 n. 1214).
9. Il ricorso deve quindi essere parzialmente accolto attraverso una pronuncia di accertamento con i limiti appena descritti. La complessità di alcune questioni consente la compensazione delle spese di giudizio (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 18.03.2013 n. 269 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa domanda di accesso agli atti:
1) deve avere un oggetto determinato o quanto meno determinabile, e non può essere generica;
2) deve riferirsi a specifici documenti senza necessità di un'attività di elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario della richiesta;
3) deve essere finalizzata alla tutela di uno specifico interesse giuridico di cui il richiedente è portatore;
4) non può essere uno strumento di controllo generalizzato dell'operato della p.a. ovvero del gestore di pubblico servizio nei cui confronti l'accesso viene esercitato;
5) non può assumere il carattere di una indagine o un controllo ispettivo, cui sono ordinariamente preposti organi pubblici.

Invero, per consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr. TAR Bari, Sez. II, 02.05.2012 n. 872), la domanda di accesso agli atti deve avere un oggetto determinato o quanto meno determinabile, e non può essere generica; deve riferirsi a specifici documenti senza necessità di un'attività di elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario della richiesta; deve essere finalizzata alla tutela di uno specifico interesse giuridico di cui il richiedente è portatore; non può essere uno strumento di controllo generalizzato dell'operato della p.a. ovvero del gestore di pubblico servizio nei cui confronti l'accesso viene esercitato; non può assumere il carattere di una indagine o un controllo ispettivo, cui sono ordinariamente preposti organi pubblici (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 18.03.2013 n. 262 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa legittimazione ad agire delle associazioni ambientaliste spetta non solo con riferimento alla tutela degli interessi ambientali in senso stretto, ma anche con riferimento alla tutela ambientale in senso lato.
Con riferimento ad Italia Nostra, va ricordato che il Consiglio di Stato ha più volte affermato che, in base alle proprie disposizioni statutarie, l'Associazione è certamente legittimata ad agire in giudizio non solo per la tutela di interessi ambientali in senso stretto, bensì anche per quelli ambientali in senso lato, comprendenti proprio la conservazione e valorizzazione dei beni culturali, dell'ambiente in senso ampio, del paesaggio urbano, rurale e naturale, dei monumenti e dei centri storici e della qualità della vita, intesi tutti come beni e valori ideali idonei a caratterizzare in modo originale, peculiare ed irripetibile un certo ambito geografico e territoriale rispetto ad ogni altro ambito geografico e territoriale e pertanto capaci di assicurare ad ogni individuo che entra in contatto con tale ambito una propria specifica utilità che non può essere assicurata da un altro ambiente.

Sotto un profilo d’ordine generale, va rilevato (cfr. TAR Brescia, Sez. 1, 27.02.2012 n. 274) che la legittimazione ad agire delle associazioni ambientaliste spetta non solo con riferimento alla tutela degli interessi ambientali in senso stretto, ma anche con riferimento alla tutela ambientale in senso lato.
Con riferimento ad Italia Nostra, va ricordato che il Consiglio di Stato ha più volte affermato (cfr. Sez. IV 09.10.2002 n. 5365) che, in base alle proprie disposizioni statutarie, l'Associazione è certamente legittimata ad agire in giudizio non solo per la tutela di interessi ambientali in senso stretto, bensì anche per quelli ambientali in senso lato, comprendenti proprio la conservazione e valorizzazione dei beni culturali, dell'ambiente in senso ampio, del paesaggio urbano, rurale e naturale, dei monumenti e dei centri storici e della qualità della vita, intesi tutti come beni e valori ideali idonei a caratterizzare in modo originale, peculiare ed irripetibile un certo ambito geografico e territoriale rispetto ad ogni altro ambito geografico e territoriale e pertanto capaci di assicurare ad ogni individuo che entra in contatto con tale ambito una propria specifica utilità che non può essere assicurata da un altro ambiente (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 18.03.2013 n. 259 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACostituiscono edifici diruti gli organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali e privi di copertura, escludendo che gli interventi svolti sugli stessi possano essere classificati come restauro e risanamento conservativo.
Inoltre, è stato chiarito che si deve distinguere tra le ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione, nel quale caso è possibile parlare di demolizione e fedele ricostruzione, e dunque di ristrutturazione; e le ipotesi in cui, invece, manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare, configurandosi in quest'evenienza, invero, un intervento di nuova costruzione, per l'assenza degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali.

Al riguardo va ricordato che la giurisprudenza ha specificato che costituiscono edifici diruti gli organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali e privi di copertura (cfr. TAR Campania, Sez. IV, 14.12.2006 n. 10553), escludendo che gli interventi svolti sugli stessi possano essere classificati come restauro e risanamento conservativo (cfr. TAR Campania, Sez. VIII, 04.03.2010, n. 1286; idem, Sez. VI, 09.11.2009 n. 7049; TAR Latina, 15.07.2009, n. 700).
Inoltre, è stato chiarito che si deve distinguere tra le ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione, nel quale caso è possibile parlare di demolizione e fedele ricostruzione, e dunque di ristrutturazione; e le ipotesi in cui, invece, manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare, configurandosi in quest'evenienza, invero, un intervento di nuova costruzione (cfr. TAR Veneto Venezia, sez. II, 05.06.2008, n. 1667), per l'assenza degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 10.02.2004, n. 475) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 18.03.2013 n. 258 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa definizione della “sagoma” di un edificio è la “conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti”.
La definizione della “sagoma” di un edificio accolta dal primo giudice, quale “conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti”, è quella consolidata in giurisprudenza, anche penale (cfr. Cass., III: 09.10.2008, n. 38408; 06.02.2001, n. 9427), e da ultimo ripresa dalla Corte costituzionale (sentenza 23.11.2011, n. 309) a proposito della stessa l.r. Lombardia n. 12 del 2005.
A questi fini rileva la qualificazione dell’intervento che, con la d.i.a. del 2010, è stato riferito agli articoli 63, 64 e 65 della legge regionale n. 12 del 2005, individuandosi di conseguenza quale “ristrutturazione edilizia” (art. 64, comma 2, con rinvio all’art. 27, comma 1, lett. d) e perciò vincolata in linea di principio alla non modificazione della sagoma dell’edificio, ai sensi della normativa regionale e statale [(art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 06.06.2001, n. 380)] (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.03.2013 n. 1564 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sull'istituto della convalida degli atti amministrativi illegittimi.
La questione giuridica riguarda il rapporto tra la norma di cui all'articolo 6 della legge 249 del 1968 che prevede la possibilità di convalida di atti viziati di incompetenza, cui può provvedersi anche in pendenza di una controversia in sede amministrativa o giurisdizionale, con la norma di cui all'articolo 21-nonies della legge 241 del 1990, che consente all'amministrazione la convalida o ratifica di un precedente provvedimento, ponendo peraltro il limite del tempo “ragionevole” per il suo espletarsi.
La norma prevista dalla citata legge 241, introdotta con la legge 15 del 2005, enuncia un principio di carattere generale, evidenziando che ogni volta in cui l'amministrazione rivede una propria decisione precedente, eliminando alcuni vizi dell'atto originario, deve tener conto del fattore temporale, in particolare del termine ragionevole, per evitare di urtare contro interessi o aspettative consolidate che si sono create proprio per il trascorrere del tempo.
Ritiene questo collegio che tale previsione, come altre analoghe della legge 241 del 1990, non fa altro che codificare la rilevanza del fattore tempo che la giurisprudenza aveva già più volte affermato in relazione al comportamento della pubblica amministrazione. Tale principio peraltro, per la sua generalità e per il suo riferimento espresso ai canoni di buon andamento della pubblica amministrazione di rilievo costituzionale, influenza anche l'applicazione concreta dell'articolo 6 della legge 249 del 1968 riguardante la convalida degli atti viziati da incompetenza.
In sostanza, le due norme vanno lette e interpretate congiuntamente e implicano che il potere dell'amministrazione di correggere eventuali suoi errori o illegittimità, per un vizio di incompetenza o per altro motivo, deve comunque essere accompagnato da una particolare valutazione e motivazione ove il lasso di tempo intercorso tra l'emanazione del primo provvedimento e quello successivo di modifica risulti lungo in relazione alla fattispecie concreta.

Quanto al vizio di incompetenza è necessario a questo punto esaminare il provvedimento di convalida adottato dal comune e impugnato con i motivi aggiunti.
La questione giuridica riguarda il rapporto tra la norma di cui all'articolo 6 della legge 249 del 1968 che prevede la possibilità di convalida di atti viziati di incompetenza, cui può provvedersi anche in pendenza di una controversia in sede amministrativa o giurisdizionale, con la norma di cui all'articolo 21-nonies della legge 241 del 1990, che consente all'amministrazione la convalida o ratifica di un precedente provvedimento, ponendo peraltro il limite del tempo “ragionevole” per il suo espletarsi.
La norma prevista dalla citata legge 241, introdotta con la legge 15 del 2005, enuncia un principio di carattere generale, evidenziando che ogni volta in cui l'amministrazione rivede una propria decisione precedente, eliminando alcuni vizi dell'atto originario, deve tener conto del fattore temporale, in particolare del termine ragionevole, per evitare di urtare contro interessi o aspettative consolidate che si sono create proprio per il trascorrere del tempo.
Ritiene questo collegio che tale previsione, come altre analoghe della legge 241 del 1990, non fa altro che codificare la rilevanza del fattore tempo che la giurisprudenza aveva già più volte affermato in relazione al comportamento della pubblica amministrazione. Tale principio peraltro, per la sua generalità e per il suo riferimento espresso ai canoni di buon andamento della pubblica amministrazione di rilievo costituzionale, influenza anche l'applicazione concreta dell'articolo 6 della legge 249 del 1968 riguardante la convalida degli atti viziati da incompetenza.
In sostanza, le due norme vanno lette e interpretate congiuntamente e implicano che il potere dell'amministrazione di correggere eventuali suoi errori o illegittimità, per un vizio di incompetenza o per altro motivo, deve comunque essere accompagnato da una particolare valutazione e motivazione ove il lasso di tempo intercorso tra l'emanazione del primo provvedimento e quello successivo di modifica risulti lungo in relazione alla fattispecie concreta.
Nel caso in esame peraltro l'ordinanza di convalida impugnata con i motivi aggiunti si fa carico sia della giurisprudenza formatasi nel frattempo sulle competenze della dirigenza amministrativa, sia del fatto che le caratteristiche strutturali della strada sono rimaste analoghe. Ciò nonostante il comune non ha tenuto in debito conto il fattore temporale prima di procedere alla convalida dell'atto precedente, per cui il vizio sollevato nei motivi aggiunti deve anch’esso trovare accoglimento.
Infatti, l’altro aspetto trascurato dal Comune nell’atto di convalida è la circostanza, già sopra cennata, che la strada è stata in concreto e in via continuativa utilizzata per accedere alla discarica, per cui appariva opportuno a distanza di più di dieci anni verificare ex novo la situazione e rideterminarsi nel merito dell’originaria ordinanza.
La questione peraltro risulta superata dai vizi dell'atto originario che si riverberano ovviamente sulla convalida che va pertanto anch'essa annullata.
Per scrupolo di completezza va aggiunto che il fattore temporale rileva anche per alcune considerazioni che questo collegio non può fare a meno di evidenziare: la permanente efficacia dell'ordinanza del Tar Veneto che ha consentito il transito dei mezzi pesanti della strada in questione, per più di 10 anni, non ha comportato né alcun intervento da parte del comune per la manutenzione e rimessa in pristino della strada che asseritamente era dissestata e il cui intervento di sistemazione era considerato prioritario, né ha provocato alcun noto aggravio o inconveniente per la pubblica sicurezza della zona in questione.
Pur essendo vicende successive all'atto impugnato, tuttavia esse evidenziano ancor più la sussistenza del vizio di difetto di istruttoria e di motivazione del provvedimento qui impugnato.
Per tutte le su indicate ragioni il ricorso e i motivi aggiunti vanno accolti e gli atti impugnati, vale a dire l'ordinanza del sindaco di Sacile del 26.04.2002 n. 43 e la successiva ordinanza di convalida n. 132 del 24.09.2012 vanno annullate.
Le oscillazioni giurisprudenziali in materia e il fatto che questo Tar si è pronunciato in senso opposto con la sentenza 105 del 2009 inducono il collegio a compensare le spese di giudizio fra le parti in causa (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 13.03.2013 n. 150 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abitazioni abusive, ''carico urbanistico'' anche per l'uso protratto sul territorio.
L'aggravamento del carico urbanistico può consistere negli effetti sul territorio dell'utilizzazione abitativa dell'immobile protrattasi nel tempo, poiché il ''carico urbanistico'' e' l'effetto che viene prodotto dall'insediamento primario, come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero delle persone insediate su di un determinato territorio.

La Corte Suprema torna a pronunciarsi, con la sentenza in esame, sulla disciplina edilizia, focalizzando in particolare la propria attenzione sulla nozione di “carico urbanistico” e sugli effetti che la stessa può avere in termini di sequestrabilità di un immobile abusivamente realizzato.
La Corte, dissentendo dall’impostazione giuridica assunta dal Tribunale del riesame che aveva confermato l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari, il quale aveva rigettato la richiesta di convalida del sequestro preventivo effettuato dalla polizia giudiziaria, avente ad oggetto un immobile asseritamente abusivo in uso all'indagata, in relazione ai reati di cui agli artt. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 349 c.p., ha annullato l’ordinanza di rigetto ritenendo erroneo il ragionamento giuridico del G.i.p., che aveva fondato la propria decisione sull'erroneo presupposto che l'aggravamento del carico urbanistico non possa consistere negli effetti sul territorio dell'utilizzazione abitativa dell'immobile protrattasi nel tempo.
Il fatto
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione, come sinteticamente anticipato, trae origine dall’impugnazione contro l’ordinanza del Tribunale del riesame che aveva confermato l’ordinanza del G.i.p. di rigetto della richiesta di convalida del sequestro preventivo eseguito d’iniziativa dalla polizia giudiziaria per i reati di violazione di sigilli e di costruzione edilizia abusiva. il Tribunale, in particolare, aveva affermato che l'uso del manufatto per esigenze abitative non incidesse apprezzabilmente sul carico urbanistico, non essendo stata dimostrata, in concreto, un'ulteriore lesione all'assetto del territorio e che, comunque, il carico urbanistico non risultava «ulteriormente compromesso rispetto al momento consumativo del reato e, ove lo fosse, si tratterebbe di una situazione praticamente consolidatasi nel tempo».
Il ricorso
Avverso l’ordinanza reiettiva proponeva ricorso per cassazione il procuratore della repubblica, secondo cui, invece, vi sarebbe stato, invece, un costante aggravio del carico urbanistico, perché nella specie si tratta di un'abitazione cui devono necessariamente correlarsi una serie di insediamenti secondari e servizi, e a nulla varrebbe richiamare il decorso del tempo, perché il consolidamento della situazione negli anni certo non alleggerisce le esigenze cautelari, le quali rimangono inalterate; inoltre, ad abundantiam, l’ordinanza non conterrebbe alcuna motivazione circa il periculum in mora collegato al contestato reato di violazione di sigilli.
La decisione della Cassazione

La tesi ha convinto i giudici di legittimità che, del resto, su conforme parere del Procuratore Generale d'udienza, hanno annullato il provvedimento impugnato.
Per bene comprendere la soluzione della Cassazione, è utile una riflessione sul punto centrale della questione, correlato alla corretta interpretazione della nozione di “carico urbanistico”.
A tal proposito, è importante ricordare che l'incidenza di un immobile sul carico urbanistico va valutata secondo indici concreti e può essere rappresentata dalla consistenza dell'insediamento edilizio, dal numero di nuclei familiari presenti, dall'incremento della domanda di strutture, opere collettive e dotazione minima di spazi pubblici per abitante, dalla necessità di salvaguardare l'ambiente e la staticità dei luoghi e, infine, dalla possibilità che le opere non ancora ultimate siano portate a compimento e le unità non ancora abitate siano occupate.
Il giudice di merito deve, dunque, valutare attentamente e, conseguentemente, motivare, la sussistenza del pericolo derivante dalla libera disponibilità del bene pertinente al reato, considerando, in particolare, la reale compromissione degli interessi attinenti al territorio ed ogni altro dato utile a stabilire in che misura il godimento e la disponibilità attuale della cosa da parte dell'indagato o di terzi possa implicare una effettiva ulteriore lesione del bene giuridico protetto, ovvero se l'attuale disponibilità del manufatto costituisca un elemento neutro sotto il profilo della offensività.
Più precisamente, osserva la Cassazione, la nozione di "carico urbanistico" deriva dall'osservazione che ogni insediamento umano è costituito da un elemento cd. primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di servizio (opere pubbliche in genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione del gas) che deve essere proporzionato all'insediamento primario, ossia al numero degli abitanti insediati ed alle caratteristiche dell'attività da costoro svolte.
Quindi, il carico urbanistico è l'effetto che viene prodotto dall'insediamento primario come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero delle persone insediate su di un determinato territorio.
Si tratta di un concetto, non definito dalla vigente legislazione, ma che è in concreto preso in considerazione in vari istituti del diritto urbanistico, tra i quali:
a) gli standards urbanistici di cui al d.m. 02.04.1968, n. 1444, che richiedono l'inclusione, nella formazione degli strumenti urbanistici, di dotazioni minime di spazi pubblici per abitante a seconda delle varie zone;
b) la sottoposizione a concessione e, quindi, a contributo sia di urbanizzazione che sul costo di produzione, delle superfici utili degli edifici, in quanto comportino la costituzione di nuovi vani capaci di produrre nuovo insediamento;
c) il parallelo esonero da contributo di quelle opere che non comportano nuovo insediamento, come le opere di urbanizzazione o le opere soggette ad autorizzazione. In base alle predette precisazioni, dunque, per i Giudici di Piazza Cavour l'ordinanza impugnata non fa corretta applicazione di tali principi, perché si limita ad affermare che non vi è aggravamento del carico urbanistico, perché non vi è una compromissione ulteriore rispetto al momento consumativo del reato e, ove vi fosse, «si tratterebbe di una situazione praticamente consolidatasi da tempo».
Così argomentando, infatti, secondo la Cassazione, il Tribunale non tiene conto del fatto che il carico urbanistico è l'effetto che viene prodotto da una condotta ulteriore rispetto alla semplice consumazione del reato e, cioè, dall'insediamento primario come domanda di strutture e opere collettive.
Lo stesso Tribunale basa, dunque, la sua decisione sull'erroneo presupposto che l'aggravamento del carico urbanistico non possa consistere negli effetti sul territorio dell'utilizzazione abitativa dell'immobile abusivo protrattasi nel tempo.
Ne discende, dunque, l’annullamento dell’ordinanza impugnata, con rinvio al tribunale perché faccia corretta e coerente applicazione dei principi relativi in materia di “carico urbanistico”.
La soluzione non può che essere condivisa, rientrando del resto le argomentazioni dei giudici di legittimità in un orientamento ormai da tempo consolidato (v., in precedenza, sulla nozione di “carico urbanistico” e sulla rilevanza in termini di sequestrabilità: Cass. pen., Sez. III, 17.02.2012, n. 6599, S., in Ced Cass., n. 252016).
Ancora, nel senso che l'esigenza cautelare di evitare l'aggravamento del carico urbanistico è incompatibile con l'autorizzazione all'uso dell'immobile stesso, v. Cass. pen., Sez. III, 13.01.2009, n. 825, V., in Ced Cass., n. 242156) (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione penale, sentenza 12.03.2013 n. 11544).

TRIBUTITarsu alberghi come le case. Se manca l'attività di ristorazione.
Per gli alberghi che all'interno della struttura non hanno un'attività di ristorazione non sono giustificate tariffe Tarsu più elevate rispetto alle civili abitazioni.

Lo ha stabilito il TAR Puglia-Lecce (Sez. II), con la sentenza 12.03.2013 n. 570.
Il Tar ha ritenuto illegittima la delibera del comune di Brindisi che aveva fissato tariffe Tarsu maggiorate rispetto alle abitazioni. Quindi, ha accolto il ricorso presentato dall'associazione albergatori della provincia di Brindisi, poiché l'amministrazione comunale non aveva operato la dovuta distinzione tra le varie strutture ricettive.
Secondo il giudice amministrativo, «può considerarsi giustificato un regime di tassazione più elevato per gli alberghi con servizio di ristorazione, in considerazione del fatto che l'esercizio di un'attività di questo tipo (che, di regola, non è limitata ai soli clienti dell'albergo) può determinare una produzione quantitativamente e qualitativamente significativa di rifiuti». Invece, un albergo che non eroga servizi di ristorazione «manifesta una capacità di produrre rifiuti pari o, addirittura, inferiore a quella delle abitazioni private».
Questa pronuncia, però, non è in linea con il principio più volte affermato dalla Cassazione (sentenze 8278/2008, 302/2010 e ordinanza 12859/2012), secondo cui i comuni sono legittimati a fissare tariffe più alte per le attività alberghiere perché potenzialmente producono più rifiuti delle abitazioni. Sulla questione emerge da tempo un evidente contrasto tra giudici di legittimità e di merito.
Alcune commissioni tributarie hanno escluso che le amministrazioni comunali possano stabilire tariffe più elevate rispetto alle civili abitazioni, poiché l'articolo 68 del decreto legislativo 507/1993, con una formulazione piuttosto infelice, prevede che «in via di massima» dovrebbero essere inquadrate nella stessa categoria degli alberghi.
In realtà, ex lege, l'articolazione delle categorie e delle eventuali sottocategorie deve essere fatta, ai fini della determinazione comparativa delle tariffe, tenendo conto dei gruppi di attività e dell'utilizzazione degli immobili (articolo ItaliaOggi del 29.03.2013).

SICUREZZA LAVOROLavoro. Requisito in più rispetto a quelli del decreto 81/2008. La delega sulla sicurezza deve precisare i compiti.
Perché la delega in materia di sicurezza sul lavoro sia valida, è necessario che il delegante precisi i compiti antinfortunistici attribuiti al delegato. Altrimenti mancherebbe, nel documento, un elemento essenziale per valutare l'adeguatezza delle risorse date dal delegante al delegato.

È questo il principio stabilito dalla Corte di Cassazione, Sez. IV penale, che, con la sentenza 11.03.2013 n. 11442, ha aggiunto un requisito per la validità della delega di funzioni oltre a quelli previsti dall'articolo 16 del decreto legislativo 81/2008.
Il caso esaminato dai giudici riguarda un lavoratore che viene colpito al volto da parti di un macchinario, modificato dall'azienda utilizzatrice per esigenze produttive. Il tribunale condanna il direttore di stabilimento per il reato di lesioni personali colpose (articolo 590 del Codice penale), considerandolo delegato alla sicurezza e coordinatore del servizio di ingegneria industriale, nell'ambito del quale si è verificato l'infortunio. Il direttore ricorre in secondo grado, sostenendo la responsabilità del capo del servizio ingegneria industriale, da lui incaricato dell'osservanza delle norme antinfortunistiche. Ma la Corte d'appello conferma la condanna ritenendo il direttore incaricato, dal Cda, della prevenzione riguardante le macchine e coordinatore del servizio. I giudici, in particolare, negano validità alla delega perché non idonea a trasferire le funzioni del direttore e, comunque, non operativa, dato che il presunto delegato è assente, da tempo, e non è stato sostituito.
Il direttore, a questo punto, ricorre in Cassazione, che però conferma la sentenza d'appello. Per farlo, i giudici precisano che l'articolo 16 del decreto legislativo 81/2008 stabilisce che la delega di funzioni in materia di sicurezza sul lavoro può essere conferita dal datore di lavoro o da chi sia già stato da lui delegato, nel rispetto di una serie di requisiti: il delegato deve possedere i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla natura delle funzioni delegate; la delega deve risultare da atto scritto con data certa; la delega deve conferire i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla funzione e l'autonomia di spesa necessaria; la delega deve essere accettata dal delegato per iscritto e a essa deve essere data adeguata e tempestiva pubblicità.
In questo quadro normativo la Cassazione, in primo luogo, afferma che non è delega l'atto che si limiti a nominare un responsabile di servizio o che concretizzi la normale articolazione organizzativa aziendale. Inoltre, non basta per la delega che il documento precisi che i compiti aziendali delegati siano da svolgere «nel rispetto di tutte le norme infortunistiche»: formula utile solo a evidenziare la necessità di rispettare gli obblighi derivanti dalla legge. La Corte sostiene, inoltre, che l'individuazione specifica dei compiti antinfortunistici trasferiti, anche se non richiesta dall'articolo 16, è requisito necessario della delega, perché senza di esso manca un parametro per valutare l'adeguatezza delle risorse messe a disposizione del delegato.
I giudici, infine, prendono atto che il presunto delegato fosse assente, già da tempo prima dell'avvenuto infortunio, e chiariscono che ciò, comunque, escluderebbe l'operatività della delega di funzioni (articolo Il Sole 24 Ore del 25.03.2013).

EDILIZIA PRIVATANel nostro ordinamento, vigente il noto art. 19 della Costituzione, conforme del resto all’art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nessun soggetto può ordinare ad altro di non pregare a casa propria. 
Assume infatti il Comune che il locale per cui è causa, legittimamente adibito a sede dell’associazione ricorrente, sarebbe in fatto adibito ad altro uso, a sede dedicata di culto islamico ovvero a moschea, uso per il quale, a differenza che per la sede di una associazione, è richiesto il permesso di costruire ai sensi dell’art. 52, comma 3-ter, della l.r. Lombardia 12/2005, nella specie mancante.
In tal senso, deve allora osservarsi che il Comune ha senz’altro il potere di sanzionare l’uso di un locale difforme dalla destinazione, ma che nel caso di specie l’uso difforme non può essere identificato con il mero fatto che nel locale si svolga la preghiera. Infatti, come risulta dalla giurisprudenza –in tal senso C.d.S., sez. IV, 28.01.2011, n. 683- e dalla prassi –in tal senso il parere al Ministero dell’Interno espresso il 27.01.2011 dal Comitato per l’Islam italiano- per ravvisare la presenza di una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno intrinseco, dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri, l’altro estrinseco, dato dal dover accogliere “tutti coloro che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essi svolte” e “consentire la pratica del culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o sciita, o nazionalità essi siano” (così il parere citato).
Allo stesso modo, si osserva, una chiesa consacrata nei termini della religione cattolica può esistere anche all’interno di una proprietà privata -come nel caso delle cappelle gentilizie o di conventi, dove è ben possibile dir regolarmente Messa- ma non assume rilievo urbanistico edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei fedeli.
Pertanto, l’uso incompatibile può verificarsi, e può essere accertato dall’autorità, nel caso in cui l’accesso per la libera attività di preghiera sia non riservato ai membri dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di costruire.

L’Amministrazione comunale, una volta preso conoscenza dell’atto costitutivo e dello statuto dell’Associazione islamica qui ricorrente, è pervenuta dunque alla conclusione che l’utilizzo dei locali richiederebbe, anche in assenza di lavori, il rilascio del permesso di costruire.
Tale tesi non può essere condivisa.
La fattispecie all’esame è assai simile a quella definita dal TAR Milano, Sez. 2° con la sentenza ex art. 60 c.p.a. n. 6415 del 23.09.2010, alle cui motivazioni si rinvia ex art. 74 c.p.a. (Per comodità del lettore si riporta il punto centrale della sentenza: <<di per sé le opere oggetto dell’istanza non rivelano, in alcun modo, la volontà dell’associazione ricorrente di attuare una destinazione del fabbricato ad “attrezzatura di interesse comune per servizi religiosi”, ai sensi dell’art. 71, l. Regione Lombardia n. 12/2005, piuttosto che a propria sede.
Il fabbricato non può, difatti, essere qualificato, per effetto di tali interventi, quale immobile destinato al culto, all’abitazione dei ministri del culto o del personale di servizio, ovvero ad attività di formazione religiosa.
La fattispecie non rientra neppure nell’ipotesi di cui all’art. 71, c. 1, lett. c, della l. Regione Lombardia n. 12/2005: in essa sono, difatti, ricompresi “gli immobili adibiti ad attività educative, culturali, sociali, ricreative e di ristoro compresi gli immobili e le attrezzature fisse destinate alle attività di oratorio e similari che non abbiano fini di lucro” unicamente se tali attività vengano svolte “nell’esercizio del ministero pastorale”.
Il rifacimento di coperture di pavimentazione, il ripristino di intonaci, la sistemazione di pilastri in cartongesso, l’imbiancatura dei locali, la realizzazione di impianti igienico–sanitari ed elettrici non palesano, di per sé, in alcun modo, la volontà di realizzare un luogo di culto né di esercitare nell’immobile un’attività connessa all’esercizio del ministero pastorale, attività che, oltretutto, non rientra tra quelle indicate nello statuto dell’associazione “Centro Culturale Pace”;
- né quanto sostenuto dall’amministrazione circa l’essere il Centro Culturale “emanazione di una confessione religiosa” assume alcun rilievo, non potendo dedursi dalla natura e dall’orientamento religioso del proprietario di un immobile la volontà di imprimere ad esso una particolare destinazione d’uso.
La stessa difesa dell’amministrazione comunale ammette che l’immobile non è una moschea ma “un luogo di riunione ed assistenza riservato alla comunità religiosa islamica”: il fatto che i servizi prestati dall’associazione siano rivolti ad una comunità appartenente ad una determinata confessione religiosa, ma dichiaratamente erogati al solo scopo di promuoverne l’integrazione e l’inserimento nella società, non rivela affatto la volontà di destinare i locali in cui essa ha la propria sede a luogo di culto o comunque ad attività connesse all’esercizio del ministero pastorale, come richiede l’art. 71 della l. Regione Lombardia n. 12/2005;
- parimenti, la circostanza che vi possa essere stato, in passato, un uso di fatto dell’immobile anche quale luogo di culto e di preghiera, non è indicativa di un intento di modificare la funzione originaria dell’immobile, al fine di adibirlo, in via permanente, ad una funzione diversa rispetto a quella di sede del Centro Culturale;
- la volontà di attuare una particolare destinazione d'uso -nel caso di specie ad “attrezzatura di interesse comune per servizi religiosi”- deve, invero, trovare una corrispondenza nella natura e nella tipologia di opere realizzate e non può essere inferita dall’uso di fatto che possa, in precedenza, essere stato posto in essere (cfr. Tar Lombardia, Milano, 17.09.2009, n. 4665), tanto più quando l’istanza di sanatoria non faccia riferimento alcuno ad una destinazione di tipo religioso.
>>).
Va soggiunto che la Sezione, con la recente ordinanza cautelare n. 483 del 31.10.2012, ha svolto le seguenti ulteriori considerazioni: <<… nel nostro ordinamento, vigente il noto art. 19 della Costituzione, conforme del resto all’art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nessun soggetto può ordinare ad altro di non pregare a casa propria (cfr. ricorso, p. 9 dal dodicesimo rigo). Del resto, la difesa del Comune intimato è incentrata su un presupposto diverso, che ben può essere quello che storicamente ha ispirato l’azione dell’ente, ma all’evidenza non può ricavarsi a fronte di un dispositivo del provvedimento che dice altro.
Assume infatti il Comune che il locale per cui è causa, legittimamente adibito a sede dell’associazione ricorrente, sarebbe in fatto adibito ad altro uso, a sede dedicata di culto islamico ovvero a moschea, uso per il quale, a differenza che per la sede di una associazione, è richiesto il permesso di costruire ai sensi dell’art. 52, comma 3-ter, della l.r. Lombardia 12/2005, nella specie mancante.
In tal senso, deve allora osservarsi che il Comune ha senz’altro il potere di sanzionare l’uso di un locale difforme dalla destinazione, ma che nel caso di specie l’uso difforme non può essere identificato con il mero fatto che nel locale si svolga la preghiera. Infatti, come risulta dalla giurisprudenza –in tal senso C.d.S., sez. IV, 28.01.2011, n. 683- e dalla prassi –in tal senso il parere al Ministero dell’Interno espresso il 27.01.2011 dal Comitato per l’Islam italiano- per ravvisare la presenza di una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno intrinseco, dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri, l’altro estrinseco, dato dal dover accogliere “tutti coloro che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essi svolte” e “consentire la pratica del culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o sciita, o nazionalità essi siano” (così il parere citato).
Allo stesso modo, si osserva, una chiesa consacrata nei termini della religione cattolica può esistere anche all’interno di una proprietà privata -come nel caso delle cappelle gentilizie o di conventi, dove è ben possibile dir regolarmente Messa- ma non assume rilievo urbanistico edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei fedeli. Pertanto, l’uso incompatibile può verificarsi, e può essere accertato dall’autorità, nel caso in cui l’accesso per la libera attività di preghiera sia non riservato ai membri dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di costruire;
>>.
Le spese di giudizio, liquidate come da dispositivo, vanno poste -alla stregua del principio victusvictori- a carico della resistente Amministrazione (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 08.03.2013 n. 242 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Abuso di ufficio e reato urbanistico.
Il rilascio di un titolo abilitativo edilizio per la realizzazione di un immobile la cui edificazione non è consentita determina inequivocabilmente un vantaggio patrimoniale ingiusto nei confronti del privato che lo ottiene e che, in forza del titolo indebitamente conseguito, costruisce un manufatto il quale, oltre ad incrementare il valore dell'area ove insiste, ha un valore intrinseco e può essere successivamente alienato, locato o destinato comunque ad utilizzazioni economicamente vantaggiose (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.03.2013 n. 10248).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. La rimessione in pristino non estingue il reato edilizio.
La rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici, pur se accompagnata dalla successiva demolizione del manufatto abusivo, non estingue il reato edilizio ma, esclusivamente, la contravvenzione paesaggistica prevista dall'art. 181, comma 1, D.Lgs. 22.01.2004 n. 42 (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.03.2013 n. 10245).

EDILIZIA PRIVATA: Individuazione della natura precaria di un manufatto.
La natura "precaria" di un manufatto ai fini dell'esenzione dal permesso di costruire (già concessione edilizia), non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale di essa ad un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente e sollecita eliminazione, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo.
Il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 6, comma 2, lett. b), -dopo le modifiche introdotte dal D.L. 25.03.2010, n. 40, convertito con modificazioni nella L. 22.05.2010, n. 73- prevede che possono essere installate, senza alcun titolo abilitativo ma previa comunicazione dell'inizio dei lavori all'Amministrazione comunale (anche per via telematica), le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a 90 giorni. Non implica precarietà dell'opera, però, il carattere stagionale di essa, potendo essere la stessa destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.03.2013 n. 10235).

APPALTIForma di partecipazione modificata strada facendo.
Il concorrente in una procedura di gara può modificare la forma di partecipazione, rispetto a quanto indicato in fase di prequalifica.

Il principio è affermato con la sentenza 05.03.2013 n. 1328 del Consiglio di Stato, Sez. III.
Nella fattispecie oggetto dell'esame del giudice amministrativo, in sede di prequalifica, il concorrente richiedeva l'invito alla procedura con la forma del costituendo raggruppamento di imprese, mentre al momento della partecipazione cambiava sia forma, consorzio anziché RTI, che composizione, in quanto risultava differente uno dei tre partecipanti al consorzio.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto che la possibilità di modifica non era vietata dal bando, in quanto il riferimento alla forma giuridica era come da domanda di partecipazione, riferendosi pertanto non alla fase di prequalifica ma all'effettiva partecipazione alla gara.
Inoltre, a parte il riferimento del bando, è lo stesso codice degli appalti che agli articoli 37 e 51 consente agli operatori che concorrono alle procedure di gare, di modificare la veste giuridica assunta inizialmente, fino alla presentazione delle offerte.
Il Codice e la stessa normativa comunitaria sono indifferenti alla veste giuridica con la quale gli operatori concorrono alle procedure di gara e alle modifiche della veste inizialmente assunta, almeno fino alla presentazione delle offerte. In particolare, i commi 9 e 12 del citato articolo 37 consentono espressamente che l'operatore prequalificato modifichi il proprio profilo soggettivo, a condizione che avvenga prima della presentazione dell'offerta e che non sia preordinato a sopperire ad una carenza di requisiti.
La lex specialis non potrebbe, infine, prevedere il divieto di modifica della forma giuridica di partecipazione, in quanto risulterebbe illegittima, con limiti alle capacità concorrenziali e imprenditoriali, limitando la facoltà delle imprese di scegliere e utilizzare gli strumenti aggregativi ritenuti più idonei (articolo ItaliaOggi del 29.03.2013).

EDILIZIA PRIVATA- l’Amministrazione non ha alcun obbligo di compiere accertamenti giuridici circa l’esistenza di particolari rapporti interprivati tra autore dell’abuso e proprietari, ma ha solo l’onere di individuare il proprietario catastale;
- i provvedimenti sanzionatori sono legittimamente adottati nei confronti dei proprietari catastali degli immobili abusivamente realizzati, dovendosi del tutto prescindersi sia dalle modalità con cui l'abuso è stato realizzato e sia dagli eventuali rapporti intercorrenti tra proprietari e costruttori;
- l’ordine di demolizione di opere abusive è legittimamente notificato al proprietario catastale dell’area il quale, fino a prova contraria, è quanto meno corresponsabile dell’abuso;
- la comunicazione all'ente che risulta catastalmente proprietario del suolo ha infatti una mera funzione conoscitiva, per rendere edotto l'ente delle vicende relative al bene di cui esso ente è proprietario, ma in nessun modo si può ritenere che tale comunicazione costituisca un requisito di legittimità dell'ordine di demolizione;
- ai sensi dell'art. 7, comma 3, l. n. 47/1985, è perciò legittima l'ordinanza di demolizione e di acquisizione di opere edilizie abusive effettuata nei soli confronti del responsabile dell'abuso e non del proprietario dell'immobile, in quanto anche sul piano letterale la norma si riferisce esclusivamente all'uno, e non all'altro, per l'evidente ragione di ancorare l'attività riparatoria in primo luogo all'effettivo autore dell'illecito;
- l'ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio comunale di un'opera abusiva si configura quale atto dovuto, privo di discrezionalità, subordinato al solo accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione e al decorso del termine di legge, che ne costituiscono i presupposti.
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I soggetti responsabili dell’abuso -ai quali è stata ritualmente notificata l’ordinanza di demolizione e di acquisizione e che non hanno proceduto alla demolizione- in ogni caso rispondono direttamente nei riguardi di chi afferma essere il vero proprietario, per i danni conseguenti alla perdita definitiva dei terreni interessati all’abuso.
Il provvedimento di accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e ripristino dello stato primitivo dei luoghi e quello successivo di acquisizione gratuita delle opere abusive e dell'area di sedime sono atti dovuti, conseguenziali, connessi e conseguenti l'uno dell'altro per cui deve ritenersi legittimo il provvedimento che contiene sia la preliminare dichiarazione di diniego della concessione edilizia in sanatoria e sia la conseguenziale demolizione delle opere abusive a pena di acquisizione.
L’acquisizione è l’automatica conseguenza del mancato dispetto dell’ordine di demolizione che si avvera decorso infruttuosamente il termine assegnato per la demolizione.

In linea generale si deve ricordare che, in materia, la giurisprudenza univoca e maggioritaria ha costantemente affermato che:
- l’Amministrazione non ha alcun obbligo di compiere accertamenti giuridici circa l’esistenza di particolari rapporti interprivati tra autore dell’abuso e proprietari, ma ha solo l’onere di individuare il proprietario catastale (cfr. Consiglio Stato sez. V 31.03.2010 n. 1878);
- i provvedimenti sanzionatori sono legittimamente adottati nei confronti dei proprietari catastali degli immobili abusivamente realizzati, dovendosi del tutto prescindersi sia dalle modalità con cui l'abuso è stato realizzato e sia dagli eventuali rapporti intercorrenti tra proprietari e costruttori (cfr. Consiglio Stato sez. V 03.02.1992 n. 87; Consiglio Stato sez. IV 24.12.2008 n. 6554);
- l’ordine di demolizione di opere abusive è legittimamente notificato al proprietario catastale dell’area il quale, fino a prova contraria, è quanto meno corresponsabile dell’abuso (cfr. Consiglio Stato, sez. V 31.03.2010 n. 1878; Consiglio Stato, sez. VI 10.12.2010 n. 8705);
- la comunicazione all'ente che risulta catastalmente proprietario del suolo ha infatti una mera funzione conoscitiva, per rendere edotto l'ente delle vicende relative al bene di cui esso ente è proprietario, ma in nessun modo si può ritenere che tale comunicazione costituisca un requisito di legittimità dell'ordine di demolizione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV 12.04.2011 n. 2266);
- ai sensi dell'art. 7, comma 3, l. n. 47/1985, è perciò legittima l'ordinanza di demolizione e di acquisizione di opere edilizie abusive effettuata nei soli confronti del responsabile dell'abuso e non del proprietario dell'immobile, in quanto anche sul piano letterale la norma si riferisce esclusivamente all'uno, e non all'altro, per l'evidente ragione di ancorare l'attività riparatoria in primo luogo all'effettivo autore dell'illecito (cfr. Consiglio di Stato sez. V 27.04.2012 n. 2450);
- l'ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio comunale di un'opera abusiva si configura quale atto dovuto, privo di discrezionalità, subordinato al solo accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione e al decorso del termine di legge, che ne costituiscono i presupposti (cfr. Consiglio di Stato sez. V 27.04.2012 n. 2450).
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Al riguardo è anche evidente che, in tale ipotesi, i soggetti responsabili dell’abuso -ai quali è stata ritualmente notificata l’ordinanza di demolizione e di acquisizione e che non hanno proceduto alla demolizione- in ogni caso rispondono direttamente nei riguardi di chi afferma essere il vero proprietario, per i danni conseguenti alla perdita definitiva dei terreni interessati all’abuso.
Né ha pregio ai fini dell’illegittimità dell’acquisizione, la pretesa mancata riassegnazione di un nuovo termine a demolire. Al contrario il provvedimento di accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e ripristino dello stato primitivo dei luoghi e quello successivo di acquisizione gratuita delle opere abusive e dell'area di sedime sono atti dovuti, conseguenziali, connessi e conseguenti l'uno dell'altro (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 24.01.2012 n. 297) per cui deve ritenersi legittimo il provvedimento che contiene sia la preliminare dichiarazione di diniego della concessione edilizia in sanatoria e sia la conseguenziale demolizione delle opere abusive a pena di acquisizione (cfr. Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd. 19.03.2002 n. 155).
L’acquisizione è l’automatica conseguenza del mancato dispetto dell’ordine di demolizione che si avvera decorso infruttuosamente il termine assegnato per la demolizione (cfr. recentemente Consiglio Stato, sez. V 12.12.2008 n. 6174 ed in precedenza Consiglio Stato, sez. V 26.01.2000 n. 341)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.02.2013 n. 1179 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Allevamento di modeste dimensioni come insediamento civile e non produttivo.
5 vitelli, 1 vacca, 2 suini ed alcuni animali di bassa corte integrano gli estremi di un insediamento civile e non produttivo proprio in ragione delle limitate quantità di rifiuti destinati, come concimazione, alla coltivazione del fondo.
Illegittimamente l’Amministrazione ha, perciò, sanzionato un’impresa agricola di natura modesta e familiare che non può che produrre circostanziate quantità di rifiuti e che, peraltro, esercita la specifica attività di coltivazione del fondo ed utilizza totalmente e congruamente i rifiuti medesimi come concimi nel successivo ciclo di coltivazione secondo una prassi di concimazione biologica ben antica e diffusa in un ciclo chiuso che non rileva ai fini della legge antinquinamento per ovvie e conseguenziali ragioni.
Ipotesi diversa sarebbe, invece, quella del "ruscellamento", vietato come del resto ogni forma di scorrimento di liquami sul fondo in modo simile al deflusso di un ruscello con esclusivo scopo di gettare od eliminare i reflui comunque in maniera da non consentire un normale assorbimento da parte del terreno, dando luogo a depositi, acquitrini o pozze di materiale putrescente e che, dunque, non assolverebbe alla funzione  di rendere i campi prosperi o fecondi.
3. Nel merito il Collegio ricorda che proprio questo Tribunale (III, 05.12.2007, n. 15770) ha affermato in passato che la violazione delle norme poste a tutela dell'igiene e della sanità pubblica, quando è constatata dalla ASL, è requisito sufficiente per disporre la sospensione dell'attività di somministrazione fino al ripristino delle condizioni igienico sanitarie, senza che occorra anche la prova della effettiva lesione del bene protetto; trattasi, infatti, di norme che sono finalizzate ad evitare il verificarsi di un pericolo di danno per la salute pubblica e l'igiene e, pertanto, non occorre anche la prova della effettiva lesione di questi beni, né può essere ammessa a discarico la prova della mancanza della loro effettiva compromissione, essendo sufficiente la sussistenza del concreto ed effettivo pericolo che i beni protetti siano compromessi.
3.1 Nello specifico non sfugge al Tribunale che costantemente (ex multis, Cass. pen., III, 09.07.2008, n. 38411; 26.10.2006, n. 39361) si è affermato che, in tema di gestione dei rifiuti, al fine di escludere l'applicabilità della normativa sui rifiuti in caso di utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento (nella specie, deiezioni di vitelli, vacca e suini), non è necessaria l'attuazione della pratica in oggetto attraverso scarico diretto tramite condotta, essendo la deroga condizionata alla sola effettiva utilizzazione agronomica degli effluenti, in qualunque modo questa avvenga, anche tramite spandimento sul suolo successivo a stoccaggio in vasche e trasporto a bordo di cisterne.
Lo scarico non autorizzato di liquami provenienti da un'azienda di allevamento -normalmente qualificabile come insediamento produttivo quando manchi il nesso funzionale con l'attività agricola, ancorché sia effettuato in vasche impermeabilizzate- costituisce reato anche in base alla nuova normativa (art. 59 del D.L. n.152 del 1999), a nulla rilevando in contrario l'esistenza di autorizzazione alla pratica della “fertirrigazione” che si riferisce soltanto alla successiva, eventuale fase di utilizzazione dei suddetti liquami.
4. Ora, con specifico riguardo al caso in esame, il Tribunale ritiene, come peraltro anticipato in fase cautelare e con assorbimento degli ulteriori motivi di ricorso, che il provvedimento impugnato sia illegittimo nella misura in cui ha omesso di ricercare in concreto il criterio distintivo tra insediamenti civili e produttivi in base all'assimilabilità o meno dei rispettivi scarichi, per tipo e qualità dei reflui, a quelli propri degli insediamenti abitativi; infatti le imprese agricole sono da considerare come insediamenti produttivi, a meno che non abbiano, come appunto provato agli atti del ricorso, limitate quantità di rifiuti destinati, come concimazione, alla coltivazione del fondo, sì da attuare quella che ormai si chiama concretamente la “fertirrigazione”. Con detto termine si suole, infatti, intendere la distribuzione uniforme e razionale di concimi organici o minerali sul terreno, di regola con impianto irriguo a pioggia; detta tecnica, se rigorosamente controllata, soddisfa una duplice esigenza economica: la concimazione dei terreni interessati che vengono resi prosperi e fecondi senza che si formino pozze putrescenti, nonché il riciclo naturale dei liquami degli allevamenti.
Ipotesi diversa è, invece, quella del "ruscellamento", quando cioè i liquami scorrono su un fondo a modo simile al deflusso di un ruscello e, comunque, in maniera tale da non consentire un normale assorbimento da parte del terreno, dando luogo a depositi, acquitrini o pozze di materiale putrescente; mentre, infatti, come appunto nella fattispecie in esame la fertirrigazione è consentita dalla legge (Cass. Pen., III, 06.10.1994; 12.08.1993), il "ruscellamento" -in quanto adempie allo scopo di getto o eliminazione di reflui o deiezioni- è sottoposto alla disciplina penale statuita dagli art. 21 e ss. della legge n. 319 del 1976, sicché è necessaria l'autorizzazione ed occorre adempiere alle prescrizioni della medesima.
4.1 Il Collegio ritiene in definitiva che 5 vitelli, 1 vacca, 2 suini ed alcuni animali di bassa corte integrano gli estremi di un insediamento civile e non produttivo proprio in ragione delle limitate quantità di rifiuti destinati, come concimazione, alla coltivazione del fondo; illegittimamente l’Amministrazione ha, perciò, sanzionato un’impresa agricola di natura modesta e familiare che non può che produrre circostanziate quantità di rifiuti e che, peraltro, esercita la specifica attività di coltivazione del fondo ed utilizza totalmente e congruamente i rifiuti medesimi come concimi nel successivo ciclo di coltivazione secondo una prassi di concimazione biologica ben antica e diffusa in un ciclo chiuso che non rileva ai fini della legge antinquinamento per ovvie e conseguenziali ragioni.
Ipotesi diversa sarebbe, invece, quella del "ruscellamento", vietato come del resto ogni forma di scorrimento di liquami sul fondo in modo simile al deflusso di un ruscello con esclusivo scopo di gettare od eliminare i reflui comunque in maniera da non consentire un normale assorbimento da parte del terreno, dando luogo a depositi, acquitrini o pozze di materiale putrescente e che, dunque, non assolverebbe alla funzione –provata nella fattispecie in esame- di rendere i campi prosperi o fecondi (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 26.02.2013 n. 1133 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Mutamento della destinazione urbanistica.
Non è ravvisabile un’aspettativa qualificata rispetto al mutamento della destinazione urbanistica pregressa della medesima area, mutamento rispetto al quale l’Amministrazione ha ampia discrezionalità e può modificare la destinazione stessa, anche in senso peggiorativo rispetto agli interessi del proprietario.

Il Collegio anzitutto rammenta che le scelte di tipo urbanistico sono connotate da una lata discrezionalità e che è solo in presenza di aspettative qualificate che l’amministrazione ha l’obbligo di motivare in modo specifico la scelta di tipizzare un’area in maniera difforme da quanto già previsto da uno strumento urbanistico in vigore.
Nella specie, l’ente locale non aveva inciso su una posizione differenziata, oggetto di un’aspettativa qualificata per l’impresa interessata o i suoi aventi causa, in assenza di prova che la stradicciola in questione fossa stata oggetto di una convenzione stipulata con il Comune di Monopoli o da quest’ultimo formalmente autorizzata.
Il Collegio è consapevole del prevalente indirizzo giurisprudenziale, secondo cui l’avvenuto rilascio di un titolo edilizio, come pure situazioni analoghe, obbligano alla motivazione specifica della variante perché la disciplina nuova va a travolgere aspettative legittime, qualificate da uno speciale atto dell’Amministrazione.
Al contempo, le scelte amministrative nell’adozione di strumenti urbanistici sono frutto di apprezzamenti di merito che esulano dal sindacato di legittimità, salvo non siano inficiate da errori di fatto o da abnormità logiche, sicché la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione oltre a quella evincibile dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell’impostazione del piano, e basta a motivare il riferimento al progetto di modificazione al p.r.g., salvo che particolari situazioni non abbiano già creato aspettative o affidamenti per soggetti le cui posizioni siano meritevoli di specifiche considerazioni.
Nella pratica situazioni che esigono un’approfondita motivazione degli strumenti urbanistici generali (o loro varianti) sono generate ad es. dal superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968, in rapporto alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree; dalla lesione dell’affidamento qualificato del privato, derivante da convenzioni di lottizzazione, da accordi intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree; da aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su un’istanza di concessione, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 133/2011, cit.; 09.12.2010, n. 8682; 13.10.2010, n. 7492; 12.05.2010, n. 2843).
Non è ravvisabile però un’aspettativa qualificata rispetto al mutamento della destinazione urbanistica pregressa della medesima area, mutamento rispetto al quale l’Amministrazione ha ampia discrezionalità e può modificare la destinazione stessa, anche in senso peggiorativo rispetto agli interessi del proprietario (cfr. Cons. Stato, IV, 29.12.2009, n. 9006).
Il mero rilascio di un titolo edilizio qui non appare, dunque, idoneo a creare -a tal proposito- una ragione di particolare motivazione: l’effetto abilitativo di quel titolo segue, invero, la regola del tempo del suo rilascio e, dunque, non è inciso da questa sopravvenienza urbanistica, sicché non vi è uno speciale contrasto da motivare, salve determinate condizioni, da verificare caso per caso e che qui non ricorrono; pertanto, nel caso qui al vaglio, quand’anche la stradicciola fosse stata in passato regolarmente autorizzata dal punto di vista edilizio, ciò non avrebbe automaticamente potuto creare alcuna aspettativa qualificata e differenziata in capo dell’originaria ricorrente (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.02.2013 n. 893 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Ordinanza di rimozione ed obbligo preavviso di avvio procedimento.
A) “sussiste la violazione dell’art. 7, l. n. 241 del 1990, per non avere i soggetti privati interessati potuto partecipare al procedimento d’irrogazione della sanzione loro inflitta, in assenza del preavviso di avvio del procedimento, con correlativa impossibilità di agire in contraddittorio con la P.A. contestante l’omessa vigilanza sull’accumulo dei rifiuti, l’ordine della cui rimozione può essere adottato esclusivamente in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, da chi sia preposto al controllo; rispetto a tale contraddittorio la comunicazione dell’avvio del procedimento si configura come un adempimento indispensabile al fine della sua effettiva instaurazione”;
B) invero, “per il configurarsi di una responsabilità per dolo o colpa del proprietario o di chi abbia, anche se in via di mero fatto, la disponibilità della discussa area, occorre che il suo coinvolgimento a titolo di dolo o colpa risulti a seguito di un’adeguata istruttoria e con l’ausilio del privato stesso, da convocarsi in contraddittorio (il che, nella specie, non è avvenuto) per fornire elementi utili di valutazione per l’accertamento delle reali responsabilità, ex art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006 (già art. 14, d.lgs. 05.02.1997 n. 22)”.
“La norma configura l’ordinanza di rimozione di rifiuti abbandonati come ingiunzione di sgombero a carattere sanzionatorio, esigente l’imputazione a carico dei soggetti obbligati per dolo o colpa nel comportamento tenuto in violazione dei divieti di legge, esclusa ogni forma di responsabilità oggettiva per violazione di un generico dovere di vigilanza”;
C) “l’obbligo di bonifica o di messa in sicurezza non può essere, invece, addossato al proprietario incolpevole, ove manchi ogni responsabilità del medesimo. La P.A. non può, pertanto, imporre ai privati che non abbiano alcuna responsabilità diretta sull’origine del fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali proprietari del bene, lo svolgimento delle attività di recupero e di risanamento. L’enunciato è conforme al principio “chi inquina paga”, cui si ispira la normativa comunitaria (art. 174, ex art. 130/R, trattato Ce), la quale impone al soggetto che fa correre un rischio d’inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione";
D) “la mancata chiusura del fondo da parte del relativo proprietario non costituisce comportamento colposo idoneo per imputargli la responsabilità di un indebito deposito di rifiuti sul terreno, posto che, per principio generale, la chiusura del fondo costituisce una mera facoltà del proprietario e mai un obbligo”;
E) “nei casi d’inquinamento diffuso, ossia in quei casi in cui non sia possibile o sia oltremodo difficoltoso accertare la responsabilità dell’autore dell’inquinamento, la bonifica resta a carico della P.A. e i relativi vantaggi dei privati proprietari o detentori dei fondi bonificati, in termini di aumento di valore del fondo, potranno costituire giusta causa di recupero delle corrispondenti somme, nei limiti ordinari delle azioni di arricchimento”.

I ricorrenti deducono l’omessa comunicazione di avvio del procedimento volto all’irrogazione della sanzione ripristinatoria nonché la violazione del principio del contraddittorio e il difetto di istruttoria che avrebbero inficiato l’intera procedura non essendo stato provato alcun loro coinvolgimento, a titolo di dolo o di colpa, nell’abbandono indiscriminato dei rifiuti.
Le censure sono fondate.
Dispone, infatti, per la parte d'interesse, l’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006 (già art. 14 del d.lgs. n. 22/1997), rubricato “Divieto di abbandono”, del quale la parte ricorrente lamenta la violazione: “3. Fatta salva l’applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all’esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate”.
Ora, secondo condiviso orientamento giurisprudenziale:
A)sussiste la violazione dell’art. 7, l. n. 241 del 1990, per non avere i soggetti privati interessati potuto partecipare al procedimento d’irrogazione della sanzione loro inflitta, in assenza del preavviso di avvio del procedimento, con correlativa impossibilità di agire in contraddittorio con la P.A. contestante l’omessa vigilanza sull’accumulo dei rifiuti, l’ordine della cui rimozione può essere adottato esclusivamente in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, da chi sia preposto al controllo; rispetto a tale contraddittorio la comunicazione dell’avvio del procedimento si configura come un adempimento indispensabile al fine della sua effettiva instaurazione” (TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, 12.07.2011, n. 255);
B) invero, “per il configurarsi di una responsabilità per dolo o colpa del proprietario o di chi abbia, anche se in via di mero fatto, la disponibilità della discussa area, occorre che il suo coinvolgimento a titolo di dolo o colpa risulti a seguito di un’adeguata istruttoria e con l’ausilio del privato stesso, da convocarsi in contraddittorio (il che, nella specie, non è avvenuto) per fornire elementi utili di valutazione per l’accertamento delle reali responsabilità, ex art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006 (già art. 14, d.lgs. 05.02.1997 n. 22)”.
La norma configura l’ordinanza di rimozione di rifiuti abbandonati come ingiunzione di sgombero a carattere sanzionatorio, esigente l’imputazione a carico dei soggetti obbligati per dolo o colpa nel comportamento tenuto in violazione dei divieti di legge, esclusa ogni forma di responsabilità oggettiva per violazione di un generico dovere di vigilanza” (TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, 12.07.2011, n. 255; nello stesso senso, TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, 05.06.2012, n. 560; Consiglio Stato, sez. V, 25.06.2010, n. 4073);
C)l’obbligo di bonifica o di messa in sicurezza non può essere, invece, addossato al proprietario incolpevole, ove manchi ogni responsabilità del medesimo. La P.A. non può, pertanto, imporre ai privati che non abbiano alcuna responsabilità diretta sull’origine del fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali proprietari del bene, lo svolgimento delle attività di recupero e di risanamento. L’enunciato è conforme al principio “chi inquina paga”, cui si ispira la normativa comunitaria (art. 174, ex art. 130/R, trattato Ce), la quale impone al soggetto che fa correre un rischio d’inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione" (TAR Toscana, Firenze, sez. II, 03.03.2010, n. 594; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 02.11.2011, n. 1901);
D)la mancata chiusura del fondo da parte del relativo proprietario non costituisce comportamento colposo idoneo per imputargli la responsabilità di un indebito deposito di rifiuti sul terreno, posto che, per principio generale, la chiusura del fondo costituisce una mera facoltà del proprietario e mai un obbligo” (TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, 05.06.2012, n. 560);
E)
nei casi d’inquinamento diffuso, ossia in quei casi in cui non sia possibile o sia oltremodo difficoltoso accertare la responsabilità dell’autore dell’inquinamento, la bonifica resta a carico della P.A. e i relativi vantaggi dei privati proprietari o detentori dei fondi bonificati, in termini di aumento di valore del fondo, potranno costituire giusta causa di recupero delle corrispondenti somme, nei limiti ordinari delle azioni di arricchimento” (TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, sez. I, 17.12.2009, n. 837; Consiglio di Stato, sez. VI, 18.04.2011, n. 2376) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 13.02.2013 n. 301 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: PA, si all'azione di adempimento: ma a quali condizioni?
L'azione di condanna pubblicistica (o di adempimento) è subordinata a precisi limiti imposti dal legislatore, ed in particolare all'indagine in ordine alla consumazione del potere discrezionale dell'amministrazione o, comunque, il carattere vincolato del provvedimento richiesto. In assenza di presupposti, al ricorrente vittorioso non rimane che accontentarsi della tutela meramente caducatoria.

Lo ha stabilito il TAR Sardegna, Sez. I, con la sentenza 13.02.2013 n. 123.
La pronuncia prende le mosse da un ricorso presentato da una società avverso il diniego espresso dall'amministrazione in risposta ad una richiesta di regolarizzazione di un accesso stradale in favore della istante.
Secondo la tesi della ricorrente, infatti, l'Anas, nel pronunciarsi negativamente sull'istanza rivoltale, non avrebbe condotto in maniera corretta l'istruttoria, ed avrebbe altresì disatteso alcune norme poste a presidio della regolarità del procedimento, concernenti il rispetto dei termini ed altri istituti partecipativi.
Per questi motivi, la società ha chiesto, anzitutto, l'annullamento del provvedimento impugnato e di tutti gli atti susseguenti; si poi sommata la richiesta di condanna dell'amministrazione all'emanazione del provvedimento di regolarizzazione anelato (questo il vero epicentro della pronuncia in esame) unitamente alla pretesa di veder risarcire il pregiudizio patito a causa dell'irregolarità della condotta serbata dalla resistente.
Il giudice amministrativo, nell'accogliere in parte qua il ricorso presentato dalla società, ha annullato il provvedimento impugnato senza tuttavia assecondare la richiesta di condanna pubblicistica nei confronti della convenuta.
La sentenza merita apprezzamento perché si colloca tra i primi pronunciamenti che si soffermano sulla tanto discussa “azione di adempimento” che solo di recente ha trovato definitivo riconoscimento con il secondo correttivo al codice del processo amministrativo (decreto legislativo 160/2012).
A detta del Tar Sardegna, infatti, non vi sarebbero stati, nel caso di specie, i presupposti per accordare il rimedio invocato posto che l'attività dell'amministrazione conservava un considerevole margine di discrezionalità non trascurabile.
Nel pervenire a siffatta conclusione, il giudice sardo ha ripercorso le tappe che hanno interessato l'ormai non più atipica azione di condanna pubblicistica, senza peraltro trascurare l'intervento della Adunanza Plenaria in materia (sentenza n. 3/2011), che seppur postumo al decreto legislativo 104/2010, già aveva tracciato le coordinate per il riconoscimento all'interno dell'ordinamento giuridico italiano dell'azione, diversamente ben nota, già da diverso tempo, al sistema tedesco.
Segnatamente, nella pronuncia in esame, si è fatto richiamo al testo vigente dell'articolo 31, comma 3, del codice del processo amministrativo, ai sensi del quale il giudice “può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione”.
Come evidente, dalla norma citata si ricavano tre distinti precetti: con il primo si ammette esplicitamente l'esperibilità dell'azione di condanna al rilascio del provvedimento, di talché si ammette rectius si riconosce a livello normativo che il titolare di un interesse pretensivo possa chiedere espressamente al giudice amministrativo, oltre che il tradizionale annullamento, la declaratoria di condanna dell'amministrazione ad un facere pubblicistico (quale è appunto l'emanazione del provvedimento anelato); con il secondo precetto il legislatore circoscrive l'azione di condanna pubblicistica con un primo limite di carattere processuale: l'azione in esame, invero, non è esperibile in forma autonoma, ma solo congiuntamente all'azione di annullamento ovvero all'azione avverso il silenzio; il terzo precetto, infine, impone un limite di natura sostanziale, certamente il più rilevante, atteso il principio da cui trae fondamento, ossia quella della separazione dei poteri: richiamando i presupposti previsti all'art. 31 c.p.a. per l'azione avverso il silenzio, il legislatore ammette la condanna pubblicistica in danno dell'amministrazione nei limiti in cui quest'ultima abbia consumato il suo potere discrezionale –puro o tecnico che sia- o il provvedimento richiesto abbia natura vincolata.
Ebbene, ricapitolati limiti e condizioni di ammissibilità dell'azione, il giudice amministrativo ha ritenuto che, nel caso di specie, non vi fosse alcuna delle condizioni indicate dalla norma processuale, considerato che l’eventuale autorizzazione in deroga o la decisione di rilasciare l’autorizzazione subordinandola alla realizzazione delle opere necessarie per garantire la sicurezza della circolazione stradale, presupponevano altrettanti profili di valutazione discrezionale riservati alla stessa amministrazione competente, in nessun modo trascurabili (commento tratto da www.ispoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Lottizzazione abusiva e annullamento d'ufficio di una concessione in sanatoria.
Dato che la lottizzazione, a differenza dall’abuso singolo, è infatti tale da implicare ex sé un negativo impatto urbanistico, l'annullamento d'ufficio di una concessione in sanatoria illegittima non necessita di un'espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica.
L’insuscettibilità legale di una lottizzazione materiale spontanea di essere oggetto della sanatoria è dunque una delle tipiche ipotesi nelle quali il richiamo all’interesse pubblico alla tutela della pianificazione ed al ripristino della legalità, è di per sé sufficiente per rendere legittimo l'esercizio del potere di autotutela.

In linea generale, tenendo conto dei valori espressi dall'art. 97 cost., l'esercizio dei poteri amministrativi di annullamento in autotutela di precedenti statuizioni illegittime non ha affatto natura eccezionale, in quanto la p.a. ha il potere - dovere di emanare l'atto di annullamento, anche al solo fine di evitare che si consolidino situazioni di fatto illegalmente costituitesi, qualora siano veri e propri esempi di diseducazione civile (arg. ex Consiglio Stato sez. V 24.02.1996 n. 232).
Quindi se non sussiste alcun obbligo assoluto per l'Autorità emanante di procedere in via di autotutela all'annullamento d'ufficio di un provvedimento da essa adottato, ciò non toglie che l’esercizio di tale facoltà sia rimessa alla discrezionale considerazione del merito degli interessi pubblici in gioco (arg. ex Consiglio Stato Sez. IV 04.03.2011 n. 1414; Consiglio di Stato sez. IV 10.08.2011 n. 4770).
Proprio in relazione all'ampiezza delle valutazioni discrezionali affidate all'organo è stato osservato che è legittimo il comportamento dell’Amministrazione che, seppure tardivamente, emendi la propria precedente condotta, conformando la propria azione al rispetto concreto della legge. Ciò perché l'art. 21-nonies L. 07.08.1990 n. 241 non fissa un termine ultimo oltre il quale l'esercizio dell'attività di autotutela risulti illegittima, lasciando all’Amministrazione la valutazione della ragionevolezza in ordine alla tempistica della vicenda (cfr. Consiglio di Stato sez. VI 27.02.2012 n. 1081). Ciò a maggior ragione qualora (come nel caso in esame) il tempo trascorso dalla prima concessione di sanatoria sia stato utilizzato per ampliare e consolidare la lottizzazione abusiva.
L’art. 30 del D.P.R. 380/2001 (e in precedenza all’art. 18 L. 47/1985) costruisce la lottizzazione abusiva come un illecito permanente ed insanabile, al fine manifesto:
- di garantire un’ordinata pianificazione urbanistica,
- di salvaguardare il corretto sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standard compatibili con la finanza pubblica e con il vivere civile;
- di assicurare un effettivo controllo da parte del Comune titolare della funzione di pianificazione al fine di (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 07.06.2012 n. 3381).
Ciò premesso, alla luce di tutti gli atti di causa e della stessa cartografia versata in atti dal Comune, devono condividersi pienamente le conclusioni del TAR circa la sussistenza dei requisiti procedimentali, codificati nell'art. 21-nonies L. 07.08.1990 n. 241, per l’esercizio del potere di annullamento dei titoli edilizi in questione
Le concessione in sanatoria appaiono infatti il frutto di indebite influenze estranee sull’attività amministrativa del Comune: come emerge dai rapporti della Polizia Municipale la quale aveva rilevato come il tecnico cui era stata affidata dal Comune l’istruttoria delle pratiche di sanatoria era lo stesso che, in precedenza, era stato incaricato della redazione dei collaudi, delle perizie giurate, degli accatastamenti ecc…; il quale aveva addirittura firmato alcune concessioni in sanatoria, quale responsabile dell’U.T.C. (cfr. pag. 5 rapporto n. 94 del 24.06.2002).
Non vi sono pertanto dubbi sulla nell'insanabile illegittimità originaria dei titoli in questione per la sussistenza di una lottizzazione abusiva (dettagliatamente documentata nelle relazioni della Polizia Municipale del 24.06.2002 e del 6.07.2004).
Gli abusi progressivamente realizzati sui suoli di proprietà concernevamo infatti: “1) corpo di fabbrica E realizzato nel 1978 in difformità alla CE con una maggiore superficie di mq. 109,21;
2) corpi di fabbrica A-B-C-D-F, realizzati tra dicembre 1985 e marzo 1986, per cui sono state rilasciate le impugnate concessioni in sanatoria rispettivamente: n. 327 del 06.08.1992 per condono edilizio relativo ai capannoni D e F; n. 1755 per i capannoni A-B-C ;
3) il capannone G realizzato senza concessione appena ricevuto il parere, peraltro sottoposto a condizione, della CEC;
4) i capannoni R ed il capannone S, per i quali fu rilasciata concessione in sanatoria n. 208 del 24.01.2000;
5) i fabbricati e le strutture indicate con le lettere T, H, I, L, M, N edificati nel 1995.
".
In conseguenza della precedente condotta illecita del loro dante causa, protrattasi lungamente nel tempo, non può pertanto configurarsi alcuna legittima aspettativa a favore dei relativi responsabili e dei loro aventi causa.
Le costruzioni abusive -o come qui sanate in virtù di titoli non conformi alla vigente normativa urbanistico-edilizia- costituiscono un illecito di tipo permanente a fronte del quale non vale la buona fede del privato dovendosi ritenersi che sia "in re ipsa" la sussistenza del pubblico interesse al ripristino dello stato della legalità violata (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 23.02.2012 n. 1041).
Dato che la lottizzazione, a differenza dall’abuso singolo, è infatti tale da implicare ex sé un negativo impatto urbanistico, l'annullamento d'ufficio di una concessione in sanatoria illegittima non necessita di un'espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica (Consiglio di Stato sez. IV 30.07.2012 n. 4300).
Nel caso in esame quindi le motivazioni degli atti di auto-annullamento dei provvedimenti in sanatoria erano state fondatamente affidate al rilievo per cui l’intervento abusivo, complessivamente considerato, costituiva una fattispecie dichiaratamente qualificata come insanabile dalla normativa statale ed era stata oggetto di una specifiche condanne penali.
L'esercizio del potere di autotutela da parte dell'Amministrazione era dunque assistito da un interesse pubblico ed attuale direttamente connesso alla necessità eliminare l’incidenza negativa sulla zona circostante, della illegittima trasformazione del territorio derivante da una lottizzazione abusiva composta da ben 15 edificazioni artigianali, oltre al piazzale pavimentato di oltre 8000 mt., ai reti ed ai muri di cinta, alla strada ecc..
L’insuscettibilità legale di una lottizzazione materiale spontanea di essere oggetto della sanatoria è dunque una delle tipiche ipotesi nelle quali il richiamo all’ interesse pubblico alla tutela della pianificazione ed al ripristino della legalità, è di per sé sufficiente per rendere legittimo l'esercizio del potere di autotutela (arg. ex Consiglio Stato sez. VI 30.07.2003 n. 4391);
Anche perché contrariamente a quanto vorrebbero i ricorrenti, il legislatore dell'art. 21-nonies, L. 07.08.1990 n. 241, non ha ritenuto di dover recepire il paradigma di creazione giurisprudenziale relativo all’insufficienza del solo richiamo al ripristino della legalità violata per l’esercizio del potere di autoannullamento. Si deve perciò escludere che il principio che, nelle situazioni ordinarie, pure costituisce espressione di civiltà giuridica, possa essere applicarsi in aree caratterizzati da situazioni di generalizzato e diffuso disprezzo della legalità, e che per tale via possano essere considerati prevalenti gli “interessi illegittimi” dei privati, interessati al mantenimento di consistenti situazioni di vasto abusivismo, rispetto all’interesse pubblico generale dello Stato e dei suoi cittadini al corretto sviluppo del territorio.
In definitiva, correttamente la sentenza impugnata ha concluso per la legittimità della rimozione dei provvedimenti di sanatoria illegittimamente concessi
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.02.2013 n. 834 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ex art. 7, l. 07.08.1990 n. 241 è strumentale alle esigenze di conoscenza effettiva e, conseguentemente, di partecipazione all'azione amministrativa da parte del soggetto nella cui sfera giuridica l'atto conclusivo è destinato ad incidere, in modo che egli sia in grado di influire sul contenuto del provvedimento.
Le norme sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo non vanno applicate meccanicamente e formalmente. Pertanto quando l'interessato sia venuto a conoscenza dell'apertura di un procedimento con effetti lesivi nei suoi confronti, si deve dare prevalenza ai principi di economicità e speditezza dell'azione amministrativa. Quello che rileva procedimentalmente è che la comunicazione di avvio di cui all’art. 7, L. 07.08.1990 n. 241 vi sia stata concretamente effettuata al destinatario.

L'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ex art. 7, l. 07.08.1990 n. 241 è strumentale alle esigenze di conoscenza effettiva e, conseguentemente, di partecipazione all'azione amministrativa da parte del soggetto nella cui sfera giuridica l'atto conclusivo è destinato ad incidere, in modo che egli sia in grado di influire sul contenuto del provvedimento.
Come la Sezione ha più volte avuto modi di sottolineare, le norme sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo non vanno applicate meccanicamente e formalmente. Pertanto quando l'interessato sia venuto a conoscenza dell'apertura di un procedimento con effetti lesivi nei suoi confronti, si deve dare prevalenza ai principi di economicità e speditezza dell'azione amministrativa. Quello che rileva procedimentalmente è che la comunicazione di avvio di cui all’art. 7, L. 07.08.1990 n. 241 vi sia stata concretamente effettuata al destinatario (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 16.03.2012 n. 1497; Consiglio di Stato sez. IV 18.04.2012 n. 2286; Consiglio di Stato sez. IV 17.09.2012 n. 4925, Consiglio di Stato sez. IV 15.12.2011 n. 6618; ecc.)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.02.2013 n. 834 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Illegittimo di un Piano di lottizzazione per insediamento turistico-rurale con realizzazione di 46 palazzine in area agricola.
E’ illegittimo un Piano di lottizzazione di un insediamento turistico-rurale (e dei conseguenti permessi di costruire), che contempla la realizzazione di 46 palazzine di 4 unità immobiliari ciascuna, per complessivi 44.850 mc. e 448 abitanti potenziali, oltre al ulteriori 5200 mc. relativi ad un punto di ristoro; il tutto in piena campagna, nell’ambito di un territorio deputato (almeno sino al rilascio dei permessi di costruire) alla coltura dell’ulivo.
Ciò che caratterizza la zona “E” non è tanto la immediata, presente (e futura) destinazione all’uso agricolo, quanto, in negativo, l’esclusione di destinazione ad utilizzazioni edificatorie, quali, in particolare, i “nuovi complessi insediativi”, che trovano la loro localizzazione nell’ambito della “zona C”, ovvero i “nuovi insediamenti per impianti industriali o ad essi assimilati”, che trovano la loro collocazione nell’ambito della”zona F”.
Si intende, affermare che, se è vero che la “zona E” non caratterizza di per sé aree destinate necessariamente e direttamente all’uso agricolo, e che essa consente anche utilizzazioni edificatorie (come peraltro testimonia la previsione di un sia pur minimo indice di densità fondiaria), ciò che comunque non può ritenersi possibile in zona E è la utilizzazione delle aree della stessa in modo tale da “invadere” quello che è il contenuto tipizzante di altre destinazione di zona.

Come è noto, ai sensi dell’art. 7 della l. 17.08.1942 n. 1150, il Comune disciplina, con il Piano regolatore generale, l’assetto urbanistico dell’intero territorio comunale, in particolare prevedendo “la divisione in zone del territorio comunale con la precisazione delle zone destinate all'espansione dell'aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona”.
Le previsioni del Piano, come questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare (da ultimo, sez. IV, 09.07.2011 n. 4134), “servono a conformare l’edificazione futura e non anche le costruzioni esistenti al momento dell’entrata in vigore del Piano o di una sua variante” (Cons. Stato, sez. IV, 18.06.2009 n. 4009), ciò facendo con prescrizioni tendenzialmente a tempo indeterminato, in quanto conformative delle destinazioni dei suoli (Cons. Stato, sez. II, 18.06.2008 n. 982).
L’art. 41-quinquies, comma 8, della l. n. 1150/1942 prevede che “in tutti i Comuni, ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, debbono essere osservati limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici, o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”; e ciò (comma 9) “per zone territoriali omogenee”.
A tali fini, l’art. 2 D.M. 02.04.1968 n. 1444, prevede: “Sono considerate zone territoriali omogenee, ai sensi e per gli effetti dell'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765:
A) le parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestano carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi;
B) le parti del territorio totalmente o parzialmente edificate, diverse dalle zone A): si considerano parzialmente edificate le zone in cui la superficie coperta degli edifici esistenti non sia inferiore al 12,5% (un ottavo) della superficie fondiaria della zona e nelle quali la densità territoriale sia superiore ad 1,5 mc/mq.
C) le parti del territorio destinate a nuovi complessi insediativi, che risultino inedificate o nelle quali l'edificazione preesistente non raggiunga i limiti di superficie e densità di cui alla precedente lettera B);
D) le parti del territorio destinate a nuovi insediamenti per impianti industriali o ad essi assimilati;
E) le parti del territorio destinate ad usi agricoli, escluse quelle in cui - fermo restando il carattere agricolo delle stesse - il frazionamento delle proprietà richieda insediamenti da considerare come zone C);
F) le parti del territorio destinate ad attrezzature ed impianti di interesse generale
”.
Il successivo art. 7 del D.M:, prevede, in particolare, che nelle zone E, la massima densità fondiaria prescritta è pari a mc. 0,03 per mq.
Orbene, con particolare riguardo alla zona E, questo Consiglio di Stato deve senza dubbio ribadire che essa, pur individuata dal D.M. n. 1444 cit. come “destinata ad usi agricoli”, non deve essere immediatamente ed esclusivamente destinata a tali usi; e ciò in quanto –pur senza giungere a ritenerla “residuale” rispetto alle altre– tale zona può essere considerata più in generale come identificativa di una parte del territorio non destinata ad edificazioni intense per indici di utilizzazione o particolari per tipo di destinazione.
Inoltre, essa, comunque, non è tale da escludere forme limitate di edificazione, che si caratterizzino per la loro inerenza all’uso agricolo del suolo o che, per il loro minimo impatto, si presentano non invasive del territorio e comunque tali da proporsi –quale diretta conseguenza del forte divario tra superficie coperta e scoperta– come strumentali al fondo non edificato o “verde”.
Come la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare (Cons. Stato, sez. IV, 15.06.2004 n. 4466) “la destinazione a verde agricolo di un'area stabilita dallo strumento urbanistico generale non implica necessariamente che l'area soddisfi in modo diretto ed immediato gli interessi agricoli, potendo giustificarsi con le esigenze dell'ordinato governo del territorio, quale la necessità di impedire un'ulteriore edificazione o un congestionamento delle aree, mantenendo un equilibrato rapporto tra aree libere ed edificate o industriali (cfr. fra le recenti IV Sez. 21.06.2001 n. 3341)”.
In tal senso, si è già affermato che la destinazione di aree a zona E ben può essere utilizzata per esigenze di salvaguardia del paesaggio e del’ambiente, e ciò anche derogando alle denominazioni di cui al D.M. n. 1444/1968 (Cons. Stato, sez. IV, 06.07.2009 n. 4308).
Ciò che caratterizza, dunque, la zona “E” non è tanto la immediata, presente (e futura) destinazione all’uso agricolo, quanto, in negativo, l’esclusione di destinazione ad utilizzazioni edificatorie, quali, in particolare, i “nuovi complessi insediativi”, che trovano la loro localizzazione nell’ambito della “zona C”, ovvero i “nuovi insediamenti per impianti industriali o ad essi assimilati”, che trovano la loro collocazione nell’ambito della”zona F”.
E che la “zona E” si caratterizza quale zona in assenza di possibilità edificatorie (salvo i minimi interventi consentiti dall’indice di densità fondiaria), si evince anche da quanto affermato dalla giurisprudenza in tema di cd, ”zone bianche”, quelle zone cioè dove le previsioni vincolistiche degli strumenti di edificazione primaria siano decadute ex lege per decorso del tempo, ovvero per annullamento in sede giurisdizionale, attesa la riconducibilità delle medesime agli indici di densità fondiaria delle zone E.
Pur in presenza, dunque, di aperture giurisprudenziali, tali da escludere sia una applicazione rigida della cd. “zonizzazione”, di cui al D.M. n. 1444/1968, sia la stessa denominazione delle zone prescritta dal D.M., ciò che resta ferma è, per un verso, la necessità di disciplinare le destinazioni del territorio comunale per il tramite della pianificazione; per altro verso, il “discrimine” della identificazione delle zone del territorio comunale in relazione alla loro suscettività ad essere utilizzate o meno per la futura edificazione.
Si intende, in definitiva, affermare che, se è vero che la “zona E” non caratterizza di per sé aree destinate necessariamente e direttamente all’uso agricolo, e che essa consente anche utilizzazioni edificatorie (come peraltro testimonia la previsione di un sia pur minimo indice di densità fondiaria), ciò che comunque non può ritenersi possibile in zona E è la utilizzazione delle aree della stessa in modo tale da “invadere” quello che è il contenuto tipizzante di altre destinazione di zona.
E ciò sia in quanto ogni possibile interpretazione del “contenuto” della destinazione di zona, come normativamente disposto, incontra il proprio limite nel contenuto di altra destinazione di zona; sia in quanto –con specifico riguardo alle zone E- è la stessa norma che consente, in via di eccezione e a precise condizioni (quali il frazionamento della proprietà), di individuare, nell’ambito della più ampia zona E, “insediamenti ... come zone C”, (in tal modo completando e delimitando il contenuto precettivo della norma anche con la previsione della sua eccezione).
Quanto affermato, comporta che, una volta che uno strumento di pianificazione (piano regolatore o variante al medesimo) abbia definito la destinazione di aree quali “zona E”, ogni plausibile interpretazione delle possibilità di utilizzazione di tali aree incontra un limite sia logico sia normativo, costituito dalla impossibilità, in dette zone, di realizzare insediamenti che, per natura, standard e proprie particolari caratteristiche, siano riconducibili a quelli che costituiscono il contenuto tipico di altre forme di zonizzazione
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.02.2013 n. 830 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: L’interesse ad agire, in relazione a provvedimenti che consentono l’edificazione, non si fonda solo sul rapporto di vicinanza dell’immobile del ricorrente (e della persona del ricorrente medesimo) con il luogo in cui deve essere effettuata l’edificazione.
Tale aspetto, come è stato già condivisibilmente osservato, inerisce alla legittimazione ad agire che si fonda, oltre che sul titolo del soggetto, anche sulla relazione intercorrente tra la cosa oggetto del diritto (o, più in generale, della posizione giuridica) e il provvedimento che produce effetti pregiudizievoli per il patrimonio giuridico del ricorrente.
La sussistenza dell’interesse ad agire, richiede una lesione effettiva della posizione giuridica del ricorrente, della quale occorre che vi sia prova in giudizio.

L’interesse ad agire, in relazione a provvedimenti che consentono l’edificazione, non si fonda solo sul rapporto di vicinanza dell’immobile del ricorrente (e della persona del ricorrente medesimo) con il luogo in cui deve essere effettuata l’edificazione.
Tale aspetto, come è stato già condivisibilmente osservato (Cons. Stato, sez. IV, 29.12.2010 n. 9537), inerisce alla legittimazione ad agire che si fonda, oltre che sul titolo del soggetto, anche sulla relazione intercorrente tra la cosa oggetto del diritto (o, più in generale, della posizione giuridica) e il provvedimento che produce effetti pregiudizievoli per il patrimonio giuridico del ricorrente.
La sussistenza dell’interesse ad agire, richiede una lesione effettiva della posizione giuridica del ricorrente, della quale occorre che vi sia prova in giudizio
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.02.2013 n. 830 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Bonifica dei siti di interesse nazionale e imposizione di misure di messa in sicurezza d'emergenza.
Le norme vigenti in materia non consentono all’Amministrazione procedente di imporre ai privati che non abbiano alcuna responsabilità, né diretta, né indiretta sull'origine del fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali proprietari o gestori o addirittura in ragione della mera collocazione geografica del bene, l'obbligo di bonifica di rimozione e di smaltimento dei rifiuti e, in generale, della riduzione al pristino stato dei luoghi che è posto unicamente in capo al responsabile dell'inquinamento, che le autorità amministrative hanno l'onere di ricercare ed individuare.
Ai fini della responsabilità in questione è perciò necessario che sussista e sia provato, attraverso l'esperimento di adeguata istruttoria, l'esistenza di un nesso di causalità fra l'azione o l'omissione e il superamento -o pericolo concreto ed attuale di superamento- dei limiti di contaminazione, senza che possa venire in rilievo una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell'immobile meramente in ragione di tale qualità.
Alla luce delle superiori considerazioni, appare evidente che, nel sistema sanzionatorio ambientale, il proprietario del sito inquinato è senza dubbio soggetto diverso dal responsabile dell'inquinamento. Mentre su quest'ultimo gravano, oltre altri tipi di responsabilità da illecito, tutti gli obblighi di intervento, di bonifica e lato sensu ripristinatori, previsti dal Codice dell'ambiente (in particolare, dagli artt. 242 ss.), il proprietario dell'immobile, pur incolpevole, non è immune da ogni coinvolgimento nella procedura relativa ai siti contaminati e dalle conseguenze della constatata contaminazione dovendo egli, infatti, attuare le misure di prevenzione di cui all'art. 242 nonché potendo sempre attivare volontariamente gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale.
Più in particolare, ciò significa che il proprietario, ove non sia responsabile della violazione, non ha l'obbligo di provvedere direttamente alla bonifica, ma solo l'onere di farlo se intende evitare le conseguenze derivanti dai vincoli che gravano sull'area sub specie di onere reale e di privilegio speciale immobiliare.

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Fermo restando che non sussiste in capo al proprietario di un'area inquinata non responsabile dell'inquinamento l'obbligo di porre in essere interventi di messa in sicurezza d'emergenza, ma solo la facoltà di eseguirli per mantenere l'area interessata libera dall'onere reale che incombe sull'area de qua ai sensi dell'art. 253 del d.lgs. n. 152/2006, la Sezione ha già avuto modo di affermare in proposito che nel caso della bonifica dei siti di interesse nazionale, l'imposizione di misure di messa in sicurezza d'emergenza ulteriori rispetto a quelle già adottate, deve essere adeguatamente motivata con riferimento all'urgenza, al pericolo per la salute e all'inadeguatezza delle misure preesistenti, al fine di garantire il rispetto del principio di trasparenza e del contraddittorio con i destinatari delle prescrizioni.
Fondato si palesa anche il quinto motivo con i quali Carbocarrara lamenta la contraddittorietà tra gli esiti dell’istruttoria e le conclusioni raggiunte dalle Conferenze di servizi, poi fatte proprie dal Direttore generale per la qualità della vita del Ministero dell’ambiente con il decreto qui avversato, in merito alla responsabilità della medesima nell’aver causato la contaminazione rilevata con conseguente violazione degli artt. 239 e segg. del d.lgs. n. 152/2006 e dell’art. 17 d.lgs. n. 22/1997, nonché del d.m. n. 471/1999.
In proposito occorre premettere che la giurisprudenza assolutamente prevalente è nel senso che le norme appena citate non consentono all’Amministrazione procedente di imporre ai privati che non abbiano alcuna responsabilità, né diretta, né indiretta sull'origine del fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali proprietari o gestori o addirittura in ragione della mera collocazione geografica del bene, l'obbligo di bonifica di rimozione e di smaltimento dei rifiuti e, in generale, della riduzione al pristino stato dei luoghi che è posto unicamente in capo al responsabile dell'inquinamento, che le autorità amministrative hanno l'onere di ricercare ed individuare. Ai fini della responsabilità in questione è perciò necessario che sussista e sia provato, attraverso l'esperimento di adeguata istruttoria, l'esistenza di un nesso di causalità fra l'azione o l'omissione e il superamento -o pericolo concreto ed attuale di superamento- dei limiti di contaminazione, senza che possa venire in rilievo una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell'immobile meramente in ragione di tale qualità (cfr. Cons. Stato sez. VI 18.04.2011, n. 2376; id., Sez. V, 19.03.2009, n. 1612; TAR Campania, Napoli, sez. V, 01.03.2012, n. 1073; TAR Toscana, sez. II, 03.03.2010, n. 594; id. 01.04.2011, n. 565).
Alla luce delle superiori considerazioni, appare evidente che, nel sistema sanzionatorio ambientale, il proprietario del sito inquinato è senza dubbio soggetto diverso dal responsabile dell'inquinamento. Mentre su quest'ultimo gravano, oltre altri tipi di responsabilità da illecito, tutti gli obblighi di intervento, di bonifica e lato sensu ripristinatori, previsti dal Codice dell'ambiente (in particolare, dagli artt. 242 ss.), il proprietario dell'immobile, pur incolpevole, non è immune da ogni coinvolgimento nella procedura relativa ai siti contaminati e dalle conseguenze della constatata contaminazione dovendo egli, infatti, attuare le misure di prevenzione di cui all'art. 242 nonché potendo sempre attivare volontariamente gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale.
Più in particolare, ciò significa che il proprietario, ove non sia responsabile della violazione, non ha l'obbligo di provvedere direttamente alla bonifica, ma solo l'onere di farlo se intende evitare le conseguenze derivanti dai vincoli che gravano sull'area sub specie di onere reale e di privilegio speciale immobiliare (ex multis, Cons. Stato sez. V, 05.09.2005, n. 4525)
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L’art. 240, co. 1, lett. i), definisce le misure di prevenzione come “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia” e ciò quando venga accertato il superamento delle “concentrazioni soglia di rischio (CSR)” che la lettera c) dello stesso comma indica come “i livelli di contaminazione delle matrici ambientali, da determinare caso per caso con l'applicazione della procedura di analisi di rischio sito specifica secondo i principi illustrati nell'Allegato 1 alla parte quarta del presente decreto e sulla base dei risultati del piano di caratterizzazione, il cui superamento richiede la messa in sicurezza e la bonifica.”.
Analoghi presupposti sono individuati nell'art. 2, d.m. 25.10.1999 n. 471 secondo cui la misura straordinaria della messa in sicurezza d’emergenza, è quella relativa ad «ogni intervento necessario ed urgente per rimuovere le fonti inquinanti, contenere la diffusione degli inquinanti e impedire il contatto con le fonti inquinanti presenti nel sito, in attesa degli interventi di bonifica e ripristino ambientale o degli interventi di messa in sicurezza permanente».
Fermo restando che non sussiste in capo al proprietario di un'area inquinata non responsabile dell'inquinamento l'obbligo di porre in essere interventi di messa in sicurezza d'emergenza, ma solo la facoltà di eseguirli per mantenere l'area interessata libera dall'onere reale che incombe sull'area de qua ai sensi dell'art. 253 del d.lgs. n. 152/2006, la Sezione ha già avuto modo di affermare in proposito che nel caso della bonifica dei siti di interesse nazionale, l'imposizione di misure di messa in sicurezza d'emergenza ulteriori rispetto a quelle già adottate, deve essere adeguatamente motivata con riferimento all'urgenza, al pericolo per la salute e all'inadeguatezza delle misure preesistenti, al fine di garantire il rispetto del principio di trasparenza e del contraddittorio con i destinatari delle prescrizioni (TAR Toscana, sez. II, 22.12.2010, n. 6798; id. 26.07.2010, n. 3140)
(TAR Toscana, Sez. II, sentenza 07.02.2013 n. 216 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ambiente in genere. Illegittimità autorizzazione impianto produzione di calcestruzzo in ampliamento di un impianto di recupero rifiuti inerti senza preventiva VIA.
E’ illegittima l’approvazione del progetto ed autorizzazione alla realizzazione di un impianto per la produzione di calcestruzzo con materiali inerti e rifiuti non pericolosi in ampliamento di un impianto di recupero rifiuti inerti senza preventiva VIA.
Quand’anche il progetto per la produzione di calcestruzzo dovesse essere qualificato come ampliamento di quello esistente di frantumazione, si dovrebbe comunque definire il medesimo come comportante una variante sostanziale al progetto originario in quanto tale assoggettabile alla medesima disciplina applicabile ai nuovi impianti ai sensi dell’art. 208, comma 19, del Dlgs. n. 152 del 2006, per il quale le procedure di autorizzazione di nuovi impianti si applicano anche per la realizzazione di varianti sostanziali a seguito delle quali gli impianti non sono più conformi all'autorizzazione rilasciata.

L’art. 16, comma 2, della legge regionale n. 11 del 2010, ha previsto che nelle more dell’approvazione del piano regionale di gestione dei rifiuti speciali, “non possono essere rilasciati provvedimenti di approvazione dei progetti di impianti di smaltimento o recupero di rifiuti speciali, pericolosi e non pericolosi, né concesse autorizzazioni all’esercizio di nuovi impianti di smaltimento o recupero di rifiuti speciali, pericolosi e non pericolosi, in assenza di una deliberazione del consiglio provinciale competente per il territorio, previo parere dell’Osservatorio rifiuti dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente del Veneto, che accerti l’indispensabilità degli impianti stessi ai fini dello smaltimento o recupero, in ragione dell’osservanza del principio di prossimità tra luogo di produzione e luogo di smaltimento prescritto dall’articolo 11, commi 1 e 2, della legge regionale 21.01.2000, n. 3 e dall’articolo 199, comma 3, lettera d), del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152”.
Nel caso in esame la Provincia di Verona si è rivolta all’Osservatorio rifiuti dell’Arpav e questo con parere n. 01377407211 del 16.11.2010, ha affermato che il progetto presentato non è soggetto alle limitazioni dettate dalla predetta norma, in quanto va qualificato come mero ampliamento di impianti esistenti in termini di potenzialità, superficie o modifiche gestionali, e quindi come rientrante nelle esenzioni previste dalla deliberazione della Giunta regionale n. 1210 del 23.03.2010, recante disposizioni attuative della legge regionale.
La Provincia di Verona, la Società controinteressata e l’Arpav nelle proprie difese sostengono la tesi enunciata in tale parere, affermando che nel caso di specie l’impianto per la produzione di calcestruzzo deve considerarsi ampliamento dell’impianto di frantumazione, e che questo deve considerarsi già esistente in quanto già autorizzato, ai fini della non applicabilità dei vincoli previsti dall’art. 16 della legge regionale n. 11 del 2010, come previsto dalla sopra menzionata deliberazione della Giunta regionale.
Questa tesi non può essere condivisa perché si basa su di una non corretta interpretazione delle norme.
Dalla cronistoria delle procedure autorizzative intercorse emerge che:
- la dante causa dell’odierna controinteressata Ecoblu Srl, la ditta Cava Mirabei Srl, è stata autorizzata con determinazione n. 270/04 del 16.01.2004 alla realizzazione di un impianto per l’attività di recupero di materiali inerti e rifiuti tramite frantumazione, non realizzato, e la cui scadenza del termine di realizzazione è stata più volte prorogata, da ultimo fino al 26.06.2011, dal provvedimento impugnato;
- il progetto originario che ha dato luogo alla determinazione n. 270/04 del 16.01.2004 prevedeva, unitamente alla realizzazione dell’impianto di frantumazione, anche la realizzazione di un impianto di betonaggio per la produzione di calcestruzzo e di una tettoia per ricovero mezzi, ma la parte di progetto relativa a tale impianto non è stata approvata in quanto ritenuta afferente ad un insediamento produttivo non attinente al recupero dei rifiuti, e pertanto di competenza del Comune e non della Provincia (nel progetto era previsto l’utilizzo di rifiuti provenienti da scavi e demolizioni; cocciame da estrazioni e lavorazioni di pietre naturali per l’ottenimento di inerti a granulometria stabilizzata utilizzabili per la realizzazione di sottofondi di capannoni e la costruzione di opere stradali, come risulta dal parere n. 113 di cui al verbale n. 18 del 13.10.2003 della commissione tecnica provinciale per l’ambiente della Provincia di Verona allegato al doc. 17 del ricorso);
- successivamente, in data 11.05.2004, la ditta ha presentato domanda di approvazione di un diverso progetto per un impianto per la produzione di calcestruzzo con materiali inerti e rifiuti provenienti da centrali termoelettriche ed altri rifiuti compatibili;
- l’istanza per ottenere l’autorizzazione di tale progetto è stata respinta con determinazione prot. n. 65504 del 25 giugno 2008 del dirigente del settore ecologia della Provincia di Verona, facendo riferimento a ragioni di tutela paesaggistica;
- il Tar Veneto, Sez. II, con sentenza 14.11.2008, n. 3567, ha annullato il diniego di autorizzazione accogliendo la censura di difetto di motivazione;
- in esecuzione di tale sentenza, il dirigente del settore ambiente della Provincia di Verona con nota prot. n. 24271 del 05.03.2009, ha inviato una comunicazione di avvio del procedimento per il riesame del progetto, e successivamente ha sospeso i termini per la conclusione del procedimento, in quanto vi era la necessità di verificare l’assoggettabilità del progetto alla valutazione di impatto ambientale;
- in data 30.11.2009, la ditta ha presentato domanda di verifica di assoggettabilità del progetto a valutazione di impatto ambientale;
- il dirigente del settore ambiente della Provincia di Verona con determinazione n. 2355/10 del 4 maggio 2010, ha escluso dalla procedura di valutazione di impatto ambientale il progetto denominato “impianto di recupero di materiali inerti tramite frantumazione, mediante l’inserimento di un impianto per la produzione di calcestruzzo con materiali e rifiuti inerti”;
- tale provvedimento reca tuttavia la prescrizione che, prima dell’approvazione del progetto, deve essere presentato uno studio con la valutazione degli effetti cumulativi con le altre attività di gestione dei rifiuti presenti sulle aree limitrofe;
- il 19.10.2010 la Provincia di Verona ha chiesto all’Osservatorio rifiuti dell’Arpav il parere prescritto dall’art. 16 della legge regionale n. 11 del 2010;
- l’Arpav ha affermato che il progetto non soggiace alle limitazioni previste dall’art. 16 delle legge regionale n. 11 del 2010, e pertanto può essere autorizzato senza l’acquisizione del parere del consiglio provinciale circa l’indispensabilità dello stesso ai fini dello smaltimento o recupero dei rifiuti, in ragione dell’osservanza del principio di prossimità tra luogo di produzione e luogo di smaltimento.
Da quanto esposto risulta quindi che il progetto ricade tra quelli assoggettati alla disciplina dell’art. 16 della legge regionale n. 11 del 2010, perché si tratta di un progetto relativo ad un nuovo impianto.
In fatto emerge che in passato non è stata mai approvata l’autorizzazione di un impianto per la produzione del calcestruzzo con materiali inerti e rifiuti (la produzione del calcestruzzo mediante l’utilizzo di rifiuti rende ininfluente, ai fini della definizione della controversia, la preesistenza di un impianto di betonaggio molto risalente), in quanto la richiesta di approvazione del progetto relativo ad un impianto di questo tipo presentata nel 2003, era stata respinta, e che l’impianto di recupero di inerti mediante frantumazione autorizzato con la determinazione n. 270/04 del 16 gennaio 2004, che si pretenderebbe oggetto di ampliamento, non è stato ancora realizzato, in quanto il termine di scadenza dell’autorizzazione è stato ripetutamente prorogato.
Ne discende, contrariamente a quanto afferma l’Arpav nel proprio parere, la non applicabilità al progetto relativo all’impianto per la produzione di calcestruzzo con inerti e rifiuti, della disciplina sulle esenzioni previste dalla deliberazione della Giunta regionale n. 1210 del 23.03.2010, recante disposizioni attuative dell’art. 16 della legge regionale n. 11 del 2010.
Questa infatti, che ha valenza interpretativa della legge regionale, precisa le casistiche che non devono ritenersi soggette all’applicazione dell’art. 16 della legge regionale n. 11 del 2010, e tra queste menziona le domande relative alla “realizzazione di interventi di ampliamento di impianti esistenti autorizzati allo smaltimento o recupero di rifiuti speciali, pericolosi e non, in termini di potenzialità, superficie o modifiche gestionali”.
Nel caso in esame il progetto per la produzione di calcestruzzo con materiali inerti e rifiuti non può essere definito come mero ampliamento in termini di potenzialità, superficie o modifiche gestionali del progetto di realizzazione di un impianto di recupero di inerti mediante frantumazione, in primo luogo perché non può parlarsi di ampliamento tra impianti tra loro diversi, strutturalmente e funzionalmente autonomi, che sono solo collegati tra loro, in secondo luogo perché l’impianto di frantumazione, quand’anche fosse da qualificare, secondo la prospettazione delle parti resistenti e della controinteressata, come ampliato dall’impianto di produzione del calcestruzzo, non potrebbe neppure essere definito come già “esistente”, atteso che, benché autorizzato, non è stato ancora realizzato e l’espressione impianti “esistenti ed autorizzati” utilizzata dalla citata deliberazione della Giunta regionale non costituisce un’endiadi.
Infatti laddove il legislatore ha definito cosa debba intendersi per “impianto esistente”, ha inteso fare riferimento non solo all’impianto che abbia ottenuto tutte le autorizzazioni necessarie, ma che sia anche entrato in funzione (in tali termini l’art. 5, comma 1, lett. i-quinquies del Dlgs. n. 152 del 2006 dispone che si definisce impianto esistente “un impianto che, al 10.11.1999, aveva ottenuto tutte le autorizzazioni ambientali necessarie all'esercizio, o il provvedimento positivo di compatibilità ambientale, o per il quale a tale data erano state presentate richieste complete per tutte le autorizzazioni ambientali necessarie per il suo esercizio, a condizione che esso sia entrato in funzione entro il 10.11.2000”).
Una tale conclusione è coerente, sotto un profilo sistematico, con la logica sottesa alla norma regionale, posto che l’art. 16 della legge regionale n. 11 del 2010, si prefigge di non compromettere il raggiungimento degli obiettivi della pianificazione, nelle more del perfezionamento dell’iter di approvazione del piano regionale di gestione dei rifiuti speciali.
Solo per completezza va anche soggiunto che, quand’anche il progetto per la produzione di calcestruzzo dovesse essere qualificato come ampliamento di quello di frantumazione, si dovrebbe comunque definire il medesimo come comportante una variante sostanziale al progetto originario in quanto tale assoggettabile alla medesima disciplina applicabile ai nuovi impianti ai sensi dell’art. 208, comma 19, del Dlgs. n. 152 del 2006, per il quale le procedure di autorizzazione di nuovi impianti si applicano anche per la realizzazione di varianti sostanziali a seguito delle quali gli impianti non sono più conformi all'autorizzazione rilasciata.
Da quanto premesso, discende che il progetto ricade tra quelli assoggettati alla disciplina dell’art. 16 della legge regionale n. 11 del 2010, e che non può quindi essere autorizzato senza una deliberazione del consiglio provinciale competente per territorio che, previo parere dell’Osservatorio rifiuti dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente del Veneto, accerti l’indispensabilità degli impianti stessi ai fini dello smaltimento o recupero, in ragione dell’osservanza del principio di prossimità tra luogo di produzione e luogo di smaltimento (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Veneto, Sez. III, sentenza 05.02.2013 n. 137 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Attività di parziale demolizione dell’edificio abusivo.
L’attività di parziale demolizione dell’edificio, eseguita nel rispetto dell’ingiunzione emanata dall’ausiliario del Giudice dell’ottemperanza, nonché quella successiva e conseguente di ricostruzione delle pareti, non rendono l’edificio il prodotto di una nuova attività edificatoria, ma costituiscono riduzione in pristino delle parti, considerate abusive, realizzate in violazione delle distanze, di un edificio già completato seppur in forza di un titolo annullato.

L’attività di parziale demolizione dell’edificio, eseguita nel rispetto dell’ingiunzione emanata dall’ausiliario del Giudice dell’ottemperanza, nonché quella successiva e conseguente di ricostruzione delle pareti, non rendono l’edificio il prodotto di una nuova attività edificatoria, ma costituiscono riduzione in pristino delle parti, considerate abusive, realizzate in violazione delle distanze, di un edificio già completato seppur in forza di un titolo annullato (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.02.2013 n. 659 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Obblighi per lottizzazione edilizia già attuata.
In relazione alle lottizzazioni e sopravvenute modifiche degli strumenti urbanistici generali, la giurisprudenza di questo consesso ha stabilito che la scadenza d'una convenzione di lottizzazione edilizia già attuata non fa venir meno gli obblighi da essa scaturenti, con riguardo al mantenimento anche per il futuro della sistemazione edilizia prevista per l'area lottizzata.

Il giudice di appello, espressamente soffermandosi sulla questione centrale della causa (ossia la questione riproposta, ma in senso contrario, con il rimedio straordinario della revocazione) ha affermato il principio di diritto secondo cui, a differenza delle norme di piano regolatore generale, che hanno carattere programmatorio, quelle dei piani di lottizzazione, una volta questi eseguiti, acquistano un carattere di stabilità e, rilevano strutturalmente a tempo tendenzialmente indeterminato, proprio al fine di regolare, in via definitiva e con efficacia erga omnes, l’assetto urbanistico ed edilizio della porzione di territorio interessata dall’intervento considerato.
Difatti, proprio in relazione alle lottizzazioni e sopravvenute modifiche degli strumenti urbanistici generali, la giurisprudenza di questo consesso ha stabilito che la scadenza d'una convenzione di lottizzazione edilizia già attuata non fa venir meno gli obblighi da essa scaturenti, con riguardo al mantenimento anche per il futuro della sistemazione edilizia prevista per l'area lottizzata (così tra tante, Consiglio Stato sez. V, 20.03.2000, n. 1509) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.02.2013 n. 650 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Monetizzazione degli standard urbanistici.
La monetizzazione degli standard urbanistici non può essere considerata alla stregua di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò perché, da un lato, così facendo si legittima la paradossale situazione di separare i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità di vita degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela giuridica agli interessi concretamente lesi degli abitanti dell’area.

La Sezione si è già espressa in sede cautelare sull’ammissibilità delle doglianze in tema di procedura di monetizzazione degli standard, con una linea argomentativa cui non ritiene di fare torto. Nell’ordinanza cautelare n. 144 del 17.01.2012, la Sezione: “- considerato che può ritenersi sussistente la legittimazione delle parti appellanti a sindacare i meccanismi di determinazione degli standard urbanistici relativi all’intervento da realizzare, atteso che la loro monetizzazione, a fronte di un immediato vantaggio economico in favore del Comune, comporta la sottrazione di utilità ai residenti ed influisce quindi sulla fruibilità dell’area in questione;
- considerato che non appaiono evidenti le ragioni per cui il Comune, nella ponderazione tra gli opposti interessi tesi, da un lato, al mantenimento nell’area degli standard e, dall’altro, alla loro monetizzazione per poi successiva dislocazione in zona diversa, ha optato per la soluzione più lesiva delle parti appellanti;
” ha accolto l’istanza cautelare degli attuali appellanti.
Le linee portanti della citata argomentazione vanno ribadite, anche in questa sede, in tema di scrutinio pregiudiziale sull’ammissibilità di tali doglianze. Infatti, non ci si può esimere dall’osservare come i criteri per la determinazione dei soggetti parti del processo amministrativo si fondino su elementi di carattere sostanziale in funzione di una subita lesione di un interesse giuridico qualificato ad opera dell’azione amministrativa. In quest’ambito, le classificazioni degli interessi lesi, e le parallele categorie descrittive in uso nella giurisprudenza (quali quella della vicinitas, sicuramente preponderante in ambito edilizio e molto evocata dalla parti appellate), lungi dal rappresentare un elemento di chiusura dei fatti di legittimazione, ne rappresentano una utile esemplificazione che non esclude, ma anzi fonda, la possibile espansione della tutela processuale in favore di altri soggetti i quali, in concreto, riescano a giustificare l’esistenza di una loro posizione differenziata e lesa (ed in giurisprudenza, si trovano esempi di una considerazione complessa del concetto di vicinitas, inteso come giudizio in cui si tiene conto della natura e delle dimensioni dell'opera realizzata, della sua destinazione, delle sue implicazioni urbanistiche ed anche delle conseguenze prodotte dal nuovo insediamento sulla qualità della vita di coloro che per residenza, attività lavorativa e simili, sono in durevole rapporto con la zona in cui sorge la nuova opera, Consiglio di Stato, sez. IV, 29.11.2012 n. 6081; id., 31.05.2007, n. 2849).
Proprio sulla scorta di tale valutazione in concreto, la Sezione non ha condiviso l’assunto del TAR (che aveva visto il tema della monetizzazione come una vicenda patrimoniale tra Comune e titolare del permesso di costruire) e ha al contrario ritenuto che la modificazione peggiorativa della qualità urbana ben possa fondare un interesse diretto al sindacato sulle scelte urbanistiche del Comune, applicando i criteri, e non gli schemi preconcetti, valevoli in generale per ogni provvedimento amministrativo nel campo specifico in esame. A un esame più attento, la monetizzazione degli standard urbanistici non può essere considerata alla stregua di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò perché, da un lato, così facendo si legittima la paradossale situazione di separare i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità di vita degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela giuridica agli interessi concretamente lesi degli abitanti dell’area (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.02.2013 n. 644 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAI generali princìpi di conservazione dell’atto e di strumentalità delle forme inducano a generalizzare la portata dell’istituto dell’illegittimità non invalidante di cui all’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241 del 1990 e ciò anche per evitare che la prevalenza di considerazioni procedimentali porti l’amministrazione alla scelta (antieconomica e contrastante con il principio di efficienza) di dover riavviare un procedimento i cui esiti siano ab initio scontati.
Ed invero, la disposizione ora richiamata, introducendo nell’ordinamento la categoria dei vizi c.d. non invalidanti, non determina la degradazione del vizio di legittimità in mera irregolarità, né costituisce una fattispecie esimente, ma prevede semplicemente un’ipotesi di non annullabilità dell’atto a causa di valutazioni attinenti al suo contenuto, effettuate ex post dal giudice e concernenti il fatto che risulta accertato inequivocabilmente che il ricorrente non potrebbe ricevere alcuna utilità dall’accoglimento del ricorso.

Sul punto appare ampiamente condivisibile il più recente orientamento giurisprudenziale, cristallizzato nella recente sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.02.2012 n. 1081, laddove si afferma, tra l’altro, che “…i generali princìpi di conservazione dell’atto e di strumentalità delle forme inducano a generalizzare la portata dell’istituto dell’illegittimità non invalidante di cui all’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241 del 1990" (in tal senso vedi: Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2795; V, 19.06.2009, n. 4031; 14.04.2008, n. 1588), "e ciò anche per evitare che la prevalenza di considerazioni procedimentali porti l’amministrazione alla scelta (antieconomica e contrastante con il principio di efficienza) di dover riavviare un procedimento i cui esiti siano ab initio scontati”.
Ed invero, la disposizione ora richiamata, introducendo nell’ordinamento la categoria dei vizi c.d. non invalidanti, non determina la degradazione del vizio di legittimità in mera irregolarità, né costituisce una fattispecie esimente, ma prevede semplicemente un’ipotesi di non annullabilità dell’atto a causa di valutazioni attinenti al suo contenuto, effettuate ex post dal giudice e concernenti il fatto che risulta accertato inequivocabilmente che il ricorrente non potrebbe ricevere alcuna utilità dall’accoglimento del ricorso
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 30.01.2013 n. 75 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'adeguamento degli oneri di urbanizzazione non comporta che i Comuni possono ritenersi autorizzati ad applicare gli stessi retroattivamente alle concessioni edilizie già rilasciate ed assoggettate agli oneri a quel tempo vigenti, fatti salvi i casi di espresse riserve al riguardo.
Le delibere comunali che dispongono l'adeguamento degli oneri di urbanizzazione, cioè, possono trovare applicazione esclusivamente per le concessioni rilasciate a far tempo dalla loro adozione, e non anche per quelle rilasciate in epoca anteriore.
In applicazione di siffatto principio l'aggiornamento degli oneri di urbanizzazione disposto con atto successivo e con effetto retroattivo sarebbe legittimo solo nelle fattispecie nelle quali nella concessione edilizia fosse stata inserita una espressa clausola "salvo conguaglio".

La ricorrente si duole anche del fatto che la modifica delle tabelle parametriche sia stata applicata anche in relazione a concessioni edilizie rilasciate prima della sua approvazione, con violazione del principio della irretroattività degli effetti degli atti amministrativi.
In realtà, come giustamente rileva la difesa dell’amministrazione, la giurisprudenza amministrativa ha più volte affermato che l'adeguamento degli oneri di urbanizzazione non comporta che i Comuni possono ritenersi autorizzati ad applicare gli stessi retroattivamente alle concessioni edilizie già rilasciate ed assoggettate agli oneri a quel tempo vigenti, fatti salvi i casi di espresse riserve al riguardo (cfr: C.G.A., sez. giurisdizionale, n. 186 del 21.03.2007).
Le delibere comunali che dispongono l'adeguamento degli oneri di urbanizzazione, cioè, possono trovare applicazione esclusivamente per le concessioni rilasciate a far tempo dalla loro adozione, e non anche per quelle rilasciate in epoca anteriore (TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 17.11.2009 n. 1798).
In applicazione di siffatto principio –al quale il Collegio ritiene di dovere aderire- l'aggiornamento degli oneri di urbanizzazione disposto con atto successivo e con effetto retroattivo sarebbe legittimo solo nelle fattispecie nelle quali nella concessione edilizia fosse stata inserita una espressa clausola "salvo conguaglio"
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 30.01.2013 n. 75 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Qualificazione opere interne di completamento funzionale.
Non possono qualificarsi come opere interne di completamento funzionale quelle che si traducono nella creazione di un quid novi rispetto alla consistenza strutturale e funzionale del manufatto già realizzato, volto alla suddivisione strutturale e funzionale di una singola unità immobiliare per ricavarne nuovi vani da affittare a terzi, con conseguente aumento del precedente carico urbanistico.

L’appellata sentenza si fonda, altresì, su una corretta applicazione della disciplina legislativa urbanistico-edilizia vigente all’epoca di realizzazione delle opere e di adozione dell’ordinanza repressiva, a ragione escludendo che le opere in questione possano qualificarsi alla stregua di opere interne sottratte al regime concessorio/autorizzatorio.
Invero, l’art. 26 l. n. 47 del 1985, nel sottoporre gli interventi edilizi minori, costituite dalle “(…) opere interne alle costruzioni che non siano in contrasto con gli strumenti urbanistici adottati o approvati e con i regolamenti edilizi vigenti, non comportino modifiche della sagoma, della costruzione, dei prospetti né aumento delle superfici utili e del numero delle unità immobiliari, non modifichino la destinazione d’uso delle costruzioni e delle singole unità immobiliari, e non rechino pregiudizio alla statica dell'immobile (…)” (v., così, testualmente, il citato articolo di legge), al regime della relazione tecnica di asseverazione da presentare al Comune contestualmente all’inizio dei lavori, ne ha escluso espressamente gli interventi che, tra l’altro, comportino un aumento del numero delle unità immobiliari.
È, poi, sopravvenuto l’art. 4 l. 24.12.1993, n. 493 (come sostituito dall’art. 2, comma 60, l. 23.12.1996, n. 662) che, senza modifica espressa del citato art. 26, ha reso realizzabili con la denuncia d’inizio attività le “(…) opere interne di singole unità immobiliari che non comportino modifiche alla sagoma e dei prospetti e non rechino pregiudizio alla statica dell’immobile (…)”.
Quanto al rapporto tra le due norme, deve condividersi la ricostruzione operata dal Tar, secondo cui l’art. 2, comma 60, l. n. 662 del 1996 si è limitato ad attrarre l’attività edilizia libera di cui all’art. 26 l. n. 47 del 1985 alla sfera applicativa della dichiarazione d’inizio attività, ma non ne ha implicitamente ampliato i contenuti tipologici a discapito della sfera applicativa della concessione edilizia, dovendosi, in particolare, escludere che fossero rimasti sottratti al regime concessorio gli interventi di ristrutturazione comportanti il frazionamento di una singola unità immobiliare in una pluralità di distinte unità.
Infatti, a siffatti tipi di opere è correlato un aumento del carico urbanistico, tant’è che –come puntualmente osservato nell’appellata sentenza– il legislatore, successivamente, ha ribadito l’assoggettamento al permesso di costruire degli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino un aumento delle unità immobiliari (art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001) contestualmente prevedendo, in via espressa, per tali opere il regime abilitativo alternativo della c.d. super d.i.a., gravata dall’obbligo di pagamento del contributo di costruzione proprio del permesso di costruire (art. 22, comma 3, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001).
Sul piano dell’interpretazione letterale dell’art. 4 l. n. 493 del 1993 (come sostituito dall’art. 2, comma 60, l. n. 662 del 1996), il riferimento alle “singole unità immobiliari”, nel cui ambito sono consentite “opere interne” assentibili mediante d.i.a., contrariamente a quanto sostenuto dall’odierna appellante, suffraga ulteriormente la sopra condivisa ricostruzione del quadro normativo applicabile ratione temporis alla fattispecie sub iudice, risultandovi invero stabilito il limite morfologico-strutturale costituito dalla circoscrizione dell’intervento all’interno della singola unità immobiliare, ontologicamente superato in caso di interventi tesi a ricavarne nuove unità immobiliari.
Non possono, infatti, qualificarsi come opere interne di completamento funzionale quelle che si traducono nella creazione di un quid novi rispetto alla consistenza strutturale e funzionale del manufatto già realizzato, quale quello in esame, volto alla suddivisione strutturale e funzionale di una singola unità immobiliare per ricavarne nuovi vani da affittare a terzi, con conseguente aumento del precedente carico urbanistico (v. sul punto, in fattispecie analoga, C.d.S., Sez. V, 05.03.2001, n. 1244).
Per le esposte ragioni, s’impone la conferma dell’appellata sentenza, affermativa della legittimità dell’impugnata ordinanza repressivo-ripristinatoria delle opere contestate, costituite dalla suddivisione strutturale e funzionale di una singola unità immobiliare in una pluralità di distinti locali commerciali (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.01.2013 n. 545 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni culturali. Parere negativo della competente Soprintendenza in merito alla realizzazione di ascensore in un palazzo semivincolato
Il quadro normativo di riferimento, in materia di soggetti portatori di minorazioni fisiche -in particolare, costituito dalle leggi 09.01.1989 n. 13 e 05.02.1992 n. 104, ha sicuramente elevato il livello di tutela di tali soggetti, non più relegato ad un ristretto ambito soggettivo ed individuale, ma ormai considerato come interesse primario dell'intera collettività, da soddisfare con interventi mirati a rimuovere situazioni preclusive dello sviluppo della persona e dello svolgimento di una normale vita di relazione: donde le previsioni per il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati, dettate in via generale dalla legge n. 13 del 1989 e nelle relative n.t.a. di cui al d.m. 14.06.1989 n. 236, fissanti criteri da osservarsi sia in sede di progettazione e costruzione di nuovi edifici sia di ristrutturazione generale di quelli esistenti, onde garantire idonee condizioni di accesso e di fruizione da parte dei soggetti handicappati, anche nei casi d'immobile dichiarato di particolare interesse ex legge n. 1089/1939.
In tali ipotesi, tuttavia, l’art. 4, commi 4 e 5, legge n. 13/1989, fa salvi i casi di serio pregiudizio del bene tutelato”, fermo restando che “il diniego deve essere motivato con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l'opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall'interessato”.

Il quadro normativo di riferimento, in materia di soggetti portatori di minorazioni fisiche -in particolare, costituito dalle leggi 09.01.1989 n. 13 e 05.02.1992 n. 104- ha sicuramente elevato il livello di tutela di tali soggetti, non più relegato ad un ristretto ambito soggettivo ed individuale, ma ormai considerato come interesse primario dell'intera collettività, da soddisfare con interventi mirati a rimuovere situazioni preclusive dello sviluppo della persona e dello svolgimento di una normale vita di relazione: donde le previsioni per il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati -dettate in via generale dalla legge n. 13 del 1989 e nelle relative n.t.a. di cui al d.m. 14.06.1989 n. 236- fissanti criteri da osservarsi sia in sede di progettazione e costruzione di nuovi edifici sia di ristrutturazione generale di quelli esistenti, onde garantire idonee condizioni di accesso e di fruizione da parte dei soggetti handicappati, anche nei casi d'immobile dichiarato di particolare interesse ex legge n. 1089/1939.
In tali ipotesi, tuttavia, l’art. 4, commi 4 e 5, legge n. 13/1989, fa salvi i casi di serio pregiudizio del bene tutelato”, fermo restando che “il diniego deve essere motivato con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l'opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall'interessato” (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.01.2013 n. 543 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Culturali. Duplice funzione della dichiarazione di notevole interesse pubblico ex d.lgs 42/2004.
Alla luce delle modificazioni apportate al Codice dei beni culturali e del paesaggio d.lgs. 22.01.2004 n. 42, dal d.lgs. n. 63 del 2008, emerge che la dichiarazione di notevole interesse pubblico ha assunto una funzione duplice poiché, accanto a quella risalente di qualificazione e di conformazione giuridica del bene, ha oggi anche quella di predeterminare gli usi e le trasformazioni consentite, come disposto dall’articolo 140, comma 2, in cui è previsto che con la dichiarazione venga anche dettata “la specifica disciplina” d’uso dei beni, così come è previsto nell’articolo 138, comma 1, ultimo periodo, che la proposta di dichiarazione debba contenere “proposte per le prescrizioni d’uso” dei beni stessi; ciò al fine prioritario della “conservazione dei valori espressi”, ma non per questo con effetto preclusivo della ponderata valutazione di possibili e regolate trasformazioni, ferma la prevalenza delle ragioni della tutela del paesaggio.
I) La “…tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali…” è affidata in primo luogo alla competenza esclusiva dello Stato, mentre è attribuita alla legislazione concorrente (art. 117, comma 3, Cost.) la “valorizzazione dei beni ambientali”.
L’art. 117, Cost., in realtà, non menziona direttamente tra le materie nominate “il paesaggio”, per cui la predetta disposizione deve essere coordinata con l’art. 9, Cost. che, con una delle disposizioni fondamentali, assegna la “tutela del paesaggio alla Repubblica, e quindi, quando siano in gioco interessi nazionali, allo Stato: il paesaggio non dev’essere limitato al significato di bellezza naturale ma va inteso come complesso dei valori inerenti al territorio” (cfr. Corte cost., sent. 07.11.1994 n. 379), mentre il termine “paesaggio” indica essenzialmente l’ambiente complessivamente considerato come bene “primario” ed “assoluto” (arg. ex Corte cost., sentt. 05.05.2006 nn. 182 e 183), necessitante di una tutela unitaria e supportata pure da competenze regionali, nell’ambito degli standard stabiliti dallo Stato (arg. ex Corte cost., sent. 22.07.2004 n. 259) in quanto, mediante l’imposizione dei vincoli paesistici, si garantisce la tutela del paesaggio ed anche dell’ambiente (cfr. Cons. Stato, sezione VI, sent. 22.03.2005 n. 1186).
In effetti, sul territorio gravano più interessi pubblici (non contrastanti, proprio per effetto della previsione della pianificazione paesistica, ma destinati a trovare un equo contemperamento), quali quelli concernenti:
- la conservazione ambientale e paesaggistica, la cui cura, secondo le recenti modificazioni al codice, è stata di nuovo riservata in via esclusiva allo Stato;
- il governo, l’uso e la valorizzazione dei beni ambientali, intesi essenzialmente come fruizione e sfruttamento del territorio medesimo, affidati alla competenza concorrente dello Stato e delle regioni, fatta salva l’autonoma potestà tuttora riconosciuta a queste ultime d’individuare, con lo specifico procedimento previsto dall’art. 138 comma 1, “beni paesaggistici” ovvero aree aventi le caratteristiche di notevole interesse pubblico (cfr. Corte cost., sent. 30.05.2008 n. 180).
Di regola, dunque, la ripartizione delle competenze in materia di paesaggio è stabilita dall’art. 132 del codice (sostituito dall'articolo 2, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 63/2008), in conformità ai princìpi costituzionali e con riguardo all'applicazione della Convenzione europea sul paesaggio: l’oggetto della tutela del paesaggio non è il concetto astratto di "bellezze naturali", ma l'insieme delle cose, beni materiali o loro composizioni che presentano “valore paesistico”; pertanto, la tutela ambientale e paesaggistica, gravando su un bene complesso ed unitario, dev’essere considerata un valore primario ed assoluto, che precede e comunque costituisce un limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente delle regioni, in materia di governo del territorio e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali.
II) Il codice, all’art. 131, d.lgs. n. 41/2004, e s.m.i., prevede in linea generale che: “1. Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni.
2. Il presente codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell'identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali.
3. Salva la potestà esclusiva dello Stato di tutela del paesaggio quale limite all'esercizio delle attribuzioni delle regioni (e delle province autonome di Trento e di Bolzano: cfr. Corte cost., sent. 29.07.2009 n. 226) sul territorio, le norme del presente codice definiscono i princìpi e la disciplina di tutela dei beni paesaggistici.

Si tratta, in sintesi, di una “riappropriazione” di potere rispetto all’originaria impronta del codice, che lasciava ampio spazio alle regioni sia nell’autonoma individuazione dei “beni paesaggistici” sia nella gestione di quella parte del paesaggio da recuperare o sviluppare attraverso i piani paesistici estesi a tutto il territorio regionale.
Il potere esclusivo d’intervento dello Stato è specificato proprio nell’articolo 138, comma 3 (nel testo introdotto dall'articolo 2, comma 1, lettera h), d.lgs. 26.03.2008, n. 63) del codice, per cui “È fatto salvo il potere del Ministero, su proposta motivata del soprintendente, previo parere della regione interessata, che deve essere motivatamente espresso entro e non oltre trenta giorni dalla richiesta, di dichiarare il notevole interesse pubblico degli immobili e delle aree di cui all'articolo 136.”.
Non si tratta né di una potestà concorrente né sussidiaria né suppletiva, ma di uno speciale ed autonomo potere dovere d’intervento, caratterizzato da un procedimento in parte differenziato da quello previsto nei primi due commi, che l’ordinamento giuridico ha istituito, attivabile nei casi in cui, in base a valutazioni anche di discrezionalità tecnica, possa essere concretamente a rischio l’interesse costituzionalmente affidato allo Stato: il tutto, in aggiunta al potere sostitutivo in materia di pianificazione paesaggistica disciplinato dagli artt. 156, comma 3, e 143, comma 2, così ribadendosi la coesistenza di un duplice e distinto potere attribuito all’amministrazione centrale, uno in via diretta ed in base ai princìpi costituzionali e l’altro funzionale alla valorizzazione del paesaggio in via sostitutiva (norma di “chiusura” del sistema), per porre una garanzia di tutela effettiva del paesaggio come valore costituzionale.
Come ricordato anche dalla relazione allo schema di decreto legislativo, con la novella (previo parere della conferenza unificata Stato-regioni) è stato riconosciuto e disciplinato “… il potere dello Stato di proporre vincoli paesaggistici, indipendentemente dal concomitante esercizio della medesima attività da parte delle regioni, in conformità, peraltro, a quanto già da tempo stabilito in materia dalla Corte costituzionale con la sentenza 14-24.07.1998 n. 334 …”, per cui il potere è legittimamente esercitato quando la tutela del bene paesistico prevalga, per scelta del costituente, sulla realizzazione di altri interessi economici.
Ove, nell’ambito del distinto procedimento di pianificazione paesistica e nell’esercizio dei poteri che in tali ipotesi ed in tali fasi la legge attribuisce al Ministero (intese, osservazioni), sorga una divergenza di valutazioni sulla conservazione di oggettivi valori ìnsiti in specifiche aree, la preminenza del valore “paesaggio” implica che debba esser “…fatto salvo il potere del Ministero …” (così la norma) di cui all’art. 138, comma 3, codice, d’imporre, previo parere della regione, autonomi vincoli, se necessario, in rapporto al possibile pregiudizio dei valori paesaggistici del territorio; donde il riconoscimento del notevole interesse pubblico di una porzione dell’ “agro romano”, con un legittimo esercizio dello speciale potere d’intervento, in aggiunta alle ordinarie competenze di tutela e valorizzazione che la legge riconosce alla regione.
Per questo l'ampia estensione delle aree vincolate appare assolutamente irrilevante, in quanto una volta riconosciuta l’esistenza dei presupposti per sottoporre a tutela una parte significativa della campagna romana, proprio in quanto avente le caratteristiche del richiamo “identitario”, il vincolo sull'“agro romano” non avrebbe potuto che corrispondere alle dimensioni del territorio con consimili caratteristiche, nell’area tra la Laurentina e l’Ardeatina (malgrado la presenza di zone degradate), senza alcuna violazione del principio di leale collaborazione (con richiamo all’accordo del 1999), in quanto il limite di garanzia del bene, ritenuto idoneo e sufficiente dalla regione in sede di pianificazione e soprattutto di modificazione dei p.t.p. vigenti, con la condivisione delle scelte edificatorie del comune, non era stato ritenuto sufficiente a garantire il ragionevole mantenimento dei valori intrinseci del bene dal titolare dell’autonomo e prevalente potere di tutela.
...
VII) La dichiarazione di notevole interesse pubblico riguardante un’area “vasta” (qualificazione già contemplata nella legge n. 1497 del 1939) non costituisce perciò di per sé espressione di una funzione di pianificazione; il provvedimento, infatti, adottato nell’esercizio di un diverso ed autonomo potere, non attiene a tale funzione né la acquisisce per il mero fatto dell’integrazione nel piano, unico atto cui la funzione è invece attribuita anche allo scopo, ulteriore rispetto alle determinazioni singole, di coordinare in un quadro complessivo l’interazione tra i vincoli di diverso tipo gravanti sul territorio qualificato come paesaggio.
Né rileva, a sostegno dell’asserita valenza pianificatoria della dichiarazione ministeriale di notevole interesse pubblico, che con questa siano definite prescrizioni d’uso, altresì, definite nell’appello come improprie, poiché in funzione non della conservazione ma della valorizzazione degli immobili e delle aree di riferimento, ciò che sarebbe in contrasto con la vigente formulazione degli articoli 138 e 140 del codice, dal cui testo, ai sensi del d.lgs. n. 63 del 2008, la funzione della valorizzazione era stata espunta, restando perciò connessa la dichiarazione di notevole interesse pubblico alla sola finalità della conservazione.
Non può condividersi il presupposto di tale tesi, per cui la funzione di tutela, cui è propria la conservazione dei beni, comporterebbe la sola salvaguardia statica degli stessi con il divieto assoluto e pregiudiziale di ogni possibile trasformazione compatibile con il limite dei valori tutelati, considerato che nelle “disposizioni generali” del codice, comprensive dei beni paesaggistici nella nozione di “patrimonio culturale” (art. 2), è previsto che la tutela si esplichi anche con “provvedimenti vòlti a conformare e regolare diritti e comportamenti inerenti al patrimonio culturale” (art. 3, comma 2), diretti quindi a garantire la conservazione dei beni anche attraverso il loro uso regolato.
In questo quadro, proprio alla luce delle modificazioni apportate al codice dal d.lgs. n. 63 del 2008, emerge che la dichiarazione di notevole interesse pubblico ha assunto una funzione duplice poiché, accanto a quella risalente di qualificazione e di conformazione giuridica del bene, ha oggi anche quella di predeterminare gli usi e le trasformazioni consentite, come disposto dall’articolo 140, comma 2, in cui è previsto che con la dichiarazione venga anche dettata “la specifica disciplina” d’uso dei beni, così come è previsto nell’articolo 138, comma 1, ultimo periodo, che la proposta di dichiarazione debba contenere “proposte per le prescrizioni d’uso” dei beni stessi; ciò al fine prioritario della “conservazione dei valori espressi”, ma non per questo con effetto preclusivo della ponderata valutazione di possibili e regolate trasformazioni, ferma la prevalenza delle ragioni della tutela del paesaggio.
...
XI) La giurisprudenza costituzionale, sulla base dell’art. 9, Cost. ha qualificato il paesaggio come valore “primario e assoluto”, con la conseguente affermazione della prevalenza dell’impronta unitaria della tutela paesaggistica sulle determinazioni urbanistiche, pur nella necessaria considerazione della compresenza d’interessi pubblici intestati alle due funzioni (Corte cost., sentt. n. 367 del 2007, n. 180 e n. 437 del 2008 e n. 309 del 2011), come a sua volta sancito dall’art. 145 del codice, per il cui comma 3 le previsioni dei piani paesaggistici, nei quali s’integrano i provvedimenti ministeriali di cui si tratta, “non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico, sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici…”.
L’iniziativa economica privata, altresì costituzionalmente tutelata, non può essere immotivatamente compressa ma, in quanto attuata nel contesto e per mezzo della strumentazione urbanistica, va correlata al rapporto di questa con i sovraordinati valori della tutela del paesaggio, fermo restando che anche la pianificazione paesaggistica -tenuto conto dei livelli di tutela da prevedere- può non risultare orientata al solo effetto dell’inibizione assoluta di ogni edificabilità, poiché il piano presuppone ed analizza “lo sviluppo sostenibile delle aree interessate” e la presenza di “dinamiche di trasformazione del territorio”, con prescrizioni e previsioni atte “alla individuazione delle linee di sviluppo urbanistico ed edilizio”, purché compatibili “con i diversi valori paesaggistici riconosciuti e tutelati” (art. 143, comma 1, lettere h) ed f); art. 135, comma 1, lett. d)
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.01.2013 n. 534 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità diniego di concessione in sanatoria pur immobile in regola con la normativa igienico-sanitaria.
La licenza di pubblico intrattenimento presuppone un giudizio che investe i profili igienico-sanitari e di agibilità dei locali, e non anche le valutazioni di tipo urbanistico e ambientale-paesaggistico sottese ad un’istanza di concessione edilizia in sanatoria, a cui non è estraneo un giudizio di carattere estetico.
In altri termini, è perfettamente possibile che un immobile, pur in regola con la normativa igienico-sanitaria in ragione della quale ne è autorizzabile l’adibizione a sala di pubblico intrattenimento, risulti al tempo stesso di “infima qualità” sotto il profilo del suo impatto col contesto urbanistico e paesaggistico in cui s’inserisce.

Ed invero, con riguardo alla licenza di pubblico spettacolo, risulta anzitutto fondata l’eccezione di inammissibilità ai sensi dell’art. 104, comma 2, cod. proc. amm., in quanto tale atto, pur richiamato in numerosi atti del giudizio a quo, non risulta essere stato versato negli atti di causa, essendo prodotto solo in occasione del presente giudizio di revocazione.
Anche in disparte ciò, l’omessa considerazione del documento risulta del tutto irrilevante ai fini delle valutazioni giudiziali sui dinieghi di sanatoria e di autorizzazione paesaggistica: infatti, è evidente che la licenza di pubblico intrattenimento presuppone un giudizio che investe i profili igienico-sanitari e di agibilità dei locali, e non anche le valutazioni di tipo urbanistico e ambientale-paesaggistico sottese ad un’istanza di concessione edilizia in sanatoria, a cui non è estraneo un giudizio di carattere estetico.
In altri termini, è perfettamente possibile che un immobile, pur in regola con la normativa igienico-sanitaria in ragione della quale ne è autorizzabile l’adibizione a sala di pubblico intrattenimento, risulti al tempo stesso di “infima qualità” sotto il profilo del suo impatto col contesto urbanistico e paesaggistico in cui s’inserisce (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.01.2013 n. 486 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Necessità VIA per insediamento turistico-residenziale con procedura semplificata ex DPR n. 447/1998 in area agricola con ulivi secolari.
E’ legittima la richiesta della valutazione di compatibilità ambientale (VIA) per insediamento turistico-residenziale con richiesta di procedura semplificata ex DPR n. 447/1998, visto che il progetto comporta variazione alle destinazioni del PRG e l’area interessata ad ospitare l’insediamento produttivo ricade in parte in zona agricola contrassegnata dalla presenza di una moltitudine di ulivi secolari se non millenari che tipizza i luoghi nella loro specificità sì da farne un “unicum” di bellezza e di patrimonio naturale, rendendo necessariamente del tutto non compatibile con un tale assetto ambientale del territorio un intervento edilizio che comporta tra l’altro, proprio in riferimento alla superficie ulivetata l’espianto e successivo reimpianto in altro loco di numerose piante di ulivo, con chiaro pericolo di alterazione dello stato dei luoghi.
L’istituto della VIA è finalizzato alla tutela preventiva dell’ambiente inteso nella sua più ampia accezione, con riferimento alle sue varie componenti : il paesaggio, le risorse naturali, le condizioni di vivibilità degli abitanti, gli aspetti culturali, alla luce del valore primario ed assoluto riconosciuto dalla Costituzione al paesaggio e all’ambiente.

Con riferimento al primo aspetto parte appellante lamenta il fatto che l’Amministrazione regionale avrebbe immotivatamente sconfessato l’istruttoria concordata tra proponente e Regione stessa, tenuto in non cale, in sede di istruttoria della pratica, gli apporti documentali della Società Pettolecchia nonché obliterato in pratica la regola del contraddittorio che pure avrebbe dovuto informare la valutazione dello studio di impatto ambientale (S.I.A.), inoltrato dall’appellante.
Orbene, la lettura della parte narrativa del parere di cui alla determina dirigenziale n. 87/2005 consente agevolmente di rilevare che la Regione nell’istruire la richiesta di compatibilità ambientale ha sufficientemente interloquito con Pettolecchia, dato altresì contezza delle integrazioni documentali fatte pervenire dalla predetta Società e preso altresì atto di procedere ad una definizione concordata dei contenuti del S.I.A ai sensi dell’art. 9 della legge regionale n. 11/2001.
Da come si è svolto l’iter procedurale, non è dato evincere insomma che la determinazione di carattere negativo sia stata assunta, per così dire, “ex abrupto”, mentre risulta documentato che è stata assicurata alla richiedente ampia possibilità di contraddittorio e di partecipazione.
E’ altresì evidente che naturalmente sia pure in un rapporto di interlocuzione e contraddittorio rimane integro il potere della P.A. in subiecta materia di non essere obbligata a seguire il soggetto proponente nelle valutazione e risultanze da questo indicate: un tanto ci introduce nel campo più strettamente di “merito“ della procedura in parola,avuto riguardo cioè a quei profili sostanzialistici (infondatamente ritenuti violati dall’appellante) della quaestio iuris che impongono qui di richiamare sia pure in termini di estrema sintesi i principi che governano la procedura della V.I.A. onde rilevarne natura giuridica del procedimento e ratio applicativa.
L’istituto in parola è finalizzato alla tutela preventiva dell’ambiente inteso nella sua più ampia accezione, con riferimento alle sue varie componenti: il paesaggio, le risorse naturali, le condizioni di vivibilità degli abitanti, gli aspetti culturali e al riguardo il Collegio ritiene di condividere pienamente quanto affermato dalla giurisprudenza costituzionale ed amministrativa in ordine alla natura sostanzialmente insindacabile delle scelte effettuate, giustificandola alla luce del valore primario ed assoluto riconosciuto dalla Costituzione al paesaggio e all’ambiente (in tali sensi, Cons. Stato, Sez. V, 12.06.2009 n. 3770; Corte Costituzionale 07.11.2007 n. 367).
Inoltre, è stato altresì sottolineato che l’ambiente rileva non solo come paesaggio ma anche come assetto del territorio comprensivo degli aspetti naturalistici, e, in particolare, di quelli relativi alla protezione oltreché della fauna anche delle specie vegetazionali (Cons. Stato, Sez. IV, 05.07.2010 n. 4246).
Insomma, nella disciplina della V.I.A. è insita la valenza del principio fondamentale per cui detta procedura è preordinata alla salvaguardia dell’habitat nel quale l’uomo vive e ciò non può non assurgere a valore primario ed assoluto in quanto espressivo della personalità umana (Cons. Stato, Sez. VI, 18.03.2008 n. 1109),
E’ stato parimenti affermato che nel rendere il giudizio di impatto ambientale l’amministrazione esercita una amplissima discrezionalità tecnica censurabile solo per macroscopici vizi logici, per errori di fatto o per travisamento dei presupposti (Cons. Stato, Sez. VI, 19.02.2008 n. 561; idem, 30.01.2004 n. 316), vizi nella specie non rinvenibili (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.01.2013 n. 468 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Illegittimità variante al PRG che riduce distanza dagli allevamenti di tipo intensivo.
E’ Illegittima la Variante Generale al PRG, che introduce la localizzazione di nuove zone omogenee residenziali ad una distanza inferiore a quella prevista dalla vigente fascia di rispetto dagli allevamenti di tipo intensivo presenti sul territorio e la previsione di “attività da trasferirsi o da dismettersi”.
Anche se le scelte urbanistiche in ordine alla zonizzazione del territorio sono rimesse al potere di tipo squisitamente discrezionale dell’Amministrazione comunale, la verifica e la scelta della destinazione edificatoria, pure riservate al potere discrezionale, devono raccordarsi con la più generale disciplina urbanistica e rivelarsi altresì satisfattive dell’interesse pubblico al corretto ed armonico utilizzo del territorio , nel contemperamento delle varie esigenze della popolazione che su tale ambito insiste ed opera.

Il Collegio ritiene qui di richiamare, in primo luogo, i condivisibili orientamenti interpretativi più volte affermati in subjecta materia da questa stessa Sezione, così riassumibili:
a) le scelte urbanistiche in ordine alla zonizzazione del territorio sono rimesse al potere di tipo squisitamente discrezionale dell’Amministrazione comunale ( Cons. Stato Sez. IV 07.06.2012 n. 3365);
b) la verifica e la scelta della destinazione edificatoria, pure riservate al potere discrezionale, devono raccordarsi con la più generale disciplina urbanistica e rivelarsi altresì satisfattive dell’interesse pubblico al corretto ed armonico utilizzo del territorio, nel contemperamento delle varie esigenze della popolazione che su tale ambito insiste ed opera (Cons. Stato Sez. IV 25.09.2012 n. 5088) .
E’ poi opinione consolidata del giudice amministrativo che le scelte espresse nello strumento urbanistico generale, siccome caratterizzate da ampia discrezionalità, non necessitano di altra motivazione, al di là del richiamo ai criteri tecnico-urbanistici seguiti nell’impostazione del piano e rinvenibili nella relazione d’accompagnamento al PRG ( Cons. Stato Sez. IV 09.10.2010 n. 8628; idem 18.01.2011 n. 352; 08.06.2011 n. 3497 ).
Quest’ultima regola è pur sempre temperata dal principio per cui la discrezionalità delle scelte urbanistiche relative alla classificazione delle aree deve essere supportata da una motivazione sufficiente, logica e ragionevole, proprio per evitare che la discrezionalità possa trasmodare nell’arbitrio (Cons. Stato Sez. IV 06.07.2009) (tratto da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.01.2013 n. 431 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità diniego di concessione edilizia per edificio rurale e vincolo di inedificabilità.
La circostanza che il vincolo non sia stato trascritto e che non sia stato istituito il registro fondiario con i dati catastali dei terreni vincolati, non può essere utilmente allegata, in termini d’ignoranza della situazione giuridico-fattuale, dall’interessata, che ha partecipato ad un rogito notarile dal quale risultava con chiarezza l’unicità dell’originario compendio immobiliare e la preesistenza dell’edificio, a nulla rilevando l’assunto che esso fosse più o meno abitabile, e che è stato oggetto di successiva ristrutturazione in base a titolo edilizio che l’interessata non ha impugnato, pur non potendo né dovendo ignorare che la conservazione del manufatto, ancorché ristrutturato, assumeva valenza ostativa, per l’effetto d’asservimento dell’intera superficie fondiaria, ivi compreso il suolo da essa acquistato, al medesimo edificio, all’edificazione sul proprio suolo.

Orbene, la semplice lettura della suddetta determinazione dirigenziale consente di rilevare che il diniego del rilascio del permesso di costruire si fonda su una rinnovata valutazione che non soltanto richiama i rilievi già svolti nel diniego originario (l’essere il suolo della Viviani parte del più vasto compendio immobiliare originario sul quale insisteva, sui mappali n. 359, 360, 361 del foglio 2, preesistente fabbricato che esprimeva l’intera volumetria assentibile in relazione alla superficie del compendio, col conseguente asservimento della medesima all’edificio e il connesso vincolo di non edificabilità di cui all’art. 8 della legge regionale 05.03.1985, n. 24), sebbene anche sulla considerazione dell’art. 95, comma 2, del Regolamento edilizio comunale (che ricomprende nella superficie fondiaria asservita ai fabbricati esistenti alla data di entrata in vigore del P.R.G. approvato con deliberazione della Giunta Regionale n. 4864 del 21.09.1982 tutte le aree scoperte di proprietà della stessa ditta contigua e quella su cui insiste il fabbricato), nonché sulla considerazione dei principi espressi appunto dalla sentenza della V Sezione n. 749 del 10.02.2000 (che sulla scorta di precedenti pronunce ha ribadito che “…un’area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non può essere più tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda concessione nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei terreni…(ossia che)… quando la volumetria edificabile per la intera area originaria sia stata utilizzata, a nulla vale perciò il suo successivo frazionamento”).
In altri termini l’Amministrazione comunale ha emanato nuovo diniego, non meramente confermativo di quello espresso con la determinazione dirigenziale n. 27428 del 21.12.2009 (impugnato col ricorso in primo grado n. 656/2000, respinto con la sentenza n. 1863 del 25.06.2008) e di quello successivo n. 32343 del 12.12.2001 (impugnato col ricorso in primo grado n. 491/2001, dichiarato inammissibile con la sentenza n. 1864 del 25.06.2008 in quanto considerato invece atto di mera conferma del precedente).
Ne consegue che dall’eventuale accoglimento degli appelli l’interessata non potrebbe conseguire alcuna utilità, poiché rimarrebbe comunque fermo il nuovo diniego che non risulta essere stato impugnato.
Ad abundantiam, deve osservarsi che, ancorché con motivazione assai più che sintetica, il giudice amministrativo veneto, nelle due sentenze impugnate ha dato conto, rispettivamente, della legittimità dell’originario diniego e della natura meramente confermativa, con conseguente inammissibilità dell’impugnazione, della successiva nota dirigenziale.
La sig.ra Anna Viviani è intervenuta alla stipula di un unico rogito notarile (n. 66086 di repertorio, n. 7776 di raccolta) in data 24.07.1995, nel quale i proprietari originari dell’unico compendio immobiliare signori Angelo Menegotti e Silvana Righetti hanno proceduto al frazionamento e alla contestuale vendita del compendio in vari “lotti”, uno dei quali, corrispondente ai mappali n. 359, 360 e 361 del foglio 2) all’Impresa De Carli Aleandro di De Carli Gabriella S.a.s., sul quale insisteva, appunto, un fabbricato con terreno circostante, avendo l’interessata acquistato il terreno agricolo corrispondente al mappale n. 362 di foglio 2, e i signori Paolo Pietropaolo, Giovanni Scaramellini e Gianluigi Bottura, pro quota, un capannone con porzione di fabbricato rurale e area di pertinenza, corrispondente ai mappali 355, 356, 357, 358, 363, 364, 365. 366 e 367 di foglio 2.
Con specifico riferimento ai fabbricati rurali, poi, le parti venditrici hanno dichiarato e attestato che le relative opere di costruzione “…sono state iniziate in epoca anteriore al 01.09.1967”.
Orbene, l’art. 8, comma 2, della legge regionale 05.03.1985, n. 24 dispone, in modo testuale, che: “Le abitazioni esistenti in zona agricola alla data di entrata in vigore della presente legge estendono sul terreno dello stesso proprietario un vincolo di «non edificazione» fino a concorrenza della superficie fondiaria necessaria alla loro edificazione, ai sensi dell’art. 3, fatte salve le facoltà previste dall’art. 5”.
L’asservimento così imposto ex lege dell’intera superficie fondiaria al fabbricato esistente preclude l’ulteriore edificazione, ossia esclude che la suddetta superficie sia suscettibile di esprimere ulteriore volumetria.
La circostanza che il vincolo non sia stato trascritto, ai sensi del successivo comma 3, e che non sia stato istituito il registro fondiario con i dati catastali dei terreni vincolati, previsto dal comma 4, non può essere utilmente allegata, in termini d’ignoranza della situazione giuridico-fattuale, dall’interessata, che ha partecipato ad un rogito notarile dal quale risultava con chiarezza l’unicità dell’originario compendio immobiliare e la preesistenza dell’edificio, a nulla rilevando l’assunto che esso fosse più o meno abitabile, e che è stato oggetto di successiva ristrutturazione in base a titolo edilizio che l’interessata non ha impugnato, pur non potendo né dovendo ignorare che la conservazione del manufatto, ancorché ristrutturato, assumeva valenza ostativa, per l’effetto d’asservimento dell’intera superficie fondiaria, ivi compreso il suolo da essa acquistato, al medesimo edificio, all’edificazione sul proprio suolo (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.01.2013 n. 415 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di sagoma ex d.P.R. 380/2001.
In base alla normativa statale di principio d.P.R. 380/2001, un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell'edificio preesistente, intesa quest'ultima come la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale, configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia.
La nozione di sagoma di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia” definisce gli "interventi di ristrutturazione edilizia", come “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”) comprende l’intera conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale e, con sequenzialmente, anche il rispetto della pregressa area di sedime.

La questione centrale da esaminare nella fattispecie in scrutinio è la riconducibilità dell’intervento proposto nell’area nozionale degli interventi sull’esistente, e in particolare della ristrutturazione edilizia, atteso che l’intervento edilizio de qua, in disparte le considerazioni sui profili volumetrici, viene realizzato mediante la demolizione degli edifici preesistenti e la loro collocazione in una area di sedime diversa, oppure al contrario in quella di opera di nuova costruzione.
Proprio il tema della rilevanza del concetto di sedime appare, in effetti, oggetto di discussione nell’ambito della nozione di ristrutturazione edilizia.
La circolare 07.08.2003 n. 4174 del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, intitolata “Decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, come modificato ed integrato dal decreto legislativo 27.12.2002, n. 301. Chiarimenti interpretativi in ordine alla inclusione dell'intervento di demolizione e ricostruzione nella categoria della ristrutturazione edilizia”, esaminata la definizione di ristrutturazione edilizia ed evidenziato che questa non richiama più il concetto di “area di sedime”, afferma espressamente: “non si ritiene che l'esclusione di tale riferimento possa consentire la ricostruzione dell'edificio in altro sito, ovvero posizionarlo all'interno dello stesso lotto in maniera del tutto discrezionale. La prima ipotesi è esclusa dal fatto che, comunque, si tratta di un intervento incluso nelle categorie del recupero, per cui una localizzazione in altro ambito risulterebbe palesemente in contrasto con tale obiettivo; quanto alla seconda ipotesi si ritiene che debbono considerarsi ammissibili, in sede di ristrutturazione edilizia, solo modifiche di collocazione rispetto alla precedente area di sedime, sempreché rientrino nelle varianti non essenziali, ed a questo fine il riferimento è nelle definizioni stabilite dalle leggi regionali in attuazione dell'art. 32 del Testo unico. Resta in ogni caso possibile, nel diverso posizionamento dell'edificio, adeguarsi alle disposizioni contenute nella strumentazione urbanistica vigente per quanto attiene allineamenti, distanze e distacchi”.
Rispetto a questa posizione ministeriale, di parziale apertura almeno alle dislocazioni interne al lotto, si riscontrano invece posizioni della giurisprudenza orientate in senso opposto (Consiglio di Stato, sez. VI, 16.12.2008 n. 6214; Consiglio di Stato, sez. V, 15.04.2004 n. 2142, per l’espressa affermazione che la ristrutturazione edilizia individua un intervento dove non si assista ad alcun incremento per i volumi, le sagome e le superfici, salvo una diversa distribuzione di quelle assentite, né una maggiore o diversa occupazione delle aree di sedime), evidenziando come lo spostamento della collocazione del manufatto costituisce una nuova costruzione e non un intervento sull’esistente.
La lettura in senso restrittivo della nozione di ristrutturazione urbanistica, così sostenuta, ha ricevuto poi un avallo autorevolissimo dalla giurisprudenza costituzionale, dove si legge (Corte Costituzionale, 23.11.2011 n. 309) in maniera assolutamente lineare e condivisibile che “in base alla normativa statale di principio, quindi, un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell'edificio preesistente -intesa quest'ultima come la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale- configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia”.
Pertanto, la nozione di sagoma di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia” (che definisce gli "interventi di ristrutturazione edilizia", come “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”) comprende l’intera conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale e, con sequenzialmente, anche il rispetto della pregressa area di sedime.
Inoltre, proprio il riferimento alla conformazione planovolumetrica e alla prevalenza delle definizioni di cui al testo unico dell’edilizia, elementi contenuti nella pronuncia della Corte costituzionale sopra citata, consente di ritenere superate le voci difformi alla lettura restrittiva qui proposta (tra tutte, Consiglio di Stato, sez. V, 27.04.2006 n. 2364, in merito alla prevalenza della normativa tecnica di p.r.g. che consentiva la sostituzione dell'organismo con altro in parte o in tutto diverso dal precedente, anche dal punto di vista del sedime).
Non può quindi condividersi la ricostruzione fatta dalla parte appellata che vede lo spostamento dell’area di sedime come fatto di minor rilievo dal punto di vista edilizio e qualificabile come profilo legittimo della ristrutturazione edilizia. Al contrario, il manufatto qui in esame è da considerarsi edificio di nuova costruzione, e come tale soggetto a una disciplina diversa, ben più restrittiva (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez, IV, sentenza 22.01.2013 n. 365 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità diniego concessione edilizia per adeguamento industria insalubre in difformità NTA del PRG.
E’ legittimo il diniego del Comune alla richiesta di concessione edilizia per l'adeguamento dell'impianto industriale di preparazione di conglomerati cementiti, in difformità delle N.T.A. del P.R.G. vigente in quanto l'attività svolta dall'impianto rientra nell'elenco delle industrie insalubri di cui all'art. 216 T.U. delle Leggi sanitarie.
Infatti, l’art. 216 del T.U. delle Leggi sanitarie (D.M. 05.09.1994 e succ. modif.) nel consentire la permanenza delle industrie insalubri nei centri abitati a certe condizioni e accorgimenti tecnici, non ha autorizzato il Comune a disporre una deroga al disposto della norma, tale da porre nel nulla il precetto che vuole lontane dagli abitati le lavorazioni insalubri.
Al contrario, ha inserito una prescrizione che si armonizza con le norme dello strumento urbanistico e ha proprio il fine di allontanare quelle lavorazioni a tutela della qualità della vita dei residenti. Si tratta quindi di un ulteriore strumento di governo del territorio che conferisce all’ente locale, nell’ambito del generale potere pianificatorio, un’ampia potestà di valutazione della tollerabilità o meno di quelle attività, tanto ampia da comprendere anche l’interdizione dall’esercizio delle attività stesse.

Del tutto pacificamente, la giurisprudenza evidenzia come l’art. 216 t.u.l.s., nel consentire la permanenza delle industrie insalubri nei centri abitati a certe condizioni e accorgimenti tecnici, non ha autorizzato il Comune a disporre una deroga al disposto della norma, tale da porre nel nulla il precetto che vuole lontane dagli abitati le lavorazioni insalubri. Al contrario, ha inserito una prescrizione che si armonizza con le norme dello strumento urbanistico e ha proprio il fine di allontanare quelle lavorazioni a tutela della qualità della vita dei residenti. Si tratta quindi di un ulteriore strumento di governo del territorio che conferisce all’ente locale, nell’ambito del generale potere pianificatorio, un’ampia potestà di valutazione della tollerabilità o meno di quelle attività, tanto ampia da comprendere anche l’interdizione dall’esercizio delle attività stesse.
Non vi è quindi spazio per una lettura della norma nel senso voluto dall’appellante, atteso che il citato 29 N.T.A. (dal contenuto schiettamente urbanistico e non impugnato in questa sede) non consente al comune il rilascio della richiesta concessione edilizia nella zona ove si svolge l’attività.
Per tali ragioni, le censure proposte dall’appellante, in merito alla circostanza per cui l’impianto da realizzare non sarebbe inquinante per l’alta tecnologia che lo contraddistinguerebbe, sono del tutto inconferenti perché in quella zona in nessun caso avrebbe potuto essere localizzato secondo le N.T.A. all’epoca vigenti (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.01.2013 n. 364 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ illegittimo il permesso di costruire che non rispetti le distanze minime tra gli edifici previste dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444.
In tema di distanze tra edifici la disposizione di cui all'art. 9, comma 1 n. 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, essendo volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia d'imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, e quindi tassativa e inderogabile, non solo impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata a essere mantenuta a una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c., ma vincola anche i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, atteso che l'art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, per la sua natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.
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In tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, invece, rientrano nel concetto civilistico di costruzioni, le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. aggettanti) che, se pur non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.
Lo stesso può dirsi per le opere di contenimento, quali indubbiamente si configurano quelle di cui al caso di specie che, comunque progettate in relazione alla situazione dei luoghi ed alla soluzione esteticamente ritenuta più confacente dal committente, hanno una struttura che deve essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento ed una funzione, che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma essenzialmente di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso.
Opere tali da dovere essere riguardate, sotto il profilo edilizio, come opere dotate di una propria specificità ed autonomia, in una accezione che comprende tutte le caratteristiche proprie dei fabbricati, donde l'obbligo di rispetto di tutti gli indici costruttivi prescritti dallo strumento urbanistico e, in particolare, delle distanze dal confine privato.
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Ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali di origine codicistica o prescritte dagli strumenti urbanistici in funzione integrativa della disciplina privatistica, la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera.
Ai fini del rispetto delle distanze fra costruzioni, non rileva il materiale utilizzato per la fabbrica, richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera, comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non transitoriamente.
Ne consegue la permanente vigenza dell’insegnamento della Corte di legittimità secondo il quale “costituisce costruzione, agli effetti della disciplina del c.c. sulle distanze legali, ogni manufatto che, per struttura e destinazione, ha carattere di stabilità e permanenza (Nella specie il manufatto, con finestra, era coperto da tettoia formata da travi con soprastanti lamiere, ed era destinato a fienile, magazzino e pollaio)”.
Analoga nozione estensiva del concetto di “fabbricato” è stata dettata dalla Corte di Cassazione ai fini dell'art. 907 c.c., diretto a preservare l'esercizio delle vedute da ogni eventuale ostacolo con carattere di stabilità, “in quanto la nozione di costruzione è comprensiva non solo dei manufatti in calce e mattoni, ma di qualsiasi opera che, indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è stata realizzata, determini un ostacolo del genere (nella specie, il giudice del merito aveva ritenuto che costituisse costruzione nel senso anzidetto una veranda che ostacolava la veduta dal balcone e dalla finestra sovrastanti, anche se ottenuta mediante la posa in opera, su correntini infissi nel muro, di lastre di fibrocemento facilmente asportabili, in quanto bullonate a tali correntini. La C.S., nell'enunciare il precisato principio di diritto, ha confermato tale decisione)”.
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In ordine alla illegittimità di una costruzione inferiore alla distanza minima di m 10,00 prescritta dall’art. 9 del decreto ministeriale 02.04.1968 n. 1444, in ordine alla cogenza ed inderogabilità di tale disposizione ed in ordine alla doverosità dell’esercizio dell’autotutela laddove la stessa venga violata, la giurisprudenza è assolutamente concorde. Si è detto in proposito, infatti, che “laddove si afferma il carattere inderogabile della prescrizione di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 (distanza minima assoluta di m. 10 relativa alle pareti finestrate), e cogente per tutti gli strumenti urbanistici e regolamenti edilizi di fonte comunale, si impone l'applicazione della relativa disciplina anche nelle ipotesi in cui una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata, posto che l'interesse pubblico presidiato dalla norma è quello della salubrità dell'edificato, da non confondersi con l'interesse privato del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva”.
Simmetricamente a tale approdo, la giurisprudenza di legittimità penale ha affermato di recente che “è illegittimo il permesso di costruire rilasciato per l'edificazione di un fabbricato che non rispetti le distanze minime tra gli edifici, previste dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, le cui previsioni non sono derogabili da parte degli strumenti urbanistici. In tema di distanze tra costruzioni, il D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, comma 2, essendo stato emanato su delega della legge 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto dalla legge 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica; ne consegue che, in caso di dolosa violazione della disciplina in tema di distanze legali da parte del pubblico ufficiale preposto al rilascio del titolo abilitativo edilizio, questi risponde del delitto di abuso d'ufficio ai sensi dell'art. 323 c.p.".
In sostanza, lo si ribadisce, può convenirsi con il principio per cui “la prescrizione di cui all'art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444, relativa alla distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile”.
La decisione di questa Quarta Sezione del Consiglio di Stato in ultimo richiamata, ha affermato poi, in punto di conseguenza applicativa del principio, il condivisibile principio per cui “in tema di distanze tra costruzioni, applicabile anche alle sopraelevazioni, l'adozione da parte dei Comuni di strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di superiore livello dell'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 -che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- comporta l'obbligo per il giudice di applicare, in sostituzione delle disposizioni illegittime, quelle dello stesso strumento urbanistico, nella formulazione derivata, però, dalla inserzione in esso della regola sulla distanza fissata nel decreto ministeriale”.

La facoltà di costruire sul confine (peraltro neppure ricorrente nel caso di specie, come si è dimostrato dianzi) non comporta certo che si possa omettere di rispettare la successiva disposizione delle n.t.a. laddove la distanza tra edifici, per effetto della costruzione sul confine, venga ad essere inferiore al minimo inderogabile stabilito ex lege.
Tale conseguenza pretesa da parte appellante non si evince dalla combinata lettura delle due prescrizioni; e, laddove ciò si riscontrasse effettivamente (ma così non è), il dato interpretativo non potrebbe che importare la disapplicazione della disposizione, siccome collidente con la disciplina nazionale inderogabile (ex multis: “in tema di distanze tra edifici la disposizione di cui all'art. 9, comma 1 n. 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, essendo volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia d'imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, e quindi tassativa e inderogabile, non solo impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata a essere mantenuta a una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c., ma vincola anche i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, atteso che l'art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, per la sua natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione” -TAR Puglia Lecce Sez. III, 28.09.2012, n. 1624-).
Anche la lettura “combinata” delle due disposizioni comunali suggerita da parte appellante deve essere pertanto disattesa.
In ultimo, rammenta il Collegio che, per condivisa giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “in tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, invece, rientrano nel concetto civilistico di costruzioni, le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. aggettanti) che, se pur non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato. Lo stesso può dirsi per le opere di contenimento, quali indubbiamente si configurano quelle di cui al caso di specie che, comunque progettate in relazione alla situazione dei luoghi ed alla soluzione esteticamente ritenuta più confacente dal committente, hanno una struttura che deve essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento ed una funzione, che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma essenzialmente di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso. Opere tali da dovere essere riguardate, sotto il profilo edilizio, come opere dotate di una propria specificità ed autonomia, in una accezione che comprende tutte le caratteristiche proprie dei fabbricati, donde l'obbligo di rispetto di tutti gli indici costruttivi prescritti dallo strumento urbanistico e, in particolare, delle distanze dal confine privato” (Consiglio Stato, sez. IV, 30.06.2005, n. 3539).
In modo pressoché simmetrico, la giurisprudenza civile di legittimità ha ancora di recente condivisibilmente affermato che “ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali di origine codicistica o prescritte dagli strumenti urbanistici in funzione integrativa della disciplina privatistica, la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera” (Cassazione civile, sez. II, 17.06.2011, n. 13389).
La giurisprudenza civile di merito, altrettanto condivisibilmente, ad avviso del Collegio, ha poi fatto presente che ai fini del rispetto delle distanze fra costruzioni, non rileva il materiale utilizzato per la fabbrica, richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera, comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non transitoriamente.
Ne consegue la permanente vigenza dell’insegnamento della Corte di legittimità secondo il quale “costituisce costruzione, agli effetti della disciplina del c.c. sulle distanze legali, ogni manufatto che, per struttura e destinazione, ha carattere di stabilità e permanenza (Nella specie il manufatto, con finestra, era coperto da tettoia formata da travi con soprastanti lamiere, ed era destinato a fienile, magazzino e pollaio)” (Cassazione civile, sez. II, 24.05.1997, n. 4639).
Per completezza si evidenzia che analoga nozione estensiva del concetto di “fabbricato” è stata dettata dalla Corte di Cassazione ai fini dell'art. 907 c.c., diretto a preservare l'esercizio delle vedute da ogni eventuale ostacolo con carattere di stabilità, “in quanto la nozione di costruzione è comprensiva non solo dei manufatti in calce e mattoni, ma di qualsiasi opera che, indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è stata realizzata, determini un ostacolo del genere. (nella specie, il giudice del merito aveva ritenuto che costituisse costruzione nel senso anzidetto una veranda che ostacolava la veduta dal balcone e dalla finestra sovrastanti, anche se ottenuta mediante la posa in opera, su correntini infissi nel muro, di lastre di fibrocemento facilmente asportabili, in quanto bullonate a tali correntini. La C.S., nell'enunciare il precisato principio di diritto, ha confermato tale decisione)” (Cassazione civile , sez. II, 21.10.1980, n. 5652).
Già alla stregua della sistematica esposizione che precede, appare evidente che appare destituito di fondamento il primo caposaldo dell’impianto dell’appello volto a contestare la sussumibilità nella nozione di “costruzione” rilevante in punto di omesso rispetto delle distanze legali dell’immobile per cui è causa.
E’ appena il caso di rammentare, conclusivamente, che in ordine alla illegittimità di una costruzione inferiore alla distanza minima di m 10,00 prescritta dall’art. 9 del decreto ministeriale 02.04.1968 n. 1444, in ordine alla cogenza ed inderogabilità di tale disposizione ed in ordine alla doverosità dell’esercizio dell’autotutela laddove la stessa venga violata, la giurisprudenza è assolutamente concorde. Si è detto in proposito, infatti, che “laddove si afferma il carattere inderogabile della prescrizione di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 (distanza minima assoluta di m. 10 relativa alle pareti finestrate), e cogente per tutti gli strumenti urbanistici e regolamenti edilizi di fonte comunale, si impone l'applicazione della relativa disciplina anche nelle ipotesi in cui una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata, posto che l'interesse pubblico presidiato dalla norma è quello della salubrità dell'edificato, da non confondersi con l'interesse privato del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva” (Cons. Stato Sez. IV, 09.10.2012, n. 5253).
Simmetricamente a tale approdo, la giurisprudenza di legittimità penale ha affermato di recente che “è illegittimo il permesso di costruire rilasciato per l'edificazione di un fabbricato che non rispetti le distanze minime tra gli edifici, previste dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, le cui previsioni non sono derogabili da parte degli strumenti urbanistici. In tema di distanze tra costruzioni, il D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, comma 2, essendo stato emanato su delega della legge 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto dalla legge 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica; ne consegue che, in caso di dolosa violazione della disciplina in tema di distanze legali da parte del pubblico ufficiale preposto al rilascio del titolo abilitativo edilizio, questi risponde del delitto di abuso d'ufficio ai sensi dell'art. 323 c.p." (Cass. pen. Sez. III, 12.01.2012, n. 10431 -rv. 252247-).
In sostanza, lo si ribadisce, può convenirsi con il principio per cui “la prescrizione di cui all'art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444, relativa alla distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile” (Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011, n. 5759).
La decisione di questa Quarta Sezione del Consiglio di Stato in ultimo richiamata, ha affermato poi, in punto di conseguenza applicativa del principio, il condivisibile principio per cui “in tema di distanze tra costruzioni, applicabile anche alle sopraelevazioni, l'adozione da parte dei Comuni di strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di superiore livello dell'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 -che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- comporta l'obbligo per il giudice di applicare, in sostituzione delle disposizioni illegittime, quelle dello stesso strumento urbanistico, nella formulazione derivata, però, dalla inserzione in esso della regola sulla distanza fissata nel decreto ministeriale” (Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011, n. 5759)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.01.2013 n. 354 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Convenzioni di urbanizzazione, la p.a. non può apportarvi modifiche unilaterali.
La giurisprudenza si è oramai orientata nell’affermare, all’interno delle convenzioni di urbanizzazione, la prevalenza del profilo della libera negoziazione. Infatti, si è affermato che, sebbene sia innegabile che la convenzione di lottizzazione, a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento dichiaratamente contrattuale, rappresenti un istituto di complessa ricostruzione, non può negarsi che in questo si assista all’incontro di volontà delle parti contraenti nell'esercizio dell'autonomia negoziale retta dal codice civile.
La convenzione urbanistica stipulata fra la pubblica amministrazione ed il privato, come è quella relativa ad un piano di lottizzazione, si configura, ai sensi dell'art. 28 l. 17.08.1942 n. 1150 e dell'art. 7 l. 28.01.1977 n. 10, la natura contrattuale del relativo rapporto instaurato, detta convenzione ha pertanto valore vincolante per entrambe le parti e la p.a. non può apportarvi modifiche unilaterali.

A tal proposito, sebbene possa dirsi ormai definitivamente superato l’orientamento giurisprudenziale, fondato su affermazioni di natura presuntiva, secondo il quale “l'operato della pubblica amministrazione è diretto a perseguire interessi di tipo generale ed è caratterizzato da imparzialità e giustizia, non essendovi pertanto la necessità di tutelare il contraente debole, la clausola negoziale compromissoria inerente una disciplinare di concessione non è disciplinata dall'art. 1341 c.c.” (TAR Lombardia Milano Sez. III, 11.03.2003, n. 432), non può certamente ravvisarsi la nozione di “contraente debole” in una impresa che liberamente stipula con l’amministrazione una convenzione di lottizzazione dalla quale ricava consistenti benefici.
Quanto a quest’ultimo profilo, ed in via conclusiva, può richiamarsi un breve passaggio motivazionale contenuto in una recente decisione della Sezione (n. 2040/2011) che il Collegio condivide pienamente e che ben si attaglia alla fattispecie in esame, essendosi ivi precisato che “la giurisprudenza si è oramai orientata nell’affermare, all’interno delle convenzioni di urbanizzazione, la prevalenza del profilo della libera negoziazione. Infatti, si è affermato (Consiglio di Stato, sez. V, 10.01.2003, n. 33; Consiglio di Stato, sez. IV, 28.07.2005, n. 4015) che, sebbene sia innegabile che la convenzione di lottizzazione, a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento dichiaratamente contrattuale, rappresenti un istituto di complessa ricostruzione, non può negarsi che in questo si assista all’incontro di volontà delle parti contraenti nell'esercizio dell'autonomia negoziale retta dal codice civile.
La detta ricostruzione assume particolare valenza quando, come nel caso in specie, si assuma che alcuni dei contenuti dell'accordo vengono imposti dalla pubblica amministrazione in termini non modificabili dal privato, visto che, anche in questo caso, ciò non esclude che la parte che abbia sottoscritto la convenzione, conoscendone il contenuto, abbia inteso aderirvi, restandone vincolata, salvo il ricorso agli strumenti di tutela in caso di invalidità del contratto.
Ne deriva che l’argomento sostenuto nel ricorso in primo grado, ossia che le clausole convenute, in quanto aggiuntive rispetto agli oneri di urbanizzazione, riferiti ad opere e servizi menzionati dalla normativa, non siano consentite, con conseguente nullità delle stesse, non può essere sostenuto, trattandosi di determinazione pattizia rimessa alla contrattazione tra i due diversi soggetti coinvolti
.” (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.01.2013 n. 351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ legittima la clausola convenzionale che subordina il rilascio del certificato di agibilità dell'immobile alla presentazione dell'atto di vincolo a prima casa.
La clausola convenzionale che subordina il rilascio della certificato di agibilità dell'immobile alla presentazione dell'atto di vincolo a prima casa, ha solo l’effetto di modulare consensualmente i successivi segmenti procedimentali, postergando la valutazione dell’abitabilità all’individuazione del fruitore dell’immobile, in modo da monitorare l’effettiva realizzazione del fine sociale per il quale la costruzione degli immobili è stata assentita, e non già di inserire nella valutazione ai fini dell’abitabilità elementi eterogenei rispetto a quelli previsti dal legislatore.
Né può trarsi dalla clausola un divieto di vendita o di commercializzazione delle unità immobiliari, atteso che esse sono state edificate proprio al fine di essere adibite a prima casa, ossia di realizzare una funzione sociale particolarmente meritevole che proprio la clausola tende ad assicurare attraverso la previsione di una preliminare fase di monitoraggio, che certamente non preclude la stipula di contratti preliminari di vendita né di quelli definitivi.

Con il terzo motivo d'appello Immobilcommer afferma che la clausola contenuta nello schema di atto d'obbligo che accede alla convenzione di lottizzazione, e subordina il rilascio della certificato di agibilità dell'immobile alla presentazione dell'atto di vincolo a prima casa, sarebbe nulla: per mancanza di una base di legge; per contrasto con gli articoli 24 e seguenti del Testo unico edilizia; per contrarietà all'ordine pubblico, ed in particolare, per contrasto con gli articoli 41 e 42 della Costituzione; per contrasto con l'articolo 1379 in quanto norma imperativa; per illiceità del contenuto e della causa.
Il motivo non ha pregio. Com’anzi detto, la clausola convenzionale ha solo l’effetto di modulare consensualmente i successivi segmenti procedimentali, postergando la valutazione dell’abitabilità all’individuazione del fruitore dell’immobile, in modo da monitorare l’effettiva realizzazione del fine sociale per il quale la costruzione degli immobili è stata assentita, e non già di inserire nella valutazione ai fini dell’abitabilità elementi eterogenei rispetto a quelli previsti dal legislatore. Né può trarsi dalla clausola un divieto di vendita o di commercializzazione delle unità immobiliari, atteso che esse sono state edificate proprio al fine di essere adibite a prima casa, ossia di realizzare una funzione sociale particolarmente meritevole che proprio la clausola tende ad assicurare attraverso la previsione di una preliminare fase di monitoraggio, che certamente non preclude la stipula di contratti preliminari di vendita né di quelli definitivi.
Privo di fondamento è anche il motivo avente ad oggetto il mancato riconoscimento da parte del TAR di un difetto assoluto di attribuzione nella imposizione della prescrizione de qua, all’atto del rilascio del permesso di costruire.
Si è già detto che il permesso di costruire costituisce l’epilogo provvedimentale di una vicenda che ha una matrice consensuale, nell’ambito della quale le parti hanno disciplinato l’iter procedimentale post-ponendo, a fini cautelativi, il rilascio della certificazione di abitabilità alla verifica amministrativa dei requisiti in capo all’acquirente. Se, come sopra chiarito, la convenzione di lottizzazione e le obbligazioni da essa sorgenti hanno effetti anche nei confronti degli aventi causa, non v’è dubbio che l’amministrazione aveva il potere di inserire la prescrizione nei confronti di chiunque chiedesse il permesso di costruire edifici nell’ambito della lottizzazione.
Potrebbe in astratto porsi una problema di legittimità, ma non certo di nullità ex art. 21-septies l. 241/1990 (tratto da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.01.2013 n. 324 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità ordinanza rimozione per struttura balneare con utilizzazione temporanea non rimossa.
L’ordinanza di demolizione è legittima nel caso cui la concessione rilasciata autorizzava la realizzazione di una struttura balneare con una “utilizzazione temporanea” limitata al periodo estivo e non si provveduto alla rimozione annuale, e pertanto si è creata una struttura con una utilizzazione non più temporanea, ma permanente, dunque abusiva. Infatti, il concetto di “utilizzazione” diversa non presuppone, che vengano realizzate opere edilizie in sé difformi dal titolo abilitativo.
E’ invece sufficiente, infatti, che venga posta in essere una attività, anche omissiva dell’adempimento di un dovere di controazione, che per sua propria conseguenza determini un mutamento di fatto nella utilizzazione assentita per un tempo limitato. Per il tempo che non è assentito dal titolo, infatti, l’opera diviene, grazie a questa omissione di rimozione, in tutto e per tutto da equiparare ad un manufatto sine titulo e come va tale va in punto di sanzioni considerata.

L’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede che vanno considerati interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso «per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso».
Il concetto di “utilizzazione” diversa non presuppone, come erroneamente assunto dalle appellanti, che vengano realizzate opere edilizie in sé difformi dal titolo abilitativo. E’ invece sufficiente, infatti, che venga posta in essere una attività, anche omissiva dell’adempimento di un dovere di controazione, che per sua propria conseguenza determini un mutamento di fatto nella utilizzazione assentita per un tempo limitato. Per il tempo che non è assentito dal titolo, infatti, l’opera diviene, grazie a questa omissione di rimozione, in tutto e per tutto da equiparare ad un manufatto sine titulo e come va tale va in punto di sanzioni considerata.
Nel caso in esame, la concessione rilasciata autorizzava la realizzazione di una struttura balneare con una “utilizzazione temporanea” limitata al periodo estivo.
Costituisce dato non contestato che invece le appellanti, non provvedendo alla rimozione annuale, abbiamo creato una struttura con una utilizzazione non più temporanea, ma permanente: dunque abusiva.
L’ordinanza di demolizione è, pertanto, pienamente legittima, con conseguente non rilevanza della questione subordinata, relativa all’avvenuta traslazione della struttura stessa (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.01.2013 n. 313 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità diniego condono per opere in violazione delle distanze dai confini catastali e dalla strada.
E’ legittimo il diniego alle richieste di condono per opere abusive consistenti in: tettoia sorretta da sei colonne in mattoni con destinazione cucina aperta; annesso con struttura portante in mattoni e copertura in cemento; fabbricato di tre piani; muro in cemento armato con recinzione; altro muro in cemento armato con recinzione, realizzate in violazione delle distanze dai confini catastali, dalla strada, all’altezza, alla distanza dalla strada.
Infatti, la mancata utilizzazione di una strada pubblica, tuttora esistente giuridicamente sulla base della sua iscrizione nell’elenco delle strade vicinali di uso pubblico, non può costituire di per sé circostanza dirimente per escludere l’obbligo per il costruttore di rispettare il limite di distanza dal ciglio stradale, poiché, ai fini della condonabiltà dell’abuso non viene in rilievo il problema della minaccia alla sicurezza del traffico, ma soltanto il profilo della conformità urbanistica dell’opera alle norme vigenti.
In tema di distanze legali, integra la nozione di volume tecnico, non computabile nella volumetria della costruzione, soltanto quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima.
Con riferimento alla nozione di "costruzione", rilevante ai fini dell'osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dall'articolo 873 del c.c. o da norme regolamentari integrative, si è stabilito che tale "concetto" comprende qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità e immobilizzazione rispetto al suolo.

In ordine ai motivi di appello proposti relativamente al ricorso di primo grado n. 24 del 2008 va osservato che: l’istanza era presentata come avente ad oggetto “unità abitativa composta di un piano interrato ad uso fondo, un piano terra e primo ad uso abitazione”; si tratta della parte dell’edificio frontale rispetto alla strada vicinale.
Il diniego è stato motivato perché trattasi di nuova costruzione, difforme dagli strumenti urbanistici vigenti al 02.10.2003; in violazione della distanza dalla strada, inferiore al minimo consentito, e con altezza in gronda superiore al consentito.
Con i motivi di appello si sostiene che la violazione della strada non sussisterebbe, perché tale strada sarebbe inutilizzata e perché non sussiste la minaccia alla sicurezza del traffico; inoltre si fa illegittimamente riferimento, da parte della sentenza, al limite di 15 metri, mentre la nuova variante adottata ha abbassato il limite a dieci metri e dovrebbe aversi riferimento alle norme vigenti al momento dell’esame della domanda di condono.
I rilievi sono tutti infondati.
Infatti, quanto alla strada, la mancata utilizzazione di una strada pubblica, tuttora esistente giuridicamente sulla base della sua iscrizione nell’elenco delle strade vicinali di uso pubblico, non può costituire di per sé circostanza dirimente per escludere l’obbligo per il costruttore di rispettare il limite di distanza dal ciglio stradale, poiché, ai fini della condonabiltà dell’abuso non viene in rilievo il problema della minaccia alla sicurezza del traffico, ma soltanto il profilo della conformità urbanistica dell’opera alle norme vigenti.
D’altronde, le norme invocate dalla parte appellante non pretendono che la violazione sia accompagnata dalla minaccia di sicurezza al traffico; ma anzi, al contrario, richiedono che gli stessi interventi, devono comunque non essere posti in violazione delle norme, sulle strade, al che si aggiunge la specifica che in ogni caso “sempre che le opere stesse” non debbono costituire “minaccia alla sicurezza del traffico”; tale requisito è un quid pluris che deve sussistere ai fini del condono (l’assenza di minaccia…) e non già una ulteriore condizione al fine di poter ravvisare la violazione ai fini del diniego, come pretende l’appello (si legga in tal senso l’art. 32 l. 47 del 1985, comma 1, lett. c) “... ( non debbono essere)…in contrasto con le norme del decreto ministeriale 10.04.1968, n. 1404, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 96 del 13.04.1968, e con agli articoli 16, 17 e 18 della legge 13.06.1991, n.190, e successive modificazioni, sempre che le opere stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico…”.
E’ parimenti infondata la pretesa di doversi fare riferimento alle nuove più permissive norme soltanto adottate, perché si deve avere riguardo alle norme vigenti alla data del 02.10.2003, come più volte già sottolineato, e ciò è sufficiente; inoltre, come noto, non è approvata e vigente sotto tutti gli effetti (e certo non ai considerati effetti della conformità o difformità ai fini delle distanze) la variante solo adottata e successivamente approvata.
E’ del tutto infondata anche la pretesa dell’appellante volta a far constare l’illegittimità del motivo di diniego relativo all’altezza dell’edificio, che andrebbe commisurata dal piano di campagna e non dalle fondamenta, che verrebbero ricoperte a seguito di interventi futuri da realizzare. E’ evidente che non può valutarsi la conformità se non con riguardo alla situazione esistente, non potendo valere né successivi interventi, né tantomeno promesse di interventi, inidonei come tali a concretare una conformità smentita dai fatti e anzi ammessa dalla stessa parte.
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Anche con riguardo ai motivi di appello relativi al ricorso n. 25 del 2008 (riguardante il locale tecnico), si richiamano le ragioni già esposte della loro infondatezza sulla distanza dai confini, sulla distanza dalla strada, sulla esigenza o meno anche di minaccia per la sicurezza del traffico.
Sono infondati, in aggiunta, i motivi con cui si sostiene che la distanza andava calcolata in modo ortogonale e non radiale, anche in applicazione delle norme sopravvenute più favorevoli del nuovo regolamento edilizio.
Infatti, nella specie, come rilevato pure dal primo giudice, si tratta di una struttura edilizia vera e propria, avente la sua autonomia, di oltre quattro metri per tre e circa due metri e trenta di altezza, realizzata in laterizio di mattoni, tetto in latero-cemento ricoperto di coppi e pertanto soggetto alle norme sulle distanze tra fabbricati; inoltre il regolamento comunale vigente alla data del 2 ottobre prevedeva che si dovesse fare riferimento al metodo di misurazione radiale e non a quello ortogonale.
In tema di distanze legali, integra la nozione di volume tecnico, non computabile nella volumetria della costruzione, soltanto quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima (così da ultimo, Cassazione civile sez. II, 03.02.2011 n. 2566).
Secondo tale giurisprudenza, in vero, ai fini del calcolo delle distanze legali, integra la nozione di volume tecnico, non computabile nella volumetria della costruzione, solo quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima: in sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere ubicati all'interno di questa, come quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore ecc., mentre va escluso che possa parlarsi di volumi tecnici in relazione a quelle parti del fabbricato che ne costituiscono parte integrante.
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Con riguardo ai motivi di appello esposti, relativi al ricorso di primo grado r.g.n. 26 del 2008, avente ad oggetto il diniego di condono sulla tettoia-gazebo aperto, vale quanto sopra esposto per:
a) distanze dalla strada;
b) strada esistente anche se di fatto non del tutto utilizzata;
c) minaccia della sicurezza al traffico;
d) nuove norme della variante soltanto adottata e non ancora approvata al momento di riferimento della conformità o difformità e cioè al 02.10.2003.
Inoltre, con riguardo alla limitata rilevanza dell’intervento, tanto che per esso dovrebbe considerarsi la distanza tra pareti finestrate e non dalla strada o da altro fabbricato, va osservato che, al contrario, si ritiene costituire a tal fine "costruzione" anche un manufatto che, seppure privo di pareti, realizzi una determinata volumetria, sicché -al fine di verificare l'osservanza o meno delle distanze legali- la misura deve esser effettuata assumendo come punto di riferimento la linea esterna della parete ideale posta a chiusura dello spazio esistente tra le strutture portanti più avanzate del manufatto stesso (nella specie, tettoia) (Cassazione civile sez. II, 14.03.2011, n. 5934).
Con riferimento alla nozione di "costruzione", rilevante ai fini dell'osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dall'articolo 873 del c.c. o da norme regolamentari integrative, si è stabilito che tale "concetto" comprende qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità e immobilizzazione rispetto al suolo (Cass. 18.02.2011, n. 4008; Cass. 01.07.1996, n. 5956).
Nella specie, basti considerare che, in fatto, si tratta di struttura edilizia di dimensioni notevoli (quasi 90 metri quadrati e la circostanza non viene smentita, né contestata), realizzata in muratura, con pilastri che misurano 50 cm per 50, copertura in cemento, telaio in ferro e manto in coppi, con un lato interamente tamponato.
Il concetto di costruzione cui fanno riferimento gli art. 873 e 907 c.c. ai fini del rispetto della distanza minima comprende qualsiasi manufatto avente caratteristiche di consistenza e di stabilità e in tal senso non può essere negata tale caratteristica alla tettoia in parola (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.01.2013 n. 223 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimità diniego stipula convenzione per concessione edilizia in area a rischio esondazione.
E’ legittimo il rigetto dell’Amministrazione comunale dell’istanza alla stipula della convenzione per il rilascio della concessione edilizia, sul rilievo che l’area destinata ad ospitare i realizzandi fabbricati è caratterizzata da rischio esondazione e tale circostanza di fatto e di diritto è stata ritenuta causa sufficientemente giustificativa della decisione di negare l’accoglimento dell’istanza ad aedificandum.
Il rilievo mosso dall’Amministrazione, è riconducibile all’inserimento dei terreni in causa, nella mappa dei rischi di esondazione elaborata nell’ambito dei piani e programmi di prevenzione e previsioni dei rischi redatti dagli Uffici regionali della protezione civile costituente a sua volta “normativa” cui la disciplina urbanistico-edilizia dei Comuni deve uniformarsi in ragione del carattere prescrittivo e cogente di tali previsioni.

Il rilievo mosso dall’Amministrazione, in virtù del quale il dirigente preposto al settore ha ritenuto di soprassedere alla stipula della convenzione per il rilascio della concessione edilizia è riconducibile all’inserimento dei terreni de quibus nella mappa dei rischi di esondazione elaborata nell’ambito dei piani e programmi di prevenzione e previsioni dei rischi redatti dagli Uffici regionali della protezione civile costituente a sua volta “normativa” cui la disciplina urbanistico-edilizia dei Comuni deve uniformarsi in ragione del carattere prescrittivo e cogente di tali previsioni
Sussiste, invero, un preciso obbligo, ai sensi dalla legislazione regionale all’uopo dettata, per le Amministrazioni comunali, quindi anche per il Comune di Senigallia, di conformarsi a detti programmi in ragione della natura e del contenuto da essi recato che non può non sovrintendere, per gli aspetti di tutela, all’azione amministrativa di gestione del territorio
Al di là di tale formale onere di conformazione, non v’è chi non veda la pregnante incidenza delle previsioni recate dai piani di prevenzione della protezione civile regionale sull’attività tecnico-amministrativa di gestione dell’attività edilizia intesa come trasformazione del territorio, in cui devono convergere tutti gli aspetti inerenti la cura dello stesso, in primis quelli riguardanti la sicurezza dei fabbricati (oltreché delle persone), con conseguente , puntuale osservanza delle svariate discipline dettate in ordine agli aspetti tecnici che vengono in rilievo (quello sismico, quello del regime idrogeologico e così via) e che concorrono tutti ad assicurare una concreta conservazione del territorio oltreché una corretta fruizione dei servizi e delle utilità a questo connesse.
Di qui, allora, il legittimo e prudente atteggiamento del dirigente comunale del settore che in via precauzionale , una volta rilevata la situazione di rischio da esondazione ha soprasseduto alla stipula della convenzione preventiva al rilascio della chiesta concessione: un atteggiamento legittimo ed opportunamente giustificato se è vero che ad appena un mese di distanza dalla determinazione comunale di carattere negativo qui in contestazione la Regione Marche con delibera n. 300 del 29.02.2000 ha definito la porzione di territorio qui in rilievo area a rischio idraulico molto elevato, con conseguente applicazione delle misure di salvaguardia.
Se così è, il quadro normativo di riferimento risulta essere stato correttamente interpretato e applicato in relazione ad elementi di fatto incontrovertibilmente accertati - l’inserimento dei terreni interessati all’intervento de quo nella mappa dei rischi da esondazione - lì dove tale fisiologica situazione non solo sconsigliava, ma imponeva il blocco di una nuova edificazione, anche al solo giustificato scopo , di tipo precauzionale, di evitare che nuovi interventi potessero aggravare lo stato dei luoghi in riferimento ai profili di tutela idrogeologica dei terreni.
In definitiva la non autorizzabilità del progettato intervento edilizio opposta dall’Amministrazione con l’atto de quo costituisce una valutazione tecnica resa coerentemente alla rilevata presenza di dati di fatto e di diritto emersi in sede di istruttoria univocamente diretti ad impedire i “pericoli” di una possibile compromissione del regime idrogeologico del sito, il che manda esente il provvedimento stesso dai vizi dedotti (cfr. Cons. Stato Sez. V 31.10.2012 n. 5553) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.01.2013 n. 221 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Legittimità diniego parco eolico per incompatibilità con il vincolo paesistico.
E’ legittimo il diniego per incompatibilità con il vincolo paesistico, di autorizzazione alla realizzazione di un parco eolico, all’esito di un procedimento svoltosi prima in conferenza di servizi e poi, ai sensi del combinato disposto dell’art. 12 d.lgs. 387/2003, e dell’art. 14-quater, comma 3, della l. 241/1990, con la deliberazione del Consiglio dei ministri.
Infatti, da un punto di vista paesaggistico l’impatto del parco eolico, pur a seguito della riduzione a diciannove del numero degli aerogeneratori, sia comunque notevole e che, anche avuto riguardo alla necessità di realizzare, per ogni generatore, un plinto in calcestruzzo armato emergente fuori terra per una superficie di sedici metri quadrati e una piazzola antistante, le opere risultano visibili e di impatto panoramico negativo.
Inoltre la Soprintendenza, prima di concludere che le opere in progetto comprometterebbero in modo irreversibile un’ampia area omogenea ed integra sotto il profilo paesaggistico, valuta la negativa incidenza delle consistenti opere infrastrutturali, quali soprattutto le strade necessarie al passaggio dei mezzi pesanti e la sottostazione Enel con cabina di trasformazione, che a sua volta necessita di un’ampia area in piano a servizio, la cui realizzazione si rivela ulteriormente sacrificativa dell’assetto morfologico dei luoghi.

In secondo luogo, l’assunto recepito dalla gravata sentenza appare erroneo per erronea interpretazione delle Norme di attuazione del detto Piano paesistico regionale.
Di queste, la prescrizione dell’art. 13 (Aree di montagna), comma 9, riguarda un vincolo di inedificabilità (“Nelle aree di montagna sono vietati interventi di nuova edificazione o sistemazione del terreno ricadenti in un intorno di 50 m per lato dai sistemi di vette e crinali montani e pedemontani individuato nella Tavola P4, fatti salvi gli interventi strettamente necessari per la difesa del suolo e la protezione civile”) che da parte della società interessata si assume non riferibile agli interventi per la produzione e la distribuzione di energia.
Rileva qui il Collegio che la questione se la previsione di una tale inedificabilità assoluta –che in sé è in linea con la possibilità che un piano paesaggistico possa introdurre ulteriori vincoli paesaggistici, detti del “terzo genere” (art. 134, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 42 del 2004; cfr. Cons. Stato, VI, 03.03.2011, n. 1366) rispetto a quelli amministrativi e legali- sia in sé ostativa anche agli impianti eolici appare nel caso presente corretta posto che la sua ratio (tutela del paesaggio) facilmente conduce, per la finalità della norma, all’assimilazione di questi impianti alle costruzioni vere e proprie, dato che si verte di impatto visivo e non essendo quello delle torri eoliche inferiore a quello ordinario dei manufatti. È comunque qui il caso di rilevare che questa assimilazione, poi, per sua natura esclude ogni discriminazione rispetto ad altri manufatti: il che toglie qualsiasi assimilabilità con i divieti generalizzati di soli impianti eolici indebitamente altrove previsti a livello regionale, quali evocati dalle ultime memorie dell’impresa.
Ma anche indipendentemente da ogni considerazione del genere sulla ricomprensione delle torri eoliche e relative opere in quei concetti di “nuova edificazione o di sistemazione del terreno”, sta nella specie di fatto che, prima ancora, appare risolutivo il precedente comma 8, lett. b), che prescrive che questi impianti debbano in ogni caso “garantire il rispetto dei fattori caratterizzanti la componente montagna quali crinali e vette di elevato valore scenico e panoramico”.
Va qui considerato, diversamente dalla valutazione del primo giudice, che questa è una prescrizione non speciale, né senz’altro legittimante detti impianti (tale cioè per cui questi, se non espressamente vietati, sarebbero comunque da ammettere e indipendentemente dall’esito negativo di un giudizio di compatibilità paesaggistica). Una tale interpretazione, invero, negherebbe alla radice gli effetti del vincolo e in ultimo lo stesso giudizio di compatibilità in concreto, senza che ciò sia consentito dalla legge.
Del resto, al giurisprudenza di questo Consiglio di Stato già da tempo ha messo in luce che “il piano paesistico […] non può mai derogare, […] per categorie di opere, alla necessità dell’autorizzazione, perché la valutazione di compatibilità che presiede all’autorizzazione costituisce l’effetto legale tipico del vincolo, ed escluderla significherebbe derogare al vincolo stesso affrancandone ambiti o interventi: cosa questa che solo la legge statale può fare. [...] Pertanto […] il piano deve anzitutto […] individuare, in negativo, gli interventi che, per la loro inconciliabilità con il contesto, si pongono in posizione di incompatibilità assoluta con i valori salvaguardati dal vincolo: per questi il piano introduce un regime di immodificabilità per determinate zone, o per categorie di opere che sono reputate comunque incompatibili con i valori protetti, e dunque non sono realizzabili: per queste […] il giudizio di incompatibilità viene effettuato una volta per tutte, sì che poi non può esservi più nemmeno luogo all’autorizzazione. […] Invece, per le restanti zone, come per le restanti opere, dove –non essendovi ragione di introdurre questa presunzione di incompatibilità– la compatibilità continua a dover essere valutata in concreto, rimane necessario –per l’effetto proprio del vincolo– il giudizio tecnico-discrezionale rispetto alla conservazione dei valori espressi da quelle località, da compiersi con la singola autorizzazione […]” (Cons. Stato, II, n. 548/98 del 20.05.1998).
Piuttosto va considerato che –come non è vietato a un piano paesaggistico– la previsione in questione è patentemente riassuntiva, e dunque giuridicamente ripetitiva, del concetto di valutazione concreta di compatibilità paesaggistica. A questa solo aggiunge alcune ipotesi di presunzione di incompatibilità (es. quando c’è contrasto con “la programmazione settoriale di livello provinciale o regionale, ove vigente, o con gli indirizzi approvati dalla Giunta regionale”).
Il relativo apprezzamento di incompatibilità, qui fatto dalla Soprintendenza e dalla Regione, rientra nell’insindacabile discrezionalità tecnica di quelle amministrazioni. Questo apprezzamento (che per le ragioni sostanziali che qui si ripetono non comporta affatto il dovere di “un bilanciamento tra l’interesse paesaggistico e gli altri interessi concorrenti”) risulta non irragionevolmente o incongruamente svolto da entrambe, Soprintendenza e Regione Piemonte. Di quell’apprezzamento, in sede di giudizio di rispettiva competenza di base, hanno fatto corretto uso le due amministrazioni, anche perché non è comunque irragionevole considerare che l’inedificabilità assoluta che, per difesa del paesaggio, colpisce a norma di Piano paesaggistico gli edifici, non sia comunque un parametro incongruo per apprezzare in concreto negativamente l’impatto sul medesimo paesaggio di torri eoliche, la cui visibilità non è certo minore di quella di veri e propri manufatti edili.
Del resto, dagli atti negativi di base impugnati vengono anche additate ragioni sostanziali di impatto sul paesaggio.
Già nel parere negativo del 03.12.2007 la Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio del Piemonte, dopo aver esaminato l’intervento programmato nella sua effettiva consistenza (anche in relazione alle connesse opere infrastrutturali), rileva che “i generatori eolici per le loro dimensioni, quantità e posizione risultano parzialmente visibili anche dal castello di Casotto e dalla Correria, beni di particolare interesse storico, artistico e architettonico, tutelati ai sensi della parte II del d.lgs n. 42 del 2004, su cui la Regione Piemonte in collaborazione con la Soprintendenza scrivente ha elaborato di recente un progetto di restauro e recupero funzionale”.
In altra parte dello stesso parere si osserva come da un punto di vista paesaggistico l’impatto del parco eolico, pur a seguito della riduzione a diciannove del numero degli aerogeneratori, sia comunque notevole e che, anche avuto riguardo alla necessità di realizzare, per ogni generatore, un plinto in calcestruzzo armato emergente fuori terra per una superficie di sedici metri quadrati e una piazzola antistante, le opere risultano visibili e di impatto panoramico negativo anche dalla vetta del Bric Mindino. Inoltre la Soprintendenza, prima di concludere che le opere in progetto comprometterebbero in modo irreversibile un’ampia area omogenea ed integra sotto il profilo paesaggistico, valuta la negativa incidenza delle consistenti opere infrastrutturali, quali soprattutto le strade necessarie al passaggio dei mezzi pesanti e la sottostazione enel con cabina di trasformazione, che a sua volta necessita di un’ampia area in piano a servizio, la cui realizzazione si rivela ulteriormente sacrificativa dell’assetto morfologico dei luoghi (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.01.2013 n. 220 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Rifiuti. Avvalimento e servizio di raccolta differenziata e trasporto dei rifiuti solidi urbani.
Nel caso di affidamento del servizio di raccolta differenziata e trasporto dei rifiuti solidi urbani con sistema porta a porta, l’avvalimento, così come configurato dalla legge, deve essere reale e non formale, nel senso che non può considerarsi sufficiente “prestare” la certificazione posseduta assumendo impegni assolutamente generici, giacché in questo modo verrebbe meno la stessa essenza dell’istituto, finalizzato non già ad arricchire la capacità tecnica ed economica del concorrente, bensì a consentire a soggetti che ne siano sprovvisti di concorrere alla gara ricorrendo ai requisiti di altri soggetti, garantendo l’affidabilità dei lavori, dei servizi o delle forniture appaltati.

- Vista la censura proposta in primo grado mediante ricorso incidentale da Avr s.p.a. e riproposta con memoria in appello, secondo la quale il contratto di avvalimento tra la Diodoro Ecologia s.r.l. e l’ausiliaria C.i.p.e.f. sarebbe inidoneo a garantire la stazione appaltante in ordine alla serietà ed effettività della messa a disposizione delle risorse oggetto di avvalimento, per cui, conseguentemente, l’appellante Diodoro Ecologia sarebbe stata in ogni caso del tutto priva del requisito dell’iscrizione alla categoria 10b dell’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali inerente la bonifica da amianto;
- Ritenuto che il contratto di avvalimento in parola si limita a stabilire che “l’Ausiliaria…si obbliga nei confronti dell’Impresa, come sopra rappresentata, nonché della Stazione Appaltante Comune di Riano, a norma dell’art. 49 co. 2, lett. f), D.Lgs. 163/2006, a fornire il requisito cui l’Impresa è carente, …nonché a mettere a disposizione i mezzi e attrezzature necessarie, per tutta la durata dell’appalto”, mentre gli impegni assunti dall’Ausiliaria a favore dell’Impresa saranno dettagliatamente regolati con separata scrittura privata, in caso di aggiudicazione della procedura alla Diodoro Ecologia s.r.l.;
- Ritenuto che il contratto in questione è in buona sostanza una mera ripetizione del testo dell’art. 49, co. 2, D.Lgs. n. 163/2006, il quale richiede l’allegazione all’offerta di “una dichiarazione sottoscritta dall’impresa ausiliaria con cui quest’ultima si obbliga verso il concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a disposizione per tutta la durata dell’appalto le risorse necessarie di cui è carente il concorrente” e del “contratto in virtù del quale l’impresa ausiliaria si obbliga nei confronti del concorrente a fornire i requisiti e a mettere a disposizione le risorse necessarie per tutta la durata dell’appalto”;
- Considerato che l’avvalimento, così come configurato dalla legge, deve essere reale e non formale, nel senso che non può considerarsi sufficiente “prestare” la certificazione posseduta (Cons. Stato, III, 18.04.2011, n. 2343) assumendo impegni assolutamente generici, giacché in questo modo verrebbe meno la stessa essenza dell’istituto, finalizzato non già ad arricchire la capacità tecnica ed economica del concorrente, bensì a consentire a soggetti che ne siano sprovvisti di concorrere alla gara ricorrendo ai requisiti di altri soggetti (C.d.S., sez. V, 03.12.2009, n. 7592), garantendo l’affidabilità dei lavori, dei servizi o delle forniture appaltati;
- Rilevato inoltre che la responsabilità solidale, che viene assunta con il contratto di avvalimento da parte dell’impresa ausiliaria nei confronti dell’amministrazione appaltante relativamente ai lavori oggetto dell’appalto, e che discende direttamente dalla legge e si giustifica proprio per l’effettiva partecipazione dell’impresa ausiliaria all’esecuzione dell’appalto (Cons. Stato, VI, 13.05.2010, n. 2956, secondo cui l’impresa ausiliaria diventa titolare passivo di un’obbligazione accessoria dipendente rispetto a quella principale del concorrente, obbligazione che si perfeziona con l’aggiudicazione a favore del concorrente ausiliato, di cui segue le sorti), non si può rinvenire nel caso di specie, mancando del tutto l’autentica messa a disposizione di risorse, mezzi o di altro elemento necessario, rinviata ad un inammissibile futuro contratto da stipularsi in caso di aggiudicazione alla Diodoro Ecologia (per tutto Cons. Stato, V, 18.11.2011, n. 6079) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.01.2013 n. 90 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Legittimità ordinanza Sindaco sospensione attività autolavaggio per inquinamento acustico.
E’ legittima l’ordinanza comunale di immediata sospensione delle attività relative all’autolavaggio, che condiziona inoltre, la ripresa dell’attività medesima alla dimostrazione di aver eseguito, nei successivi 30 giorni dalla notifica, adeguati interventi tecnici ed organizzativi finalizzati a garantire il contenimento delle immissioni rumorose, negli ambienti abitativi limitrofi ed ambiente esterno, entro i limiti previsti dalla normativa vigente.
Infatti, dai rilievi effettuati dall’ARTA Abruzzo nel periodo diurno di osservazione, è stato rilevato il superamento del valore limite differenziale di livello sonoro relativamente al rumore ambientale. Sul punto, occorre considerare che (mentre i limiti assoluti d'immissione hanno la finalità primaria di tutelare dall'inquinamento acustico l'ambiente inteso in senso ampio) i valori limite differenziali, facendo specifico riferimento al rumore percepito dall'essere umano, mirano ancor più specificamente alla salvaguardia della salute pubblica ex articolo 32 della Carta Costituzionale.

Il ricorrente ha impugnato il provvedimento con il quale il Sindaco del Comune di Scafa gli ha ordinato “l’immediata sospensione delle attività relative all’autolavaggio sito in via Tiburtina Valeria ss. 5 di Scafa (Pe)”, condizionando la ripresa dell’attività medesima alla dimostrazione di aver eseguito, nei successivi 30 giorni dalla notifica del provvedimento stesso, “adeguati interventi tecnici ed organizzativi finalizzati a garantire il contenimento delle immissioni rumorose, negli ambienti abitativi limitrofi ed ambiente esterno, entro i limiti previsti dalla normativa vigente”.
Il provvedimento impugnato si basa su dei rilievi fonometrici effettuati dal personale del dipartimento provinciale dell’Arta Abruzzo, all’interno di un’abitazione limitrofa all’impianto di autolavaggio del ricorrente, considerato come sorgente disturbante.
Da tali rilievi è emerso, nel periodo diurno di osservazione, il superamento del valore limite differenziale di livello sonoro relativamente al rumore ambientale (cfr. il provvedimento impugnato).
...
Il ricorso è infondato.
...
Il Collegio, pur dando atto dell’orientamento di parte della giurisprudenza, favorevole alla prospettazione del ricorrente in merito ai limiti differenziali (cfr. Tar Parma, sentenza n. 385 del 2008), basato peraltro sul mero dato letterale della norma regolamentare; ritiene tuttavia maggiormente convincente l’altro orientamento (cfr. Tar Lecce, sentenza n. 5639 del 2006), che si è formato pur sempre in materia di ordinanze sindacali adottate ai sensi dell'articolo 9 primo comma della legge quadro sull'inquinamento acustico n. 447 del 1995 ("Qualora sia richiesto da eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute pubblica o dell'ambiente il Sindaco .... con provvedimento motivato può ordinare il ricorso temporaneo a speciali forme di contenimento o di abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l'inibitoria parziale o totale di determinate attività").
Difatti, occorre considerare che (mentre i limiti assoluti d'immissione hanno la finalità primaria di tutelare dall'inquinamento acustico l'ambiente inteso in senso ampio) i valori limite differenziali, facendo specifico riferimento al rumore percepito dall'essere umano, mirano ancor più specificamente alla salvaguardia della salute pubblica.
Coerentemente con tale ratio e premessa, già prima dell'entrata in vigore della legge 26.10.1995 n. 447 e del conseguente d.p.c.m. 14.11.1997, l'articolo 6 del d.p.c.m. 01.03.1991 prevedeva l'applicazione sia di limiti massimi in assoluto (primo comma) sia di valori limite differenziali per le zone non esclusivamente industriali (secondo comma).
Ne consegue che la disposizione transitoria dettata dall'art. 8 del citato d.p.c.m. 14.11.1997 (che testualmente si limita soltanto a prevedere l'applicazione -sino all'avvenuta zonizzazione di cui all'art. 6 lettera "a" della legge n. 447/1995- dei limiti assoluti di accettabilità di immissione sonora previsti dal primo comma dell'articolo 6 del predetto d.p.c.m. 01.03.1991) non può essere correttamente interpretata (tenuto conto delle finalità di forte tutela del bene salute complessivamente perseguite dalla legge quadro sull'inquinamento acustico) nel significato (contrastante con l'art. 32 della Carta Costituzionale) di escludere del tutto, arbitrariamente, l'operatività del criterio dei valori limite differenziali d'immissione (pur contemplato dall'art. 4 del d.p.c.m. 14.11.1997 e, come detto, già fissato dal secondo comma dell'art. 6 del d.p.c.m. 01.03.1991), nel territorio di quei Comuni che non abbiano ancora provveduto all'approvazione del c.d. piano di zonizzazione acustica (cfr. Tar Lecce, sentenza n. 488 del 2006 e sentenza n. 5639 del 2006).
In sostanza, l'art. 8 del d.p.c.m. 14.11.1997 deve essere disapplicato (sulla disapplicazione d’ufficio dei regolamenti illegittimi, ad opera del giudice amministrativo, cfr. ad esempio Consiglio di Stato, sentenza n. 1169 del 2009; Tar Cagliari, sentenza n. 1093 del 2003), per incostituzionalità, laddove -nel disporre che “In attesa che i comuni provvedano agli adempimenti previsti dall'art. 6, comma 1, lettera a), della legge 26.10.1995, n. 447 (15), si applicano i limiti di cui all'art. 6, comma 1, del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 01.03.1991”– limita il rinvio all’articolo 6 del d.p.r. 01.03.1991 al solo primo comma (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 10.01.2013 n. 6 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti Bonifica di siti inquinati, responsabilità del proprietario dell’area.
L’adozione di provvedimenti per disporre bonifiche di siti inquinati non può prescindere da un accurato e preventivo accertamento degli estremi dell’inquinamento e della collegata situazione di pericolo nonché da una approfondita valutazione dell’inefficacia di altre possibili misure alternative a quelle che si intende disporre.
In una materia di particolare delicatezza come quella ambientale la Pubblica Amministrazione è tenuta a valutare in termini comparativi vantaggi e svantaggi delle diverse soluzioni adottabili ed a fornire prova di detta valutazione, anche in relazione al conseguente rapporto costi benefici delle soluzioni prescelte.
Il d.lgs. n. 152/2006 stabilisce che l’obbligo di bonifica è in capo al responsabile dell’inquinamento che le autorità amministrative hanno l’onere di individuare e ricercare (artt. 242 e 244); che il proprietario dell’area non responsabile dell’inquinamento o altri soggetti interessati hanno solo la facoltà di effettuare interventi di bonifica (art. 245); che nel caso di mancata individuazione del responsabile o di assenza di interventi volontari, le opere di bonifica sono realizzate dalle Amministrazioni competenti (art. 250) che, a fronte delle spese sostenute, si vedono riconosciuto un privilegio speciale immobiliare sul fondo (253).
Ne consegue che, laddove l’Amministrazione non provi che l’inquinamento riscontrabile nel sito sia imputabile al proprietario dell’area, a quest’ultimo non può essere imposto alcun obbligo di adottare misure di bonifica in un’ottica di recupero del sito. Deve, inoltre, aggiungersi che la giurisprudenza ha sottolineato la necessità del rigoroso accertamento del nesso di causalità fra il comportamento del “responsabile” ed il fenomeno dell’inquinamento, affermando che tale accertamento deve essere fondato su una adeguata motivazione e su idonei elementi istruttori nonché “su prove e non su mere presunzioni”.

Il d.lgs. n. 152 del 2008 (Codice dell’Ambiente) stabilisce che l’obbligo di bonifica è in capo al responsabile dell’inquinamento che le autorità amministrative hanno l’onere di individuare e ricercare (artt. 242 e 244); che il proprietario dell’area non responsabile dell’inquinamento o altri soggetti interessati hanno solo la facoltà di effettuare interventi di bonifica (art. 245); che nel caso di mancata individuazione del responsabile o di assenza di interventi volontari, le opere di bonifica sono realizzate dalle Amministrazioni competenti (art. 250) che, a fronte delle spese sostenute, si vedono riconosciuto un privilegio speciale immobiliare sul fondo (253).
Ne consegue che, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, laddove l’Amministrazione non provi che l’inquinamento riscontrabile nel sito sia imputabile alle società appellate, a queste ultime non può essere imposto alcun obbligo di adottare misure di bonifica in un’ottica di recupero del sito. (Cons. di Stato, Sez. VI, 18.04.2011, n. 2376).
A quanto appena rilevato deve, inoltre, aggiungersi che la giurisprudenza ha sottolineato la necessità del rigoroso accertamento del nesso di causalità fra il comportamento del “responsabile” ed il fenomeno dell’inquinamento, affermando che tale accertamento deve essere fondato su una adeguata motivazione e su idonei elementi istruttori nonché “su prove e non su mere presunzioni” (Cons. di Stato, Sez. VI, 05.09.2005, n. 4525).
Infine, a conferma di quanto fin qui sostenuto occorre rilevare che anche la giurisprudenza comunitaria si è orientata nei termini che precedono, ritenendo, anche se per fattispecie diversa, che l’addebito dei costi dello smaltimento dei rifiuti a soggetti che non li hanno prodotti sarebbe incompatibile con il principio “chi inquina paga” (Corte di Giustizia, Grande Sezione, 24.06.2008, n. 188) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.01.2013 n. 56 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: INTERVENTI EDILIZI ‘‘PERTINENZIALI’’ E LORO (IR)RILEVANZA PENALE
Affinché un manufatto presenti il carattere della pertinenza, e` necessario che abbia una propria individualità, che sia oggettivamente preordinato a soddisfare le esigenze di un edificio principale legittimamente costruito, che sia fornito di autonomo valore di mercato, che abbia ridotte dimensioni, che sia insuscettibile di destinazione autonoma e che non si ponga in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti.

La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi, con la sentenza in commento, sulla natura giuridica del manufatto pertinenziale, individuando i caratteri che ne consentono l’inquadramento nella categoria degli interventi edilizi privi di rilevanza penale.
La vicenda processuale trae origine da un procedimento penale per il reato di cui all’art. 44, lett. b), D.P.R. n. 380 del 2001, contestato all’imputato per avere questi, in assenza di concessione edilizia, senza permesso di costruire, abusivamente realizzato con più azioni esecutive di uno stesso disegno criminoso in un edificio di sua proprietà un magazzino garage in muratura di circa mq 14,05 e al primo piano due vani ulteriori rispettivamente di circa mq 12,78 e mq 18,47, nonché un balcone di metri quadri 12,00 collegato con il tetto del locale abusivo costruito al piano terra.
In sede di merito, l’imputato, previa riqualificazione del fatto nel reato di cui all’art. 44, lett. a), D.P.R. n. 380 del 2001, in luogo dell’art. 44, lett. b), effettuata sul presupposto di realizzazione di una pertinenza, era stato dichiarato colpevole e condannato alla sola pena dell’ammenda. Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per cassazione la Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’appello, adducendo quale unico motivo l’erronea qualificazione della contravvenzione contestata, non sussistendo pertinenza bensì ampliamento volumetrico del precedente fabbricato, che pertanto richiede il rilascio di permesso.
La prospettazione accusatoria è stata accolta dalla Corte di Cassazione che ha, infatti, annullato con rinvio la sentenza impugnata osservando che la dimensione e la conformazione delle strutture costruite, tali da renderle parte integrante dell’edificio e da aumentarne la volumetria, dimostravano l’insussistenza dei presupposti per la loro qualificazione come pertinenza, e quindi la necessità del rilascio di permesso, come correttamente prospettato nel ricorso.
La decisione merita ampia e convinta condivisione, soprattutto tenuto conto del fatto che la stessa si inserisce in un filone giurisprudenziale di legittimità collaudato (e consolidato), secondo cui in materia edilizia, affinché un manufatto presenti il carattere della pertinenza si richiede che abbia una propria individualità, che sia oggettivamente preordinato a soddisfare le esigenze di un edificio principale legittimamente edificato, che sia sfornito di autonomo valore di mercato, che abbia ridotte dimensioni, che sia insuscettibile di destinazione autonoma e che non si ponga in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti (v., da ultimo, in senso conforme: Cass. pen., sez. III, 03.07.2012, n. 25669, in Ced Cass., n. 253064) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.01.2013 n. 519 - commento tratto da Urbanistica e Appalti n. 3/2013).

EDILIZIA PRIVATA: LE DIFFERENZE ‘‘ONTOLOGICHE’’ TRA IL CONDONO E LA SANATORIA.
Gli istituti della sanatoria e del condono edilizio sono tra loro differenti, in quanto la fattispecie penale estintiva, oggi contemplata dall’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, presuppone l’accertamento dell’inesistenza del danno urbanistico a mezzo della verifica della doppia conformità agli strumenti urbanistici vigenti, sia al momento del rilascio della concessione in sanatoria sia al momento della realizzazione dell’opera; diversamente, l’istituto del condono prescinde dal rilascio del provvedimento concessorio essendo autonomo e di natura transitoria, e fondandosi sul limite temporale da un lato e, sull’oblazione, dall’altro.

La Corte Suprema coglie l’occasione, nell’esaminare la questione sottoposta alla sua attenzione, per delimitare il campo di applicazione dell’istituto del condono edilizio e di quello della sanatoria edilizia, troppo spesso confusi nella pratica applicazione.
La vicenda processuale trae origine da una sentenza di condanna per violazioni edilizie e antisismiche, in particolare consistenti nell’aver realizzato una costruzione edilizia abusiva, costituita da una ristrutturazione in totale difformità di due manufatti a tre elevazioni fuori terra con la struttura in cemento armato, trasformati in un’unica struttura abitativa estesa circa 75 mq. e alta m. 9, senza il prescritto permesso di costruire e, appunto in violazione delle norme antisismiche, senza l’autorizzazione dell’Ufficio del Genio Civile, con mancato rispetto delle prescrizioni tecniche per le zone sismiche e con omessa denuncia dell’inizio dei lavori.
Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per Cassazione la difesa del condannato, sostenendo che, avendo egli presentato già prima della sentenza un’istanza di sanatoria, i reati si sarebbero estinti e si sarebbe dovuto pronunciare sentenza di non doversi procedere.
La tesi è stata respinta dai giudici di legittimità che, sul punto, nel dichiarare inammissibile il ricorso per genericità, hanno correttamente osservato come il ricorrente invoca in una confusa commistione sia la sanatoria edilizia L. n. 47 del 1985, ex art. 13 -oggi D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36- sia il condono di cui al D.L. n. 269 del 2003 convertito con modifiche in L. n. 326 del 2003. Questi, infatti, sosteneva che «in base al disposto della L. n. 326 del 2003, artt. 36 e ss., e L. n. 47 del 1985, art. 38 il rilascio della concessione edilizia ai sensi dell’art. 13 da parte della p.a. ... comporta l’estinzione dei reati».
In realtà, precisano condivisibilmente gli Ermellini, trattasi di istituti differenti, in quanto la fattispecie penale estintiva di cui al capo primo della L. 28.02.1985, n. 47, e in particolare di cui all’art. 13, come è noto ora riversato nell’art. 36 del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, presuppone l’accertamento dell’inesistenza del danno urbanistico a mezzo della verifica della doppia conformità agli strumenti urbanistici vigenti sia al momento del rilascio della concessione in sanatoria sia al momento della realizzazione dell’opera (v., sul punto: Cass. pen., sez. III, 18.12.2003, n. 48499; Cass. pen., sez. III, 18.03.2002, n. 11149) laddove l’istituto del condono (previsto dal capo quarto della L. n. 47 del 1985, artt. 31 ss., e successivamente riproposto dalla L. n. 724 del 1994 e seguenti modifiche nonché infine dalla già richiamata normativa del 2003, a sua volta soggetta successive modifiche di proroga del termine) prescinde dal rilascio del provvedimento concessorio essendo autonomo e di natura transitoria, e fondandosi sul limite temporale da un lato e sull’oblazione dall’altro (cfr. Cass. pen., sez. III, 28.09.1988, n. 10307). Sanzione processuale conseguente all’ambiguità evidente connotante tutto il motivo, privandolo di specificita` e chiarezza, è quella dell’inammissibilità per genericità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.01.2013 n. 506 - commento tratto da Urbanistica e Appalti n. 3/2013).

EDILIZIA PRIVATA: Beni ambientali. Nulla osta negativo Ente Parco necessita di preavviso di rigetto.
In caso nulla osta negativo dell’Ente Parco è necessaria la comunicazione di motivi ostativi ex art. 10-bis della l. 241/1990 in quanto il parere di competenza dell’Ente nell’economia del procedimento di condono non è un semplice parere, atto cioè endoprocedimentale che consenta di posticipare la comunicazione dei motivi ostativi alla fase successiva che fa capo al solo comune, ma è al contrario un vero e proprio nulla osta obbligatorio e vincolante, analogamente al parere dell’amministrazione dei beni culturali nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
La comunicazione ex art. 10-bis della l. 241/1990 consente alla parte istante di rappresentare le proprie ragioni per una inversione di senso del procedimento.

Il ricorso è fondato e deve essere accolto in relazione alla censura dedotta con il primo motivo con il quale si denuncia la violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990 il virtù del quale “Nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l'autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. La comunicazione di cui al primo periodo interrompe i termini per concludere il procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo. Dell'eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale. Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali. Non possono essere addotti tra i motivi che ostano all'accoglimento della domanda inadempienze o ritardi attribuibili all'amministrazione”.
Poiché nella fattispecie, per un verso, non risulta contestata l’omissione della comunicazione di motivi ostativi e, per l’altro, appare condivisibile la linea difensiva svolta dalla ricorrente, che assume la necessità della comunicazione omessa -in quanto il parere di competenza dell’Ente Parco nell’economia del procedimento di condono non è un semplice parere, atto cioè endoprocedimentale che consenta di posticipare la comunicazione dei motivi ostativi alla fase successiva che fa capo al solo comune, ma è al contrario un vero e proprio nulla osta obbligatorio e vincolante, analogamente al parere dell’amministrazione dei beni culturali nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, deve ritenersi che omissione dei motivi ostativi al rilascio dell’assenso del Parco (che avrebbe consentito alla parte istante di rappresentare le proprie ragioni per una inversione di senso del procedimento)- il ricorso sotto il profilo in esame deve ritenersi fondato; e ciò di per sé è sufficiente per il suo accoglimento con il conseguente annullamento del decreto impugnato
(massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Liguria, Sez. I, sentenza 08.01.2013 n. 27 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPERTINENZE ED AGEVOLE AMOVIBILITA`: NO AL CRITERIO STRUTTURALE
Ai fini del riscontro del connotato della precarietà e della relativa esclusione della modifica dell’assetto del territorio, non sono rilevanti le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e l’agevole rimovibilità, ma le esigenze temporanee alle quali l’opera eventualmente assolva.

Altra decisione della Corte sul tema della natura pertinenziale dell’intervento edilizio, stavolta, però, applicata con riferimento al regime di favore previsto dalla disciplina edilizia fissata dalla regione Sicilia.
La vicenda processuale vedeva imputati del reato edilizio e antisismico due soggetti ai quali era stato addebitato di avere realizzato, in qualità di committenti, una trasformazione edilizia ed urbanistica in assenza di concessione edilizia, con una sopraelevazione di un manufatto, mediante innalzamento dell’esistente parapetto in muratura di un lastrico solare con blocchi di pomicemento e realizzazione di muri perimetrali e copertura in lamierino coibentato, oltre a dodici pilastri, con violazione della disciplina sulle opere in cemento armato.
Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per cassazione la difesa degli imputati, sostenendo che i giudici di merito non avrebbero tenuto conto del fatto che le opere realizzate rientravano in quelle soggette ad autorizzazione ai sensi della L.R. siciliana n. 37 del 1985, art. 5 e della L.R. n. 4 del 2003, art. 20, ottenuta, nel caso di specie, per il mantenimento della copertura del lastrico solare con struttura precaria, oltre a lavori interni: l’opera andava quindi considerata precaria attesa l’agevole amovibilità, indipendentemente dall’uso della stessa.
La tesi difensiva, pur suggestiva, non ha però superato il rigoroso vaglio dei giudici della Suprema Corte. Muovendo dalla norma regionale invocata dai ricorrenti (L.R. Sicilia 16.04.2003, n. 4, art. 20), i giudici hanno osservato come detta disposizione disciplina:
a) la chiusura di terrazze di collegamento e/o copertura di spazi interni con strutture precarie;
b) la realizzazione di verande, definite come «chiusure o strutture precarie relative a qualunque superficie esistente su balconi, terrazze e anche tra fabbricati»;
c) la realizzazione di altre strutture, comunque denominate (a titolo esemplificativo si fa riferimento a tettoie, pensiline e gazebo), che vengono assimilate alle verande, a condizione che ricadano su aree private, siano realizzate con strutture precarie e siano aperte da almeno un lato.
Secondo la predetta norma gli interventi descritti non sono considerati aumento di superficie utile o di volume né modifica della sagoma della costruzione e sono da considerare strutture precarie tutte quelle realizzate in modo tale da essere suscettibili di facile rimozione.
Pertanto, nell’individuare alcune opere precarie non soggette, in via di eccezione, a permesso di costruire la legge regionale fa riferimento ad un ‘‘criterio strutturale’’ (la facile rimovibilità) piuttosto che al ‘‘criterio funzionale’’ (l’uso temporaneo e provvisorio). Orbene, osservano gli Ermellini come tali disposizioni non possono essere applicate al di fuori dei casi espressamente previsti e vanno interpretate in modo restrittivo in ordine alla suscettibilità di facile rimozione (v., ad es.: Cass. pen., sez. III, 27.05.2009, n. 22054, in Ced Cass., n. 243710).
Nel caso di specie, dunque, gli imputati avevano realizzato non già un’opera precaria, ma un vero e proprio ampliamento di un manufatto preesistente mediante innalzamento, sicché, tenuto conto della tipologia dell’intervento e dei materiali utilizzati, non poteva avere alcuna applicazione la richiamata disciplina regionale relativa alla sufficienza dell’autorizzazione L.R. n. 4 del 2003, ex art. 20 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.01.2013 n. 180 - commento tratto da Urbanistica e Appalti n. 3/2013).

EDILIZIA PRIVATA: Monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard.
Mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata alla imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all’interno della specifica zona di intervento e ciò vale ad evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione rispetto al contributo di concessione.

In proposito non può che richiamarsi il recente orientamento della Sezione, formatosi proprio su fattispecie concernente la monetizzazione prevista dal Comune di Putignano, che giunge a conclusioni opposte sulla basi di un’analisi articolata su due concorrenti profili:
a) natura e consistenza della prestazione pecuniaria richiesta;
b) genesi e scaturigine della c.d. monetizzazione.
Secondo detto orientamento, quanto punto a), se da un lato è pressoché irrilevante, ai fini in esame, la qualificazione della monetizzazione come imposizione di tipo tributario o come corrispettivo di diritto pubblico, dall’altro lato assume, invece, significativo rilievo la considerazione che la prestazione patrimoniale richiesta non vive in alcun modo della natura e delle finalità proprie del contributo concessorio costituito dagli oneri di urbanizzazione e dal costo di costruzione che accompagna naturaliter l’autorizzazione a costruire, la cui debenza o meno, quanto al relativo accertamento, può essere fatta valere, in linea generale, nei termini prescrizionali.
Invero, mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata alla imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all’interno della specifica zona di intervento; e ciò vale ad evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione rispetto al contributo di concessione, di talché, sotto il versante processuale, non si può utilizzare lo strumento dell’azione di accertamento ammesso per contestare la legittimità del contributo ex art. 3 o comunque la insussistenza di tale obbligazione pecuniaria ancorché già assolta (cfr. Sez. IV, 16/02/2011, n. 1013) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.12.2012 n. 6707 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Legittimità ordinanza contingibile e urgente in caso di inquinamento acustico.
L’utilizzo del particolare potere di ordinanza contingibile e urgente delineato dall’art. 9 della L. n. 447 del 1995 deve ritenersi “normalmente” consentito allorquando gli appositi accertamenti tecnici effettuati dalle competenti Agenzie Regionali di Protezione Ambientale rilevino la presenza di un fenomeno di inquinamento acustico, tenuto conto sia che quest’ultimo ontologicamente (per esplicita previsione dell’art. 2 della stessa L. n. 447 del 1995) rappresenta una minaccia per la salute pubblica, sia che la legge quadro sull’inquinamento acustico non configura alcun potere di intervento amministrativo ordinario che consenta di ottenere il risultato dell’immediato abbattimento delle emissioni sonore inquinanti.
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Non sussiste il vizio di incompetenza (ordinanza sindacale) dedotto dalla società ricorrente, dal momento che la legge non prevede un potere amministrativo “ordinario” –come tale di competenza dirigenziale– che consenta di ottenere il risultato dell’immediato abbattimento delle emissioni sonore inquinanti. Pertanto, l’accertata presenza di un fenomeno di inquinamento acustico, pur se non coinvolgente l’intera collettività, appare sufficiente a concretare l’eccezionale e urgente necessità di intervenire a tutela della salute pubblica con l’efficace strumento previsto dall’art. 9 primo comma della citata l. n. 447 del 1995.

L’utilizzo del particolare potere di ordinanza contingibile e urgente delineato dall’art. 9 della L. 26.10.1995 n. 447 deve ritenersi “normalmente” consentito allorquando gli appositi accertamenti tecnici effettuati dalle competenti Agenzie Regionali di Protezione Ambientale rilevino la presenza di un fenomeno di inquinamento acustico, tenuto conto sia che quest’ultimo ontologicamente (per esplicita previsione dell’art. 2 della stessa L. n. 447 del 1995) rappresenta una minaccia per la salute pubblica, sia che la legge quadro sull’inquinamento acustico non configura alcun potere di intervento amministrativo ordinario che consenta di ottenere il risultato dell’immediato abbattimento delle emissioni sonore inquinanti (TAR Napoli, sez. V, 06.07.2001, n. 3556; TAR Perugia sez. I, 22.10.2010, n. 492; TAR Firenze, sez. II, 16.06.2010, n. 1930).
Non sussiste il vizio di incompetenza dedotto dalla società ricorrente, dal momento che la legge non prevede un potere amministrativo “ordinario” –come tale di competenza dirigenziale– che consenta di ottenere il risultato dell’immediato abbattimento delle emissioni sonore inquinanti. Pertanto, l’accertata presenza di un fenomeno di inquinamento acustico, pur se non coinvolgente l’intera collettività, appare sufficiente a concretare l’eccezionale e urgente necessità di intervenire a tutela della salute pubblica con l’efficace strumento previsto dall’art. 9 primo comma della citata l. n. 447 del 1995 (TAR Brescia, sez. I, 30.08.2011, n. 1276; TAR Lecce, sez. I, 29.09.2011, n. 1663).
La mancata indicazione di un termine finale di efficacia del provvedimento inibitorio è connaturata all’atto stesso, destinato ad esaurire istantaneamente i propri effetti nel momento stesso in cui l’intimato abbia realizzato gli interventi di bonifica acustica prescritti dall’Autorità.
Neppure sussiste il vizio di difetto di istruttoria dedotto dalla parte ricorrente, in quanto l’ordinanza n. 95/2007 si è fondata sull’articolata relazione dell’ARPA n. 943/2007/AL-06 V.O2 e sugli esiti del relativo sopralluogo del 12.09.2007.
Il richiamo espresso di tale relazione istruttoria costituisce congrua motivazione (c.d. “per relationem”) dell’atto impugnato, secondo quanto previsto dall’art. 3 della l. 241/90..
Infine, gli elementi di particolare urgenza (unitamente al c.d. effetto “a sorpresa”, indispensabile per l’efficacia dei controlli) che caratterizzano immanentemente l’intero procedimento amministrativo diretto all’abbattimento delle emissioni rumorose inquinanti, gli conferiscono quella specialità che giustifica la deroga ai principi generali in tela di partecipazione previsti dagli artt. 7 e ss. L. 07.08.1990 n. 241 (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 21.12.2012 n. 1382 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione “pesante” necessita nuovi parcheggi.
Un intervento di ristrutturazione “pesante”, comportante il frazionamento dell’originario edificio in quattro nuove unità abitative e, conseguentemente, un maggior carico urbanistico, il progetto avrebbe potuto essere licenziato solo alla condizione che fossero contestualmente realizzati i parcheggi di cui all’art. 41-sexies L. 1150/1942, dovendo tale norma applicarsi a tutti gli interventi che implicano un aumento di carico urbanistico.

Il ricorso merita di essere accolto sulla assorbente considerazione che il progetto assentito non prevede la realizzazione di parcheggi ex art. 41-sexies L. 1150/1942.
Va preliminarmente rilevato che il Comune si é limitato a contestare del tutto genericamente le allegazioni della ricorrente, e ciò nell’ambito della comparsa di stile depositata all’atto della costituzione in giudizio. Conseguentemente il Collegio ritiene che quei fatti posti a fondamento del ricorso i quali risultino supportati dalle risultanze dei documenti prodotti dalla ricorrente possono ritenersi dimostrati.
Ciò vale, in particolare, con riferimento alla censura relativa ai parcheggi comuni di cui all’art. 41-sexies L. 1150/1942, della cui realizzazione non vi é traccia nel capitolato delle opere oggetto della concessione edilizia impugnata, che la ricorrente ha prodotto.
Ciò premesso, venendo in considerazione un intervento di ristrutturazione “pesante”, comportante il frazionamento dell’originario edificio in quattro nuove unità abitative e, conseguentemente, un maggior carico urbanistico, il progetto avrebbe potuto essere licenziato solo alla condizione che fossero contestualmente realizzati i parcheggi di cui all’art. 41-sexies L. 1150/1942, dovendo tale norma applicarsi a tutti gli interventi che implicano un aumento di carico urbanistico (tra le più recenti, si veda TAR Liguria n. 592/2011) (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 21.12.2012 n. 1375 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sostituzione edilizia costituisce una modalità spinta della ristrutturazione edilizia.
La “sostituzione edilizia” costituisce, già in se stessa, una modalità (segnatamente, la più spinta) proprio della ristrutturazione edilizia, lo si evince sin dalle norme che, a livello tanto nazionale quanto locale, definiscono la seconda, ed ammettono che questa possa atteggiarsi, al limite, anche in termini di demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato.
Dunque la conferma che la sostituzione edilizia, debba intendersi pur sempre come una forma della ristrutturazione edilizia, con la conseguente necessità di fare salve le caratteristiche fondamentali della preesistenza.

D’altra parte, che la “sostituzione edilizia” costituisca, già in se stessa, una modalità (segnatamente, la più spinta) proprio della ristrutturazione edilizia, lo si evince sin dalle norme che, a livello tanto nazionale quanto locale, definiscono la seconda (art. 31 cit. lett. d); art. 9, comma 2, del regolamento edilizio comunale), ed ammettono che questa possa atteggiarsi, al limite, anche in termini di demolizione e successiva –fedele- ricostruzione di un fabbricato (in questo senso v. ad es., da ultimo, C.d.S., IV, 10.08.2011, n. 4765).
Donde la conferma che la sostituzione edilizia, quale disciplinata dall’art. 18 della variante, debba intendersi pur sempre come una forma della ristrutturazione edilizia, con la conseguente necessità di fare salve le caratteristiche fondamentali della preesistenza (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.12.2012 n. 6592 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La modifica delle cabine di un stabilimento balneare costituisce ristrutturazione edilizia.
La creazione di un sottotetto e la modifica di alcune aperture delle cabine di una stabilimento balneare, costituiscono nell’insieme, opera di ristrutturazione edilizia con aumento di superficie utile, e non di manutenzione straordinaria. Invero l’alterazione della superficie utile e la modifica (trasformazione di porta in oblò) delle aperture esterne esulano dalla definizione di manutenzione straordinaria ex art. 3, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001 e dall’attività edilizia libera prevista dall’art. 6, comma 2, lett. a, dello stesso d.p.r..

Al riguardo il Collegio ritiene di distinguere gli interventi sulla casa di guardianaggio (rispetto ai quali il motivo di ricorso è infondato) da quelli riguardanti le cabine (per i quali la censura va accolta).
Nel primo caso rilevano la creazione di un sottotetto e la modifica di alcune aperture, che nell’insieme costituiscono, contrariamente a quanto ritenuto dalla deducente, opera di ristrutturazione edilizia con aumento di superficie utile, e non di manutenzione straordinaria (TAR Campania, Napoli, IV, 20.03.2012, n. 1374; TAR Sicilia, Catania, I, 02.07.2010, n. 2641; TAR Sicilia, Palermo, II, 24.05.2012, n. 1055). Invero l’alterazione della superficie utile e la modifica (trasformazione di porta in oblò) delle aperture esterne esulano dalla definizione di manutenzione straordinaria ex art. 3, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001 e dall’attività edilizia libera prevista dall’art. 6, comma 2, lett. a, dello stesso d.p.r..
Inoltre, ai sensi dell’art. 2, comma 2, della L.R. n. 5/2010 e del conseguente art. 62 del regolamento edilizio (comma 6) invocato dalla deducente, gli interventi diretti al recupero dei sottotetti sono classificati come ristrutturazione edilizia.
Né può obiettarsi che il sottotetto è stato reso abitabile in forza della normativa regionale (L.R. n. 5/2010), o invocarsi l’effetto legittimante dell’art. 62 del regolamento edilizio, il quale ammette il recupero abitativo dei sottotetti negli edifici a destinazione residenziale.
Infatti la casa di guardianaggio, costituendo abitazione del custode a servizio dello stabilimento balneare ed essendo strettamente funzionale alla sorveglianza dello stabilimento stesso, e non assolvendo quindi alla destinazione residenziale in sé su cui invece si incentra la disciplina eccezionale sul recupero dei sottotetti, costituisce accessorio della struttura balneare.
Pertanto essa non può qualificarsi come parte integrante di un complesso residenziale (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 20.12.2012 n. 2106 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Incompatibilità ambientale di un parco eolico in prossimità di SIC e in territorio con vincolo paesistico.
E’ legittima la pronuncia di compatibilità ambientale negativa per la realizzazione di un parco eolico costituito da 16 aerogeneratori della potenza unitaria di 2 MW, con una altezza massima della torre di 125 m. L'area interessata dall’intervento si inserisce in un contesto più ampio di assoluto valore naturalistico testimoniato dalla presenza di quattro siti di interesse comunitario (SIC) istituiti soprattutto per la conservazione di importanti popolazioni di specie di uccelli legati ad ambienti aperti soprattutto di media ed alta montagna oggi minacciate dalla scomparsa dell'habitat.
Lo stesso studio di impatto ambientale non può non ammettere che la realizzazione delle pale eoliche determinerebbe una frequenza non indifferente di abbattimento di specie rare e assai protette, tra le quali spicca l’aquila, con la conseguenza che vista la limitata consistenza di tale popolazione nell'Appennino settentrionale è probabile che anche una bassa mortalità aggiuntiva sia in grado di causare significativi problemi di conservazione, e che non sono prevedibili al riguardo misure di mitigazione efficaci. Inoltre, anche sotto il profilo paesaggistico si evidenzia che il vincolo apposto sull'area finirebbe con l'essere compromesso dall'installazione delle pale eoliche avuto riguardo, da un lato al carattere unitario del bene di cui trattasi, altro all'imponenza delle strutture da realizzare che non potrebbero non avere un impatto visivo incompatibile con le caratteristiche dell'area e, in ogni caso, non mitigabile attraverso operazioni di rimboschimento.

Quanto alla contraddittorietà tra il parere favorevole espresso inizialmente dalla Soprintendenza rispetto allo studio di impatto ambientale presentato dalla ricorrente è quello negativo manifestato sulla documentazione integrativa, non pare che tale vizio sia riscontrabile atteso che l'organo statale ha potuto esprimere compiutamente il proprio parere proprio alla luce delle successive integrazioni depositate dall'interessata e tenuto conto delle valutazioni espresse dalle altre amministrazioni interessate.
In ordine gli altri aspetti contestati, va in primo luogo rammentato che in materia l'amministrazione esprime un apprezzamento discrezionale che non è sindacabile nel giudizio di legittimità se non per la sua illogicità o per il travisamento dei fatti che, tuttavia, nella fattispecie non appaiono sussistere.
Infatti, nel corso del procedimento e sulla base della stessa documentazione depositata dalla ricorrente, è emerso in ordine al monitoraggio degli effetti dell'impianto sull'avifauna che il sito "è caratterizzato la presenza di un popolamento di rapaci diurni nidificanti abbastanza diversificato, cui si aggiungono individui di aquila reale, falco pellegrino e biancone" e che il sito "sembra rivestire una certa importanza, in particolare nel periodo autunnale, come area di caccia per l'aquila reale".
Inoltre l'area interessata si inserisce in un contesto più ampio di assoluto valore naturalistico testimoniato dalla presenza di quattro siti di interesse comunitario (SIC) istituiti soprattutto per la conservazione di importanti popolazioni di specie di uccelli legati ad ambienti aperti soprattutto di media ed alta montagna oggi minacciate dalla scomparsa dell'habitat.
Lo stesso studio di impatto ambientale presentato dalla ricorrente non può non ammettere che la realizzazione delle pale eoliche determinerebbe "una frequenza non indifferente di abbattimento di specie rare e assai protette, tra le quali spicca l’aquila" con la conseguenza che, come si esprime in proposito il verbale della conferenza di servizi, "attesa la limitata consistenza di tale popolazione nell'Appennino settentrionale è probabile che anche una limitata mortalità aggiuntiva sia in grado di causare significativi problemi di conservazione, e che non sono prevedibili al riguardo misure di mitigazione efficaci".
Appare evidente dunque, che le problematiche affrontate dalla conferenza di servizi conducono conclusioni che non appaiono superabili.
D'altro canto, anche dal mero profilo paesaggistico, l'istruttoria condotta affronta compiutamente le problematiche connesse evidenziando che il vincolo paesaggistico apposto sull'area finirebbe con l'essere compromesso dall'installazione delle pale eoliche avuto riguardo, da un lato al carattere unitario del bene di cui trattasi, altro all'imponenza delle strutture da realizzare che non potrebbero non avere un impatto visivo incompatibile con le caratteristiche dell'area e, in ogni caso, non mitigabile attraverso operazioni di rimboschimento (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 20.12.2012 n. 2027 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Peculato e uso del telefono di ufficio.
A
llorquando il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, disponendo, per ragione dell'ufficio o del servizio, dell'utenza telefonica intestata all'Amministrazione, la utilizza per effettuare chiamate di interesse personale, il fatto lesivo si sostanzia non nell'uso dell'apparecchio telefonico quale oggetto fisico, bensì nell'appropriazione, che attraverso tale uso si consegue, delle energie, entrate a far parte della sfera di disponibilità della P.A., occorrenti per le conversazioni telefoniche, secondo cui è configurabile il peculato ordinario, sempre che possa riconoscersi un apprezzabile valore economico agli impulsi utilizzati per ogni singola telefonata, ovvero anche per l'insieme di più telefonate, quando queste siano talmente ravvicinate nel tempo da poter essere considerate come costituenti un'unica condotta.
All’udienza del 20.12.2012 nel proc. n. 47293/2011, ric. Vattani, (per la quale non risulta ancora il deposito della motivazione), le Sezioni Unite hanno affrontato la questione se l’utilizzo per fini personali di utenza telefonica assegnata per ragioni di ufficio integri o meno l’appropriazione richiesta per la configurazione del delitto di peculato ex art. 314, comma primo, cod. pen. ovvero una condotta distrattiva o fraudolenta rispettivamente inquadrabile nel delitto di abuso di ufficio o in quello di truffa aggravata a danno dello Stato.
Relativamente all’uso del telefono d’ufficio per fini privati, un primo e più remoto orientamento giurisprudenziale ha ritenuto che integri il reato di peculato d’uso ex art. 314, comma secondo, cod. pen. il comportamento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che utilizzi per uso personale il telefono in dotazione all’ufficio affidato alla sua disponibilità; in questi casi, si è osservato, vi sarebbe non «un’appropriazione degli impulsi elettronici (gli “scatti”)», ma un’interversione momentanea del possesso dell’apparecchio seguita da una restituzione immediata (Sez. 6, n. 3009 del 28/01/1996, dep. 26/03/1996, Catalucci, Rv. 204786; Sez. 6, n. 7364 del 24/06/1997, dep. 25/07/1997, Guida, Rv. 209746; Sez. 6, 07.11.2000, dep. 18.01.2001, Veronesi, n. 353, in Guida dir., 2001, n. 9, p. 68 (relativa ad una fattispecie concernente un numero complessivo di 878 scatti telefonici per numerose comunicazioni interurbane addebitate ad una U.S.L.
Siffatto esito decisorio è stato dalla S.C. maturato delineando un percorso argomentativo incentrato sull’inquadramento della fattispecie in esame nell’istituto del possesso in nome altrui e del deposito o della custodia a seconda delle funzioni o delle mansioni esplicate dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio.
Secondo un diverso e prevalente orientamento giurisprudenziale
si ritiene, invece, che la condotta in esame integri gli estremi del peculato comune, sulla base del rilievo che l’uso del telefono si connoterebbe non propriamente nella fruizione dell’apparecchio telefonico in quanto tale, quanto piuttosto nell’utilizzazione dell’utenza telefonica.
In sostanza,
l’oggetto della condotta appropriativa sarebbe rappresentato non già dall’apparecchio nella sua fisicità materiale, bensì dall’energia occorrente per le conversazioni, la quale, essendo dotata di valore economico, ben può costituire l’oggetto materiale del delitto di peculato, in virtù della sua equiparazione “ope legis” alla cosa mobile.
Così individuata la «cosa mobile altrui», vi sarebbe da parte dell’”intraneus” una «vera e definitiva appropriazione degli impulsi elettronici» occorrenti per la trasmissione della voce; in più, a supporto della tesi, si aggiunge che
gli impulsi elettronici non sono neppure restituibili dopo l’uso e l’eventuale rimborso delle somme corrispondenti all’importo delle telefonate vale solo come «ristoro del danno cagionato», ma non può considerarsi come «restituzione» della cosa mobile utilizzata.
Entro tale diversa prospettiva ermeneutica, pertanto,
la natura degli impulsi elettronici occorrenti per la trasmissione della voce consente di ravvisare nell'ipotesi considerata una vera (definitiva) condotta di appropriazione, posto che l'art. 624, comma secondo, cod. pen., dispone che "agli effetti della legge penale si considera cosa mobile anche l'energia elettrica ed ogni altra energia che abbia valore economico".
Ne discende che,
allorquando il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, disponendo, per ragione dell'ufficio o del servizio, dell'utenza telefonica intestata all'Amministrazione, la utilizza per effettuare chiamate di interesse personale, il fatto lesivo si sostanzia non nell'uso dell'apparecchio telefonico quale oggetto fisico, bensì nell'appropriazione, che attraverso tale uso si consegue, delle energie, entrate a far parte della sfera di disponibilità della P.A., occorrenti per le conversazioni telefoniche (Sez. 6, n. 3879 del 23/10/2000, dep. 15/12/2000, Di Maggio, Rv. 217710; Sez. 6, n. 9277 del 06/02/2001, dep. 05/03/2001, P.M. in proc. Menotti, Rv. 218435; Sez. 6, n. 3883 del 14/11/2001, dep. 01/02/2002, Chirico, Rv. 221510; Sez. 6, n. 7347 del 14/01/2003, dep. 14/02/2003, P.M. in proc. Di Niro, Rv. 223528; Sez. 6, n. 10671 del 15/01/2003, dep. 07/03/2003, Santone, Rv. 223780; Sez. 6, n. 7772 del 15/01/2003, dep. 17/02/2003, P.M. in proc. Russo, Rv. 224270; Sez. 6, n. 25273 del 09/05/2006, dep. 20/07/2006, Montana, Rv. 234838), secondo cui è configurabile il peculato ordinario, sempre che possa riconoscersi un apprezzabile valore economico agli impulsi utilizzati per ogni singola telefonata, ovvero anche per l'insieme di più telefonate, quando queste siano talmente ravvicinate nel tempo da poter essere considerate come costituenti un'unica condotta; Sez. 6, n. 2963 del 04/10/2004, dep. 31/01/2005, Aiello, Rv. 231032; Sez. 6, n. 21335 del 26/02/2007, dep. 31/05/2007, Maggiore e altro, Rv. 236627, secondo cui integra gli estremi del peculato, e non del peculato d'uso, la condotta del soggetto incaricato di pubblico servizio che utilizzi il telefono d'ufficio per chiamate a linee telefoniche a contenuto erotico –nel caso di specie, dell’importo, ritenuto abnorme, da lire 10 a 25 milioni- a nulla rilevando che egli abbia successivamente rimborsato l'ente di appartenenza delle relative spese; Sez. 6, n. 26595 del 06/02/2009, dep. 26/06/2009, Torre, Rv. 244458, in relazione ad una fattispecie di utilizzazione a scopi privati dell'utenza telefonica di una Stazione dei Carabinieri per un importo di euro 874,39, nel periodo 1/2-20/03/2003; Sez. 6, 29.04.2009, dep. 20.05.2009, n. 21165, G.A., in Foro it., 2010, III, 156, in relazione ad una fattispecie in cui il ricorrente, segretario del reparto di otorinolaringoiatria di un ospedale, aveva effettuato tra l'aprile 2000 e il maggio 2002 numerose telefonate di carattere privato, anche verso Paesi esteri come la Romania, la Germania, l'Ucraina e la Jugoslavia, per un importo complessivo di euro 2354,39, servendosi sistematicamente dell'apparecchio non per pressanti esigenze di relazione, ma per soddisfare la sua sfera ludica (frequenti contatti, anche internazionali, con appassionati della caccia), per un valore di energie sottratte pari alla somma di denaro su indicata, ritenuta nel caso di specie oltre i limiti, anche a frammentarla per i due anni della contestazione; Sez. 6, 04.11.2009, dep. 21.01.2010, n. 2525, in Guida dir., 2010, n. 14, 79 ss., riguardo ad una fattispecie in cui un consigliere comunale, avendo, per ragioni di ufficio, la disponibilità delle utenze telefoniche comunali, le utilizzava indebitamente effettuando, nel periodo ricompreso tra il 25.02.1998 e il 12.05.2000, telefonate personali intercontinentali ad utenze esterne; Sez. 6, n. 256 del 20/12/2010, dep. 10/01/2011, Di Maria, Rv. 249201, che, nel ribadire tale orientamento, precisa che il valore economico della “cosa” sottratta –nel caso di specie, numerose telefonate private di modesta entità- se non ha rilievo per la configurabilità delle meno gravi fattispecie di abuso d’ufficio e peculato d’uso, acquista una decisiva importanza ai fini della sussistenza dell’elemento materiale del reato di peculato).
Al riguardo le Sezioni Unite hanno adottato la decisione per cui detto utilizzo integra il peculato d’uso (v. inf. provvisoria n. 36)
(tratto da RASSEGNA DELLA GIURISPRUDENZA PENALE DI LEGITTIMITA’ - LA GIURISPRUDENZA DELLE SEZIONI UNITE E LE PRINCIPALI LINEE DI TENDENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE - Anno 2012 - CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - Ufficio del Massimario - gennaio 2013)

EDILIZIA PRIVATA: Tettoia in legno fissata al muro perimetrale non può avere natura pertinenziale.
Le pertinenze che comportano un volume fino al 20% del volume dell’edificio principale o che non sono qualificate come nuove costruzioni dagli strumenti urbanistici, possono essere eseguite con d.i.a..
Peraltro tale previsione deve essere coordinata con il d.m. 02.04.1968, n. 144, che al punto 7.1. vieta le nuove costruzioni nei centri storici.
Si deve anche tener conto delle previsioni dei singoli strumenti urbanistici, che non di rado vietano in modo assoluto le nuove costruzioni nei centri storici, al fine di evitare incrementi di volumetria.
Sicché, laddove nei centri storici sono vietate le nuove costruzioni, ne discende anche, logicamente, il divieto di pertinenze, che creino nuova volumetria.
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Una tettoia in legno posta a confine del vicino e imbullonata al muro perimetrale dell’abitazione, di ampie dimensioni e stabilmente ancorata al muro perimetrale dell’immobile, non può essere considerata di natura pertinenziale, dando invece luogo ad una modificazione della sagoma e del prospetto dell’edificio comportante il previo rilascio di titolo abilitativo espresso.
Quindi, la realizzazione di una tettoia di copertura di un terrazzo di un’abitazione non può qualificarsi come manutenzione straordinaria, né configurarsi come pertinenza, atteso che, costituendo parte integrante dell’edificio, ne costituisce ampliamento, con conseguente integrabilità, in difetto del preventivo rilascio del permesso di costruire, del reato di cui all’art. 44 d.P.R. n. 380/2001.

L’art. 3, comma 1, lett. e.6), d.P.R. 06.06.2001, n. 380, include tra le nuove costruzioni, soggette a permesso di costruire, “gli interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell'edificio principale”.
Se ne desume a contrario che le pertinenze che comportino un volume fino al 20% del volume dell’edificio principale o che non siano qualificate come nuove costruzioni dagli strumenti urbanistici, possono essere eseguite con d.i.a..
Peraltro tale previsione deve essere coordinata con il d.m. 02.04.1968, n. 144, che al punto 7.1. vieta le nuove costruzioni nei centri storici.
Si deve anche tener conto delle previsioni dei singoli strumenti urbanistici, che non di rado vietano in modo assoluto le nuove costruzioni nei centri storici, al fine di evitare incrementi di volumetria.
Sicché, laddove nei centri storici sono vietate le nuove costruzioni, ne discende anche, logicamente, il divieto di pertinenze, che creino nuova volumetria.
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Va inoltre considerato che l’opera in questione, consistente in una tettoia che si poggia sui muri di edifici preesistenti, non può essere considerata in senso proprio pertinenza, in quanto fa corpo con la cosa principale a cui aderisce, di cui modifica la sagoma e comporta ampliamento, creando nuova volumetria.
Secondo la giurisprudenza di questo Consesso, una tettoia in legno posta a confine del vicino e imbullonata al muro perimetrale della sua abitazione, di ampie dimensioni e stabilmente ancorata al muro perimetrale dell’immobile, non può essere considerata di natura pertinenziale, dando invece luogo ad una modificazione della sagoma e del prospetto dell’edificio comportante il previo rilascio di titolo abilitativo espresso [Cons. St., sez. IV, 29.04.2011, n. 2549; Id., sez. IV, 07.07.2008, n. 3379; Id., sez. II, 05.02.1997, n. 336/95; Id., sez. V, 29.01.1996, n. 103].
Anche per la giurisprudenza penale la realizzazione di una tettoia di copertura di un terrazzo di un’abitazione non può qualificarsi come manutenzione straordinaria, né configurarsi come pertinenza, atteso che, costituendo parte integrante dell’edificio, ne costituisce ampliamento, con conseguente integrabilità, in difetto del preventivo rilascio del permesso di costruire, del reato di cui all’art. 44 d.P.R. n. 380/2001 [Cass. pen., sez. III, 08.06.2010, n. 27264; Id., 07.04.2006; Id., 11.10.2005].
Parimenti, secondo la Cassazione penale, non costituisce pertinenza la tettoia costruita in aderenza ad un preesistente edificio, trattandosi di manufatto che non ha una propria autonomia individuale e funzionale, ma che, entrato a far parte del preesistente fabbricato, di questo costituisce opera accessoria [Cass. pen., sez. III, 30.06.1995].
La contraria giurisprudenza invocata da parte appellante, che qualifica talora la tettoia come pertinenza [Cons. St., sez. V, 19.03.2009, n. 1615; Id., sez. II, 30.01.2008, n. 3491/2007; Tar Sicilia-Catania, 11.07.1990, n. 530; Tar Lombardia–Milano, sez. II, 15.03.1988, n. 73], non è rilevante nel presente giudizio (nemmeno al fine della rimessione del contrasto all’esame dell’adunanza plenaria), atteso l’assorbente profilo, al fine della decisione, che nel caso di specie non sono consentiti incrementi di volumetria nei centri storici mediante opere nuove
(Consiglio di Stato Sez. VI, sentenza 18.12.2012 n. 6493 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanza tra fabbricati e intercapedine preesistente.
La preesistenza di un’intercapedine di circa 3,5 mt. fra il manufatto cui è stato edificato in aderenza e il diverso immobile ad uso abitativo appartenente ad altra persona non esclude l’applicabilità delle disposizioni in materia di distanze. Infatti, l’articolo 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, dispone la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi.

Al riguardo giova premettere che non è contestato in atti che fra la parete sul lato nord dell’edificio realizzato dall’appellante e l’edificio frontista del vicino esistesse una distanza inferiore ai 10 metri, così come non è contestato che, nell’area in cui ricade l’intervento, trovi applicazione la previsione di cui all’art. 15, pt. 1), lett. c), del P.R.G., il quale (in sostanziale continuità con la generale previsione di cui all’articolo 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444) stabilisce che fra i fabbricati non può in alcun caso esistere una distanza inferiore a 10 metri.
Ebbene, questo essendo lo stato di fatto e di diritto sotteso alla vicenda di causa, il Collegio ritiene che la questione debba essere risolta facendo applicazione del consolidato orientamento secondo cui l’articolo 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove dispone la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile. Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi (in tal senso: Cons. Stato, IV, 02.11.2010, n. 7731; id., IV, 05.12.2005, n. 6909).
Ebbene, si ritiene che il principio giurisprudenziale in questione non possa essere derogato neppure nelle ipotesi in cui (come nel caso di specie) fra due edifici preesistenti esista già un’intercapedine limitata in altezza (si tratta dell’intercapedine fra il locale adibito a garage –di altezza limitata– posto sul confine del vicino e l’immobile ad uso abitativo dello stesso vicino). Ciò in quanto, laddove (come nel caso in parola) il nuovo edificio superi in altezza –e in modo notevole– la preesistente cui aderisce, l’effetto è di determinare una nuova e diversa intercapedine, riferita allo sviluppo verticale dei due edifici e non soltanto al piano terreno.
Del resto, l’esistenza di pareti finestrate poste fra loro a distanza minima costituisce di per sé un elemento idoneo a realizzare un ambiente insalubre, atteso che l’assenza di luce ed aereazione è idonea a cagionare un ambiente nel suo complesso potenzialmente dannoso, anche a prescindere dall’altezza dal piano di calpestio in cui tale situazione si determina (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.12.2012 n. 6489 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento di annullamento d’ufficio presuppone una congrua motivazione in ordine all’interesse pubblico attuale e concreto a sostegno dell'esercizio discrezionale dei poteri di autotutela, con un'adeguata ponderazione comparativa, che tenga anche conto dell’interesse dei destinatari di un atto discrezionale al mantenimento delle posizioni, che su di esso si sono consolidate e del conseguente affidamento derivante dal comportamento seguito dall'Amministrazione.
La legittimità dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio di un atto discrezionale, in via di principio, postula che esso sia realizzato entro un termine ragionevole dall’adozione dell’atto oggetto di autotutela.

Al riguardo il Collegio non ritiene di revocare in dubbio il consolidato orientamento giurisprudenziale (puntualmente richiamato dall’appellante) secondo cui, in linea di principio, il provvedimento di annullamento d’ufficio presuppone una congrua motivazione in ordine all’interesse pubblico attuale e concreto a sostegno dell'esercizio discrezionale dei poteri di autotutela, con un'adeguata ponderazione comparativa, che tenga anche conto dell’interesse dei destinatari di un atto discrezionale al mantenimento delle posizioni, che su di esso si sono consolidate e del conseguente affidamento derivante dal comportamento seguito dall'Amministrazione (in tal senso –ex plurimis -: Cons. Stato, III, 20.06.2012, n. 3628; id., IV, 28.05.2012, n. 3154; id., VI, 15.05.2012, n. 2774).
Neppure si ritiene di revocare in dubbio l’altrettanto consolidato orientamento (peraltro trasfuso in puntuale disposizione normativa ad opera dell’articolo 14 della l. 11.02.2005, n. 11) secondo cui la legittimità dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio di un atto discrezionale, in via di principio, postula che esso sia realizzato entro un termine ragionevole dall’adozione dell’atto oggetto di autotutela (in tale senso –ex plurimis-: Cons. Stato, V, 07.04.2010, n. 1946; id., IV, 14.02.2006, n. 564)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.12.2012 n. 6489 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Diritto di edificazione e saturazione della volumetria assentibile.
Un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa e dovendosi considerare irrilevanti i frazionamenti delle proprietà private medio tempore intervenuti.

Si precisa al riguardo in linea di diritto che, in relazione al periodo anteriore all’adozione del (primo) piano regolatore generale nell’anno 1964, col quale per la prima volta nel territorio comunale sono stati introdotti indici di densità edilizia (territoriale e fondiaria), in assenza di limiti di volumetria non è configurabile un’ipotesi di asservimento in senso tecnico, ma appare astrattamente configurabile esclusivamente un vincolo di c.d. asservimento pertinenziale, connotata dalla destinazione dell’area non edificata del lotto a servizio dell’edificio realizzato (v. al riguardo, in fattispecie analoga, C.d.S., Ad. Plen., 23.04.2009, n. 3). E non v’è dubbio che, in difetto di altri elementi probatori, ai fini della ricognizione di un eventuale asservimento di siffatta natura possano assumere rilievo anche atti negoziali provenienti dagli stessi privati, nella specie evincibili dall’estratto tavolare acquisito al giudizio.
Ad ulteriormente suffragio dell’inferenza che conduce ad escludere l’esistenza di un vincolo di c.d. asservimento pertinenziale viene, altresì, in rilievo la dimensione delle superfici delle due aree, superando quella corrispondente alla p.ed. 3880 (asseritamente asservita, secondo la tesi del Comune) la superficie dell’area corrispondente alla p.ed. 2687, sicché –tenendo conto anche degli altri dati di fatto sopra rilevati, in particolare della radicale diversità di destinazione d’uso delle rispettive aree (agricola e rispettivamente commerciale la prima, residenziale la seconda), protrattasi per decenni– non si vede come la p.ed. 2687 possa essere qualificata come fondo principale ai fini del c.d. asserivmento pertinenziale.
Si aggiunga la sopra rilevata circostanza –enucleabile da un esame globale e onnicomprensivo della documentazione afferente al rilascio del titolo edilizio del 1955– che l’area corrispondente alla p.ed. 2687 vi era stata considerata quale lotto edificabile separato e a sé stante. Il titolo edilizio all’epoca rilasciato ha, cioè, interessato non già l’intera p.f. 2052/2, bensì la sola area corrispondente alla menzionata p.ed. 2687, talché l’area residua, corrispondente alla superficie dell’attuale p.ed. 3880, non costituisce “superficie pertinenziale” dell’edificio preesistente per gli effetti di cui all’art. 36, comma 4-bis l. urb. prov., peraltro ratione temporis non direttamente applicabile alla fattispecie sub iudice, essendo il citato comma stato aggiunto dall’art. 8, comma 2, l. prov. 02.07.2007, n. 3, e dunque in epoca successiva al qui impugnato provvedimento di diniego (il citato comma 4-bis testualmente recita: “Gli edifici esistenti vincolano le superfici pertinenziali, da dimostrare in base alla densità edilizia vigente all’atto della presentazione della domanda edilizia, a prescindere dalla data della loro realizzazione, dal successivo frazionamento del compendio immobiliare o dall’alienazione di parti dello stesso”).
La rilevata situazione di fatto e di diritto induce dunque a considerare l’attuale p.ed. 3880 quale lotto edificabile autonomo e a sé stante, ai fini dell’applicazione degli indici di fabbricabilità, senza che si possa tener conto del fabbricato eretto nel 1955 sulla area corrispondente all’attuale p.ed. 2678, in quanto ab origine insistente su diverso lotto edificabile.
La sopra esposta ricostruzione delle vicende relative all’immobile di cui è causa smentisce l’assunto dell’Amministrazione comunale, espresso nel parere della commissione edilizia del 12.01.2005 recepito nell’impugnato provvedimento di diniego, secondo cui, a fronte del frazionamento dell’originaria p.f. 2052/2 avvenuto in epoca connotata dall’assenza di uno strumento urbanistico che fissasse la densità edilizia (nel duplice aspetto di densità territoriale e di densità fondiaria), “(…) il fondo conservato attraverso frazionamento come area pertinenziale dell’edificio già concessionato non corrispondeva ad alcun criterio relazionale tra cubatura realizzata e superficie di pertinenza (…)”. Infatti, tale assunto presuppone un vincolo pertinenziale (della parte residua della p.f. 2052/2, a servizio della neoformata p.ed. 2687), per le esposte ragioni in realtà insussistente.
L’Amministrazione appellante, laddove (nella memoria del 27.08.2012) sostiene che “(…) il presupposto per l’individuazione di una zona di completamento è che la densità edilizia attribuita risulti sfruttata al 70% (…) laddove nel computo si inserisce tutto l’esistente (anche quello realizzato in epoca remota (…)”, sembra confondere la densità territoriale (riferita, cioè, a ciascuna zona omogenea, la quale definisce il complessivo carico di edificazione che può gravare sulla zona intera) con la densità fondiaria (riferita, invece, alla singola area edificabile, la quale definisce il volume massimo assentibile su di essa, espressa dal c.d. indice di fabbricabilità), venendo nel caso di specie in rilievo solo quest’ultimo concetto, tenuto conto del tenore del primo motivo di diniego opposto all’istanza di concessione, incentrato sul superamento della volumetria assentibile in applicazione del vigente indice di fabbricabilità di 4 mc/mq per le zone di completamento.
Dalle superiori considerazioni deriva, altresì, l’inconferenza, con riguardo alla fattispecie concreta dedotta in giudizio, dei precedenti di questo Consiglio di Stato (Cons. Stato, III, parere 28.04.2009, n. 965/2009; Cons. Stato, IV, 29.01.2008, n. 255; V, 12.07.2004, n. 5039), affermativi del principio che un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa e dovendosi considerare irrilevanti i frazionamenti delle proprietà private medio tempore intervenuti (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.12.2012 n. 6475 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il potere ministeriale di annullamento del nulla osta ambientale è circoscritto ai vizi di sola legittimità: il potere di annullamento dell’Amministrazione statale non comporta un riesame complessivo, e la Sovrintendenza non può sovrapporre o sostituire il proprio apprezzamento di merito, alle valutazioni discrezionali compiute in sede di rilascio del nulla osta da parte dell'ente locale. Il riesame dell’Amministrazione, infatti, è meramente estrinseco, ed è diretto all’accertamento dell'assenza di vizi di legittimità comprendenti quello di eccesso di potere nelle diverse forme sintomatiche.
In altre parole, l’Amministrazione non può rinnovare il giudizio tecnico discrezionale sulla compatibilità paesaggistico-ambientale dell'intervento, che appartiene in via esclusiva all'Autorità preposta alla tutela del vincolo.
Il potere esercitato dall’Amministrazione Statale sull’autorizzazione paesaggistica rilasciata dall’autorità regionale, va definita in termine di “cogestione dei valori paesistici”, essendo l’autorità locale deputata alla valutazione della compatibilità paesistica dell’intervento ed il potere di intervento dell’Autorità Statale è limitato al solo controllo di legittimità che può comportare l’annullamento dell’atto per tutti i vizi di legittimità, ivi compresi quelli relativi a tutte le figure di eccesso di potere (per sviamento, insufficiente motivazione, difetto di istruttoria, illogicità manifesta).
L’Amministrazione statale deve pertanto limitarsi a verificare dall'esterno la coerenza, la logicità e la completezza istruttoria dell'iter procedimentale seguito dall'Amministrazione emanante, controllando se la motivazione espressa nel rendere il giudizio positivo sia sufficiente.
Nel contempo in considerazione della tendenziale irreversibilità dell'alterazione dello stato dei luoghi, un'adeguata gestione dei vincoli paesistici impone che l'autorizzazione paesistica rilasciata dall’autorità comunale sia congruamente motivata, esponendo le ragioni di effettiva compatibilità degli abusi realizzati con gli specifici valori paesistici dei luoghi, con la conseguenza che il difetto di motivazione dell'autorizzazione giustifica per ciò solo il suo annullamento in sede di controllo.
La giurisprudenza ha poi precisato che in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, l’obbligo di acquisire il parere da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo previsto dall’art. 32 della legge 28.02.1985 n. 47, sussiste anche per le opere realizzate anteriormente all’imposizione del vincolo stesso. A tale conclusione l’Adunanza Plenaria è pervenuta nella considerazione che “in mancanza di indicazioni univoche desumibili dal dato normativo” alla questione di cui sopra non può che darsi una soluzione “alla stregua dei principi generali in materia di azione amministrativa, tenuto conto della valenza attribuita dall’ordinamento agli interessi coinvolti nell’applicazione della disposizione legislativa di cui si tratta” e, conseguentemente, “la Pubblica Amministrazione, sulla quale incombe più pressante l’obbligo di osservare la legge, deve necessariamente tener conto, nel momento in cui provvede, della norma vigente e delle qualificazioni giuridiche che essa impone”.
Ne consegue che, anche in caso di vincolo sopravvenuto, l’Amministrazione è tenuta a valutare la compatibilità del manufatto con le prescrizioni contenute nel provvedimento di vincolo anche se non ancora esistenti al momento della realizzazione dell’intervento abusivo.
Il giudizio di compatibilità, infatti, viene reso tenendo conto dalla disciplina normativa vigente al momento della pronuncia e non prendendo in considerazione la sola disciplina esistente al momento della realizzazione dell’abuso; la disposizione di portata generale di cui all'art. 32, primo comma, della legge 47 del 1985 relativa ai vincoli che appongono limiti all'edificazione, non reca, infatti, alcuna deroga al principio di legalità che impone l'esplicazione della funzione amministrativa secondo la norma vigente al tempo in cui la funzione si esplica ("tempus regit actum").
Pertanto nella considerazione che, in mancanza di una deroga espressa, la compatibilità dell'intervento edilizio da sanare deve essere effettuata con riguardo alla disciplina urbanistica vigente al momento in cui il parere deve essere reso, in quanto prima l'immobile non aveva giuridica esistenza, l'art. 32, primo comma, della legge 47 del 1985 deve interpretarsi "nel senso che l'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione all’esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo. E appare altresì evidente che tale valutazione corrisponde alla esigenza di vagliare l'attuale compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente".
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Ai fini del decorso del termine di 60 giorni per il riesame di legittimità del nulla osta paesistico rilasciato dall'Amministrazione delegata, è necessario che esso pervenga corredato dagli elementi documentali utili al controllo. Detto indirizzo trova, invero, conforto nella lettera dell'art. 82 del d.P.R. 24.07.1977, n. 616 -come integrato dall'art. 1 della legge 08.08.1985, n. 431, e poi riprodotto all'art. 151, comma quarto, del d.lgs. 29.10.1999, n. 490- ove è stabilito che "le regioni danno immediata comunicazione al Ministero per i Beni Culturali e Ambientali delle autorizzazioni rilasciate e trasmettono contestualmente la relativa documentazione".
La possibilità di disporre acquisizioni istruttorie è del resto evenienza procedimentale peculiare ad ogni procedimento di controllo interorganico, e si collega all'esigenza che il controllo medesimo avvenga secondo criteri di serietà e di piena cognizione di ogni elemento rilevante ai fin del giudizio di legittimità dell'atto.
Eventuali carenze di elementi documentali utili all'esercizio del potere di verifica della legittimità dell'atto autorizzatorio possono, quindi, dare ingresso ad attività istruttoria con effetto interruttivo del termine assegnato per il controllo in base al noto principio "contra non valentem non agit prescriptio". Una volta pervenuta alla Soprintendenza la documentazione integrativa indispensabile per il riscontro di legittimità prenderà vigore "ex novo" il termine perentorio per il riesame di secondo grado.
Le richieste istruttorie devono, tuttavia, fondarsi su un’effettiva insufficienza del supporto documentale necessario al riesame di legittimità del nulla osta regionale. Esse devono essere finalizzate all'acquisizione di elementi documentali afferenti al titolo autorizzatorio, così da consentire una corretta, completa ed attenta valutazione della tipologia dell'intervento assentito, in raffronto alla disciplina di tutela dei valori paesaggistici ed ambientali della zona e della stessa conformazione dei luoghi oggetto di modifica.
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È noto che la questione dell'obbligo di comunicazione d'avvio nel procedimento di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica ha vissuto vicende alterne in quanto più volte è cambiata la normativa di riferimento.
Fino all’entrata in vigore del D.M. 19.06.2002 n. 165, è stato costantemente sostenuto in giurisprudenza l’obbligo per l’Amministrazione statale di comunicare l’inizio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, come peraltro previsto anche dall’art. 4 del D.M. 13.06.1994 n. 495.
A seguito dell'entrata in vigore del regolamento approvato con il D.M. 19.06.2002 n. 165 (il quale ha aggiunto il comma 1-bis dell'art. 4 del regolamento approvato con d.m. 13.06.1994 n. 495), il provvedimento ministeriale che annulla il nulla osta paesaggistico per la realizzazione di una costruzione edilizia in zona protetta non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento.
Successivamente, l'intera materia è stata ridisciplinata dal Codice dei beni culturali, intervenuto con D.Lgs. 42/2004, il cui art. 159, comma 2, stabilisce che “l'amministrazione competente al rilascio dell'autorizzazione dà immediata comunicazione alla soprintendenza delle autorizzazioni rilasciate, trasmettendo la documentazione prodotta dall'interessato nonché le risultanze degli accertamenti eventualmente esperiti. La comunicazione è inviata contestualmente agli interessati, per i quali costituisce avviso di inizio di procedimento”.
Nell'interpretare tale ultima disposizione il Consiglio di Stato ha ritenuto superata la disciplina del D.M. 165/2002 affermando che “alla stregua di siffatta scelta legislativa deve, quindi, considerarsi abrogato, per incompatibilità con una norma sopravvenuta di rango superiore, l'art. 4, comma 1-bis, del D.M 13.06.1994, n. 495, come modificato dal D.M. 165/2002”.
Pertanto, l’obbligo di comunicare l'avvio del procedimento, previsto in relazione alla generalità degli atti amministrativi dall'art. 7 della l. n. 241/1990, eliminato dal D.M. 19.06.2002, n. 165, è stato ripristinato dalla norma dianzi riportata attraverso la speciale forma della comunicazione agli interessati della trasmissione alla Soprintendenza dell'autorizzazione rilasciata da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo.

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, il potere ministeriale di annullamento del nulla osta ambientale è circoscritto ai vizi di sola legittimità: il potere di annullamento dell’Amministrazione statale non comporta un riesame complessivo, e la Sovrintendenza non può sovrapporre o sostituire il proprio apprezzamento di merito, alle valutazioni discrezionali compiute in sede di rilascio del nulla osta da parte dell'ente locale. Il riesame dell’Amministrazione, infatti, è meramente estrinseco, ed è diretto all’accertamento dell'assenza di vizi di legittimità comprendenti quello di eccesso di potere nelle diverse forme sintomatiche.
In altre parole, l’Amministrazione non può rinnovare il giudizio tecnico discrezionale sulla compatibilità paesaggistico-ambientale dell'intervento, che appartiene in via esclusiva all'Autorità preposta alla tutela del vincolo (cfr. ex multis, Tar Liguria, Sez. I, 13.02.2004, n. 160; idem, 02.04.2004, n. 329; Tar Lazio, Roma, Sez. II, 16.05.2005, n. 3840; Tar Campania, Napoli, Sez. II, 28.02.2006, n. 2486; Cons. Stato, Sez. VI, 29.10.2004, n. 7046; idem, 24.01.2006, n. 207, a cui va aggiunta anche la pronuncia dell'Adunanza Plenaria del Cons. Stato dec. 14.12.2001, n. 9).
Come ha rilevato l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la decisione 14/12/2001 n. 9, il potere esercitato dall’Amministrazione Statale sull’autorizzazione paesaggistica rilasciata dall’autorità regionale, va definita in termine di “cogestione dei valori paesistici”, essendo l’autorità locale deputata alla valutazione della compatibilità paesistica dell’intervento ed il potere di intervento dell’Autorità Statale è limitato al solo controllo di legittimità che può comportare l’annullamento dell’atto per tutti i vizi di legittimità, ivi compresi quelli relativi a tutte le figure di eccesso di potere (per sviamento, insufficiente motivazione, difetto di istruttoria, illogicità manifesta).
L’Amministrazione statale deve pertanto limitarsi a verificare dall'esterno la coerenza, la logicità e la completezza istruttoria dell'iter procedimentale seguito dall'Amministrazione emanante, controllando se la motivazione espressa nel rendere il giudizio positivo sia sufficiente.
Nel contempo in considerazione della tendenziale irreversibilità dell'alterazione dello stato dei luoghi, un'adeguata gestione dei vincoli paesistici impone che l'autorizzazione paesistica rilasciata dall’autorità comunale sia congruamente motivata, esponendo le ragioni di effettiva compatibilità degli abusi realizzati con gli specifici valori paesistici dei luoghi, con la conseguenza che il difetto di motivazione dell'autorizzazione giustifica per ciò solo il suo annullamento in sede di controllo (Cons. Stato., Sez. V n. 4552/2005; Sez. VI, 08.08.2000, n. 4345; Sez. VI, 09.04.1998, n. 460; Sez. IV, 04.12.1998, n. 1734; Sez. VI, 09.04.1998, n. 460; Sez. VI, 20.06.1997, n. 952; Sez. VI, 30.12.1995, n. 1415; Sez. VI, 12.05.1994, n. 771).
La giurisprudenza ha poi precisato che (cfr. Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 20 del 22.07.1999, e tra le tante, Cons. St., VI, 09.09.2005 n. 4662; id., 16.03.2005 n. 1094; 16.02.2005 n. 492; id., 22.08.2003 n. 4765), in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, l’obbligo di acquisire il parere da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo previsto dall’art. 32 della legge 28.02.1985 n. 47, sussiste anche per le opere realizzate anteriormente all’imposizione del vincolo stesso. A tale conclusione l’Adunanza Plenaria è pervenuta nella considerazione che “in mancanza di indicazioni univoche desumibili dal dato normativo” alla questione di cui sopra non può che darsi una soluzione “alla stregua dei principi generali in materia di azione amministrativa, tenuto conto della valenza attribuita dall’ordinamento agli interessi coinvolti nell’applicazione della disposizione legislativa di cui si tratta” e, conseguentemente, “la Pubblica Amministrazione, sulla quale incombe più pressante l’obbligo di osservare la legge, deve necessariamente tener conto, nel momento in cui provvede, della norma vigente e delle qualificazioni giuridiche che essa impone”.
Ne consegue che, anche in caso di vincolo sopravvenuto, l’Amministrazione è tenuta a valutare la compatibilità del manufatto con le prescrizioni contenute nel provvedimento di vincolo anche se non ancora esistenti al momento della realizzazione dell’intervento abusivo.
Il giudizio di compatibilità, infatti, viene reso tenendo conto dalla disciplina normativa vigente al momento della pronuncia e non prendendo in considerazione la sola disciplina esistente al momento della realizzazione dell’abuso; la disposizione di portata generale di cui all'art. 32, primo comma, della legge 47 del 1985 relativa ai vincoli che appongono limiti all'edificazione, non reca, infatti, alcuna deroga al principio di legalità che impone l'esplicazione della funzione amministrativa secondo la norma vigente al tempo in cui la funzione si esplica ("tempus regit actum").
Pertanto nella considerazione che, in mancanza di una deroga espressa, la compatibilità dell'intervento edilizio da sanare deve essere effettuata con riguardo alla disciplina urbanistica vigente al momento in cui il parere deve essere reso, in quanto prima l'immobile non aveva giuridica esistenza, l'art. 32, primo comma, della legge 47 del 1985 deve interpretarsi "nel senso che l'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione all’esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo. E appare altresì evidente che tale valutazione corrisponde alla esigenza di vagliare l'attuale compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente" (cfr. Cons. di Stato, Sez. V, 22.12.1994 n. 1574; TAR Lombardia, Sez. Brescia 25/07/2005 n. 785).
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Per costante giurisprudenza “ai fini del decorso del termine di sessanta giorni per il riesame di legittimità del nulla osta paesistico rilasciato dall'Amministrazione delegata, è necessario che esso pervenga corredato dagli elementi documentali utili al controllo. Detto indirizzo trova, invero, conforto nella lettera dell'art. 82 del d.P.R. 24.07.1977, n. 616 -come integrato dall'art. 1 della legge 08.08.1985, n. 431, e poi riprodotto all'art. 151, comma quarto, del d.lgs. 29.10.1999, n. 490- ove è stabilito che "le regioni danno immediata comunicazione al Ministero per i Beni Culturali e Ambientali delle autorizzazioni rilasciate e trasmettono contestualmente la relativa documentazione".
La possibilità di disporre acquisizioni istruttorie è del resto evenienza procedimentale peculiare ad ogni procedimento di controllo interorganico, e si collega all'esigenza che il controllo medesimo avvenga secondo criteri di serietà e di piena cognizione di ogni elemento rilevante ai fin del giudizio di legittimità dell'atto.
Eventuali carenze di elementi documentali utili all'esercizio del potere di verifica della legittimità dell'atto autorizzatorio possono, quindi, dare ingresso ad attività istruttoria con effetto interruttivo del termine assegnato per il controllo in base al noto principio "contra non valentem non agit prescriptio". Una volta pervenuta alla Soprintendenza la documentazione integrativa indispensabile per il riscontro di legittimità prenderà vigore "ex novo" il termine perentorio per il riesame di secondo grado.
Le richieste istruttorie devono, tuttavia, fondarsi su un’effettiva insufficienza del supporto documentale necessario al riesame di legittimità del nulla osta regionale. Esse devono essere finalizzate all'acquisizione di elementi documentali afferenti al titolo autorizzatorio, così da consentire una corretta, completa ed attenta valutazione della tipologia dell'intervento assentito, in raffronto alla disciplina di tutela dei valori paesaggistici ed ambientali della zona e della stessa conformazione dei luoghi oggetto di modifica
" (Cons. Stato sez. VI, 03.03.2007, n. 1019).
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È noto che la questione dell'obbligo di comunicazione d'avvio nel procedimento di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica ha vissuto vicende alterne in quanto più volte è cambiata la normativa di riferimento.
Fino all’entrata in vigore del D.M. 19.06.2002 n. 165, è stato costantemente sostenuto in giurisprudenza l’obbligo per l’Amministrazione statale di comunicare l’inizio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, come peraltro previsto anche dall’art. 4 del D.M. 13.06.1994 n. 495 (cfr., tra le tante, Cons. Stato, VI sez., 25.03.2004, n. 1626; 20.01.2003, n. 203; 17.09.2002 n. 4709, 29.03.2002 n. 1790).
A seguito dell'entrata in vigore del regolamento approvato con il D.M. 19.06.2002 n. 165 (il quale ha aggiunto il comma 1-bis dell'art. 4 del regolamento approvato con d.m. 13.06.1994 n. 495), il provvedimento ministeriale che annulla il nulla osta paesaggistico per la realizzazione di una costruzione edilizia in zona protetta non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento (cfr., tra le tante, Cons. di Stato sez. VI 11.06.2012 n. 3401).
Successivamente, l'intera materia è stata ridisciplinata dal Codice dei beni culturali, intervenuto con D.Lgs. 42/2004, il cui art. 159, comma 2, stabilisce che “l'amministrazione competente al rilascio dell'autorizzazione dà immediata comunicazione alla soprintendenza delle autorizzazioni rilasciate, trasmettendo la documentazione prodotta dall'interessato nonché le risultanze degli accertamenti eventualmente esperiti. La comunicazione è inviata contestualmente agli interessati, per i quali costituisce avviso di inizio di procedimento”.
Nell'interpretare tale ultima disposizione il Consiglio di Stato ha ritenuto superata la disciplina del D.M. 165/2002 affermando che “alla stregua di siffatta scelta legislativa deve, quindi, considerarsi abrogato, per incompatibilità con una norma sopravvenuta di rango superiore, l'art. 4, comma 1-bis, del D.M 13.06.1994, n. 495, come modificato dal D.M. 165/2002” (Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 30 del 07.01.2008; 24/01/2011 n. 477).
Pertanto, l’obbligo di comunicare l'avvio del procedimento, previsto in relazione alla generalità degli atti amministrativi dall'art. 7 della l. n. 241/1990, eliminato dal D.M. 19.06.2002, n. 165, è stato ripristinato dalla norma dianzi riportata attraverso la speciale forma della comunicazione agli interessati della trasmissione alla Soprintendenza dell'autorizzazione rilasciata da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo (TAR Lazio, Roma, sez. II, 01.02.2008, n. 888; TAR Campania, Salerno, sez. II, 25.06.2009, n. 3316)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 14.12.2012 n. 10480 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, nella parte in cui elenca le dichiarazioni di sussistenza dei requisiti morali e professionali richiesti ai fini della partecipazione alle procedure di gara, assume come destinatari tutti coloro che, in quanto titolari della rappresentanza dell'impresa, siano in grado di trasmettere al soggetto rappresentato la riprovazione dell'ordinamento nei riguardi della loro personale condotta.
Pertanto, deve ritenersi sussistente l'obbligo di dichiarazione non soltanto da parte di chi rivesta formalmente la carica di amministratore, ma anche da parte di colui che, in qualità di procuratore ad negotia, abbia ottenuto il conferimento di poteri consistenti nella rappresentanza dell'impresa e nel compimento di atti decisionali.

Come questo Consiglio di Stato ha evidenziato (per tutte, sez. VI, 18.01.2012, n. 178), l'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, nella parte in cui elenca le dichiarazioni di sussistenza dei requisiti morali e professionali richiesti ai fini della partecipazione alle procedure di gara, assume come destinatari tutti coloro che, in quanto titolari della rappresentanza dell'impresa, siano in grado di trasmettere al soggetto rappresentato la riprovazione dell'ordinamento nei riguardi della loro personale condotta.
Pertanto, deve ritenersi sussistente l'obbligo di dichiarazione non soltanto da parte di chi rivesta formalmente la carica di amministratore, ma anche da parte di colui che, in qualità di procuratore ad negotia, abbia ottenuto il conferimento di poteri consistenti nella rappresentanza dell'impresa e nel compimento di atti decisionali (sul punto, ex multis, Cons. Stato, V, 09.03.2010, n. 1373; VI, 24.11.2009, n. 7380; V, 26.01.2009 n. 375).
Tali conclusioni persuadono che, nel caso in esame, l’obbligo imposto dall’art. 38, puntualmente richiamato dagli atti di gara, debba essere riferito anche al signor Luigi Bartalini che nel periodo rilevante era stato procuratore speciale della Viras s.p.a., munito di poteri di rappresentanza esterna di notevole ampiezza, che gli consentivano di stipulare contratti di appalto relativi a brokeraggio assicurativo e di rappresentare la società presso gli enti, pubblici e privati, anche in sede di gare per l’aggiudicazione del servizio di brokeraggio assicurativo e quindi di impegnare la società nei rapporti con soggetti terzi
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.12.2012 n. 6374 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Dopo l'entrata in vigore delle disposizioni attuative della direttiva 2007/66/CE, ora riprese negli artt. 121 e 122 del Codice del processo amministrativo, in caso di annullamento giudiziale dell'aggiudicazione di una pubblica gara, spetta al giudice amministrativo il potere di decidere discrezionalmente (anche nei casi di violazioni gravi) se mantenere o meno l'efficacia del contratto nel frattempo stipulato.
Tale sistema normativo, in base al quale l'inefficacia del contratto non è conseguenza automatica dell'annullamento dell'aggiudicazione, ma costituisce oggetto di una specifica pronuncia giurisdizionale, si pone come innovazione rispetto alla logica sequenza procedimentale che vede la privazione degli effetti del contratto strettamente connessa all’annullamento dell’aggiudicazione, e da questa dipendente.
Come è stato più volte osservato, "in virtù della stretta consequenzialità tra l'aggiudicazione della gara pubblica e la stipula del relativo contratto, l'annullamento giurisdizionale ovvero l'annullamento a seguito di autotutela della procedura amministrativa comporta la caducazione automatica degli effetti negoziali del contratto successivamente stipulato, stante la preordinazione funzionale tra tali atti".
La caducazione del contratto stipulato a seguito dell’aggiudicazione poi annullata costituisce, quindi, in via generale, la conseguenza necessitata dell’annullamento: di tale conseguenza l’art. 122 del Codice del processo amministrativo costituisce una deroga, imperniata sulle esigenze di semplificazione e concentrazione delle tutele ai fini della loro effettività.
Ne consegue che, stante l’avvenuto annullamento dell’aggiudicazione disposta dalla stazione appaltante a favore della società ..., odierna appellante, l’applicazione che il primo giudice ha fatto dell’art. 122 del Codice ha costituito una disposizione favorevole all’interesse dell’appellante stessa, dal momento che ha salvato l’efficacia del contratto da questa stipulato con l’Istat per la parte già eseguita, mentre, in assenza della ricordata disposizione normativa e della applicazione fattane dal primo giudice, la sorte del contratto sarebbe stata travolta dalla accertata illegittimità dell’individuazione del contraente.

L’appellante Istat chiede la riforma della sentenza impugnata anche nella parte in cui ha dichiarato, ai sensi dell’art. 122 Cod. proc. amm., l’inefficacia del contratto stipulato con l’aggiudicataria, per la parte non eseguita.
Al riguardo, il Collegio ricorda che dopo l'entrata in vigore delle disposizioni attuative della direttiva 2007/66/CE, ora riprese negli artt. 121 e 122 del Codice del processo amministrativo, in caso di annullamento giudiziale dell'aggiudicazione di una pubblica gara, spetta al giudice amministrativo il potere di decidere discrezionalmente (anche nei casi di violazioni gravi) se mantenere o meno l'efficacia del contratto nel frattempo stipulato.
Tale sistema normativo, in base al quale l'inefficacia del contratto non è conseguenza automatica dell'annullamento dell'aggiudicazione, ma costituisce oggetto di una specifica pronuncia giurisdizionale, si pone come innovazione rispetto alla logica sequenza procedimentale che vede la privazione degli effetti del contratto strettamente connessa all’annullamento dell’aggiudicazione, e da questa dipendente (Cons. Stato, III, 19.12.2011, n. 6638).
Come è stato più volte osservato (Cons. Stato, V, 14.01.2011, n. 11; V, 20.10.2010, n. 7578; V, 07.09.2011, n. 5032), "in virtù della stretta consequenzialità tra l'aggiudicazione della gara pubblica e la stipula del relativo contratto, l'annullamento giurisdizionale ovvero l'annullamento a seguito di autotutela della procedura amministrativa comporta la caducazione automatica degli effetti negoziali del contratto successivamente stipulato, stante la preordinazione funzionale tra tali atti".
La caducazione del contratto stipulato a seguito dell’aggiudicazione poi annullata costituisce, quindi, in via generale, la conseguenza necessitata dell’annullamento: di tale conseguenza l’art. 122 del Codice del processo amministrativo costituisce una deroga, imperniata sulle esigenze di semplificazione e concentrazione delle tutele ai fini della loro effettività.
Ne consegue che, stante l’avvenuto annullamento dell’aggiudicazione disposta dalla stazione appaltante a favore della società Viras, odierna appellante, l’applicazione che il primo giudice ha fatto dell’art. 122 del Codice ha costituito una disposizione favorevole all’interesse dell’appellante stessa, dal momento che ha salvato l’efficacia del contratto da questa stipulato con l’Istat per la parte già eseguita, mentre, in assenza della ricordata disposizione normativa e della applicazione fattane dal primo giudice, la sorte del contratto sarebbe stata travolta dalla accertata illegittimità dell’individuazione del contraente
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.12.2012 n. 6374 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nel caso in cui la normativa di gara imponeva ai concorrenti di dichiarare tutti i precedenti penali (a prescindere financo da eventuali declaratorie di estinzione o di riabilitazione), la dichiarazione difforme (in quanto omissiva di un precedente penale peraltro “specifico”) è da ritenere di per sé inaffidabile, per la sufficiente circostanza che non è conforme a quanto prescritto dal disciplinare di gara, questo indipendentemente dal contenuto dispositivo dell'art. 38 del Codice dei contratti pubblici e dalle interpretazioni giurisprudenziali a proposito della completezza o meno delle dichiarazioni funzionali a comprovare il possesso dei requisiti di ordine generale.
Nelle procedure di evidenza pubblica la completezza delle dichiarazioni e la loro stretta conformità alle prescrizioni della lex specialis di gara è già di per sé un valore normativo e perciò vincolante, anche perché consente -secondo i principi di buon andamento dell'amministrazione e di proporzionalità- una celere decisione sull'ammissione dei soggetti giuridici alla gara”.

La questione della pretesa irrilevanza della dichiarazione relativa al precedente penale di cui risultava gravato il direttore tecnico, in quanto non espressamente richiesta dalla lex specialis di gara, è mal posta dalla società appellante e non appare meritevole di condivisione nei termini dalla stessa prospettati.
Il disciplinare di gara (pag. 6/17) era inequivoco nel richiedere ai concorrenti di prestare la massima attenzione nella predisposizioni delle dichiarazioni ed in particolare di quella di cui all’art. 38 del d.lgs. 163 del 2006. Vi si precisava che i concorrenti avrebbero dovuto dichiarare tutti i reati commessi anche se ritenuti non rilevanti o incidenti sulla moralità professionale, con l’ulteriore precisazione che la dichiarazione avrebbe dovuto ricomprendere (tra l’altro) anche l’ipotesi dell’eventuale estinzione del reato. A fronte di tale evidenza prescrittiva al Collegio non pare possa porsi in dubbio, come invece assume l’appellante, che la richiamata precisazione della lex specialis non fosse direttamente rivolta ai concorrenti ma agli stessi funzionari della stessa stazione appaltante che, sulla base di quelle indicazioni, avrebbero dovuto predisporre la modulistica da utilizzare da parte degli operatori economici interessati alla gara. Una tale interpretazione è palesemente contrastante con la portata letterale della disposizione oltre che con la sua ratio, consistente nel mettere i concorrenti sull’avviso circa l’obbligatoria completezza delle loro dichiarazioni sull’implicito e non irragionevole assunto secondo cui anche un precedente penale relativo a reato estinto può essere elemento valutativo della moralità professionale di un candidato.
Peraltro, attesa la espressa e onnicomprensiva declaratoria sui precedenti penali imposta dalla normativa di gara, appare evidente che la questione giuridica che qui viene in rilievo non investe il tema del cosiddetto falso innocuo, e cioè della dichiarazione non veritiera resa però su un requisito irrilevante ai fini partecipativi, dato che tale questione suppone il riconoscimento di una limitata discrezionalità del dichiarante nel rilasciare la dichiarazione afferente i propri precedenti penali. Nel caso di specie, al contrario, in cui la normativa di gara imponeva ai concorrenti di dichiarare tutti i precedenti penali (a prescindere financo da eventuali declaratorie di estinzione o di riabilitazione), la dichiarazione difforme (in quanto omissiva di un precedente penale peraltro “specifico”) è da ritenere di per sé inaffidabile (Cons. Stato, V, 08.11.2012, n. 5693), per la sufficiente circostanza che non è conforme a quanto prescritto dal disciplinare di gara, questo indipendentemente dal contenuto dispositivo dell'art. 38 del Codice dei contratti pubblici e dalle interpretazioni giurisprudenziali a proposito della completezza o meno delle dichiarazioni funzionali a comprovare il possesso dei requisiti di ordine generale.
Nelle procedure di evidenza pubblica la completezza delle dichiarazioni e la loro stretta conformità alle prescrizioni della lex specialis di gara è già di per sé un valore normativo e perciò vincolante, anche perché consente -secondo i principi di buon andamento dell'amministrazione e di proporzionalità- una celere decisione sull'ammissione dei soggetti giuridici alla gara
(massima tratta da www.mediaconsult.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.12.2012 n. 6291 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il Consiglio di Stato, richiamando la disposizione di cui all’art. 6 della L. 241/1990, la quale ammette la generale possibilità di regolarizzazione delle dichiarazioni lacunose o della documentazione incompleta (c.d. soccorso istruttorio), ha affermato l’applicazione della disposizione anche alle procedure concorsuali aventi ad oggetto l’affidamento di contratti pubblici.
Peraltro, con specifico riferimento alla citata materia, il Collegio ha ribadito che tale applicazione incontra il limite della par condicio tra i concorrenti, per effetto della quale, non sarebbe possibile il ricorso al soccorso nei casi in cui l’utilizzazione valga a supplire l’inosservanza di adempimenti procedimentali significativi: il limite, quindi, sarebbe costituito dagli elementi essenziali della domanda i quali devono essere forniti autonomamente e direttamente dai concorrenti.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto la legittima applicazione del soccorso istruttorio “qualora gli atti tempestivamente prodotti contribuiscano a fornire ragionevoli indizi circa il possesso del requisito di partecipazione ad una procedura...", non invece qualora le regolarizzazioni e/o le integrazioni documentali si traducano nella possibilità di una sostituzione postuma di irregolarità gravi e insanabili, con la finalità di aggiramento delle prescrizioni poste a base di gara e imposte a pena di esclusione.
Ed ancora ha affermato il Collegio: “Il dovere di soccorso istruttorio, in base al quale le Amministrazioni possono invitare i concorrenti a completare o a fornire chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati, documenti e dichiarazioni presentati, è quindi subordinato, oltre che al rispetto di detti limiti, alla esistenza in atti di dichiarazioni che siano state effettivamente rese, ancorché non in modo pienamente intellegibile o senza il rispetto dei requisiti formali”.

Osserva la Sezione che ai sensi dell'art. 6 della L. n. 241 del 1990 è prevista la generale possibilità di chiedere la regolarizzazione delle dichiarazioni lacunose e della documentazione incompleta (c.d. soccorso istruttorio).
Anche se non è previsto un obbligo assoluto e incondizionato in tal senso, dovendo comunque essere rispettati alcuni limiti, quali quello della par condicio (che ne esclude l'utilizzazione suppletiva nel caso dell'inosservanza di adempimenti procedimentali significativi) ed il c.d. limite degli elementi essenziali (nel senso che la regolarizzazione non può essere riferita agli elementi essenziali della domanda), detta norma va necessariamente applicata dall'Amministrazione qualora gli atti tempestivamente prodotti contribuiscano a fornire ragionevoli indizi circa il possesso del requisito di partecipazione ad una procedura come quella che occupa non espressamente documentato, come nel caso di specie.
Il "dovere di soccorso istruttorio", in base al quale le Amministrazioni possono invitare i concorrenti a completare o a fornire chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati, documenti e dichiarazioni presentati, è quindi subordinato, oltre che al rispetto di detti limiti, alla esistenza in atti di dichiarazioni che siano state effettivamente rese, ancorché non in modo pienamente intellegibile o senza il rispetto dei requisiti formali.
Nel caso che occupa sono state presentate dal legale rappresentante della Gamesa copie delle STMG formalmente accettate (come risultante alla lettera L, delle istanze in cui era precisato che le soluzioni prodotte erano state “esplicitamente e definitivamente accettate”) e dichiarazioni relative alla allegazione di copia della STMG “esplicitamente accettata in via definitiva dal proponente” contenute nella elencazione degli allegati alle domande.
La circostanza che i richiami alla intervenuta accettazione fossero contenuti in una relazione tecnica sottoscritta (in due casi) dal solo progettista e non anche dal legale rappresentante della società e solo nella elencazione dei documenti da allegare alla istanza, è inidonea, secondo il Collegio, ad escludere la rilevanza di detti atti, considerato che gli effetti delle dichiarazioni erano comunque ascrivibili alla società e costituivano utili indizi tali da imporre il ricorso al soccorso istruttorio.
Né può ritenersi che sarebbe stata così violata la par condicio.
Il dovere di soccorso istruttorio previsto all’art. 6, lett. b), l. n. 241 del 1990, e il generale favore per la partecipazione, trovano infatti un limite insuperabile nell’esigenza di garantire la "par condicio" dei candidati. È, infatti, indubbio che il principio di "par condicio" risulterebbe violato se le opportunità di regolarizzazione, chiarimento o integrazione documentale si traducessero in occasione di aggiustamento postumo di irregolarità gravi e non sanabili, cioè in espediente per eludere le conseguenze associate dalla legge o dal bando all’inosservanza di prescrizioni tassative, imposte a pena di esclusione.
Nel caso che occupa la irregolarità che ha portato alla contestata declaratoria di improcedibilità non era assolutamente grave o non sanabile, considerato che la inderogabile necessità di allegare detto Modello 3/A già dalla fase di ammissione alla procedura non era esplicitamente affermata nel Disciplinare (che all’art. 9, punto 3, stabiliva che “Sono considerati elementi sostanziali della domanda di autorizzazione, e quindi non integrabili successivamente dalla data di presentazione della stessa: a) la soluzione tecnica minima generale (STMG) esplicitamente accettata in via definitiva dal proponente”), né imposta da altre fonti, sicché, in presenza degli indizi cui sopra si è fatto cenno, avrebbe potuto essere soddisfatta in sede di integrazione documentale ex art. 9, comma 2, del Disciplinare (massima tratta da www.mediaconsult.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.12.2012 n. 6248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il Giudice di prime cure ha accolto il ricorso erroneamente affermando che solo gli amministratori muniti dei poteri di rappresentanza siano tenuti a rendere la dichiarazione ex art. 38, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 163/2006, che solo l’insussistenza in concreto delle cause di esclusione può comportare la esclusione dalla gara e che comunque nel caso di specie la commissione di gara avrebbe dovuto fare uso del potere di soccorso.
Detto art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, nella formulazione introdotta dal d.l. n. 70/2011, si riferisce a tutti i soggetti che siano in grado di influire sulla onorabilità della persona giuridica per conto della quale operano e non solo agli amministratori muniti del potere di rappresentanza, secondo il più ristretto significato letterale, non essendo norma eccezionale né derogante ai principi generali; pertanto l’onere della dichiarazione de qua incombe su tutti i soggetti che abbiano il potere di indirizzare l’attività dell’impresa e di rappresentarla all’esterno, come comprovato dalla circostanza che detto articolo contempla anche il direttore tecnico, il socio unico ed in alcuni casi il socio di maggioranza.
Non poteva essere applicato al caso di specie il dovere di soccorso, atteso che la domanda di ammissione, secondo l’allegato A), avrebbe dovuto essere integrata e sottoscritta a pena di esclusione e che la carenza in tutto o in parte dei sopra citati documenti comportava la esclusione dalla gara, dovendo intendersi per carenza parziale la mancata produzione di anche uno solo di essi.
Osserva la Sezione che costituisce principio consolidato in giurisprudenza che l’aggiudicazione provvisoria è un mero atto endoprocedimentale, la cui autonoma impugnabilità si riconnette a una mera facoltà, e non ad un onere, del concorrente non aggiudicatario ed è comunque condizionata, ai fini della sua procedibilità, alla tempestiva impugnazione, con motivi aggiunti, anche dell'aggiudicazione definitiva che successivamente intervenga.
Infatti l'aggiudicazione definitiva non è un atto meramente confermativo od esecutivo di quella provvisoria, ma un provvedimento, che, anche quando recepisca integralmente i risultati dell'aggiudicazione provvisoria, postula una nuova ed autonoma valutazione, pur facendo parte della medesima sequenza procedimentale.

Osserva la Sezione che costituisce principio consolidato in giurisprudenza che l’aggiudicazione provvisoria è un mero atto endoprocedimentale, la cui autonoma impugnabilità si riconnette a una mera facoltà, e non ad un onere, del concorrente non aggiudicatario ed è comunque condizionata, ai fini della sua procedibilità, alla tempestiva impugnazione, con motivi aggiunti, anche dell'aggiudicazione definitiva che successivamente intervenga (Consiglio di Stato, ad. plen., 31.07.2012, n. 31; Consiglio di Stato, sez. V, 31.01.2012).
Infatti l'aggiudicazione definitiva non è un atto meramente confermativo od esecutivo di quella provvisoria, ma un provvedimento, che, anche quando recepisca integralmente i risultati dell'aggiudicazione provvisoria, postula una nuova ed autonoma valutazione, pur facendo parte della medesima sequenza procedimentale (Consiglio di Stato, sez. III, 07.05.2012, n. 2613).
L’art. 120, comma 5, del c.p.a., nel testo vigente all’epoca dei fatti di causa, disponeva che: “Per l'impugnazione degli atti di cui al presente articolo il ricorso e i motivi aggiunti, anche avverso atti diversi da quelli già impugnati, devono essere proposti nel termine di trenta giorni, decorrente dalla ricezione della comunicazione di cui all'art. 79 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, o, per i bandi e gli avvisi con cui si indice una gara, autonomamente lesivi, dalla pubblicazione di cui all'art. 66, c. 8, dello stesso decreto; ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell'atto”.
Nel caso che occupa è stato dedotto dalle appellanti e non contestato nel presente giudizio che il termine per l’impugnazione di detto provvedimento di aggiudicazione definitiva, di cui la parte controinteressata era a conoscenza sin dalla data del 12.5.2012, è inutilmente trascorso senza che la SECO s.r.l. sia insorta in sede giurisdizionale per ottenerne l’annullamento.
Deve quindi ritenersi, essendo idonea la comunicazione stessa a determinare l'elemento della ««piena conoscenza» di cui agli artt. 120 comma 5 e 41 c.p.a., che l’impugnativa proposta avverso l'aggiudicazione provvisoria sia divenuta improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse (massima tratta da www.mediaconsult.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.12.2012 n. 6231 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Rivelazioni di segreto di ufficio.
Il delitto di rivelazione di segreti d'ufficio riveste natura di reato di pericolo effettivo e non meramente presunto, nel senso che la rivelazione del segreto è punibile, non già in sé e per sé, ma in quanto suscettibile di produrre nocumento a mezzo della notizia da tenere segreta.
Il reato non sussiste, oltre che nella generale ipotesi della notizia divenuta di dominio pubblico, qualora notizie d'ufficio ancora segrete siano rivelate a persone autorizzate a riceverle (e cioè che debbono necessariamente esserne informate per la realizzazione dei fini istituzionali connessi al segreto di cui si tratta) ovvero a soggetti che, ancorché estranei ai meccanismi istituzionali pubblici, le abbiano già conosciute, fermo restando per tali ultime persone il limite della non conoscibilità dell'evoluzione della notizia oltre i termini dell'apporto da esse fornito.

La giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio condivide e ribadisce, configura il delitto di cui all'art. 326 cod. pen. quale reato di pericolo effettivo (e non meramente presunto) per gli interessi tutelati, nel senso che la rivelazione del segreto è punibile, non già in sé e per sé, ma in quanto suscettibile di produrre nocumento, alla pubblica amministrazione o ad un terzo, a mezzo della notizia da tenere segreta.
Ne consegue che il reato non sussiste, oltre che nella generale ipotesi della notizia divenuta di dominio pubblico, qualora notizie d'ufficio ancora segrete siano rivelate a persone autorizzate a riceverle (e cioè che debbono necessariamente esserne informate per la realizzazione dei fini istituzionali connessi al segreto di cui si tratta) ovvero a soggetti che, ancorché estranei ai meccanismi istituzionali pubblici, le abbiano già conosciute, fermo restando per tali ultime persone il limite della non conoscibilità dell'evoluzione della notizia oltre i termini dell'apporto da esse fornito (vedi Sez. 6, n. 9306 del 06/06/1994, Bandiera; Sez. 5, n. 30070 del 20/03/2009, C.).
Le ipotesi di non punibilità del reato di cui all'art. 326 cod. pen. per inoffensività del fatto risultano comunque limitate a casi assai circoscritti, essendo stato evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità che:
- il reato di rivelazione di segreti di ufficio si configura anche quando il fatto coperto dal segreto sia già conosciuto in un ambito limitato di persone e la condotta dell'agente abbia avuto l'effetto di diffonderlo in un ambito più vasto (Sez. 6: n. 929 del 05/12/1997, dep. 1998, Colandrea; Sez. 6, n. 35647 del 17/05/2004, Vietti);
- gli interessi tutelati dalla fattispecie incriminatrice in oggetto si intendono lesi allorché la divulgazione della notizia sia anche soltanto suscettibile di arrecare pregiudizio alla pubblica amministrazione o ad un terzo (Sez. 5, n. 46174 del 05/10/2004, Esposito; Sez. 1, n. 1265 del 29/11/2006, dep. 2007, Bria; Sez. 6, n. 5141 del 18/12/2007, dep. 2008, Cincavalli);
- quando è la legge a prevedere l'obbligo del segreto in relazione ad un determinato atto o in relazione ad un determinato fatto, il reato sussiste senza che possa sorgere questione circa l'esistenza o la potenzialità del pregiudizio richiesto, in quanto la fonte normativa ha già effettuato la valutazione circa l'esistenza del pericolo, ritenendola conseguente alla violazione dell'obbligo del segreto (Sez. 6, n. 42726 dell'11/10/2005, De Carolis);
- integra il concorso nel delitto di rivelazione di segreti d'ufficio la divulgazione da parte dell'extraneus del contenuto di informative dl reato redatte da un ufficiale di polizia giudiziaria, realizzandosi in tal modo una condotta ulteriore rispetto a quella dell'originario propalatore (Sez. 6, n. 42109 del 14/10/2009, Pezzuto)
(Corte di Cassazione, Sezz. Unite penali, sentenza 07.02.2012 n. 4694 - link a www.penale.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Abuso di ufficio.
Ai fini della configurabilità del reato di abuso d'ufficio, sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione.
Al riguardo, le Sezioni Unite hanno riaffermato che, ai fini della violazione di legge, rileva che l'atto di ufficio non sia stato posto in essere nel rispetto delle norme di legge che regolano un'attività ovvero che attribuiscono al pubblico ufficiale il “potere” di compierla.
Secondo la pronuncia “per qualsivoglia pubblica funzione autoritativa, in tanto può parlarsi di esercizio legittimo in quanto tale esercizio sia diretto a realizzare lo scopo pubblico in funzione del quale è attribuita la potestà, che del potere costituisce la condizione intrinseca di legalità”.
Secondo la giurisprudenza nettamente prevalente di questa Corte, si ha pertanto violazione di legge, rilevante a norma dell'art. 323 cod. pen., non solo quando la condotta di un qualsivoglia pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere (profilo della disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzionali che legittimano lo stesso esercizio del potere (profilo dell'attribuzione), cioè quando la condotta risulti volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito.
Anche in questa ipotesi si realizza un vizio della funzione legale, che è denominato sviamento di potere e che integra violazione di legge perché sta a significare che la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che legittima l'attribuzione.

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In tema di abuso di ufficio posta in essere da un giudice dell’esecuzione le Sezioni Unite penali [sentenza 10.01.2012 n. 155, Rv. 251498, Rossi] hanno affrontato una fattispecie relativa all'omessa riunione di trentacinque procedure esecutive complessivamente identiche quanto ai soggetti ed all'oggetto, in ciascuna delle quali partecipavano in forma di intervento le medesime trentacinque associazioni pignoranti, con conseguente abnorme lievitazione delle spese processuali liquidate dal giudice dell'esecuzione in favore delle associazioni creditrici facenti capo al coimputato, che agiva in proprio, quale difensore, e a nome delle predette associazioni di cui era rappresentante e titolare.
È stato, così, affermato il principio per cui,
ai fini della configurabilità del reato di abuso d'ufficio, sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione.
Al riguardo, le Sezioni Unite hanno riaffermato che,
ai fini della violazione di legge, rileva che l'atto di ufficio non sia stato posto in essere nel rispetto delle norme di legge che regolano un'attività ovvero che attribuiscono al pubblico ufficiale il “potere” di compierla.
Secondo la pronuncia “
per qualsivoglia pubblica funzione autoritativa, in tanto può parlarsi di esercizio legittimo in quanto tale esercizio sia diretto a realizzare lo scopo pubblico in funzione del quale è attribuita la potestà, che del potere costituisce la condizione intrinseca di legalità”.
Secondo la giurisprudenza nettamente prevalente di questa Corte,
si ha pertanto violazione di legge, rilevante a norma dell'art. 323 cod. pen., non solo quando la condotta di un qualsivoglia pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere (profilo della disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzionali che legittimano lo stesso esercizio del potere (profilo dell'attribuzione), cioè quando la condotta risulti volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito.
Anche in questa ipotesi si realizza un vizio della funzione legale, che è denominato sviamento di potere e che integra violazione di legge perché sta a significare che la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che legittima l'attribuzione
(in termini analoghi, tra le tante, Sez. 6, n. 5820 del 09/02/1998, Mannucci, Rv. 211110; Sez. 6, n. 28389 del 19/05/2004, Vetrella, Rv. 229594; Sez. 6, n. 12196 dell'11/03/2005, Delle Monache, Rv. 231194; Sez. 6, n. 38965 del 18/10/2006, Fiori, Rv. 235277; Sez. 6, n. 41402 del 25/09/2009, D'Agostino, Rv. 245287; Sez. 5, n. 35501 del 16/06/2010, De Luca, Rv. 248496; Sez. 6, n. 35597 del 05/07/2011, Barbera)”.
Per le Sezioni Unite tali arresti “valgono allorché si tratta di definire l'ambito dell'attività per legge doverosa dei giudici. La peculiarità della categoria sta nel fatto che per dettato costituzionale i giudici sono soggetti alla legge ed esercitano una funzione, quella giurisdizionale, che postula terzietà e imparzialità e si attua in un giusto processo il cui primo requisito è d'essere regolato dalla legge”.
Se si fa riferimento ai "doveri propri della pubblica funzione esercitata", si parla dunque anzitutto e inequivocabilmente di terzietà e di indifferenza rispetto agli interessi e ai soggetti coinvolti nel processo e di rispetto della legge, tassativa o ordinatoria che sia.
Neppure può indurre in errore, per il giudice, il riferimento che sovente si fa alla discrezionalità per indicare i suoi poteri di valutazione del merito. Se per discrezionalità s'intende, come per la pubblica amministrazione, la valutazione d'opportunità che attiene alla fase di ponderazione degli interessi, l'attività del giudice non ha di regola nulla di discrezionale. Il suo agire in funzione di arbitro e regolatore di una pretesa di parte non è connotato da libertà della scelta ma, come detto, dal principio di legalità ed è in tali termini sempre doveroso.
Altra cosa è la cosiddetta discrezionalità che coincide con la valutazione di merito che compete al giudice effettuare allorché si tratta di ricostruire la materialità del fatto (sostanziale o processuale) in vista della qualificazione di esso dal punto di vista della legge, cui in ogni caso consegue il cosiddetto “potere-dovere” -ossia il dovere che sorge da un potere (recte, da una potestà) a esercizio necessario- della applicazione della norma al caso concreto in essa sussumibile.
Diverso ancora è il giudizio secondo equità o la commisurazione equitativa del quantum, che non riguardano le situazioni in esame e che restano in ogni caso ancorati a parametri previsti dalla legge nonché al rispetto del principio di eguaglianza, comportante in primo luogo rispetto della “par condicio civium”.
La sentenza ricorda che tra gli specifici doveri del giudice rientrano quello di non ledere alcune parti procurando un vantaggio ingiusto ad altre e quello di vigilare che le parti si comportino con lealtà e probità, secondo quanto previsto dall'art. 88 cod. proc. civ., in relazione ai connessi poteri in tema di riduzione o condanna alle spese, ai sensi quantomeno dell'art. 92 cod. proc. civ.
(tratto da RASSEGNA DELLA GIURISPRUDENZA PENALE DI LEGITTIMITA’ - LA GIURISPRUDENZA DELLE SEZIONI UNITE E LE PRINCIPALI LINEE DI TENDENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE - Anno 2012 - CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - Ufficio del Massimario - gennaio 2013)

ATTI AMMINISTRATIVI: Il mancato rispetto del termine di trenta giorni previsto dal comma 3 dell’art. 2 della legge n. 241/1990 per la conclusione dei procedimenti amministrativi non è idoneo a determinare l’illegittimità del provvedimento "trattandosi di termine acceleratorio per la definizione del procedimento ed atteso che la legge non contiene alcuna prescrizione circa la sua eventuale perentorietà, né circa la decadenza della potestà amministrativa, né circa l’illegittimità del provvedimento adottato".
- in giurisprudenza è stato chiarito che il mancato rispetto del termine di trenta giorni previsto dal comma 3 dell’art. 2 della legge n. 241/1990 per la conclusione dei procedimenti amministrativi non è idoneo a determinare l’illegittimità del provvedimento "trattandosi di termine acceleratorio per la definizione del procedimento ed atteso che la legge non contiene alcuna prescrizione circa la sua eventuale perentorietà, né circa la decadenza della potestà amministrativa, né circa l’illegittimità del provvedimento adottato" (Cons. Stato Sez. VI, 25.06.2008, n. 3215; cfr. anche Sez. VI, 14.01.2009, n. 140) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 01.12.2010 n. 8371 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: I termini del procedimento amministrativo devono essere considerati ordinatori qualora non siano dichiarati espressamente perentori dalla legge.
In particolare, il termine per la conclusione del provvedimento previsto dall’art. 2 della l. n. 241 del 1990 è da ritenere sollecitatorio e non perentorio; onde la sua mancata osservanza non può dare luogo alla illegittimità del provvedimento finale, né esaurisce il potere dell’Amministrazione di provvedere.
Sul punto giova richiamare l’autorevole interpretazione del Giudice delle leggi secondo cui <<Questa Corte, attenendosi peraltro alla chiara lettera della legge n. 241 del 1990, ha già affermato che il termine di 30 giorni, stabilito in via suppletiva e in una misura tale da sollecitare l’amministrazione a provvedere, riguarda ogni tipo di procedimento, sia ad iniziativa d’ufficio che di parte, “a prescindere dall’efficacia ampliativa o restrittiva della sfera giuridica dei destinatari dell’atto”.
Nella stessa sentenza ha altresì precisato che la mancata osservanza del termine a provvedere non comporta la decadenza dal potere, ma vale a connotare in termini di illegittimità il comportamento della Pubblica amministrazione, nei confronti del quale i soggetti interessati alla conclusione del procedimento possono insorgere utilizzando, per la tutela della propria situazione soggettiva, tutti i rimedi che l’ordinamento appresta in via generale in simili ipotesi (dal risarcimento del danno all’esecuzione del giudicato che abbia accertato l’inadempienza della pubblica amministrazione)>>.

Anche il secondo motivo di gravame (con il quale si denuncia la violazione del termine perentorio per la conclusione del procedimento di autotutela) è infondato atteso che per costante giurisprudenza (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 20.04.2006, n. 2195; Cons. Stato, sez. VI 19.02.2003, n. 939; Cons. Stato, sez. IV, 11.06.2002, n. 3256) i termini del procedimento amministrativo (il cui avvio, nella fattispecie, era stato debitamente comunicato) devono essere considerati ordinatori qualora non siano dichiarati espressamente perentori dalla legge.
In particolare, il termine per la conclusione del provvedimento previsto dall’art. 2 della l. n. 241 del 1990 è da ritenere sollecitatorio e non perentorio; onde la sua mancata osservanza non può dare luogo alla illegittimità del provvedimento finale, né esaurisce il potere dell’Amministrazione di provvedere.
Sul punto giova richiamare l’autorevole interpretazione del Giudice delle leggi secondo cui <<Questa Corte, attenendosi peraltro alla chiara lettera della legge n. 241 del 1990, ha già affermato che il termine di trenta giorni, stabilito in via suppletiva e in una misura tale da sollecitare l’amministrazione a provvedere, riguarda ogni tipo di procedimento, sia ad iniziativa d’ufficio che di parte, “a prescindere dall’efficacia ampliativa o restrittiva della sfera giuridica dei destinatari dell’atto” (sentenza n. 262 del 1997). Nella stessa sentenza ha altresì precisato che la mancata osservanza del termine a provvedere non comporta la decadenza dal potere, ma vale a connotare in termini di illegittimità il comportamento della Pubblica amministrazione, nei confronti del quale i soggetti interessati alla conclusione del procedimento possono insorgere utilizzando, per la tutela della propria situazione soggettiva, tutti i rimedi che l’ordinamento appresta in via generale in simili ipotesi (dal risarcimento del danno all’esecuzione del giudicato che abbia accertato l’inadempienza della pubblica amministrazione)>> (Corte costituzionale, 17.07.2002, n. 355) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.02.2009 n.
599 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: La giurisprudenza prevalente ha individuato varie ipotesi nelle quali l’interesse pubblico all’annullamento è, come suol dirsi, in re ipsa e non richiede particolare motivazione, ivi comprendendo in particolare tutte le ipotesi in cui l’interesse sotteso all’attività di autotutela consiste nell’evitare l’esborso di denaro pubblico senza titolo.
Inoltre, il recupero di somme indebitamente erogate dalla Pubblica Amministrazione ai propri agenti ha carattere di doverosità e costituisce esercizio, ai sensi dell’art. 2033 c.c., di un vero e proprio diritto soggettivo a contenuto patrimoniale, non rinunziabile, in quanto correlato al conseguimento di quelle finalità di pubblico interesse, cui sono istituzionalmente destinate le somme indebitamente erogate.
La motivazione del provvedimento di recupero di somme indebitamente corrisposte deve ritenersi insita nell’acclaramento della non spettanza degli emolumenti percepiti dall’agente, senza che occorra una comparazione alcuna tra gli interessi coinvolti (quello pubblico e quello del privato), non vertendosi in ipotesi di interessi sacrificati, se non sotto il limitato aspetto delle esigenze di vita del debitore (cfr. anche Cons. Stato, Ad. Gen., parere 22.10.2007, n. 145 nell’adozione di atti di recupero di somme indebitamente corrisposte, l’Amministrazione non è tenuta a fornire un diffuso discorso giustificativo, essendo sufficiente che vengano chiarite le ragioni per le quali il percipiente non aveva diritto a quella determinata somma corrispostagli per errore).

Anche il terzo motivo di gravame (con il quale si denuncia l’omessa o carente motivazione circa l’effusione del potere di autotutela) è infondato atteso che la giurisprudenza prevalente ha individuato varie ipotesi nelle quali l’interesse pubblico all’annullamento è, come suol dirsi, in re ipsa e non richiede particolare motivazione, ivi comprendendo in particolare tutte le ipotesi in cui l’interesse sotteso all’attività di autotutela consiste nell’evitare l’esborso di denaro pubblico senza titolo (Cons. Stato, sez. IV, 22.10.2004, n. 6956; Id., sez. V, 09.02.2001, n. 581).
Inoltre, come recentemente osservato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 04.02.2008, n. 293) il recupero di somme indebitamente erogate dalla Pubblica Amministrazione ai propri agenti ha carattere di doverosità e costituisce esercizio, ai sensi dell’art. 2033 c.c., di un vero e proprio diritto soggettivo a contenuto patrimoniale, non rinunziabile, in quanto correlato al conseguimento di quelle finalità di pubblico interesse, cui sono istituzionalmente destinate le somme indebitamente erogate.
La motivazione del provvedimento di recupero di somme indebitamente corrisposte deve ritenersi insita nell’acclaramento della non spettanza degli emolumenti percepiti dall’agente, senza che occorra una comparazione alcuna tra gli interessi coinvolti (quello pubblico e quello del privato), non vertendosi in ipotesi di interessi sacrificati, se non sotto il limitato aspetto delle esigenze di vita del debitore (cfr. anche Cons. Stato, Ad. Gen., parere 22.10.2007, n. 145 nell’adozione di atti di recupero di somme indebitamente corrisposte, l’Amministrazione non è tenuta a fornire un diffuso discorso giustificativo, essendo sufficiente che vengano chiarite le ragioni per le quali il percipiente non aveva diritto a quella determinata somma corrispostagli per errore) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.02.2009 n.
599 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'art. 30 del d.P.R. n. 347 del 1983 stabilisce che i compensi incentivanti in favore degli impiegati siano erogati sulla base della preventiva formulazione di specifici programmi di attività delle singole unità organiche e della successiva attività di valutazione del risultato globale realizzato da ciascuna di esse, nonché dell’apporto individuale di ogni impiegato al raggiungimento del risultato stesso.
Non è legittimo, dunque, l’elargizione dell’erogazione in modo indistinto e sulla base della sola presenza in servizio del personale; ciò è, del resto, conforme alla ratio dell’istituto dell’incentivazione, che -mirando a conseguire l’efficienza dei servizi e ad elevare il livello di produttività- mal tollererebbe una distribuzione “a pioggia” di emolumenti.
Va osservato, altresì, che l’art. 8 del d.P.R. n. 333 del 1990 esclude expressis verbis la possibilità di erogazione generalizzata dei compensi incentivanti collegata solo alla presenza, ribadendo anzi la necessità di correlare la misura degli incentivi ad una valutazione delle singole prestazioni da effettuare (in mancanza di specifici parametri) tenendo conto dei risultati conseguiti rispetto ai programmi ed ai progetti-obiettivo predisposti.

Anche l’ultimo motivo di ricorso non merita di essere accolto. Ed invero, contrariamente a quanto osservato dagli appellanti, l'art. 30 del d.P.R. n. 347 del 1983 stabilisce che i compensi incentivanti in favore degli impiegati siano erogati sulla base della preventiva formulazione di specifici programmi di attività delle singole unità organiche e della successiva attività di valutazione del risultato globale realizzato da ciascuna di esse, nonché dell’apporto individuale di ogni impiegato al raggiungimento del risultato stesso; non è legittimo, dunque, l’elargizione dell’erogazione in modo indistinto e sulla base della sola presenza in servizio del personale (Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 23.10.1998, n. 626); ciò è, del resto, conforme alla ratio dell’istituto dell’incentivazione, che -mirando a conseguire l’efficienza dei servizi e ad elevare il livello di produttività- mal tollererebbe una distribuzione “a pioggia” di emolumenti.
Va osservato, altresì, che l’art. 8 del d.P.R. n. 333 del 1990 esclude expressis verbis la possibilità di erogazione generalizzata dei compensi incentivanti collegata solo alla presenza, ribadendo anzi la necessità di correlare la misura degli incentivi ad una valutazione delle singole prestazioni da effettuare (in mancanza di specifici parametri) tenendo conto dei risultati conseguiti rispetto ai programmi ed ai progetti-obiettivo predisposti (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.02.2009 n.
599 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Il conferimento di un incarico professionale di consulenza per gli aspetti geologici nell’ambito della redazione di un piano strutturale (urbanistico) e di un regolamento edilizio non rientra né nell’ambito della disciplina degli appalti di lavori pubblici (trattandosi invero di un’attività professionale –qualificata locatio operis– riferibile ad una scelta eminentemente fiduciaria del professionista), né in quella degli appalti di servizi (non rinvenendosi i caratteri propri dell’appalto di servizio ex art. 1655 C.C. e art. 3 del decreto legislativo 17.03.1995, n. 157, giacché l’appalto si distingue dal contratto d’opera in quanto l’appaltatore deve essere una media o grande impresa).
D’altra parte, anche se non è espressamente disciplinato il conferimento di tali incarichi fiduciari, in base ai principi di trasparenza e di buon andamento l’amministrazione può stabilire le regole per l’individuazione in concreto del soggetto più idoneo ed adeguato (per professionalità, esperienze, conoscenze tecniche) cui conferire il predetto incarico fiduciario, regole alle quali essa stessa è poi ineluttabilmente vincolata, proprio in ossequio ai principi fondamentali di legalità, imparzialità e buon andamento fissati dall’articolo 97 della Costituzione.
In tal caso, le prescrizioni contenute nel bando di gara e nella lettera d'invito costituiscono la lex specialis della gara e vincolano non solo i concorrenti, ma la stessa amministrazione che non conserva, perciò, alcun margine di discrezionalità nella loro concreta attuazione, né può disapplicarle (neppure nel caso in cui talune delle regole stesse risultino inopportune, salva la possibilità di far luogo, nell'esercizio del potere di autotutela, all'annullamento del bando).
Le preminenti esigenze di certezza, connesse allo svolgimento delle procedure concorsuali di selezione dei partecipanti, nonché la salvaguardia del valore della loro par condicio, impongono, poi, di ritenere di stretta interpretazione le clausole del bando di gara, per cui deve essere preclusa qualsiasi esegesi delle stesse non giustificata da un'obiettiva incertezza del loro significato ovvero palesante significati non desumibili dalla loro originaria formulazione; a tale principio si oppone quello della sanabilità delle (sole) irregolarità formali, di derivazione comunitaria e rilevante anche nell'ordinamento interno, che consente di attenuare il rilievo delle prescrizioni formali della procedura concorsuale, sempreché esse non incidano sull'assetto sostanziale degli interessi coinvolti nella procedura e non alterino le regole riguardanti la par condicio dei concorrenti e purché sussistano dubbi sulla esatta portata delle prescrizioni di gara ovvero le stesse possano dar luogo a più interpretazioni sugli adempimenti richiesti alle imprese.

Diversamente da quanto ritenuto dalla sentenza gravata, il conferimento di un incarico professionale di consulenza per gli aspetti geologici nell’ambito della redazione di un piano strutturale (urbanistico) e di un regolamento edilizio non rientra né nell’ambito della disciplina degli appalti di lavori pubblici (trattandosi invero di un’attività professionale –qualificata locatio operis– riferibile ad una scelta eminentemente fiduciaria del professionista, Cass. SS.UU. 19.10.1998, n. 10370; C.d.S., sez. IV, 27.11.2000, n. 6315; 28.08.2001, n. 4573; sez. VI, 04.09.2002, n. 4433), né in quella degli appalti di servizi (non rinvenendosi i caratteri propri dell’appalto di servizio ex art. 1655 C.C. e art. 3 del decreto legislativo 17.03.1995, n. 157, giacché l’appalto si distingue dal contratto d’opera in quanto l’appaltatore deve essere una media o grande impresa, C.d.S., sez. IV, 28.08.2001, n. 4573).
D’altra parte, anche se non è espressamente disciplinato il conferimento di tali incarichi fiduciari, in base ai principi di trasparenza e di buon andamento l’amministrazione può stabilire le regole per l’individuazione in concreto del soggetto più idoneo ed adeguato (per professionalità, esperienze, conoscenze tecniche) cui conferire il predetto incarico fiduciario, regole alle quali essa stessa è poi ineluttabilmente vincolata, proprio in ossequio ai principi fondamentali di legalità, imparzialità e buon andamento fissati dall’articolo 97 della Costituzione.
In tal caso, le prescrizioni contenute nel bando di gara e nella lettera d'invito costituiscono la lex specialis della gara e vincolano non solo i concorrenti, ma la stessa amministrazione che non conserva, perciò, alcun margine di discrezionalità nella loro concreta attuazione (ex pluribus, C.d.S., sez. IV, 21.05.2004, n. 3297; sez. V, 10.01.2005, n. 32; 13.11.2002, n. 6300), né può disapplicarle (neppure nel caso in cui talune delle regole stesse risultino inopportune, salva la possibilità di far luogo, nell'esercizio del potere di autotutela, all'annullamento del bando, C.d.S., sez. V, 30.12.2004, n. 8292; sez. VI, 01.10.2003, n. 5712; 14.01.2002, n. 166).
Le preminenti esigenze di certezza, connesse allo svolgimento delle procedure concorsuali di selezione dei partecipanti, nonché la salvaguardia del valore della loro par condicio, impongono, poi, di ritenere di stretta interpretazione le clausole del bando di gara, per cui deve essere preclusa qualsiasi esegesi delle stesse non giustificata da un'obiettiva incertezza del loro significato ovvero palesante significati non desumibili dalla loro originaria formulazione (C.d.S., sez. V, 15.04.2004, n. 2162); a tale principio si oppone quello della sanabilità delle (sole) irregolarità formali, di derivazione comunitaria e rilevante anche nell'ordinamento interno, che consente di attenuare il rilievo delle prescrizioni formali della procedura concorsuale, sempreché esse non incidano sull'assetto sostanziale degli interessi coinvolti nella procedura e non alterino le regole riguardanti la par condicio dei concorrenti (C.d.S., sez. V, 04.02.2004, n. 364) e purché sussistano dubbi sulla esatta portata delle prescrizioni di gara (C.d.S., sez. V, 25.01.2003, n. 357) ovvero le stesse possano dar luogo a più interpretazioni sugli adempimenti richiesti alle imprese (C.d.S., sez, V, 02.03.1999, n. 223)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.01.2008 n. 263 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: Mentre l’attività di indirizzo, riservata agli organi elettivi o politici del comune, può consistere anche nella fissazione delle linee generali da seguire e degli scopi da perseguire con l’attività di gestione, la scelta di un contraente nell’ambito di una procedura di gara (ovvero la scelta di professionisti forniti di titoli adeguati per la redazione di strumenti di pianificazione del territorio) costituisce una tipica attività di gestione, finalizzata al raggiungimento degli scopi fissati dall’organo politico, sicché rientra nell’ambito delle competenze dei dirigenti.
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Una volta intervenuto l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione (a firma de politico anziché del dirigente), per l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno deve risultare effettivamente sussistente l’elemento soggettivo quanto meno della colpa (riferibile all’apparato dell’amministrazione), in base ai principi generali applicabili anche quando si tratti della responsabilità amministrativa per la lesione dell’interesse legittimo.
Nel caso di specie, non è revocabile in dubbio che l’illegittimità dei provvedimenti impugnati è stata causata dalla evidente violazione delle regole di imparzialità e buon andamento dell’attività amministrativa (e delle prescrizioni dell’originario avviso di gara), sicché sussiste l’elemento psicologico della colpa.
La domanda risarcitoria risulta dunque fondata, atteso che, come risulta dal verbale n. 3 del 31.03.2001, l’offerta presentata dalla ... era stata considerata dalla commissione la migliore dal punto di vista complessivo (tecnico ed economico, secondo i criteri condivisi dalla stessa giunta).
Quanto alla concreta determinazione del danno risarcibile, la Sezione ritiene di dover accogliere la richiesta dell’appellante, fissando la misura del lucro cessante, in mancanza di qualsiasi contestazione da parte dell’amministrazione appellata ed in ragione della peculiarità dell’affidamento e dell’importo indicato nell’originario avviso, del 10% dell’offerta economica pari a lire 75.831.182 e quindi in lire 7.583.118, pari ad euro 3.916,35.
Trattandosi di una somma di valore, tale importo deve essere rivalutato all’attualità e sulla somma così rivalutata spettano gli interessi legali a decorrere dalla data di pubblicazione della presente decisione.

Ugualmente fondato è il motivo di appello con il quale l’appellante ha lamentato che i provvedimenti impugnati, in particolare le delibere di Giunta Municipale con cui era stato originariamente affidato e poi confermato l’incarico in questione alla Progeo Geologi Associati, erano affetti dal vizio di incompetenza.
Diversamente da quanto statuito dai primi giudici, il collegio ritiene che –mentre l’attività di indirizzo, riservata agli organi elettivi o politici del comune, può consistere anche nella fissazione delle linee generali da seguire e degli scopi da perseguire con l’attività di gestione- la scelta di un contraente nell’ambito di una procedura di gara (ovvero la scelta di professionisti forniti di titoli adeguati per la redazione di strumenti di pianificazione del territorio) costituisce una tipica attività di gestione, finalizzata al raggiungimento degli scopi fissati dall’organo politico, sicché rientra nell’ambito delle competenze dei dirigenti (C.d.S., sez. V, 09.09.2005, n. 4654; 21.11.2003, n. 7632).
Sotto tale profilo, risulta effettivamente sussistente il dedotto vizio di incompetenza della delibera della Giunta Municipale n. 180 dell’11.05.2001 e di quella successiva n. 411 del 16.11.2001, spettando al dirigente del Servizio urbanistico di prendere atto delle conclusioni istruttorie della commissione incaricata di valutare le offerte e di individuare l’offerta più idonea ed adeguata per il conferimento dell’incarico di consulenza geologica.
La delineata illegittimità dei provvedimenti di conferimento dell’incarico di consulenza alla Progeo Geologi Associati comporta che la Sezione deve esaminare la domanda risarcitoria avanzata, sin dal primo grado, dall’appellante.
Al riguardo la Sezione rileva che, una volta intervenuto l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione, per l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno deve risultare effettivamente sussistente l’elemento soggettivo quanto meno della colpa (riferibile all’apparato dell’amministrazione), in base ai principi generali applicabili anche quando si tratti della responsabilità amministrativa per la lesione dell’interesse legittimo.
Nel caso di specie, non potendo essere esaminato in questa sede il rilievo del comportamento della aggiudicataria (in assenza di una specifica domanda dell’appellante o dell’amministrazione), non è revocabile in dubbio che l’illegittimità dei provvedimenti impugnati è stata causata dalla evidente violazione delle regole di imparzialità e buon andamento dell’attività amministrativa (e delle prescrizioni dell’originario avviso di gara), sicché sussiste l’elemento psicologico della colpa.
La domanda risarcitoria risulta dunque fondata, atteso che, come risulta dal verbale n. 3 del 31.03.2001, l’offerta presentata dalla Geo Eco Progetti era stata considerata dalla commissione la migliore dal punto di vista complessivo (tecnico ed economico, secondo i criteri condivisi dalla stessa giunta).
Quanto alla concreta determinazione del danno risarcibile, la Sezione ritiene di dover accogliere la richiesta dell’appellante, fissando la misura del lucro cessante, in mancanza di qualsiasi contestazione da parte dell’amministrazione appellata ed in ragione della peculiarità dell’affidamento e dell’importo indicato nell’originario avviso, del 10% dell’offerta economica pari a lire 75.831.182 e quindi in lire 7.583.118, pari ad euro 3.916,35.
Trattandosi di una somma di valore, tale importo deve essere rivalutato all’attualità e sulla somma così rivalutata spettano gli interessi legali a decorrere dalla data di pubblicazione della presente decisione
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.01.2008 n. 263 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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