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AGGIORNAMENTO AL 29.04.2013 |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Abusi
in area a vincolo paesaggistico, sempre insanabili? Il Tar
si rivolge alla Corte Ue.
Il no a prescindere dall'effettiva verifica di compatibilità
sul sito «parrebbe configurare una ingiustificata –e
sproporzionata- lesione del diritto di proprietà garantito
dall'articolo 17 della Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione europea».
Il Collegio sottopone alla
Corte di giustizia dell'Unione europea la seguente questione
pregiudiziale: se l’art. 17 della Carta dei diritti
fondamentali dell’U.E., ed il principio di proporzionalità
come principio generale del diritto dell’U.E., ostino
all’applicazione di una normativa nazionale che, come l’art.
167, comma 4, lett. a), del Decreto legislativo n. 42 del
2004, esclude la possibilità del rilascio di una
autorizzazione paesaggistica in sanatoria per tutti gli
interventi umani comportanti l’incremento di superfici e
volumi, indipendentemente dall’accertamento concreto della
compatibilità di tali interventi con i valori di tutela
paesaggistica dello specifico sito considerato.
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1. PROCEDIMENTO PRINCIPALE
1.1. Esposizione del procedimento
Con ricorso notificato l’08.07.2011, e depositato il
successivo 11 luglio, il signor Cruciano Siragusa ha
impugnato l’ordinanza-ingiunzione n. 2640/VIII del 04/04/2011,
che gli ha ordinato, quale proprietario del terreno
interessato da un intervento edilizio realizzato in zona paesaggisticamente vincolata, “la remissione in pristino
dello stato dei luoghi mediante la dismissione di tutte le
opere abusivamente eseguite nel termine di giorni 120 dal
ricevimento della presente”.
Si è costituita in giudizio, per resistere al ricorso,
l’amministrazione intimata, senza svolgere difese scritte.
Con ordinanza n. 659/2011 è stata accolta la domanda di
sospensione cautelare degli effetti del provvedimento
impugnato, in ragione del pericolo di danno irreparabile
derivante dalla sua esecuzione nelle more del giudizio.
Il ricorso è stato definitivamente trattenuto in decisione
alla pubblica udienza del 10.10.2012.
1.2. Illustrazione dei fatti di causa
Il ricorrente è proprietario di un immobile in zona
paesaggisticamente vincolata, sul quale ha realizzato
modifiche non preventivamente assentite, in relazione alle
quali ha chiesto al Comune di Trabia (autorità competente
per il profilo urbanistico) la concessione edilizia in
sanatoria, previo nulla-osta della competente Soprintendenza
(autorità competente ad assicurare la tutela del paesaggio).
Quest’ultima ha emanato il provvedimento negativo oggi
impugnato: il quale è motivato nel senso che “le opere di
cui sopra non sono ammissibili all’accertamento della
compatibilità paesaggistica di cui agli artt. 167 e 181 del
D. L.vo n. 42/2004 e s.m.i. in quanto opere che hanno
costituito aumento del volume”.
2. DIRITTO NAZIONALE
2.1. La materia “tutela del paesaggio” nel
diritto italiano.
Secondo il diritto italiano, la tutela del paesaggio,
oggetto delle disposizioni e dei poteri amministrativi che
qui vengono in considerazione, è concettualmente e
giuridicamente distinta tanto dalla tutela dell’ambiente,
che dalle altre forme di poteri pubblici (e delle
corrispondenti nozioni giuridiche) incidenti sull’utilizzo
del territorio (come l’urbanistica).
Questa distinzione delle tutele territoriali ha un suo
preciso fondamento costituzionale, e comporta che una
medesima porzione di territorio sia soggetta ad una
pluralità di competenze amministrative in ragione della
diversità dell’interesse pubblico della cui cura ciascuna
competenza è attributaria: “L'ambito materiale cui
ricondurre le competenze relative ad attività che presentano
una diretta od indiretta rilevanza in termini di impatto
territoriale, va ricercato non secondo il criterio
dell'elemento materiale consistente nell'incidenza delle
attività in questione sul territorio, bensì attraverso la
valutazione dell'elemento funzionale, nel senso della
individuazione degli interessi pubblici sottesi allo
svolgimento di quelle attività, rispetto ai quali
l'interesse riferibile al “governo del territorio” e le
connesse competenze non possono assumere carattere di
esclusività, dovendo armonizzarsi e coordinarsi con la
disciplina posta a tutela di tali interessi differenziati”
(Corte costituzionale, sentenza n. 383 del 2005).
La pluralità delle tutele territoriali comporta la necessità
di una pluralità di titoli abilitativi relativi alla
esecuzione di una stessa opera in area soggetta a più tutele
(ad esempio, urbanistica e paesaggistica): in questo senso
l’art. 146, comma 4, del Decreto Legislativo 22.01.2004
n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio),
stabilisce che “L'autorizzazione paesaggistica costituisce
atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di
costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio”.
Nell’ambito di questa distinzione delle tutele territoriali,
mentre l’urbanistica ha riguardo all’ordinato ed armonico
sviluppo degli insediamenti in ambito locale; l’ambiente è
una nozione convenzionale con cui si sintetizza la
salvaguardia di elementi e risorse naturali (acqua, aria,
etc.); invece la tutela del paesaggio si caratterizza per la
sua valenza estetico-culturale (in questo senso la
giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, a
partire dalla sentenza n. 239 del 1982), nel senso che è
possibile limitare e vincolare fondi di proprietà privata
secondo la normativa paesaggistica, e con gli strumenti
amministrativi da questa previsti, solo a seguito di un
giudizio tecnico-discrezionale, che accerti che quell’area
ha caratteristiche estetiche che ne giustificano la tutela e
la protezione, in relazione alla storia culturale della
nazione (tanto che si è affermato che la nozione di
paesaggio concerne la dimensione spirituale, e non
materiale, del rapporto fra uomo e natura).
Proprio per questa sua specifica connotazione, l’intervento
dell’uomo sul territorio non sempre è incompatibile con la
tutela di quel paesaggio: anzi, la ragione del giudizio
culturale che rende rilevante paesaggisticamente un’area
altrimenti priva di specifico rilievo estetico, può essere
anche conseguenza dell’intervento umano.
Questo comporta che il tipo di vincolo gravante su aree
soggette a tutela paesaggistica ha riguardo alla forma
estetica del territorio, e non necessariamente comporta una
inibizione assoluta di attività, ma piuttosto il rispetto
della identità culturale del luogo (il che, con riferimento
alle attività costruttive, non si risolve necessariamente in
vincoli di inedificabilità, ma molto spesso in prescrizioni
legate all’utilizzo di specifici materiali, o colori, o
tecniche costruttive).
2.2. Il sistema dell’assenso alle attività private in
zona paesaggisticamente vincolata nel diritto italiano.
Il proprietario di un’area ricadente in zona vincolata
paesaggisticamente, non può eseguirvi alcun intervento in
assenza dell’autorizzazione dell’amministrazione competente.
L’autorizzazione viene rilasciata, o negata, a seconda che
l’intervento oggetto della stessa sia o meno compatibile con
i valori estetico-culturali che giustificano la specifica
protezione:
Art. 146, commi 1 e 2, Decreto Legislativo 22.01.2004
n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio)
“1. I proprietari, possessori o detentori a qualsiasi
titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico,
tutelati dalla legge, a termini dell'articolo 142, o in base
alla legge, a termini degli articoli 136, 143, comma 1,
lettera d), e 157, non possono distruggerli, né introdurvi
modificazioni che rechino pregiudizio ai valori
paesaggistici oggetto di protezione.
2. I soggetti di cui al comma 1 hanno l'obbligo di
presentare alle amministrazioni competenti il progetto degli
interventi che intendano intraprendere, corredato della
prescritta documentazione, ed astenersi dall'avviare i
lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta
l'autorizzazione”.
Tuttavia, se il proprietario non chiede l’autorizzazione, ma
l’opera realizzata è comunque compatibile con tali valori,
l’amministrazione può autorizzarla in sanatoria (art. 146,
comma 4, Decreto Legislativo 22.01.2004 n. 42 (Codice dei
beni culturali e del paesaggio): “Fuori dai casi di cui
all'articolo 167, commi 4 e 5, l'autorizzazione non può
essere rilasciata in sanatoria successivamente alla
realizzazione, anche parziale, degli interventi”.
2.3. Disposizioni nazionali oggetto del dubbio di
compatibilità con il diritto dell’U.E.
Art. 167, Decreto Legislativo 22.01.2004 n. 42 (Codice dei
beni culturali e del paesaggio)
“1. In caso di violazione degli obblighi e degli ordini
previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è
sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese,
fatto salvo quanto previsto al comma 4.
2. Con l'ordine di rimessione in pristino è assegnato al
trasgressore un termine per provvedere.
3. In caso di inottemperanza, l'autorità amministrativa
preposta alla tutela paesaggistica provvede d'ufficio per
mezzo del prefetto e rende esecutoria la nota delle spese.
Laddove l'autorità amministrativa preposta alla tutela
paesaggistica non provveda d'ufficio, il direttore regionale
competente, su richiesta della medesima autorità
amministrativa ovvero, decorsi centottanta giorni
dall'accertamento dell'illecito, previa diffida alla
suddetta autorità competente a provvedervi nei successivi
trenta giorni, procede alla demolizione avvalendosi
dell'apposito servizio tecnico-operativo del Ministero,
ovvero delle modalità previste dall'articolo 41 del decreto
del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, a
seguito di apposita convenzione che può essere stipulata
d'intesa tra il Ministero e il Ministero della difesa.
4. L'autorità amministrativa competente accerta la
compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al
comma 5, nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi
dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380.
5. Il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi
titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli
interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda
all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini
dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli
interventi medesimi. L'autorità competente si pronuncia
sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta
giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da
rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni.
Qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il
trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente
al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto
conseguito mediante la trasgressione. L'importo della
sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima.
In caso di rigetto della domanda si applica la sanzione
demolitoria di cui al comma 1. La domanda di accertamento
della compatibilità paesaggistica presentata ai sensi
dell'articolo 181, comma 1-quater, si intende presentata
anche ai sensi e per gli effetti di cui al presente comma.
6. Le somme riscosse per effetto dell'applicazione del comma
5, nonché per effetto dell'articolo 1, comma 37, lettera b),
n. 1), della legge 15.12.2004, n. 308, sono
utilizzate, oltre che per l'esecuzione delle rimessioni in
pristino di cui al comma 1, anche per finalità di
salvaguardia nonché per interventi di recupero dei valori
paesaggistici e di riqualificazione degli immobili e delle
aree degradati o interessati dalle rimessioni in pristino.
Per le medesime finalità possono essere utilizzate anche le
somme derivanti dal recupero delle spese sostenute
dall'amministrazione per l'esecuzione della rimessione in
pristino in danno dei soggetti obbligati, ovvero altre somme
a ciò destinate dalle amministrazioni competenti.”
2.3. Giurisprudenza nazionale in materia
La giurisprudenza nazionale è pacifica nel ritenere che
l’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 preclude l’autorizzazione
paesaggistica in sanatoria e, quindi, anche la sanatoria
edilizia (che presuppone l’avvenuto rilascio del titolo
paesaggistico), per abusi edilizi concretanti nuova
superficie utile o nuovo volume realizzato, senza che sia
necessario, ai fini dell’assentibilità, valutarne in
concreto la compatibilità paesaggistica. Pertanto l’abuso
edilizio in argomento, per sua natura, ai sensi di detta
norma non è regolarizzabile con provvedimento di sanatoria
(in questo senso, fra le tanti, TAR Toscana, sez. III 16.05.2012 n. 953).
3. DISPOSIZIONI DI DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA
3.1. La materia “tutela del paesaggio” nel
diritto dell’U.E.
Nel diritto dell’U.E. la materia della tutela del paesaggio
non è autonoma e concettualmente distinta rispetto alla
materia della tutela dell’ambiente, ma è parte di essa.
L’esplicita inclusione della tutela del paesaggio nella
nozione di ambiente rilevante ai fini del diritto dell’U.E.,
è contenuta sia nell’art. 2, n. 3), lett. a), della
Convenzione sull'accesso alle informazioni, la
partecipazione del pubblico ai processi decisionali e
l'accesso alla giustizia in materia ambientale («convenzione
di Aarhus»), approvata con Decisione 17.02.2005 n.
2005/370/CE (Decisione del Consiglio relativa alla
conclusione, a nome della Comunità europea, della
convenzione sull'accesso alle informazioni, la
partecipazione del pubblico ai processi decisionali e
l'accesso alla giustizia in materia ambientale), e
ratificata e trasposta dall’Unione europea con apposito
Regolamento (CE) n. 1367/2006 (c.d. Regolamento Aarhus); sia
nell’art. 2, n. 1), lett. a), della Direttiva 28.01.2003
n. 2003/4/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del
Consiglio sull'accesso del pubblico all'informazione
ambientale); sia, infine, negli articoli 1 e 3 della
Direttiva 13.12.2011, n. 2011/92/UE (Direttiva del
Parlamento europeo e del Consiglio concernente la
valutazione dell'impatto ambientale di determinati progetti
pubblici e privati).
La materia dell’ambiente è materia di competenza dell’U.E.,
ai sensi dell’art. 3, par. 3, e dell’art. 21, par. 2, lett.
f), del Trattato sull’Unione europea; nonché degli articoli
4 [par. 2, lett. e)], 11, 114 e 191 del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea.
3.2. La tutela del diritto di proprietà nel diritto
dell’U.E.
Art. 17, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali
dell’U.E.: “Ogni persona ha il diritto di godere della
proprietà dei beni che ha acquisito legalmente, di usarli,
di disporne e di lasciarli in eredità. Nessuna persona può
essere privata della proprietà se non per causa di pubblico
interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro
il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la
perdita della stessa. L'uso dei beni può essere regolato
dalla legge nei limiti imposti dall'interesse generale”.
4. ARGOMENTI ESSENZIALI DELLE PARTI NEL PROCEDIMENTO
PRINCIPALE
Il ricorrente, nel primo motivo, non contesta che un
aumento di volumi sia stato realizzato, ma lo qualifica come
corpo tecnico assentito sul piano urbanistico dal Comune.
In base al disposto del citato art. 167, comma 4, lett. a),
del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, la circostanza è del
tutto irrilevante: l’incremento di volumetria è di ostacolo
alla sanatoria paesaggistica dell’immobile, a nulla
rilevando in contrario l’autonoma –e soggetta a diversi
parametri normativi- valutazione urbanistica di competenza
dell’autorità comunale.
E’ dunque pacifico che l’incremento di volumetria preclude –secondo la disposizione della cui compatibilità con il
diritto dell’U.E. si dubita- l’accertamento di
compatibilità paesaggistica, e che il primo motivo di
ricorso, in applicazione di tale disposizione, dovrebbe
essere dichiarato infondato.
Ciò posto, si tratta di stabilire quale debba essere la
sorte del manufatto.
Sotto questo profilo, con il secondo motivo si deduce
ulteriore violazione del citato art. 167 del d. lgs.
42/2004, ed altro.
Il ricorrente lamenta una violazione del principio di
proporzionalità nell’ordine di demolizione di opere non
sanabili, in relazione alla circostanza che questo sia stato
adottato senza valutare –avuto peraltro riguardo al caso di
specie– la possibilità di applicare la diversa e meno
invasiva sanzione pecuniaria.
La sorte di questo secondo motivo di censura è strettamente
legata alla decisione sul primo (a sua volta dipendente
dalla applicabilità o meno della disposizione su cui si
solleva il dubbio interpretativo): nel senso che
l’esclusione dalla sanatoria (in ragione dell’astratta
tipologia di intervento), esclude –anche secondo
l’interpretazione giurisprudenziale, assolutamente pacifica,
che si è richiamata- l’applicazione della più mite sanzione
pecuniaria (non demolitoria).
5. ILLUSTRAZIONE DEI MOTIVI DEL RINVIO PREGIUDIZIALE
5.1. Preliminarmente, si osserva che la già
indicata inclusione della materia oggetto del presente
giudizio (paesaggio) fra quelle di competenza dell’U.E.
(ambiente), induce il Collegio a sollevare la questione
pregiudiziale relativa al possibile contrasto fra l’indicata
disposizione di legge italiana, e le disposizioni del
diritto dell’U.E. che si stanno per indicare.
La normativa italiana che regola l’autorizzazione
paesaggistica non può infatti configgere con il primato del
diritto dell’U.E. che regola il bilanciamento fra tutela
dell’ambiente e interessi antagonisti, qualora questo
dovesse essere interpretato nel senso che si sta per
prospettare.
5.2. Le censure proposte del ricorrente, se il
Tribunale dovesse fare applicazione della disposizione
costituente parametro normativo del potere esercitato,
dovrebbero essere respinte.
Il citato art. 167, d.lgs. 42/2004 prevede infatti che per
ogni possibile forma di abuso paesaggistico venga comminata
la sanzione demolitoria, tranne che nel caso di accertata
compatibilità paesaggistica (che, come ricordato, per
l’ipotesi di aumento di volumetria è esclusa
indipendentemente dal concreto accertamento della lesione al
paesaggio): nel qual caso si fa luogo ad applicazione di una
sanzione solo pecuniaria.
Se si tiene conto che nel sistema della tutela paesaggistica
i vincoli alle attività private non sono necessariamente dei
vincoli di inedificabilità assoluta, si ha che non ogni
attività edificatoria, in tesi anche comportante aumento di
volumetria, sia lesiva sempre e comunque dei valori tutelati
dalla normativa paesaggistica.
L’accertamento, in altre parole, e la conseguente
possibilità di sanatoria dietro pagamento di una sanzione
pecuniaria, andrebbe operato in concreto, senza la rigida,
astratta e presuntiva esclusione delle opere comportanti
“creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di
quelli legittimamente realizzati”: giacché anche in tal caso
la tutela del paesaggio potrebbe essere, ad una valutazione
concreta, compatibile con il mantenimento dell’opera.
5.3. La disposizione italiana indicata, pertanto,
nell’escludere in modo presuntivo una categoria di opere
dall’accertamento di compatibilità, assoggettandole alla
sanzione demolitoria, parrebbe configurare una
ingiustificata –e sproporzionata- lesione del diritto di
proprietà garantito dall’articolo 17 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea: ove questa fosse
interpretata nel senso che i sacrifici al diritto dominicale
possono essere imposti solo a seguito di un accertamento
della effettiva –e non solo astratta- esistenza di un
interesse antagonista.
L’art. 17 della Carta, infatti, tutela il diritto di
proprietà, l’uso ed il godimento dei beni legalmente
acquisiti, con il solo limite della cura dell’ “interesse
generale”.
Questo sembrerebbe significare che il limite al godimento
possa derivare solo dalla effettiva funzionalizzazione
dell’uso del bene privato alla tutela di interessi
antagonisti (come quello alla protezione del paesaggio), se
e nella misura in cui esista un reale contrasto fra l’uso
che il proprietario intenda farne, e l’effettiva necessità
di preservare l’integrale forma del territorio a protezione
di un interesse rispetto al quale la tutela della proprietà
diventa recessiva.
Questo giudizio dunque sembrerebbe comportare, secondo le
indicazioni della stessa giurisprudenza della Corte di
Giustizia (che sarà di seguito richiamata) resa in materia
analoga, un duplice test: l’individuazione in astratto
dell’esistenza e della natura dell’interesse antagonista (il
che nel caso dedotto non è in discussione); e l’accertamento
in concreto della incompatibilità fra l’uso del bene privato
e la tutela di quell’interesse (che invece difetta nella
fattispecie all’esame di questo Tribunale amministrativo).
Il ricorso, da parte del legislatore nazionale, a meccanismi
presuntivi, espone invece i beni di proprietà privata a
radicali limitazioni del loro uso, senza che sia accertata
(e, dunque, con la possibilità che non sussista) una reale
necessità di tali limitazioni a tutela di interessi diversi
da quello del proprietario.
In questo senso la disposizione nazionale in esame
sembrerebbe ostare anche al principio di proporzionalità
[articoli 5 e 12 del Trattato sull’Unione europea; art. 296
del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea;
Protocollo (n. 2) sull'applicazione dei principi di
sussidiarietà e di proporzionalità, allegato al Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea], inteso quale principio
generale del diritto dell’U.E.: la demolizione del
manufatto, conseguente all’applicazione della disposizione
stessa, sarebbe infatti una sanzione radicale che prescinde
dall’accertamento in concreto di una effettiva lesione del
bene-interesse tutelato (il paesaggio), dal momento che
anche costruzioni comportanti incremento di superfici o
volumi possono essere, ad un accertamento
tecnico-discrezionale esperito dalla competente autorità,
non contrastanti con il paesaggio circostante.
In assenza di accertamento, la sanzione della demolizione
dell’immobile, in luogo della sanzione meramente pecuniaria,
appare infatti sproporzionata rispetto a una violazione che
è sicuramente tale sul piano solo formale (dal momento che
il manufatto è stato costruito senza autorizzazione
preventiva), ma la cui lesività rispetto al paesaggio non è
stata oggetto di accertamento sul piano sostanziale, e
pertanto potrebbe anche non sussistere: con la conseguenza,
in tal caso, che dopo la demolizione il proprietario
potrebbe ricostruire l’immobile con le stesse
caratteristiche di sagoma e volume, dotandosi stavolta di
autorizzazione preventiva.
5.4. Sulla questione interpretativa che si pone, non
esistono precedenti specifici: la questione
d’interpretazione del diritto UE non è soltanto controversa,
ma che è anche relativa alla portata del principio generale
del diritto UE di proporzionalità rispetto
all’interpretazione del diritto derivato e ai rapporti fra
questo e la garanzia del diritto di proprietà immaginata
nella Carta di Nizza.
La Corte di Giustizia, come si è accennato, ha già affermato
(nella recente sentenza 15.01.2013, C-416/10, Križan)
che “il diritto di proprietà non si presenta quale
prerogativa assoluta, bensì deve essere considerato in
rapporto alla sua funzione sociale. Ne consegue che possono
essere apportate restrizioni all’esercizio di questo
diritto, purché tali restrizioni rispondano effettivamente
ad obiettivi di interesse generale e non costituiscano,
rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato
e inaccettabile che leda la sostanza stessa del diritto così
garantito” (punto 113 della motivazione).
La sentenza citata non riguarda un caso identico a quello
oggetto del presente giudizio: dal momento che concerne un
conflitto fra proprietà e ambiente, e non fra proprietà e
paesaggio (anche se, come si è detto, dal punto di vista del
diritto dell’U.E. le due nozioni sul piano disciplinare si
riconducono alla stessa materia); e che riguarda l’istituto
della valutazione d’impatto ambientale, e non
l’autorizzazione paesaggistica (i due istituti, ancorché
legati da un rapporti di continenza -perché entrambi, anche
la v.i.a., hanno riguardo alla preventiva verifica di
compatibilità con il paesaggio degli insediamenti, ma la
v.i.a. si applica solo oltre una certa soglia dimensionale,
mentre l’autorizzazione paesaggistica è richiesta per tutti
gli interventi in area paesaggisticamente vincolata- non
sono infatti identici).
Tuttavia, essa contiene delle indicazioni sul piano dei
princìpi che possono essere utili, sul piano interpretativo,
anche in questa fattispecie: quanto meno perché pongono le
premesse del dubbio di compatibilità oggetto della presente
ordinanza.
La sentenza Križan ha infatti svolto in proposito un
ragionamento logico-giuridico analogo a quello che si è
indicato in precedenza, e che induce il Collegio a dubitare
della compatibilità del citato art. 167 con diritto dell’U.E..
Per un verso, infatti, ha affermato, interrogandosi sulla
prima dimensione del problema sopra indicato
(l’individuazione in astratto dell’esistenza e della natura
dell’interesse antagonista), che “Per quanto concerne gli
obiettivi di interesse generale precedentemente menzionati,
risulta da una giurisprudenza costante che la tutela
dell’ambiente figura tra tali obiettivi ed è dunque idonea a
giustificare una restrizione dell’esercizio del diritto di
proprietà” (punto 114 della motivazione).
Per altro verso, però, occupandosi del secondo profilo
(accertamento in concreto della incompatibilità fra l’uso
del bene privato e la tutela dell’interesse antagonista), ha
chiarito che “Per quanto riguarda la proporzionalità della
lesione del diritto di proprietà in questione, allorché è
possibile accertare una lesione siffatta, è sufficiente
constatare che la direttiva 96/61 trova un punto di
equilibrio tra le esigenze di tale diritto e quelle connesse
alla protezione dell’ambiente” (punto 115 della
motivazione).
Dunque la Corte ha riconosciuto legittimo, e proporzionale,
il sacrificio del diritto di proprietà, a condizione che sia
“possibileaccertare una lesione siffatta”.
Le disposizioni nazionali che, in materia di tutela del
paesaggio, stabiliscono invece in via presuntiva, generale
ed astratta, una simile lesione, ad avviso del Collegio
potrebbero non superare il test di proporzionalità indicato
dalla Corte di Giustizia come garanzia della compatibilità
della plurime istanze coinvolte nell’uso del territorio, ove
i princìpi espressi dalla giurisprudenza Križan dovessero
applicarsi anche a casi come quello oggetto del presente
giudizio, e pongono pertanto un serio dubbio di conformità
delle stesse rispetto al diritto dell’U.E., in relazione ai
profili sopra indicati.
5.5.
Questa conclusione presuppone però un’interpretazione del
diritto dell’U.E., e segnatamente delle disposizioni
richiamate, che allo stato non è pacifica, e della quale
pertanto il Collegio ritiene di investire la Corte di
Giustizia.
In altre parole, il Collegio si trova ad applicare una
disciplina nazionale che non consente l’esercizio della
discrezionalità amministrativa per perseguire la ricerca di
un adeguato bilanciamento fra l’interesse pubblico alla
tutela del paesaggio e il diritto di proprietà.
Il Collegio ha pertanto necessità di sapere se è corretto
ritenere che nel diritto UE l’adeguato bilanciamento fra
questi due “beni giuridici” sia definito: a) dalla Carta dei
diritti; b) dal principio di proporzionalità; c) dalle
direttive che disciplinano la tutela del paesaggio e
dell’ambiente, che si sono richiamate.
Il Collegio chiede pertanto di sapere se è corretto ritenere
che tali fonti impongano agli Stati membri di disciplinare i
limiti al diritto di proprietà discendenti dall’esigenza di
tutelare il paesaggio, nel senso di prevedere (o quanto meno
di non impedire) l’attribuzione di un potere discrezionale
dell’amministrazione tale che essa sia tenuta a valutare in
concreto e caso per caso se sussiste la necessità di apporre
limiti al diritto di proprietà in nome della tutela del
paesaggio, e di adottare soltanto le misure strettamente
necessarie a perseguire la finalità di tutela del paesaggio.
Il Collegio sottopone pertanto alla Corte
di giustizia dell'Unione europea la seguente questione
pregiudiziale: se l’art. 17 della Carta dei diritti
fondamentali dell’U.E., ed il principio di proporzionalità
come principio generale del diritto dell’U.E., ostino
all’applicazione di una normativa nazionale che, come l’art.
167, comma 4, lett. a), del Decreto legislativo n. 42 del
2004, esclude la possibilità del rilascio di una
autorizzazione paesaggistica in sanatoria per tutti gli
interventi umani comportanti l’incremento di superfici e
volumi, indipendentemente dall’accertamento concreto della
compatibilità di tali interventi con i valori di tutela
paesaggistica dello specifico sito considerato
(TAR
Sicilia-Palermo, Sez. II,
ordinanza 10.04.2013 n. 802 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
Le piazze sono beni culturali a prescindere dalla
specifica dichiarazione di interesse culturale. |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Acquasaliente,
Le piazze sono beni culturali a prescindere dalla
specifica dichiarazione di interesse culturale (23.04.2013
- link a http://venetoius.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 10, quarto comma – lett. g), del
Codice dei beni culturali e del paesaggio, secondo
le più recenti e condivisibili interpretazioni della
giurisprudenza amministrativa e costituzionale,
discende la riconduzione ex lege alla categoria dei
beni culturali delle piazze pubbliche, appartenenti
all’ente territoriale e realizzate da oltre
settant’anni, che presentano interesse artistico o
storico, indipendentemente dall’avvio del
procedimento di verifica e dalla specifica
dichiarazione di interesse culturale prevista dal
successivo art. 13 del Codice, con la conseguente
immediata applicazione del regime di tutela
disciplinato dalla Parte Seconda del Codice.
Passando ai profili strettamente sostanziali, si è
visto che il diniego opposto dal Comune di Trani si
fonda su due distinte e concorrenti motivazioni: il
contrasto con le prescrizioni di tutela della Chiesa
di Ognissanti impartite dalla Soprintendenza ed il
contrasto con le distanze minime prescritte dal
regolamento comunale approvato con delibera n. 5 del
07.02.2008.
Il Collegio ritiene che il primo profilo assuma
rilievo assorbente e che le censure ad esso riferite
siano infondate.
Dalla documentazione fotografica versata in atti è
agevole constatare che l’occupazione richiesta dalla
ricorrente, con tavoli, sedie ed ombrelloni,
determinerebbe un ingombro non trascurabile ed un
impatto visivo notevole sull’area pertinenziale
della Chiesa di Ognissanti.
Come correttamente affermato dalla Soprintendenza
nella memoria depositata in giudizio il 20.12.2012,
le prescrizioni ed i divieti imposti a salvaguardia
della cornice ambientale in cui è inserita la Chiesa
si fondano non solo, e non tanto, sul potere di
tutela indiretta di cui agli artt. 45-ss. del d.lgs.
n. 42 del 2004, bensì sull’immediata sottoposizione
a vincolo della piazza e della pubblica via
antistante all’abside della Chiesa, ai sensi
dell’art. 10, quarto comma – lett. g), del Codice
dei beni culturali e del paesaggio.
Da quest’ultima norma, secondo le più recenti e
condivisibili interpretazioni della giurisprudenza
amministrativa e costituzionale, discende infatti la
riconduzione ex lege alla categoria dei beni
culturali delle piazze pubbliche, appartenenti
all’ente territoriale e realizzate da oltre
settant’anni, che presentano interesse artistico o
storico, indipendentemente dall’avvio del
procedimento di verifica e dalla specifica
dichiarazione di interesse culturale prevista dal
successivo art. 13 del Codice, con la conseguente
immediata applicazione del regime di tutela
disciplinato dalla Parte Seconda del Codice (cfr.,
in questi termini: Cons. Stato, sez. VI, 24.01.2011,
n. 482; in precedenza, Corte cost., 08.07.2010 n.
247; da ultimo, si veda la Direttiva 11.10.2012 del
Ministro per i Beni e le Attività Culturali,
concernente “l’esercizio di attività commerciali
e artigianali su aree pubbliche in forma ambulante o
su posteggio, nonché di qualsiasi altra attività non
compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio
culturale”).
Su tale presupposto, il divieto imposto dalla
Soprintendenza risulta congruamente motivato in
riferimento all’esigenza di tutelare la piena
fruizione, anche visiva, del monumento
ecclesiastico, tenuto conto che i tavoli e gli
ombrelloni dell’esercizio di ristorazione sarebbero
stati collocati a ridosso dell’abside, in posizione
ben visibile dalla via Banchina del Porto.
Al riguardo, neppure può essere accolta la censura
di eccesso di potere per disparità di trattamento,
poiché dalla documentazioni fotografica si desume
che l’occupazione di suolo pubblico autorizzata alla
contigua osteria “La Banchina” non presenta
identico impatto visivo sull’abside della Chiesa,
rispetto al quale assume una posizione assai più
defilata.
In conclusione, il parere negativo espresso dalla
Soprintendenza è immune dai vizi dedotti dalla
ricorrente.
Ne discende, per tale profilo, la legittimità del
diniego di occupazione disposto dal Comune di Trani
(TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 01.03.2013 n. 307 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: a)
ai sensi del comma 1 dell’art. 10 le piazze
pubbliche sono “beni culturali” in quanto complesso
appartenente ad ente pubblico territoriale;
b) la dichiarazione di cui all’art. 13 del medesimo
d.lgs. n. 42 del 2004 è richiesta, dalla lettera a)
del comma 3 del citato art. 10, per le cose immobili
“appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati
al comma 1”;
c) di conseguenza per le pubbliche piazze, in quanto
non appartenenti a soggetti diversi da quelli
indicati nel comma 1, deve ritenersi che, ai sensi
del comma 4 dell’art. 10, non siano comprese fra le
cose richiedenti la dichiarazione di cui all’art. 13
e che, quindi, presentino ex se interesse
storico–artistico, tutelato come tale dalla
Soprintendenza di Stato in ragione di tale qualità.
... per la riforma della sentenza breve del TAR
PUGLIA-BARI: SEZIONE III n. 03841/2010, resa tra le
parti, concernente RICHIESTA PERMESSO DI COSTRUIRE
PER L'INSTALLAZIONE DI UNA TETTOIA E PARETI IN PVC
ANNESSI AD ATTIVITA' DI BAR-RISTORAZIONE
...
La Società “Borghese S.a.s. Di De Felice Mirella
& C.”, con il ricorso n. 922 del 2010 proposto
al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia,
ha chiesto l’annullamento:
- con il ricorso originario: del provvedimento del
Comune di San Severo, n. 0019466 del 2009, nella
parte in cui subordina al rilascio del parere
favorevole della Soprintendenza per i beni
architettonici e paesaggistici per le Province di
Bari, Barletta-Andria-Trani e Foggia la richiesta di
permesso di costruire per l’installazione di tettoia
in legno, copertura e pareti di chiusura in tendaggi
annessi a bar-ristorazione in piazza Aldo Moro, n.
31-32; del provvedimento delle detta Soprintendenza,
MBAC-SPAB BA STP 002396 del 2010, avente ad oggetto
“Tutela ai sensi dell’art. 10, comma 4, lett. g),
del D.gs. 42/2004 –Lavori di montaggio di pensilina
in legno-Autorizzazione ai sensi dell’art. 21 del
D.lgs. 42/2004”;
- con motivi aggiunti: dell’ordinanza del Comune di
San Severo, n. 108 del 2010, con il quale è stato
ingiunto alla Società ricorrente, entro il termine
perentorio di giorni 10, la rimozione della tettoia
con struttura prefabbricata.
...
Il Tar, con sentenza n. 3841 del 2010 ha respinto il
ricorso condannando la ricorrente al pagamento delle
spese del giudizio in favore del Comune di San
Severo e delle Amministrazioni statali costituitesi.
Con l’appello in epigrafe è stato chiesto
l’annullamento della sentenza di primo grado e, per
l’effetto, l’accoglimento del ricorso di primo
grado, con l’annullamento dei provvedimenti con esso
impugnati.
Nell’appello, in censura della sentenza impugnata,
si deduce che:
- l’art. 10 del d.lgs. n. 42 del 2004, nel comma 1,
include nella definizione di “beni culturali”
le “cose immobili e mobili appartenenti allo
Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici
territoriali…che presentano interesse artistico,
storico, archeologico o etnoantropologico”, nel
comma 3 dispone che “Sono altresì beni culturali,
quando sia intervenuta la dichiarazione prevista
dall’art. 13… a) le cose immobili e mobili che
presentano interesse artistico, storico,
archeologico o etnoantropologico particolarmente
importante, appartenenti a soggetti diversi da
quelli indicati al comma 1” e, nel comma 4,
prevede che “Sono comprese tra le cose indicate
al comma 1 e al comma 3, lettera a)….g) le pubbliche
piazze, vie, strade, e altri spazi aperti urbani di
interesse artistico o storico”;
- ne consegue, si sostiene, che l’attribuzione alla
pubblica piazza di cui si tratta della qualifica di
interesse artistico o storico richiede la
dichiarazione di cui all’art. 13 citato e che, non
essendovi stata tale dichiarazione la Soprintendenza
ha agito in difetto di attribuzione.
...La censura dedotta con l’appello non può essere
accolta.
Dalla normativa in materia, riportata in precedenza,
emerge con chiarezza che:
a) ai sensi del comma 1 dell’art. 10 le piazze
pubbliche sono “beni culturali” in quanto
complesso appartenente ad ente pubblico
territoriale;
b) la dichiarazione di cui all’art. 13 del medesimo
d.lgs. n. 42 del 2004 è richiesta, dalla lettera a)
del comma 3 del citato art. 10, per le cose immobili
“appartenenti a soggetti diversi da quelli
indicati al comma 1”;
c) di conseguenza per le pubbliche piazze, in quanto
non appartenenti a soggetti diversi da quelli
indicati nel comma 1, deve ritenersi che, ai sensi
del comma 4 dell’art. 10, non siano comprese fra le
cose richiedenti la dichiarazione di cui all’art. 13
e che, quindi, presentino ex se interesse
storico–artistico, tutelato come tale dalla
Soprintendenza di Stato in ragione di tale qualità.
Per quanto considerato l’appello è infondato e deve
essere perciò respinto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.01.2011 n. 482 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
PROGETTO DI LEGGE 19.04.2013 N. 0028
di iniziativa del Presidente della Giunta regionale
(deliberazione di G.R. 16.04.2013 n. 34) avente per oggetto
“Modifiche alla l.r. 12/2005 – Legge per il governo del
territorio” (tratto da
www.consiglio.regione.lombardia.it). |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
FONDO PENSIONE “PERSEO” NON FACCIAMOCI INGANNARE
(CSA di Milano,
nota 22.04.2013). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
LAVORI PUBBLICI: G.U.
24.04.2013 n. 96 "Regolamento recante le modalità di
redazione dell’elenco anagrafe delle opere pubbliche
incompiute, di cui all’articolo 44 -bis del decreto-legge
06.12.2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla
legge 22.12.2011, n. 214" (Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti,
decreto 13.03.2013 n. 42). |
NOTE, CIRCOLARTI E
COMUNICATI |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
Oggetto: Disposizioni del decreto legge 18.10.2012, n.
179, convertito con modificazioni dalla L. 17.12.2012, n.
221 in tema di accessibilità dei siti web e servizi
informatici. Obblighi delle pubbliche Amministrazioni
(Agenzia per l'Italia digitale,
circolare 29.03.2013 n. 61/2013).
---------------
Si leggano, altresì, i seguenti allegati:
►
modello A;
►
modello B. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto:
indicazioni concernenti le modalità di rispetto degli
obblighi di gestione degli oli usati di cui all'art. 183,
comma 1, lett. c), del decreto legislativo 03.04.2006, n.
152, e successive modificazioni e integrazioni
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare,
circolare 26.03.2013 n. 23876 di prot.). |
APPALTI:
OGGETTO: il contratto d’appalto elettronico – il nuovo
comma 13 dell'art. 11 del d.lgs. n. 163 del 2006
(Consorzio dei Comuni Trentini,
circolare 04.03.2013 n. 8/2013). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Dirigente di staff responsabile anticorruzione.
Negli enti locali, invece, il compito spetta per legge al
segretario comunale. In gazzetta ufficiale la circolare
della funzione pubblica sulla legge 190/2012.
L'incarico di responsabile della prevenzione della
corruzione, nei ministeri e nelle amministrazioni diverse
dagli enti locali, va assegnato a dirigenti operanti presso
gli staff degli organi di governo o posti a dirigere gli
uffici di disciplina. Mentre negli enti locali il compito
per legge spetta ai segretari comunali.
E' stata pubblicata
in Gazzetta Ufficiale la
circolare 25.01.2013 n. 1/2013 del Dipartimento
della Funzione Pubblica, che contiene le prime indicazioni
per l'applicazione della legge 190/2012, “anticorruzione”.
E' il primo passo ufficiale di Palazzo Vidoni nel complicato
percorso che impone alle amministrazioni di dotarsi di una
serie di strumenti finalizzati a contrastare fenomeni
corruttivi, in attesa del fondamentale piano nazionale
anticorruzione, che il Dipartimento ha il compito di
redigere e la Civit (Commissione Indipendente per la
Valutazione, la Trasparenza e l'Integrità delle
amministrazioni pubbliche), nella veste di Autorità
nazionale anti corruzione, dovrà poi approvare.
La Civit,
come è noto, ha ritenuto che il termine dello scorso 31
marzo per approvare i piani anticorruzione da parte di
ciascuna amministrazione è da considerare ordinatorio: sarà
l'approvazione del piano nazionale a far scattare
definitivamente le lancette per il conto alla rovescia,
finalizzato all'attivazione degli strumenti anticorruzione.
La circolare 1/2013, tuttavia, fornisce alcune prime
indicazioni utili per avviare il lavoro che le
amministrazioni debbono in ogni caso apprestare. In
particolare, risulta utile la definizione che Palazzo Vidoni
fornisce di corruzione.
La legge 190/2012 è sostanzialmente
divisa in due parti: la seconda modifica in parte il codice
penale, regolamentando il reato di corruzione e le pene
relative. La prima parte, invece, è dedicata alle
amministrazioni pubbliche e fissa una serie di regole e
comportamenti (rinviando ad altre norme “accessorie”, quali
ad esempio il riordino della trasparenza adottato col d.lgs
33/2013), con l'obiettivo di ridurre al minimo i rischi di
comportamenti corruttivi. Tali indicazioni, tuttavia, molte
delle quali di natura organizzativa, non si limitano a
prendere in considerazione la corruzione come reato. La
circolare spiega che le situazioni da prendere in
considerazione per organizzare l'attività amministrativa ed
i servizi così da contrastare la corruzione sono più ampie
della fattispecie penalistica.
Nel contesto della legge 190/2012, per la parte dedicata
all'azione amministrativa, dunque, della corruzione non
bisogna guardare la sola accezione penalistica, ma riferirsi
ad un concetto più ampio, intendendo per corruzione ogni
azione o comportamento che svii dai principi fondamentali di
trasparenza, correttezza, buona fede, parità di trattamento,
ragionevolezza ed equità, che portino, come conseguenza,
all'abuso da parte di un soggetto dotato di poteri pubblici
di cui dispone, finalizzato ad ottenere vantaggi privati
(propri o di terzi), a detrimento dell'interesse generale
(articolo ItaliaOggi del 27.04.2013). |
UTILITA' |
APPALTI SERVIZI:
Rassegna Normativa - Servizi Pubblici Locali -
“Progetto di supporto e affiancamento operativo a favore
degli Enti Pubblici delle Regioni Obiettivo Convergenza”.
Servizi pubblici locali: elaborata una
raccolta della normativa.
In esito ai lavori del Tavolo tecnico, istituito in
attuazione di un Protocollo d’intesa promosso dal Ministero
dello Sviluppo economico e a cui hanno partecipato, oltre al
predetto dicastero, la Segreteria tecnica del
Sottosegretario di Stato Catricalà, il Dipartimento Affari
Europei e il Dipartimento per gli Affari Regionali, il
Turismo e lo Sport della Presidenza del Consiglio dei
Ministri e Invitalia -Agenzia Nazionale per l’attrazione
degli investimenti e lo Sviluppo d’impresa S.p.A.– è stata
elaborata una raccolta ricognitiva della normativa e della
giurisprudenza nazionali e comunitarie applicabili ai
servizi pubblici locali di rilevanza economica.
Il documento, varato alla presenza del Sottosegretario di
Stato Antonio Catricalà e del Sottosegretario al Ministero
dello Sviluppo economico Claudio De Vincenti, è articolato
in quattro titoli, preceduti da note esplicative, relativi:
• all’organizzazione dei servizi pubblici locali di
rilevanza economica e alle funzioni degli enti territoriali;
• all’affidamento dei servizi e concorrenza;
• alla gestione delle reti e società a partecipazione
pubblica;
• alla regolazione.
È completato da tre capitoli contenenti la disciplina
specifica dei settori idrico, trasporti pubblici locali e
rifiuti (22.04.2013 - tratto da www.regioni.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
LAVORI PUBBLICI:
G.P. D'Incecco Bayard De Volo,
Appalti pubblici: l’importanza della verifica ai fini della
validazione dei progetti.
Un momento di sintesi delle scelte di merito del progettista
e degli obiettivi che l’amministrazione intende perseguire.
La verifica ai fini della validazione dei progetti non va
considerata come l’ennesimo appesantimento burocratico ma
come l’occasione di accelerazione dei tempi realizzativi e
strumento di deflazione del contenzioso in materia di
appalti pubblici (Diritto e Pratica Amministrativa n.
4/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Acquasaliente,
Le piazze sono beni culturali a prescindere dalla specifica
dichiarazione di interesse culturale (23.04.2013
- link a http://venetoius.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Tematiche di vario interesse ...
(Personale
News 23.04.2013 n. 8 - tratto da
www.gianlucabertagna.it). |
QUESITI & PARERI |
TRIBUTI:
Dichiarazione Imu.
Domanda
La dichiarazione Imu entro quando va presentata?
Risposta
La dichiarazione relativa all'Imposta municipale propria (Imu),
per l'anno 2012 deve essere presentata entro il 04.02.2013. Infatti, la norma stabilisce che detta dichiarazione
deve essere presentata entro novanta giorni dalla data di
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto che ha
approvato il relativo modello. Detta pubblicazione è
avvenuta il cinque novembre 2012, per cui i novanta giorni
scadono il 04/02/2013.
Sono interessati alla suddetta dichiarazione soltanto gli
immobili che nel 2012 hanno subito variazioni e cioè:
● quando gli immobili, in proprietà o in diritto reale del
dichiarante, hanno cambiato le loro caratteristiche (esempio
abitazione trasformata in ufficio, terreno agricolo
diventato edificabile, abitazione principale non più tale o
viceversa abitazione secondaria diventata principale ecc.);
● quando il bene è stato acquistato o ricevuto in donazione, o
su di esso sono stati costituiti diritti reali;
● quando l'immobile ha perso il diritto all'esenzione o
all'esclusione.
La dichiarazione deve essere effettuata utilizzando
l'apposito modello ministeriale e deve essere inviata al
comune nel cui territorio si trova l'immobile. Essa va
spedita con raccomandata senza ricevuta di ritorno (articolo ItaliaOggi Sette
del 22.04.2013). |
TRIBUTI:
Marchio di fabbrica sulle gru.
Domanda
L'Imposta comunale sulla pubblicità in che modo è dovuta sul
marchio di fabbrica apposto sulle gru mobili, sulle gru a
torre adoperate nei cantieri edili e sulle macchine da
cantiere?
Risposta
Il decreto ministeriale del 26.07.2012, numero 185,
dispone, all'articolo 3, che per l'Imposta comunale sulla
pubblicità e sulle pubbliche affissioni (I.P.),
relativamente al marchio di fabbrica apposto sulle gru
mobili, sulle gru a torre adoperate nei cantieri edili e
sulle macchine da cantiere, di vecchia fabbricazione (cioè
fabbricate prima della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana del suddetto decreto ministeriale:
09.08.2012) le imprese devono adeguare il suddetto
marchio come disposto dall'articolo 1 del summenzionato
decreto ministeriale. Pertanto, come dispone il predetto
articolo 1, la suddetta imposta non è dovuta per
l'indicazione del marchio apposto con dimensioni
proporzionali alla dimensione delle gru mobili, delle gru a
torre adoperate nei cantieri edili e delle macchine da
cantiere la cui superficie complessiva non eccede i seguenti
limiti:
► fino a due metri quadrati per le gru mobili, le gru a torre
adoperate nei cantieri edili e le macchine da cantiere con
sviluppo potenziale in altezza fino a dieci metri lineari;
► fino a quattro metri quadrati per le gru mobili, le gru a
torre adoperate nei cantieri edili e le macchine da cantiere
con sviluppo potenziale in altezza oltre i dieci metri e
fino a quaranta metri lineari;
► fino a sei metri quadrati per le gru mobili, le gru a torre
adoperate nei cantieri edili e le macchine da cantiere con
sviluppo potenziale in altezza oltre i quaranta metri
lineari.
Per i marchi, la cui superficie complessiva supera quella su
indicata, l'imposta suddetta è dovuta in base alla
superficie complessiva dei marchi installati su ciascuno
bene mobile, come su individuato (gru mobili, gru a torre
adoperate nei cantieri edili e macchine da cantiere), per
anno solare al comune ove ha sede l'impresa produttrice dei
beni o qualsiasi altra sua dipendenza, nella misura e con le
modalità previste dall'articolo 12, comma 1, del decreto
legislativo numero 507, del 15.11.1993 (articolo ItaliaOggi Sette
del 22.04.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ordinanza rimozione rifiuti.
Risposta
Su un'area demaniale sono stati abbandonati dei rifiuti. A
chi spetta la competenza a emanare l'ordinanza per la
rimozione degli stessi? Al dirigente o al sindaco?
Domanda
In base a quanto previsto dal Testo unico degli enti locali
(dlgs n. 267/2000 e s.m.i.) l'Autorità competente a emanare
il provvedimento di ordinanza è il dirigente del settore
interessato (art. 107 dlgs n. 267/200) o il sindaco, quale
ufficiale di governo al fine di «prevenire ed eliminare
gravi pericoli che minacciano l'incolumità dei cittadini»
(art. 54, comma 2, dlgs n. 267/2000).
Nel caso in esame è pertanto preliminarmente opportuno
appurare di che tipo di rifiuti si tratti e della loro
eventuale pericolosità per l'incolumità e la salute dei
cittadini. Ciò appurato, posto quanto sopra, nel caso di
rifiuti pericolosi per l'incolumità dei cittadini la
competenza a emanare la relativa ordinanza di sgombero
spetta, ex art. 54, comma 2, dlgs n. 267/2000, al sindaco in
qualità di ufficiale del governo.
In caso contrario il
potere di ordinanza ricade in capo al dirigente del settore
competente, ex. art. 107 dlgs n. 267/2000 (cfr. Tar Molise
n. 665 del 27/11/2012) (articolo ItaliaOggi Sette del
22.04.2013). |
CORTE DEI CONTI |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Rimborso spese viaggio dipendenti ed amministratori.
Su quanto in oggetto, risponde la Corte dei Conti, Sez.
controllo
regionale Emilia-Romagna che, con il
parere 16.04.2013 n.
208, esamina i questi del Comune
di Calderara di Reno.
La sezione esprime i seguenti avvisi:
- le spese di parcheggio sostenute dal dipendente per
recarsi in missione con mezzo comunale sono rimborsabili;
- aderendo all'interpretazione fornita dalla sezioni riunite
(deliberazioni nn. 21/CONTR/2011 e 8/CONTR/2011), il
dipendente può essere autorizzato all'utilizzo del proprio
mezzo al fine di ottenere la copertura assicurativa, non gli
può essere riconosciuto il rimborso delle spese sostenute, è
possibile il ricorso a regolamentazioni interne volte a
disciplinare -per i soli casi in cui l'utilizzo del mezzo
proprio risulti economicamente più conveniente per
l'amministrazione- forme di ristoro dei costi sostenuti
che, però, dovranno necessariamente tenere conto delle
finalità di contenimento della spesa introdotte con la
manovra estiva e degli oneri che in concreto avrebbe
sostenuto l'ente per le sole spese di trasporto in ipotesi
di utilizzo di mezzi pubblici;
- quanto prescritto per i dipendenti vale, analogamente,
anche per gli amministratori locali che, in caso di utilizzo
del proprio mezzo, non potranno vedersi riconosciuto il
rimborso dell'indennità chilometrica nella misura di 1/5 del
prezzo al litro di benzina; anche in questo caso è fatta
salva la possibilità di regolamentare la fattispecie,
limitando il ristoro a quanto l'ente avrebbe sostenuto in
caso di utilizzo (da parte dell'amministratore) dei mezzi
pubblici di trasporto (tratto da www.publika.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Paletti
agli incentivi per la pianificazione.
L'incentivo ai tecnici delle amministrazioni per l'attività
di pianificazione non scatta se non è strumentale alla
progettazione di lavori pubblici.
È quanto chiarisce la Corte dei Conti Campania, con il
parere 10.04.2013 n. 141.
Veniva chiesto di approfondire l'art. 92, comma 6, del
Codice contratti che stabilisce che il 30% della tariffa
professionale relativa alla redazione di un «atto di
pianificazione comunque denominato» possa essere
ripartito tra i dipendenti dell'amministrazione
aggiudicatrice che lo abbiano redatto.
La delibera, che non si pone il problema, preliminare,
dell'avvenuta abrogazione delle tariffe professionali a
opera del decreto legge 1/2012 e quindi della mancanza di
una base giuridica sulla quale calcolare il 30%, affronta la
questione se all'atto di «pianificazione comunque
denominato», ai fini dell'erogazione dell'incentivo,
debba necessariamente ricondursi l'attività di progettazione
di un'opera, ovvero se possa considerarsi a tal fine anche
un mero atto di pianificazione che non dia luogo alla
conseguente progettazione di un'opera pubblica.
La delibera sposa la prima tesi dando rilievo all'elemento
della necessaria presenza di un contenuto tecnico
documentale degli elaborati, ai quali devono corrispondere
anche specifiche competenze professionali «reperibili
esclusivamente all'interno dell'ente». L'attività di
pianificazione deve pertanto essere contestualizzata
nell'ambito dei lavori pubblici, in un rapporto di
necessaria strumentalità con l'attività di progettazione di
opere pubbliche. In tal senso depone sia la collocazione
sistematica delle norme in materia di progettazione e di
incentivazione sia il fatto che l'art. 92, comma 6, del
Codice prevede che l'incentivo sia distribuito «tra i
dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo
abbiano redatto».
Infine la Corte risolve anche un secondo quesito inerente
l'applicabilità del divieto di incremento di cui all'art. 9
comma 2-bis della legge 122/2010, il quale contempla che il
l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente
al trattamento accessorio del personale non possa superare
il corrispondente importo dell'anno 2010 e nega che la norma
possa essere in alcun modo derogata «in quanto la regola
generale voluta dal legislatore è quella di porre un limite
alla crescita dei fondi della contrattazione integrativa
destinati alla generalità dei dipendenti dell'ente pubblico».
Per definire il tetto complessivo, occorrerà sterilizzare,
non includendole nel computo del 2010, le risorse destinate
alla progettazione e alla pianificazione interna
(articolo ItaliaOggi del 23.04.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Corte conti Sicilia sugli incarichi di diretta
collaborazione.
Lo staff del sindaco va legato alle esigenze.
Il personale esterno incardinato alla diretta collaborazione
di un sindaco non può essere assunto con provvedimenti a
piacere, ma deve essere proporzionato alle effettive
esigenze della stessa amministrazione.
Così la sezione giurisdizionale della Corte dei conti
siciliana, nel testo della
sentenza
09.04.2013 n. 1552, ha
condannato l'ex sindaco di Lampedusa, Berardino de Rubeis e,
in misura largamente inferiore, l'allora vicesindaco,
Giovanni Sparma, a rifondere complessivamente alle casse
dell'isola pelagica poco più di 380 mila euro, per aver
dotato, in breve tempo, l'ufficio di gabinetto del sindaco
(partito nel 2007 con un'unita di personale) con ben
ventisette nuovi innesti di personale.
Secondo il collegio della magistratura contabile (pres.
Pagliaro, est. Brancato), la condotta dei citati convenuti
va valutata in ossequio al fondamentale principio secondo
cui le amministrazioni e gli enti pubblici devono di norma
svolgere i compiti istituzionali avvalendosi di proprio
personale e, secondo quanto previsto dall'art. 7, comma 6,
del dlgs n. 165/2001, possono conferire incarichi
individuali ad esperti di provata competenza solo «per
esigenze cui non possono far fronte con il personale in
servizio».
Accogliendo le tesi della Procura, la Corte ha ritenuto,
infatti, che il numero degli addetti all'attività di
supporto del vertice politico del comune «appare del tutto
irragionevole e non proporzionato alle effettive esigenze
operative della stessa amministrazione comunale».
In ogni caso, come ulteriore elemento di valutazione della
condotta dei convenuti, va rilevato che nei provvedimenti di
assunzione non si è fatto cenno al rispetto dei vincoli
posti dalla vigente normativa in materia di assunzione a
qualsiasi titolo di personale (ad esempio, i vincoli imposti
dal patto di stabilità interno), né all'avvenuta osservanza
dell'obbligo di riduzione della spesa del personale rispetto
al totale di quella corrente, sancito in più occasioni dalle
norme di legge nei confronti di tutti gli enti locali.
Sotto il profilo dell'elemento soggettivo, il collegio
osserva che la violazione dei criteri di economicità e buona
amministrazione, nonché dei limiti legislativi imposti in
materia di assunzione di personale presso gli enti locali, è
sufficiente a configurare quanto meno la colpa grave. Nella
fattispecie, dalla violazione di norme di legge e di
fondamentali principi regolatori dell'attività
amministrativa, deriva la conseguente inutilità della spesa
erogata per le retribuzioni del personale illecitamente
assunto (articolo ItaliaOggi del 26.04.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI:
Se il danno è costituito da un compenso illecito, indebito o
comunque inutile questo non va depurato dell’eventuale
imposta sui redditi pagata all’Erario.
Al riguardo, la richiesta del convenuto di detrarre nella
quantificazione del danno l’importo destinato all’Erario per
la prevista tassazione del 43% del compenso lordo,
trattandosi, in sostanza, di una mera “partita di giro”,
deve essere rigettata. Ciò perché, nel caso di specie la
prevista tassazione del 43% del compenso lordo è circostanza
assolutamente indipendente dall’utilità o meno del
conferimento dell’incarico.
Infatti, il pagamento
dell’imposta e l’inutilità dell’incarico sono fatti tra di
loro privi di qualsiasi connessione causale, atteso che
l’imposta doveva essere pagata, anche se l’incarico fosse
stato considerato lecito ed utile.
Del resto consolidata
giurisprudenza di questa Corte sul punto specifico relativo
alla dedotta detraibilità dell’IRPEF sui trattamenti
retributivi ha già affermato che “… la compensatio lucri
cum damno opera solo quando danno e vantaggio sono
conseguenze immediate e dirette dello stesso fatto, che deve
essere idoneo a produrre entrambi gli effetti. In altre
parole, non sono valutabili come vantaggi, eventi
eziologicamente non dipendenti dal fatto illecito, secondo
il principio dell’id quod plerunque accidit” (ex multis
cfr. Sez. II n. 400 del 15.10.2010)
(massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez. giur.
Lombardia,
sentenza 05.04.2013 n. 89 - link a www.corteconti). |
CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI:
Inutile e dannosa la nomina a direttore generale in un
Comune di mille abitanti e con sei dipendenti.
A tal riguardo, deve essere evidenziato il consolidato
orientamento giurisprudenziale non solo di questa Corte, ma
della stessa Cassazione secondo cui i giudici contabili
possono e devono verificare la compatibilità delle scelte
amministrative con i fini dell’Ente pubblico sotto il
profilo del corretto esercizio della discrezionalità.
Pertanto è possibile il sindacato delle scelte
discrezionali, in presenza di atti contra legem o
palesemente irragionevoli ovvero ancora altamente
diseconomici.
In altri termini, il comportamento contra legem o irrazionale del pubblico agente non è mai al riparo
dal sindacato, non potendo esso costituire esercizio di una
scelta discrezionale insindacabile. L’art. 1, comma 1, della
Legge n. 20/1994 non può rappresentare, infatti, uno schermo
di protezione per le decisioni irragionevoli o assunte in
violazione di norme di legge, che abbiano causato un danno
erariale
(massima tratta da www.respamm.it -
Corte dei Conti, Sez. giur. Lombardia,
sentenza 05.04.2013 n. 88 - link a www.corteconti). |
APPALTI:
Danno alla concorrenza: la violazione delle norme in materia
di evidenza pubblica non basta!
Invero, se è incontestabile che la nozione del danno
erariale risarcibile ha da molto tempo abbandonato, sia in
dottrina che in giurisprudenza, il connotato della deminutio
patrimoni per ricomprendere anche le lesioni di interessi
pubblici tutelati dall’ordinamento e comunque economicamente
valutabili (si pensi al danno all’immagine, al danno
cosiddetto da disservizio ecc.) ciò non significa che ogni
lesione, nella specie quella delle regole dell’evidenza
pubblica in materia di contratti, possa in re ipsa,
equivalere a prova di un danno ontologicamente sussistente.
In questo caso occorrono dunque elementi di prova che
dimostrino che la spesa, pur a fronte di lavori
integralmente eseguiti e collaudati e quindi di una
incontestata controprestazione resa, è stata invece, seppure
solo in parte, un esborso dannoso in quanto non bilanciata
da alcuna utilità acquisita al patrimonio del soggetto
pubblico.
Né è possibile richiamare l’art. 1226 c.c. in
quanto norma che se consente di quantificare in via
equitativa il danno, presuppone, secondo la pacifica
giurisprudenza civile e contabile che ne stata fornita la
prova, anche presuntiva, dell’an
(massima tratta da www.respamm.it - Corte dei Conti, Sez.
II giur. centrale
d'appello,
sentenza
01.03.2013 n. 130 - link a www.corteconti.it). |
NEWS |
PUBBLICO IMPIEGO: Stipendi pubblici congelati.
Classi, scatti, progressioni, indennità bloccati fino al
2014. Dal Consiglio di stato il via
libera al regolamento che attua il dl 78 del 2010.
Il governo va avanti sul blocco degli stipendi dei
dipendenti pubblici fino a tutto il 2014. Il regolamento
approvato in via preliminare lo scorso 21 marzo ha passato
il vaglio del Consiglio di stato che ha espresso il proprio
parere positivo il 17 aprile scorso. Un solo articolo,
suddiviso in 3 commi, dispone la proroga al 31.12.2014
di una serie di misure previste dall'articolo 9 del decreto
legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni,
dalla legge 30.07.2010, n. 122:
- blocco dei trattamenti economici individuali;
- riduzione delle indennità corrisposte ai responsabili
degli uffici di diretta collaborazione dei ministri e
individuazione del limite massimo per i trattamenti
economici complessivi spettanti ai titolari di incarichi
dirigenziali;
- limite massimo e riduzione dell'ammontare delle risorse
destinate al trattamento accessorio del personale;
- blocchi economici riguardanti: meccanismi di adeguamento
retributivo, classi e scatti di stipendio, progressioni di
carriera comunque denominate del personale contrattualizzato
e di quello in regime di diritto pubblico.
Ora ovviamente, come anche sottolineato nel comunicato della
presidenza del consiglio del 21 marzo, toccherà al nuovo
governo decidere se seguire la strada del prolungamento del
blocco o trovare fonti alternative per reperire risorse in
egual misura a quelle derivanti dal blocco stesso. «Il
Consiglio», si legge in quel comunicato, «su iniziativa del
ministro dell'economia, di concerto con il ministro della
Pubblica amministrazione e semplificazione, ha proposto di
avviare l'iter concernente il regolamento di contenimento
delle spese del pubblico impiego. Questo consentirà al
prossimo governo di scegliere tra la proroga del blocco
della contrattazione e degli automatismi stipendiali
portando a termine la procedura del regolamento, come
previsto dal decreto legge 98 del 2011; oppure di trovare
una diversa copertura e così evitare per il 2014 il blocco
delle progressioni e degli automatismi retributivi nel
pubblico impiego».
Lo «schema di decreto del presidente della repubblica
recante regolamento in materia di proroga del blocco della
contrattazione e degli automatismi stipendiali per i
pubblici dipendenti» introduce poi la proroga al 31.12.2013, con effetto sull'anno 2014, dei blocchi riguardanti il
personale docente, educativo ed Ata della scuola. E
stabilisce l'estensione al personale convenzionato del
Servizio sanitario nazionale delle disposizioni concernenti
le proroghe del blocco dei trattamenti economici e delle
procedure contrattuali.
Sono invece escluse dalla proroga,
per effetto della declaratoria di illegittimità
costituzionale del decreto legge n. 78 del 2010, sancita
dalla sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 2012,
le disposizioni in cui viene disposta la riduzione dei
trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti,
anche di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi
ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche, inserite nel
conto economico consolidato della pubblica amministrazione,
nella misura del 5% per la parte eccedente i 90 mila euro
lordi annui e del 10% per quella superiore a 150 mila euro
lordi annui.
Un impianto normativo complessivamente promosso
di giudici di palazzo Spada i quali ritengono, si legge nel
parere, «che lo schema di regolamento proposto risponda alla ratio
di contenimento della spesa in materia di pubblico impiego
siccome disciplinata dalle vincolanti norme primarie
richiamate»
(articolo ItaliaOggi del 27.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
CONDOMINIO: RIFORMA
CONDOMINIO/
Sicurezza, condòmini liberi.
Nessun obbligo di produrre documenti all'amministratore.
Basta la segnalazione solo in caso di effettivo
pericolo.
Il riscontro sullo stato di sicurezza dell'immobile non
comporta alcun obbligo per il condomino di produrre
documenti. Il condomino deve soltanto segnalare quando è il
caso il verificarsi di problemi che possano mettere a
repentaglio la sicurezza dell'immobile. Nulla dunque
l'amministratore può richiedere al condomino a livello di
documentazione sulla sicurezza.
L'art. 1130 c.c., così come scaturente dalla legge di
riforma del condominio, prevede al n. 6, primo periodo, che
l'amministratore debba “curare la tenuta del registro di
anagrafe condominiale contenente le generalità dei singoli
proprietari e dei titolari di diritti reali e di diritti
personali di godimento, comprensive del codice fiscale e
della residenza o domicilio, i dati catastali di ciascuna
unità immobiliare, nonché ogni dato relativo alle condizioni
di sicurezza”.
La previsione, all'evidenza, non pone particolari problemi
interpretativi, se non con riferimento ad uno specifico
punto: quale sia l'esatto significato da attribuire
all'espressione “ogni dato relativo alle condizioni di
sicurezza”.
Nel silenzio del legislatore, l'indagine non può che
prendere l'avvio da un esame letterale dell'espressione
d'interesse e, in particolare, dal termine “dato”.
Tale parola, utilizzata come sostantivo maschile, ha il
significato –secondo il dizionario Devoto Oli della lingua
italiana– di “informazione”, vocabolo quest'ultimo –sempre
secondo il citato dizionario– che a sua volta sta ad
indicare “notizia o nozione raccolta e comunicata ai fini di
un'utilizzazione pratica e immediata”.
Che il termine “dato” vada letto come sinonimo di
“informazione” trova conferma, del resto, anche nella
formulazione della disposizione in questione la quale,
sempre al n. 6, dopo aver trattato del registro di cui
sopra, così prosegue: “Ogni variazione dei dati deve essere
comunicata all'amministratore in forma scritta entro
sessanta giorni. L'amministratore, in caso di inerzia,
mancanza o incompletezza delle comunicazioni, richiede con
lettera raccomandata le informazioni necessarie alla tenuta
del registro di anagrafe. Decorsi trenta giorni, in caso di
omessa o incompleta risposta, l'amministratore acquisisce le
informazioni necessarie, addebitandone il costo ai
responsabili”.
È, dunque, lo stesso legislatore a parlare di “informazioni”
con riguardo a ciò che i condòmini sono tenuti a comunicare;
“informazioni” che, tuttavia, possono ritenersi fornite, in
relazione segnatamente alle “condizioni di sicurezza”, dando
conto –deve ritenersi– di eventuali elementi negativi
relativi a queste ultime, elementi riscontrabili nelle unità
immobiliari (ad es.: segnali di pericolo, come crepe nei
muri ecc.), richiedendo all'evidenza la legge la
comunicazione di dati afferenti –in buona sostanza, e per
meglio esprimersi– alla insicurezza. La presentazione da
parte dei condòmini di documentazione concernente la
sicurezza dei loro immobili, non troverebbe alcuna valida
giustificazione nel testo di legge (che, infatti, non parla
di allegazione –del resto di pratica, difficile attuazione– al registro di anagrafe). Non solo, ma la documentazione
potrebbe anche essere superata e non svolgere quindi alcuna
funzione così come potrebbe addirittura essere un modo per
dribblare quanto la legge prescrive (chiamando questa i condòmini a dichiarare i dati attuali di sicurezza e a
comunicare ogni variazione degli stessi).
Al di là delle considerazioni che precedono, vi è poi da
rilevare che quando il legislatore della riforma ha inteso
far riferimento ad eventuale “documentazione” o “documenti”,
lo ha fatto esplicitamente, senza giri di parole. Si pensi,
solo per fare qualche esempio, all'art. 1129, ottavo comma,
c.c. nel quale si prevede espressamente che
l'amministratore, alla cessazione dell'incarico, è tenuto
alla consegna di tutta la “documentazione” in suo possesso.
Ovvero al successivo punto 8) dello stesso art. 1130 c.c. in
cui si impone a chi amministra di conservare tutta la
“documentazione” inerente alla propria gestione. O, ancora,
all'art. 71-ter disp. att. c.c. che obbliga l'amministratore
ad attivare –su richiesta dell'assemblea– un sito internet
del condominio che consenta agli aventi diritto di
consultare ed estrarre copia in formato digitale dei
“documenti” previsti dalla delibera assembleare.
Insomma, se la voluntas legis fosse stata quella di
pretendere dai condòmini documenti sulla sicurezza, sarebbe
stato certo più chiaro e semplice ricorrere a espressioni
quali “ogni documento relativo alle condizioni di sicurezza”
oppure “tutta la documentazione relativa alle condizioni di
sicurezza”. Così però non è stato. Il che porta all'ovvia
conclusione che la legge non prevede alcun obbligo di
produzione documentale, e affermare il contrario, quindi,
significherebbe introdurre un inutile aggravio a carico dei condòmini e degli stessi amministratori. Ciò senza
considerare, peraltro, che la presentazione di eventuale
documentazione sulla sicurezza firmata da professionisti
eluderebbe lo scopo della norma, che è quello,
indubbiamente, di un'assunzione di responsabilità diretta da
parte dei proprietari degli immobili; assunzione di
responsabilità che può essere garantita solo da una
dichiarazione sottoscritta dagli stessi interessati circa
l'esistenza o meno di segnali di pericolo al momento della
comunicazione all'amministratore.
Ad ulteriore conferma della bontà delle conclusioni cui sta
conducendo la presente riflessione, c'è infine da
considerare che la previsione che qua ci occupa precisa –come abbiamo visto– che ogni variazione dei dati deve
essere “comunicata” all'amministratore, il quale, in caso di
inerzia, mancanza o incompletezza delle “comunicazioni”,
deve attivarsi con lettera raccomandata. È chiaro che, se
nei dati da comunicare si fosse voluto ricomprendere anche
un'eventuale documentazione (nello specifico, sulla
sicurezza) da presentare, sarebbe stato appropriato
stabilire che ogni variazione concernente tali dati fosse
“trasmessa” (e non “comunicata”) all'amministratore. Il
termine “comunicazioni”, poi, utilizzato, all'evidenza, come
sinonimo di “informazioni” (in conformità, del resto, al suo
significato: si veda, ancora, il dizionario Devoto Oli della
lingua italiana) non fa che avvalorare la correttezza della
lettura offerta, inizialmente, del termine “dato”.
Dunque, è da ritenersi che l'espressione d'interesse non
rechi con sé alcun obbligo di produzione documentale a
carico dei condòmini e, di conseguenza, che la comunicazione
concernente le condizioni di sicurezza sia da riferirsi ad
eventuali pericoli riscontrabili in relazione a tali
condizioni al momento di detta comunicazione. Ogni altra
diversa interpretazione, infatti, non potrebbe dirsi
rispettosa –per ciò che abbiamo potuto osservare– del
dettato normativo
(articolo ItaliaOggi del 27.04.2013). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Condominio.
Rilevanti le norme antisismiche.
Va demolito l'abuso sanato ma pericoloso.
Il condomino che realizza una costruzione sulla terrazza del
suo attico, senza osservare le norme antisismiche, è
obbligato a demolirla anche se ha ottenuto la sanatoria.
A meno che non abbia reso l'intero palazzo resistente al
terremoto.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 10082, respinge il
ricorso della proprietaria che contestava la decisione con
la quale i giudici di merito le imponevano l'abbattimento
della sopraelevazione, nella convinzione che l'aver ottenuto
la concessione in sanatoria la mettesse automaticamente in
una condizione inattacabile.
La Suprema corte considera invece irrilevante l'atto con il
quale l'autorità amministrativa aveva dato il suo consenso
alla regolarizzazione dell'abuso, perché si trattava di un
"nulla osta" che non conteneva alcun giudizio tecnico sulla
conformità alle regole di costruzione.
I giudici della seconda sezione si basano invece su quanto
previsto dal secondo comma dell'articolo 1127 del codice
civile, che vieta la sopraelevazione quando le condizioni
statiche dello stabile possono risentirne. Una prescrizione
che la Cassazione integra con le norme antisismiche,
chiarendo che quando si decide di costruire non basta
considerare solo l'effetto del peso sull'intero edificio ma
anche, nel caso di zone sismiche, "l'urto di forze in
movimento".
Per questo chi vuole elevare una nuova "fabbrica" deve, a
sue spese e con il consenso di tutti i condomini, eliminare
qualunque possibilità di pericolo mettendo mano alle
strutture portanti del palazzo per renderle resistenti alle
scosse.
Né può essere condivisibile il punto di vista della signora
dei piani alti, che si diceva disponibile agli interventi
richiesti solo nel caso, dopo aver realizzato la costruzione
e fatte le opportune verifiche, si fosse accertata la
necessità «concreta e non teorica di dover affrontare
l'intervento di adeguamento previsto dalla normativa
antisismica».
Una visione che certamente non punta alla prevenzione e, per
questo, non riscuote alcun consenso.
L'inosservanza della legge fa automaticamente presumere la
pericolosità del manufatto e può essere smentita solo se il
suo autore è in grado di provare che, non solo la
sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante sono a
prova di "scossa".
La strada da percorrere è dunque quella di realizzare prima
le opere che scongiurano i rischi.
---------------
I principi
01 | IL CODICE CIVILE
La Corte chiarisce che quanto previsto dall'articolo 1127 va
esteso anche al mancato rispetto delle leggi antisismiche:
la verifica del pregiudizio per la stabilità dell'edificio,
in una zona a rischio terremoto, non può, infatti,
prescindere dall'osservanza di quelle norme
02 | LA SANATORIA
La concessione in sanatoria non ha nessuna rilevanza sulla
valutazione di illegittimità della sopraelevazione, perché
l'atto, ottenuto dall'autorità amministrativa, non contiene
giudizi tecnici
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.04.2013). |
APPALTI: Il dl sblocca debiti entra nel vivo.
Entro il 29/04 registrazione alla piattaforma telematica.
Ore cruciali per cogliere le chance
del decreto. Spazi finanziari da comunicare entro il 30.
Mancano pochi giorni alle prime, importanti scadenze
previste dal decreto sblocca-debiti (dl 35/2013).
Riepiloghiamo i principali adempimenti cui sono tenuti gli
enti locali, alla luce dei chiarimenti operativi forniti nei
giorni scorsi dagli organi competenti.
Registrazione alla piattaforma telematica per la
certificazione del crediti (art. 7, commi 1-2).
La scadenza è fissata al 29 aprile. Ricordiamo che
l'accreditamento deve essere effettuato a cura del
responsabile della p.a. interessata, che negli enti locali è
identificato con il presidente della provincia o il sindaco,
ovvero con il direttore generale/segretario.
Deroga relativa al Patto 2013 (art. 1, comma 2). Entro il 30
aprile (termine perentorio) occorre comunicare, mediante il
sistema web della Rgs, l'ammontare dei debiti di parte
capitale certi, liquidi ed esigibili al 31/12/2012 o
supportati a tale data dal fattura o richiesta equivalente
di pagamento e l'entità degli spazi finanziari necessari per
sostenere i relativi pagamenti. I debiti vanno disaggregati
per tipologia, distinguendo quelli relativi a lavori
pubblici dagli altri. L'ammontare degli spazi finanziari
richiesti potrà essere al massimo pari a quello dei debiti o
eventualmente inferiore se l'ente non dispone o non ritiene
di poter acquisire una sufficiente disponibilità di cassa.
Con le stesse modalità occorre comunicare, a fini puramente
statistici, anche l'entità dei debiti di parte corrente
esistenti (nel senso chiarito) al 31/12/2012 , limitatamente
(come ha chiarito il Mef) a quelli non ancora estinti.
Richiesta delle anticipazioni di cassa (art. 1, comma 13).
Scade il 30 aprile anche il termine (perentorio) entro cui
gli enti locali possono presentare alla Cassa depositi e
prestiti la relativa richiesta. Quest'ultima, ammessa anche
a fronte di debiti di parte corrente, deve essere
sottoscritta dal rappresentante legale e dal responsabile
del servizio finanziario e trasmessa alla Cdp mediante pec o
telefax, ovvero consegnata a mano. Essa non deve essere
necessariamente preceduta da una deliberazione consiliare.
È, invece, necessaria la determinazione a contrattare da
parte del dirigente responsabile. In caso di accoglimento
della richiesta, la stipula del contratto avverrà mediante
scambio di corrispondenza e senza necessità di autentica
delle firme. Una volta ottenuta la liquidità, i beneficiari
dovranno procedere all'immediata estinzione dei propri
debiti, comprovandola mediante una certificazione analitica
sottoscritta dal ragioniere capo e trasmessa alla stessa Cdp
entro 45 giorni dall'erogazione dell'anticipazione.
Ricordiamo che, oltre a tale modalità, gli enti a corto di
cassa possono fare ricorso all'anticipazione di tesoriera,
che fino al 30 settembre può salire fino a 5/12 delle
entrate correnti. Fra i due strumenti non c'è alcun ordine
di priorità, come chiarito dalle faq della Cdp.
Comunicazioni ai creditori (art. 6, comma 9). Entro il 30
giugno, anche gli enti locali (come le altre p.a.) devono
comunicare ai creditori, anche a mezzo posta elettronica
(sono, quindi, ammesse altre forme di comunicazione)
l'importo e la data entro cui provvederanno ai pagamenti del
loro debiti. La norma è poco chiara in ordine alla portata
dell'obbligo. Tuttavia, il riferimento generico ai
«pagamenti» sembra da riferire soltanto a quelli che
effettivamente verranno disposti e quindi a quelli
autorizzati in deroga al Patto e per i quali l'ente debitore
dispone della necessaria liquidità.
Ricognizione degli altri debiti (art. 7, commi 4-7). I
debiti, anche di parte corrente, certi, liquidi ed esigibili
al 31/12/2012 (non quindi quelli fatturati o richiesti in
pagamento alla stessa data) che non verranno estinti grazie
alle misure di cui sopra dovranno essere comunicati tramite
la piattaforma telematica a partire dal 1° giugno ed entro
il 15 settembre. Per i creditori, tale comunicazione avrà
valenza di certificazione dei propri crediti, che si
intenderà rilasciata senza data di pagamento, ai sensi
dell'art. 2, comma 2, del d.m. 25/06/2012.
Ricordiamo, infine, che l'art. 6, comma 3, prevede l'obbligo
di pubblicare sul sito internet i piani dei pagamenti
aggregati per classi di debiti. Sebbene tale norma non paia
immediatamente applicabile agli enti locali è comunque
consigliabile provvedervi. Per tale adempimento, non è
prevista alcuna scadenza, ma la pubblicazione può avvenire
contestualmente all'invio delle comunicazioni ai creditori
(articolo ItaliaOggi del 26.04.2013). |
TRIBUTI:
Ai comuni il gettito Imu dei fabbricati rurali strumentali
Spetta ai comuni il gettito Imu dei fabbricati rurali
strumentali. Va allo stato solo il gettito dei fabbricati di
categoria D ad aliquota standard del 7,6 per mille.
È questa
l'interpretazione che si ricava dalla lettura dell'articolo
1, comma 380, della legge di stabilità (228/2012),
nonostante la presa di posizione in senso contrario espressa
dal dipartimento delle finanze con la risoluzione 5/2013.
Secondo il dipartimento, l'effetto prodotto dalla norma
introdotta dalla legge 228/2012 per i fabbricati rurali ad
uso strumentale all'attività agricola, classificati nel
gruppo catastale D, è «quello di riservare allo stato il
gettito derivante dai citati immobili all'aliquota dello
0,2%». La tesi ministeriale, però, non è condivisibile,
poiché l'articolo 1, comma 380, lettera f) della legge di
stabilità riserva espressamente allo stato il gettito
dell'imposta «derivante dagli immobili ad uso produttivo
classificati nel gruppo catastale D, calcolato ad aliquota
standard». E nell'ambito del gettito riservato allo stato,
con aliquota di base del 7,6 per mille, non rientrano gli
immobili rurali strumentali anche se inquadrati nella stessa
categoria.
Del resto, per questi fabbricati è previsto un
trattamento agevolato con applicazione dell'aliquota del 2
per mille che i comuni possono ridurre all'1 per mille, ma
che non possono aumentare. È evidente la diversità di
trattamento tra fabbricati rurali e altre tipologie di
immobili. Tra l'altro, il comma 380 stabilisce che i comuni
possono aumentare sino a 3 punti percentuali l'aliquota
standard, prevista dall'articolo 13, comma 6, primo periodo
del decreto «salva Italia» (201/2011) per gli immobili a uso
produttivo classificati nel gruppo catastale D. Dunque, in
questa previsione non possono rientrare i fabbricati
strumentali, la cui disciplina è contenuta nel comma 8 della
stessa disposizione, che impone regole del tutto diverse.
Dal 2013, infatti, la norma elimina la riserva della quota
statale del 50% sull'Imu, ma impone la riserva di una quota
del tributo dovuto per i fabbricati di categoria D ad
aliquota standard (7,6 per mille). Per questi immobili ai
comuni viene lasciata la facoltà di aumentare l'aliquota di
3 punti percentuali e di incassare le maggiori somme. Si
tratta dei fabbricati destinati a attività industriali o
commerciali. In particolare, opifici, alberghi, pensioni e
residences, istituti di credito, cambio e assicurazione,
teatri, cinematografi e via dicendo.
Va posto in rilievo che per i fabbricati rurali strumentali
non conta più la classificazione catastale per avere diritto
ai benefici fiscali. Possono infatti mantenere le loro
categorie originarie. È sufficiente l'annotazione catastale,
tranne per i fabbricati strumentali che siano per loro
natura censibili nella categoria D/10. Con la circolare
2/2012 l'Agenzia ha fornito dei chiarimenti, relativamente a
quanto disposto dal decreto ministeriale emanato il 26.07.2012, sugli adempimenti che devono porre in essere i
titolari dei fabbricati interessati a ottenere l'annotazione
negli atti catastali della ruralità, al fine di fruire anche
per l'Imu degli sconti.
Domande e autocertificazioni necessarie per il
riconoscimento del requisito di ruralità, redatte in
conformità ai modelli allegati al decreto ministeriale,
avrebbero dovuto essere presentate all'ufficio provinciale
competente per territorio entro il 01.10.2012, al fine di
ottenere l'esenzione anche per gli anni pregressi.
L'eventuale di diniego di ruralità è impugnabile innanzi
alle commissioni tributarie. Infatti, nel caso di esito
negativo del controllo sulle domande e autocertificazioni
prodotte dagli interessati, l'Agenzia è tenuta a notificare
un provvedimento motivato con il quale disconosce il
requisito della ruralità. Dagli atti catastali risultano
anche le annotazioni negative sugli immobili, che
impediscono ai contribuenti di poter fruire delle
agevolazioni
(articolo ItaliaOggi del 26.04.2013). |
ENTI LOCALI: Partecipate, caos sul personale.
Giudici divisi sulle spese. Somministrazioni senza limiti.
Pareri contrastanti dalle sezioni della
Corte conti e dalla Funzione pubblica.
Regna il caos assoluto sulle spese per personale flessibile
a carico delle società partecipate dalle amministrazioni.
Nel breve volgere di pochi mesi, sono stati emessi pareri
contrastanti tra sezioni della Corte dei conti e tra queste
e il dipartimento della funzione pubblica, tutti, comunque,
estremamente restrittivi e volti a dare una lettura distorta
delle disposizioni contenute nell'articolo 4 della legge
135/2012 (spending review).
Spese da consolidare con quelle dell'ente
partecipante. Un
primo ordine di problemi affrontato dalla sezione Liguria,
col parere 47/2012, riguarda la necessità di considerare le
partecipate coinvolte o meno nell'obbligo di rispettare i
vincoli di spesa previsti dall'articolo 9, comma 28, del dl
78/2012, convertito in legge 122/2010 e, nel caso positivo,
se il tetto di spesa del 2009 dovesse essere quello solo
della singola società o il tetto complessivo sostenuto da
questa e dall'ente.
La sezione Liguria ha ritenuto applicabile anche alle
società l'articolo 9, comma 28, ma ha ritenuto di dover dare
risalto «al principio di consolidamento della spesa di
personale tra ente locale e società partecipata». Dunque,
secondo la sezione Liguria esiste un unico tetto complessivo
delle spese sostenute per il personale flessibile,
suggerendo di calcolarlo «in capo all'ente locale in base
alle attività del gruppo municipale, senza che gravi un
concorrente ed autonomo limite percentuale in capo alla
società in house singolarmente intesa».
Spesa da non consolidare con quella
dell'ente. Pochi
mesi dopo, la Corte dei conti, sezione regionale di
controllo della Toscana risolve il problema in modo
radicalmente opposto. Il parere 10/2013, infatti ha ritenuto
che l'applicazione dell'articolo 9, comma 28, della legge
122/2010 «deve avvenire in maniera distinta, senza
consolidamento tra ente locale e società partecipata». Di
conseguenza, non è ammissibile che l'ente locale «ceda»
propria capacità assunzionale alla società partecipata,
poiché ciascuno soggetto deve applicare i tetti di spesa in
modo autonomo.
La sezione Toscana ha ritenuto di dover aggiungere che
l'articolo 9, comma 28, debba coordinarsi con quanto
stabilito dall'articolo 4, comma 10, del dl 95/2012135/2012,
il quale prevede che, a decorrere dall'anno 2013 le società
controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche
amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo n. 165 del 2001, che abbiano conseguito
nell'anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a
favore di pubbliche amministrazioni superiore al 90%
dell'intero fatturato, «possono avvalersi di personale a
tempo determinato ovvero con contratti di collaborazione
coordinata e continuativa nel limite del 50% della spesa
sostenuta per le rispettive finalità nell'anno 2009».
Libertà di assunzione mediante
somministrazioni.
L'ultima lettura fornita dalla sezione Toscana viene
smentita dal dipartimento della funzione pubblica, con nota
13354 del 13 marzo. Secondo Palazzo Vidoni non esiste alcun
rinvio dinamico tra l'articolo 9, comma 28, della legge
122/2010 e l'articolo 4, comma 10, della legge 135/2012.
Dunque, è solo quest'ultimo che detta la disciplina che le
società partecipate sono obbligate a rispettare, in tema di
contenimento della spesa di personale flessibile.
Spiega la nota circolare che, però, l'articolo 4, comma 10,
deve intendersi come norma di stretta interpretazione: esso
limita al 50% della spesa del 2009 non ogni forma di
assunzione flessibile (come l'articolo 9, comma 28), ma solo
i contratti di lavoro a tempo determinato e le
collaborazioni coordinate e continuative. Di conseguenza, le
somministrazioni di lavoro non incontrano alcun limite di
spesa.
La conclusione maggiormente convincente è quella tratta da
Palazzo Vidoni. Ma essa è in parte comunque erronea perché
omette di rilevare un fattore estremamente importante: le
limitazioni di spesa previste dall'articolo 4, comma 10,
della legge 135/2012 non valgono comunque per le partecipate
aventi un fatturato derivante da prestazione di servizi a
favore di pubbliche amministrazioni inferiore al 90%
dell'intero fatturato e comunque alle tipologie di società
elencate dal comma 3 del medesimo articolo 4.
Questa precisazione è fondamentale, perché moltissime
società gestiscono servizi caratterizzati proprio da
flessibilità o stagionalità, per i quali l'impiego di
rapporti di lavoro flessibili e a termine è assolutamente
connaturato ed essenziale
(articolo ItaliaOggi del 26.04.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Consigli, parla lo statuto.
Disciplina i gruppi assieme al regolamento.
Anche la tempistica degli interventi è affidata
all'autonomia degli enti.
Alla luce del regolamento consiliare, quante volte e per
quanto tempo, un consigliere comunale, fuoriuscito dal
gruppo di appartenenza senza aderire ad altro gruppo, può
intervenire nel corso della seduta consiliare? Può rendere,
anche ai fini di una sua responsabilità, la dichiarazione di
voto una volta terminata la discussione, diritto questo
previsto dal regolamento per i capigruppo consiliari?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente
prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle
disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative
in capo ai gruppi o ai capigruppo (in particolare, art. 38,
comma 3, art. 39, comma 4 e art. 125 del dlgs n. 267/2000).
Lo statuto del comune in esame prevede che «ogni consigliere
deve poter svolgere liberamente le proprie funzioni», e
stabilisce che «i consiglieri si costituiscono in gruppi,
secondo le modalità stabilite dal regolamento».
In linea di principio, che i mutamenti che possono
sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in
consiglio comunale per effetto di dissociazioni
dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la
costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero l'adesione a
diversi gruppi esistenti, sono ammissibili. Tuttavia, sono i
singoli enti locali, nell'ambito della propria potestà di
organizzazione, i titolari della competenza a dettare norme,
statutarie e regolamentari, nella materia.
Nel caso di specie, la disciplina dettata dallo statuto
dell'ente in questione non è esaustiva, in quanto si limita
a fornire indicazioni in merito solo alla formazione dei
gruppi all'atto dell'insediamento nel consiglio comunale.
Il regolamento dell'ente prevede, invece, una disciplina più
dettagliata, stabilendo, che i gruppi sono formati da un
numero minimo di tre consiglieri, derogabile solo nel caso
in cui si tratti di consiglieri eletti nella medesima lista.
Pertanto, solo in tale ultima eventualità è ammessa la
costituzione di gruppi unipersonali, tant'è, che, il
consigliere che si distacchi dal gruppo originario e che non
aderisca ad altri gruppi non acquisisce le prerogative
spettanti al gruppo consiliare.
Per quanto riguarda gli interventi dei consiglieri nel corso
delle sedute, il regolamento, nel disciplinare la facoltà di
intervento, a volte fa riferimento al singolo consigliere,
altre al gruppo consiliare, facendo supporre che colui che
non appartiene a nessun gruppo, fattispecie indirettamente
prevista, non possa intervenire nella discussione.
In particolare stabilisce che, per le dichiarazioni di voto,
una volta terminata la discussione, può intervenire, «un
solo consigliere per ogni gruppo», formulazione che
letteralmente escluderebbe la possibilità di esposizione
della dichiarazione di voto da parte dei consiglieri che non
appartengono ad alcun gruppo.
Il regolamento, pertanto, ha disciplinato gli interventi
affidando maggiore spazio ai capi gruppo in quanto questi
agiscono in qualità di portavoce dei consiglieri che fanno
parte dei medesimi gruppi, e di converso non ha riconosciuto
al consigliere che per sua scelta non faccia parte di alcun
gruppo gli stessi spazi previsti per i capigruppo, potendo
invero svolgere i propri interventi nelle medesime modalità
riconosciute ai singoli consiglieri non capigruppo.
Poiché la materia dei «gruppi consiliari» è interamente
demandata allo statuto ed al regolamento sul funzionamento
del consiglio, è in tale ambito che dovrebbero trovare
adeguata soluzione le relative problematiche applicative,
posto che, diversamente, sarebbero necessarie modifiche ed
integrazioni a tali fonti di disciplina locale.
Spetta alle decisioni del consiglio comunale, pertanto,
oltre che trovare soluzioni per le singole questioni,
valutare l'opportunità di adottare apposite modifiche
regolamentari che disciplinino anche le ipotesi in argomento
(articolo ItaliaOggi del 26.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Anticorruzione.
Basta una sentenza non definitiva: la regola generale
prevede stop per cinque anni
La condanna blocca la dirigenza.
Niente incarichi a chi è stato censurato per illeciti contro
la Pa.
Dal 4 maggio una sentenza di condanna, anche non definitiva,
per reati contro la Pubblica amministrazione escluderà di
fatto chi ne è colpito dalle caselle di vertice
dell'organigramma pubblico. Un'esclusione che riguarderà non
solo i vari livelli di governo, cioè lo Stato con le sue
articolazioni, le Regioni, le Province e i Comuni, ma anche
gli enti di diritto privato che svolgono funzioni
amministrative e sono controllati da una Pubblica
amministrazione, o si vedono da questa nominare i vertici.
Mancano 10 giorni all'entrata in vigore del Dlgs 39/2013 (su
cui si veda anche «Il Sole 24 Ore» del 20 aprile), che attua
l'incarico conferito al Governo Monti dalla legge
anticorruzione (articolo 1, commi 49 e 50, della legge
190/2012) e introduce una griglia di incompatibilità e inconferibilità destinata a incidere profondamente
sull'organizzazione di tutte le amministrazioni pubbliche,
con effetti ancora da studiare.
Il primo punto, quello delle «incompatibilità» che vietano
agli ex politici di transitare ai vertici
dell'amministrazione (e viceversa, impedendo per esempio ai
segretari e ai dirigenti comunali di presentarsi alle
elezioni nella loro regione), rappresenta per certi versi
una prosecuzione in forme più profonde di precedenti
interventi per bloccare le porte girevoli fra politica e
amministrazione. Il capitolo delle «inconferibilità», che
impediscono l'attribuzione di incarichi di vertice a chi è
stato colpito da una condanna per reati contro la Pubblica
amministrazione, è invece per molti aspetti inedito.
L'aspetto cruciale è rappresentato dal fatto che anche una
condanna non definitiva chiude le porte agli incarichi
dirigenziali, tranne ovviamente quando viene ribaltata da un
successivo grado di giudizio. I reati che fanno accendere il
semaforo rosso sono quelli elencati dal Libro II, Titolo II,
Capo I del Codice penale, e contemplano un amplissimo
ventaglio di casi che abbraccia anche abuso d'ufficio,
rifiuto di atti d'ufficio o interruzione di servizio
pubblico.
La norma introduce elementi minimi di gradualità in base
alla gravità del reato, ma il loro effetto sarà da
verificare alla prova pratica. Nella durata dell'inconferibilità
la regola generale prevede uno stop di cinque anni, che può
essere ridotto solo se la condanna non è per peculato,
concussione, corruzione o corruzione in atti giudiziari (in
questi casi è prevista infatti un'inconferibilità di durata
doppia rispetto alla pena principale, comunque entro il
tetto dei cinque anni). Quando la condanna è accompagnata
dalla pena accessoria dell'interdizione ai pubblici uffici,
è quest'ultima a determinare la durata dell'esclusione, che
quindi può diventare perpetua insieme all'interdizione.
Chi viene colpito da questa misura, si vede sbarrare la
strada verso gli incarichi amministrativi di vertice
(segretario generale, capo dipartimento, direttore generale)
ma anche quelli dirigenziali di qualsiasi tipo negli enti
pubblici (compresi i posti da direttore generale, sanitario
o amministrativo nelle Asl), e non può ambire al ruolo di
presidente con deleghe o amministratore delegato negli enti
pubblici né in quelli privati controllati dalla Pa. Il
dirigente di ruolo colpito dalla condanna può svolgere un
ristretto novero di incarichi che non prevedano gestione di
risorse o acquisti di beni e servizi, altrimenti viene posto
a disposizione senza incarico; se la sentenza riguarda un
esterno alla Pa, il suo incarico è sospeso e
l'amministrazione può cancellarlo del tutto.
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I punti chiave
01|I REATI
L'«inconferibilità» degli incarichi dirigenziali è prevista
in caso di sentenza, anche non definitiva, per i reati
contro la Pubblica amministrazione
02|IL BLOCCO
Viene prevista l'impossibilità di conferire incarichi
dirigenziali per cinque anni, oppure per un tempo doppio
alla pena accessoria dell'interdizione (non nei casi di
corruzione, concussione e peculato, per i quali il minimo è
cinque anni). Se l'interdizione è perpetua, è a tempo
indeterminato anche l'inconferibilità
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
CONDOMINIO: RIFORMA
CONDOMINIO/
Assemblea sempre verbalizzata. Amministratore obbligato
anche in prima convocazione. In
difetto, saranno impugnabili le successive delibere.
L'amministratore del condominio potrà continuare a fissare
la riunione di condominio, in prima convocazione, il mattino
presto o la sera tardi. Dovrà però verbalizzare
necessariamente quanto accade nell'occasione. La mancata
verbalizzazione, infatti, potrebbe rendere ex se impugnabili
le eventuali delibere successivamente assunte.
Per
l'amministratore non ci sono particolari complicazioni
allorché l'assemblea sia convocata, ad esempio, presso la
sua l'abitazione. Potrebbe al contrario essere fonte di
problemi nel caso in cui la convocazione venga fissata in un
posto dove egli, all'ora indicata, potrà difficilmente
essere presente (si pensi ad una riunione da tenersi in un
ambiente esterno all'abitazione o allo studio
dell'amministratore, o al condominio, alle 3 di notte).
Questo quanto emerge dalla riforma del condominio e
dall'analisi della giurisprudenza.
Di prassi la prima convocazione dell'assemblea condominiale
viene fissata in orari particolari (es.: in notturna o alle
prime luci dell'alba), di modo che vada deserta e così,
nell'adunanza di seconda convocazione, si possano assumere
decisioni con maggioranze più basse. Ciò posto, viene da
chiedersi: è legittimo tutto questo? E come si pone detta
prassi con le novità introdotte dalla riforma riguardo la
redazione del processo verbale e le annotazioni da
effettuarsi nel registro dei verbali delle assemblee?
Iniziamo subito col dire che, al primo quesito, la
giurisprudenza ha dato risposta positiva.
La Cassazione ha osservato, infatti, che «in mancanza di una
norma che disponga il contrario, non esistono limiti di
orario alla convocazione di un'assemblea condominiale; né la
fissazione dell'assemblea in ora notturna può ritenersi
completamente preclusiva della possibilità di parteciparvi»
(sent. n. 697/00).
Detto questo, resta da vedere come la prassi di riunire
l'assemblea in prima convocazione in orari particolari si
concili con le novità introdotte dalla riforma; novità che –come accennato– sono due.
La prima è costituita dalla
modifica recata all'art. 1136, ultimo comma, c.c., in
conseguenza della quale la redazione del «processo verbale»
deve dar conto, adesso, delle «riunioni» e non più delle
«deliberazioni» dell'assemblea. La seconda riguarda
l'obbligo, posto a carico dell'amministratore, di curare –ex art. 1130, n. 7, c.c.– la tenuta del registro dei
verbali delle assemblee in cui annotare «le eventuali
mancate costituzioni» dell'organo assembleare.
Tale nuova cornice giuridica rende, all'evidenza, non più
attuale l'orientamento assertore dell'inesistenza di un
obbligo di redigere uno specifico verbale attestante
l'esperimento a vuoto della riunione in prima convocazione.
Orientamento secondo cui, ai fini della validità
dell'assemblea riunita in seconda convocazione, era
sufficiente che nel verbale di quest'ultima venisse dato
conto della prima infruttuosa convocazione (per completa
diserzione oppure per insufficiente partecipazione) e che
basava il suo assunto, in particolare, sulla mancanza di una
precisa prescrizione in materia, tale non essendo –secondo
i sostenitori di questa tesi– l'ultimo comma del citato
art. 1136, il quale, nella sua originaria formulazione,
stabiliva –come visto– che il processo verbale dovesse
avere ad oggetto, non lo svolgimento dell'assemblea, ma solo
eventuali «deliberazioni» assunte dalla stessa (Cass. sent.
n. 3862/96).
Le modifiche di cui si è detto valorizzano, invece, il
diverso orientamento che già prima che intervenisse la
riforma considerava sempre necessaria la redazione del
verbale d'assemblea costituendo detta redazione una delle
prescrizioni di forma da osservare «al pari delle altre
formalità richieste dal procedimento collegiale (avviso di
convocazione, ordine del giorno, costituzione, discussione,
votazione ecc.)»; pena: «L'impugnabilità della
delibera, in quanto non presa in conformità alla legge»
(Cass. sent. n. 5014/1999)
(articolo ItaliaOggi del 25.04.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Anti-corruzione.
Vietato erogare somme alle partecipate che non rilasciano i
dati su conti e amministratori
Trasparenza, sanzioni al via. Da sabato in vigore le norme
sull'obbligo di pubblicazione degli atti
IL RISCHIO/ Penalità sono previste per i responsabili degli
uffici che non mettono sul web gli atti di conferimento di
incarichi e consulenze.
Gli enti locali devono attuare in fretta una serie di
operazioni per la trasparenza. Il Dlgs 33/2012 è entrato in
vigore sabato, e impone anzitutto che nella home page
dei siti istituzionali sia attivata (articolo 9) una sezione
denominata «amministrazione trasparente», strutturata
in dettagliate sottosezioni, secondo lo schema definito
dall'allegato 1 (e destinato ad essere integrato da modelli
predisposti dalla Funzione pubblica).
La predisposizione della sezione deve tener conto della
durata dell'obbligo di pubblicazione degli atti, che devono
rimanere disponibili per cinque anni (articolo 8, comma 3),
salvo alcune eccezioni espressamente disciplinate.
Tutti i documenti e gli atti assoggettati ad obbligo di
pubblicazione vanno resi disponibili a chiunque li richieda,
nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione, per
garantire il diritto di accesso civico.
La disposizione che lo prevede (articolo 5) è complementare
alle norme della legge 241/1990 (articoli 22-25) che
regolano il diritto di accesso in generale, da considerare
esercitabile ora in rapporto ai documenti amministrativi che
non devono essere pubblicati.
L'approccio degli enti locali al nuovo modo di veicolare le
informazioni sulla loro attività va tradotto nel programma
triennale per la trasparenza e l'integrità, collegato con il
piano anticorruzione (di cui costituisce una sezione).
Il documento programmatico definisce le misure per garantire
i nuovi obblighi di pubblicazione ed assicurare la
regolarità e la tempestività dei flussi di informazioni nei
confronti del responsabile della trasparenza (che coincide
con il responsabile anti-corruzione in base all'articolo
43).
La formazione del piano comprende il coinvolgimento delle
associazioni dei consumatori e degli utenti, e la
definizione degli obiettivi in correlazione con il piano
della performance.
Nel definire i vari aspetti operativi per l'attuazione del
Dlgs 33/2013 gli enti locali devono porre attenzione sulla
rilevanza degli obblighi di pubblicazione e di
predisposizione di strumenti di trasparenza in esso
previsti, rafforzati da un articolato sistema di sanzioni.
Queste riguardano sia le amministrazioni sia i soggetti
(dirigenti o funzionari, responsabile della trasparenza) che
non adempiono ad obblighi specifici.
Nel primo gruppo di sanzioni rientrano il divieto per le
amministrazioni controllanti di erogare somme (a qualsiasi
titolo, quindi anche corrispettivi per obblighi di servizio)
alle società partecipate delle quali non siano stati
pubblicati i dati su partecipazioni detenute, bilancio e
amministratori, e la riduzione delle risorse da trasferire
in corso d'anno in caso di mancata pubblicazione dei
rendiconti dei gruppi consiliari.
Le sanzioni particolari (sia disciplinari sia pecuniarie) in
capo a dirigenti e funzionari riguardano in particolare
l'omessa pubblicazione di atti e dati relativi al
conferimento di incarichi e consulenze.
Il responsabile della trasparenza è invece sanzionabile sul
piano della responsabilità dirigenziale e per eventuale
danno di immagine in caso di omessa pubblicazione degli atti
per i quali questa sia prevista come obbligatoria, oltre che
per la mancata predisposizione del programma triennale della
trasparenza. Per gli organi politici sono invece previste
sanzioni pecuniarie per la mancata comunicazione dei dati
rilevanti ai fini della pubblicità della loro situazione
patrimoniale (articolo 47).
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I punti chiave
01|SU INTERNET
Sul sito istituzionale di ogni ente locale va predisposta
una sezione «amministrazione trasparente» in ci siano
resi disponibili tutti gli atti sottoposti ad obbligo di
pubblicazione
02|L'ACCESSO
Tutti gli atti, anche quelli non sottoposti a obbligo di
pubblicazione, vanno resi disponibili a chiunque tramite il
diritto di accesso
03|LE SANZIONI
L'omessa pubblicazione di atti relativi a incarichi e
consulenze determina una sanzione a carico dei responsabili
degli uffici. Vietata l'erogazione di somme alle partecipate
che non pubblicano i dati su bilanci e amministratori (articolo Il
Sole 24 Ore del 22.04.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
TRIBUTI:
Scadenze a incastro per l'Imu.
Le date da monitorare: il 16 maggio e il 16 novembre.
Guida per i contribuenti per districarsi con la
tempistica senza incappare in sanzioni.
Il calendario è cambiato ma (per ora) gli aumenti rimangono.
Imu e Tares continuano a turbare i sonni dei contribuenti,
malgrado l'ennesimo restyling normativo operato dal decreto
varato dal governo per sbloccare i debiti della p.a. (dl
35/2013). Molte sono, tuttavia, le novità, che riguardano
soprattutto la tempistica dei pagamenti.
Per l'Imu, la regola rimane quella (già applicata per l'Ici)
del pagamento in due rate, con un primo acconto in scadenza
al 17 giugno (il 16 è domenica) e il saldo da versare entro
lunedì 16 dicembre. È anche possibile (lo prevede l'art. 9,
comma 3, del dlgs 23/2011) provvedere al versamento
dell'imposta complessivamente dovuta in un'unica soluzione
annuale, da corrispondere entro il termine per il versamento
dell'acconto, ma si tratta anche quest'anno di una scelta
poco consigliabile. Il rischio, infatti, è quello di doversi
comunque presentare alla cassa anche a fine anno, per far
fronte agli aumenti decisi medio tempore dai comuni.
Dopo le modifiche introdotte dall'art. 10 del dl 35,
infatti, il meccanismo somiglia a una storia a bivi dei
fumetti. Il primo bivio è previsto per il 16 di maggio, data
che rappresenta la dead line entro la quale le deliberazioni
dei comuni che fissano le aliquote dell'imposta (oltre che i
regolamenti che ne disciplinano l'applicazione) devono
essere pubblicate sul sito del Dipartimento delle finanze
per essere efficaci già in sede di versamento dell'acconto.
A tal fine, i comuni sono tenuti a inviare i predetti
provvedimenti al Mef (esclusivamente per via telematica)
entro il 9 maggio. Se questo timing sarà rispettato, già a
giugno occorrerà tenere conto di quanto deciso dai sindaci.
In caso contrario, il versamento della prima rata dovrà
essere pari al 50% dell'imposta dovuta calcolata sulla base
dell'aliquota e della detrazione valide per l'anno passato.
Attenzione, però a considerare quanto pagato
complessivamente nel 2012 e non solo all'ammontare
dell'acconto versato lo scorso mese di giugno, che nella
stragrande maggioranza dei casi era stato calcolato
applicando le aliquote e la detrazione nella misura standard
fissata dallo stato.
Il secondo bivio arriverà in autunno. Da quest'anno,
infatti, i comuni, per garantire il ripristino dei propri
equilibri di bilancio, possono ritoccare le aliquote
relative ai tributi di propria competenza (oltre che le
tariffe per i servizi) anche dopo l'approvazione del
bilancio di previsione, fino al 30 settembre. I
provvedimenti sull'Imu, per incidere sulla misura del saldo,
dovranno essere trasmessi alle Finanze entro il 9 novembre e
pubblicati sul sito del Mef entro il 16 novembre.
Altrimenti, per il versamento della seconda rata si
applicheranno gli atti pubblicati entro il 16 maggio oppure,
in mancanza, quelli adottati per il 2012.
Come evidente, si tratta di un labirinto all'interno del
quale ciascun contribuente, per non incappare nelle
sanzioni, dovrà districarsi monitorando con attenzione le
decisioni assunte dal proprio comune con un occhio al
calendario e l'altro alla tempistica di pubblicazione dei
provvedimenti sul sito delle Finanze. Al riguardo, occorre
precisare che, almeno in teoria, lo stesso comune potrebbe
intervenire più volte sulle aliquote: per esempio, una prima
volta con efficacia ai fini dell'acconto e una seconda per
incidere sul saldo. In tal caso, in occasione del secondo
versamento, occorrerà procedere al conguaglio sulla prima
rata versata. Ma analoghe difficoltà riguardano anche i
professionisti e i Caf, che infatti hanno già lanciato
l'allarme, sottolineando come il lasso di tempo di 30 giorni
fra la pubblicazione degli atti e le scadenze dei pagamenti
(16 maggio-17 giugno e 15 novembre-16 dicembre) sia troppo
breve per consentire l'adeguamento delle loro basi dati (articolo ItaliaOggi Sette
del 22.04.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Le
spese della Pa vanno online.
In vigore il decreto che rafforza con sanzioni gli obblighi
di informazione.
Un click per conoscere il tempo di attesa nell'ospedale di
zona per un'ecografia. Un altro per sapere quante poltrone
occupa il sindaco. Un sogno? Non proprio.
Da sabato scorso
l'obiettivo di una macchina pubblica «casa di vetro» è più
vicino. Dal 20 aprile infatti è in vigore il decreto
legislativo 33/2013, che riordina gli obblighi di
trasparenza per tutte le Pa, dai comuni ai ministeri, dalle
scuole alle Asl.
Una sorta di testo unico con due obiettivi. Il primo –tradizionale– è quello di riordinare la grande mole di
obblighi di pubblicazione che già incombe sulle nostre
amministrazioni (con questo decreto la Civit, la commissione
per la trasparenza ne ha contati circa 200). Il secondo, più
innovativo, è di accendere altri fari sull'operato della Pa,
a cominciare dalle risorse gestite. Molte le informazioni
che per la prima volta trovano la strada del web: a
cominciare dai bilanci dei gruppi politici regionali e
provinciali (per dimenticare gli scandali dei consigli
regionali di Lazio e Lombardia e, ora, anche del Piemonte),
per proseguire con la mappa completa non solo dei patrimoni
dei politici ma anche dei loro incarichi, pubblici e
privati.
A tutti gli eletti le nuove norme impongono di far conoscere
la situazione patrimoniale: redditi percepiti, immobili di
proprietà, investimenti, partecipazioni in società. Del
tutto nuova è anche l'estensione della pubblicità di queste
informazioni «al coniuge non separato e ai parenti fino al
secondo grado». Che si possono però anche rifiutare, ma in
questo caso l'amministrazione è tenuta a dare notizia del
diniego. A corredo dell'obbligo sanzioni, anche pecuniarie:
da 500 a 10mila euro a carico del politico inadempiente.
Online vanno da subito gli elenchi dei dirigenti
amministrativi di tutte le pubbliche amministrazioni
(compresi i direttori delle Asl) con il curriculum e
l'elenco degli altri incarichi e dei compensi percepiti.
Ogni amministrazione deve rendere note tutte le consulenze
concesse. Incarichi e consulenze vanno anche comunicati alla
banca dati «Perla» gestita dal ministero della Pubblica
amministrazione. «In questo modo avremo a breve un
censimento completo di quanto spende lo Stato in consulenze»
spiega Roberto Garofoli, capo di gabinetto del ministro
Filippo Patroni Griffi. Per la prima volta gli enti locali
dovranno far conoscere la mappa delle società partecipate.
Se non lo faranno, non potranno più versare neanche un euro
alla partecipata stessa.
Insomma ora si fa sul serio anche grazie a pesanti sanzioni
pecuniarie a carico dei dirigenti inadempienti (si veda la
scheda in questa pagina). E si fa sul serio in modo
generalizzato: nessuna gradualità è prevista per i piccoli
enti, che dovranno sopportare un carico piuttosto gravoso.
Ma a chi è affidato il compito di far funzionare questa
complessa macchina? All'esterno -ed è questa la novità- a
tutti i cittadini e alle associazioni (si veda la pagina
successiva). All'interno, ogni amministrazione deve avere un
«Responsabile della trasparenza» con compiti di segnalazione
degli inadempienti anche all'ufficio disciplina. Vigila
anche l'Oiv (organismo indipendente di valutazione).
In
seconda battuta può intervenire la Civit, che sta lavorando
a un apposito portale. «Servirà anche a favorire lo scambio
delle informazioni» spiega la presidente, Romilda Rizzo. La
Civit deve segnalare le inadempienze ai vertici politici
delle amministrazioni ma, ammette Rizzo, «possiamo
contare solo su 30 funzionari più dieci esperti»
(articolo Il Sole 24 Ore del
22.04.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Diritto
di accesso alla portata di tutti.
I cittadini possono chiedere di conoscere i documenti che
gli uffici hanno omesso di divulgare online.
EFFETTO COMBINATO/ Il potere di richiesta unito al sistema
di sanzioni può allontanare il rischio di inerzia da parte
della burocrazia.
Si chiama "accesso civico" ed è la chiave di volta della
nuova trasparenza a cui è chiamata la pubblica
amministrazione. Sullo strumento dell'accesso –grimaldello
capace di aprire i cassetti degli uffici pubblici– i
cittadini hanno scommesso fin dal 1990, quando la legge 241
lo ha introdotto. Ma quel diritto, reso via via più
pervasivo dalla decisioni di Tar e Consiglio di Stato,
rimane comunque una leva circoscritta e destinato
probabilmente a una progressiva attenuazione: il suo
utilizzo è, infatti, riservato solo a chi ha un interesse
concreto rispetto ai documenti che si pretende di conoscere.
L'accesso civico, invece, è alla portata di tutti, non ha
bisogno di particolari motivi per poter essere azionato, è
gratuito. Il solo presupposto per potervi ricorrere è che
l'amministrazione non abbia pubblicato sul proprio sito i
documenti indicati dal decreto legislativo 33/2103, cioè il
testo unico sulla trasparenza voluto dalla legge
anticorruzione (la 190 del 2012). Soltanto in quel caso il
cittadino (qualsiasi cittadino) può rivolgersi al
responsabile della trasparenza (figura introdotta dal
decreto 33) chiedendo di conoscere i documenti non resi
pubblici. L'amministrazione è tenuta a rispondere entro
trenta giorni: deve mettere online i dati richiesti e
informarne il richiedente. Se l'amministrazione si dimostra
sorda anche all'accesso civico, il cittadino può bussare
alla porta del dirigente a cui compete –secondo quanto
previsto dalla legge 241 del 1990– il potere sostitutivo in
caso di inerzia degli uffici e la risposta deve arrivare
entro quindici giorni.
Sull'accesso civico, dunque, si ripongono molte speranze per
l'applicazione delle nuove regole sulla trasparenza. Dalle
amministrazioni –che finora non hanno brillato nella
pubblicità dei dati in loro possesso e che adesso si
troveranno alle prese con altri impegnativi adempimenti– ci
sono da aspettarsi latitanze. Il ministero della Pubblica
amministrazione e la Civit (la commissione sulla valutazione
e la trasparenza) dovrebbero vigilare sul rispetto delle
nuove norme. Compito molto difficile, vista la quantità di
enti da monitorare. Si confida, pertanto, nell'iniziativa
dei cittadini, forti del potere conferito loro dall'accesso
civico.
Prospettiva a cui dovrebbe, poi, dar man forte l'apparato
sanzionatorio previsto per chi non pubblica i dati. Il
legislatore ha, infatti, predisposto un meccanismo duplice:
da una parte le sanzioni che colpiscono i dirigenti
colpevoli tagliando gli accessori alla retribuzione, come i
bonus legati al risultato; dall'altra, sanzioni mirate, con
il pagamento di cifre che oscillano da 500 a 10mila euro e
capaci di innescare conseguenze amministrative. Per esempio,
nel caso della mancata pubblicazione delle informazioni sui
dirigenti apicali o sui consulenti, l'omissione determina
l'inefficacia degli atti di conferimento di quegli
incarichi.
Le amministrazioni sono chiamate, pertanto, a una grande
sfida, che non si esaurisce nella pubblicazione online dei
dati. Questi ultimi, infatti, devono anche essere di
qualità: l'amministrazione deve, in altre parole, garantirne
l'integrità, l'aggiornamento, la completezza, la
tempestività, la semplicità di consultazione, la
comprensione, l'omogeneità, la facile accessibilità, nonché
la conformità ai documenti originali, l'indicazione della
provenienza e la riutilizzabilità (purché si citi la fonte e
si rispetti l'integrità del dato). Requisiti che non possono
in alcun modo rappresentare un motivo di inerzia o di
ritardo per gli uffici pubblici.
Inoltre, le informazioni vanno pubblicate nel formato aperto
(open data), così che tutti vi possano accedere. Anzi, viene
espressamente vietata la predisposizione di filtri che
inibiscano ai motori di ricerca di effettuare ricerche
all'interno della sezione in cui sono contenuti i dati sulla
trasparenza. Infine, i dati vanno conservati: devono
rimanere sul web per almeno 5 anni o finché producono
effetti
(articolo Il Sole 24 Ore del
22.04.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
APPALTI: Sull'antimafia
iter lungo in Prefettura.
L'OSTACOLO/
Senza il database nazionale il rilascio dei certificati
richiede anche più di 45 giorni contro i due impiegati dalle
Camere di commercio.
Dal 13 febbraio le Camere di Commercio non sono più
competenti a rilasciare il certificato del registro imprese
integrato con la dicitura antimafia che per legge era
parificato alla «comunicazione» antimafia, mentre
«l'informazione» antimafia era rilasciata solo dalle
Prefetture.
Il cambio di competenze è stato previsto dal Dlgs 218/2012 e
precisato dal ministero dell'Interno (nota dell'8 febbraio).
Fino al 12 febbraio il certificato veniva richiesto alle
Camere di Commercio dagli enti pubblici (soprattutto i
Comuni) e dai gestori di servizi pubblici, nelle procedure
per gli appalti e il controllo delle attività economiche.
Questi enti e gestori devono ora richiedere il certificato
(o meglio la comunicazione) antimafia alla Prefettura che ha
tempo 45 giorni dalla richiesta per rispondere, termine che
però non è perentorio.
Queste regole sul rilascio della comunicazione rimarranno in
vigore fino al funzionamento della banca dati nazionale
antimafia gestita dal ministero la quale dovrà rilasciare la
comunicazione «immediatamente».
Si è così creata, ed era facilmente prevedibile, una
situazione che danneggia sia le imprese sia gli enti
pubblici perché i tempi per la stipula dei contratti e il
rilascio delle autorizzazioni si allungheranno, mentre le
Camere rilasciavano i certificati ai Comuni e altri
organismi in media entro due giorni e, quando possibile,
anche il giorno stesso.
In un periodo di crisi anche questa novità, come constatato
ormai da due mesi, è una complicazione nella vita delle
aziende, e causa ritardi non giustificati.
La novità è poi incomprensibile per due motivi che emergono
dalla nota del ministero: perché nel periodo transitorio la
Prefettura rilascia la comunicazione utilizzando gli stessi
dati del Ced nazionale a cui erano collegate le Camere;
perché, trattando dei tempi del procedimento, al punto 6 si
afferma che «le previsioni secondo cui il rilascio delle
comunicazioni … deve avvenire immediatamente … non paiono
suscettibili di applicazione in questa fase transitoria».
Tra le parole «non paiono» e la conclusione «non sono» c'è
una forte differenza.
Per rimediare, la soluzione più funzionale per le imprese e
a costo zero è confermare alle Camere la competenza al
rilascio dei certificati antimafia fino all'operatività
della nuova banca dati nazionale. Eventualmente la nuova
procedura potrebbe essere riservata solo alle società
concessionarie di giochi pubblici e alle società estere
prive di sede stabile.
Consultando i siti aggiornati di alcune Prefetture risultano
applicazioni non omogenee delle nuove disposizioni. In
alcune province agli enti che richiedono la comunicazione
viene imposto di allegare copia della visura camerale
relativa all'impresa o, in alternativa, una dichiarazione
sostitutiva compilata dal legale rappresentante dell'impresa
con i dati contenuti nella visura. In pratica, l'ente o
l'impresa devono acquisire una visura camerale, adempimento
prima non necessario.
Per evitare l'incertezza sui tempi di rilascio della
comunicazione, all'imprenditore è concessa, in certi casi,
la possibilità di compilare un'autocertificazione in cui
dichiara che non sussistono a suo carico cause di divieto,
decadenza o sospensione previste dall'articolo 67 del Dlgs
159/2011, e questa va rilasciata all'ente o al gestore di
servizi. Soluzione solo apparentemente semplice perché è
molto difficile e rischioso per un cittadino interpretare
correttamente le norme penali e amministrative relative
all'antimafia; in caso di errore, si rischia una denuncia
per falsa dichiarazione.
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Il quadro
01 | LE COMPETENZE
Dal 13 febbraio la competenza sul rilascio dei certificati
del registro imprese con la dicitura antimafia è passata
dalle Camere di commercio alle Prefetture. Le Prefetture
sono tenute a occuparsi di questa procedura fino
all'attivazione della banca dati nazionale antimafia (con la
pubblicazione del Dpcm, c'è un mese di tempo)
02 | LE CONSEGUENZE
La Prefettura ha tempo 45 giorni per rispondere, e il
termine non è perentorio. Questo comporta un allungamento
dei tempi a carico delle imprese che hanno bisogno del
certificato con la dizione antimafia per la partecipazione
agli appalti (articolo Il Sole 24 Ore del
22.04.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
APPALTI SERVIZI: Corte
costituzionale. Le indicazioni della sentenza 50/2013.
In house sempre più difficile per le aziende quotate in
Borsa.
IL CRITERIO/
L'ente deve avere un potere «determinante» sia sugli
obiettivi strategici sia sulle decisioni importanti
dell'affidataria.
Con la recente sentenza 50/2013 la Corte costituzionale ha
voluto ribadire i requisiti e le condizioni per la
sussistenza del rapporto in house, prendendo spunto
dall'impugnazione da parte del Governo della legge della
regione Abruzzo 9/2011 che disciplina il servizio idrico
integrato.
La Corte ha colto l'occasione per rifare il punto sul
rapporto in house. Bisogna ricordare che «in house» è una
sintesi verbale che indica una relazione fra
un'amministrazione pubblica e un ente (società,
associazione, ecc.) da essa interamente controllato, sul
quale esercita un controllo analogo a quello che
eserciterebbe su un proprio ufficio e che svolge un'attività
tendenzialmente esclusiva a favore della controllante.
La norma impugnata specificava le modalità di esercizio del
«controllo analogo» sugli affidatari in house del servizio
idrico integrato «nel rispetto dell'autonomia gestionale del
soggetto gestore», attraverso il «parere obbligatorio» sugli
atti fondamentali di quest'ultimo.
L'individuazione dei parametri costituzionali per la
valutazione della norma regionale ha indotto la Corte a una
verifica della disciplina nazionale sull'affidamento dei
servizi pubblici locali. Il legislatore nazionale aveva
introdotto norme molto restrittive e di chiaro sfavore per
l'affidamento in house, per aprire il settore dei servizi
pubblici alla concorrenza, ma il referendum abrogativo del
12 e 13.06.2011 aveva spazzato via ogni limitazione
legislativa,e anche la successiva reintroduzione di norme
pro concorrenziali era stata giudicata illegittima dalla
Corte proprio perché non rispettava l'esito referendario.
Secondo la Corte, quindi, la conseguenza delle vicende
legislative e referendarie brevemente richiamate è che,
attualmente, si deve ritenere applicabile la normativa e la
giurisprudenza comunitarie in materia, senza alcun
riferimento a leggi interne. La sentenza 50, fondandosi
proprio sui principi comunitari espressi dalla Corte di
giustizia dell'Unione europea, ha dichiarato l'illegittimità
della norma regionale impugnata per violazione dell'articolo
117, primo comma, della Costituzione (mancato rispetto dei
vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario).
Questa sentenza è importante perché, nell'enunciare principi
noti, ne specifica la portata concreta. Il potere esercitato
sull'ente controllato consiste in un'influenza determinante
sia sugli obiettivi strategici sia sulle decisioni
importanti; la «possibilità di influenza determinante» è
incompatibile con il rispetto dell'autonomia gestionale,
senza distinguere -in coerenza con la giurisprudenza
comunitaria- tra decisioni importanti e ordinaria
amministrazione. Inoltre, il rapporto in house deve
comportare che l'amministrazione controllante esprima pareri
vincolanti sugli atti dell'ente controllato.
L'aver esplicitato l'incompatibilità fra «autonomia
gestionale» e modello in house dovrebbe comportare
un'attenta valutazione da parte delle amministrazioni
controllanti sulla scelta della tipologia di società con cui
costituire il «controllo analogo». In particolare, dopo
questa sentenza, appare ancor più problematico costruire un
rapporto in house con le società per azioni. In queste
ultime, la rilevante autonomia all'organo amministrativo,
cui compete la gestione dell'impresa e la correlativa
responsabilità (articoli 2380-bis, comma 1, e 2409-novies,
comma 1 del Codice civile) appare confliggere in modo
evidente con le caratteristiche essenziali della relazione
in house
(articolo Il Sole 24 Ore del
22.04.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Sul
decoro architettonico giudizio discrezionale.
RISCHIO GIURIDICO/
Quasi impossibile mettersi al riparo dalla possibilità di un
contenzioso: occorrerebbero l'unanimità o l'usucapione
ventennale.
Il «decoro architettonico» è un'arma a doppio taglio. Da una
parte il concetto viene usato per impedire che a un
condomino salti in mente di rovinare la facciata del
palazzo; dall'altra rappresenta il veicolo ideale per
mettere in atto veti incrociati che blocchino qualsiasi
intervento migliorativo del proprio appartamento che abbia
un effetto anche esterno, dalle fioriere alle persiane,
dalle tende da sole al nuovo parapetto del terrazzo.
La sentenza 24.04.2013 n. 10084 commentata ieri sul Sole 24 Ore conferma un'importante
distinzione: a parlare di «aspetto architettonico» è
l'articolo 1127 del Codice civile, dedicato alle
sopraelevazioni; mentre di «decoro architettonico» si parla
all'articolo 1120, che regola invece le innovazioni.
L'articolo 1127 non è stato toccato dalla riforma della
legge 220/2012 e, al comma 3, recita: «i condomini possono
altresì opporsi alla soprelevazione se questa pregiudica
l'aspetto architettonico dell'edificio (...)».
Quindi,
parlando della costruzione di un altro piano sopra l'ultimo,
bisogna ricordare la sentenza 1025/2004, che dice: «per
accertare se una sopraelevazione pregiudica, a mente
dell'articolo 1127 Codice civile, l'aspetto architettonico
di un edificio, ciò che conta non è l'esistenza, in
quest'ultimo, di particolari pregi artistici, ma
semplicemente l'esistenza di uno stile architettonico ovvero
di determinate linee estetiche»: una volta che il nuovo
ultimo piano è stato realizzato rispettando lo stile
architettonico di quelli sottostanti, la sopraelevazione è
salva.
Ben diverso è il discorso delle innovazioni di cui
all'articolo 1120 del Codice civile: si tratta dei casi più
frequenti. L'articolo 1120 dice al comma 2 (anch'esso
rimasto identico dopo la riforma, solo che ora è il comma
4): «Sono vietate le innovazioni che possano recare
pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato,
che ne alterino il decoro architettonico (...)».
È proprio
il concetto di decoro architettonico a essere più
restrittivo perché le innovazioni sono i mutamenti «diretti
al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior
rendimento delle cose comuni»: una definizione che di fatto
comprende qualsiasi opera. Tra l'altro, ogni condomino può
agire in giudizio per la tutela del decoro architettonico
della proprietà comune, come ha ribadito la Cassazione
(sentenza 14474/2011).
Il problema è quindi individuare cosa
sia il «decoro architettonico»: ebbene, non lo si chieda
alla Cassazione, la quale (sentenza 10350/2011) ha affermato
che (nel caso dell'installazione in facciata di una canna
fumaria per lo smaltimento fumi di una pizzeria) la
questione si risolve in un apprezzamento discrezionale,
istituzionalmente demandato al giudice di merito.
Quindi un'innovazione, anche piccola, è a rischio: e non ci
si salva certo con una delibera a maggioranza che la
approvi. Le solo strade sono una delibera all'unanimità o
che sia dimostrabile che siano trascorsi almeno vent'anni
dalla realizzazione dell'intervento.
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L'iniziativa
La riforma del condominio è a meno di due mesi dall'entrata
in vigore. Le criticità sono emerse e insieme a esse la
necessità di intervenire prima dell'entrata in vigore, per
evitare il rischio che la riforma parte zoppa. Per questo Il
Sole 24 Ore ha lanciato l'iniziativa di «correggere la
riforma». Hanno risposto praticamente tutte le associazioni
di condomini e amministratori e gli ordini interessati: Agiai, Alac, Anaci, Anaip, Anammi, Anapi, Apac, Apu, Arai,
Arpe-Federproprietà, Assocond, Asppi,
Assoedilizia-Confedilizia, Confabitare, Confappi-Fna,
Confiac, Gesticond, Mapi, Ordine degli avvocati di Milano,
Consiglio notarile di Milano, Unai, Unioncasa-Confai e Uppi.
Con le associazioni è stata elaborata una proposta di
modifica tecnica della legge 220/2012 che verrà presentata
in un convegno, trasmesso in streaming in tutta Italia, il
22 maggio. La proposta sarà presentata in Parlamento da
deputati e senatori che hanno già partecipato alla stesura
della riforma e che hanno dato la loro disponibilità ai
correttivi elaborati dal Sole 24 Ore con le associazioni
(articolo Il Sole 24 Ore 26.04.2013). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Lo stile del condominio non protegge la «bruttura».
Opera
illecita anche se conforme alle caratteristiche
dell'edificio.
La Corte di cassazione boccia l'opera architettonica che
costituisce una «bruttura dal punto di vista estetico»,
anche se questa è realizzata «seguendo il medesimo stile
architettonico utilizzato nella realizzazione
dell'edificio».
Il principio è contenuto nella sentenza 24.04.2013 n.
10084, che richiama le ragioni che stanno
dietro le parole «decoro architettonico» e «aspetto», di
volta in volta usate dal legislatore in varie norme.
La sentenza ribalta la decisione dei giudici della Corte
d'appello, che avevano dato ragione al proprietario di un
attico, che aveva realizzato sulla terrazza un nuovo corpo
di fabbrica. Secondo il condomino, «il nuovo manufatto non
costituiva una stonatura rispetto all'unitarietà
dell'edificio stesso». Questa tesi veniva motivata con il
fatto che il nuovo corpo di fabbrica aveva lo stesso stile
architettonico del palazzo.
Ma la Cassazione ha accolto il ricorso del condominio,
secondo cui in base al principio dello stile architettonico
si corre il rischio che i singoli condòmini realizzino vere
e proprie «brutture».
«La nozione di aspetto architettonico di cui all'articolo
1127 del Codice civile –spiega la Cassazione– non coincide
con quella di decoro di cui all'articolo 1120 (più
restrittiva): l'intervento edificatorio quindi dev'essere
decoroso (rispetto allo stile dell'edificio) e non deve
rappresentare comunque una rilevante disarmonia rispetto al
preesistente complesso tale da pregiudicarne le originarie
linee architettoniche».
Il quadro normativo su cui s'innesta la sentenza considera
le innovazioni non influenti sull'aspetto architettonico,
inteso come stile e quindi come caratteristica principale
con cui la costruzione si presenta a chi la guardi. Le
innovazioni, normalmente di minore consistenza rispetto alle
sopraelevazioni, assumono rilievo e sono vietate dal secondo
comma dell'articolo 1120 del Codice civile solo se incidono
sull'equilibrio delle forme e quindi sulla simmetria o sulla
proporzione tra le varie parti influenti sull'estetica
dell'edificio.
È però consentito ai regolamenti di condominio adottare una
nozione più rigorosa e di imporre divieti anche assoluti di
ogni modifica esterna. In tale modo i condomìni interessati
si danno una regola particolare, che ovviamente molto li
vincola e che talvolta può risultare anche eccessiva, in
ragione del mutare delle esigenze soggettive e anche
dell'evoluzione della tecnica.
Di tali implicazioni non sembra che la recente riforma del
condominio si sia fatta carico.
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L'iniziativa
La riforma del condominio è a due mesi dall'entrata in
vigore. Le criticità sono emerse e insieme a esse la
necessità di intervenire prima dell'entrata in vigore, per
evitare il rischio che la riforma parte zoppa.
Per questo Il Sole 24 Ore ha lanciato l'iniziativa di
«correggere la riforma». Hanno risposto praticamente tutte
le associazioni di condomini e amministratori e gli ordini
interessati: Agiai, Alac, Anaci, Anaip, Anammi, Anapi, Apac,
Apu, Arai, Arpe-Federproprietà, Assocond, Asppi,
Assoedilizia-Confedilizia, Confabitare, Confappi-Fna,
Confiac, Gesticond, Mapi, Ordine degli avvocati di Milano,
Consiglio notarile di Milano, Unai, Unioncasa-Confai e Uppi
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.04.2013). |
APPALTI: Durc senza paletti.
Non va limitato al singolo appalto. Cds
boccia le circolari Inps, Inail e Minlavoro.
Illegittime le circolari di ministero del lavoro, Inps e
Inail che limitano l'efficacia del Durc alle specifiche gare
d'appalto per le quali il certificato viene emesso.
Il
Consiglio di Stato, Sez. III, con l'ordinanza
23.04.2013 n. 1465 interviene a piedi uniti sulla disciplina del Durc, allo scopo sia di semplificare il quadro normativo,
sia di ricordare che a dover essere applicata è sempre la
legge e non le circolari che si pongano in contrasto con
essa.
La questione, da sempre dibattuta, di cui si è
occupata l'ordinanza, riguardava la capacità del Durc di
attestare la regolarità contributiva di un operatore
economico partecipante ad una gara d'appalto, ancorché
emesso per una diversa procedura di gara.
La parte appellante, per opporsi all'aggiudicazione, aveva
evidenziato tra le ragioni del proprio ricordo l'invalidità
del Durc, dovuta proprio alla circostanza che esso fosse
riferito ad una procedura di gara diversa da quella per la
quale venne utilizzato. L'appello si era basato su una serie
di interpretazioni, fornite con circolari Inail del 05.02.2008, n. 7, del ministero del lavoro dell'08.10.2010, n. 35 e infine dell'Inps con data 17.11.2010, n.
145. Quest'ultima in particolare aveva specificato che il Durc «deve essere richiesto per ogni singola procedura di
selezione e la sua validità trimestrale opera limitatamente
alla specifica procedura per la quale è stato richiesto»,
con ciò fondando la convinzione che per ciascuna specifica
gara, dovesse emanarsi uno specifico Durc.
Risulta evidente che questa interpretazione cozzi contro
ogni principio di semplificazione dell'azione
amministrativa, in quanto induce a dover emettere nuovi
certificati, pur essendovene operanti e in corso di validità
altri che abbiano già attestato la situazione contributiva
dell'impresa. I giudici di palazzo Spada hanno respinto il
motivo di appello, sottolineando in modo tranciante che
«quanto alla contestata efficacia probatoria di tale
documentazione, che non vi sono norme primarie che
prescrivano che il Durc per la partecipazione alle gare di
appalto debba riferirsi alla specifica gara di appalto,
mentre disposizioni contenute in circolari, invocate
dall'appellante, non appaiono rilevanti, non potendo essere
considerate rilevanti le circolari che risultino contra legem (cfr., sul punto, Cons. st., sez. VI, 18/12/2012, n.
6487)».
Molto semplicemente, il Consiglio di stato ricorda
agli operatori, ma anche alle autorità amministrative, che
le circolari non possono andare oltre la funzione di
illustrare il contenuto delle norme, senza poter invadere lo
spazio riservato al legislatore, introducendo contenuti o,
comunque, chiavi di lettura assenti o contrastanti nelle
norme. Eventi, questi, che proprio per la disciplina del Durc
si sono, purtroppo, ripetuti innumerevoli volte
(articolo ItaliaOggi del 26.04.2013). |
APPALTI: Gare.
Per il Consiglio di Stato il documento di regolarità
contributiva apre le porte a tutti i bandi nei tre mesi di
validità
Il «Durc» slegato dall'appalto.
La decisione è in contrasto con gli orientamenti del
ministero del Lavoro e dell'Inail.
LE CONSEGUENZE/
Per i giudici amministrativi l'esibizione di un certificato
ottenuto per altri fini non giustifica l'esclusione ma la
richiesta di chiarimenti.
Il nostro ordinamento non stabilisce che il documento unico
di regolarità contributiva (Durc) per la partecipazione a
una gara di appalto deve riferirsi specificamente ad essa.
Il principio è stato pronunciato nell'ordinanza
23.04.2013 n. 1465 della III Sez. del Consiglio di Stato
nell'ambito della richiesta di riforma di un'ordinanza
cautelare del Tar del Lazio.
Si tratta di una decisione in contrasto con le istruzioni
operative emanate dalle circolari 7/2008 dell'Inail, 35/2010
del Lavoro e 145/2010 dell'Inps.
Le circolari a cui fa riferimento il Consiglio di Stato
riguardavano, per l'Inail, la parte in cui è stabilito che
la validità del Durc –per tutti gli appalti pubblici– è
legata allo specifico appalto ed è limitata alla fase per
cui il certificato è stato richiesto, come la stipula del
contratto e i pagamenti stati avanzamenti lavori (Sal).
La circolare 35/2010 del ministero del Lavoro fa affermato a
sua volta, partendo da una determinazione dell'Autorità di
vigilanza sui contratti pubblici, che –ferma restando la
validità temporale trimestrale del Durc– relativamente ai
contratti disciplinati dal Dlgs 163/2006, e nell'ambito
delle procedure di selezione del contraente, va utilizzato
un Durc per ciascuna procedura in tutti i casi in cui in
base all'articolo 16-bis, comma 10, del Dl 185/2008
(convertito nella legge 2/2009) esso deve essere acquisito
d'ufficio dalle stazioni appaltanti pubbliche, anche
attraverso strumenti informatici.
Il ministero ha sottolineato che, sempre per gli appalti
pubblici, non va utilizzato un Durc richiesto a fini diversi
(ad esempio, un Durc richiesto per la fruizione di benefici
e sovvenzioni previsti dalla disciplina comunitaria o un
Durc richiesto per lavori privati dell'edilizia) e ciò in
quanto le verifiche operate dai competenti istituti e/o
Casse edili seguono ambiti diversi e procedure in parte
diverse in relazione alle finalità per cui è emesso il
documento.
Su tali principi si è subito uniformato l'Inps con la
circolare 145/2010.
Dello stesso avviso non è stato, però, il Consiglio di Stato
il quale, prima con la sentenza 6487/2012 della sezione VI,
e ora con la più recente ordinanza richiamata, ha dato alla
problematica in esame una diversa interpretazione.
Infatti, in sede di giudizio, dove è stata contestata da una
delle parti in causa l'irritualità del Durc utilizzato nella
procedura, in quanto non specificamente inerente all'oggetto
della gara, oltreché privo d'idoneità per l'intervenuto
decorso del relativo periodo di validità, il Consiglio di
Stato non ha accolto tale eccezione. Esso ha ritenuto,
invece, che non vi sono norme primarie le quali prescrivano
che il Durc per la partecipazione alle gare di appalto debba
riferirsi alla specifica gara e che non è dedotto e
dimostrato dal ricorrente in quale modo la regolarità
contributiva venga acclarata in modo diverso dagli enti
preposti, ai diversi fini della partecipazione a gare di
appalto, degli stati avanzamenti lavori e della concessione
di finanziamenti.
Disposizioni contrarie contenute nelle circolari sono state
considerate irrilevanti dal Consiglio, non potendo essere
considerate, a loro volta, rilevanti le circolari che
risultino contra legem. Il Consiglio di Stato ha ritenuto,
inoltre, che in ogni caso l'esibizione in gara di un Durc
ottenuto ad altri fini non giustifica l'esclusione, ma
semmai la richiesta di chiarimenti e integrazioni ai sensi
dell'articolo 46 del Codice degli appalti, tanto più che ai
sensi dell'articolo 16-bis, comma 10, del Dl 185/2008
(convertito nella legge 2/2009, applicabile ratione temporis
alla gara di appalto oggetto di causa), «le stazioni
appaltanti pubbliche acquisiscono d'ufficio, anche
attraverso strumenti informatici, il documento unico di
regolarità contributiva (Durc) dagli istituti o dagli enti
abilitati al rilascio in tutti i casi in cui è richiesto
dalla legge».
---------------
Il rilascio del documento
01 | SOGGETTI ABILITATI
Il Durc è rilasciato dagli enti di previdenza e, per i
datori di lavoro operanti nel settore dell'edilizia, dalle
Casse edili stipulanti il contratto collettivo nazionale
02 | I PALETTI
Il Durc non può essere rilasciato qualora risultino
irregolarità contributive accertate dall'istituto che lo
deve emettere. Esse possono riguardare: a) la non
correttezza degli adempimenti mensili o, comunque,
periodici; b) la non corrispondenza tra versamenti
effettuati e quelli accertati dagli istituti come dovuti; c)
l'esistenza di inadempienze in atto. Potrà essere, invece,
rilasciato, qualora: a) sia stata inoltrata richiesta di
rateizzazione per la quale l'istituto abbia già espresso
parere favorevole; b) vi siano sospensioni dei pagamenti a
seguito di disposizioni legislative; c) sia stata presentata
istanza di compensazione per la quale sia stato documentato
il credito; d) la denuncia alla Cassa edile comprenda, per
ciascun operaio, un numero di ore lavorate e non lavorate
non inferiore a quello contrattuale, specificando le causali
di assenza
03 | LA REGOLARIZZAZIONE
In mancanza dei requisiti gli istituti, prima dell'emissione
del Durc o dell'annullamento del documento già rilasciato,
invitano l'interessato a regolarizzare la propria posizione
entro 15 giorni
04 | IL CONTENZIOSO
Non costituisce causa ostativa al rilascio del Durc
l'eventuale presenza di crediti iscritti a ruolo per i quali
sia stata disposta la sospensione della cartella a seguito
di ricorso amministrativo o giudiziario.
In merito ai crediti non ancora iscritti a ruolo, essi non
costituiscono causa ostativa: a) in pendenza di contenzioso
amministrativo; in tal caso il Durc può essere rilasciato
sino alla decisione che respinge il ricorso; b) in pendenza
di contenzioso giudiziario, la regolarità è dichiarata sino
al passaggio in giudicato della sentenza di condanna
05 | GLI SCOSTAMENTI LIEVI
Ai soli fini della partecipazione a gare di appalto non osta
al rilascio del Durc uno scostamento non grave tra le somme
dovute e quelle versate, con riferimento a ciascun istituto
previdenziale e a ciascuna Cassa edile. Non si considera
grave lo scostamento inferiore o pari al 5% tra le somme
dovute e quelle versate con riferimento a ciascun periodo di
paga o di contribuzione o, comunque, uno scostamento
inferiore a 100 euro, fermo restando l'obbligo di versamento
del predetto importo entro i 30 giorni successivi al
rilascio del Durc
06 | LA SICUREZZA
La violazione, da parte del datore di lavoro o del dirigente
responsabile, delle disposizioni penali e amministrative in
materia di tutela delle condizioni di lavoro è causa
ostativa al rilascio del Durc.
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Incentivi subordinati all'attestato.
Il possesso del Durc è richiesto ai datori di lavoro ai fini
della fruizione dei benefici normativi e contributivi in
materia di lavoro e legislazione sociale, nonché per
ottenere benefici e sovvenzioni previsti dalla disciplina
comunitaria. È inoltre richiesto nelle procedure d'appalto
di opere, servizi e forniture pubblici e nei lavori privati
dell'edilizia.
Per l'individuazione dei benefici normativi e contributivi,
il ministero del Lavoro, con circolare 5/2008, ha riprodotto
un elenco esemplificativo. Così, per benefici contributivi
sono stati individuati gli sgravi collegati alla
costituzione e gestione del rapporto di lavoro da
considerarsi in deroga all'ordinario regime contributivo.
Pertanto, non rientrano tra questi il regime contributivo
previsto per la generalità degli apprendisti, o per alcuni
settori come l'agricoltura e la navigazione marittima, salvo
che in tali settori ricorrano ulteriori speciali
agevolazioni. Al riguardo è stato precisato che i benefici
sono subordinati all'applicazione della sola parte economica
e normativa degli accordi e contratti collettivi, e non
anche alla parte obbligatoria di questi ultimi.
Chi intende fruire dei benefici in questione, deve essere in
possesso del Durc di cui all'articolo 1 del Dm 24.10.2007. In caso di coincidenza tra istituto previdenziale che
rilascia il Durc e quello che ammette il datore alla
fruizione dei benefici contributivi, sarà l'istituto stesso
a verificare la sussistenza delle condizioni di regolarità,
senza dover procedere alla sua materiale emissione. Ciò non
esclude, tuttavia, che il datore di lavoro inoltri
all'istituto apposita richiesta, ed eventuale
documentazione, per ottenere il necessario provvedimento di
autorizzazione.
Nelle procedure d'appalto il Durc segue due strade diverse
per i contratti pubblici e privati. Nella prima ipotesi,
anche in una ottica di semplificazione delle procedure, in
applicazione dell'articolo 16-bis del Dl 185/2008, saranno
direttamente le stazioni appaltanti pubbliche ad acquisire
d'ufficio dagli istituti il Durc. L'obbligo del Durc
sussiste anche in caso di appalti relativi all'acquisizione
di beni, servizi e lavori effettuati in economia mediante
cottimo fiduciario (articolo 165 del Dlgs 163/2006).
Con riferimento ai cantieri privati, il Durc è previsto
dall'articolo 90 del Dlgs 81/2008 e successive modifiche e
integrazioni (Tu sulla sicurezza nei luoghi di lavoro) a
carico imprese esecutrici e/o lavoratori autonomi operanti
in cantieri per conto di committenti privati. Il documento
può essere utilizzato per l'intero periodo della sua
validità trimestrale per l'esecuzione di più lavori (articolo l Sole 24 Ore del 28.04.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Comune, se è legittimato a richiedere il
pagamento della tassa (o del canone) per le occupazioni
(permanenti) del sottosuolo, (come pure può richiedere il
versamento di un deposito cauzionale, a garanzia dei danni
che possono derivare dalla esecuzione degli scavi e dei
reinterri stradali), non può invece pretendere alcun onere
aggiuntivo (indipendentemente dalla sua congruità) per
l’attività di controllo sulla regolare esecuzione dei lavori
di ripristino del manto stradale, tanto più in
considerazione del fatto che l’attività vigilanza e di
controllo sul territorio rientra tra i compiti istituzionali
del Comune, che deve provvedervi con il proprio personale
(Polizia Municipale; Ufficio Tecnico).
L’art. 93, comma 1, del d.lgs. 01.08.2003 n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche)
sancisce espressamente il divieto di imposizione di oneri o
canoni (di qualunque natura) che non siano previsti per
legge.
Il divieto legislativo sopra richiamato, in realtà, trova il
suo fondamento costituzionale nell’art. 23 della
Costituzione, a norma del quale “Nessuna prestazione
personale o patrimoniale può essere imposta se non in base
alla legge”.
Conformandosi all’orientamento giurisprudenziale della Corte
Costituzionale secondo il quale quella di cui all’art. 23
Cost. è una riserva di legge relativa (Corte Costituzionale
07.04.2011 n. 115; 14.06.2007 n. 190), il Collegio fa
rilevare che l’imposizione agli amministrati, con atto di
natura regolamentare, di una nuova prestazione patrimoniale
(quale quella in esame) in tanto può ritenersi legittima, in
quanto abbia fondamento in una norma giuridica di rango
primario che ne disciplini i principi.
Orbene, in subiecta materia vengono in rilievo:
- il Capo II del d.lgs. 15.11.1993 n. 507, che
disciplina la Tassa per l’occupazione di spazi ed aree
pubbliche (in particolare, gli artt. 46 e 47 relativi alle
occupazioni permanenti di sottosuolo e soprasuolo);
- l’art. 27, comma 9, del d.lgs. n. 285/1992 (Codice della
strada), a norma del quale: “L’autorità competente al
rilascio dei provvedimenti autorizzatori di cui al presente
titolo può chiedere un deposito cauzionale”.
Sulla base delle disposizioni legislative sopra richiamate,
risulta evidente che il Comune, se è legittimato a
richiedere il pagamento della tassa (o del canone) per le
occupazioni (permanenti) del sottosuolo, (come pure può
richiedere il versamento di un deposito cauzionale, a
garanzia dei danni che possono derivare dalla esecuzione
degli scavi e dei reinterri stradali), non può invece
pretendere alcun onere aggiuntivo (indipendentemente dalla
sua congruità) per l’attività di controllo sulla regolare
esecuzione dei lavori di ripristino del manto stradale,
tanto più in considerazione del fatto che l’attività
vigilanza e di controllo sul territorio rientra tra i
compiti istituzionali del Comune, che deve provvedervi con
il proprio personale (Polizia Municipale; Ufficio Tecnico)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 23.04.2013 n. 916 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Nelle ipotesi in cui vi
sia contrasto tra motivazione e dispositivo di un
provvedimento amministrativo, l’interprete deve attribuire
prevalenza a quest’ultimo, in quanto contenente gli elementi
destinati a consentire l’identificazione degli effetti
dell’atto.
E ciò in quanto -come ripetutamente chiarito- il termine per
l’impugnazione decorre dalla conoscenza del contenuto del
dispositivo, senza che sia necessaria la compiuta conoscenza
della motivazione, che è rilevante solo ai fini della
successiva proposizione dei motivi aggiunti.
Va, invero, al riguardo ricordato
che la giurisprudenza amministrativa, pronunciandosi in
ordine alla interpretazione degli atti amministrativi, ha
costantemente chiarito che nelle ipotesi in cui vi sia
contrasto tra motivazione e dispositivo di un provvedimento
amministrativo, l’interprete deve attribuire prevalenza a
quest’ultimo, in quanto contenente gli elementi destinati a
consentire l’identificazione degli effetti dell’atto (cfr.
TAR Lombardia, sez. Brescia, sez. II, 05.03.2010, n.
1122); e ciò, in quanto -come ripetutamente chiarito (cfr.
per tutti Cons. St., sez. IV 20.06.2012 n. 3622 sez. III
23.05.2012 n. 2993)- il termine per l’impugnazione
decorre dalla conoscenza del contenuto del dispositivo,
senza che sia necessaria la compiuta conoscenza della
motivazione, che è rilevante solo ai fini della successiva
proposizione dei motivi aggiunti
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 23.04.2013 n. 241 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L’ordinanza di rimozione
di rifiuti abbandonati deve essere preceduta dalla
comunicazione, prevista dall’art. 7 della L. n. 241 del
1990, di avvio del procedimento ai soggetti interessati,
stante la rilevanza dell’eventuale apporto procedimentale
che tali soggetti possono fornire, quanto meno in
riferimento all’accertamento delle effettive responsabilità
per l’abusivo deposito dei rifiuti, rispetto al quale
risulta recessivo, nella specifica materia, l’art. 21-octies
della legge sul procedimento, con conseguente illegittimità
dell’ordinanza non preceduta dalla comunicazione stessa.
Inoltre, qualora l’autore materiale dell’abbandono dei
rifiuti non sia identificato, al fine di individuare il
soggetto obbligato alla rimozione dei rifiuti ed al
ripristino dello stato dei luoghi, è necessario procedere al
duplice accertamento della titolarità dell’area e
dell’imputabilità della violazione per dolo o colpa al
proprietario o a colui che risulta titolare di diritti reali
o personali di godimento sulla stessa.
Va, invero, sul punto ricordato che
l’art. 192 del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, del codice
dell’ambiente vieta l’abbandono e il deposito incontrollati
di rifiuti sul suolo e nel suolo e prevede che chiunque
violi tale divieto è tenuto a procedere alla rimozione,
all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al
ripristino dello stato dei luoghi “in solido con il
proprietario e con i titolari di diritti reali o personali
di godimento sull’area, ai quali tale violazione sia
imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli
accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti
interessati, dai soggetti preposti al controllo”.
Tale norma, cioè, dispone che l’obbligo di procedere alla
rimozione dei rifiuti può gravare, in solido con il
responsabile, anche sul proprietario del sito e sul titolare
di diritti reali o personali di godimento relativi ad esso,
solo però se tale violazione sia anche a loro imputabile “a
titolo di dolo o colpa”, da accertarsi “in contraddittorio
con i soggetti interessati” dai preposti al controllo.
Ora, interpretando tale normativa, la giurisprudenza
amministrativa ha già costantemente chiarito, innanzi tutto
che l’ordinanza di rimozione di rifiuti abbandonati deve
essere preceduta dalla comunicazione, prevista dall’art. 7
della L. n. 241 del 1990, di avvio del procedimento ai
soggetti interessati, stante la rilevanza dell’eventuale
apporto procedimentale che tali soggetti possono fornire,
quanto meno in riferimento all’accertamento delle effettive
responsabilità per l’abusivo deposito dei rifiuti (cfr. da
ultimo, TAR Puglia, sez. Lecce, sez. III, 13.02.2013, n. 301, TAR Lombardia, sede Milano, sez. IV, 14.01.2013, n. 56, TAR Campania, sez. Salerno, sez. I,
20.06.2012, n. 1254, TAR Calabria, sez. Reggio
Calabria, 19.12.2012, n. 747, e sede Catanzaro, sez.
I, 05.07.2012, n. 714), rispetto al quale risulta
recessivo, nella specifica materia, l’art. 21-octies della
legge sul procedimento, con conseguente illegittimità
dell’ordinanza non preceduta dalla comunicazione stessa
(TAR Liguria, Sez. II, 11.07.02012, n. 982).
Inoltre, qualora l’autore materiale dell’abbandono dei
rifiuti non sia identificato, al fine di individuare il
soggetto obbligato alla rimozione dei rifiuti ed al
ripristino dello stato dei luoghi, è necessario procedere al
duplice accertamento della titolarità dell’area e
dell’imputabilità della violazione per dolo o colpa al
proprietario o a colui che risulta titolare di diritti reali
o personali di godimento sulla stessa (TAR Marche, 11.02.2013, n. 137, TAR Friuli Venezia-Giulia,
07.02.2013, n. 56, TAR Lazio, sede Roma, sez. II, 01.02.2013, n. 1142, TAR Puglia, sez. Lecce, sez. I,
11.09.2012, n. 1492, e TAR Sardegna, sez. I, 05.06.2012, n. 560).
A tale pacifico e consolidato orientamento degli organi di
giurisdizione amministrativo questa stessa Sezione ha già
aderito, da ultimo, con sentenza 15.02.2013, n. 108.
Ciò posto, poiché nella specie non risulta sia stata data
comunicazione agli attuali ricorrenti dell’avvio del
procedimento e poiché non risulta siano stati svolti i
predetti accertamenti, il ricorso in esame deve,
conseguentemente, essere accolto e, per l’effetto, deve
essere annullato l’atto impugnato
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 23.04.2013 n. 237 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: CASSAZIONE/
Dopo l'anticorruzione.
La concussione a chi boicotta
Resta punibile come concussione ogni condotta prevaricatrice
che il pubblico ufficiale compie abusando della sua qualità
o della sua funzione. Esattamente come accade quando il
funzionario dell'ente fa ostruzionismo nei confronti
dell'azienda che rappresenta il suo interlocutore,
cagionando, o anche soltanto paventando, ritardi nei lavori
per ottenere una tangente «mascherata» sotto forma di
compensi gonfiati a ditte terze: imprese evidentemente
«amiche», che di lì a poco gliene rimetteranno buona parte.
La condotta di indebita induzione a dare o promettere denaro
o altre utilità, invece, va riguardata «in una prospettiva
di residualità», tale cioè da comprendere tutto ciò che
esula dall'ottica della costrizione.
È quanto emerge dalla
sentenza n. 17593/2013, pubblicata dalla VI Sez. penale
della Corte di Cassazione. Ma non è difficile prevedere come prima o
poi la questione dell'interpretazione della legge 190/2012
finirà alle Sezioni unite della Suprema corte.
Bocciato il
ricorso dell'imputato: la sua condotta deve essere comunque
punita con il reato ex articolo 317 cp, nonostante che la
norma più favorevole sia entrata in vigore fra la
proposizione e la decisione del ricorso. Il funzionario
pubblico in pratica «boicotta» il geologo di fiducia
dell'azienda che deve effettuare i sondaggi nel terreno:
rinvia la data del d-day, sostiene che la sonda sarebbe
inadeguata (e non è vero), offre punti sfavorevoli dove
realizzare l'operazione. E i ritardi ricadono sul
professionista e quindi sull'impresa. Non c'è dubbio che gli
atteggiamenti ostruzionistici del funzionario determinano
una conseguenza «contro legge» a carico del soggetto
passivo, che è correlata direttamente dall'abuso posto in
essere dal funzionario e per nulla riconducibile
all'applicazione di una norma giuridica.
Sbaglia, osserva il
collegio, chi sostiene che la riforma Severino abbia solo
«spacchettato» la vecchia concussione, ripartendo fra il
vecchio articolo 317 cp e il nuovo articolo 319-quater la
perseguibilità delle condotte di costrizione e induzione
riconducibili alle norme previgenti. Le due nozioni devono
essere riconsiderate. La continuità delle norme penali prima
e dopo la riforma, in ogni caso, deve ritenersi comunque
assicurata
(articolo ItaliaOggi del 23.04.2013). |
APPALTI:
Sul potere della p.a. di annullare in via di
autotutela il bando e le singole operazioni di gara, quando
i criteri di selezione si manifestino come suscettibili di
produrre effetti indesiderati o comunque illogici.
Il principio del favor partecipationis non può spingersi
fino al punto di vanificare la portata dei requisiti
soggettivi che la lex specialis necessariamente deve
richiedere ed esigere.
---------------
La p.a. conserva anche in relazione ai procedimenti di gara
per la scelta del contraente il potere di annullare in via
di autotutela il bando e le singole operazioni di gara,
quando i criteri di selezione si manifestino come
suscettibili di produrre effetti indesiderati o comunque
illogici, tenendo quindi conto delle preminenti ragioni di
salvaguardia del pubblico interesse: tale potere di
autotutela trova fondamento negli stessi principi
costituzionali predicati dall'art. 97 cost., cui deve
ispirarsi l'azione amministrativa, e costituisce il pendant
dell'obbligo di rispettare le prescrizioni stabilite dalla
lex specialis della gara, che vincolano non solo i
concorrenti, ma la stessa amministrazione (con esclusione di
qualsiasi margine di discrezionalità nella loro concreta
attuazione da parte dell'amministrazione e tanto meno della
facoltà di disapplicarle, neppure nel caso in cui talune
delle regole stesse risultino inopportunamente o
incongruamente formulate, salva proprio la possibilità di
far luogo, nell'esercizio del potere di autotutela, al loro
annullamento).
Neppure il provvedimento di aggiudicazione definitiva e
tanto meno quello di aggiudicazione provvisoria (che del
resto si iscrivono nella fase procedimentale di scelta del
contraente, concludendola) ostano all'esercizio di un
siffatto potere, il quale incontra un limite soltanto nel
rispetto dei principi di buona fede e correttezza, alla cui
puntuale osservanza è tenuta anche la P.A., e nella tutela
dell'affidamento ingenerato.
Nel caso di specie, i surrichiamati principi sono stati
rispettati dall'amministrazione che, in assoluta trasparenza
e nel pieno rispetto delle garanzie procedimentali, ha fatto
tempestivamente ammenda di un proprio errore che, ove non
emendato, avrebbe rischiato di vulnerare il diritto delle
altre concorrenti al rispetto della par condicio e nonché
l'interesse pubblico dell'amministrazione ad avvalersi di un
partner contrattuale idoneo e qualificato.
---------------
Il principio del favor partecipationis, di cui deve
certamente tenersi conto nella predisposizione della
disciplina di una procedura ed evidenza pubblica, tendente
in linea di principio ad evitare l'introduzione di una
barriera di ingresso anticompetitiva che restringa, in modo
non ragionevole e non necessario, la platea dei potenziali
competitori, non può spingersi fino al punto di vanificare
la portata dei requisiti soggettivi che la lex specialis
necessariamente deve richiedere ed esigere per poter
garantire all'amministrazione che il futuro contraente sia
selezionato fra imprese in possesso della capacità tecnica
ed economica per svolgere in modo ottimale il servizio
affidatogli (TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 22.04.2013 n. 175 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sulla funzione transitoria dell'art. 12 del d.l.
07.05.2012, n. 52 (conv. in l. 06.07.2012, n. 94), che
impone l'apertura delle offerte tecniche in seduta pubblica.
L'art. 12 del d.l. 07.05.2012, n. 52 (conv. in l.
06.07.2012, n. 94), ha la specifica funzione transitoria di
salvaguardare gli effetti delle procedure concluse o
pendenti alla data del 09.05.2012, nelle quali si sia
proceduto all'apertura dei plichi in seduta riservata,
recando in sostanza, per questo aspetto, una sanatoria di
tali procedure. Ciò sulla base delle seguenti
argomentazioni:
- il principio di pubblicità, pur di derivazione
comunitaria, non è direttamente cogente ma ha un contenuto
programmatico, restando perciò agli Stati membri la sua
concreta declinazione in coerenza con altri valori, a
cominciare da quello dell'affidamento incolpevole da parte
dell'aggiudicataria che abbia confidato sulla vigenza di
determinate regole procedimentali che, nella specie, nella
maggior parte dei casi, prevedevano l'apertura dei plichi in
seduta riservata;
- con il citato art. 12, di conseguenza, è stata normata la
regola di diritto definita dall'Adunanza plenaria ma è stato
al contempo precisato che l'obbligo della seduta pubblica
decorre dal 09.05.2012, confermando per il passato
l'inesistenza di una disposizione cogente di tale contenuto;
- questa disciplina transitoria ha lo scopo di evitare il
travolgimento di numerosissime gare in corso, con i
conseguenti oneri economici e amministrativi particolarmente
gravosi nella presente fase di crisi economica;
- né appare logico, si deve concludere, attribuire alla
norma altra ratio; non vi sarebbe ragione infatti per
un intervento normativo che obbliga all'apertura pubblica
dei plichi soltanto a partire da una certa data "anche
per le gare in corso ove i plichi contenenti le offerte
tecniche non siano stati ancora aperti", se non allo
scopo di tenere esente dall'obbligo l'intervenuta,
antecedente apertura dei plichi (Consiglio di Stato,
Adunanza Plenaria,
sentenza 22.04.2013 n. 8 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione di una domanda di concessione in
sanatoria per abusi edilizi ex L. 28.02.1985 n. 47 (fonte
richiamata dalle successive leggi di condono) impone al
Comune competente la sua disamina e l'adozione dei
provvedimenti conseguenti, di talché gli atti repressivi
dell'abuso in precedenza adottati perdono efficacia, salva
la necessità di una loro rinnovata adozione nell’eventualità
di un successivo rigetto dell'istanza di sanatoria.
---------------
In presenza della richiesta di una concessione in sanatoria
si deve registrare la sopravvenuta carenza d’interesse
all’annullamento dell’atto sanzionatorio in relazione al
quale tale domanda è stata presentata (a seconda dei casi,
l’ordine di demolizione dell’abuso accertato, la riduzione
in pristino dello stato dei luoghi, e/o i successivi
provvedimenti di accertamento dell’inottemperanza all’ordine
di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale),
con la traslazione dell’interesse a ricorrere sul futuro
provvedimento che, eventualmente, abbia a respingere la
domanda medesima (ad esempio, per la mancata corresponsione
dell’oblazione definitivamente accertata come dovuta), e
disponga nuovamente la demolizione dell’opera abusiva
Osserva la Sezione che tra le parti è pacifico che la pratica di condono
edilizio presentata dalla società riguardi proprio gli abusi
contestati con l’atto oggetto dell’originario gravame, e
quindi l’intervento sul quale verte il presente contenzioso.
Non sussistono allora motivi per non applicare, nella
specie, il consolidato orientamento giurisprudenziale,
puntualmente richiamato soprattutto dalla difesa comunale,
per cui la presentazione di una domanda di concessione in
sanatoria per abusi edilizi ex L. 28.02.1985 n. 47
(fonte richiamata dalle successive leggi di condono) impone
al Comune competente la sua disamina e l'adozione dei
provvedimenti conseguenti, di talché gli atti repressivi
dell'abuso in precedenza adottati perdono efficacia, salva
la necessità di una loro rinnovata adozione nell’eventualità
di un successivo rigetto dell'istanza di sanatoria.
Invero, delle due l’una: o l'Amministrazione accoglie la
predetta domanda e rilascia la concessione in sanatoria, con
il superamento per questa via degli atti sanzionatori
impugnati; oppure il Comune disattende l'istanza,
respingendola, e allora esso è tenuto, in base all'art. 40,
comma 1, L. n. 47 del 1985 (anche questo richiamato
dall’art. 32, comma 25, del d.l. 30.09.2003 n. 269,
che fa rinvio a tutte le disposizioni di cui ai capi IV e V
della legge n. 47), a procedere al completo riesame della
fattispecie, assumendo se del caso nuovi, e questa volta
conclusivi, provvedimenti sanzionatori, che a loro volta
troveranno esecuzione oppure saranno oggetto di autonoma
impugnativa, con conseguente cessazione immediata, anche in
caso di diniego di sanatoria, di ogni efficacia lesiva da
parte della primitiva ordinanza impugnata.
Di conseguenza, in presenza della richiesta di una
concessione in sanatoria si deve registrare la sopravvenuta
carenza d’interesse all’annullamento dell’atto sanzionatorio
in relazione al quale tale domanda è stata presentata (a
seconda dei casi, l’ordine di demolizione dell’abuso
accertato, la riduzione in pristino dello stato dei luoghi,
e/o i successivi provvedimenti di accertamento
dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e di
acquisizione al patrimonio comunale), con la traslazione
dell’interesse a ricorrere sul futuro provvedimento che,
eventualmente, abbia a respingere la domanda medesima (ad
esempio, per la mancata corresponsione dell’oblazione
definitivamente accertata come dovuta), e disponga
nuovamente la demolizione dell’opera abusiva (C.d.S., Sez.
V, 28.06.2012, n. 3821; 26.06.2007, n. 3659; 19.02.1997, n. 165; IV, 16.04.2012, n. 2185; VI,
26.03.2010, n. 1750; 07.05.2009, n. 2833; 12.11.2008, n.
5646) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.04.2013 n. 2221 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Presso la giurisprudenza di questo Consiglio di
Stato si registra un incontrastato orientamento, formatosi
successivamente alla sentenza appellata, favorevole
all’applicazione della sanzione prevista dall’art. 15 l. n.
1497/1939 a prescindere dell’esistenza di un effettivo danno
ambientale.
Le giurisprudenza in discorso ha infatti precisato, in
frontale contrario a quanto statuito nella sentenza
appellata, che la salvezza delle sanzioni ambientali di cui
all'art. 15 legge n. 1497 del 1939 disposta dall’art. 2,
comma 46, legge n. 662/1996, opera anche se l'abuso edilizio
sia stato ritenuto compatibile con l’assetto paesaggistico
dall'autorità preposta alla tutela del vincolo, attraverso
il rilascio del parere favorevole ai sensi dell’art. 32 l.
n. 47/1985. Ciò in coerenza appunto con il carattere
sanzionatorio e non già risarcitorio dell’istituto,
confermato con norma di carattere interpretativo dalla
menzionata disposizione della legge finanziaria per il 1997.
E’ stato in altri termini affermato che l’autorizzazione
postuma ai fini ambientali è valevole all’esclusivo fine di
perfezionare la sanatoria prevista dal più volte citato art.
13 l. n. 47/1985, ma non elide del tutto le conseguenze
della violazione dell’obbligo di munirsi di tale assenso in
via preventiva sancito dall’art. 7 l. n. 1497/1939.
Tale indirizzo muove dalla premessa di carattere generale,
espressa dall’Adunanza generale nel parere n. 4
dell’11.04.2002, che l’autorizzazione ambientale in
sanatoria non costituisce un equipollente perfetto
dell’autorizzazione preventiva, giacché solo un effettivo
controllo a priori degli interventi di trasformazione
edilizia in aree vincolate è idoneo ad assicurare la tutela
dei valori paesaggistici, cosicché, una volta nondimeno
ammessa, essenzialmente per economia di mezzi, l’assentibilità
postuma di tali interventivi, con l’effetto di precludere la
riduzione in pristino attraverso la demolizione
dell’edificio, deve comunque essere fatto salvo il potere di
infliggere la sanzione pecuniaria di cui all’articolo 15
della legge n. 1497/1939, come appunto precisato dal
legislatore in sede di legge finanziaria per il 1997 con il
più volte citato art. 2, comma 46.
Cosi sintetizzate le contrapposte prospettazioni delle parti, deve
innanzitutto darsi atto che presso la giurisprudenza di
questo Consiglio di Stato si registra un incontrastato
orientamento, formatosi successivamente alla sentenza
appellata, favorevole all’applicazione della sanzione
prevista dall’art. 15 l. n. 1497/1939 a prescindere
dell’esistenza di un effettivo danno ambientale (oltre alle
pronunce citate dall’amministrazione appellante: sez. IV, 03.11.2003 n. 7047;
08.11.2000 n. 6007; sez. VI, 13.07.2006 n. 4420; 21.02.2001 n. 912; vanno
richiamate: sez. IV, 15.11.2004, n. 7405; 05.08.2003, n. 4482; 30.06.2003, n. 3931; 12.11.2002, n.
6279; sez. VI, 03.04.2003, n. 1729; 02.06.2000 n.
3184).
Le giurisprudenza in discorso ha infatti precisato, in
frontale contrario a quanto statuito nella sentenza
appellata, che la salvezza delle sanzioni ambientali di cui
all'art. 15 legge n. 1497 del 1939 disposta dall’art. 2,
comma 46, legge n. 662/1996, opera anche se l'abuso edilizio
sia stato ritenuto compatibile con l’assetto paesaggistico
dall'autorità preposta alla tutela del vincolo, attraverso
il rilascio del parere favorevole ai sensi dell’art. 32 l.
n. 47/1985. Ciò in coerenza appunto con il carattere
sanzionatorio e non già risarcitorio dell’istituto,
confermato con norma di carattere interpretativo dalla
menzionata disposizione della legge finanziaria per il 1997.
E’ stato in altri termini affermato che l’autorizzazione
postuma ai fini ambientali è valevole all’esclusivo fine di
perfezionare la sanatoria prevista dal più volte citato art.
13 l. n. 47/1985, ma non elide del tutto le conseguenze
della violazione dell’obbligo di munirsi di tale assenso in
via preventiva sancito dall’art. 7 l. n. 1497/1939.
Tale indirizzo muove dalla premessa di carattere generale,
espressa dall’Adunanza generale nel parere n. 4 dell’11.04.2002, che l’autorizzazione ambientale in sanatoria
non costituisce un equipollente perfetto dell’autorizzazione
preventiva, giacché solo un effettivo controllo a priori
degli interventi di trasformazione edilizia in aree
vincolate è idoneo ad assicurare la tutela dei valori
paesaggistici, cosicché, una volta nondimeno ammessa,
essenzialmente per economia di mezzi, l’assentibilità
postuma di tali interventivi, con l’effetto di precludere la
riduzione in pristino attraverso la demolizione
dell’edificio, deve comunque essere fatto salvo il potere di
infliggere la sanzione pecuniaria di cui all’articolo 15
della legge n. 1497/1939, come appunto precisato dal
legislatore in sede di legge finanziaria per il 1997 con il
più volte citato art. 2, comma 46.
A questo Collegio non resta che prendere atto di tale
indirizzo, visto che –come giustamente osservato dal comune
di Pieve Ligure– la formulazione letterale dell’art. 2,
comma 46, l. n. 662 citata, ha indubbia valenza confermativa
della natura di sanzione dell’indennità risarcitoria
ambientale e della sua applicabilità in ogni caso, anche
dunque a quelli di nulla-osta paesaggistico ex art. 32 l. n.
47/1985 (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.04.2013 n. 2216 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La dichiarazione dell'illegittimità
costituzionale di una norma di legge non si estende ai
rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti
precedentemente alla pronuncia della Corte costituzionale,
abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate
ed intangibili in virtù, tra l’altro, della definitività dei
provvedimenti amministrativi da cui esse sono sorte.
Ad opinare in senso contrario si determinerebbe l’effetto di
decentrare il sindacato di costituzionalità, attraverso lo
strumento della disapplicazione, dall’unico organo titolare
al giudice comune.
Costituisce infatti regola di carattere generale, affermata
anche da questo Consiglio di Stato (tra le altre: Sez. VI, 05.09.2005 n. 4513; sez. III, 14.03.2012, n. 1429),
quella secondo cui la dichiarazione dell'illegittimità
costituzionale di una norma di legge non si estende ai
rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti
precedentemente alla pronuncia della Corte costituzionale,
abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate
ed intangibili in virtù, tra l’altro, della definitività dei
provvedimenti amministrativi da cui esse sono sorte.
Ad opinare in senso contrario, come fa la congregazione
religiosa odierna appellante allorché invoca la nullità
degli atti amministrativi regionali, si determinerebbe
l’effetto di decentrare il sindacato di costituzionalità,
attraverso lo strumento della disapplicazione, dall’unico
organo titolare al giudice comune (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.04.2013 n. 2215 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
La legittimazione dei
consiglieri dissenzienti ad impugnare le delibere
dell’organo di cui fanno parte ha carattere eccezionale,
dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto
alle controversie tra organi o componenti di organi di uno
stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie
intersoggettive, per cui esso rimane circoscritto alle
ipotesi di lesione della loro sfera giuridica, quale ad
esempio lo scioglimento e la nomina di un commissario ad
acta, in cui detto effetto lesivo discenda ab externo
rispetto all’organo di cui fa parte.
La legittimazione ad agire dei consiglieri non risiede nella
deviazione dell’atto impugnato rispetto allo schema
normativamente previsto, quando da essa non derivi la
compressione di una prerogativa del loro ufficio protetta
dall’ordinamento generale, occorrendo in ogni caso avere
riguardo, a questo fine, “alla natura ed al contenuto della
delibera impugnata” e non già delle norme interne relative
al funzionamento dell’organo.
Conseguentemente, la contestazione dei consiglieri
dissenzienti non può quindi limitarsi a censurare l'oggetto
o le modalità di formazione della deliberazione senza
dedurre che da esse ne sia derivata una lesione dalle loro
prerogative, giacché questa non discende automaticamente da
violazione di forma o di sostanza nell'adozione di un atto
deliberativo.
---------------
L’omissione o il ritardo nel fornire ai consiglieri
dell’ente locale gli atti presupposti ad una proposta di
delibera non costituisce lesione delle prerogative inerenti
l’ufficio di consigliere comunale, rimanendo la sua tutela
circoscritta in un ambito esclusivamente politico,
all’interno dell’organo di cui fanno parte affidata
all’espressione a verbale del proprio dissenso in quanto
corollario del più generale principio sopra affermato.
Il Collegio osserva al riguardo che:
- per costante affermazione di questa Sezione, la
legittimazione dei consiglieri dissenzienti ad impugnare le
delibere dell’organo di cui fanno parte ha carattere
eccezionale, dato che il giudizio amministrativo non è di
regola aperto alle controversie tra organi o componenti di
organi di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere
controversie intersoggettive, per cui esso rimane
circoscritto alle ipotesi di lesione della loro sfera
giuridica, quale ad esempio lo scioglimento e la nomina di
un commissario ad acta, in cui detto effetto lesivo discenda
ab externo rispetto all’organo di cui fa parte (così la
sentenza 31.01.2001, n. 358);
- la legittimazione ad agire dei consiglieri non risiede
nella deviazione dell’atto impugnato rispetto allo schema
normativamente previsto, quando da essa non derivi la
compressione di una prerogativa del loro ufficio protetta
dall’ordinamento generale, occorrendo in ogni caso avere
riguardo, a questo fine, “alla natura ed al contenuto della
delibera impugnata” e non già delle norme interne relative
al funzionamento dell’organo (sentenza 15.12.2005, n.
7122);
- conseguentemente, la contestazione dei consiglieri
dissenzienti non può quindi limitarsi a censurare l'oggetto
o le modalità di formazione della deliberazione senza
dedurre che da esse ne sia derivata una lesione dalle loro
prerogative, giacché questa non discende automaticamente da
violazione di forma o di sostanza nell'adozione di un atto
deliberativo (sentenza 29.04.2010, n. 2457).
In questa prospettiva, per venire ad una fattispecie in
termini a quella oggetto del presente giudizio, si è
affermato che l’omissione o il ritardo nel fornire ai
consiglieri dell’ente locale gli atti presupposti ad una
proposta di delibera non costituisce lesione delle
prerogative inerenti l’ufficio di consigliere comunale,
rimanendo la sua tutela circoscritta in un ambito
esclusivamente politico, all’interno dell’organo di cui
fanno parte affidata all’espressione a verbale del proprio
dissenso in quanto corollario del più generale principio
sopra affermato (sentenza 21.03.2012, n. 1610).
Infatti, anche nella presente fattispecie le censure
formulate a questo riguardo consistono, in primo luogo,
nell’approvazione della delibera senza previo esame nelle
competenti commissioni consiliari e, in secondo luogo, nella
mancata messa a disposizione tutti gli atti ad essa
relativi, come invece previsto dal regolamento consiliare.
Peraltro, presso questa Sezione si registrano pronunce
maggiormente aderenti alla posizione degli odierni
appellanti, e cioè:
- la sentenza 03.03.2005, n. 832, in cui si è affermata la
legittimazione dei consiglieri comunali ad impugnare la
delibera di modificazione statutaria che attribuisce alla
giunta poteri di disposizione delle partecipazioni nelle
società controllate dall’ente comunale, sul rilievo che la
sottrazione di tale oggetto alla competenza consiliare (art.
42, comma 2, lett. “e”, t.u.e.l.) sia conseguentemente
lesiva delle prerogative dei componenti di tale organo;
- la sentenza 09.09.2007, n. 5280, parimenti affermativa
della legittimazione del singolo consigliere nel caso di
deliberazioni collegiali che investano la sua sfera
giuridica o siano state adottate con violazione delle norme
attinenti al relativo procedimento formativo, in modo che
egli non sia posto in condizione di potere svolgere
regolarmente il suo ufficio (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.04.2013 n. 2213 - link a
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URBANISTICA:
Nel caso dello strumento urbanistico generale, le
motivazioni relativamente alle modifiche alla zonizzazione
sono ritenute necessarie solo quando in capo ad alcuni
soggetti si siano consolidate situazioni obiettive, mentre
in ogni altro caso in cui lo strumento urbanistico modifichi
una precedente destinazione urbanistica, ciò non determina
la necessità di alcuna specifica motivazione in ordine alle
ragioni che hanno determinato tale modificazione, è
giurisprudenza pacifica quella che, peraltro, risponde ad
esigenze operative evidenti e si trova altresì inserita
nella L. n. 241 del 1990, per cui gli atti a carattere
generale non abbisognano di specifiche motivazioni e tale è
indubbiamente il Piano regolatore generale.
---------------
Le scelte effettuate dall'amministrazione per la
destinazione delle singole aree, al momento dell'adozione
del piano regolatore generale o di variante al medesimo,
costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato
giurisdizionale, salvo che non siano affette da errori di
fatto o da abnormi illogicità.
Ciò implica, quale necessario corollario, la conseguenza per
cui “trattandosi di scelte discrezionali, in merito alla
destinazione di singole aree, queste non necessitano di
apposita motivazione, oltre quelle che si possono evincere
dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale,
seguiti nella impostazione del piano stesso, essendo
sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di
accompagnamento al progetto di modificazione al piano
regolatore generale”.
Ci si trova al cospetto di una variante generale: per costante
giurisprudenza -premesso che le motivazioni della stessa si
rinvengono nelle stesse decisioni sulle tematiche
prospettate dai cittadini- in simili ipotesi, non sarebbe
necessaria alcuna stringente chiarificazione delle scelte
effettuate (ex multis: “nel caso dello strumento urbanistico
generale, le motivazioni relativamente alle modifiche alla
zonizzazione sono ritenute necessarie solo quando in capo ad
alcuni soggetti si siano consolidate situazioni obiettive,
mentre in ogni altro caso in cui lo strumento urbanistico
modifichi una precedente destinazione urbanistica (come è
nella specie), ciò non determina la necessità di alcuna
specifica motivazione in ordine alle ragioni che hanno
determinato tale modificazione, è giurisprudenza pacifica
quella che, peraltro, risponde ad esigenze operative
evidenti e si trova altresì inserita nella L. n. 241 del
1990, per cui gli atti a carattere generale non abbisognano
di specifiche motivazioni e tale è indubbiamente il Piano
regolatore generale “ -Cons. Stato Sez. IV, 21.02.2005, n.
558).
---------------
Ritiene il
Collegio di rimarcare sul punto che per pacifica
giurisprudenza della Sezione, -la cui perdurante con
divisibilità si intende ribadire in questa sede - “le scelte
effettuate dall'amministrazione per la destinazione delle
singole aree, al momento dell'adozione del piano regolatore
generale o di variante al medesimo, costituiscono
apprezzamenti di merito sottratti al sindacato
giurisdizionale, salvo che non siano affette da errori di
fatto o da abnormi illogicità” (Cons. Stato Sez. IV,
03-08-2010, n. 5157).
Ciò implica, quale necessario corollario, la conseguenza per
cui “trattandosi di scelte discrezionali, in merito alla
destinazione di singole aree, queste non necessitano di
apposita motivazione, oltre quelle che si possono evincere
dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale,
seguiti nella impostazione del piano stesso, essendo
sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di
accompagnamento al progetto di modificazione al piano
regolatore generale” (Cons. Stato Sez. IV Sent.,
03.11.2008, n. 5478)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.04.2013 n. 2171 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Alle norme tecniche di attuazione di un Piano
regolatore generale deve essere data lettura sistematica,
per cui ciascuna di esse va interpretata nel contesto e
nell'insieme di riferimento, ed un' interpretazione utile,
per cui ciascuna di esse deve essere intesa non solo in modo
che abbia un senso, ma anche, tra più possibili significati,
quello maggiormente conforme a Costituzione, la quale impone
vincoli espliciti e puntuali alla possibilità edificatoria
dei suoli.
---------------
L'interpretazione di un atto amministrativo a contenuto non
normativo, risolvendosi nell'accertamento della volontà
della p.a., ovverosia di una realtà fenomenica e obiettiva,
è riservata al giudice di merito ed è incensurabile in sede
di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e immune
dalla violazione di quelle norme -in particolare, gli art.
1362, comma 2, 1363 e 1366- che, dettate per
l'interpretazione dei contratti, sono applicabili anche agli
atti amministrativi, tenendo peraltro conto della natura dei
medesimi nonché dell'esigenza della certezza dei rapporti e
del buon andamento della pubblica amministrazione.
E’ senz’altro vero infatti, e sinanco tautologico, affermare che
più norme di un identico testo regolamentare debbano –tutte-
trovare applicazione: ma ciò non esclude che, pur in carenza
di espressa clausola escludente, ove le stesse si pongano in
rapporto di ontologica incompatibilità, l’interprete debba
verificare se in base agli ordinari canoni interpretativi
(artt. 1362, II° co., 1363 c.c. e segg. del codice civile
relativi, rispettivamente, all'interpretazione globale e
sistematica del contratto, ritenuti applicabili anche in subiecta materia dalla giurisprudenza, che riconosce natura provvedimentale al piano urbanistico. Cfr., in tal senso,
Cassazione civile, sez. III, 10.03.2011, n. 5700;
Cassazione civile, sez. lav., 23.07.2010, n. 17367) ve
ne sia una che possa essere applicata con prevalenza
rispetto all’altra.
La giurisprudenza sul punto è costantemente orientata nel
ritenere, infatti, che “alle norme tecniche di attuazione di
un Piano regolatore generale deve essere data lettura
sistematica, per cui ciascuna di esse va interpretata nel
contesto e nell'insieme di riferimento, ed un'
interpretazione utile, per cui ciascuna di esse deve essere
intesa non solo in modo che abbia un senso, ma anche, tra
più possibili significati, quello maggiormente conforme a
Costituzione, la quale impone vincoli espliciti e puntuali
alla possibilità edificatoria dei suoli” (Cons. di Stato
10.03.1981 n. 248; TAR Puglia Lecce, sez. I, 13.05.2004, n. 2890 e, ancora di recente TAR Lombardia Milano
Sez. II, 05.07.2011, n. 1752).
La giurisprudenza di legittimità, in particolare, ha
puntualmente precisato che “l'interpretazione di un atto
amministrativo a contenuto non normativo, risolvendosi
nell'accertamento della volontà della p.a., ovverosia di una
realtà fenomenica e obiettiva, è riservata al giudice di
merito ed è incensurabile in sede di legittimità se sorretta
da motivazione adeguata e immune dalla violazione di quelle
norme -in particolare, gli art. 1362, comma 2, 1363 e 1366- che, dettate per l'interpretazione dei contratti, sono
applicabili anche agli atti amministrativi, tenendo peraltro
conto della natura dei medesimi nonché dell'esigenza della
certezza dei rapporti e del buon andamento della pubblica
amministrazione" (si veda Cassazione civile, sez. lav.,
23.07.2010, n. 17367) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.04.2013 n. 2170 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Qualora vi sia un
contrasto tra le indicazioni grafiche del piano regolatore
generale e le prescrizioni normative, sono queste ultime a
prevalere, in quanto in sede di interpretazione degli
strumenti urbanistici le risultanze grafiche possono solo
chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel
testo, ma non possono sovrapporsi o negare quanto risulta da
questo.
A diversa conclusione non conduce nemmeno il rilievo del primo giudice
secondo cui, se si sovrappongono geometricamente le tavole
dei piani particolareggiati con quelle del PRG vigente, come
ha fatto il perito della società nella relazione tecnica di
parte, l’area de qua esulerebbe inequivocabilmente da quelle
già specificamente individuate e destinate ai singoli
servizi, perché il PRG vigente avrebbe, al di là di ogni
dubbio, estrapolato l’area di ben 2000 mq., di proprietà
della società appellata e censita in catasto al foglio 85/A,
particella 639, dal “perimetro” dell’antecedente Piano
Particolareggiato e l’avrebbe inserita nell’alveo B/3-2 “di
completamento”, sovrapponendovi un chiaro retino omogeneo di
destinazione.
Se pure si voglia prescindere dal rilievo che la mera
sovrapposizione di un retino omogeneo nella tavola grafica
del PRG è un elemento troppo incerto e “debole” per
desumerne, con la certezza affermata dal primo giudice, la
volontà di mutare la destinazione dell’area, anche
accedendo, quindi, alla tesi secondo cui nella parte grafica
del PRG sarebbe stata introdotta in tal modo una variazione
nel perimetro dell’area rispetto a quanto previsto dal piano
particolareggiato, nondimeno sarebbe erronea la conclusione
alla quale è pervenuto il primo giudice, secondo il quale
nel contrasto tra parte normativa e parte grafica dello
strumento urbanistico dovrebbe prevalere quest’ultima (p. 5
della sentenza impugnata).
È vero, anzi, il contrario.
La giurisprudenza di questo Consiglio è concorde nel
ritenere che, laddove si evidenzi un simile contrasto, debba
prevalere la parte normativa e quindi, nel caso di specie,
quanto prevedono i sopra citati artt. 15 e 41 NTA del PRG,
con integrale richiamo ed applicazione del piano
particolareggiato.
È, infatti, principio costantemente affermato da questo
Consiglio (Cons. St., sez. V, 22.08.2003 , n. 4734; Cons.
St., sez. IV, 10.08.2000, n. 4462; Cons. St., sez. IV,
05.06.1998, n. 917; Cons. St., sez. V, 21.06.1995, n. 724),
dalla quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, che,
qualora vi sia un contrasto tra le indicazioni grafiche del
piano regolatore generale e le prescrizioni normative, siano
queste ultime a prevalere, in quanto in sede di
interpretazione degli strumenti urbanistici le risultanze
grafiche possono solo chiarire e completare quanto è
normativamente stabilito nel testo, ma non possono
sovrapporsi o negare quanto risulta da questo.
Questa stessa Sezione, in più occasioni, ha avuto modo di
ribadire il principio che, nel contrasto tra normativa e
segno grafico, occorre dare prevalenza alla prima (cfr., ex plurimis,
sent. n. 3081 del 12.06.2007) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.04.2013 n. 2158 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La vicinitas tra
fabbricati è sufficiente a integrare la legittimazione e
l’interesse ad impugnare in giudizio un provvedimento che
consente la realizzazione di un’opera edilizia in tesi
illegittima, e il conseguente incremento del carico
urbanistico della zona interessata.
Vanno innanzitutto respinte le eccezioni preliminari concernenti il
ricorso di primo grado: come ha rilevato il primo giudice,
la vicinitas tra fabbricati è sufficiente a integrare la
legittimazione e l’interesse ad impugnare in giudizio un
provvedimento che consente la realizzazione di un’opera
edilizia in tesi illegittima, e il conseguente incremento
del carico urbanistico della zona interessata.
Tale
considerazione vale tanto più nel caso di specie, nel quale
legittimazione e interesse sono riferiti alla asserita
violazione delle distanze e al maggior carico urbanistico
derivante dal cambio di destinazione d’uso consentito dal
Comune (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 18.04.2013 n. 2153 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
I provvedimenti di autotutela sono manifestazione
dell'esercizio di un potere tipicamente discrezionale che
l'Amministrazione non ha alcun obbligo di attivare e,
qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza o meno
di un interesse che giustifichi la rimozione dell'atto,
valutazione della quale essa sola è titolare e che non può
ritenersi dovuta nel caso di una situazione già definita con
provvedimento inoppugnabile.
Pertanto, una volta che il privato, o per aver esaurito i
mezzi di impugnazione che l'ordinamento gli garantisce, o
per aver lasciato trascorrere senza attivarsi il termine
previsto a pena di decadenza, si trovi di fronte ad un
provvedimento inoppugnabile a fronte del quale può solo
sollecitare l'esercizio del potere da parte
dell'Amministrazione, quest'ultima, a fronte della domanda
di riesame, non ha alcun obbligo di rispondere.
Basti richiamare al riguardo il principio secondo cui i provvedimenti di
autotutela sono manifestazione dell'esercizio di un potere
tipicamente discrezionale che l'Amministrazione non ha alcun
obbligo di attivare e, qualora intenda farlo, deve valutare
la sussistenza o meno di un interesse che giustifichi la
rimozione dell'atto, valutazione della quale essa sola è
titolare e che non può ritenersi dovuta nel caso di una
situazione già definita con provvedimento inoppugnabile;
pertanto, una volta che il privato, o per aver esaurito i
mezzi di impugnazione che l'ordinamento gli garantisce, o
per aver lasciato trascorrere senza attivarsi il termine
previsto a pena di decadenza, si trovi di fronte ad un
provvedimento inoppugnabile a fronte del quale può solo
sollecitare l'esercizio del potere da parte
dell'Amministrazione, quest'ultima, a fronte della domanda
di riesame, non ha alcun obbligo di rispondere (Cons. Stato,
V, 03.05.2012, n. 2548)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.04.2013 n. 2141 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'institore è titolare di una posizione
corrispondente a quella di un vero e proprio amministratore,
munito di poteri di rappresentanza, cosicché deve anche
essere annoverato fra i soggetti tenuti alla dichiarazione
ex art. 38 dlgs n. 163/2006.
Il ruolo dell'institore disegnato dall'art. 2203 c.c. quale
soggetto preposto dal titolare all'esercizio di un'impresa
commerciale, lo caratterizza come alter ego
dell'imprenditore. L'institore, infatti, è titolare di una
posizione corrispondente a quella di un vero e proprio
amministratore, munito di poteri di rappresentanza, cosicché
deve anche essere annoverato fra i soggetti tenuti alla
dichiarazione ex art. 38 dlgs n. 163/2006.
La peculiarità del ruolo, determinata dall'ampiezza dei
poteri di rappresentanza allo stesso attribuiti dalla legge,
lo differenzia in modo significativo dalla diversa figura
del procuratore, che, infatti, non può ritenersi tenuto a
rendere la dichiarazione de qua (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 17.04.2013 n. 2118 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sull'illegittimità dell'utilizzazione di capitali
di una società strumentale per partecipare, attraverso la
creazione di una società di terzo grado, a gare ad evidenza
pubblica.
L'utilizzazione di capitali di una società strumentale per
partecipare, attraverso la creazione di una società di terzo
grado, a gare ad evidenza pubblica comporta, sia pure
indirettamente, l'elusione del divieto di svolgere attività
diverse da quelle consentite a soggetti che godano di una
posizione di mercato avvantaggiata.
Né può costituire valido argomento a contrario la previsione
dello scorporo di attività non più consentite alle società
strumentali di cui al c. 3 dell'art. 13 del "Decreto
Bersani", dovendosi tale disposizione intendere
nell'unico senso compatibile con il divieto imposto alle
società strumentali di partecipare ad enti, sancito dal c. 1
del medesimo articolo e cioè come volta a costituire un
nuovo soggetto societario, destinato a concorrere in
pubbliche gare per lo svolgimento di un servizio di
interesse generale, che non comporti l'intervento
finanziario dell'ente strumentale.
Su tale base, è agevole affermare che la partecipazione al
confronto concorrenziale mediante una partecipata (nel caso
di specie al 100%) consente alla controllante di essere
attiva sul mercato, ed il fatto che ciò avvenga formalmente
mediante un soggetto distinto costituisce un'evidente
elusione del dettato normativo. Né può sostenersi, nel caso
di specie, che le società finanziarie, (categoria alla quale
appartiene Finmolise s.p.a.), sono escluse dall'ambito di
applicazione dell'art. 13 del d.l. 04.07.2006, n. 223, ai
sensi del suo primo comma, ultima parte (le società che
svolgono l'attività di intermediazione finanziaria prevista
dal testo unico di cui al decreto legislativo 01.09.1993, n.
385, sono escluse dal divieto di partecipazione ad altre
società o enti).
La norma richiamata infatti legittima le suddette società ad
assumere partecipazioni in altre società o enti, strumento
spesso indispensabile per lo svolgimento della loro
attività. Il che non consente la costituzione di una società
controllata stabilmente operante sul mercato, ma solo
l'assunzioni di partecipazioni minoritarie e tendenzialmente
temporanee (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 16.04.2013 n. 2084 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’art. 21-octies comma 2, l. 07.08.1990 n. 241,
secondo cui il provvedimento amministrativo non è comunque
annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del
procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio
che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato, deve essere
estensivamente interpretata ricomprendendovi anche la
mancata comunicazione del preavviso di diniego ex art.
10-bis, l. n. 241, cit., che, insieme alla comunicazione di
avvio del procedimento, rappresentano le garanzie
partecipative del destinatario del provvedimento, con pari
dignità e, necessariamente, pari trattamento.
La comunicazione di preavviso di diniego nei procedimenti ad
istanza di parte deve ritenersi assoggettata alle stesse
regole valevoli per la comunicazione di avvio del
procedimento, con conseguente superamento del vizio formale
in questione nelle ipotesi, come quella di specie, in cui il
provvedimento risulti avere un contenuto vincolato o
comunque tale da non poter essere diverso rispetto a quello
concretamente emanato.
----------------
L’art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000 –testo
unico in tema di documentazione amministrativa (che
riproduce la norma previgente contenuta nell’art. 11, comma
3, D.P.R. n. 403 del 1998)– è tassativo nel disporre che, se
emerga dal controllo effettuato dall’Amministrazione la non
veridicità del contenuto della dichiarazione sostitutiva, il
dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al
provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non
veritiera.
In base all’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000, la non
veridicità della dichiarazione sostitutiva presentata
comporta la decadenza dai benefici eventualmente conseguiti,
non lasciando tale disposizione alcun margine di
discrezionalità alle Amministrazioni che si avvedano della
non veridicità delle dichiarazioni. Inoltre, l’art. 75,
comma 1, del d. P. R. 28.12.2000, n. 445 prescinde, per la
sua applicazione, dalla condizione soggettiva del
dichiarante, attestandosi sul dato oggettivo della non
veridicità, rispetto al quale sono irrilevanti il complesso
delle giustificazioni addotte dal dichiarante.
La stessa Regione s’è, del resto,
appellata, per disattendere la doglianza in esame, anche
alla seconda parte del citato art. 21-octies l. 241/1990
(secondo cui il provvedimento amministrativo non è comunque
annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del
procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio
che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato); e in
giurisprudenza, in effetti, s’è rilevato come: “L’art. 21-octies comma 2, l.
07.08.1990 n. 241, secondo cui il
provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per
mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora
l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato, deve essere estensivamente interpretata
ricomprendendovi anche la mancata comunicazione del
preavviso di diniego ex art. 10-bis, l. n. 241, cit., che,
insieme alla comunicazione di avvio del procedimento,
rappresentano le garanzie partecipative del destinatario del
provvedimento, con pari dignità e, necessariamente, pari
trattamento” (TAR Lazio-Latina, Sez. I, 21.01.2013, n. 71); cfr. anche la seguente ulteriore massima: “La
comunicazione di preavviso di diniego nei procedimenti ad
istanza di parte deve ritenersi assoggettata alle stesse
regole valevoli per la comunicazione di avvio del
procedimento, con conseguente superamento del vizio formale
in questione nelle ipotesi, come quella di specie, in cui il
provvedimento risulti avere un contenuto vincolato o
comunque tale da non poter essere diverso rispetto a quello
concretamente emanato” (TAR Campania–Napoli – Sez. III – 23.10.2012, n. 4190).
---------------
Sta di fatto
che la dichiarazione, concernente l’assenza di carichi
tributari, è risultata sicuramente non veritiera (giusta
quanto osservato in precedenza); e pertanto la stessa, anche
in sé sola riguardata, aveva valenza tale, da determinare la
revoca del finanziamento concesso, posto che, come
opportunamente rilevato dalla Sezione, in sede di decisione
circa l’istanza cautelare: “L’art. 75, d.P.R. n. 445 del
2000 –testo unico in tema di documentazione amministrativa
(che riproduce la norma previgente contenuta nell’art. 11,
comma 3, D.P.R. n. 403 del 1998)– è tassativo nel disporre
che, se emerga dal controllo effettuato dall’Amministrazione
la non veridicità del contenuto della dichiarazione
sostitutiva, il dichiarante decade dai benefici
eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla
base della dichiarazione non veritiera”.
E in giurisprudenza, anche a definitivo suggello della
conclusione, accolta dal Collegio, circa la natura vincolata
dello stesso provvedimento impugnato, e, quindi, circa
l’inutilità di qualsivoglia apporto partecipativo al
riguardo, si legga la massima che segue: “In base all’art.
75 del d.P.R. n. 445 del 2000, la non veridicità della
dichiarazione sostitutiva presentata comporta la decadenza
dai benefici eventualmente conseguiti, non lasciando tale
disposizione alcun margine di discrezionalità alle
Amministrazioni che si avvedano della non veridicità delle
dichiarazioni. Inoltre, l’art. 75, comma 1, del d. P. R. 28.12.2000, n. 445 prescinde, per la sua applicazione,
dalla condizione soggettiva del dichiarante, attestandosi
sul dato oggettivo della non veridicità, rispetto al quale
sono irrilevanti il complesso delle giustificazioni addotte
dal dichiarante” (C. di S., Sez. V, sent. n. 2447 del
27.04.2012 (ud. del 14.02.2012), Po. In. ed Ar. So. Co. c.
Comune di Valdagno)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 16.04.2013 n. 877 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'articolo 4 della legge n. 10/1977 ed oggi
l'articolo 11 del DPR n. 380/2001 dispongono che l'atto
abilitativo alla edificazione sia rilasciato "al
proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per
richiederlo".
In particolare, poi, la giurisprudenza ha avuto modo di
chiarire che il rilascio della concessione edilizia non
presuppone necessariamente la proprietà del suolo da parte
del soggetto istante, essendo sufficiente la disponibilità
dello stesso; chiarendosi pure che il possesso del bene è
riconducibile alle situazioni di legittimazione per la
richiesta della concessione edilizia, alle quali , in
alternativa a quella dominicale, l'art. 4 l. n. 10/1977
genericamente rinvia.
In ogni caso, anche ad ammettere la fondatezza
della tesi predetta, deve rilevarsi che, come già statuito
da questo Tribunale (TAR per la Campania, Sezione
Staccata di Salerno, Sez. II, 17.06.2008, n. 1952),
"l'articolo 4 della legge n. 10/1977 ed oggi l'articolo 11
del DPR n. 380/2001 dispongono che l'atto abilitativo alla
edificazione sia rilasciato "al proprietario dell'immobile o
a chi abbia titolo per richiederlo".
In particolare, poi, la
giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che il rilascio
della concessione edilizia non presuppone necessariamente la
proprietà del suolo da parte del soggetto istante, essendo
sufficiente la disponibilità dello stesso (cfr. Cons.
Stato, V, 24.10.1996, n. 1285; IV, 31.01.1995, n. 37);
chiarendosi pure che il possesso del bene è riconducibile
alle situazioni di legittimazione per la richiesta della
concessione edilizia, alle quali , in alternativa a quella
dominicale, l'art. 4 l. n. 10/1977 genericamente rinvia
(cfr. Cons. Stato, V, 18.06.1996, n. 718).
Pertanto, per
affermare la legittimità della determinazione impugnata non
è necessario risolvere la questione (tra l'altro pendente
dinanzi al giudice civile) in ordine alla titolarità del
diritto dominicale. Sufficit al riguardo la titolarità del
possesso del bene…"
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 16.04.2013 n. 876 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il servizio di c.d. "gestione calore" deve
qualificarsi come un appalto di servizio strumentale
all'Ente affidante, e non già come servizio pubblico locale
destinato all'utenza.
Sono rimesse all'Adunanza plenaria alcune questioni
sull'obbligo di apertura in seduta pubblica dei plichi
contenenti le offerte tecniche.
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Il servizio definito di "energia/gestione calore",
deve qualificarsi come un appalto di servizio strumentale
all'Ente affidante, e non già come servizio pubblico locale
destinato all'utenza. In sintesi, la natura di servizio
pubblico locale va riconosciuta alle attività destinate a
rendere un'utilità immediatamente percepibile ai singoli o
all'utenza complessivamente considerata, che ne sopporta i
costi direttamente, mediante pagamento di apposita tariffa,
all'interno di un rapporto trilaterale e con assunzione del
rischio di impresa da parte del gestore.
Peraltro, il servizio energia non costituisce una produzione
di beni o attività rivolti a fini sociali e di promozione
economica, non potendo rinvenirsi nella mera gestione del
calore per gli edifici pubblici alcuna finalità sociale e
promozionale.
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Sono rimesse all'Adunanza plenaria le seguenti questioni:
1) se l'obbligo di apertura in seduta pubblica dei plichi
contenenti le offerte tecniche sia operativo solo per le
gare indette dopo l'entrata in vigore dell'art. 12, D.L.
07.05.2012, n. 52, convertito, con modificazioni, dalla l.
06.07.2012, n. 94, ovvero se tale regola è applicabile anche
per le gare indette prima di tale data;
2) se il citato art. 12 abbia salvaguardato, e quindi
sanato, gli effetti delle procedure già concluse alla data
del 09.05.2012 e di quelle, ancora pendenti alla detta data,
nelle quali si sia già proceduto, prima della medesima data,
all'apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche non
in seduta pubblica;
3) se il principio positivizzato dalla decisione
dell'Adunanza Plenaria n. 13/2011 (obbligo di apertura in
seduta pubblica dei plichi contenenti le offerte tecniche)
si applichi solo ai plichi aperti dopo il 28.07.2011, data
della sua pubblicazione (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.04.2013 n. 1976 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La motivazione di un provvedimento è da ritenere
pienamente legittima quando essa sia completa e logica in
virtù degli elementi contenuti in altro atto che, in ragione
del rinvio, diviene parte integrante del primo a termini
dell’art. 3 della legge n. 241/1990, norma di principio
generale al riguardo.
Resta fermo che il rinvio deve essere tale da rendere
possibile ed agevole il controllo della motivazione
attraverso l’atto richiamato per relationem che, pertanto,
deve essere accessibile o, meglio, allegato.
L’appello è infondato e va respinto.
L’appellante censura per difetto di motivazione il
provvedimento del Comune originariamente impugnato, perché
l’Amministrazione avrebbe omesso di indicare i presupposti
di fatto e le ragioni di ordine giuridico poste a fondamento
dell’atto, con conseguente violazione dell’art. 3 della
legge 241/1990.
La censura non è condivisibile, perché, come ritenuto dai
giudici di primo grado, il Comune di Roma, in sede di
adozione dell’atto, ha fatto necessariamente riferimento e
si è attenuto al parere reso dal C.P.P.O., atteso che il
provvedimento stesso si fonda su valutazioni di carattere
medico-scientifiche e, quindi, di natura fondamentalmente
tecnica che solo un organo medico legale può fornire.
Il parere reso dal C.P.P.O., risulta inoltre diffuso ed
approfondito e sono ben esplicitati gli elementi che hanno
supportato le conclusioni di carattere negativo cui il
Comitato è pervenuto e che, per relationem, motivano
adeguatamente il provvedimento del Comune.
Al riguardo, questo Consiglio di Stato ha ritenuto che la
motivazione di un provvedimento è da ritenere pienamente
legittima quando essa, come nel caso di specie, sia completa
e logica in virtù degli elementi contenuti in altro atto
che, in ragione del rinvio, diviene parte integrante del
primo a termini dell’art. 3 della legge n. 241/1990, norma
di principio generale al riguardo.
Resta fermo che il rinvio deve essere tale da rendere
possibile ed agevole il controllo della motivazione
attraverso l’atto richiamato per relationem che,
pertanto, deve essere accessibile o, meglio, allegato (Cd.S.:
Sez. IV, 17.12.2008, n. 6274; Sez. V, 11.01.2011, n. 68) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 09.04.2013 n. 1948 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 34, comma 2, del dpr 380/2001 dispone che
«quando la demolizione non può
avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio
applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione,
(…), della parte dell’opera realizzata in difformità dal
permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al
doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia
del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da
quello residenziale».
Tale norma deve essere interpretata nel senso che si applica
la sanzione pecuniaria soltanto nel caso in cui sia
“oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione.
Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la
demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe
sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso.
Non possono, pertanto, venire in rilievo aspetti relativi
alla “eccessiva onerosità” dell’intervento.
Se si potessero prendere in esame anche questi profili si
rischierebbe di trasformare l’istituto in esame in una sorta
di “condono mascherato” con incidenza negativa grave sul
complessivo assetto del territorio e in contrasto con la
chiara determinazione del legislatore, che ha imposto che
abbia luogo la demolizione parziale, tranne il caso in cui
la relativa attività materiale incida sulla stabilità
dell’intero edificio, e dunque anche nell’ipotesi in cui
nella parte da demolire siano stati realizzati strumenti o
impianti più o meno costosi.
L’appello è fondato.
L’art. 34 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia), prevede, al primo comma, che «gli interventi e le
opere realizzati in parziale difformità dal permesso di
costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei
responsabili dell’abuso» entro il termine congruo fissato
dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile
dell’ufficio, con l’aggiunta che «decorso tale termine sono
rimossi o demoliti a cura del Comune e a spese dei medesimi
responsabili dell’abuso».
Il secondo comma dispone che «quando la demolizione non può
avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio
applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione,
(…), della parte dell’opera realizzata in difformità dal
permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al
doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia
del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da
quello residenziale».
La norma, da ultimo riportata, deve essere interpretata –in
conformità alla natura di illecito posto in essere e alla
sua valenza derogatoria rispetto alla regola generale posta
dal primo comma– nel senso che si applica la sanzione
pecuniaria soltanto nel caso in cui sia “oggettivamente
impossibile” procedere alla demolizione. Deve, pertanto,
risultare in maniera inequivoca che la demolizione, per le
sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità
dell’edificio nel suo complesso (cfr., con riferimento a
fattispecie analoghe, Cons. Stato, V, 29.11.2012, n.
6071; Cons. Stato, V, 05.09.2011, n. 4982).
Non possono, pertanto, venire in rilievo aspetti relativi
alla “eccessiva onerosità” dell’intervento.
Se si potessero prendere in esame anche questi profili si
rischierebbe di trasformare l’istituto in esame in una sorta
di “condono mascherato” con incidenza negativa grave sul
complessivo assetto del territorio e in contrasto con la
chiara determinazione del legislatore, che ha imposto che
abbia luogo la demolizione parziale, tranne il caso in cui
la relativa attività materiale incida sulla stabilità
dell’intero edificio, e dunque anche nell’ipotesi in cui
nella parte da demolire siano stati realizzati strumenti o
impianti più o meno costosi.
Applicando questi principi al caso di specie, ne consegue
l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui, ai
fini dell’applicazione dell’art. 34 del d.p.r. n. 380 del
2001, ha attribuito rilevanza all’onerosità delle
conseguenze derivanti dall’attività di ripristino dello
stato dei luoghi.
Ne consegue, pertanto, la legittimità dei provvedimenti
impugnati in primo grado, con i quali il Comune, accertato
che la demolizione delle opere abusive non avrebbe inciso
sulla stabilità del fabbricato, ha rigettato, in parte, la
domanda dell’interessato volta ad ottenere la sola
applicazione di una sanzione pecuniaria (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.04.2013 n. 1912 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Al proprietario del fondo vicino a quello su cui
siano state realizzate nuove opere spetta il diritto di
accesso a tutti gli atti abilitativi edilizi quando faccia
valere –inter alia- l’interesse ad accertare il rispetto
delle previsioni urbanistiche.
L’appello è fondato nei sensi di seguito specificati.
In primo luogo deve premettersi che non sembra possa
negarsi in via generale la legittimazione e l’interesse da
parte del professor A. all’accesso agli atti relativi ai
lavori di riqualificazione inerenti un fabbricato di
interesse storico ricadente nelle immediate vicinanze
rispetto all’immobile di sua proprietà.
Al riguardo il Collegio –non rilevando in questa sede la
portata della normativa di attuazione delle direttive
comunitarie sul diritto di accesso in materia “ambientale”-
ritiene di prestare adesione al consolidato orientamento
(dal quale non si rinvengono nel caso in esame ragioni per
discostarsi) secondo cui al proprietario del fondo vicino a
quello su cui siano state realizzate nuove opere spetta il
diritto di accesso a tutti gli atti abilitativi edilizi
quando faccia valere –inter alia- l’interesse ad accertare
il rispetto delle previsioni urbanistiche (in tal senso –ex plurimis-: Cons. Stato, IV,
04.05.2010, n. 2966; id., IV, 21.11.2006, n. 6790) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.04.2013 n. 1911 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Il terreno edificabile usato a fini agricoli non paga Ici.
Sentenza della Ctr Lazio. L'esonero solo se è attività prevalente.
Un terreno edificabile utilizzato ai fini agricoli da un
imprenditore agricolo non paga l'Ici, a condizione,
tuttavia, che il proprietario del fondo sia iscritto negli
appositi elenchi comunali e che il reddito conseguito
dall'agricoltore, sia pure coadiuvato dalla famiglia, sia
pari almeno al sessanta per cento del reddito complessivo.
Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza
09.04.2013 n.
92/21/13 emessa dalla Sez. XXI della Ctr Lazio.
Il Comune di
Marino aveva notificato al contribuente, imprenditore
agricolo, accertamenti Ici relativi a un terreno edificabile
di cui era stata omessa la denuncia, per oltre 150 mila
euro. Il contribuente ricorreva contro questi atti assumendo
la sua natura di imprenditore agricolo e precisando che
oltre il 60% dei suoi redditi scaturiva dall'attività
agricola.
La Commissione provinciale di Roma accoglieva solo
parzialmente il ricorso; i giudici di prima istanza
ritenevano che il contribuente non avesse dimostrato la
prevalenza dei redditi e, comunque, riducevano gli importi
accertati rilevando come, di fatto, il terreno avesse una
edificabilità relativa, tale da ridurre la pretesa solo del
cinquanta per cento. Il contribuente aveva quindi replicato
a quanto deciso dai giudici provinciali assumendo come, ai
fini delle imposte dirette, i redditi agrari vadano indicati
sulla base del reddito dominicale degli stessi terreni,
mentre la realtà reddituale si poteva evincere dalla
dichiarazione ai fini Irap (da cui si ricava che i redditi
agrari sono di misura di gran lunga superiore al 60% dei
redditi totali). I giudici regionali capitolini, destinatari
delle doglianze dell'imprenditore agricolo, hanno annullato
gli accertamenti Ici.
«Deve considerarsi», si legge nella
sentenza, «adeguato elemento di prova la dichiarazione
presentata ai fini Irap dal contribuente, da cui si desume
che i proventi agricoli sono ampiamente superiori al 60% del
reddito complessivo». Il collegio osserva che tale
interpretazione risponde sia alla volontà del legislatore,
sia all'interpretazione fornita dalla giurisprudenza
(cassazione n. 15566/2010).
Infatti, un terreno destinato ad
attività agricole, sia pure edificabile, non è soggetto a
Ici quando l'utilizzatore tragga il suo maggior
sostentamento dall'attività agricola e quando ricorrano le
ulteriori condizioni: a) che il terreno sia posseduto da un
coltivatore diretto o imprenditore agricolo, b) che sia
direttamente condotto da questi (e dai suoi familiari), c)
nella persistenza dell'utilizzazione agro-silvo-pastorale,
mediante attività dirette alla coltivazione. Condizioni
queste che, nel caso specifico, risultano rispettate
(articolo ItaliaOggi del 23.04.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L'obbligo per l'amministrazione di tenere conto
delle osservazioni presentate a seguito della comunicazione
di avvio del procedimento non impone la puntuale e analitica
confutazione delle argomentazioni svolte dalla parte
privata, essendo sufficiente, ai fini della giustificazione
del provvedimento adottato, la motivazione complessivamente
e logicamente resa a sostegno dell'atto stesso.
Non può ritenersi illegittimo un provvedimento
amministrativo per mancata valutazione di una memoria
inoltrata nel corso del procedimento dall’interessato nel
caso in cui il provvedimento stesso dia atto espressamente
atto degli scritti “difensivi” prodotti; tale circostanza
vale da sé a mandare esente il provvedimento finale adottato
dal vizio denunciato, posto che non incombe
sull’Amministrazione l’onere di confutare in maniera
analitica le osservazioni presentate.
La disposizione di cui all'art. 10, lett. b), della L. n.
241 del 1990 impone all'amministrazione procedente di “valutare”
le osservazioni, ovvero di tenerne conto e di non ignorarle.
Peraltro, come già osservato in sede cautelare, l'obbligo
per l'amministrazione di tenere conto delle osservazioni
presentate a seguito della comunicazione di avvio del
procedimento non impone la puntuale e analitica confutazione
delle argomentazioni svolte dalla parte privata, essendo
sufficiente, ai fini della giustificazione del provvedimento
adottato, la motivazione complessivamente e logicamente resa
a sostegno dell'atto stesso (TAR Brescia Sez. I, 04.05.2012,
n. 772; TAR Sardegna Sez. II, 23.02.2012, n. 181; TAR
Liguria, Sez. I, 21.03.2011, n. 432; TAR Napoli, Sez. VII,
07.05.2010, n. 3072; TAR Lazio-Roma, Sez. I, 04.08.2006, n.
6950).
Ancora di recente il Consiglio di Stato ha avuto modo di
ribadire tale principio, affermando che “non può
ritenersi illegittimo un provvedimento amministrativo per
mancata valutazione di una memoria inoltrata nel corso del
procedimento dall’interessato nel caso in cui il
provvedimento stesso dia atto espressamente atto degli
scritti “difensivi” prodotti; tale circostanza vale da sé a
mandare esente il provvedimento finale adottato dal vizio
denunciato, posto che non incombe sull’Amministrazione
l’onere di confutare in maniera analitica le osservazioni
presentate” (Cons. Stato, sez. IV, 19.03.2013 n. 1605) (TAR Piemonte, Sez.
I,
sentenza 05.04.2013 n. 425 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
pronunzia di decadenza del permesso a costruire riceve
puntuale disciplina all’art. 15 comma 2, del d.lgs. n. 380
del 2001 (t.u. delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia).
Si tratta di provvedimento che ha carattere strettamente
vincolato all’accertamento del mancato inizio e
completamento dei lavori entro i termini stabiliti dal
richiamato art. 15, comma 2, (rispettivamente un anno e tre
anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed
ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del
permesso a costruire per l’inerzia del titolare a darvi
attuazione.
Il provvedimento che la dichiara, ove adottato, ha carattere
meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in
via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine
prefissato con conseguente decorrenza ex tunc.
La riconduzione entro precisi termini dell’attuazione del
contenuto abilitante del permesso di costruire trova invero
la sua ragione d’essere nell’esigenza che essa sia sempre
conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia della
porzione di territorio interessata, che può, in progressione
di tempo, mutare in presenza di nuove e diverse scelte di
pianificazione.
Come tutti i provvedimenti che incidono sullo jus
aedificandi la pronunzia di decadenza si caratterizza per
tipicità.
Essa può essere adottata in presenza dei presupposti
strettamente prefigurati dalla disciplina di legge
(violazione del dato temporale dell’inizio e completamento
dei lavori in presenza dell’ inerzia, non assistita da
giustificazione, del titolare del permesso di costruire a
realizzare l’intervento) ed a tutela dell’interesse primario
ad essa peculiare, di non mantenere nel tempo in vita titoli
non più conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia
della zona in atto (salvo l’ultrattività dell’efficacia del
titolo abilitativo nel limite triennale previsto dall’art.
15, comma 4, del d.lgs., in presenza di nuove e diverse
previsioni urbanistiche).
Inoltre il termine di durata del permesso edilizio non può
mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario
sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una
formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha
rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità
del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa
ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero
l'insorgenza di una causa di forza maggiore.
La pronunzia di decadenza del permesso a costruire riceve
puntuale disciplina all’art. 15 comma 2, del d.lgs. n. 380
del 2001 (t.u. delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia).
Si tratta di provvedimento che ha carattere strettamente
vincolato all’accertamento del mancato inizio e
completamento dei lavori entro i termini stabiliti dal
richiamato art. 15, comma 2, (rispettivamente un anno e tre
anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed
ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del
permesso a costruire per l’inerzia del titolare a darvi
attuazione (cfr. Cons. St., Sez. IV, n. 974 del 23.02.2012;
n. 2915 del 2012).
Il provvedimento che la dichiara, ove adottato, ha carattere
meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se,
in via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine
prefissato con conseguente decorrenza ex tunc.
La riconduzione entro precisi termini dell’attuazione del
contenuto abilitante del permesso di costruire trova invero
la sua ragione d’essere nell’esigenza che essa sia sempre
conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia della
porzione di territorio interessata, che può, in progressione
di tempo, mutare in presenza di nuove e diverse scelte di
pianificazione.
Come tutti i provvedimenti che incidono sullo jus
aedificandi la pronunzia di decadenza si caratterizza
per tipicità.
Essa può essere adottata in presenza dei presupposti
strettamente prefigurati dalla disciplina di legge
(violazione del dato temporale dell’inizio e completamento
dei lavori in presenza dell’ inerzia, non assistita da
giustificazione, del titolare del permesso di costruire a
realizzare l’intervento) ed a tutela dell’interesse primario
ad essa peculiare, di non mantenere nel tempo in vita titoli
non più conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia
della zona in atto (salvo l’ultrattività dell’efficacia del
titolo abilitativo nel limite triennale previsto dall’art.
15, comma 4, del d.lgs., in presenza di nuove e diverse
previsioni urbanistiche).
Inoltre il termine di durata del permesso edilizio non può
mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario
sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una
formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha
rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità
del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa
ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero
l'insorgenza di una causa di forza maggiore (Consiglio di
Stato sez. IV, n. 974/2012, cit.)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 04.04.2013 n. 1870 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Vincoli.
Il compenso alla società.
Esclusione «automatica» se l'aggio punta più in alto
rispetto al bando.
L'offerta di un aggio al rialzo non può essere presa in
considerazione e comporta l'esclusione dalla gara.
Lo ha
chiarito il TAR Puglia-Bari, Sez. I, con la
sentenza
04.04.2013 n. 470 annullando
l'aggiudicazione a una società che aveva proposto un aggio
del 52,5% rispetto al 45% a base d'asta, soggetto a ribasso.
All'inizio del 2012 il Comune di Bisceglie avvia la
procedura per l'affidamento del servizio di accertamento e
riscossione dell'imposta sulla pubblicità e della Tosap, con
il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa,
attribuendo 75 punti all'offerta tecnica e 25 a quella
economica. L'aggio all'affidatario viene distinto in due
parti: riscossione ordinaria (30% a base d'asta, soggetto a
ribasso), somme recuperate dall'evasione (45% a ribasso).
Una società propone per l'attività di recupero un aggio del
52,5%, nonostante lo sbarramento al 45%. La commissione
esamina la posizione della ditta attribuendole circa 4 punti
(su 5), a danno di un'altra società partecipante che si era
invece attenuta alle prescrizioni di gara.
Nonostante l'evidente anomalia di un'offerta in aumento, il
Comune procede all'aggiudicazione. A nulla valgono le
contestazioni di illegittimità, essendo peraltro del tutto
illogica l'attribuzione di un punteggio che finiva
addirittura per premiare un concorrente che aveva violato la
normativa di gara.
Il Tar prima sospende l'aggiudicazione e poi l'annulla nel
merito. Sulla questione il Tar evidenzia che l'offerta al
rialzo non avrebbe in ogni caso potuto risultare
assegnataria di alcun punteggio. Il Comune aveva invece
tentato di difendersi affermando che nel bando mancava
un'espressa disposizione in ordine al divieto di
presentazione di componenti dell'offerta al rialzo. Il Tar
non solo non è d'accordo ma rincara la dose evidenziando che
la difformità sostanziale rispetto alle condizioni di gara
avrebbe dovuto comportare l'esclusione in base all'articolo
46, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici.
Peraltro, la previsione di un aggio superiore a quello
massimo indicato per il recupero dell'evasione ha consentito
all'aggiudicataria di offrire un aggio minore per l'attività
di riscossione ordinaria, presentandosi sotto questo aspetto
maggiormente concorrenziale, con conseguente distorsione
della valutazione comparativa e violazione della par
condicio.
In conclusione, il Tar annulla l'aggiudicazione definitiva
obbligando il Comune a rinnovare le operazioni di calcolo e
di aggiudicazione. Si tratta di una pronuncia che serve da
monito affinché si evitino inutili ritardi negli affidamenti
e un notevole dispendio economico, considerato che il Comune
è stato condannato al pagamento delle spese sia della fase
cautelare sia di quella di merito
(articolo Il Sole 24 Ore del
22.04.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
APPALTI SERVIZI: Riscossione.
La gara può imporre parametri ad hoc.
Sì ai requisiti aggiuntivi per le attività di supporto.
È possibile richiedere requisiti specifici per affidare le
attività di supporto alla riscossione dei tributi.
Lo ha
chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
27.03.2013 n. 1761.
La
controversia riguardava la gara europea bandita dalla
regione Veneto per l'affidamento dei servizi amministrativi
a supporto della gestione della tassa automobilistica
(avvisi di pagamento, call center, rendicontazione e
archiviazione).
Tra le condizioni di accesso alla gara venivano richiesti, a
pena d'esclusione, i seguenti requisiti: 1) certificazione
di qualità; 2) apposito applicativo web; 3) svolgimento dei
servizi nel centro storico di Venezia; 4) fatturato di 15
milioni di euro nell'ultimo triennio. Requisiti ritenuti
troppo restrittivi dal Tar Veneto in quanto «sproporzionati
e illogici»; di qui l'annullamento del bando di gara nella
sua interezza.
La Regione Veneto però ha proposto ricorso al Consiglio di
Stato, che ha ribaltato l'esito del giudizio di primo grado
ritenendo invece legittime le prescrizioni.
Sulla certificazione di qualità, il contratto affida
all'appaltatore delicati compiti di partecipazione
all'esercizio dei poteri pubblicistici, quindi è senz'altro
ragionevole individuare una soglia minima di affidabilità
professionale.
È stata inoltre respinta la censura sulla sproporzionalità
della clausola del bando che prevede un apposito applicativo
web, non essendo dimostrata la sua inutilità. Sul luogo di
svolgimento dei servizi nel centro storico di Venezia, i
giudici evidenziano che le prestazioni devono essere fornite
alla Regione Veneto, per cui è ragionevole la pretesa ad
avere una prossimità fisica con l'appaltatore. Infine, in
merito alla prescrizione sul fatturato di 15 milioni di euro
nell'ultimo triennio, si tratta di un importo proporzionato
al valore del contratto, non inferiore a 24 milioni di euro
(senza considerare l'eventuale proroga e i servizi
complementari).
Viene così confermato l'orientamento favorevole
all'introduzione nei bandi di gara di requisiti più rigorosi
di quelli richiesti per legge (si vedano le decisioni n.
3809/2011 e n. 4889/2012 del Consiglio di Stato), indirizzo
ora esteso anche all'affidamento di attività di supporto
alla riscossione dei tributi.
Andrebbe tuttavia definito per via legislativa il perimetro
delle attività riservate, chiarendo se l'iscrizione all'albo
ministeriale sia necessaria anche per svolgere attività
complementari ed accessorie, questione spesso foriera di
contenzioso e sulla quale la giurisprudenza si mostra
piuttosto oscillante.
Peraltro il contrasto non riguarda
solo il Consiglio di Stato (decisioni 2792/2003 e 1878/2006)
ma anche la giurisprudenza più recente di primo grado, tra
cui il Tar Torino con le sentenze 1335-1336/2011 e
l'ordinanza 427/2012: quest'ultima afferma che per le
attività di supporto è necessaria l'iscrizione all'albo
nazionale
(articolo Il Sole 24 Ore del
22.04.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: La
legge dispone che il consigliere comunale che intende
dimettersi deve presentare una formale dichiarazione
scritta, e deve presentarla personalmente; in alternativa
l’atto può essere presentato a mezzo di un delegato, ma in
tal caso sia l’atto di dimissioni, sia la delega, debbono
essere autenticati; inoltre l’autenticazione della delega
non deve risalire a una data anteriore più di cinque giorni.
Queste regole hanno lo scopo di garantire l’autenticità e la
spontaneità dell’atto di dimissioni, e in particolare
intendono prevenire il fenomeno (del quale in precedenza vi
erano stati taluni esempi) di una forza politica che esiga
dai propri candidati di consegnare ai dirigenti del partito
un atto di dimissioni firmato con data in bianco, quale
strumento di pressione per obbligare l’eletto a conformarsi
alle direttive.
La regola per cui, per determinare l’autoscioglimento del
consiglio, le dimissioni dei consiglieri debbono essere
presentate “contestualmente” (vale a dire con unico atto
sottoscritto da tutti gli interessati) ovvero con atti
separati ma depositati contemporaneamente, ha lo scopo di
evitare che i consiglieri di opposizione, approfittando
delle dimissioni presentate occasionalmente da qualche
consigliere di maggioranza per ragioni personali, si
dimettano a loro volta in massa determinando così lo
scioglimento del consiglio, senza che in realtà la
maggioranza sia mai entrata in crisi.
Il quadro normativo nel quale si colloca la controversia
appare chiaro ed esaustivo, e non dà spazio a dubbi
interpretativi.
Esso è costituito essenzialmente dal testo unico enti locali
(d.P.R. n. 267/2000 e s.m.) il cui art. 38, comma 8,
dispone: «Le dimissioni dalla carica di consigliere,
indirizzate al rispettivo consiglio, devono essere
presentate personalmente ed assunte immediatamente al
protocollo dell'ente nell'ordine temporale di presentazione.
Le dimissioni non presentate personalmente devono essere
autenticate ed inoltrate al protocollo per il tramite di
persona delegata con atto autenticato in data non anteriore
a cinque giorni. Esse sono irrevocabili, non necessitano di
presa d'atto e sono immediatamente efficaci. Il consiglio,
entro e non oltre dieci giorni, deve procedere alla surroga
dei consiglieri dimissionari, con separate deliberazioni,
seguendo l'ordine di presentazione delle dimissioni quale
risulta dal protocollo. Non si fa luogo alla surroga
qualora, ricorrendone i presupposti, si debba procedere allo
scioglimento del consiglio a norma dell'articolo 141».
L’art. 141 a sua volta dispone: «1. I consigli comunali e
provinciali vengono sciolti con decreto del Presidente della
Repubblica, su proposta del Ministro dell'interno: (....) b)
quando non possa essere assicurato il normale funzionamento
degli organi e dei servizi per le seguenti cause: (....) 3)
cessazione dalla carica per dimissioni contestuali, ovvero
rese anche con atti separati purché contemporaneamente
presentati al protocollo dell'ente, della metà più uno dei
membri assegnati, non computando a tal fine il sindaco o il
presidente della provincia».
Conviene approfondire brevemente la ratio di alcune
di queste regole.
La legge dispone che il consigliere comunale che intende
dimettersi deve presentare una formale dichiarazione
scritta, e deve presentarla personalmente; in alternativa
l’atto può essere presentato a mezzo di un delegato, ma in
tal caso sia l’atto di dimissioni, sia la delega, debbono
essere autenticati; inoltre l’autenticazione della delega
non deve risalire a una data anteriore più di cinque giorni.
Queste regole hanno lo scopo di garantire l’autenticità e la
spontaneità dell’atto di dimissioni, e in particolare
intendono prevenire il fenomeno (del quale in precedenza vi
erano stati taluni esempi) di una forza politica che esiga
dai propri candidati di consegnare ai dirigenti del partito
un atto di dimissioni firmato con data in bianco, quale
strumento di pressione per obbligare l’eletto a conformarsi
alle direttive.
La regola per cui, per determinare l’autoscioglimento del
consiglio, le dimissioni dei consiglieri debbono essere
presentate “contestualmente” (vale a dire con unico
atto sottoscritto da tutti gli interessati) ovvero con atti
separati ma depositati contemporaneamente, ha lo scopo di
evitare che i consiglieri di opposizione, approfittando
delle dimissioni presentate occasionalmente da qualche
consigliere di maggioranza per ragioni personali, si
dimettano a loro volta in massa determinando così lo
scioglimento del consiglio, senza che in realtà la
maggioranza sia mai entrata in crisi
(Cons. di Stato, Sez. III,
sentenza 27.03.2013 n. 1730 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO - VARI:
Locazioni commerciali della P.A., al cessionario
agibilità da garantire. Se manca è
dovuto il risarcimento del danno.
Nella compravendita o nella locazione
(ma lo stesso discorso vale anche per il caso di concessione
onerosa in uso) di immobili destinati all'esercizio di
attività commerciali il cedente ha l'obbligo di procurarne
l'agibilità, la cui licenza dev'essere rimessa al
cessionario al momento della consegna del bene. Si tratta di
un documento relativo all'uso della cosa ceduta, e, in
particolare, di un suo requisito giuridico essenziale, il
quale incide sull'attitudine della stessa ad assolvere alla
propria funzione economico-sociale.
Secondo il preferibile indirizzo della giurisprudenza, nella
compravendita o nella locazione (ma lo stesso discorso vale,
ovviamente, anche per il caso di concessione onerosa in uso)
di immobili destinati all'esercizio di attività commerciali
il cedente ha l'obbligo, ai sensi dell'art. 1477 c.c., di
procurarne l'agibilità, la cui licenza dev'essere rimessa al
cessionario al momento della consegna del bene: si tratta di
documento relativo all'uso della cosa ceduta, e, in specie,
di un suo requisito giuridico essenziale, il quale incide
sull'attitudine della stessa ad assolvere alla propria
funzione economico-sociale (fra le molte, Cassazione civile,
II, 06.07.2011, n. 14899; II, 16.05.2011, n. 10756; II,
26.04.2007, n. 9976; Tribunale Monza, 31.05.2011; Tribunale
Pescara, 07.04.2011, n. 568).
Di più: tenuto conto, nel caso in parola, della funzione cui
il locale doveva assolvere e per la quale era dato e preso
in concessione, non può non ritenersi che l'incontestata
assenza dell'agibilità (rectius: del certificato e
delle condizioni oggettive per il suo rilascio) incidesse
decisivamente sulle caratteristiche funzionali dello stesso
e, pertanto, desse luogo a una vera e propria ipotesi di
aliud pro alio (Cass. Civ., 23.01.2009, n. 1701; Cass.
Civ. 11.11.2008, n. 26953; Cass. Civ. 10.07.2008, 18859).
A maggior ragione ciò valeva nel caso in esame: a cedere
l'immobile era difatti il Comune e, dunque, proprio il
soggetto competente in materia di agibilità, nella
condizione di valutare direttamente e compiutamente la
sussistenza o meno dei requisiti prescritti (i quali, se
insussistenti, privavano il locale, come già scritto, della
propria primaria funzione economica).
Né, d'altronde, le considerazioni appena svolte risultano
superabili in ragione delle clausole, contenute nel
disciplinare di gara, secondo cui la ditta aggiudicataria
avrebbe dovuto prendere visione del locale e richiedere le
autorizzazioni amministrative e sanitarie necessarie per
l'espletamento del servizio, senza poter chiamare in causa
il Comune per l'eventuale loro mancato ottenimento (art. 3),
non potendo le clausole medesime essere riferite a quello
che, come già scritto, non era solo un presupposto per lo
svolgimento dell'attività commerciale in parola ma, ancor
prima, un elemento essenziale dell'oggetto del contratto.
Ciò che vuol dirsi, in altri termini, è che l'assenza delle
condizioni per l'agibilità del locale -che, ragionevolmente,
poteva non emergere in maniera chiara in sede di
sopralluogo- rilevava ex se, incidendo sull'oggetto,
sulla causa tipica o, comunque, sull'adempimento del
negozio, indipendentemente dal profilo del rilascio della
relativa certificazione (la quale, peraltro, neppure ha
natura propriamente ed esclusivamente autorizzatoria,
consistendo in un atto di accertamento che si limita ad
attestare una situazione oggettiva; Tar Toscana, II,
09.05.2012, n. 903; Tar Umbria, 18.11.2010, n. 512).
Tanto scritto a proposito degli effetti che le condizioni
del locale e l'assenza della sua agibilità determinavano con
riguardo al sinallagma contrattuale, e, per conseguenza,
ritenuta la responsabilità dell'amministrazione comunale, il
Collegio ritiene, per la quantificazione del danno
risarcibile, di utilizzare il procedimento delineato
dall'art. 34, comma 4, c.p.a. (in cui è stato trasfuso, con
generalizzazione, l'art. 35, comma 2, D.Lgs. n. 80 del 1998:
"In caso di condanna pecuniaria, il giudice può, in
mancanza di opposizione delle parti, stabilire i criteri in
base ai quali il debitore deve proporre a favore del
creditore il pagamento di una somma entro un congruo
termine. Se le parti non giungono ad un accordo, ovvero non
adempiono agli obblighi derivanti dall'accordo concluso, con
il ricorso previsto dal Titolo I del Libro IV, possono
essere chiesti la determinazione della somma dovuta ovvero
l'adempimento degli obblighi ineseguiti".
In tali casi, dunque, il giudice si limita ad una condanna
in ordine all'an, mentre, con riguarda al quantum,
solo stabilisce i criteri cui la pubblica amministrazione
deve attenersi per formulare una proposta di risarcimento al
soggetto leso.
Pertanto il Collegio, affermata la responsabilità
contrattuale del Comune di Lecce, lo condanna al
risarcimento del danno in favore della ricorrente, da
determinarsi con i seguenti criteri:
- la società 'C.C. V' fornirà al Comune la
documentazione probatoria relativa alle spese sostenute e ai
dedotti mancati guadagni.
- dalla data in cui tale documentazione perverrà al Comune,
quest'ultimo avrà un termine di sessanta giorni per proporre
alla controparte il pagamento di una somma a titolo di
risarcimento, da quantificarsi:
a) alla luce dei documenti probatori effettivamente ricevuti;
b) tenendo conto, soltanto, delle spese documentalmente dimostrate;
c) tenendo conto, inoltre, soltanto delle spese univocamente ed
esclusivamente riferibili all'attività economica in oggetto,
per come prevista e regolata dal contratto di concessione in
uso e da svolgersi nel locale ivi contemplato;
d) sottraendo dalle spese, anche pro parte, quelle recuperate con
la cessione dei beni acquistati;
e) differenziando, nel calcolo dei mancati guadagni, le diverse
stagioni dell'anno;
f) utilizzando, ancora quanto al calcolo dei mancati guadagni,
criteri riferibili a realtà economiche per quanto possibile
analoghe a quella de qua;
g) aggiungendo gli interessi legali;
h) infine riducendo la somma così ottenuta del 30%, e ciò -ex art.
1227 c.c.- in quanto, con un atteggiamento di maggior
attenzione, richiedibile a un operatore professionale, il
ricorrente avrebbe potuto evitare, almeno in parte, i danni
subiti (a esempio acquisendo informazioni sul se e quando il
locale avrebbe avuto l'agibilità ovvero rinunciando ad
alcune spese prima di ottenerla);
- se la società ricorrente accetterà la proposta, dalla data
dell'accettazione decorreranno, per il Comune, sessanta
giorni per procedere al pagamento (altrimenti potrà farsi
applicazione dell'art. 34, comma 4, citato, secondo cui: "se
le parti non giungono ad un accordo, ovvero non adempiono
agli obblighi derivanti dall'accordo concluso, con il
ricorso previsto dal Titolo I del Libro IV, possono essere
chiesti la determinazione della somma dovuta ovvero
l'adempimento degli obblighi ineseguiti") (commento
tratto da www.ipsoa.it - TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 27.03.2013 n. 685 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Al
fine di eseguire una demolizione edilizia sancita dal
giudicato civile, il soggetto legittimato in forza di questo
non è tenuto a richiedere al Comune la concessione edilizia;
tuttavia se la richiesta viene avanzata il Comune ha
l’obbligo di prontamente rilasciarla, e senza poter fare
carico al richiedente di alcun onere (tecnico, materiale
economico) derivante da comportamenti ad esso non
imputabili.
FATTO
Con atto di citazione notificato in data, il sig. F.T.
conveniva innanzi al Tribunale civile di Vibo Valentia il
sig. La S.D. per avere occupato con un angolo del suo
fabbricato e con tre muri di contenimento una porzione di
mq. 172 della contigua proprietà dell’attore .
Con sentenza n. 462/1996 del 28.02/18.06.1996, passata in
cosa giudicata, il Tribunale ha condannato il predetto La
Serra alla “restituzione dei luoghi al pristino stato e
alla restituzione al T. della porzione immobiliare
illecitamente occupata come libera da ogni opera muraria e
manufatto, mediante la demolizione, a sua cura e spese, dei
muri di contenimento e della parte di fabbricato che vi ha
eretto”. Il giudice civile accoglieva altresì la domanda
risarcitoria dei danni, da liquidarsi in separata sede.
In sede di esecuzione del giudicato, necessaria per
l’inottemperanza del La S., il giudice dell’esecuzione
riteneva di dare indicazioni al ctu incaricato di chiedere
al Comune di Vibo Valentia la concessione edilizia ritenuta
necessaria per procedere all’esecuzione della demolizione
delle opere in questione, ciò sula base del rilievo tecnico
che la demolizione della parte realizzata sul suolo
dell’attore avrebbe pregiudicato anche la parte
legittimamente edificata sul suolo del convenuto condannato
in sede civile. Detta istanza, nonostante la sua
reiterazione, non aveva alcun esito presso il Comune.
...
DIRITTO
...
Sintetizzando quanto
sin qui osservato, ed a regolazione della fattispecie
esaminata, deve ritenersi che al fine di eseguire una
demolizione edilizia sancita dal giudicato civile, il
soggetto legittimato in forza di questo non è tenuto a
richiedere al Comune la concessione edilizia; tuttavia se la
richiesta viene avanzata il Comune ha l’obbligo di
prontamente rilasciarla, e senza poter fare carico al
richiedente di alcun onere (tecnico, materiale economico)
derivante da comportamenti ad esso non imputabili.
Il contestato diniego della concessione è pertanto
illegittimo (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.03.2013 n. 1482 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La legittimità della reiterazione dei vincoli di
piano regolatore a contenuto espropriativo scaduti non può
prescindere dal positivo riscontro di una duplice
condizione:
● per un
verso, si afferma che "l'accantonamento delle somme
necessarie per il pagamento dell'indennità di espropriazione
è condizione di legittimità del provvedimento di
reiterazione dei vincoli scaduti ai sensi dell'art. 2 l. n.
1187 del 1968, sebbene puntualmente motivato e giustificato
da un evidente interesse pubblico";
●
per altro verso, si sottolinea come la reiterazione
dei vincoli urbanistici scaduti (oggi rientrante nella
previsione di cui all'art. 9 d.P.R. 08.06.2001 n. 327) non
può disporsi senza svolgere una specifica indagine concreta
relativa alle singole aree finalizzata a modulare e
considerare le differenti esigenze, pubbliche e private, in
quanto l'amministrazione nel reiterare i vincoli scaduti, è
tenuta ad accertare che l'interesse pubblico sia ancora
attuale e non possa essere soddisfatto con soluzioni
alternative e deve indicare le concrete iniziative assunte o
di prossima attuazione per soddisfarlo, nonché disporre
l'accantonamento delle somme necessarie per il pagamento
dell'indennità di espropriazione, per cui “l'obbligo di
motivazione in materia di reiterazione dei vincoli
urbanistici scaduti sussiste anche quando la reiterazione
del vincolo sia disposta in occasione dell'adozione di
variante generale al p.r.g.”.
La giurisprudenza più recente, anche a seguito del decisivo
impulso fornito dalla giurisprudenza della Corte
Costituzionale (con particolare riguardo alla sentenza n.
179 del 1999, che ha affermato il principio secondo cui la
reiterazione dei vincoli di piano regolatore a contenuto
espropriativo scaduti deve essere accompagnata dalla
previsione di un indennizzo), afferma con notevole decisione
il principio per cui la legittimità della reiterazione non
può prescindere dal positivo riscontro di una duplice
condizione: per un verso, si afferma che "l'accantonamento
delle somme necessarie per il pagamento dell'indennità di
espropriazione è condizione di legittimità del provvedimento
di reiterazione dei vincoli scaduti ai sensi dell'art. 2 l.
n. 1187 del 1968, sebbene puntualmente motivato e
giustificato da un evidente interesse pubblico"
(Consiglio Stato, sez. IV, 28.07.2005, n. 4019); per
altro verso, si sottolinea come la reiterazione dei
vincoli urbanistici scaduti (oggi rientrante nella
previsione di cui all'art. 9 d.P.R. 08.06.2001 n. 327) non
può disporsi senza svolgere una specifica indagine concreta
relativa alle singole aree finalizzata a modulare e
considerare le differenti esigenze, pubbliche e private, in
quanto l'amministrazione nel reiterare i vincoli scaduti, è
tenuta ad accertare che l'interesse pubblico sia ancora
attuale e non possa essere soddisfatto con soluzioni
alternative e deve indicare le concrete iniziative assunte o
di prossima attuazione per soddisfarlo, nonché disporre
l'accantonamento delle somme necessarie per il pagamento
dell'indennità di espropriazione, per cui “l'obbligo di
motivazione in materia di reiterazione dei vincoli
urbanistici scaduti sussiste anche quando la reiterazione
del vincolo sia disposta in occasione dell'adozione di
variante generale al p.r.g.” (Consiglio di Stato, sez.
IV, 15.05.2000, n. 2706; in termini Consiglio di Stato, sez.
IV, 07.06.2012 n. 3365) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.03.2013 n. 1465 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: In
ordine alla data di realizzazione di un'opera abusiva per la
quale si chiede la sanatoria, l'onere della prova grava sul
richiedente; ciò perché mentre l'amministrazione comunale
non è normalmente in grado di accertare la situazione
edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata
dalla normativa sul condono, colui che richiede la sanatoria
può fornire qualunque documentazione da cui possa desumersi
che l'abuso sia stato effettivamente realizzato entro la
data predetta.
La dichiarazione sostitutiva di notorietà dell'intervenuta
ultimazione delle opere entro la data di scadenza di per sé
è potenzialmente idonea e sufficiente a dimostrare la data
di ultimazione delle opere, ma non preclude
all'Amministrazione, in sede di esame della stessa, la
possibilità di raccogliere nel corso del procedimento
elementi a contrario e pervenire a risultanze diverse.
Quindi, il richiedente la sanatoria può avvalersi -se non vi
è contestazione- della dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà, ma a fronte di elementi di prova a disposizione
dell'Amministrazione che attestino il contrario, quali il
rilievo aerofotogrammetrico, è gravato dall'onere di
provare, attraverso ulteriori elementi, quali fotografie
aeree, fatture, sopralluoghi e così via, l'effettiva
realizzazione dei lavori entro il termine previsto dalla
legge per poter usufruire del beneficio.
Quanto, poi, allo specifico problema della valenza
probatoria dei rilievi aerofotogrammetrici, la
Giurisprudenza ha condivisibilmente ritenuto che sono
soltanto gli atti formati dai pubblici ufficiali
nell'esercizio delle loro funzioni ad avere particolare
valenza probatoria, ma non le riprese aerofotogrammetriche
del territorio comunale effettuate da una società privata.
D’altra parte, le indicazioni ricavabili dalla
aerofotogrammetria del territorio sono di decisiva rilevanza
ai fini della datazione dell’epoca di realizzazione del
manufatto solo qualora realizzate con alta risoluzione
grafica, come le elaborazioni più recenti, grazie al
significativo progresso tecnologico.
La giurisprudenza afferma da tempo che, in
ordine alla data di realizzazione di un'opera abusiva per la
quale si chiede la sanatoria, l'onere della prova grava sul
richiedente; ciò perché mentre l'amministrazione comunale
non è normalmente in grado di accertare la situazione
edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata
dalla normativa sul condono, colui che richiede la sanatoria
può fornire qualunque documentazione da cui possa desumersi
che l'abuso sia stato effettivamente realizzato entro la
data predetta.
La dichiarazione sostitutiva di notorietà dell'intervenuta
ultimazione delle opere entro la data di scadenza di per sé
è potenzialmente idonea e sufficiente a dimostrare la data
di ultimazione delle opere, ma non preclude
all'Amministrazione, in sede di esame della stessa, la
possibilità di raccogliere nel corso del procedimento
elementi a contrario e pervenire a risultanze diverse.
Quindi, il richiedente la sanatoria può avvalersi -se non
vi è contestazione- della dichiarazione sostitutiva di atto
di notorietà, ma a fronte di elementi di prova a
disposizione dell'Amministrazione che attestino il
contrario, quali il rilievo aerofotogrammetrico, è gravato
dall'onere di provare, attraverso ulteriori elementi, quali
fotografie aeree, fatture, sopralluoghi e così via,
l'effettiva realizzazione dei lavori entro il termine
previsto dalla legge per poter usufruire del beneficio
(TAR Piemonte sez. II di Torino, 12.01.2012 n. 34; TAR Lazio Roma sez. II, 06.12.2010, n. 35404).
Quanto, poi, allo specifico problema della valenza
probatoria dei rilievi aerofotogrammetrici, la
Giurisprudenza ha condivisibilmente ritenuto che sono
soltanto gli atti formati dai pubblici ufficiali
nell'esercizio delle loro funzioni ad avere particolare
valenza probatoria, ma non le riprese aerofotogrammetriche
del territorio comunale effettuate da una società privata
(TAR Puglia Bari sez. III, 10.11.2005 n. 4862).
D’altra parte, le indicazioni ricavabili dalla
aerofotogrammetria del territorio sono di decisiva rilevanza
ai fini della datazione dell’epoca di realizzazione del
manufatto solo qualora realizzate con alta risoluzione
grafica, come le elaborazioni più recenti, grazie al
significativo progresso tecnologico.
In ogni caso, posto che l’attendibilità di tali rilievi
(specie se risalenti) è condizionata da una molteplicità di
fattori (tecnologici, come la maggiore o minore risoluzione,
ambientali, come fenomeni di rifrazione, la presenza di
vegetazione che può schermare le costruzioni, etc.), la
Giurisprudenza ritiene ammissibile la prova contraria
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 07.03.2013 n. 777 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA
PRIVATA: Circa
le condizioni per l'esercizio in
autotutela da parte dell'Amministrazione del potere di
annullamento d'ufficio, le stesse, come pacifico, sono:
a) l'illegittimità dell'atto amministrativo;
b) la sussistenza di ragioni di interesse pubblico concreto
ed attuale ulteriore rispetto la mera esigenza di ripristino
della legittimità violata;
c) l'esercizio del potere entro un termine ragionevole;
d) la valutazione degli interessi dei destinatari e dei
controinteressati rispetto all'atto da rimuovere.
---------------
Ai sensi dell'art. 21-nonies, l. 07.08.1990 n. 241 (che ha
codificato un principio giurisprudenziale assolutamente
pacifico e costante), l'esercizio del potere di autotutela,
e quindi il concreto provvedimento di ufficio adottato
dall'Amministrazione, richiede che quest'ultima, oltre ad
accertare entro un termine ragionevole l'illegittimità
dell'atto, deve altresì valutare la sussistenza di un
interesse pubblico all'annullamento, attuale e prevalente
sulle posizioni giuridiche private costituitesi e
consolidatesi medio tempore, dovendosi in particolare
escludere che tale interesse pubblico possa consistere nel
mero ripristino della legalità violata; si conferma, quindi,
la dimensione tipicamente discrezionale dell'annullamento
d'ufficio che, rifuggendo da ogni automatismo, deve essere
espressione di una congrua valutazione comparativa degli
interessi in conflitto, dei quali occorre dare adeguatamente
conto nella motivazione del provvedimento di ritiro,
soprattutto ogni qualvolta la posizione del destinatario di
un provvedimento amministrativo si sia consolidata,
suscitando un affidamento sulla legittimità del titolo
stesso.
---------------
Per procedere all'annullamento in via di autotutela deve
sussistere un interesse pubblico concreto, specifico ed
attuale alla rimozione dell'atto e dei relativi effetti,
comunque diverso da quello generico al reintegro dell'ordine
giuridico violato e l'indagine relativa all'individuazione
di tale interesse deve consistere in una comparazione tra
l'interesse pubblico e quello dei privati destinatari,
potendosi procedere all'annullamento allorché sia
espressamente giustificato dalla sussistenza di un interesse
pubblico prevalente su quello alla conservazione dello
status quo che si è venuto a consolidare in capo al privato
interessato a seguito del rilascio della concessione, per
l'affidamento che ne è derivato.
--------------
Con specifico riferimento alla materia dell’edilizia, la
Giurisprudenza ha affermato che con l'introduzione del Capo
IV-bis della legge n. 241/1990 ad opera della legge n.
15/2005, nella specie con l'art. 21-nonies, il legislatore
ha, per la prima volta, dettato norme in tema di autotutela
amministrativa, recependo i principi giurisprudenziali e la
prassi amministrativa formatisi in assenza di una disciplina
normativa.
Tra questi, la regola secondo la quale il provvedimento di
annullamento in autotutela costituisce manifestazione della
discrezionalità dell'Amministrazione, nel senso che essa non
è obbligata a ritirare gli atti illegittimi o inopportuni in
quanto tali, ma deve valutare, di volta in volta, se esista
un interesse pubblico alla loro eliminazione diverso dal
semplice ristabilimento della legalità violata.
Siffatto interesse pubblico non viene esplicitato a priori
dalla norma, ma deve essere ricavato dalla stessa
Amministrazione, caso per caso, attraverso un'attività di
"comparazione tra l'interesse pubblico al ripristino della
legalità e gli interessi dei destinatari del provvedimento e
dei controinteressati"; il tutto, tenendo nella debita
considerazione anche la circostanza che il provvedimento da
annullare possa avere prodotto effetti favorevoli,
valutandone la rilevanza, e che sia trascorso un
apprezzabile lasso di tempo (fattore di stabilizzazione) dal
momento della sua emissione. Tali elementi, infatti,
integrano la nozione di "stabilità della situazione venutasi
a creare per effetto del provvedimento favorevole" e
rappresentano, in quanto tali, un limite all'esercizio del
potere di autoannullamento.
Pertanto, nella comparazione tra le esigenze sottese a un
intempestivo e pregiudizievole annullamento in autotutela
dell'atto e quelle sottese alla conservazione di
quest'ultimo, l'Amministrazione, in forza del citato art.
21-nonies, è tenuta a optare per la soluzione che meglio
contemperi la necessità del ripristino della legittimità e
la salvezza degli altri interessi concorrenti. Inoltre, il
vigente art. 21-nonies esclude che si possa procedere
all'annullamento d'ufficio in difetto di tutti requisiti ivi
individuati.
---------------
In un provvedimento di annullamento in autotutela di una
concessione edilizia, non è sufficiente affermare che
l'interesse pubblico sotteso consista essenzialmente
nell'ovviare alla falsa rappresentazione della realtà che il
privato avrebbe, a suo tempo, fornito al Comune sulle
caratteristiche dell'edificio. Ciò in quanto il presupposto
per un legittimo esercizio del potere di annullamento di
ufficio di una sanatoria edilizia non può ricondursi al mero
ripristino della legalità, occorrendo dar conto della
sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto alla
rimozione del titolo edilizio.
Occorre, infine, una comparazione tra detto interesse
pubblico e l'entità del sacrificio imposto all'interesse
privato, tanto più quando è trascorso molto tempo e il
titolare dell'interesse privato non sia più il responsabile
dei fatti che hanno dato luogo all'avvio dell'autotutela,
ovvero quando, in ragione del tempo trascorso, l'interessato
abbia maturato un legittimo affidamento alla conservazione
del bene della vita.
Venendo alle condizioni
per l'esercizio in autotutela da parte dell'Amministrazione
del potere di annullamento d'ufficio, le stesse, come
pacifico, sono:
a) l'illegittimità dell'atto amministrativo;
b) la sussistenza di ragioni di interesse pubblico concreto
ed attuale ulteriore rispetto la mera esigenza di ripristino
della legittimità violata;
c) l'esercizio del potere entro un termine ragionevole;
d) la valutazione degli interessi dei destinatari e dei
controinteressati rispetto all'atto da rimuovere.
Questa Sezione, con decisione dell’08.10.2012 n. 2327,
ha affermato che ai sensi dell'art. 21-nonies, l. 07.08.1990 n. 241 (che ha codificato un principio
giurisprudenziale assolutamente pacifico e costante),
l'esercizio del potere di autotutela, e quindi il concreto
provvedimento di ufficio adottato dall'Amministrazione,
richiede che quest'ultima, oltre ad accertare entro un
termine ragionevole l'illegittimità dell'atto, debba altresì
valutare la sussistenza di un interesse pubblico
all'annullamento, attuale e prevalente sulle posizioni
giuridiche private costituitesi e consolidatesi medio
tempore, dovendosi in particolare escludere che tale
interesse pubblico possa consistere nel mero ripristino
della legalità violata; si conferma, quindi, la dimensione
tipicamente discrezionale dell'annullamento d'ufficio che,
rifuggendo da ogni automatismo, deve essere espressione di
una congrua valutazione comparativa degli interessi in
conflitto, dei quali occorre dare adeguatamente conto nella
motivazione del provvedimento di ritiro, soprattutto ogni
qualvolta la posizione del destinatario di un provvedimento
amministrativo si sia consolidata, suscitando un affidamento
sulla legittimità del titolo stesso.
Sulla stessa linea, tra le altre, TAR Torino Piemonte
sez. I, 19.12.2012 n. 1361, secondo il quale per
procedere all'annullamento in via di autotutela deve
sussistere un interesse pubblico concreto, specifico ed
attuale alla rimozione dell'atto e dei relativi effetti,
comunque diverso da quello generico al reintegro dell'ordine
giuridico violato e l'indagine relativa all'individuazione
di tale interesse deve consistere in una comparazione tra
l'interesse pubblico e quello dei privati destinatari,
potendosi procedere all'annullamento allorché sia
espressamente giustificato dalla sussistenza di un interesse
pubblico prevalente su quello alla conservazione dello
status quo che si è venuto a consolidare in capo al privato
interessato a seguito del rilascio della concessione, per
l'affidamento che ne è derivato.
Con specifico riferimento alla materia dell’edilizia, la
Giurisprudenza ha affermato che con l'introduzione del Capo
IV-bis della legge n. 241/1990 ad opera della legge n.
15/2005, nella specie con l'art. 21-nonies, il legislatore
ha, per la prima volta, dettato norme in tema di autotutela
amministrativa, recependo i principi giurisprudenziali e la
prassi amministrativa formatisi in assenza di una disciplina
normativa. Tra questi, la regola secondo la quale il
provvedimento di annullamento in autotutela costituisce
manifestazione della discrezionalità dell'Amministrazione,
nel senso che essa non è obbligata a ritirare gli atti
illegittimi o inopportuni in quanto tali, ma deve valutare,
di volta in volta, se esista un interesse pubblico alla loro
eliminazione diverso dal semplice ristabilimento della
legalità violata. Siffatto interesse pubblico non viene
esplicitato a priori dalla norma, ma deve essere ricavato
dalla stessa Amministrazione, caso per caso, attraverso
un'attività di "comparazione tra l'interesse pubblico al
ripristino della legalità e gli interessi dei destinatari
del provvedimento e dei controinteressati"; il tutto,
tenendo nella debita considerazione anche la circostanza che
il provvedimento da annullare possa avere prodotto effetti
favorevoli, valutandone la rilevanza, e che sia trascorso un
apprezzabile lasso di tempo (fattore di stabilizzazione) dal
momento della sua emissione. Tali elementi, infatti,
integrano la nozione di "stabilità della situazione venutasi
a creare per effetto del provvedimento favorevole" e
rappresentano, in quanto tali, un limite all'esercizio del
potere di autoannullamento. Pertanto, nella comparazione tra
le esigenze sottese a un intempestivo e pregiudizievole
annullamento in autotutela dell'atto e quelle sottese alla
conservazione di quest'ultimo, l'Amministrazione, in forza
del citato art. 21-nonies, è tenuta a optare per la
soluzione che meglio contemperi la necessità del ripristino
della legittimità e la salvezza degli altri interessi
concorrenti. Inoltre, il vigente art. 21-nonies esclude che
si possa procedere all'annullamento d'ufficio in difetto di
tutti requisiti ivi individuati (in termini, TAR Veneto
Venezia, sez. II, 30.09.2010 n. 5242).
In fattispecie analoga al caso in esame, la Giurisprudenza (TAR Molise Campobasso, sez. I, 28.05.2012 n. 219) ha
affermato che in un provvedimento di annullamento in
autotutela di una concessione edilizia, non è sufficiente
affermare che l'interesse pubblico sotteso consista
essenzialmente nell'ovviare alla falsa rappresentazione
della realtà che il privato avrebbe, a suo tempo, fornito al
Comune sulle caratteristiche dell'edificio. Ciò in quanto il
presupposto per un legittimo esercizio del potere di
annullamento di ufficio di una sanatoria edilizia non può
ricondursi al mero ripristino della legalità, occorrendo dar
conto della sussistenza di un interesse pubblico attuale e
concreto alla rimozione del titolo edilizio. Occorre,
infine, una comparazione tra detto interesse pubblico e
l'entità del sacrificio imposto all'interesse privato, tanto
più quando è trascorso molto tempo e il titolare
dell'interesse privato non sia più il responsabile dei fatti
che hanno dato luogo all'avvio dell'autotutela, ovvero
quando, in ragione del tempo trascorso, l'interessato abbia
maturato un legittimo affidamento alla conservazione del
bene della vita (cfr.: Cons. Stato IV, 27.11.2010 n. 8291;
idem IV, 31.10.2006 n. 6465)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 07.03.2013 n. 777 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Se l'avvocato sbaglia niente compenso.
L'attività conta e deve garantire una chance di vittoria al
cliente. Lo ha stabilito la suprema
corte.
Avvocato pagato se garantisce almeno una chance di vittoria;
non ha diritto al compenso se ha svolto attività che si
rivelano a posteriori inutili per il cliente.
Con una sentenza rivoluzionaria e preoccupante per le toghe,
la cassazione stravolge l'impostazione tradizionale per cui
l'obbligazione professionale dell'avvocato non è
un'obbligazione di risultato: in altre parole l'avvocato ha
diritto ai suoi onorari anche se non può garantire un esito
favorevole all'attività svolta in favore del cliente. Ma la
Corte di Cassazione (sentenza 26.02.2013 n. 4781 della
III Sez. civile) comincia a ribaltare il filone
tradizionale e in un caso specifico non ha computato a
favore del legale il valore dell'attività compiuta,
considerato che la stessa si è dimostrata inutile agli
interessi del cliente.
La conseguenza che si profila è che il criterio dell'utilità
del cliente o almeno la chance di utilità per il cliente
possa diventare un criterio discriminante il diritto al
compenso, trasformando l'obbligazione dell'avvocato in una
obbligazione di risultato.
Ma vediamo di analizzare la pronuncia, che può destare un
certo allarme per i professionisti.
Nel caso specifico, i parenti di un uomo che ha perso la
vita in un sinistro stradale hanno deciso di far causa al
responsabile dell'incidente e alla sua assicurazione. Per
questo motivo, si sono rivolti ad un avvocato il quale, dopo
aver instaurato il processo, ha lasciato che questo venisse
dichiarato estinto, per non aver notificato l'atto di
citazione anche alla compagnia assicurativa, come pure
avrebbe dovuto fare. Ma non solo. L'avvocato si è pure
dimenticato di proporre appello contro la decisione che ha
dichiarato l'estinzione.
Ne è derivata una lite, questa volta iniziata dai clienti
contro gli eredi dell'ormai defunto avvocato per ottenere il
risarcimento dei danni patiti a seguito degli errori
commessi dal professionista.
Il tribunale civile ha dato ragione ai primi, condannando
gli eredi dell'avvocato a risarcire i danni per negligenza
professionale. Secondo il giudice, peraltro, gli errori
commessi dal legale erano stati tali da escludere in radice
ogni diritto al compenso per l'attività effettiva prestata,
posto che questa non aveva prodotto nessun effetto utile per
i clienti.
Nel giudizio di appello, pur essendo confermata la
responsabilità professionale del legale, la decisione è
stata riformata.
Secondo i giudici di secondo grado, infatti, l'unica colpa
dell'avvocato sarebbe stata quella di non aver impugnato la
decisione con la quale era stato dichiarato estinto il
processo. Al contrario, doveva essere salvata tutta
l'attività eseguita fino a quel momento: di conseguenza, si
è detto che al legale (o meglio, a suoi eredi) spettava
comunque il compenso per il mandato eseguito fino alla
pronuncia di estinzione del processo, da portare in
detrazione rispetto all'ammontare del risarcimento dovuto
per la mancata impugnazione.
L'ultima parola sulla vicenda è quella della corte di
cassazione, cui si sono rivolti i clienti del locale per
ottenere il ribaltamento della decisione della Corte
d'appello e la conferma di quella del tribunale.
Ai giudici romani è stata evidenziata l'erroneità della
sentenza contestata nella parte in cui in essa non si teneva
conto del fatto che i clienti del legale non avevano
ricevuto nessun vantaggio dall'attività prestata dal
secondo. L'aver dimenticato di notificare l'atto
introduttivo del processo alla compagnia assicuratrice,
infatti, aveva comportato la radicale inutilità del
processo, tanto che questo si era concluso con un nulla di
fatto. Da qui la richiesta di escludere l'obbligo di
corrispondere agli eredi del defunto avvocato qualsiasi
somma a titolo di compenso.
La Corte di cassazione, nel pronunciarsi sulla questione, ha
accolto il ricorso presentato dai clienti escludendo il
diritto al compenso.
Nel dettaglio, gli ermellini hanno affermato che la mancata
impugnazione della decisione con la quale era stata
dichiarata l'estinzione della causa assunta in
rappresentanza dei clienti, aveva reso, di fatto, inutile
l'intero mandato conferito al professionista. Peraltro, si è
precisato, l'errore del legale risultava tale sia se
l'obbligazione professionale fosse intesa come obbligazioni
di risultato -quello di ottenere il risarcimento del danno
per la perdita del familiare a seguito del sinistro stradale- sia come obbligazioni di mezzi, dovendosi rimproverare al
professionista anche l'assenza della dovuta diligenza
nell'adempiere il suo incarico (articolo ItaliaOggi Sette del
22.04.201). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il possesso del titolo di legittimazione alla
proposizione del ricorso per l'annullamento di una
concessione edilizia, che discende dalla c.d. vicinitas,
cioè da una situazione di stabile collegamento giuridico con
il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato,
esime da qualsiasi indagine al fine di accertare, in
concreto, se i lavori assentiti dall'atto impugnato
comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto
che propone l'impugnazione.
Va premesso che il Collegio ritiene che –contrariamente a quanto
sostenuto dal Comune nel proprio appello incidentale- non
possa assolutamente dubitarsi della legittimazione a
ricorrere in capo alla odierna parte appellante principale
in adesione al consolidato orientamento giurisprudenziale
secondo cui “il possesso del titolo di legittimazione alla
proposizione del ricorso per l'annullamento di una
concessione edilizia, che discende dalla c.d. vicinitas,
cioè da una situazione di stabile collegamento giuridico con
il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato,
esime da qualsiasi indagine al fine di accertare, in
concreto, se i lavori assentiti dall'atto impugnato
comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto
che propone l'impugnazione“ (Cons. Stato Sez. IV,
29-08-2012, n. 4643).
Il Comune appellante incidentale con
doglianza genericamente formulata e per di più articolata
soltanto in grado di appello dubita della legittimazione
degli appellanti principali in quanto non avrebbero provato
il proprio titolo di proprietà: sennonché trattasi di
eccezione proposta in grado di appello, contrastante con le
allegazioni di parte rese già in primo grado, e pertanto
prima che inammissibile infondata per difetto di prova
(l’appellante avrebbe dovuto fornire un principio di prova,
anche fondato su risultanze catastali, etc. dal quale
risultasse la non titolarità da parte degli appellanti
principali dell’immobile sito nel comune)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.02.2013 n. 922 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Al fine di determinare se una variante a un
p.r.g. abbia carattere generale o particolare, si deve fare
riferimento alle prescrizioni contenute nel provvedimento.
Qualora esse incidano su ampie zone territoriali e su una
molteplicità di soggetti esse hanno carattere generale e
devono essere impugnate dalla data di pubblicazione
dell'atto.
Nel caso in cui la variante urbanistica riguardi invece un
bene specifico, incidendo direttamente su un determinato
soggetto, essa ha carattere particolare e la p.a. ha
l'obbligo di notificare all'interessato il provvedimento,
dalla cui data decorre il termine di impugnazione dell'atto.
---------------
Il termine per impugnare la variante che non è destinata a
disciplinare l'intero territorio comunale, ma ha un
contenuto particolare che incide in concreto soltanto su
alcune aree, tra le quali quelle delle ricorrenti, non
decorre dalla pubblicazione della delibera regionale di
approvazione nel BUR e neppure dall'ultimo giorno della
pubblicazione all'Albo Pretorio dell'avviso di deposito
presso gli uffici comunali dei documenti relativi al piano
approvato, bensì dalla data in cui risulta che le ricorrenti
medesime hanno acquisito la piena conoscenza degli atti
impugnati.
---------------
La variante urbanistica può rispondere
ad esigenze diverse, sicché si distingue tra varianti
normative, che concernono soltanto le norme di attuazione
del piano regolatore generale, le varianti specifiche che
riguardano soltanto una parte del territorio comunale (e
rispondono quindi all'esigenza di fare fronte a sopravvenute
necessità urbanistiche parziali e localizzate) e varianti
generali che dettano una nuova disciplina generale
dell'assetto del territorio, resesi necessarie perché il
piano regolatore generale ha durata indeterminata e quindi
deve essere soggetto a revisioni periodiche.
Ne consegue che è ben possibile che la variante al piano
regolatore generale venga, in ragione di sopravvenuti
interessi pubblici, adottata in modifica delle norme di
attuazione dello stesso, tanto con portata specifica quanto
con portata generale.
Quanto alle connesse argomentazioni secondo cui la
impugnazione della variante sarebbe stata tempestiva avuto
riguardo alla “natura” (particolare, e non generale) della
stessa, rammenta il Collegio che costituisce approdo
pacifico, in giurisprudenza, quello per il quale “al fine di
determinare se una variante a un p.r.g. abbia carattere
generale o particolare, si deve fare riferimento alle
prescrizioni contenute nel provvedimento. Qualora esse
incidano su ampie zone territoriali e su una molteplicità di
soggetti esse hanno carattere generale e devono essere
impugnate dalla data di pubblicazione dell'atto. Nel caso in
cui la variante urbanistica riguardi invece un bene
specifico, incidendo direttamente su un determinato
soggetto, essa ha carattere particolare e la p.a. ha
l'obbligo di notificare all'interessato il provvedimento,
dalla cui data decorre il termine di impugnazione
dell'atto” (Cons. Stato Sez. VI, 15.12.2009, n. 7963).
L’appellante equivoca sul significato di tale principio e
ritiene che “soggetto interessato” sia qualunque
proprietario di immobili insistenti sull’area normata pur se
non direttamente contemplato dalla variante medesima. Il
Collegio ben conosce il surrichiamato orientamento
giurisprudenziale sul quale l’appellante principale fonda il
proprio opinamento, teso a dimostrare che, se anche i vizi
attingenti la variante gravata riposassero nella
illegittimità della medesima (e non già nella dedotta
nullità) ugualmente il gravame di primo grado diretto ad
attingere quest’ultima sarebbe stato tempestivo.
Esso costituisce jus receptum nella giurisprudenza di
merito, essendosi a più riprese affermato che “il termine
per impugnare la variante che non è destinata a disciplinare
l'intero territorio comunale, ma ha un contenuto particolare
che incide in concreto soltanto su alcune aree, tra le quali
quelle delle ricorrenti, non decorre dalla pubblicazione
della delibera regionale di approvazione nel BUR e neppure
dall'ultimo giorno della pubblicazione all'Albo Pretorio
dell'avviso di deposito presso gli uffici comunali dei
documenti relativi al piano approvato, bensì dalla data in
cui risulta che le ricorrenti medesime hanno acquisito la
piena conoscenza degli atti impugnati" (TAR Sicilia,
Catania, 28.01.2002, n. 127; TAR Calabria,
Catanzaro, 19.02.2004, n. 426; TAR Piemonte, sez.
I, 16.03.2004, n. 417; TAR Piemonte Torino Sez. I,
19.12.2005, n. 4073).
Sennonché, da un canto, detto orientamento giurisprudenziale
indicato non è traslabile alla posizione dell’appellante in
quanto esso (Cons. Stato Sez. VI, Sent., 15.12.2009, n.
7963)) concerne i soggetti “direttamente interessati” dalla
variante in quanto destinatari di un vincolo preordinato
all’esproprio e non anche la indifferenziata collettività
che dalla variante assuma ricevere un danno.
Sotto altro profilo, nel caso di specie l’appellante
principale ha avversato la variante nella parte in cui essa
ha modificato l’art. 77 delle NTA. Essa, pertanto, incideva
su una norma di piano afferente in via di principio
all’intero territorio comunale e non può pertanto definirsi
“particolare”, trattandosi semmai di una variante generale a
contenuto normativo (ex multis: “la variante urbanistica
può rispondere ad esigenze diverse, sicché si distingue tra
varianti normative, che concernono soltanto le norme di
attuazione del piano regolatore generale, le varianti
specifiche che riguardano soltanto una parte del territorio
comunale (e rispondono quindi all'esigenza di fare fronte a
sopravvenute necessità urbanistiche parziali e localizzate)
e varianti generali che dettano una nuova disciplina
generale dell'assetto del territorio, resesi necessarie
perché il piano regolatore generale ha durata indeterminata
e quindi deve essere soggetto a revisioni periodiche. Ne
consegue che è ben possibile che la variante al piano
regolatore generale venga, in ragione di sopravvenuti
interessi pubblici, adottata in modifica delle norme di
attuazione dello stesso, tanto con portata specifica quanto
con portata generale” TAR Sicilia Palermo Sez. I,
27.01.2012, n. 200)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.02.2013 n. 922 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La tipica sanzione prevista per l'invalidità del
provvedimento amministrativo è l'annullabilità, di
applicazione giudiziale in presenza dei tre tradizionali
vizi (violazione di legge, incompetenza e eccesso di
potere), ora codificati sia dall'art. 21-octies, comma 1,
della l. n. 241/1990, sia dall'art. 29 del Codice del
processo amministrativo (n. 104/2010); la categoria della
nullità assume, invece, un rilievo residuale, limitato alle
ipotesi di nullità testuale (espressamente comminata da una
norma di legge) e ad altri casi di gravi difetti del
provvedimento, tassativamente indicati dall'art. 21-septies
della legge n. 241/1990. Le cause di nullità del
provvedimento amministrativo devono, quindi, oggi intendersi
quale numero chiuso.
---------------
Nel diritto amministrativo la nullità costituisce una forma
speciale di invalidità, che si ha nei soli casi (oggi meglio
definiti dal legislatore dopo l'entrata in vigore dell'art.
21-septies della L n. 241/1990) in cui sia specificamente
sancita dalla legge, mentre l'annullabilità del
provvedimento costituisce la regola generale di invalidità
del provvedimento, a differenza di quanto avviene nel
diritto civile dove la regola generale è quella della
nullità.
La sanzione della nullità del provvedimento è stata fino a
poco tempo fa prevista solo con riferimento ad ipotesi
peculiari, quali ad esempio l'assunzione nel pubblico
impiego senza il filtro preventivo della procedura
concorsuale, mentre oggi l'art. 21-septies L. 241/1990
prevede che il provvedimento amministrativo è nullo quando:
a) manchi degli elementi essenziali, b) sia viziato da
difetto assoluto di attribuzione, c) sia stato adottato in
violazione o elusione del giudicato ed infine d) in tutti
gli altri casi espressamente previsti dalla legge. La cause
di nullità del provvedimento amministrativo devono quindi
oggi intendersi quale numero chiuso.
Si rammenta in proposito
che per pacifica, quanto consolidata giurisprudenza
amministrativa “la tipica sanzione prevista per l'invalidità
del provvedimento amministrativo è l'annullabilità, di
applicazione giudiziale in presenza dei tre tradizionali
vizi (violazione di legge, incompetenza e eccesso di
potere), ora codificati sia dall'art. 21-octies, comma 1,
della l. n. 241/1990, sia dall'art. 29 del Codice del
processo amministrativo (n. 104/2010); la categoria della
nullità assume, invece, un rilievo residuale, limitato alle
ipotesi di nullità testuale (espressamente comminata da una
norma di legge) e ad altri casi di gravi difetti del
provvedimento, tassativamente indicati dall'art. 21-septies
della legge n. 241/1990. Le cause di nullità del
provvedimento amministrativo devono, quindi, oggi intendersi
quale numero chiuso” (Cons. Stato Sez. V, 02.11.2011, n.
5843).
Come osservato da avveduta giurisprudenza già in
epoca immediatamente successiva alla introduzione nel
sistema della categoria generale del “provvedimento
amministrativo nullo”, infatti, “nel diritto amministrativo
la nullità costituisce una forma speciale di invalidità, che
si ha nei soli casi (oggi meglio definiti dal legislatore
dopo l'entrata in vigore dell'art. 21-septies della L n.
241/1990) in cui sia specificamente sancita dalla legge,
mentre l'annullabilità del provvedimento costituisce la
regola generale di invalidità del provvedimento, a
differenza di quanto avviene nel diritto civile dove la
regola generale è quella della nullità.
La sanzione della
nullità del provvedimento è stata fino a poco tempo fa
prevista solo con riferimento ad ipotesi peculiari, quali ad
esempio l'assunzione nel pubblico impiego senza il filtro
preventivo della procedura concorsuale, mentre oggi l'art.
21-septies L. 241/1990 prevede che il provvedimento
amministrativo è nullo quando: a) manchi degli elementi
essenziali, b) sia viziato da difetto assoluto di
attribuzione, c) sia stato adottato in violazione o elusione
del giudicato ed infine d) in tutti gli altri casi
espressamente previsti dalla legge. La cause di nullità del
provvedimento amministrativo devono quindi oggi intendersi
quale numero chiuso.
Poiché, nel caso di specie, il
provvedimento di revoca dei contributi è stato emesso
dall'Amministrazione competente ad adottarlo deve essere
senza alcun dubbio escluso che il provvedimento possa essere
considerato nullo, non essendo stato adottato da
un'Amministrazione totalmente priva del potere di emanarlo”
(Cons. Stato Sez. VI, sent. n. 891 del 28-02-2006).
E’ stato di recente affermato, peraltro, armonicamente con
tali principi che (persino) ”la violazione del diritto
comunitario implica solo un vizio di legittimità, con
conseguente annullabilità dell'atto amministrativo. L'art.
21-septies l. 07.08.1990, n. 241, introdotto dalla l. 11.02.2005, n. 15, ha posto un numero chiuso di ipotesi
di nullità del provvedimento amministrativo e non vi rientra
la violazione del diritto comunitario” (Cons. Stato Sez. VI,
15.02.2012, n. 750) dal che, in punto di giurisdizione, ed antecedemente alla entrata in vigore del codice del processo
amministrativo che all’art. 30 ha positivizzato il precetto
si è fatta discendere la conseguenza per cui “l'art.
21-septies l. n. 241 del 1990, nell'individuare come causa
di nullità il "difetto assoluto di attribuzione", evoca la
cosiddetta carenza di potere in astratto, vale a dire
l'ipotesi in cui l'Amministrazione assume di esercitare un
potere che in realtà nessuna norma le attribuisce. Nel caso
in cui, però, l'Amministrazione è resa dalla legge effettiva
titolare del potere, ma questo viene esercitato in assenza
dei suoi concreti presupposti, non si è in presenza di un
difetto assoluto di attribuzione. In tal caso, dove è
l'esercizio del potere ad essere viziato, ma non si pone
questione di sua esistenza, il provvedimento sarà
annullabile, non già nullo, quindi in grado di "degradare"
la posizione del privato, dal che consegue la sussistenza
della giurisdizione amministrativa" (Cons. Stato Sez. VI,
27.01.2012, n. 372) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.02.2013 n. 922 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La decorrenza del termine per ricorrere in sede
giurisdizionale avverso atti abilitativi dell'edificazione
si ha, per i soggetti diversi da quelli cui l'atto è
rilasciato (ovvero che in esso sono comunque indicati) dalla
data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile
la lesione del bene della vita protetto, la qual cosa si
verifica quando sia percepibile dal controinteressato la
concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva
sulla propria posizione giuridica.
In materia di impugnazione del permesso di costruire, è
sufficiente la cd. "vicinitas", quale elemento che distingue
la posizione giuridica del ricorrente da quella della
generalità dei consociati, di talché è corretto riconoscere
a chi si trovi in tale situazione un interesse tutelato a
ché il provvedimento dell'Amministrazione sia
procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme
vigenti in materia
Consolidata e
condivisibile giurisprudenza ha con continuità affermato che
“La decorrenza del termine per ricorrere in sede
giurisdizionale avverso atti abilitativi dell'edificazione
si ha, per i soggetti diversi da quelli cui l'atto è
rilasciato (ovvero che in esso sono comunque indicati) dalla
data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile
la lesione del bene della vita protetto, la qual cosa si
verifica quando sia percepibile dal controinteressato la
concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva
sulla propria posizione giuridica. In materia di impugnazione
del permesso di costruire, è sufficiente la cd. "vicinitas",
quale elemento che distingue la posizione giuridica del
ricorrente da quella della generalità dei consociati, di
talché è corretto riconoscere a chi si trovi in tale
situazione un interesse tutelato a ché il provvedimento
dell'Amministrazione sia procedimentalmente e
sostanzialmente ossequioso delle norme vigenti in materia"
(Consiglio Stato, sez. IV, 05.01.2011, n. 18)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.02.2013 n. 922 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Transazioni, parcelle variabili.
L'indeterminatezza dovuta a due posizioni contrastanti.
La Cassazione spinge verso il basso gli onorari; il dm
parametri invece li eleva.
Pendolo dei compensi degli avvocati a seguito di accordo
bonario. Si abbassa il valore dello scaglione che serve per
determinare il compenso, anche se l'esito conciliativo può
portare a un aumento.
L'altalena degli onorari è sospinta verso il basso da una
sentenza della Corte di Cassazione (sentenza 14.02.2013 n. 3660) e contemporaneamente verso l'alto dal decreto
sui parametri per la liquidazione giudiziale dei compensi
(dm 140/2012).
Secondo la sentenza della Cassazione, in una lite conclusasi
con transazione, non c'è un vincitore e non c'è un perdente:
ci sono due parti sullo stesso piano che si sono fatte
reciproche concessioni. Conseguentemente nella
determinazione degli onorari dell'avvocato la determinazione
del valore della causa va compiuta conteggiando alla somma
effettivamente corrisposta, e non a quella originariamente
richiesta.
Le somme indicate nelle citazioni e nei ricorsi sono
superate dalle successive transazioni e non possono
costituire il parametro di riferimento circa la
determinazione del valore del giudizio. Per la cassazione si
deve ritenere più razionale e congruo tenere conto della
diversa somma accettata in sede di transazione.
Stessa regola è stata dettata dalla Cassazione in un caso
analogo: in tema di liquidazione degli onorari professionali
a favore dell'avvocato, il principio generale secondo cui il
valore della causa si determina in base alle norme del
codice di procedura civile avendo riguardo all'oggetto della
domanda considerato al momento iniziale della lite, trova un
limite alla sua applicabilità nei casi in cui, ai momento
dell'instaurazione del giudizio, non sia possibile indicare
la quantificazione; ad esempio nelle controversie per
risarcimento danni, per le quali, il più delle volte, la
domanda di condanna è formulata con riserva di
quantificazione in corso di giudizio.
Se si deve prendere a riferimento il valore della
transazione finale, e non quello più alto della domanda
iniziale, è evidente che la liquidazione giudiziale dei
compensi subisce una decurtazione.
Quindi il livello degli onorari va verso il basso.
Quasi a compensare, va, però, sottolineato che, ai sensi del
decreto ministeriale 140/2012, «quando l'affare si conclude
con una conciliazione, il compenso è aumentato fino al 40%
rispetto a quello altrimenti liquidabile». Quindi seppure
nel scaglione relativo a un valore ridotto, il compenso può
essere liquidato dal giudice computando l'incremento fino al
40%.
Il valore percentuale è un valore massimo e quindi potrebbe
anche essere contenuto nei minimi termini.
Naturalmente le regole che si stanno illustrando riguardano
i casi in cui l'onorario non sia stato predeterminato nel
contratto tra avvocato e cliente.
La regola, nei rapporti reciproci, infatti è quella del
libero mercato. A questo proposito è meglio che il legale e
il proprio assistito prevedano nel contratto di incarico
professionale una apposita clausola.
Seguendo le indicazioni del Consiglio nazionale forense, si
può pensare a una clausola come la seguente: «In caso di
accordo transattivo, oltre al compenso per l'attività
effettivamente svolta, si concorda una somma pari a euro
...».
Anche per questo aspetto, l'abbandono del sistema tariffario
affida al mercato e, quindi, alle parti di negoziare il
compenso.
D'altro canto c'è una ragione che incentiva il
professionista a stendere il contratto vincolante per il
cliente: il contratto stipulato e accettato e, quindi, la
clausola sui compensi in caso di transazione è vincolante
anche per il magistrato.
L'articolo 1 del decreto 140/2012 prevede, infatti, che
l'organo giurisdizionale che deve liquidare il compenso dei
professionisti applica i parametri, ma solo in difetto di
accordo tra le parti in ordine allo stesso compenso. Questo
significa che il giudice deve valutare innanzitutto se sia
stato stipulato un contratto valido tra le parti; in questo
caso deve applicare il contratto e non può passare alla
applicazione dei parametri.
L'interesse del professionista a bloccare la discrezionalità
giudiziale nella determinazione del compenso è molto alto.
Si noti, infatti, che i parametri stabiliti dal decreto
140/2012 innanzitutto non sono vincolanti nemmeno per il
giudice, che può discostarsene nei casi concreti; in secondo
luogo i parametri sono fissati con una forbice molto ampia
tra il valore più basso e il valore del maggiore incremento.
Le cose non cambiano con la legge di riforma della
professione forense (legge 247/2012) che stabilisce la
regola per cui il compenso spettante al professionista è
pattuito di regola per iscritto all'atto del conferimento
dell'incarico professionale e che la pattuizione dei
compensi è libera.
Solo nel caso in cui il compenso non sia stato determinato
dalle parti in forma scritta si applicheranno i parametri
che dovranno essere fissati nel decreto emanato dal ministro
della giustizia, su proposta del Consiglio nazionale
forense, ogni due anni. Si ricorda, infine, un'altra regola
prevista dalla legge di riforma forense in caso di accordo
tra i litiganti: quando una controversia oggetto di
procedimento giudiziale o arbitrale viene definita mediante
accordi presi in qualsiasi forma, le parti sono solidalmente
tenute al pagamento dei compensi e dei rimborsi delle spese
a tutti gli avvocati costituiti che hanno prestato la loro
attività professionale negli ultimi tre anni e che risultino
ancora creditori, salvo espressa rinuncia al beneficio della
solidarietà (articolo ItaliaOggi Sette
del 22.04.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 87, comma 4, del D.lgs. n. 259 del 2003, il
deposito del parere preventivo favorevole dell’ARPA non è
prescritto per la formazione dell’autorizzazione ovvero per
l’inizio dei lavori, ma solo per l’attivazione
dell’impianto.
---------------
E' coerente con i principi generali dell’ordinamento
nazionale e comunitario ritenere che, per effetto della
disciplina sopravvenuta di cui all’art. 87 d.lgs. n.
259/2003, sia stato implicitamente abrogato, per
incompatibilità, l’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 cit., nella
parte in cui qualifica gli impianti di telecomunicazioni
come “nuova costruzione”, richiedenti, ai sensi del
successivo art. 10 DPR n. 380/2001, il previo rilascio del
permesso di costruire.
Difatti, l’espressa assimilazione normativa fra le stazioni
radio base e le opere di urbanizzazione primaria, statuita
dall’art. 86, comma 3, del D.lgs. n. 259/2003 rende
l’installazione di tali manufatti compatibile con qualunque
destinazione di zona e assoggettata alle sole prescrizioni
di cui all’art. 87 del D.lgs. n. 259/2003 e non anche alle
previsioni generali di cui all’art. 3 del D.P.R. n.
380/2001.
Il provvedimento di diniego per
l’installazione dell’impianto contiene valutazioni della
conformazione della zona e della destinazione di tipo
squisitamente urbanistico, articolate nei seguenti due
ordini di motivi:
- l’area ove è prevista l’installazione
del manufatto è destinata a “verde privato e/o mitigazione
ambientale”, classificata dall’art. 75 delle n.t.a. al
p.g.t. come inedifìcabile;
- la suddetta area, inoltre, è
ubicata nelle immediate vicinanze di un oratorio
parrocchiale e tale eventualità è espressamente indicata dal P.G.T. come circostanza ostativa.
In disparte restando le censure con cui la ricorrente
lamenta la mancanza di comunicazione d’avvio del
procedimento, il difetto di motivazione e la genericità
dell’istruttoria, ovvero il vizio di eccesso di potere per
disparità di trattamento, è dirimente, ai fini
dell’accoglimento della domanda di annullamento, constatare
come la disciplina urbanistica impressa al territorio non si
opponga affatto alla installazione della stazione radio base
sul sito individuato dalla ricorrente. Sono necessari alcuni
spunti ricostruttivi.
Il codice delle comunicazioni elettroniche, approvato
con d.lgs. 01.8.2003, n. 259, con riferimento alle
infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, prevede
la confluenza in un solo procedimento di tutte le tematiche
rilevanti, con finale rilascio (in forma espressa o tacita)
di un titolo abilitativo, qualificato come autorizzazione.
La fornitura di reti e servizi di comunicazione elettronica
è considerata dal legislatore di preminente interesse
generale, oltre che libera (artt. 3 e 86 del D.lgs. n.
259/2003).
L’art. 86, al comma 3, recita che “Le
infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, di cui
agli articoli 87 e 88, sono assimilate ad ogni effetto alle
opere di urbanizzazione primaria di cui all'articolo 16,
comma 7, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, pur restando di proprietà dei
rispettivi operatori, e ad esse si applica la normativa
vigente in materia”. L’art. 90 dispone che gli impianti in
questione e le opere accessorie occorrenti per la loro
funzionalità hanno “carattere di pubblica utilità”, con
possibilità, quindi, di essere ubicati in qualsiasi parte
del territorio comunale, essendo compatibili con tutte le
destinazioni urbanistiche (residenziale, verde, agricola).
Occorre, tuttavia sottolineare che, nonostante il
riconoscimento del carattere di opere di pubblica utilità e
malgrado l’assimilazione ad ogni effetto alle opere di
urbanizzazione primaria, le stazioni radio base di un
impianto di telefonia mobile non possono essere localizzate
indiscriminatamente in ogni sito del territorio comunale
perché, al cospetto di rilevanti interessi di natura
pubblica, come nel caso della tutela dei beni ambientali e
culturali, la realizzazione dell’opera di pubblica utilità
può risultare cedevole. Non a caso, il successivo comma 4
dello stesso art. 86 si affretta a stabilire che “Restano
ferme le disposizioni a tutela dei beni ambientali e
culturali contenute nel decreto legislativo 29.10.1999,
n. 490, nonché le disposizioni a tutela delle servitù
militari di cui al titolo VI, del libro II, del codice
dell’ordinamento militare”.
Sotto altro profilo, sempre ai sensi dell’art. 86, del
D.lgs. n. 259 del 2003, l’installazione di infrastrutture
viene autorizzata dagli enti locali, previo accertamento, da
parte dell’organismo competente ad effettuare i controlli,
di cui all’art. 14 della L. n. 22.02.2001, n. 36,
della compatibilità del progetto con i limiti di
esposizione, i valori di attenzione e gli obiettivi di
qualità, stabiliti uniformemente a livello nazionale in
relazione al disposto della l. 22.02.2001 n. 36 e
relativi provvedimenti di attuazione.
Sul punto, occorre
porre in evidenza che l’art. 8 della legge 22.02.2001,
n. 36 (il quale nel disciplinare il riparto di competenze
tra Regioni, province e comuni in materia stabilisce che “i
Comuni possono adottare un regolamento per assicurare il
corretto insediamento urbanistico e territoriale degli
impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione ai
campi elettromagnetici”), è stato interpretato nel senso che
l’ente locale può senz'altro disciplinare, con proprio
regolamento, l’individuazione di siti del territorio
comunale interdetti all’installazione di impianti del genere
di cui si discute, ma ciò può avvenire senza che la facoltà
di regolamentazione si traduca in un divieto generalizzato
di installazione in identificate zone urbanistiche (la
stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 331/2003 ha,
infatti, chiarito che nell’esercizio dei suoi poteri, il
Comune non può rendere di fatto impossibile la realizzazione
di una rete completa di infrastrutture per le
telecomunicazioni, trasformando i criteri di individuazione,
che pure il comune può fissare, in limitazioni alla
localizzazione con prescrizioni aventi natura diversa da
quella consentita dalla legge quadro n. 36 del 2001). Del
pari, i comuni non possono introdurre limitazioni alla
localizzazione che, in quanto funzionali non al governo del
territorio, ma alla tutela della salute dai rischi
dell’elettromagnetismo, invaderebbero la competenza che
l’art. 4 della legge n. 36/2001 riserva allo Stato.
Sul versante procedimentale, ai sensi dell’art. 87, comma 4,
del D.lgs. n. 259 del 2003, il deposito del parere
preventivo favorevole dell’ARPA non è prescritto per la
formazione dell’autorizzazione ovvero per l’inizio dei
lavori, ma solo per l’attivazione dell’impianto (cfr.
Consiglio Stato, sez. VI, 24.09.2010, n. 7128;
precedentemente TAR Sicilia Palermo, sez. II, 09.01.2008, n. 9).
Tanto premesso e passando all’esame del primo “corno”
della motivazione di diniego, rileva il Collegio come la
stessa disciplina urbanistica, invocata dal comune
resistente, contempli per il sito in questione un divieto di
costruzioni per uso primario solo per il caso di opere
aventi carattere edificatorio (cfr. l’art. 75 NTA, rubricato
“Ambito a verde privato e/o di mitigazione ambientale”;
cfr., altresì, l’art. 4.7. dello stesso PGT, il quale
prevede espressamente la possibilità di installare gli
impianti tecnologici, tra cui quelli telefonici, in
qualsiasi zona urbanistica).
Tale assetto urbanistico, del
resto, è assolutamente coerente sia con l’assimilazione ad
ogni effetto (ex art. 86, comma 3, cit.) delle
infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione alle opere
di urbanizzazione primaria, la quale (come si è detto sopra)
postula la compatibilità delle stesse con qualsiasi
destinazione urbanistica; sia con la legislazione regionale
che, per gli impianti radio base per la telefonia mobile di
potenza totale ai connettori di antenna non superiore a 300
W, stabilisce che essi non richiedono una specifica
regolamentazione urbanistica (art. 4, comma 7, della L.r.
Lombardia n. 11 del 2001).
Neppure può sostenersi che l’impossibilità di
assentire la tipologia di intervento in parola deriverebbe
dall’espressa definizione legislativa di esso in termini di
nuova edificazione. Effettivamente, il testo unico
dell’edilizia (D.lgs. n. 378/2001), all’art. 3, comma 1,
lett. e. 3) ed e. 4) prescrive, per “l’installazione di
torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di
ripetitori per i servizi di telecomunicazione”,
espressamente catalogata come intervento di nuova
costruzione, il permesso di costruire.
Tuttavia, al
riguardo, è sufficiente richiamare la condivisa
giurisprudenza, secondo cui è coerente con i principi
generali dell’ordinamento nazionale e comunitario ritenere
che, per effetto della disciplina sopravvenuta di cui
all’art. 87 d.lgs. n. 259/2003, sia stato implicitamente
abrogato, per incompatibilità, l’art. 3 del d.P.R. n.
380/2001 cit., nella parte in cui qualifica gli impianti di
telecomunicazioni come “nuova costruzione”, richiedenti, ai
sensi del successivo art. 10 DPR n. 380/2001, il previo
rilascio del permesso di costruire (cfr. Cons. Stato. sez. VI, n. 5044 del 17.10.2008; Cons. Stato sez. VI n. 3534 del
15.6.2006; TAR Napoli sez. VII n. 2702 del 22.3.2007; TAR
Lecce sez. II n. 4279 del 22.8.2006). Difatti, l’espressa
assimilazione normativa fra le stazioni radio base e le
opere di urbanizzazione primaria, statuita dall’art. 86,
comma 3, del D.lgs. n. 259/2003 rende l’installazione di
tali manufatti compatibile con qualunque destinazione di
zona e assoggettata alle sole prescrizioni di cui all’art.
87 del D.lgs. n. 259/2003 e non anche alle previsioni
generali di cui all’art. 3 del D.P.R. n. 380/2001
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 14.02.2013 n. 398 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il
proprietario dell'area rimborsa la bonifica.
Spetta al proprietario dell'area, sebbene non responsabile
dell'inquinamento, rimborsare le spese per la bonifica dei
siti contaminati effettuata dalla p.a.
Lo dice il TRIBUNALE civile di Ferrara con la
sentenza 17.01.2013 n. 65.
Un'azienda ferrarese aveva convenuto in giudizio Arpa e
Equitalia Emilia Nord per proporre opposizione verso la
cartella esattoriale con la quale si ingiungeva il pagamento
di euro 39.659,62 per i servizi ambientali svolti da Arpa
nell'area di proprietà della ditta. Aveva affermato che in
seguito all'acquisto di questa area -tra i siti oggetto di
bonifica- aveva siglato un accordo finalizzato al
proseguimento delle indagini intraprese da Arpa nel sito in
oggetto, mediante il campionamento delle acque sotterranee e
del suolo.
All'esito delle verifiche Arpa aveva inviato alla ricorrente
fatture con le quali le aveva addebitato i costi delle
analisi effettuate nell'area, finalizzate alla bonifica
della stessa. La società aveva contestato le fatture
ritenendo di non essere responsabile dell'inquinamento del
sito, né a titolo di dolo, né a titolo di colpa. Aveva, poi,
aggiunto che l'art. 253, c. 3, dlgs 152/06 in merito alla
ripartizione degli oneri per la bonifica dei siti
contaminati, «stabilisce che la ripetizione delle spese,
nei confronti del proprietario del sito incolpevole
dell'inquinamento, può essere esercitata solo a seguito di
un procedimento motivato dell'autorità competente che
giustifichi l'impossibilità di accertare la identità del
soggetto responsabile ovvero che giustifichi l'impossibilità
di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo
soggetto».
Il giudice rigetta la domanda. Il principio «chi inquina
paga» può, infatti, essere invocato dal proprietario di un
sito inquinato esclusivamente a sostegno dell'azione di
rivalsa nei confronti dell'effettivo responsabile
dell'inquinamento, ma non lo esonera dall'obbligazione
pecuniaria nei confronti della p.a. conseguente alle opere
di bonifica, in base al principio generale fissato dall'art.
2051 cc.
Per lo stesso principio, il giudice ha ritenuto legittima la
richiesta di rimborso per le spese delle analisi di
laboratorio necessarie per la caratterizzazione del sito,
effettuata dall'Arpa, nei confronti del proprietario di un
sito contaminato non responsabile, ma consapevole
dell'inquinamento al momento dell'acquisto del terreno
(articolo ItaliaOggi del 25.04.2013). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Parcheggi, in vendita ciò che resta. La corte di
cassazione sulle aree del fabbricato.
Una volta raggiunta la minima percentuale di
spazio-parcheggio, le altre aree del fabbricato, non
costituendo pertinenza, possono essere liberamente vendute,
locate o formare oggetto di altri negozi giuridici.
Lo ha
stabilito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la
sentenza 16.01.2013 n. 943.
Più
propriamente, l'esimio Consesso, richiamandosi a una sua
precedente decisione adottata a Sezioni Unite, ha –definitivamente– chiarito che, in virtù dell'art. 18,
ex lege 06.08.1967, n. 765 in materia di destinazione d'uso
dei parcheggi condominiali, i «posti auto» realizzati in
eccedenza rispetto alla superficie minima normativamente
richiesta non sono soggetti a vincolo pertinenziale a favore
delle unità immobiliari del fabbricato.
Una decisione,
questa, peraltro già consacrata in due precedenti
«interventi», i quali –a loro volta e, nello specifico,–
hanno, chiaramente, concluso per la non estensibilità delle
aree eccedenti la percentuale contemplata dal succitato art.
18, ragion per cui la cessione in proprietà delle aree
stesse in favore degli occupanti delle unità abitative di
cui si compone il plesso condominiale è da ritenersi
esclusa. Del resto, anche la dottrina è unanime
nell'inquadrare i parcheggi che eccedono lo standard
vincolistico tra quelli a cd. «circolazione libera».
È,
quindi, pacifico che l'originario proprietario-costruttore
del fabbricato potrà, legittimamente, riservarsi o cedere a
terzi la proprietà dei parcheggi de quibus,
ovviamente nel rispetto del vincolo di destinazione nascente
da atto d'obbligo
(articolo ItaliaOggi del 25.04.2013). |
AGGIORNAMENTO AL 22.04.2013 |
ã |
L'INTERROGATIVO DELLA SETTIMANA: per demolire un fabbricato
occorre un titolo edilizio abilitativo dell'U.T.C.
?? |
Può sembrare, di primo acchito, una domanda banale
ma, a nostro parere, così non è ... e vediamo
il perché.
On-line è reperibile un unico pronunciamento
giurisprudenziale sull'argomento ovverosia la
sentenza 16.06.2011 n. 24423 della Corte di
Cassazione, Sez. III penale, la quale -in maniera
non condivisibile, anche perché non entra nel merito
della questione e, quindi, nulla chiarisce- ha così statuito: "Va rilevato
che può ritenersi indubbiamente controversa, allo
stato, in assenza di un più puntuale accertamento,
la natura dei titoli abilitativi necessari per
l'esecuzione degli interventi di cui alla
contestazione, dovendosi, però, precisare che la
valutazione sul punto appartiene al giudice
ordinario.
E' stato, infatti, affermato da questa Corte che
la semplice demolizione di un manufatto non
integra il reato di cui al D.P.R. 06.06.2001, n.
380, art. 44, comma 1, lett. b), in quanto per tale
tipo di intervento è sufficiente la denuncia di
inizio attività, la cui mancanza costituisce
illecito amministrativo (sez. 3, 4.10.2007
n. 4098 del 2008, Pignata, RV 238522)".
E sulla sentenza de qua si può anche trovare,
sempre on-line, un (solo) commento, assai persuasivo
nella tesi ivi prospettata, che è questo:
M. Grisanti,
Occorre sempre il permesso di costruire per la
demolizione di un edificio esistente (nota critica
alla sentenza n. 24423/2011 della III Sez. penale
della Corte di Cassazione) (10.01.2012 -
link a www.lexambiente.it).
Il problema, in estrema sintesi, sta in questi termini:
► ad
oggi, l'intervento edilizio
di (sola) demolizione non è direttamente qualificato
(giuridicamente) e riscontrabile né nel D.P.R. n.
380/2001 né nella L.R. n. 12/2005;
► se non è possibile qualificare l'intervento
edilizio de quo, siccome previsto dalla legge
statale e regionale [lettere a), b) c), d), e), f)
rispettivamente dell'art. 3, comma 1, DPR n.
380/2001 e dell'art. 27, comma 1, L.R. n. 12/2005],
come si fa a stabilire se per intraprendere la
demolizione in questione preliminarmente necessiti
-o meno- presentare la comunicazione ex art. 6 DPR
380/2001
oppure
la richiesta di permesso di costruire
oppure
la D.I.A. (alternativa in tutto al permesso di
costruire, qui in Lombardia)??
Oppure,
paradossalmente,
non occorre alcun titolo edilizio abilitativo??
► ma demolire un fabbricato senza alcun titolo
edilizio abilitativo ci sembra un azzardo ... e,
allora, vuoi vedere che ha ragione il commentatore
M. Grisanti e che siamo obbligati a classificare
l'intervento edilizio procedendo per esclusione tra quelli
codificati dal legislatore e, quindi, si perviene
alla conclusione che la demolizione (fine a sé
stessa) è da classificare quale "intervento di
nuova costruzione" ex art. 3, comma 1, lett. e),
del DPR n. 380/2001??
Peccato, però, che non si trovi la corrispondenza in
una delle relative n. 7 sub-lettere che paiono
essere esaustive ...
► e c'è dell'altro: in Lombardia -relativamente ai
500 e più comuni senza il P.G.T. approvato entro lo
scorso 31.12.2012- dal 1° gennaio di quest'anno si
possono autorizzare esclusivamente gli interventi
edilizi di cui all'art. 25, comma 4-bis, della L.R.
12/2005 il cui comma integrale così recita: "1-quater.
Nei comuni che entro il 31.12.2012 non hanno
approvato il PGT, dal 1° gennaio 2013 e fino
all’approvazione del PGT, fermo restando quanto
disposto dall’articolo 13, comma 12 e dall’articolo
26, comma 3-quater, sono ammessi
unicamente i seguenti interventi:
a) nelle zone omogenee A, B, C e D individuate dal
previgente PRG, interventi sugli
edifici esistenti nelle sole tipologie di cui
all’articolo 27, comma 1, lett. a), b) e c);
b) nelle zone omogenee E e F individuate dal
previgente PRG, gli interventi che erano consentiti
dal medesimo PRG o da altro strumento urbanistico
comunque denominato;
c) gli interventi in esecuzione di piani attuativi
approvati entro la data di entrata in vigore della
legge recante (Interventi normativi per l’attuazione
della programmazione regionale e di modifica e
integrazione di disposizioni legislative - Collegato
ordinamentale 2013), la cui convenzione, stipulata
entro la medesima data, è in corso di validità.".
Orbene, se in forza del disposto di cui alla
suddetta lett. a) è possibile assentire solamente
gli interventi di manutenzione
ordinaria,
gli interventi di manutenzione
straordinaria
e degli interventi di restauro e
di risanamento conservativo
e se non si è in grado di qualificare l'intervento
di demolizione, risulta palese la difficoltà nel
rispondere compiutamente -a' rigorosi termini di
legge- all'interrogativo che ci siamo posti
e cioè:
"Per
demolire un fabbricato occorre un titolo edilizio
abilitativo dell'U.T.C. ??". |
QUINDI ?? |
Quindi, se c'è qualcuno (soprattutto avvocati, che
sappiamo essere lettori numerosi di questo portale) che ha avuto problematiche del genere
trattate dal TAR e/o dal Consiglio di Stato e/o dal
giudice ordinario -laddove è
stata fatta chiarezza sulla questione qui dibattuta-
gli
chiediamo, cortesemente, di darcene notizia
inviandoci una mail cliccando esclusivamente qui:
info.ptpl@tiscali.it
... e lo ringraziamo già
sin d'ora.
Se avremo riscontri positivi ne daremo prontamente notizia "su
questi schermi" a vantaggio di tutti.
22.04.2013 - LA SEGRETERIA PTPL |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI
COMUNALI:
Gli assessori stiano al loro posto. Illegittime
le delibere di giunta sotto forma di direttiva.
Per il Consiglio di stato si tratta di
un'indebita ingerenza sulle competenze dei dirigenti.
Le deliberazioni con cui le giunte
individuano i contraenti, anche se fatte nella forma della
direttiva, sono illegittime in quanto violano il principio
della distinzione delle competenze tra organi di governo e
dirigenti. Questi provvedimenti non possono essere
successivamente sanati in modo generico, ma solamente
attraverso una specifica e ampiamente motivata convalida.
Sono queste le indicazione di maggiore rilievo contenute
nella
sentenza 27.03.2013 n. 1775 del Consiglio di Stato, Sez.
V.
La pronuncia ha un notevole rilievo in quanto stabilisce un
chiaro argine alla invadenza degli organi di governo, che
attraverso la utilizzazione dello strumento della direttiva
entrano spesso nel merito delle scelte gestionali. La
direttiva degli organi politici è legittima se rimane
nell'alveo delle indicazioni di carattere generale.
La sentenza ricorda in premessa che «il criterio
discretivo tra attività di indirizzo e di gestione degli
organi della p.a. è rinvenibile nella estraneità della prima
al piano della concreta realizzazione degli interessi
pubblici che vengono in rilievo, esaurendosi nella
indicazione degli obiettivi da perseguire e delle modalità
di azione ritenute congrue a tal fine».
La direttiva è da considerare illegittima per la lesione del
principio della distinzione delle competenze tra organi di
governo e dirigenti nel caso in cui in concreto «il
responsabile del servizio nulla avrebbe potuto fare di
diverso dopo la delibera suddetta e non avrebbe potuto porre
in essere alcun atto di gestione, atteso che gli è stata
imposta la già effettuata scelta di un dato contraente (che
è atto di gestione, non costituendo, a prescindere dalla
terminologia usata, fissazione di linee generali e di scopi
da perseguire), demandandogli solo il compito di liquidare
la spesa».
In questi casi «l'atto di giunta costituiva invero, in
concreto, atto di vera e propria gestione, a prescindere
dalla solo formale qualificazione dello stesso quale atto di
indirizzo gli atti di gestione includono funzioni dirette a
dare adempimento ai fini istituzionali posti da un atto di
indirizzo o direttamente dal legislatore, oppure includono
determinazioni destinate ad applicare, pure con qualche
margine di discrezionalità, criteri predeterminati per
legge, mentre attengono alla funzione di indirizzo gli atti
più squisitamente discrezionali, implicanti scelte di ampio
livello».
È molto importante anche il giudizio sulla «inapplicabilità
dell'istituto della convalida agli atti posti in essere dal
responsabile successivamente alla adozione della
deliberazione impugnata. Ai sensi dell'art. 21-nonies, comma
2, della legge n. 241 del 1990, che fa salva la possibilità
del ricorso all'istituto della convalida (in cui è compresa
anche la ratifica) del provvedimento annullabile,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un
termine ragionevole, l'Amministrazione ha il potere di
convalidare o ratificare un provvedimento viziato. L'atto di
convalida deve contenere una motivazione espressa e
persuasiva in merito alla sua natura e in punto di interesse
pubblico alla convalida, essendo insufficiente la semplice e
formale appropriazione da parte dell'organo competente
all'adozione del provvedimento, in assenza dell'esternazione
delle ragioni di interesse pubblico giustificatrici del
potere di sostituzione e della presupposta indicazione,
espressa, della illegittimità per incompetenza in cui
sarebbe incorso l'organo che ha adottato l'atto recepito in
via sanante è necessario che emergano chiaramente dall'atto
convalidante le ragioni di interesse pubblico e la volontà
dell'organo di assumere tale atto»
(articolo ItaliaOggi del 19.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G.U. 19.04.2013 n. 92 "Termini di riavvio progressivo del
Sistri" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare,
decreto 20.03.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
19.04.2013 n. 92 "Disposizioni in materia di
inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le
pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in
controllo pubblico, a norma dell’articolo 1, commi 49 e 50,
della legge 06.11.2012, n. 190"
(D.Lgs.
08.04.2013 n. 39). |
ENTI LOCALI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 16 del 16.04.2013, "Istituzione
delle Commissioni consiliari permanenti della X legislatura"
(deliberazione
C.R. 09.04.2013 n. 5). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Lombardia -
PGT, la Giunta propone come scadenza il 30.06.2014.
La Giunta regionale ha approvato la proposta di Progetto di
legge che riguarda i Comuni della Lombardia che si trovano
nella situazione di aver solo avviato (218) o adottato (337)
il Piano di governo del territorio (Pgt).
Il documento, presentato dall'assessore al Territorio,
Urbanistica e Difesa del suolo Viviana Beccalossi, prevede
che questi Comuni regolarizzino la loro situazione e indica
nella data del 30.06.2014 il termine ultimativo per
concludere le procedure.
Il Progetto di legge prevede altresì che, qualora lo
ritengano necessario, i Comuni possano contare sul sostegno
e la collaborazione dei tecnici della Regione o della loro
Provincia per redigere il Pgt.
SUPPORTO TECNICO
- Il Progetto di legge sarà differenziato secondo il 'grado'
di avanzamento dell'iter del PGT dei Comuni. L'iter prevede,
infatti, una prima fase di avviamento, l'approvazione e
l'adozione. Terminati questi passaggi, il Piano di governo
del territorio, che riguarda i 1.544 Comuni lombardi, può
considerarsi effettivo.
UNIFORMITÀ DI METODO
- "A tale proposito -ha sottolineato l'assessore
Beccalossi- ho ritenuto importante e doveroso incontrare
subito e personalmente gli assessori provinciali che si
occupano di questa materia, per condividere un percorso, che
abbia nella concretezza il motivo portante del nostro
lavoro. Così come mi sono confrontata con l'Anci,
l'Associazione nazionale Comuni italiani e con l'Ance,
l'Associazione nazionale Costruttori edili, che hanno
valutato positivamente il modo di procedere. Il nostro
obiettivo principale è di regolarizzare la situazione
complessiva e dotare tutti i Comuni di uno strumento di
pianificazione moderno e omogeneo".
Ora il provvedimento passa al vaglio del Consiglio
regionale, che dovrà valutarlo e approvarlo definitivamente.
NUOVA LINFA ALL'ECONOMIA
- "Questa proposta -ha concluso l'assessore Beccalossi-,
in un periodo di grave crisi come quello che stiamo vivendo,
ha anche una valenza economica. Infatti nei Comuni
interessati sarà possibile porre in essere una serie di
interventi fino a oggi bloccati, che daranno una boccata
d'ossigeno ai settori produttivi di competenza e al relativo
indotto che gli stessi potranno generare sui singoli
territori" (... continua)
(16.04.2013 - link a
www.territorio.regione.lombardia.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
Occorre sempre il permesso di costruire per la demolizione
di un edificio esistente (nota critica alla sentenza n.
24423/2011 della III Sez. penale della Corte di Cassazione)
(10.01.2012 - link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: F.
Zambelli,
Denuncia Inizio Attività Edilizia – Aspetti Giuridici
(26.06.2009 - tratto da www.ztlex.com). |
AUTORITA' VIGILANZA
CONTRATTI PUBBLICI |
INCARICHI PROFESSIONALI: Fondazioni
in gara. Si applica il codice dei contratti.
Delibera Avcp sugli enti degli ordini professionali.
Le Fondazioni degli ordini professionali sono tenute ad
applicare il Codice dei contratti pubblici e non possono
procedere con affidamenti diretti di incarichi di formazione
ad un unico soggetto terzo, senza aprire alla libera
concorrenza gli affidamenti esterni.
È quanto afferma l'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici con la
deliberazione 06.02.2013 n. 4, che ha esaminato
l'operato della Fondazione per la formazione forense di
Firenze, organo stabile dell'Ordine degli avvocati di
Firenze, che negli anni (dal 2006 al 2011) avrebbe proceduto
ad affidare ad una società privata incarichi per un importo
complessivo di circa 740 mila euro.
Un primo punto trattato dall'Autorità era quello
dell'applicazione alle Fondazioni delle norme del Codice dei
contratti. Assunto come elemento di base che è «dato
pacifico in dottrina e giurisprudenza che gli ordini
professionali siano organismi di diritto pubblico rientranti
nella vasta gamma degli enti pubblici non territoriali»,
la delibera afferma che anche le Fondazioni costituite degli
ordini devono essere annoverate nella stessa categoria in
quanto la loro attività risulta finanziata in modo
maggioritario dagli ordini professionali che, peraltro,
esercitano anche un controllo maggioritario (se non totale)
su di esse.
Tali Fondazioni sono quindi senz'altro assoggettate al
Codice dei contratti pubblici. Dal punto di vista delle
procedure da applicare l'Autorità non ritiene giustificabile
il ricorso ad affidamenti in via diretta di importo
inferiore a 20 mila euro con una presunta «impossibilità
di programmare in modo unitario e preventivo gli eventi
formativi». L'Authority «non comprende quale
specificità contraddistingua tali affidamenti rispetto a
tutti gli altri, tanto da rendere impossibile
l'individuazione del loro valore economico complessivo».
Viceversa la Fondazione avrebbe dovuto calcolare un valore
globale del contratto e applicare la procedura conseguente
(certamente non quella in via diretta).
Infine l'Autorità segnala che, comunque, «è censurabile»
instaurare un «rapporto privilegiato» con un unico
soggetto dato l'interesse potenziale di una platea
indistinta di operatori economici rispetto agli affidamenti
di formazione esternalizzati: nello specifico sarebbe stato
«quantomeno opportuno adottare procedure atte a garantire
il libero gioco della concorrenza» (articolo
ItaliaOggi del 18.04.2013). |
QUESITI & PARERI |
PUBBLICO IMPIEGO: Personale
degli enti locali. Assenza per testimonianza.
Nel caso di dipendente chiamato a
rendere testimonianza giudiziale, lo stesso deve essere
considerato in servizio solo qualora la deposizione sia resa
nell'interesse dell'ente di appartenenza, riferendosi a
'fatti inerenti al servizio'. In caso contrario, il
dipendente dovrà utilizzare altri istituti, quali ferie o
permesso a recupero.
Il Comune chiede un parere in ordine alle assenze effettuate
da dipendente per rendere testimonianza giudiziale, in
determinate e diverse fattispecie.
Premesso che il diritto del pubblico dipendente di
assentarsi per rendere testimonianza (diritto correlato,
peraltro, ad un preciso dovere in capo al soggetto intimato,
cui non è ammissibile sottrarsi [1])
è incontestabile, si osserva che, secondo l'ARAN, il
pubblico dipendente deve essere considerato in servizio solo
nel caso in cui si assenti per rendere testimonianza 'nell'interesse
dell'ente' di appartenenza.
In materia di assenze per testimonianza giudiziale, la
citata Agenzia ha infatti precisato che, qualora la
deposizione non sia svolta nell'interesse
dell'amministrazione, l'assenza andrà imputata, secondo
autonomo giudizio del dipendente, a ferie, permesso a
recupero o permesso per particolari motivi personali
[2] .
Per quanto concerne l'interpretazione della locuzione 'nell'interesse
dell'amministrazione', la cui formulazione non appare
chiara, si ritiene utile richiamare l'art. 48 del d.p.r.
115/2002, che disciplina il rimborso spese e le indennità
spettanti ai dipendenti pubblici chiamati a rendere
testimonianza 'per fatti inerenti al servizio'.
La citata disposizione [3],
la quale riguarda espressamente le testimonianze 'per
fatti inerenti al servizio', prevede, nel caso di
dipendenti pubblici, la corresponsione da parte
dell'amministrazione di appartenenza di un importo fino a
concorrenza del trattamento di missione, ad integrazione del
rimborso spese e delle indennità spettanti in generale
(quali spese di giustizia, gravanti sull'amministrazione
della giustizia, dietro richiesta) a favore dei testimoni
nelle fattispecie indicate dai precedenti artt. 45 e 46.
Pertanto, parrebbe in astratto riscontrabile l'interesse
dell'amministrazione quando il pubblico dipendente sia
chiamato a testimoniare in relazione a fatti di cui sia
venuto a conoscenza in ragione del ruolo dallo stesso
rivestito presso l'ente, a prescindere dalla circostanza che
l'amministrazione di appartenenza sia, o meno, parte in
causa e che sia l'amministrazione stessa o la controparte a
chiamarlo a deporre quale testimone.
Compete peraltro all'ente valutare autonomamente, nei
singoli casi concreti, se la testimonianza che il dipendente
è obbligato a prestare e per la quale lo stesso chiede di
potersi assentare si riferisca a 'fatti inerenti al
servizio'.
---------------
[1] Tale obbligo, infatti, se non adempiuto
spontaneamente, può comportare anche l'accompagnamento
coattivo, su ordine del giudice.
[2] Cfr. RAL 917, consultabile sul sito: www.aranagenzia.it.
Si evidenzia peraltro che il ricorso a permessi per
particolari motivi personali non è più utilizzabile dal
personale del comparto unico, alla luce dell'intervenuta
disposizione di cui all'art. 19, comma 3, del CCRL del
07.12.2006, che ha disposto la disapplicazione dell'art. 19,
comma 2, del CCNL del 06.07.1995.
[3] 'Ai dipendenti pubblici, chiamati come testimoni per
fatti inerenti al servizio, spettano il rimborso spese e le
indennità di cui agli articoli 45 e 46, salva
l'integrazione, sino a concorrenza dell'ordinario
trattamento di missione, corrisposta dall'amministrazione di
appartenenza' (18.04.2013
- link a www.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sovraffollamento abitativo.
Per fronteggiare situazioni di
sovraffollamento abitativo, non connesse a questioni
immigratorie o igienico sanitarie, gli enti locali possono
avvalersi dello strumento regolamentare, in conformità alle
previsioni di cui al Decreto del Ministro per la sanità 05.07.1975 che collega le superfici dei vani al numero
massimo di persone che le possono utilizzare.
Il Comune chiede di conoscere quali rimedi
giuridico-operativi possano essere attuati in relazione a
situazioni di sovraffollamento abitativo non necessariamente
connesse a questioni di immigrazione o a problematiche
igienico-sanitarie e, in particolare, se sia utilizzabile lo
strumento dell'ordinanza sindacale contingibile ed urgente.
Il Decreto del Ministro per la sanità 05.07.1975 recante 'Modificazioni
alle istruzioni ministeriali 20.06.1896, relativamente
all'altezza minima ed ai requisiti igienico-sanitari
principali dei locali di abitazione', all'articolo 2,
recita: 'Per ogni abitante deve essere assicurata una
superficie abitabile non inferiore a mq. 14, per i primi 4
abitanti, ed a mq. 10, per ciascuno dei successivi. Le
stanze da letto debbono avere una superficie minima di mq.
9, se per una persona, e di mq. 14, se per due persone. Ogni
alloggio deve essere dotato di una stanza di soggiorno di
almeno mq 14. Le stanze da letto, il soggiorno e la cucina
debbono essere provvisti di finestra apribile'.
I suddetti limiti dimensionali sono inderogabili anche in
fase costruttiva per tutte le nuove edificazioni e per le
ristrutturazioni edilizie, mentre, per i fabbricati
preesistenti alla data di entrata in vigore della normativa
sopra riportata si ripercuote, comunque, sul loro utilizzo
[1]. Con
riferimento alle situazioni di sovraffollamento abitativo,
nelle ipotesi in cui il nucleo familiare occupante sia
composto da persone - cittadini italiani o stranieri - tutte
regolari ma in numero superiore a quanto previsto dai
regolamenti edilizi in tema di rapporto superficie/persone,
si osserva quanto segue [2] [3].
Il regolamento edilizio dell'ente instante disciplina le
dimensioni ed i requisiti delle abitazioni prevedendo, tra
l'altro, le superfici minime dei vani, in conformità alle
previsioni di cui al citato DM 05.07.1975.
Tali superfici sono direttamente collegate al numero massimo
di persone che le possono utilizzare. Con riferimento ai
suddetti parametri, il Comune potrebbe valutare
l'opportunità di disciplinare, in via regolamentare, le
situazioni di sovraffollamento abitativo, come peraltro si
riscontra in numerose realtà [4].
Infatti, lo strumento dell'ordinanza contingibile ed urgente
non pare poter essere invocato quale rimedio alla situazione
di sovraffollamento in esame, non essendo collegabile a
situazioni di precarietà igienico-sanitaria o, comunque,
tali da giustificare l'adozione del suddetto provvedimento.
Come infatti affermato dalla giurisprudenza, nel caso in cui
il Sindaco possa fronteggiare una situazione con rimedi di
carattere corrente nell'esercizio ordinario dei suoi poteri,
ovvero quando la situazione possa essere prevenuta con i
normali strumenti apprestati dall'ordinamento, non può
emettere ordinanze contingibili ed urgenti a norma
dell'articolo 54 del d.lgs. 267/2000. [5]
----------------
[1] Così, Trib. Torino, sent. 24.06.2002, secondo cui 'Le
norme dei regolamenti d'igiene che prescrivono altezze
minime dei locali ai fini della licenza di abitabilità hanno
effetto retroattivo e possono essere applicate anche alle
abitazioni costruite anteriormente alla loro emanazione.'.
[2] Si veda, a tal proposito, Marco De Vita 'L'agibilità
edilizia: aspetti del controllo e profili sanzionatori',
atti del convegno tenutosi a Riccione 19-22.09.2007 -
Palazzo del Turismo in cui per le situazioni di
sovraffollamento abitativo c.d. 'strutturale' è proposta la
seguente soluzione: '1) sopralluogo, possibilmente congiunto
con i servizi di vigilanza edilizia dell'A.S.L. e/o del
Comune; 2) acquisizione dei verbali di ispezione dei servizi
suddetti i quali evidenzino la situazione di
sovraffollamento 'strutturale'; 3) verbale delle attività
compiute ai sensi dell'articolo 13, legge 689/1981; 4)
acquisizione, ove possibile, di copia del contratto di
affitto; 5) redazione del verbale di violazione
dell'articolo 24 del T.U. edilizia; 6) segnalazione
immediata al competente ufficio comunale; 7) ordinanza del
Sindaco, quale autorità sanitaria locale, di inagibilità
temporanea (n.b. quando l'inagibilità derivi esclusivamente
da sovraffollamento); 8) precisazione, nell'ordinanza, della
decadenza dell'atto stesso dal momento in cui venga ovviato,
in via permanente e documentata, allo stato di
sovraffollamento; 9) esecuzione dell'ordinanza, con
eventuale collocamento in strutture idonee delle persone da
allontanare.' .
[3] Su tali fattispecie si è espressa l'ANCI nel parere dd.
17/12/2012.
[4] Cfr. ex multis il regolamento comunale d'igiene del
Comune di Verona, il regolamento di polizia urbana di Jesolo,
il regolamento per la disciplina del sovraffollamento dei
locali ad uso abitativo di Arcade, il regolamento di polizia
urbana di San Donà di Piave etc.
[5] Così, TAR Toscana, sent. 1701/2010
(12.04.2013
- link a www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Richiesta attivazione posta elettronica ad uso dei
consiglieri comunali.
Si fa riferimento alla nota allegata con la quale il
segretario generale del comune di …. ha chiesto il parere in
ordine alla richiesta, formulata da un consigliere comunale
di minoranza, di attivazione dell’indirizzo di posta
elettronica del proprio gruppo consiliare al fine di
agevolare la comunicazione con i cittadini.
In linea generale, in materia si richiama l’art. 9 del
codice dell’Amministrazione Digitale di cui al dlgs n. 82
del 2005, come modificato dal dlgs. n. 235 del 2010, recante
“partecipazione democratica elettronica”, con la
quale il legislatore ha, come noto, stabilito che le
pubbliche amministrazioni favoriscano ogni forma di uso
delle nuove tecnologie per promuovere una maggiore
partecipazione dei cittadini al processo democratico.
Ciò posto, le scelte in ordine alla declinazione concreta
del principio della partecipazione democratica elettronica e
della compatibilità di tali scelte con le esigenze di
ottimizzazione e contenimento dei costi rientrano nella
autonomia decisionale del comune interessato.
Spetta, infatti, alle decisioni del consiglio comunale,
oltre che trovare soluzioni per le singole questioni,
valutare l’opportunità di indicare, con apposita modifica
regolamentare, anche le ipotesi in argomento, al fine di
assicurare il regolare funzionamento dei gruppi e l’ordinato
svolgimento delle funzioni proprie dell’assemblea consiliare (21.03.2013
- link a http://incomune.interno.it). |
CORTE DEI CONTI |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il parere sbagliato salva l'ente.
Niente responsabilità erariale se il comune è stato sviato.
La Corte conti del Piemonte ha
archiviato la notizia di illecito a carico di un municipio.
Il parere sbagliato salva gli amministratori e i funzionari
pubblici dalla Corte dei conti. È quanto è successo in un
comune piemontese, al quale si è imputato il fatto di avere
illegittimamente costituito una società per gestire la
farmacia comunale.
La procura regionale per il Piemonte
della Corte dei conti, con provvedimento 09.04.2013,
ha archiviato la notizia di illecito erariale, perché ha
considerato che il parere (rivelatosi poi non corretto)
dell'Anci ha sviato gli organi comunali.
Ma vediamo di approfondire la questione.
Un consigliere comunale ha presentato un esposto alla
procura della corte dei conti ritenendo illegittima la
costituzione da parte del comune di una società di capitali
per la gestione delle farmacie comunali.
La società è stata costituita dopo l'entrata in vigore del
decreto legge 78/2010.
Questo decreto, all'articolo 14, prevede che i comuni con
popolazione inferiore a 30 mila abitanti non possono
costituire società.
La norma dispone, dunque, un tassativo divieto di nuova
costituzione di società, senza eccezioni, per gli enti
locali con popolazione inferiore alla soglia demografica di
30 mila abitanti.
L'articolo 14, lo riconosce la procura della Corte dei conti
piemontese, introduce una limitazione alla capacità
giuridica degli enti territoriali con meno di 30 mila
abitanti. Essendo il comune in questione un comune con un
numero di abitanti inferiore alla soglia, la società non è
stata, dunque, legittimamente costituita. Ma nella
deliberazione di consiglio comunale, che ha autorizzato la
costituzione della società, viene richiamato un parere dell'Anci
datato 03/10/2010, che ha illustrato la portata del citato
articolo 14, del dl 78/2010.
Secondo l'Anci le nuove disposizioni non sarebbero state
immediatamente applicabili, ma avrebbero richiesto
l'adozione di apposite decreti ministeriali.
Il consiglio comunale, dunque, si è fidato del parere
dell'associazione dei comuni e ha ritenuto di non incorrere
in alcun divieto di legge, non essendo, alla data della
deliberazione sulla società, ancora stati emanati i decreti
attuativi.
Certo, il parere dell'Anci, a posteriori, è risultato
errato: lo ha riconosciuto anche l'Autorità di vigilanza sui
contratti pubblici, e la stessa Corte dei conti.
Errato sì, ma con un effetto comunque favorevole per gli
amministratori del comune in questione. La procura ha,
infatti, constatato che per contestare la responsabilità
erariale non basta una condotta contra illegittima, ma
occorre anche dimostrare il dolo o la colpa grave dei
responsabili.
E qui gioca un ruolo l'interpretazione dell'associazione dei
comuni.
La violazione di legge in cui un funzionario o un
amministratore pubblico sia incorso per errata lettura del
testo normativo, causata «dal mancato o imperfetto
funzionamento degli strumenti interpretativi a disposizione
dei soggetto (tanto più se si tratta di strumenti
istituzionali o di uso corrente, come sono i pareri e le
circolari dell'Anci per gli enti locali)», secondo la
procura della corte dei conti piemontese, esclude la
sussistenza della colpa grave. Così si apre la strada
all'errore scusabile, nel quale il responsabile è caduto pur
avendo compiutamente adempiuto ai propri obblighi
informativi sulle condizioni di liceità del proprio agire.
I componenti del Consiglio comunale e il dirigente sono
caduti in un errore scusabile ingenerato dal parere in tal
senso dell'Anci. Per il momento, quindi, tutto è stato
archiviato. Ma la procura in conclusione avvisa che in
futuro sarà contestabile il danno erariale se la situazione
illegittima non verrà rapidamente sanata e se si
determineranno perdite che incidano negativamente sul
patrimonio del comune
(articolo ItaliaOggi del 19.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI: In riferimento alla riformulazione dell’art. 11, comma 13, del
Codice degli appalti, la Sezione ritiene che:
a) la disciplina prevista dall’art. 11, comma 13, del D.Lgs.
12.04.2006, n. 163 è speciale rispetto alla disciplina che
regola la forma degli atti contenuta nella legge di
contabilità pubblica.
b) la comminatoria di nullità prevista dalla norma è
riferita a tutte le forme ad substantiam di stipulazione
previste dalla citata disposizione;
c) in quanto forme scritte peculiari di scrittura privata
(scambio di proposta ed accettazione nei contratti inter
absentes), in caso di trattativa privata, conservano piena
validità le forme di stipulazione, previste dall'art. 17 del
R.D. 18.11.1923 n. 2440 (la scrittura privata è prevista
anche nell’art. 11, comma 13, del D.Lgs. 12.04.2006, n.
163);
d) la stipulazione in forma pubblica amministrativa deve
avvenire in modalità elettronica solo se essa è prevista
quale metodologia esclusiva da specifiche norme di legge o
di regolamento applicabili alla stazione appaltante, essendo
ancora validamente stipulabile il contratto in forma
pubblica amministrativa su supporto cartaceo;
e) l’adozione del rogito notarile condurrà invece
all’utilizzo esclusivo del documento informatico notarile,
alla stregua del richiamo selettivo contenuto nella dizione
normativa.
Infine, la locuzione “…le norme
vigenti per ciascuna stazione appaltante …" riferita alla
modalità elettronica della stipulazione dei contratti è da
intendersi non come potere della singola stazione appaltante
di autodeterminazione, ma come rinvio ad una normativa
tecnica, di rango legislativo o regolamentare, di fonte
statale (artt. 117, comma 2, lett. l, Cost.), che detti i
precetti in modo uniforme sulla compilazione, sottoscrizione
e conservazione sostitutiva degli atti pubblici e contratti
stipulati in modalità elettronica.
---------------
Il sindaco del comune di Rovato (BS), mediante nota n. 7173
del 26.02.2013, ha posto un quesito in merito alla corretta
interpretazione dell’art. 11, comma 13, del d.lgs. n.
163/2006 come novellato dall'art. 6, comma 3, del d.l. n.
179/2012 che testualmente recita: “il contratto è
stipulato a pena di nullità, con atto pubblico notarile
informatico, ovvero, in modalità elettronica secondo le
norme vigenti per ciascuna stazione appaltante, in forma
pubblica amministrativa a cura dell'Ufficiale rogante
dell'amministrazione aggiudicatrice o mediante scrittura
privata”.
Il sindaco evidenzia la necessità di un intervento
chiarificatore e l'attinenza della questione sugli equilibri
economico-finanziari degli enti, tenendo conto dell'effetto
caducante (nullità ex tunc) previsto dalla norma sui
contratti posti in essere in violazione delle disposizione
di legge. L'estrema nebulosità della disposizione citata non
risulta essere stata dissipata dalla recente determinazione
n. 1 del 13.02.2013 dell'Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici (AVCP) che, intervenendo sul punto,
appare soffermarsi principalmente su due alternative
all’'atto pubblico notarile informatico. L'AVCP ha ritenuto
che le stazioni appaltanti possano procedere a perfezionare
i contratti di appalto, in alternativa all'atto pubblico
notarile informatico, nella forma della scrittura privata,
ai sensi dell'art. 334, comma 2, del DPR n. 207/2012, e
nella forma dell'atto pubblico amministrativo in modalità
elettronica.
Sulle argomentazioni deducibili dalla determinazione
dell’autorità, possono muoversi due osservazioni.
La prima riguarda l’interpretazione letterale della
disposizione in esame che, a parere del comune istante,
risulta fuorviante. Dall'interpretazione letterale della
disposizione in esame, è di limpida evidenza che “il
contratto è stipulato, a pena di nullità”, nella forma
dell'atto pubblico notarile informatico, che per sua natura
è riservato ai notai, "ovvero”, in alternativa, "in modalità
elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione
appaltante", altrimenti, dopo la virgola, "in forma pubblica
amministrativa a cura dell'Ufficiale rogante
dell'amministrazione aggiudicatrice" o "mediante scrittura
privata".
In sostanza la disposizione divide
grammaticalmente, con l'uso del segno di interpunzione della
virgola, l’elencazione della modalità di perfezionamento dei
contratti delle stazioni appaltanti dato dalla "modalità
elettronica" diverso dalla “forma pubblica amministrativa o”
della scrittura privata. L'AVCP opera nella sua
determinazione una immotivata “crasi” tra le due diverse
modalità senza tener in alcuna considerazione
l'interpunzione, ipotizzando l'obbligatorietà di un atto
pubblico amministrativo in modalità elettronica.
Per altro verso deve sottolinearsi che l' AVCP ipotizza una
“modalità elettronica” di perfezionamento dell'atto pubblico
amministrativo nelle forme dell'art. 25, comma 2, del d.lgs.
n.82/2006 secondo cui "L'autenticazione della firma
elettronica, anche mediante l'acquisizione digitale della
sottoscrizione autografa, o di qualsiasi altro tipo di firma
elettronica avanzata consiste nell'attestazione, da parte
del pubblico ufficiale, che la firma è stata apposta in sua
presenza dal titolare, previo accertamento della sua
identità personale, della validità dell'eventuale
certificato elettronico utilizzato e del fatto che il
documento sottoscritto non è in contrasto con l'ordinamento
giuridico”.
La questione è che l'atto pubblico e l’atto
pubblico amministrativo sono cosa diversa dalla semplice
autenticazione della firma autografa o dalla autenticazione
della firma autografa acquisita elettronicamente e questo in
base alle disposizioni dell'ordinamento giuridico risalenti
alla legge notarile ed al codice dell'amministrazione
digitale in tema di atto notarile informatico. L'atto
notarile informatico rappresenta infatti la forma ideata dal
legislatore (d.lgs. n. 110/2010 - Disposizioni in materia di
atto pubblico informatico redatto dal notaio, a norma
dell'articolo 65 della legge 18.06.2009, n. 69), per
produrre, perfezionare e conservare attraverso strumenti
informatici un atto pubblico. Per l’atto pubblico,
diversamente dalla scrittura autenticata fatta con metodi
tradizionali o con strumenti di firma digitale, si pongono
differenze nette.
In pratica le differenze principali sono
le seguenti:
- l'atto pubblico deve essere redatto dal notaio o da altro
pubblico ufficiale a ciò abilitato; se non è stato scritto
personalmente dal notaio o dal pubblico ufficiale, deve
essere da lui letto alle parti, che devono essere tutte
presenti contemporaneamente davanti al notaio; deve essere
scritto in lingua italiana (eventualmente, con la traduzione
in lingua straniera) ed essere sottoscritto dalle parti e
dal notaio nello stesso momento; deve essere conservato
(salvo casi eccezionali) nella raccolta degli atti del
notaio o dal pubblico ufficiale.
- la scrittura privata può non essere redatta dal notaio o
dal pubblico ufficiale, può non essere letta dal notaio o
dal pubblico ufficiale alle parti e può essere autenticata
anche da più pubblici ufficiali. Inoltre il notaio o il
pubblico ufficiale non hanno l'obbligo di conservarla, ma
possono rilasciarla in originale alle parti.
Va anche rammentato che mentre l'art. 2700 del c.c.
attribuisce all'atto pubblico una efficacia probatoria
“forte” circa la provenienza ed il contenuto della volontà
delle parti, viceversa la scrittura privata autentica, ai
sensi dell'art. 2702 del c.c., assicura fino a querela di
falso l’efficacia probatoria dei soggetti da cui proviene la
volontà negoziale ma non il contenuto di quella volontà.
Il codice dell'amministrazione digitale all’art. 20 dispone
al comma 1-bis che “L’idoneità del documento informatico a
soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore
probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, tenuto
conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità,
sicurezza, integrità ed immodificabilità, fermo restando
quanto disposto dall’ articolo 21". L’art. 21 dispone a sua
volta che “Il documento informatico sottoscritto con firma
elettronica avanzata, qualificata o digitale, formato nel
rispetto delle regole tecniche di cui all'articolo 20,
comma 3, che garantiscano l'identificabilità dell'autore,
l’integrità e l’immodificabilità del documento, ha
l’efficacia prevista dall'articolo 2702 del codice civile.
L’utilizzo del dispositivo di firma elettronica qualificata
o digitale si presume riconducibile al titolare, salvo che
questi dia prova contraria”.
In sostanza per la disciplina dell'atto pubblico notarile il
legislatore è intervenuto ad hoc con il d.lgs. n.
110/2010 citato che dispone regole tecniche circa la
formazione, perfezionamento e conservazione dell'atto.
Nel caso di specie l’AVCP sembra semplificare e creare una
pericolosa commistione tra atto pubblico e scrittura
autenticata digitalmente dal pubblico ufficiale.
Il sindaco ribadisce l'immediata rilevanza della questione
sotto il profilo della legittimità degli atti posti in
essere dalle stazioni appaltanti e degli effetti sulla spesa
che la nullità degli atti produrrebbe sugli enti là dove i
dubbi esposti venissero accertati in sede giurisdizionale e
travolgessero l'azione degli enti.
In conclusione, si chiede se l’ente possa procedere alla
sottoscrizione degli atti relativi agli appalti attraverso
una delle quattro diverse alternative contemplate dall'art.
11, comma 13, del d.lgs. n.163/2006 come novellato dall'art.
6, comma 3, del d.l. n. 179/2012:
1.
atto pubblico notarile informatico, dinanzi al notaio nelle
forme ex d.lgs. n. 110/2010 “Disposizioni in materia di
atto pubblico informatico redatto dal notaio, a norma
dell'articolo 65 della legge 18.06.2009, n. 69”;
2.
in modalità elettronica secondo le norme vigenti per
ciascuna stazione appaltante, ovvero secondo le ordinarie
modalità di conclusione degli appalti di servizi e forniture
che si perfezionano sul Mepa o sulla piattaforma digitale
della Regione Lombardia, ovvero secondo le forme dell’atto
pubblico informatico che saranno disciplinate dai
regolamenti interni in analogia con quanto avvenuto per gli
atti notarili;
3.
in forma pubblica amministrativa a cura dell'Ufficiale
rogante dell'amministrazione aggiudicatrice, ovvero secondo
le forme tradizionali di perfezionamento degli atti;
4.
scrittura privata autenticata.
...
I quesiti posti con il presente interpello ripercorrono
quasi pedissequamente le tematiche interpretative svolte
nella precedente deliberazione della Sezione n. 97/2013/PAR.
L’art. 6, comma 4, del D.L. 18.10.2012, n. 179, convertito
nella legge 17.12.2012, n. 221 ha disposto che le norme
di cui all’art. 6, comma 3, si applicano a partire dal primo
gennaio 2013. Fra le disposizioni ivi richiamate è
ricompresa la norma oggetto del presente parere, a tenore
della quale, il legislatore, innovando la disciplina sulla
forma dei contratti stipulati dalla pubblica amministrazione
nell’ambito del codice degli appalti, ha modificato l’art.
11, comma 13, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, prescrivendo
che: “Il contratto è stipulato, a pena di nullità, con atto
pubblico notarile informatico, ovvero, in modalità
elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione
appaltante, in forma pubblica amministrativa a cura
dell'Ufficiale rogante dell'amministrazione aggiudicatrice o
mediante scrittura privata”.
Si pone a confronto la previgente edizione della norma, che
testualmente recitava: ”il contratto è stipulato mediante
atto pubblico notarile, o mediante forma pubblica
amministrativa a cura dell’ufficiale rogante
dell’amministrazione aggiudicatrice, ovvero mediante
scrittura privata, nonché in forma elettronica secondo le
norme vigenti per ciascuna stazione appaltante”.
Preliminarmente, si osserva che la disciplina generale sulla
forma dei contratti pubblici è contenuta nella legge di
contabilità generale dello Stato (art. 16, 17 e 18 del R.D.
18.11.1923, n. 2440) tuttora vigente.
La legge di contabilità dello Stato prescrive il requisito
della forma scritta ad substantiam per tutti i contratti
stipulati dalla pubblica amministrazione, anche quando essa
agisca iure privatorum; forma scritta declinata mediante i
canoni della forma pubblica amministrativa (art. 16 R.D. 18.11.1923, n.2440), salve le ipotesi derogatorie
tipizzate descritte all’art. 17 del R.D. citato, in cui è
consentita l’adozione della scrittura privata e la
conclusione a distanza a mezzo di corrispondenza.
Il rapporto fra le due disposizioni è regolato dal principio
di specialità, atteso che la disposizione in tema di
contabilità di Stato è applicabile ad ogni tipo contrattuale
stipulato dalla Pubblica Amministrazione, mentre la
disciplina prevista dall’art. 11, comma 13, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 è applicabile solo alla materia regolata
dal Codice degli Appalti.
Sotto il profilo contenutistico si evidenzia, inoltre, che
il novero delle forme ad substantiam previste dal citato
art. 11, comma 13, ha una portata più ampia rispetto alla
citata legge di contabilità, poiché promuove l’adozione di
innovative forme di documentazione dell’attività
contrattuale in cui è parte la Pubblica Amministrazione.
Tradizionalmente si osserva che la forma scritta ad substantiam garantisce la certezza nei rapporti giuridici a
contenuto patrimoniale in cui è parte la Pubblica
Amministrazione e si pone quale regime speciale sia rispetto
al principio di libertà della forma previsto nel codice
civile, salve le ipotesi espressamente previste di atti che
devono essere redatti per atto pubblico o per scrittura
privata sotto pena di nullità (art. 1350 c.c.), sia rispetto
al principio generale di libertà della forma dell’atto
amministrativo.
La recente riformulazione dell’art. 11, comma 13, del Codice
degli Appalti sancisce la nullità testuale per carenza delle
forme alternative ad substantiam. Accanto alla forma
scritta, tipica della forma pubblica amministrativa e della
scrittura privata, la legge prescrive la forma digitale per
l’atto pubblico notarile (informatico), nonché la modalità
elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione
appaltante.
In sintesi, la difformità testuale rispetto alla precedente
formula legislativa si compendia nella:
1) previsione della nullità testuale per difetto delle forme
ad substantiam indicate dalla norma;
2) superamento della tassatività della forma scritta
cartacea, mediante la previsione di forme alternative ad substantiam;
3) attribuzione dell’aggettivo “informatico” all’atto
pubblico notarile;
4) dequotazione della forma elettronica a “modalità
elettronica” secondo le norme vigenti per ciascuna stazione
appaltante.
Per quel che concerne il rapporto fra le varie forme
ammissibili di contratto concluso dalla pubblica
amministrazione, rientrante nella disciplina del Codice
degli Appalti, la legge pone sul medesimo piano giuridico,
in condizione di alternatività, le singole espressioni di
forma ad substantiam.
La disposizione ha inteso adeguare alle moderne tecnologie
l’utilizzo delle forme contrattuali in cui è trasfusa la
volontà della pubblica amministrazione, aggiungendo, ma non
sostituendo alle tradizionali forme scritte cartacee la
forma pubblica elettronica e/o digitale, con l’avvertenza
che qualora le norme vigenti per la singola stazione
appaltante (regolamentari o di legge) prevedessero
l’adozione della sola modalità elettronica, l’utilizzo di
altra metodologia di documentazione, ancorché scritta o
cartacea, in violazione delle norme speciali, sarebbe
affetta da nullità assoluta.
In particolare, per quanto di presumibile interesse in capo
all’amministrazione interpellante, si osserva che la
modalità elettronica non limita né impedisce il ricorso alla
forma pubblica amministrativa confezionata secondo
l’adozione del modo tradizionale di perfezionamento degli
atti, ovvero il documento cartaceo redatto con le
prescrizioni imposte dalla legge a cura dell’Ufficiale
rogante: in primo luogo, poiché il riferimento testuale
chiarisce il rinvio alle classiche funzioni notarili del
pubblico ufficiale alla luce dei principi di pubblica fede
contenuti nell’art. 2699 c.c. e nella legge 16.02.1913, n.
89 (funzioni accertative e certificative parametrate al
documento scritto in forma cartacea); in secondo luogo,
perché le singole prescrizioni circa la forma adottabile
sono poste sul medesimo piano, mediante segni
d’interpunzione testuale (virgola) e separate con la
congiunzione “o”; in terzo luogo, per la già menzionata
modifica legislativa che ha mutato il testo dell’art. 11,
comma 13, del Codice degli Appalti da “forma elettronica” a
“modalità elettronica”; infine, poiché la disposizione si
limita a richiamare la modalità elettronica tipizzata dalle
norme vigenti per ciascuna stazione appaltante, rinviando
tendenzialmente a tutte le normative settoriali che
prescrivono il ricorso al mercato elettronico (e-procurement)
per l’acquisizione di beni o servizi da parte delle
pubbliche amministrazioni.
Ciò posto, al fine di rispondere ai singoli quesiti
prospettati dall’amministrazione, alla luce del dato
testuale, la Sezione si ritiene che:
a) la disciplina prevista dall’art. 11, comma 13, del D.Lgs.
12.04.2006, n. 163 è speciale rispetto alla disciplina che
regola la forma degli atti contenuta nella legge di
contabilità pubblica.
b) la comminatoria di nullità prevista dalla norma è
riferita a tutte le forme ad substantiam di
stipulazione previste dalla citata disposizione;
c) in quanto forme scritte peculiari di scrittura privata
(scambio di proposta ed accettazione nei contratti inter
absentes), in caso di trattativa privata, conservano
piena validità le forme di stipulazione, previste dall'art.
17 del R.D. 18.11.1923 n. 2440 (la scrittura privata è
prevista anche nell’art. 11, comma 13, del D.Lgs.
12.04.2006, n. 163);
d) la stipulazione in forma pubblica amministrativa deve
avvenire in modalità elettronica solo se essa è prevista
quale metodologia esclusiva da specifiche norme di legge o
di regolamento applicabili alla stazione appaltante, essendo
ancora validamente stipulabile il contratto in forma
pubblica amministrativa su supporto cartaceo;
e) l’adozione del rogito notarile condurrà invece
all’utilizzo esclusivo del documento informatico notarile,
alla stregua del richiamo selettivo contenuto nella dizione
normativa.
Infine, la locuzione “…le norme vigenti
per ciascuna stazione appaltante …" riferita alla
modalità elettronica della stipulazione dei contratti è da
intendersi non come potere della singola stazione appaltante
di autodeterminazione, ma come rinvio ad una normativa
tecnica, di rango legislativo o regolamentare, di fonte
statale (artt. 117, comma 2, lett. l, Cost.), che detti i
precetti in modo uniforme sulla compilazione, sottoscrizione
e conservazione sostitutiva degli atti pubblici e contratti
stipulati in modalità elettronica
(Corte dei Conti,
Sez. controllo Lombardia,
parere
28.03.2013 n. 121). |
LAVORI PUBBLICI: L’art.
2, co. 1, dell’O.P.C.M. 3862/2010 precisa inoltre che, per
l’attuazione degli interventi previsti, “ove non sia
possibile l’utilizzazione delle strutture pubbliche”, è
consentito affidare la progettazione anche a liberi
professionisti esterni avvalendosi, “ove necessario”, delle
deroghe previste dall’art. 3 dell’O.P.C.M. 3741/2009.
Alla luce del descritto quadro normativo, nell’intera
procedura in esame (e quindi non solo con riferimento ad un
eventuale incarico esterno di progettazione), è necessario
pertanto non solo ottemperare al generale obbligo di
motivazione degli atti ma anche fornire una “specifica
motivazione” per potersi avvalere delle deroghe previste
appositamente per lo stato di emergenza.
La possibilità di avvalersi delle deroghe previste è inoltre
sottoposta a vari limiti e condizioni. In assenza di una
specifica motivazione e in assenza delle condizioni
stabilite, per gli interventi previsti dall’O.P.C.M. n.
3862/2010, non può che trovare spazio l’applicazione della
normativa ordinaria.
Quindi, al generale obbligo, a pena di illegittimità, di
enunciare l’iter logico-giuridico seguito dalla
Amministrazione nella emanazione dell’atto, si affianca la
necessità di fornire puntuali indicazioni in ordine alle
ragioni che inducono la stessa Amministrazione procedente ad
avvalersi delle deroghe previste dalla normativa di
emergenza.
Anche con riferimento alla “specifica motivazione” richiesta
per la deroga alla normativa ordinaria, l’Amministrazione è
tenuta a procedere ad un adeguato bilanciamento dei vari
interessi coinvolti di cui dovrà essere fornito puntuale
riscontro nell’atto.
---------------
Ai sensi della vigente normativa, il
progetto definitivo e il progetto esecutivo di un’opera
pubblica vengono redatti e approvati sulla base di un
progetto preliminare.
Il legislatore assegna alla progettazione
un ruolo centrale per l’esecuzione di un’opera pubblica.
L’art. 93 del D.Lgs. 163/2006 stabilisce che la
progettazione dei lavori pubblici si articola, secondo tre
livelli di successivi approfondimenti tecnici, in
preliminare, definitiva ed esecutiva, all’espresso fine di
assicurare la qualità dell’opera e la rispondenza alle
finalità relative, la conformità alle norme ambientali ed
urbanistiche e il soddisfacimento dei requisiti essenziali
definiti dal quadro normativo nazionale e comunitario.
Una Amministrazione può procedere motivatamente alla
adozione unitaria del progetto definitivo e del progetto
esecutivo solo quando l’intervento concerne un’opera di
relative dimensioni o di modesta complessità tecnica. La
scelta del RUP di unificare più livelli progettuali deve
essere sempre sorretta da una adeguata motivazione. Inoltre, ogni fase della
attività di progettazione presuppone che sia esaurita la
precedente in un contesto logico e temporale
progressivamente ben cadenzato.
---------------
1. L’art. 1, co. 11, dell’O.P.C.M. n. 3862/2010 prevede che,
per gli interventi previsti dalla stessa ordinanza, il
Commissario delegato e i soggetti attuatori si avvalgono
delle deroghe previste dall’art. 3 dell’O.P.C.M. n.
3741/2009 (riguardante lo stato di emergenza dichiarato con
D.P.C.M. del 30.01.2009 in relazione agli eccezionali eventi
avversi che hanno colpito il territorio della regione
Calabria nel gennaio 2009).
L’art. 3 citato prevede, “ove ritenuto indispensabile e
sulla base di specifica motivazione”, l’autorizzazione a
derogare, “nel rispetto dei principi generali
dell’ordinamento giuridico” e “dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario”, numerosi articoli di
legge, ivi compresi quelli previsti dal Codice dei contratti
pubblici (articoli 90 e seguenti del D.Lgs. 163/2006) in
materia di progettazione interna ed esterna, procedure di
affidamento, corrispettivi ed incentivi per la progettazione
e livelli della progettazione.
L’art. 2, co. 1, dell’O.P.C.M. 3862/2010
precisa inoltre che, per l’attuazione degli interventi
previsti, “ove non sia possibile l’utilizzazione delle
strutture pubbliche”, è consentito affidare la
progettazione anche a liberi professionisti esterni
avvalendosi, “ove necessario”, delle deroghe previste
dall’art. 3 dell’O.P.C.M. 3741/2009.
Alla luce del descritto quadro normativo, nell’intera
procedura in esame (e quindi non solo con riferimento ad un
eventuale incarico esterno di progettazione), è necessario
pertanto non solo ottemperare al generale obbligo di
motivazione degli atti ma anche fornire una “specifica
motivazione” per potersi avvalere delle deroghe previste
appositamente per lo stato di emergenza.
La possibilità di avvalersi delle deroghe previste è inoltre
sottoposta a vari limiti e condizioni. In assenza di una
specifica motivazione e in assenza delle condizioni
stabilite, per gli interventi previsti dall’O.P.C.M. n.
3862/2010, non può che trovare spazio l’applicazione della
normativa ordinaria.
Quindi, al generale obbligo, a pena di illegittimità, di
enunciare l’iter logico-giuridico seguito dalla
Amministrazione nella emanazione dell’atto, si affianca la
necessità di fornire puntuali indicazioni in ordine alle
ragioni che inducono la stessa Amministrazione procedente ad
avvalersi delle deroghe previste dalla normativa di
emergenza.
Anche con riferimento alla “specifica motivazione”
richiesta per la deroga alla normativa ordinaria,
l’Amministrazione è tenuta a procedere ad un adeguato
bilanciamento dei vari interessi coinvolti di cui dovrà
essere fornito puntuale riscontro nell’atto.
* * * * *
3. Con l’ordinanza in esame, il Commissario delegato
provvede alla approvazione di un unico progetto “definitivo-esecutivo”.
Tale progetto definitivo-esecutivo risulta già approvato dal
Comune di Catanzaro (Soggetto attuatore) con deliberazione
del Commissario straordinario n. 46 del 28.12.2012.
In tale deliberazione comunale la fusione della
progettazione definitiva con la progettazione esecutiva
viene motivata con “il ritardo accumulato” e “la
necessità di eseguire i lavori previsti nel progetto
medesimo che risultano essere urgenti ed indifferibili”.
Non vengono però fornite motivazioni (né nella ordinanza in
esame, né nella deliberazione comunale indicata) in ordine
alle responsabilità per il cospicuo ritardo accumulato,
responsabilità particolarmente gravi tenendo conto che si
tratta (come in varie occasioni attestato sia dal soggetto
attuatore che dal Commissario delegato) di lavori “urgenti
ed indifferibili” e che, al momento della approvazione
della progettazione con la deliberazione comunale indicata
(n. 46/2012), sono trascorsi quasi tre anni dagli eventi
atmosferici che hanno originato lo stato di emergenza alla
base dei lavori stessi.
Ai sensi della vigente normativa, il
progetto definitivo e il progetto esecutivo di un’opera
pubblica vengono redatti e approvati sulla base di un
progetto preliminare.
Il progetto preliminare dell’opera, approvato dal Comune di
Catanzaro con delibera del Commissario straordinario n. 89
dell'08.03.2012 (atto non trasmesso), non risulta mai
approvato dal Commissario delegato e non risulta mai
sottoposto al controllo preventivo di legittimità di questa
Sezione regionale di controllo ai sensi della legge 10/2011.
In sostanza quindi, il progetto definitivo-esecutivo de
quo risulta approvato dal Commissario delegato senza
aver previamente approvato il relativo progetto preliminare
e comunque sulla base di un progetto preliminare inefficace.
Il progetto definitivo-esecutivo approvato con l’ordinanza
in esame inoltre non risulta trasmesso a questa Sezione. Non
risultano infine acquisiti o comunque considerati nella
motivazione dell’atto in esame i pareri richiesti a Regione
Calabria, Provincia di Catanzaro e Autorità di Bacino per
quanto di rispettiva competenza.
Il legislatore assegna alla progettazione
un ruolo centrale per l’esecuzione di un’opera pubblica.
L’art. 93 del D.Lgs. 163/2006 stabilisce che la
progettazione dei lavori pubblici si articola, secondo tre
livelli di successivi approfondimenti tecnici, in
preliminare, definitiva ed esecutiva, all’espresso fine di
assicurare la qualità dell’opera e la rispondenza alle
finalità relative, la conformità alle norme ambientali ed
urbanistiche e il soddisfacimento dei requisiti essenziali
definiti dal quadro normativo nazionale e comunitario.
Secondo un costante orientamento interpretativo (ex
plurimis, Consiglio di Stato, sez. IV, 10.09.2011, n.
5502; A.V.C.P., deliberazione n. 109 del 05.04.2007),
una Amministrazione può procedere motivatamente alla
adozione unitaria del progetto definitivo e del progetto
esecutivo solo quando l’intervento concerne un’opera di
relative dimensioni o di modesta complessità tecnica. La
scelta del RUP di unificare più livelli progettuali deve
essere sempre sorretta da una adeguata motivazione
(ex plurimis, A.V.C.P., deliberazione n. 62 del
22.06.2011). Inoltre, ogni fase della
attività di progettazione presuppone che sia esaurita la
precedente in un contesto logico e temporale
progressivamente ben cadenzato
(A.V.C.P., deliberazione n. 30 del 08.04.2009).
Come già riferito precedentemente, l’art. 1, co. 11, dell’O.P.C.M.
n. 3862/2010 prevede che, per gli interventi previsti dalla
stessa ordinanza, il Commissario delegato e i soggetti
attuatori si avvalgono delle deroghe previste dall’art. 3
dell’O.P.C.M. n. 3741/2009. L’art. 3 citato prevede, “ove
ritenuto indispensabile e sulla base di specifica
motivazione”, l’autorizzazione a derogare, “nel
rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico”
e “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”,
numerosi articoli di legge, ivi compresi quelli previsti dal
Codice dei contratti pubblici (articoli 90 e seguenti del
D.Lgs. 163/2006) in materia di progettazione interna ed
esterna, procedure di affidamento, corrispettivi ed
incentivi per la progettazione e livelli della
progettazione. Tra gli articoli oggetto di deroga alle
condizioni indicate vi è anche il citato art. 93 riguardante
i livelli di progettazione.
Considerate le esplicite finalità perseguite dal legislatore
nel prevedere tre livelli successivi di progettazione (art.
93 del D.Lgs. 163/2006), le motivazioni addotte dal Soggetto
attuatore nella approvazione del progetto in argomento,
l’assenza di “specifiche” motivazioni nell’atto di
approvazione del progetto unitario del Commissario delegato
e le citate condizioni previste dall’art. 3 dell’O.P.C.M.
3741/2009 per poter derogare alla ordinaria normativa,
l’approvazione di un unico progetto definitivo-esecutivo non
risulta conforme al vigente ordinamento.
Le motivazioni addotte dal Soggetto attuatore, evidentemente
condivise anche dal Commissario delegato che ha proceduto
alla menzionata approvazione congiunta, risultano basate
praticamente sulla volontà di recuperare il tempo
inutilmente e ingiustificatamente trascorso e quindi sulla
volontà di sanare in qualche modo i gravi ritardi che, a
prescindere dal contenuto e dai termini previsti dalla
convenzione con i progettisti esterni (non trasmessa), si
sono verificati nell’espletamento della procedura in
argomento.
Manca qualsiasi motivazione di carattere tecnico volta ad
avallare l’operato della Amministrazione procedente,
motivazione questa particolarmente necessaria perché
trattasi di progettazione non solo asseritamente complessa
ed articolata ma riguardante un’opera pubblica,
intrinsecamente di delicata progettazione ed esecuzione in
quanto relativa ad uno stato di emergenza e funzionale alla
tutela della incolumità pubblica. Nessuna motivazione
inoltre è stata formulata per giustificare i gravissimi
ritardi nell’espletamento della procedura in itinere la cui
gravità è accentuata dal fatto che trattasi di opere
finalizzate alla mitigazione e alla riduzione del rischio di
frane e aventi, come più volte asserito sia dal Commissario
delegato che dal Soggetto attuatore, le caratteristiche
della urgenza, della necessità e della indifferibilità.
Quindi, a parte la chiara volontà di recuperare il tempo
inutilmente perso, non è stata adeguatamente motivata la
decisione del Commissario delegato di procedere alla
approvazione congiunta del progetto definitivo ed esecutivo.
Risulta necessario evidenziare nuovamente che,
nel caso specifico, l’approvazione della
progettazione secondo successivi livelli di approfondimento
tecnico (o, in alternativa, una sufficiente dimostrazione
delle ragioni che hanno indotto alla approvazione unitaria)
risultava ancora più necessaria in considerazione del fatto
che, come dichiarato dallo stesso soggetto attuatore per
giustificare l’incarico di progettazione a liberi
professionisti esterni
(determinazione del Comune di Catanzaro n. 7046 del
22.12.2010), “la progettazione degli
interventi di che trattasi è complessa ed articolata”.
Tenendo conto dell’asserito carattere
complesso ed articolato della progettazione (e della
rilevanza dell’opera relativa sotto il profilo della
pubblica incolumità), non risultano inoltre adeguatamente
comparate le contrapposte esigenze di accelerare la
procedura in corso (essenzialmente a causa del ritardo
accumulato) e di garantire le varie e rilevanti finalità
espressamente previste dal legislatore (es. art. 93 del
D.Lgs. 163/2006) nel richiedere tre distinti e successivi
livelli progettuali. Anzi, la descritta particolare
delicatezza dell’opera esige una motivazione ancora più
accurata di quella normalmente richiesta, motivazione che
non può, a maggior ragione in casi come quello in esame,
limitarsi ad invocare esigenze di celerità o ridursi all’uso
di semplici clausole di stile.
Nel caso specifico non può inoltre essere invocata neanche
la deroga prevista dall’art. 3 dell’O.P.C.M. 3741/2009
mancando, come riportato, una “specifica”
motivazione.
A prescindere dalla sufficienza delle motivazioni addotte
dalla Amministrazione controllata per giustificare
l’approvazione congiunta del progetto definitivo ed
esecutivo, l’atto in esame risulta inficiato altresì da due
ulteriori elementi.
L’art. 2, co. 2, dell’O.P.C.M. 3862/2010 stabilisce che il
Commissario delegato procede “alla approvazione dei
progetti”. Il Commissario delegato, con l’ordinanza in
esame, ha proceduto alla approvazione del
progetto definitivo-esecutivo in argomento senza aver
proceduto alla previa approvazione del progetto preliminare.
Nessun atto di approvazione del progetto preliminare è stato
inoltre sottoposto al prescritto controllo preventivo di cui
alla legge 10/2011 di questa Sezione.
Nessuna motivazione è stata fornita in merito alla mancata
approvazione del progetto preliminare da parte del
Commissario delegato: anche le asserite esigenze di urgenza
ed indifferibilità e di recupero del ritardo accumulato sono
state indicate con riferimento alla approvazione congiunta
del progetto definitivo ed esecutivo e non con riferimento
alla mancata approvazione del progetto preliminare di cui si
ignora persino l’avvenuta acquisizione da parte del
Commissario delegato a seguito della relativa approvazione
da parte del Soggetto attuatore con deliberazione n. 89/2012
(peraltro non trasmessa a questa Sezione).
L’ordinanza in esame risulta inoltre illegittima per carenza
motivazionale. Non risultano acquisiti o comunque
considerati nella motivazione dell’atto in esame (e nella
approvazione del progetto definitivo-esecutivo da parte del
Soggetto attuatore) i pareri richiesti, dopo l’approvazione
del progetto preliminare, dal Soggetto attuatore a Regione
Calabria, Provincia di Catanzaro e Autorità di Bacino, per
quanto di rispettiva competenza. Tali pareri, se esistenti,
comunque non risultano trasmessi a questa Sezione
(Corte dei Conti, Sez. controllo Calabria,
deliberazione 28.03.2013 n. 16). |
INCARICHI PROGETTUALI: Il
previo accertamento in ordine alla regolarità
dell’affidamento dell’incarico a soggetti esterni della
progettazione in argomento risulta necessario in quanto una
eventuale illegittimità dello stesso avrebbe inevitabilmente
ripercussioni sulla legittimità del procedimento relativo
alla approvazione del progetto disposta con l’ordinanza
commissariale in esame. Tale accertamento inoltre risulta
necessario anche in considerazione del fatto che un incarico
di progettazione affidato illegittimamente a liberi
professionisti esterni in presenza di tecnici interni che
avrebbero potuto provvedere alla progettazione stessa può
determinare danno erariale.
L’art. 90, co. 6, del D.Lgs. 163/2006 stabilisce che è
possibile affidare la progettazione a liberi professionisti
in caso di carenza in organico di personale tecnico, ovvero
di difficoltà di rispettare i tempi della programmazione dei
lavori o di svolgere le funzioni di istituto, ovvero in caso
di lavori di speciale complessità o di rilevanza
architettonica o ambientale o in caso di necessità di
predisporre progetti integrali che richiedono l'apporto di
una pluralità di competenze, casi che devono essere
accertati e certificati dal responsabile del procedimento.
Tutto ciò premesso, considerato che l’affidamento
dell’incarico a progettisti esterni (contrariamente a quanto
avvenuto, con riferimento alla medesima opera, per
l’incarico al geologo) è avvenuto sostanzialmente sulla base
della sola motivazione che “è
altresì urgente ed indifferibile provvedere alla esecuzione
dei lavori” e che “la progettazione degli interventi di che
trattasi è complessa ed articolata”, senza quindi adeguati
riferimenti all’eventuale indispensabilità del conferimento
dell’incarico a soggetti esterni e, soprattutto, in assenza
di adeguati riferimenti alla eventuale carenza di
progettisti interni che avrebbero potuto redigere il
progetto in argomento lo stesso affidamento non può essere
ritenuto legittimo.
La specifica motivazione addotta nel provvedimento indicato
(urgenza ed indifferibilità di provvedere alla esecuzione
dei lavori e progettazione complessa ed articolata) non
risulta infatti da sola sufficiente a giustificare il
conferimento di un oneroso incarico di progettazione a
soggetti esterni all’Amministrazione.
2. Il progetto
approvato con l’ordinanza in esame risulta predisposto da
soggetti esterni. L’affidamento dell’incarico di
progettazione è avvenuto a seguito della determinazione del
Comune di Catanzaro (Soggetto attuatore) n. 7046 del
22.12.2010 con la quale è stata indetta “gara d’appalto”
per la redazione della intera progettazione (e della
direzione dei lavori) per un importo di euro 90.000,00
(importo complessivo di euro 110.160.00, comprensivo di
cassa e IVA) sulla base della motivazione che “è altresì
urgente ed indifferibile provvedere alla esecuzione dei
lavori” e che “la progettazione degli interventi di
che trattasi è complessa ed articolata”.
L’affidamento dell’incarico è stato effettuato con
determinazione del Comune di Catanzaro n. 1079 del
15.03.2011 (rettificata con successiva determinazione n.
3095 del 26.07.2011, non trasmessa), dopo una procedura
negoziata con invito rivolto a n. 5 professionisti il
17.01.2011 (scadenza prevista per la presentazione della
domanda 30.01.2011).
Il previo accertamento in ordine alla
regolarità dell’affidamento dell’incarico a soggetti esterni
della progettazione in argomento risulta necessario in
quanto una eventuale illegittimità dello stesso avrebbe
inevitabilmente ripercussioni sulla legittimità del
procedimento relativo alla approvazione del progetto
disposta con l’ordinanza commissariale in esame. Tale
accertamento inoltre risulta necessario anche in
considerazione del fatto che un incarico di progettazione
affidato illegittimamente a liberi professionisti esterni in
presenza di tecnici interni che avrebbero potuto provvedere
alla progettazione stessa può determinare danno erariale
(Corte dei conti, sez. giur. Toscana, 31.01.2006, n. 7).
L’art. 90, co. 6, del D.Lgs. 163/2006 stabilisce che
è possibile affidare la progettazione a liberi
professionisti in caso di carenza in organico di personale
tecnico, ovvero di difficoltà di rispettare i tempi della
programmazione dei lavori o di svolgere le funzioni di
istituto, ovvero in caso di lavori di speciale complessità o
di rilevanza architettonica o ambientale o in caso di
necessità di predisporre progetti integrali che richiedono
l'apporto di una pluralità di competenze, casi che devono
essere accertati e certificati dal responsabile del
procedimento.
Come sopra indicato, tale norma è derogabile, nel caso
specifico, per effetto dell’art. 1, co. 11, dell’O.P.C.M.
3862/2010, “ove ritenuto indispensabile e sulla base di
specifica motivazione”, “nel rispetto dei principi
generali dell’ordinamento giuridico” e “dei vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario”.
Come già specificato, l’art. 2, co. 1, dell’O.P.C.M.
3862/2010 precisa che, per l’attuazione degli interventi
previsti, “ove non sia possibile l’utilizzazione delle
strutture pubbliche”, è consentito affidare la
progettazione anche a liberi professionisti esterni
avvalendosi, “ove necessario”, delle deroghe previste
dall’art. 3 dell’O.P.C.M. 3741/2009.
Tutto ciò premesso, considerato che
l’affidamento dell’incarico a progettisti esterni
(contrariamente a quanto avvenuto, con riferimento alla
medesima opera, per l’incarico al geologo)
è avvenuto sostanzialmente sulla base della sola motivazione
(determinazione del Comune di Catanzaro n. 7046 del
22.12.2010) che “è altresì urgente ed
indifferibile provvedere alla esecuzione dei lavori” e
che “la progettazione degli interventi di che trattasi è
complessa ed articolata”, senza quindi adeguati
riferimenti all’eventuale indispensabilità del conferimento
dell’incarico a soggetti esterni e, soprattutto, in assenza
di adeguati riferimenti alla eventuale carenza di
progettisti interni che avrebbero potuto redigere il
progetto in argomento, tenendo conto di quanto disposto dal
citato art. 2, co. 1, dell’O.P.C.M. 3862/2010, lo stesso
affidamento non può essere ritenuto legittimo.
La specifica motivazione addotta nel
provvedimento indicato (urgenza ed indifferibilità di
provvedere alla esecuzione dei lavori e progettazione
complessa ed articolata) non risulta infatti da sola
sufficiente a giustificare il conferimento di un oneroso
incarico di progettazione a soggetti esterni
all’Amministrazione.
Corre l’obbligo inoltre di evidenziare che l’incarico di
progettazione esterno, pur risultando molto più oneroso di
una progettazione interna e pur essendo stato motivato con
la urgenza ed indifferibilità di provvedere alla esecuzione
dei lavori, non ha evidentemente consentito il rispetto del
cronoprogramma previsto dallo stesso Commissario delegato la
cui scansione temporale risulta ampiamente violata. Non
essendo stata trasmessa la convenzione con i progettisti
esterni non è purtroppo possibile stabilire se risultano
rispettati i tempi previsti dalla stessa per la
predisposizione della progettazione. E’ certo comunque che,
al momento della scadenza dello stato di emergenza
(28.02.2013), il cui termine peraltro è stato più volte
prorogato, l’iter di progettazione delle opere necessarie
non risulta terminato
(Corte dei Conti, Sez. controllo Calabria,
deliberazione 28.03.2013 n. 16). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Costituisce
danno erariale la liquidazione integrale dell’incentivo
quando le prestazioni progettuali sono affidate a tecnici
esterni.
4. Il quadro economico del progetto, riportato nella
delibera del Comune di Catanzaro n. 46 del 28.12.2012 e nel
parere n. 35-PS1 della Struttura tecnico-amministrativa di
supporto al Commissario delegato, prevede la voce “incentivo
Merloni 2%” per un importo di euro 19.440,00.
Presumibilmente tale voce si riferisce agli incentivi alla
progettazione previsti dall’art. 92 del D.Lgs. 163/2006 che
disciplina minuziosamente le procedure e le condizioni
necessarie per la liquidazione dell’incentivo de quo.
Lo scopo perseguito dal legislatore è evidentemente quello
di incentivare economicamente i dipendenti delle
amministrazioni pubbliche affinché eseguano l’attività di
progettazione con conseguente risparmio per le
Amministrazioni di appartenenza. L’art. 92, co. 5, del
D.Lgs. 163/2006 prevede che le quote parti dell’incentivo
corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi
dipendenti, in quanto affidate a personale esterno
all’organico della medesima amministrazione, “costituiscono
economie”.
Nel caso specifico, con riferimento alla disciplina della
ripartizione dell’incentivo indicato, il quadro economico
del progetto non può non considerare che l’attività di
progettazione (e di direzione lavori) è stata affidata a
liberi professionisti esterni. Anche se è prevista la deroga
all’art. 92 del D.Lgs. 163/2006, visto quanto disposto dal
più volte citato art. 3 dell’O.P.C.M. 3741/2009, la stessa
non risulta applicabile nel caso specifico mancando
nell’atto qualsiasi motivazione di sostegno in tal senso.
In ogni caso, una eventuale duplicazione di spesa (pagamento
delle parcelle professionali ai progettisti esterni e
corresponsione degli emolumenti di cui all’art. 92 del
D.Lgs. 163/2006) a carico della Amministrazione procedente
può determinare danno erariale.
Costituisce
infatti danno erariale la liquidazione integrale
dell’incentivo in parola quando le prestazioni progettuali
sono affidate a tecnici esterni
(Corte dei conti, sez. giur. Calabria, 28.09.2007, n. 801)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Calabria,
deliberazione 28.03.2013 n. 16). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: L’art. 1 del d.l. 95/2012 ha previsto la nullità, nonché la
rilevanza ai fini dell’illecito disciplinare e della
responsabilità ammin.va, dei contratti stipulati dalle PA in
violazione dell'art. 26, c. 3, della L. 23.12.1999, n.
488, o stipulati in violazione degli obblighi di
approvvigionarsi attraverso gli strumenti di acquisto messi
a disposizione dalla CONSIP. L’istituto trova disciplina
nell’art. 328 del d.p.r. 05.10.2010, n. 207 che abroga
il d.p.r. 04.04.2002, n. 101.
L’art. 328, c. 4, lett. b),
del Regolamento cod. app., prevede la possibilità di
acquistare beni e servizi sotto la “soglia comunitaria”
ricorrendo anche alle procedure di acquisto in economia, ex
artt. 125 e ss. D.lgs. 163/2006, entro limiti di prezzo e
quantità previsti da tali norme e nel rispetto degli autovincoli imposti dall’amministrazione medesima. La
possibilità di ricorrere alla procedura ex art. 125 cod.
contr. al di fuori di tali mercati residua solo nell’ipotesi
di non reperibilità dei beni o servizi necessitati.
Il
ricorso a un MEPA diverso da quello gestito direttamente
dalla CONSIP appare una modalità alternativa di adempimento
rispetto a un obbligo primario direttamente comminato dalla
legge e troverà applicazione per le operazioni in tal senso
concluse dagli EELL la nullità c.d. testuale o espressa
comminata dal legislatore ai sensi dell’art. 1418, comma 3,
c.c. (in tal senso sez. contr. Marche, deliberazione 29.11.2012 n. 169).
Trattasi infatti di interpretazione
estensiva, e non già analogica, utilmente applicabile quindi
anche con riguardo a fattispecie tendenzialmente tassative
quali le norme comminatorie di nullità.
---------------
Il comune di Cologno
al Serio si interroga su quali siano, alla luce della
normativa vigente, i limiti entro cui l’Amministrazione
comunale possa procedere all'approvvigionamento di beni e
servizi sul libero mercato, nel caso di reperimento di
offerte economiche e/o qualitative più vantaggiose rispetto
a quelle presenti nei cataloghi, o a seguito di pubblica
consultazione, nell’ambito del mercato elettronico delle
p.a. (MEPA).
Il comune istante richiede inoltre chiarimenti sulle
conseguenze derivanti dalla violazione dell'art. 1, comma
450, della legge 27.12.2006, n. 296, come novellato
dall'art. 7, comma 2, del decreto legge 07.05.2012, n. 52,
convertito dalla legge 06.07.2012, n. 94 e dall'art. 1,
comma 149, della legge 24.12.2012, n. 228, che prevede che "fermi
restando gli obblighi e le facoltà previsti al comma 449 del
presente articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui
all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165,
per gli acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla
soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al
mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad
altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo
articolo 328 ovvero al sistema telematico messo a
disposizione dalla centrale regionale di riferimento per lo
svolgimento delle relative procedure".
In particolare, è richiesto se la sanzione prevista
dall’art. 1, comma 1, del d.l. 06.07.2012, n. 95, convertito
nella l. 07.08.2012, n. 135 per la violazione degli obblighi
previsti per il mancato ricorso agli strumenti di acquisto
messi a disposizione dalla Concessionaria servizi
informatici pubblici s.p.a. (CONSIP) sia riferibile anche al
mercato elettronico di cui alla normativa illustrata;
inoltre, si intende conoscere l’avviso della Sezione
anche sull’applicabilità della deroga prevista dall'ultimo
periodo del comma 1 di tale articolo, secondo cui “La
disposizione del primo periodo del presente comma non si
applica alle Amministrazioni dello Stato quando il contratto
sia stato stipulato ad un prezzo più basso di quello
derivante dal rispetto dei parametri di qualità e di prezzo
degli strumenti di acquisto messi a disposizione da CONSIP
s.p.a., ed a condizione che tra l'amministrazione
interessata e l'impresa non siano insorte contestazioni
sulla esecuzione di eventuali contratti stipulati in
precedenza”.
...
L’art. 1 del d.l. 95/2012 ha previsto la nullità, nonché la
rilevanza ai fini dell’illecito disciplinare e della
responsabilità amministrativa, dei contratti stipulati dalle
pubbliche amministrazioni in violazione dell'articolo 26,
comma 3, della legge 23.12.1999, n. 488, ovvero di quelli
stipulati in violazione degli obblighi di approvvigionarsi
attraverso gli strumenti di acquisto messi a disposizione
dalla CONSIP.
Per quanto concerne il MEPA, occorre rammentare che, giusta
l’obbligo di ricorso come descritto, ai sensi dell’art. 1,
comma 450, della l. 296/2006 per gli acquisti sotto la “soglia
comunitaria” il ricorso ai mercati elettronici è stato
reso obbligatorio:
i) a decorrere dal 01.07.2007, per le amministrazioni
statali, centrali e periferiche, ad esclusione degli
istituti e delle scuole di ogni ordine e grado, delle
istituzioni educative e delle istituzioni universitarie;
ii) a decorrere dal 09.05.2012, per le tutte le
amministrazioni come definite ai sensi dell’art. 1, d.lgs
30.03.2001, n. 165, ivi compresi, conseguentemente, gli enti
locali. Quest’ultimo obbligo e la sua decorrenza, in realtà,
sono il frutto della recente novellazione della norma
citata, effettuata dal d.l. 07.05.2012, n. 52 (art. 7, comma
2) convertito con modificazioni dalla l. 06.07.2012, n. 94.
L’istituto trova oggi una sua compiuta disciplina nell’art.
328 del d.p.r. 05.10.2010, n. 207 (Regolamento di esecuzione
e attuazione del codice dei contratti pubblici), che ha
abrogato il previo d.p.r. 04.04.2002, n. 101, che aveva
istituito il MEPA.
La norma ribadisce che il MEPA gestito dalla CONSIP; ovvero
il mercato elettronico creato ad hoc dalla stazione
appaltante; o quello realizzato da centrali di committenza
ai sensi dell’art. 33 del codice dei contratti pubblici,
consentono alle pubbliche amministrazioni di effettuare
l’acquisto di beni o servizi che hanno caratteristiche
generalmente disponibili sul mercato.
La costituzione del mercato elettronico passa attraverso
bandi aperti, volti ad accertare i requisiti generali e
speciali –in particolare i requisiti tecnico-professionali
ed economico-finanziari– che i fornitori devono soddisfare
per poter ottenere l’abilitazione; siffatto accertamento,
attraverso tali bandi, viene effettuato su scala generale,
risparmiando alle amministrazioni acquirenti l’onere di
dover replicare simili procedure sostenendo i relativi
costi.
Lo stesso art. 328, c. 4, lett. b), del Regolamento cod.
app., prevede la possibilità di acquistare beni e servizi
sotto la “soglia comunitaria” ricorrendo anche alle
procedure di acquisto in economia, ex artt. 125 e ss. D.lgs.
163/2006, ovviamente entro i limiti di prezzo e quantità
previsti da tali norme e nel rispetto degli autovincoli
imposti dall’amministrazione medesima.
La possibilità residua di ricorrere alla procedura ex art.
125 cod. contr. al di fuori di tali mercati residua solo
nell’ipotesi di non reperibilità dei beni o servizi
necessitati; pertanto nella fase amministrativa di
determinazione a contrarre, l’ente dovrà evidenziare le
caratteristiche tecniche necessarie del bene e della
prestazione; di avere effettuato il previo accertamento
della insussistenza degli stessi sui mercati elettronici
disponibili; e, ove necessario, la motivazione sulla non
equipollenza con altri beni o servizi presenti sui mercati
elettronici.
Peraltro, non sussiste un obbligo assoluto
di ricorso al MEPA, essendo espressamente prevista la
facoltà di scelta tra le diverse tipologie di mercato
elettronico richiamate dall’art. 328 del d.p.r. 207/2010:
segnatamente, tra il mercato elettronico realizzato dalla
medesima stazione appaltante e quello realizzato dalle
centrali di committenza di riferimento di cui all’art. 33
cod. contr., potendo inoltre ricorrere al mercato
elettronico elaborato dalla singola stazione appaltante
(le opzioni percorribili sono confermate dall’art. 33, comma
3-bis, cod. contr.)
Ne deriva che, a ben vedere, mentre il MEPA
gestito dalla CONSIP rientra appieno tra gli “strumenti
di acquisto messi a disposizione” dalla stessa, analoga
tassonomia non può essere effettuata per i mercati
elettronici curati da parte della singola stazione
appaltante ovvero ad opera della centrale di committenza.
Tuttavia, a ben vedere, il ricorso a un
MEPA diverso da quello gestito direttamente dalla CONSIP
appare una modalità alternativa di adempimento rispetto a un
obbligo primario direttamente comminato dalla legge, con la
conseguenza che troverà applicazione per le operazioni in
tal senso concluse dagli enti locali la nullità c.d.
testuale o espressa comminata dal legislatore ai sensi
dell’art. 1418, comma 3, c.c.
(in tal senso sez. contr. Marche, deliberazione 29.11.2012
n. 169).
Trattasi infatti di interpretazione estensiva, e non già
analogica, utilmente applicabile quindi anche con riguardo a
fattispecie tendenzialmente tassative quali le norme
comminatorie di nullità.
Tale conclusione non appare contraddetta dall’ultimo periodo
del comma 1, art. 1, che introduce una specifica “prova
di resistenza” per le sole Amministrazioni dello Stato,
determinando come conseguenza quella di impedire, per le
sole amministrazioni locali (rispetto a cui l’obbligo di
ricorso al MEPA gestito dalla CONSIP è indubbiamente più
lasco) il beneficio della verifica del danno.
In effetti, come si ha avuto modo di cennare, per le
Amministrazioni dello Stato detto beneficio compensa la
circostanza che la disciplina degli obblighi di
approvvigionamento sia maggiormente stringente.
Per le amministrazioni locali, invece, stante la
possibilità di ricorso a diverse forme di reperimento sui
vari MEPA, il legislatore ha limitato la possibilità di
deroga e di conseguente ricerca sul libero mercato
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 26.03.2013 n. 112). |
NEWS |
PUBBLICO IMPIEGO:
Assistenza disabili, nuovo tetto
È pari a 46.835,93 euro il tetto complessivo anno, per il
corrente 2013, dell'indennità per congedo straordinario e
per il relativo accredito figurativo.
Lo precisa l'Inps nella
circolare 19.04.2013 n. 59, rettificando i valori
precedentemente indicati nella circolare n. 47/2013 (si veda
ItaliaOggi 27.03.2013).
Il tetto, originariamente fissato nella misura di 70 milioni
delle vecchie lire, riguarda il trattamento retributivo e
contributivo del congedo straordinario per l'assistenza a
familiari con handicap. Si tratta del particolare permesso
introdotto dalla legge n. 388/2000 (Finanziaria per il 2001)
a favore dei familiari di soggetti portatori di handicap in
condizione di gravità della durata di due anni.
Il congedo straordinario dà diritto, ai lavoratori che ne
fruiscono, sia a un'indennità economica sia alla relativa
copertura figurativa dei contributi per il periodo di
congedo, ma entro un tetto massimo annuo originariamente
fissato per l'anno 2001 (euro 36.151,98) soggetto a
rivalutazione annuale in base del tasso d'inflazione Istat.
Il tetto rappresenta il limite massimo complessivo annuo
dell'onere relativo al beneficio di tutto il congedo
straordinario, che va ripartito cioè fra l'indennità
economica e l'accredito figurativo.
Nella circolare n. 59/2013, in sostituzione di quelli
indicati nella circolare n. 47/2013, l'Inps riporta i valori
validi per l'anno corrente in base alla corretta variazione
dell'indice Istat del 3% pubblicata sulla G.U. n. 43/2013
(nella circolare n. 47/2013 invece la rivalutazione aveva
considerato il tasso del 2,2%).
Il tetto massimo annuo risulta, dunque, pari a 46.835,93
euro, con un importo massimo annuo per l'indennità di
35.215,00 euro e un importo massimo giornaliero
dell'indennità di euro 96,48. La misura della retribuzione
figurativa massima di riferimento è pari alla stessa
indennità (cioè 35.215,00 euro) con valore settimanale
massimo di euro 677,21 e una retribuzione figurativa massima
giornaliera di 96,48 euro
(articolo ItaliaOggi del 20.04.2013). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Blocco
stipendi: accelerato l'iter per la proroga.
RETRIBUZIONI CONGELATE/ Il regolamento sterilizza gli
emolumenti anche nel biennio 2013-14 e blocca l'indennità di
vacanza contrattuale.
Il Consiglio di Stato accelera l'iter di approvazione del
regolamento che proroga il blocco dei contratti collettivi
del pubblico impiego.
La Sezione per gli atti normativi, con il parere
17.04.2013 n. 1832, ha dato il proprio via libera allo
schema di Dpr approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso
21 marzo.
Il Governo ha sfruttato in questo modo la delega ricevuta
con l'articolo 16, comma 1, lettere b) e c), del decreto
legge 98/2011, nella misura massima consentita, portando
alla fine del 2014 lo stop ai contratti collettivi di lavoro
dei dipendenti pubblici che era scaduto lo scorso 31
dicembre 2012.
Ma lo schema di decreto non si limita a questo. Composto da
un articolo solo, è il primo comma il piatto forte del
provvedimento. Suddiviso in quattro lettere, la prima sposta
al 2014 alcuni termini contenuti nell'articolo 9 del Dl
78/2010.
In particolare: il limite al trattamento economico
individuale, che non potrà superare quello ordinariamente
spettante nel 2010 (comma 1); le indennità corrisposte ai
responsabili degli uffici di diretta collaborazione dei
ministri, che saranno ridotte del 10%, e il tetto alle
retribuzioni dei nuovi incarichi dirigenziali di livello
generale, che non potrà superare quello del predecessore
(comma 2); il fondo per le risorse decentrate, il quale
dovrà essere inferiore all'importo del 2010 e dovrà essere
ridotto in base ai dipendenti cessati (comma 2-bis); infine,
la validità esclusivamente giuridica delle progressioni
(comma 21).
La lettera b) ha per oggetto sempre l'articolo 9 del Dl
78/2010, ma il comma 23, e somma anche l'anno 2013 al
triennio precedente in ordine alla non valutabilità, per il
personale Ata, del periodo ai fini della maturazione delle
posizioni stipendiali.
La lettera c) riguarda il personale delle amministrazione di
cui all'articolo 1, comma 2, della legge 196/2009 e, quindi,
anche le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1,
comma 2, del Dlgs 165/2001.
Per i dipendenti di tali pubbliche amministrazioni, gli anni
2013 e 2014 sono sterilizzati ai fini contrattuali. Ne
consegue che il prossimo triennio di rinnovo contrattuale
dovrebbe abbracciare l'arco temporale 2015-2017.
E nel biennio 2013-2014 cosa succede? La successiva lettera
d) impone il divieto di corrispondere l'indennità di vacanza
contrattuale, che doveva partire dal mese di aprile di
quest'anno. Ciò expressis verbis in deroga
all'articolo 47-bis del Dlgs 165/2001. In mezzo a questo
blocco generalizzato delle retribuzioni fino al 2014, il
legislatore ha "acconsentito" alla conservazione
della misura dell'indennità di vacanza contrattuale
corrisposta per effetto del comma 17 dell'articolo 9 del Dl
78/2010 a partire dal mese di aprile 2010.
A questo punto viene quasi da sorridere leggendo che il
Governo si preoccupi di fissare, sin d'ora, le regole per il
calcolo dell'indennità di vacanza contrattuale eventualmente
da corrispondere a partire dal 2015, conservando, in
pratica, gli attuali modi di calcolo e tempi di decorrenza.
L'esperienza, purtroppo, insegna che due anni sono lunghi e
le regole possono essere mutate innumerevoli volte
(articolo
Il Sole 24 Ore del 20.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Anticorruzione.
In «Gazzetta» il decreto legislativo che attua la legge
190/2012 - Bloccati gli ex politici.
Stop ai dirigenti condannati. Divieto di cinque anni anche
con sentenza non definitiva per reati contro la Pa.
Stop di cinque anni agli incarichi
dirigenziali per i condannati per reati alla Pubblica
amministrazione, anche con sentenza di primo grado, e blocco
definitivo se la condanna è per corruzione, concussione o
peculato. Nuovo tentativo di chiusura delle porte girevoli
fra politica e amministrazione, con l'impossibilità di
aspirare a un posto da dirigente in Regione o in un ente
locale con più di 15mila abitanti (comprese le Unioni di
Comuni) se negli ultimi due anni si è fatto parte della
Giunta o del consiglio regionale o nell'ultimo anno si è
stati sindaci, presidenti, assessori o consiglieri in un
ente locale all'interno della stessa Regione.
Con il Dlgs 39/2013 pubblicato ieri sulla «Gazzetta
Ufficiale» viene data un'attuazione, rigida nelle
intenzioni, alle norme sull'incompatibilità e l'inconferibilità
degli incarichi dirigenziali introdotte dall'articolo 1,
commi 49 e 50, della legge «anticorruzione» (legge
190/2012). Regioni, Province e Comuni hanno tre mesi di
tempo per adeguare i propri ordinamenti, dopo di che
interviene lo Stato con potere sostitutivo.
La griglia delle incompatibilità si estende anche alle
aziende sanitarie, che non potranno ospitare ex politici
nelle proprie caselle di vertice (direttore generale,
direttore sanitario e direttore amministrativo). L'inconferibilità
è biennale per chi ha fatto il premier, il ministro o il
sottosegretario alla sanità, solo annuale nel caso degli ex
parlamentari e triennale per chi ha operato come politico in
Regione o ha amministrato un ente pubblico di livello
regionale: il semaforo rosso si accende per due anni anche
per chi si è seduto in una Giunta o in un consiglio
all'interno di un ente locale con più di 15mila abitanti.
Sul versante delle condanne, in linea con la parte della
legge «anticorruzione» che conferiva la delega al Governo, è
sufficiente come accennato una sentenza di primo grado per
chiudere all'interessato le porte di un vertice
amministrativo, per cinque anni nei casi di reati contro la
Pubblica amministrazione e per sempre se il reato è quello
di corruzione, concussione o peculato. Naturalmente, quando
la sentenza non è definitiva può essere ribaltata nei
successivi gradi di giudizio, con la conseguenza di far
decadere anche l'inconferibilità.
Oltre a regolare il traffico degli incarichi, che oltre agli
ex politici diretti alla dirigenza si interessa anche delle
evoluzioni in senso opposto, il Dlgs si preoccupa ovviamente
anche di indicare le verifiche e le sanzioni per chi viola
le nuove regole. Sul primo versante, il decreto introduce un
doppio sistema di controlli, interni ed esterni. La
vigilanza interna spetta al responsabile anti-corruzione,
che contesta il problema all'interessato e segnala i casi di
possibile violazione a tre controllori esterni: l'Autorità
nazionale anti-corruzione (a cui va girato anche il
provvedimento di revoca), l'Antitrust e la Corte dei conti,
perché si verifichino anche le eventuali responsabilità
amministrative.
Chi ha conferito l'incarico poi annullato per l'inconferibilità,
infatti, sarà chiamato a rispondere delle «conseguenze
economiche» degli atti adottati, e per tre mesi non può
più procedere agli affidamenti degli incarichi di propria
competenza.
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I punti chiave
01 | CONDANNE
Stop per cinque anni agli incarichi di vertice a chi ha
subito una condanna anche non definitiva per reati contro la
Pa. Lo stop è definitivo se la condanna è per corruzione,
concussione o peculato
02 | INCOMPATIBILITÀ
Non possono accedere temporaneamente a incarichi
dirigenziali gli ex politici nazionali o locali, con diverse
gradazioni a seconda della carica di provenienza
03 | SANZIONI
Chi conferisce incarichi illegittimi risponde delle
conseguenze economiche
(articolo
Il Sole 24 Ore del 20.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambiente.
Verifica dei dati a partire dal 30 aprile. Il Sistri prova a
ripartire dai rifiuti pericolosi.
I TEMPI/ La prima scadenza per l'uso dei dispositivi
elettronici è fissata al 1° ottobre mentre l'entrata a
regime avverrà dal 03.03.2014.
Sulla «Gazzetta ufficiale» di ieri è stato pubblicato il
decreto che stabilisce la ripartenza del Sistri. O, meglio
la partenza, perché il sistema per la tracciabilità
elettronica dei rifiuti non è ancora mai partito.
Il Dm era stato annunciato qualche giorno fa dal ministro
dell'Ambiente Corrado Clini (e anticipato dal Sole 24 ore
del 22 marzo) e pone fine alla sospensione del sistema
disposta dall'articolo 52 del Dl 83/2012. Inoltre, opera una
serie di interventi tra i quali la sospensione del
contributo Sistri dovuto per il 2013 per gli enti e imprese
già iscritti al 30.04.2013.
In base al nuovo Dm una serie di imprese che producono e
gestiscono rifiuti pericolosi dovranno impegnarsi nella
prima fase di riallineamento; cioè, verificare l'attualità
dei dati già trasmessi al Sistri anche in ordine alle
vicende societarie che eventualmente hanno investito le
singole aziende. Il riallineamento riguarda i seguenti
soggetti: produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi
con oltre dieci dipendenti e (a prescindere dai dipendenti)
purché operino su rifiuti pericolosi: raccoglitori,
trasportatori, recuperatori, smaltitori, commercianti e
intermediari, terminalisti e imprese portuali, operatori
della logistica ferroviaria? Il tutto a cominciare dal
prossimo 30 aprile fino al successivo 30 settembre in modo
da essere pronti a partire con l'uso dei dispositivi
informatici (chiavette Usb e black boxes) dall'01.10.2013.
La seconda fase riguarderà gli altri soggetti obbligati che
verificheranno le singole posizioni fra il 30.09.2013 e il
28.02.2014, per essere operativi dal 03.03.2014. Tuttavia, a
livello volontario, anche loro potranno iniziare a
utilizzare i dispositivi Sistri dal 01.10.2013. Per un mese
dopo le singole scadenze di avvio, il Dm pretende il regime
del "doppio binario" per tutti gli obbligati al
Sistri imponendo loro la tenuta e la conservazione dei
tradizionali registri e formulari per i 30 giorni successivi
alle diverse date di operatività del Sistri.
Da quelle date usciranno dal limbo, prendendo vita, una
serie di articoli del Codice ambientale introdotti dal Dlgs
205/2010 e non ancora in vigore. L'emanazione del Dm non
sopisce però (anzi, ricorda) tutti i problemi che ancora
sono sul tappeto; tuttavia, il preambolo del provvedimento
non sottolinea che per rendere efficace l'operatività del
Sistri, fin dalla prima fase di riallineamento, occorre
approfondire e individuare necessarie misure di
semplificazione, con particolare riguardo all'anagrafica e
alle modalità di trasmissione dei dati.
Questo preambolo rassicura sulla necessità di formare gli
addetti e sulla partecipazione attiva delle imprese, che si
realizzerà anche attraverso il rinnovamento del Comitato di
vigilanza e controllo. Il nuovo calendario dettato dal
ministro Clini da il tempo per superare i numerosi problemi
che affliggono il Sistri e dilata i termini più immediati;
ma, affida tutto al fattore tempo e, per il momento, non
risolve nulla di quella macchina così complicata e costosa
che il Sistri non ha mai cessato di essere, primo tra tutti
il problema della interoperabilità
(articolo
Il Sole 24 Ore del 20.04.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Non va pubblicato l'elenco degli incarichi conferiti agli
statali da privati.
Niente pubblicazione sui portali per gli incarichi conferiti
a dipendenti pubblici da privati, se ricompresi nell'elenco
contenuto nell'articolo 53, comma 6, del dlgs 165/2001.
Molte amministrazioni stanno dando un'interpretazione
parecchio estensiva dell'articolo 18 del dlgs 33/2013, ai
sensi del quale «le pubbliche amministrazioni pubblicano
l'elenco degli incarichi conferiti o autorizzati a ciascuno
dei propri dipendenti, con l'indicazione della durata e del
compenso spettante per ogni incarico».
La norma è chiaramente riferita alla disciplina delle
autorizzazioni allo svolgimento di incarichi da parte di
dipendenti pubblici, contenuta nell'articolo 53 dlgs
165/2001. L'articolo 18 del dlgs 33/2013, allo scopo di
apprestare una salvaguardia contro potenziali abusi, impone
anche un ampio regime di pubblicità, così da permettere il
controllo «diffuso» sull'attività delle amministrazioni,
previsto dall'articolo 1 del medesimo decreto. La norma,
tuttavia, è da considerare pienamente operativa solo per le
ipotesi di incarichi soggetti, appunto, al regime di
autorizzazione e cioè tutti quelli conferiti o autorizzati
dalle amministrazioni pubbliche, non rientranti nei doveri
d'ufficio.
Scopo dell'articolo 18 è consentire un controllo incrociato.
L'amministrazione che autorizza deve pubblicare appunto gli
incarichi autorizzati; l'amministrazione che incarica, a sua
volta deve pubblicare il conferimento. La piena operatività
della norma viene, però, a mancare laddove l'incarico sia
assegnato a un dipendente pubblico da parte di un soggetto
privato e rientri tra quelli che, ai sensi del comma 6,
dell'articolo 53 del Testo unico sul lavoro pubblico non
sono soggetti ad autorizzazione.
Si tratta della
collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili;
dell'utilizzazione economica di opere dell'ingegno e di
invenzioni industriali; della partecipazione a convegni e
seminari; di incarichi per i quali è corrisposto solo il
rimborso delle spese documentate; di incarichi svolti in
posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo; da
incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a
dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non
retribuita; attività di formazione diretta ai dipendenti
della pubblica amministrazione.
In questo caso, nessuna pubblicazione è prevista. Non per il
soggetto privato che incarica, ovviamente non tenuto ad
applicare le previsioni del dlgs 33/2013, riferito
esclusivamente alle amministrazioni pubbliche. Ma nessuna
pubblicazione deve compiere nemmeno l'ente col quale il
dipendente incaricato conduce il rapporto di lavoro, visto
che si tratta, come rilevato prima, di incarichi per i quali
non è prevista autorizzazione alcuna: poiché l'articolo 18
del decreto sulla trasparenza impone di pubblicare gli
incarichi conferiti da una pubblica amministrazione o
autorizzati, sempre da una pubblica amministrazione, nel
caso di specie nessuna pubblicazione deve essere effettuata
(articolo ItaliaOggi del 19.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Il sindaco che corre per il parlamento deve
dimettersi dalla carica.
Candidature differite. Accettazione dalla presentazione
delle liste.
Il sindaco di un comune ha rassegnato le dimissioni dalla
carica al fine di poter partecipare alle elezioni politiche,
ai sensi dell'art. 1, comma 1, lett. d) del dl 18.12.2012, n. 223. L'accettazione della candidatura da parte del
primo cittadino in data antecedente a quella in cui le
dimissioni rassegnate dallo stesso diventino irrevocabili,
ne comporta la decadenza ai sensi dell'art. 62 del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267?
Le dichiarazioni di accettazione delle singole candidature,
ai sensi dell'art. 20 del dpr 30.03.1957, n. 361, per
l'elezione della camera dei deputati e dell'art. 9 del dlgs
20.12.1993, n. 533, per l'elezione del senato della
repubblica, devono essere presentate, unitamente ai
certificati di iscrizione elettorale dei candidati, a
corredo della documentazione concernente la presentazione,
da parte dei partiti e gruppi politici, delle liste dei
candidati stessi, rispettivamente, dalle ore 8 del 35°
giorno alle ore 20 del 34° giorno antecedenti quello della
votazione e dalle ore 8 del trentacinquesimo giorno alle ore
20 del trentaquattresimo giorno antecedente quello della
votazione.
Solo nel giorno stesso di presentazione della
lista di candidati, può ritenersi che le dichiarazioni di
accettazione delle candidature possano assumere giuridica
rilevanza ed efficacia, in quanto, prima di quel momento,
l'accettazione della candidatura rimane nella disponibilità
della forza politica che l'ha raccolta e che, ovviamente,
può desistere dal formalizzare la propria partecipazione
alla competizione o può anche ritenere di modificare i
componenti della propria lista.
Nel caso di specie, a
decorrere dal giorno successivo a quello in cui le
dimissioni dalla carica di sindaco, se non revocate, si
saranno perfezionate, dovrà essere avviata la procedura di
scioglimento del consiglio comunale ai sensi dell'art. 141,
comma lett. b), n. 2, del decreto legislativo 18.08.2000,
n. 267
(articolo ItaliaOggi del 19.04.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Incompatibilità.
È causa di incompatibilità, ex art. 63, comma 2, n. 4, del
dlgs n. 267/2000, la posizione di un sindaco che è socio di
una società di capitali che ha, nei confronti dell'ente
locale, una lite pendente in materia tributaria?
L'art. 63, comma 1, n. 4, del decreto legislativo 267/2000
stabilisce che non può ricoprire la carica di sindaco,
presidente della provincia, consigliere comunale,
provinciale o circoscrizionale colui che ha lite pendente in
quanto parte di un procedimento civile od amministrativo,
rispettivamente con il comune o la provincia.
Premesso che la pendenza di una lite in materia tributaria,
stante la norma di cui al citato art. 63, non determina
incompatibilità, si soggiunge che la Corte di cassazione,
con giurisprudenza costante, ha evidenziato che per la
sussistenza della causa di limitazione all'espletamento del
mandato elettivo è necessario far riferimento al concetto
tecnico di parte in senso processuale.
Le parti del processo, anche in assenza di una espressa
definizione legislativa, sono univocamente individuate, in
dottrina e in giurisprudenza, in quei soggetti i quali, a
seguito del compimento di determinati atti processuali
(proposizione della domanda, costituzione nel processo),
assumono la qualità e la conseguente titolarità di una serie
di poteri e facoltà processuali.
La Suprema corte ha precisato che il concetto di «parte» del
giudizio ha portata essenzialmente processuale e non è
quindi riferibile alla diversa figura del «soggetto
interessato all'esito della lite per le ricadute
patrimoniali che possano derivargliene».
Tale concetto non può essere esteso a tutti coloro che
potrebbero trarre vantaggio da una pronuncia
giurisdizionale, in quanto si aprirebbe il varco ad una
compressione ingiustificata del diritto costituzionalmente
garantito di ricoprire una carica amministrativa.
Tale orientamento, volto a salvaguardare il più generale
principio della tassatività delle ipotesi di ineleggibilità
ed incompatibilità, è confermato dalla giurisprudenza della
Suprema corte (Cass. civ. sez. I, 19/05/2001, n. 6880; Corte
Cost., sent 240/2008).
Pertanto, nella fattispecie rappresentata, non sussiste la
causa d'incompatibilità prevista dall'art. 63, comma 1, n. 4
del decreto legislativo 267/2000
(articolo ItaliaOggi del 19.04.2013). |
ENTI
LOCALI: Sanzioni
impugnabili al Tar.
È competente il Tar Lazio sui ricorsi presentati contro il
patto di stabilità. Spetta infatti al Tar Lazio conoscere
del ricorso proposto da un comune avverso il provvedimento
con cui il ministero dell'interno irroga le sanzioni per
violazione degli obblighi derivanti dal cosiddetto «patto di
stabilità interno».
Questo è quanto afferma il Consiglio di
stato nell'adunanza plenaria con
ordinanza 02.04.2013 n. 6.
Il
comune di Messina ha impugnato dinanzi alla sezione di
Catania del Tar della Sicilia il decreto del dipartimento
per gli affari interni e territoriali del ministero
dell'interno del 26.07.2012, con il quale sono state
irrogate le sanzioni di cui all'art. 7 del dlgs 06.09.2011, n. 149, ai comuni inadempienti agli obblighi
rivenienti dal patto di stabilità relativo all'anno 2011. Il
Tar della Sicilia, ritenuta la propria giurisdizione e
competenza, ha accolto l'istanza incidentale di sospensiva
formulata dal comune ricorrente.
Avverso detta ordinanza
insorgono i ministeri dell'interno e dell'economia e delle
finanze sostenendo che fosse competente il Tar Lazio.
Secondo i giudici di Palazzo Spada è competente il Tar Lazio
a conoscere del ricorso proposto dal comune di Messina in
quanto il medesimo atto determina effetti diretti sia sul
complessivo equilibrio finanziario dello stato che sulle
finanze dei comuni.
I giudici ricordano come la stessa
esistenza del patto di stabilità interno deriva dagli
impegni che lo stato italiano ha assunto in sede europea per
la riduzione e il contenimento del debito pubblico. Impegni
la cui violazione espone a sua volta l'Italia a conseguenze
e sanzioni sul piano comunitario indipendentemente dall'ascrivibilità
della violazione stessa alle regioni o ad altre
articolazioni territoriali interne. Al rispetto di tale
impegno comunitario sono chiamati a concorrere anche le
regioni e gli enti locali
(articolo ItaliaOggi del 18.04.2013). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
E' senz’altro vero che
ogni titolo edilizio ampiamente inteso esiste salvi i
diritti dei terzi, e quindi è non automaticamente
illegittimo allorquando contrasti con gli stessi in cui
assentisca una costruzione a distanza inferiore alla legale;
la conclusione però cambia quando l’ente competente a
provvedere di tale contrasto sia a conoscenza: in tal caso,
il titolo diventa illegittimo, e soggetto a interventi in
senso ampio repressivi.
Ancòra una volta, ciò va ritenuto senz’altro ritenendo che
la d.i.a. integrasse un atto abilitativo tacito, ma rimane
valido anche aderendo alla citata tesi della d.i.a. come
atto privato espressa da C.d.S. a.p. 15/2011 con riguardo
alle norme vigenti all’epoca dei fatti: in linea generale,
il Comune è comunque abilitato a intervenire a fronte di
atti privati che si concretino in una costruzione abusiva.
Ciò posto, alla fattispecie si adatta
l’insegnamento di TAR Liguria 11.07.2007 n. 1376.
In
termini generali, è senz’altro vero che ogni titolo edilizio
ampiamente inteso esiste salvi i diritti dei terzi, e quindi
è non automaticamente illegittimo allorquando contrasti con
gli stessi, come nel caso di rilievo, in cui assentisca una
costruzione a distanza inferiore alla legale; la conclusione
però cambia quando l’ente competente a provvedere di tale
contrasto sia, come nella specie, a conoscenza: in tal caso,
il titolo diventa illegittimo, e soggetto a interventi in
senso ampio repressivi.
Ancòra una volta, ciò va ritenuto
senz’altro ritenendo che la d.i.a. integrasse un atto
abilitativo tacito, ma rimane valido anche aderendo alla
citata tesi della d.i.a. come atto privato espressa da
C.d.S. a.p. 15/2011 con riguardo alle norme vigenti
all’epoca dei fatti: in linea generale, il Comune è comunque
abilitato a intervenire a fronte di atti privati che si
concretino in una costruzione abusiva (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 19.04.2013 n. 385 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’obbligo di invio del preavviso di diniego di
cui all’art. 10-bis l. 07.08.1990 n. 241 non va visto in
senso formalistico, e quindi, ove non rispettato, non
rileva, se non si dimostra che nel caso concreto il
possibile destinatario avrebbe potuto rappresentare elementi
tali da orientare l’amministrazione in senso difforme.
Il ricorso, peraltro, è infondato nel
merito.
Di esso è infondato il primo motivo, atteso che, per
costante giurisprudenza, per tutte C.d.S. sez. V 03.05.2012 n. 2548, l’obbligo di invio del preavviso di diniego di
cui all’art. 10-bis l. 07.08.1990 n. 241 non va visto in
senso formalistico, e quindi, ove non rispettato, non
rileva, se non si dimostra che nel caso concreto il
possibile destinatario avrebbe potuto rappresentare elementi
tali da orientare l’amministrazione in senso difforme (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 19.04.2013 n. 384 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di balconi da un lato
modifica la fruizione di un edificio, dall’altro ne
altera facciata e prospetto, sì che necessariamente richiede
il permesso di costruire, e in mancanza di esso è sanzionata
con la demolizione per cui è causa, ai sensi dell’art. 31
T.U. 380/2001.
I residui motivi vanno esaminati congiuntamente perché
connessi, e risultano a loro volta infondati.
Come infatti
ritenuto dalla giurisprudenza, esattamente in termini da TAR
Piemonte sez. I 09.11.2012 n. 1181 e da TAR Campania
Napoli sez. IV 28.10.2011 n. 5052, la realizzazione di
balconi da un lato modifica la fruizione di un edificio,
dall’altro ne altera facciata e prospetto, sì che
necessariamente richiede il permesso di costruire, e in
mancanza di esso è sanzionata con la demolizione per cui è
causa, ai sensi dell’art. 31 T.U. 380/2001 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 19.04.2013 n. 384 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
La prima questione da
affrontare è il rapporto tra le opere in cemento armato e le
tipologie di progettazioni rientranti nella sfera di
competenza professionale dei geometri.
Il punto di partenza ineludibile è la disposizione che
impone ai geometri di astenersi dalla progettazione e dalla
direzione lavori aventi ad oggetto opere in cemento armato,
con la sola eccezione delle piccole costruzioni accessorie
in zona agricola. Secondo un’interpretazione letterale le
costruzioni civili in ambito non agricolo che comportino
l’uso di cemento armato sarebbero sempre escluse dalla
competenza dei geometri, anche quando si mantengano nei
limiti delle modeste costruzioni.
La rigidità dell’interpretazione letterale è però attenuata
dalla prassi di suddividere la progettazione e la direzione
lavori in due segmenti, uno riferito alle opere in cemento
armato e uno incentrato sugli aspetti architettonici. Questa
soluzione si muove lungo un confine incerto, e potrebbe
facilmente prestarsi a comportamenti elusivi della norma.
Sono considerati comportamenti elusivi la controfirma o il
visto del progetto da parte di un ingegnere o architetto e
l’affidamento a questi ultimi dei calcoli relativi al
cemento armato.
Tuttavia, se lo scorporo delle attività professionali
riguardanti il cemento armato è effettivo e non simulato, e
ciascun professionista (geometra da un lato, architetto o
ingegnere dall’altro) riceve dal committente un incarico
rientrante nel rispettivo ambito professionale assumendosi
una responsabilità piena circa il contenuto della propria
prestazione, con il solo vincolo di coordinarsi con gli
altri professionisti dato il carattere unitario
dell’edificazione, si apre la via verso una soluzione
ragionevole consentita dall’art. 16 del RD 274/1929. In una
simile prospettiva è infatti possibile trovare un punto di
equilibrio tra la parte della norma che esclude il cemento
armato dalla competenza professionale dei geometri in
relazione alle costruzioni civili (lett. l) e quella che
estende ai geometri la progettazione e la direzione lavori
con riferimento alle costruzioni civili di modesta
importanza (lett. m).
Poiché anche le costruzioni civili di modesta importanza
possono richiedere l’impiego di cemento armato, non sarebbe
corretto interdire in questi casi ai geometri una porzione
rilevante della loro competenza professionale, quando sia
invece possibile scorporare in modo chiaro ed effettivo
dalla progettazione e dalla direzione lavori tutta
l’attività riferibile al cemento armato, che richiede
calcoli complessi. Lo scorporo appare la soluzione
preferibile anche alla luce del principio di proporzionalità
(non devono essere inflitte alla competenza professionale
dei geometri limitazioni maggiori di quelle strettamente
necessarie a garantire la sicurezza delle persone e degli
edifici).
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Occorre poi sottolineare che in ogni caso l’eventuale
superamento del confine tra le competenze dei diversi ordini
professionali rileva sul piano privatistico come causa di
nullità dell’incarico professionale ma non su quello
pubblicistico come vizio del permesso di costruire. Affinché
il titolo edilizio sia legittimo è sufficiente da un lato
che i calcoli del cemento armato siano effettuati da un
ingegnere o architetto, e dall’altro che il progetto redatto
dal geometra (o in relazione al quale il geometra svolga la
direzione lavori) non oltrepassi la tipologia delle modeste
costruzioni civili.
In altri termini, quando i calcoli provengano da un
ingegnere o architetto si può presumere che sussistano
adeguate garanzie per la sicurezza delle persone e degli
edifici. Di conseguenza l’interesse pubblico è pienamente
tutelato e non si oppone alla realizzazione della
costruzione, il che consente agli uffici comunali di
limitarsi a verificare se l’opera sia effettivamente una
modesta costruzione civile, tralasciando valutazioni di tipo
privatistico sull’esistenza o meno di un valido incarico
professionale tra il committente e il geometra.
Quando il titolo edilizio risulti legittimo nel senso appena
chiarito, non vi sono ragioni per impedire il collaudo delle
opere in cemento armato che compongono la costruzione
assentita.
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Gli ordini e i collegi professionali hanno interesse e
legittimazione a tutelare le prerogative delle rispettive
categorie di professionisti, tanto in sede giurisdizionale
quanto davanti all’autorità amministrativa, ma non possono
utilizzare le procedure amministrative previste ad altri
fini per ostacolare o sanzionare i professionisti della
categoria concorrente che effettuano un’invasione di campo.
In mancanza di norme puntuali un simile potere non è
desumibile neppure dalle funzioni di interesse pubblico
svolte da questi organismi.
Nello specifico quindi l’Ordine degli Architetti non è
legittimato a bloccare la procedura di collaudo statico
rifiutandosi di designare le terne per la scelta dei
collaudatori. In questo modo infatti verrebbe interrotto
l’iter che porta al rilascio del certificato di agibilità
(v. art. 25, comma 3, e art. 67, comma 8, del DPR 380/2001)
e vi sarebbe un’intromissione nei poteri di controllo
dell’amministrazione comunale, la quale è l’unico soggetto
titolato a decidere delle condizioni di utilizzabilità di un
edificio.
L’Ordine degli Architetti può invece intervenire a difesa
della categoria con altri strumenti:
(a) all’inizio del percorso di edificazione, impugnando il
titolo edilizio che approva il progetto redatto dal
professionista non competente, o invitando l’amministrazione
comunale a effettuare un annullamento in autotutela;
(b) alla fine, segnalando all’amministrazione comunale che
dal collaudo emerge il mancato rispetto della riserva sul
cemento armato, o impugnando il certificato di agibilità che
non tenga conto della violazione della suddetta riserva.
... per l'annullamento:
a) nel ricorso introduttivo:
- della nota dell’Ordine degli Architetti di Bergamo prot.
n. 2011/5398 del 06.12.2011, con la quale è stata respinta
la richiesta di designare una terna di professionisti per il
collaudo di opere in cemento armato eseguite affidando a un
geometra la direzione lavori per il progetto architettonico;
- della nota del 30.11.2011, con la quale l’Ordine degli
Architetti di Bergamo ha rifiutato a Eurocostruzioni srl la
designazione della terna di nomi per il collaudo di opere
strutturali (in quanto progettista architettonico e
direttore lavori per il progetto architettonico risulta
essere stato un geometra);
b) nei motivi aggiunti:
- della deliberazione del consiglio dell’Ordine degli
Architetti di Bergamo n. 135/2011 del 12.09.2011, con la
quale è stata respinta la richiesta dell’impresa edile Bena
Costruzioni srl finalizzata alla designazione della terna di
professionisti per il collaudo di opere in cemento armato
(in quanto direttore lavori per il progetto architettonico
risulta essere stato un geometra);
- della nota del 10.02.2012, con la quale l’Ordine degli
Architetti di Bergamo ha rifiutato a Edil 62 srl la
designazione della terna di nomi per il collaudo di opere
strutturali (in quanto progettista architettonico e
direttore lavori per il progetto architettonico risulta
essere stato un geometra);
...
Sulla competenza professionale dei geometri
11. Passando all’esame del merito, la prima questione da
affrontare è il rapporto tra le opere in cemento armato e le
tipologie di progettazioni rientranti nella sfera di
competenza professionale dei geometri.
12. Il punto di partenza ineludibile è la disposizione che
impone ai geometri di astenersi dalla progettazione e dalla
direzione lavori aventi ad oggetto opere in cemento armato,
con la sola eccezione delle piccole costruzioni accessorie
in zona agricola. Secondo un’interpretazione letterale le
costruzioni civili in ambito non agricolo che comportino
l’uso di cemento armato sarebbero sempre escluse dalla
competenza dei geometri, anche quando si mantengano nei
limiti delle modeste costruzioni (v. Cass. civ. Sez. II
14.02.2012 n. 2153).
13. La rigidità dell’interpretazione letterale è però
attenuata dalla prassi di suddividere la progettazione e la
direzione lavori in due segmenti, uno riferito alle opere in
cemento armato e uno incentrato sugli aspetti
architettonici. Questa soluzione si muove lungo un confine
incerto, e potrebbe facilmente prestarsi a comportamenti
elusivi della norma. Sono considerati comportamenti elusivi
la controfirma o il visto del progetto da parte di un
ingegnere o architetto e l’affidamento a questi ultimi dei
calcoli relativi al cemento armato (v. Cass. civ. Sez. II
02.09.2011 n. 18038).
14. Tuttavia, se lo scorporo delle attività professionali
riguardanti il cemento armato è effettivo e non simulato, e
ciascun professionista (geometra da un lato, architetto o
ingegnere dall’altro) riceve dal committente un incarico
rientrante nel rispettivo ambito professionale assumendosi
una responsabilità piena circa il contenuto della propria
prestazione, con il solo vincolo di coordinarsi con gli
altri professionisti dato il carattere unitario
dell’edificazione, si apre la via verso una soluzione
ragionevole consentita dall’art. 16 del RD 274/1929. In una
simile prospettiva è infatti possibile trovare un punto di
equilibrio tra la parte della norma che esclude il cemento
armato dalla competenza professionale dei geometri in
relazione alle costruzioni civili (lett. l) e quella che
estende ai geometri la progettazione e la direzione lavori
con riferimento alle costruzioni civili di modesta
importanza (lett. m).
15. Poiché anche le costruzioni civili di modesta importanza
possono richiedere l’impiego di cemento armato, non sarebbe
corretto interdire in questi casi ai geometri una porzione
rilevante della loro competenza professionale, quando sia
invece possibile scorporare in modo chiaro ed effettivo
dalla progettazione e dalla direzione lavori tutta
l’attività riferibile al cemento armato, che richiede
calcoli complessi. Lo scorporo appare la soluzione
preferibile anche alla luce del principio di proporzionalità
(non devono essere inflitte alla competenza professionale
dei geometri limitazioni maggiori di quelle strettamente
necessarie a garantire la sicurezza delle persone e degli
edifici).
Sulla necessità di separare questioni
privatistiche e pubblicistiche
16. Occorre poi sottolineare che in ogni caso l’eventuale
superamento del confine tra le competenze dei diversi ordini
professionali rileva sul piano privatistico come causa di
nullità dell’incarico professionale ma non su quello
pubblicistico come vizio del permesso di costruire. Affinché
il titolo edilizio sia legittimo è sufficiente da un lato
che i calcoli del cemento armato siano effettuati da un
ingegnere o architetto, e dall’altro che il progetto redatto
dal geometra (o in relazione al quale il geometra svolga la
direzione lavori) non oltrepassi la tipologia delle modeste
costruzioni civili (v. CS Sez. IV 28.11.2012 n. 6036).
17. In altri termini, quando i calcoli provengano da un
ingegnere o architetto si può presumere che sussistano
adeguate garanzie per la sicurezza delle persone e degli
edifici. Di conseguenza l’interesse pubblico è pienamente
tutelato e non si oppone alla realizzazione della
costruzione, il che consente agli uffici comunali di
limitarsi a verificare se l’opera sia effettivamente una
modesta costruzione civile, tralasciando valutazioni di tipo
privatistico sull’esistenza o meno di un valido incarico
professionale tra il committente e il geometra.
18. Quando il titolo edilizio risulti legittimo nel senso
appena chiarito, non vi sono ragioni per impedire il
collaudo delle opere in cemento armato che compongono la
costruzione assentita.
Sui poteri di autotutela degli ordini
professionali
19. Sotto un diverso profilo si osserva che gli ordini e i
collegi professionali hanno interesse e legittimazione a
tutelare le prerogative delle rispettive categorie di
professionisti, tanto in sede giurisdizionale quanto davanti
all’autorità amministrativa, ma non possono utilizzare le
procedure amministrative previste ad altri fini per
ostacolare o sanzionare i professionisti della categoria
concorrente che effettuano un’invasione di campo. In
mancanza di norme puntuali un simile potere non è desumibile
neppure dalle funzioni di interesse pubblico svolte da
questi organismi.
20. Nello specifico quindi l’Ordine degli Architetti non è
legittimato a bloccare la procedura di collaudo statico
rifiutandosi di designare le terne per la scelta dei
collaudatori. In questo modo infatti verrebbe interrotto
l’iter che porta al rilascio del certificato di agibilità
(v. art. 25, comma 3, e art. 67, comma 8, del DPR 380/2001)
e vi sarebbe un’intromissione nei poteri di controllo
dell’amministrazione comunale, la quale è l’unico soggetto
titolato a decidere delle condizioni di utilizzabilità di un
edificio.
21. L’Ordine degli Architetti può invece intervenire a
difesa della categoria con altri strumenti: (a) all’inizio
del percorso di edificazione, impugnando il titolo edilizio
che approva il progetto redatto dal professionista non
competente, o invitando l’amministrazione comunale a
effettuare un annullamento in autotutela; (b) alla fine,
segnalando all’amministrazione comunale che dal collaudo
emerge il mancato rispetto della riserva sul cemento armato,
o impugnando il certificato di agibilità che non tenga conto
della violazione della suddetta riserva. Queste circostanze
sono però, come è evidente, estranee al presente giudizio.
Conclusioni
22. In base alle considerazioni sopra esposte il ricorso
deve essere accolto, con il conseguente annullamento degli
atti impugnati. L’Ordine degli Architetti è quindi tenuto a
prestare la propria collaborazione nella formazione delle
terne per la scelta dei collaudatori.
23. Questo accertamento appare satisfattivo dell’interesse
della parte ricorrente, e dunque, tenuto conto anche della
pronuncia cautelare anticipatoria del merito, non residuano
margini per riconoscere un danno risarcibile, neppure sul
piano morale.
24. La complessità di alcune questioni consente la
compensazione delle spese di giudizio. Il contributo
unificato è a carico dell’Ordine degli Architetti ai sensi
dell’art. 13, comma 6-bis.1, del DPR 30.05.2002 n. 115
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 18.04.2013 n. 361 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il parametro valutativo dell’attività edilizia
svolta dai privati resta circoscritto all’accertamento, da
parte dell’autorità competente al rilascio del richiesto
titolo abilitativo edilizio, della mera conformità
dell’opera progettata alla disciplina urbanistica, sempre
restando salvi i diritti dei terzi; nel senso che la
legittimità del provvedimento ampliativo non interferisce,
comunque, con l’assetto dei rapporti tra privati; e con la
conseguenza che non sussiste un obbligo generalizzato, per
detta autorità, di verificare l’insussistenza di limiti di
matrice civilistica alla realizzazione di un intervento
edilizio.
Tuttavia, ai sensi del comb. disp. artt. 11, comma 1, e 20,
comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, l’amministrazione ha il
potere-dovere di accertare, nei confronti del richiedente,
il possesso del requisito della legittimazione, ossia di un
idoneo titolo di godimento sul bene riguardato dal progetto
di trasformazione urbanistica sottopostole, allorquando,
segnatamente, quest’ultimo provenga da un terzo non
proprietario ovvero comproprietario dell’immobile.
Pertanto, il permesso di costruire può, bensì, essere
richiesto con salvezza dei diritti dei terzi, e al
richiedente essere legittimamente rilasciato, purché, però,
non determini un evidente contrasto col diritto di altri che
non lo abbia richiesto. E, quindi, se, di regola, l’autorità
competente non è chiamata a svolgere complesse indagini
volte a ricostruire le vicende concernenti la titolarità del
bene attinto dagli interventi progettati, è, comunque,
tenuta a verificare se l’istanza edificatoria sia sorretta
dalla effettiva disponibilità del predetto bene, soprattutto
nel caso in cui altri soggetti si attivino per esprimere la
propria opposizione.
Ciò premesso, il Collegio non ignora, poi, che il parametro valutativo
dell’attività edilizia svolta dai privati resta circoscritto
all’accertamento, da parte dell’autorità competente al
rilascio del richiesto titolo abilitativo edilizio, della
mera conformità dell’opera progettata alla disciplina
urbanistica, sempre restando salvi i diritti dei terzi; nel
senso che la legittimità del provvedimento ampliativo non
interferisce, comunque, con l’assetto dei rapporti tra
privati; e con la conseguenza che non sussiste un obbligo
generalizzato, per detta autorità, di verificare
l’insussistenza di limiti di matrice civilistica alla
realizzazione di un intervento edilizio.
Tuttavia, ai sensi del comb. disp. artt. 11, comma 1, e 20,
comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, l’amministrazione ha il
potere-dovere di accertare, nei confronti del richiedente,
il possesso del requisito della legittimazione, ossia di un
idoneo titolo di godimento sul bene riguardato dal progetto
di trasformazione urbanistica sottopostole, allorquando,
segnatamente, quest’ultimo provenga da un terzo non
proprietario ovvero comproprietario dell’immobile –come
prospettato dalla Provincia di Caserta nella nota del 28.12.2010, prot. n. 122405, e dai controinteressati
nelle note del 28.10.2010, prot. n. 106384, e del 05.05.2011, prot. n. 7976– (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20.09.2001, n. 4972; TAR Toscana, sez. III, 23.11.2001, n. 1651; TAR Emilia Romagna, Bologna, 21.03.2002, n. 183; TAR Marche, 28.06.2004, n.
784; TAR Valle d’Aosta, 17.11.2010, n. 63).
Pertanto, il permesso di costruire può, bensì, essere
richiesto con salvezza dei diritti dei terzi, e al
richiedente essere legittimamente rilasciato, purché, però,
non determini un evidente contrasto col diritto di altri che
non lo abbia richiesto (cfr. TAR Marche, 26.04.2007, n. 644). E, quindi, se, di regola, l’autorità
competente non è chiamata a svolgere complesse indagini
volte a ricostruire le vicende concernenti la titolarità del
bene attinto dagli interventi progettati, è, comunque,
tenuta a verificare se l’istanza edificatoria sia sorretta
dalla effettiva disponibilità del predetto bene, soprattutto
nel caso –come, appunto, quello in esame– in cui altri
soggetti si attivino per esprimere la propria opposizione
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 20.09.2001, n. 4972; 21.10.2003, n. 6529; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 11.02.2005, n. 357; sez. III, 27.08.2010, n. 4414;
TAR Campania, Napoli, sez. IV, 18.05.2005, n. 6487)
(TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 11.04.2013 n. 1923 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Fondandosi gli atti impugnati su una motivazione
plurima, solo l’accertata illegittimità di tutti i singoli
profili su cui essi risultano incentrati avrebbe potuto
comportare l’illegittimità e il conseguente effetto
annullatorio dei medesimi.
A questo
punto, il Collegio osserva che, in rapporto alla rilevata
estraneità della superficie coperta dal muro di recinzione
controverso rispetto alla domanda di condono, prot. n. 5329,
del 28.03.1986, la contestata mancanza del titolo di
legittimazione all’esercizio del ius aedificandi su detta
superficie costituisce nucleo motivazionale del tutto
autosufficiente e si rivela, quindi, suscettibile di
sorreggere, di per sé, la rettifica del parere favorevole
del 06.11.2009, prot. n. 125940, e il conseguente
ritiro in autotutela del permesso di costruire n. 46 del 18.04.2011.
Fondandosi gli atti impugnati su una motivazione plurima,
solo l’accertata illegittimità di tutti i singoli profili su
cui essi risultano incentrati avrebbe potuto comportare
l’illegittimità e il conseguente effetto annullatorio dei
medesimi (cfr., in tal senso, ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 31.05.2007, n. 2882;
08.06.2007, n. 3020; sez. V,
28.12.2007, n. 6732; sez. IV, 10.12.2007, n.
6325; TAR Lazio, Roma, sez. II, 16.01.2007, n. 268; 28.03.2007, n. 2723;
04.05.2007, n. 3995; 02.07.2007,
n. 5892; 01.08.2007, n. 7401; 03.10.2007, n. 9718;
sez. I, 08.01.2008, n. 73; sez. II, 28 gennaio 2008, n.
608; 10 marzo 2008, n. 2165; 23.04.2008, n. 3505; 14.05.2008, n. 4127;
01.07.2008, n. 6346; TAR Campania,
Napoli, sez. IV, 26.06.2007, n. 6252; Salerno, sez. II,
26.09.2007, n. 1918; Napoli, sez. III, 02.10.2007, n. 8744; sez. VIII,
05.03.2008, n. 1102; Salerno,
sez. II, 18.03.2008, n. 313; Napoli, sez. I, 17.06.2008, n. 5943; sez. III,
09.09.2008, n. 10065; sez. V,
05.08.2008, n. 9774; sez. VII, 06.08.2008, n. 9861;
sez. I, 07.10.2008, n. 13437; TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 30.11.2007, n. 6532; TAR Liguria, Genova,
sez. II, 21.06.2007, n. 1188; sez. I, 29.11.2007,
n. 1988; sez. II, 11.04.2008, n. 543; 26.11.2008,
n. 2041; TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, 09.11.2007, n.
2032; 27.10.2008, n. 1847; TAR Emilia Romagna, Parma,
sez. I, 17.06.2008, n. 314) (TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 11.04.2013 n. 1923 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’intervento in autotutela presuppone, unitamente
al riscontro dell’originaria illegittimità dell’atto inciso,
la valutazione della rispondenza della sua rimozione o
modificazione a un interesse pubblico non solo attuale e
concreto, ma anche prevalente rispetto ad altri interessi
militanti in favore della sua conservazione, e, tra questi,
in particolare, rispetto all’interesse del privato che ha
riposto affidamento nella legittimità e stabilità dell’atto
medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia
consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco
temporale.
Di qui la necessità che l’amministrazione espliciti in sede
motivazionale la compiuta valutazione comparativa tra
interessi confliggenti; impegno motivazionale tanto più
intenso, quanto maggiore sia l’arco temporale trascorso
dall’adozione dell’atto da rimuovere o modificare e solido
appaia, pertanto, l’affidamento ingenerato nel privato.
-----------------
Tuttavia, in determinate ipotesi l’interesse pubblico
all’eliminazione dell’atto illegittimo è da considerarsi in
re ipsa.
Tra queste è annoverabile l’ipotesi di intervento in
autotutela:
a) a fronte dell’assenza del necessario requisito di
legittimazione ad ottenere il provvedimento ampliativo
inciso e, quindi, della connessa situazione permanente
contra ius;
b) a fronte della falsa, infedele, erronea o inesatta
rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da parte
dell’interessato, risultata rilevante o decisiva ai fini del
predetto provvedimento ampliativo, non potendo l’interessato
medesimo vantare il proprio legittimo affidamento nella
persistenza di un beneficio ottenuto attraverso l’induzione
in errore dell’amministrazione procedente;
c) a fronte della insussistenza di una specifica istanza di
parte, prescritta ex lege, ai fini dell’adozione del
provvedimento ampliativo.
---------------
Laddove non vi sia spazio per complesse valutazioni di
natura tecnico-discrezionale o, comunque, non sia necessario
procedervi, l’organo decidente può legittimamente rinunciare
all’apporto dell’organo consultivo nel caso di annullamento
del provvedimento amministrativo rilasciato.
Il Collegio ritiene di dover aderire a tale soluzione,
stabilmente invalsa, oltre che con riferimento all’attività
vincolata di repressione degli abusi edilizi, per la quale è
stata esclusa l’obbligatorietà dell’acquisizione del parere
della commissione edilizia, anche con riferimento
all’applicazione del principio del ‘contrarius actus’ alla
preventiva acquisizione del parere della commissione
edilizia in sede di annullamento di un titolo abilitativo,
facendo eccezione al principio in parola l'ipotesi in cui
l'amministrazione non debba compiere particolari valutazioni
di ordine tecnico.
Al riguardo,
occorre premettere, in via di principio, che l’intervento in
autotutela presuppone, unitamente al riscontro
dell’originaria illegittimità dell’atto inciso, la
valutazione della rispondenza della sua rimozione o
modificazione a un interesse pubblico non solo attuale e
concreto, ma anche prevalente rispetto ad altri interessi
militanti in favore della sua conservazione, e, tra questi,
in particolare, rispetto all’interesse del privato che ha
riposto affidamento nella legittimità e stabilità dell’atto
medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia
consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco
temporale.
Di qui la necessità che l’amministrazione
espliciti in sede motivazionale la compiuta valutazione
comparativa tra interessi confliggenti; impegno
motivazionale tanto più intenso, quanto maggiore sia l’arco
temporale trascorso dall’adozione dell’atto da rimuovere o
modificare e solido appaia, pertanto, l’affidamento
ingenerato nel privato (cfr. Cons. Stato, sez. V, 12.11.2003, n. 7218; sez. IV, 31.10.2006, n. 6465;
TAR Campania, Napoli, sez. VII, 22.06.2007, n. 6238;
sez. III, 11.09.2007, n. 7483; sez. VIII, 30.07.2008, n. 9586;
01.10.2008, n. 12321; TAR Sicilia,
Palermo, sez. III, 19.01.2007, n. 170; sez. II, 08.06.2007, n. 1652; TAR Liguria, sez. I, 11.12.2007,
n. 2050; TAR Basilicata, sez. I, 19.01.2008, n. 15).
Ciò premesso in via di principio, occorre, però,
rammentare che, in determinate ipotesi, l’interesse pubblico
all’eliminazione dell’atto illegittimo è da considerarsi in
re ipsa.
Tra queste è annoverabile l’ipotesi di intervento in
autotutela:
a) a fronte dell’assenza del necessario
requisito di legittimazione ad ottenere il provvedimento ampliativo inciso e, quindi, della connessa situazione
permanente contra ius (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 23.02.2012, n. 1041; TAR Puglia, Lecce, sez. III,
08.04.2005, n. 1983);
b) a fronte della falsa, infedele,
erronea o inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della
realtà da parte dell’interessato, risultata rilevante o
decisiva ai fini del predetto provvedimento ampliativo, non
potendo l’interessato medesimo vantare il proprio legittimo
affidamento nella persistenza di un beneficio ottenuto
attraverso l’induzione in errore dell’amministrazione
procedente (cfr. Cons. Stato, sez. V, 12.10.2004, n.
6554; sez. IV, 24.12.2008, n. 6554; TAR Sicilia,
Palermo, sez. II, 03.11.2003, n. 2366; TAR Puglia,
Lecce, sez. III, 21.02.2005, n. 686; TAR Liguria.
Genova, sez. I, 07.07.2005, n. 1027; 17.11.2006, n.
1550; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 13.02.2006, n.
2026; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 05.02.2008, n.
129; TAR Basilicata, Potenza, sez. I, 04.03.2004, n. 115;
10.05.2005, n. 299; 10.04.2006, n. 238; 18.10.2008, n. 643);
c) a fronte della insussistenza di una
specifica istanza di parte, prescritta ex lege, ai fini
dell’adozione del provvedimento ampliativo.
Ebbene, sotto tali profili, rileva che, nella specie, i
ricorrenti:
- da un lato, non si sono dimostrati in possesso
di un idoneo titolo di godimento sulla superficie coperta
dal muro di recinzione controverso (cfr. retro, sub n. 1.1),
avendo, quindi, infedelmente o erroneamente rappresentato
quest’ultima, nel progetto assentito col permesso di
costruire in sanatoria n. 46 del 18.04.2011, come di
esclusiva proprietà di Coppola Alba;
- d’altro lato, non
risultano aver richiesto alla competente Provincia di
Caserta, con precipuo riguardo al medesimo muro di
recinzione, la prescritta autorizzazione ex artt. 7 del r.d.
n. 3267/1923 e 23 della l.r. Campania n. 11/1996.
---------------
Non è, infine,
ravvisabile una violazione del principio del ‘contrarius acuts’ nella circostanza che, a differenza del permesso di
costruire n. 46 del 18.04.2011, il relativo
provvedimento di “revoca” sia stato adottato senza il
preventivo parere della Ripartizione tecnica Urbanistica del
Comune di Mondragone.
Ed invero, non può escludersi il coinvolgimento
procedimentale di tale struttura organizzativa, trattandosi
dello stesso ufficio cui è preposto il titolare dell’organo
promanante il provvedimento in autotutela impugnato (capo
della Ripartizione tecnica Urbanistica del Comune di
Mondragone).
Fermo restando quanto sopra osservato, è appena il caso di
soggiungere, a definitiva confutazione del profilo di
censura in scrutinio, che il riesame compiuto da entrambe le
amministrazioni locali intimate non includeva specifici
apprezzamenti di ordine tecnico, propri del menzionato
ufficio comunale, ma atteneva unicamente alla cennata
insussistenza di un idoneo requisito di legittimazione al
rilascio del titolo abilitativo edilizio e di una specifica
richiesta di autorizzazione rivolta, con riguardo al muro di
recinzione de quo, all’autorità preposta alla tutela del
vincolo idrogeologico.
Ebbene, una simile attività di verifica costituiva un
presupposto la cui mancanza precludeva il segmento
istruttorio di consultazione della Ripartizione tecnica
Urbanistica del Comune di Mondragone.
In questo senso, valga richiamare la soluzione
interpretativa, largamente condivisa, secondo cui, laddove
non vi sia spazio per complesse valutazioni di natura
tecnico-discrezionale o, comunque, non sia necessario
procedervi, l’organo decidente possa legittimamente
rinunciare all’apporto dell’organo consultivo (Cons. Stato,
sez. V, 03.07.2003, n. 3974; TAR Piemonte, sez. I, 13.03.2002, n. 635; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 14.11.2002, n. 2931; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 13.06.2003, n. 7557; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 18.10.2006, n. 4967).
Il Collegio ritiene di dover aderire a tale soluzione,
stabilmente invalsa, oltre che con riferimento all’attività
vincolata di repressione degli abusi edilizi, per la quale è
stata esclusa l’obbligatorietà dell’acquisizione del parere
della commissione edilizia (cfr. TAR Basilicata, 20.02.2004, n. 103; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 16.07.2003,
n. 8434; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 09.06.2004, n. 3540;
TAR Lazio, Roma, sez. II, 25.05.2005, n. 4128), anche
con riferimento all’applicazione del principio del
‘contrarius actus’ alla preventiva acquisizione del parere
della commissione edilizia in sede di annullamento di un
titolo abilitativo, facendo eccezione al principio in parola
l'ipotesi in cui l'amministrazione non debba compiere
particolari valutazioni di ordine tecnico (Cons. giust. amm.
sic., sez. cons., 03.06.1999, n. 235; TAR Lazio, Latina,
27.03.2003, n. 300; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 18.04.2005, n. 672; Palermo, sez. II, 11.09.2007, n.
2008; TAR Campania, Napoli, sez. III, 10.04.2007, n.
3193; sez. II, 11.04.2008, n. 2073; sez. VIII, 11.06.2009,
n. 3203) (TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 11.04.2013 n. 1923 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di una
tettoia di rilevanti dimensioni, indipendentemente dalla sua
eventuale natura pertinenziale, è configurabile come
intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi
dell'articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n.
380/2001, nella misura in cui realizza “l'inserimento di
nuovi elementi ed impianti”, ed è quindi subordinata al
regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10,
comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R..
---------------
Il concetto di pertinenza, previsto dal diritto civile, va
distinto dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in
senso edilizio e urbanistico, che non trova applicazione in
relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere
qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa
privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma
rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro
assoggettamento al regime del permesso di costruire, come
nell’ipotesi della realizzazione di una tettoia in ferro di
rilevanti dimensioni.
---------------
L'esercizio del potere repressivo dell’abuso edilizio
costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa
l'interesse pubblico alla sua rimozione.
L’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è
sufficientemente motivata con riferimento all’oggettivo
riscontro dell’abusività delle opere ed alla sicura
assoggettabilità di queste al regime del permesso di
costruire, non essendo necessario, in tal caso, alcun
ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad
eventuali ragioni di interesse pubblico.
Nella fattispecie in esame, l’opera oggetto dell’impugnata
ordinanza di demolizione (come non contestato tra le parti)
consiste nella realizzazione di una tettoia occupante una
superficie di circa mq. 500, con altezza m. 5,00.
Si tratta quindi di opera sicuramente sottoposta al regime
del permesso di costruire.
Al riguardo, è sufficiente richiamare il convergente ed
unanime orientamento giurisprudenziale, secondo cui la
realizzazione di una tettoia di rilevanti dimensioni (come
nel caso di specie), indipendentemente dalla sua eventuale
natura pertinenziale, è configurabile come intervento di
ristrutturazione edilizia ai sensi dell'articolo 3, comma 1,
lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, nella misura in cui
realizza “l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”, ed è
quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai
sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello
stesso D.P.R. (C.d.S., Sez. IV, 12.03.2007, n. 1219;
TAR Campania Napoli, sez. IV, 13.01.2011, n. 84;
TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 21.12.2007, n.
16493, TAR Campania Napoli, sez. II, 02.12.2009,
n. 8320; TAR Campania Napoli, sez. III, 09.11.2010,
n. 23699).
In relazione alla specifica considerazione svolta dal
ricorrente in ordine alla natura pertinenziale dell’opera
realizzata, si deve in contrario osservare che il concetto
di pertinenza, previsto dal diritto civile, va distinto dal
più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso
edilizio e urbanistico, che non trova applicazione in
relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere
qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa
privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma
rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro
assoggettamento al regime del permesso di costruire, come
nell’ipotesi (di cui alla fattispecie in esame) della
realizzazione di una tettoia in ferro di rilevanti
dimensioni (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 25.01.2013, n. 598; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 20.03.2012, n. 1371).
Si deve infine rammentare, per completezza espositiva, che
l'esercizio del potere repressivo dell’abuso edilizio
costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa
l'interesse pubblico alla sua rimozione.
L’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è
sufficientemente motivata con riferimento all’oggettivo
riscontro dell’abusività delle opere ed alla sicura
assoggettabilità di queste al regime del permesso di
costruire, non essendo necessario, in tal caso, alcun
ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad
eventuali ragioni di interesse pubblico (cfr. fra le tante,
C.d.S., sez. IV, 12.04.2011, n. 2266) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 10.04.2013 n. 1905 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell’art. 15 del D.P.R. n. 380/2001,
rubricato “efficacia temporale e decadenza del permesso di
costruire”, il termine per l’inizio dei lavori non può
essere superiore ad un anno. Il suddetto termine può essere
prorogato, con provvedimento motivato, per fatti
sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del
permesso. Ciò nondimeno, decorso il termine, il permesso
decade di diritto per la parte non eseguita (cfr. comma 2).
La richiamata disposizione mira ad assicurare la certezza
temporale dell’attività di trasformazione edilizia ed
urbanistica del territorio, anche al fine di garantire un
efficiente controllo sulla conformità dell’intervento
edilizio a suo tempo autorizzato con il relativo titolo.
L’unanime giurisprudenza ha affermato che la decadenza della
concessione edilizia per mancata osservanza del termine di
inizio lavori opera di diritto e il provvedimento
pronunciante la decadenza ha carattere meramente
dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via
diretta, con l’infruttuoso decorso del termine fissato dalla
legge.
In materia è stato poi sostenuto che l’eventuale sospensione
del termine di durata di un titolo edilizio non può
realizzarsi in via automatica, essendo a tal fine necessaria
la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve
seguire un provvedimento motivato dell’amministrazione che
accerti l’impossibilità del rispetto del termine per “factum
principis”, ovvero per l’insorgenza di una causa di forza
maggiore.
---------------
L’amministrazione, di fronte a una richiesta di proroga di
un titolo non più sussistente (scaduto), non può fare altro
che prendere atto dell’intervenuta decadenza con un
provvedimento di natura dichiarativa. In altri termini, allo
scadere del termine di inizio lavori, l’amministrazione non
dispone più del potere dilatorio previsto dalla legge e il
cui esercizio è invece invocato con l’istanza de qua al di
fuori dell’alveo normativo.
Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Lo stesso ricorrente rappresenta in fatto che il termine
annuale per l’inizio dei lavori di realizzazione del
deposito di cui al permesso di costruire n. 96/2004 è
scaduto in data 22.02.2008. Solo in data successiva
(e, segnatamente, una prima volta il 28.02.2008 e, una
seconda, il 13.10.2011), l’interessato si è attivato
per richiedere la proroga del termine. Domanda sulla quale
con l’odierno gravame chiede l’accertamento dell’illegittima
inerzia del Comune.
E’ necessario premettere, che ai sensi dell’art. 15 del
D.P.R. n. 380/2001, rubricato “efficacia temporale e
decadenza del permesso di costruire”, il termine per
l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno. Il
suddetto termine può essere prorogato, con provvedimento
motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del
titolare del permesso. Ciò nondimeno, decorso il termine, il
permesso decade di diritto per la parte non eseguita (cfr.
comma 2).
La richiamata disposizione mira ad assicurare la
certezza temporale dell’attività di trasformazione edilizia
ed urbanistica del territorio, anche al fine di garantire un
efficiente controllo sulla conformità dell’intervento
edilizio a suo tempo autorizzato con il relativo titolo
(TAR Liguria, Genova, 08.01.2013, n. 34). L’unanime
giurisprudenza ha affermato che la decadenza della
concessione edilizia per mancata osservanza del termine di
inizio lavori opera di diritto e il provvedimento
pronunciante la decadenza ha carattere meramente
dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via
diretta, con l’infruttuoso decorso del termine fissato dalla
legge (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 18.05.2012, n. 2915).
In materia è stato poi sostenuto che
l’eventuale sospensione del termine di durata di un titolo
edilizio non può realizzarsi in via automatica, essendo a
tal fine necessaria la presentazione di una formale istanza
di proroga, cui deve seguire un provvedimento motivato
dell’amministrazione che accerti l’impossibilità del
rispetto del termine per “factum principis”, ovvero per
l’insorgenza di una causa di forza maggiore.
Tornando al caso che occupa, si deve quindi ritenere, da una
parte, che l’intervenuto sequestro dell’area non ha
determinato ex se la sospensione del termine annuale
assegnato per la realizzazione dei lavori, dall’altra, che
il permesso di costruire, in assenza di una formale
richiesta di proroga (entro la scadenza del termine) è ormai
decaduto. E ciò per il solo fatto del verificarsi del
presupposto previsto dalla legge, costituito dal mancato
inizio dell’attività edificatoria nel periodo assegnato.
Dunque, la richiesta di proroga è intervenuta allorquando il
permesso di costruire aveva ormai esaurito i suoi effetti.
Chiariti i contorni della questione, deve affermarsi che
nessuna inerzia può imputarsi al Comune avverso la quale si
possa invocare la tutela offerta dallo strumento processuale
di cui all’art. 117 c.p.a. Il silenzio-rifiuto disciplinato
dall'ordinamento, infatti, è istituto riconducibile a
inadempienza dell’amministrazione, in rapporto a un
sussistente obbligo di provvedere, che può discendere dalla
legge, da un regolamento o anche da un atto di
autolimitazione dell'amministrazione stessa, e in ogni caso
deve corrispondere ad una situazione soggettiva protetta,
qualificata come tale dall'ordinamento; al di là
dell'obbligo normativamente imposto alla pubblica
amministrazione di concludere il procedimento mediante
l'adozione di un provvedimento espresso e motivato, siccome
previsto dagli artt. 2 e 3, l. 07.08.1990 n. 241,
l'amministrazione è parimenti tenuta a pronunciarsi laddove
ragioni di giustizia ed equità le impongono l'adozione di un
provvedimento, nonché tutte le volte in cui, in relazione al
dovere di correttezza e di buona amministrazione, sorga per
il privato una legittima aspettativa a conoscere il
contenuto e le ragioni delle determinazioni amministrative,
quali che esse siano (ex multis, TAR Puglia, Lecce, 12.11.2012, n. 1863).
Nella fattispecie, per espressa previsione normativa,
l’amministrazione, di fronte a una richiesta di proroga di
un titolo non più sussistente, non potrebbe fare altro che
prendere atto dell’intervenuta decadenza con un
provvedimento di natura dichiarativa. In altri termini, allo
scadere del termine di inizio lavori, l’amministrazione non
dispone più del potere dilatorio previsto dalla legge e il
cui esercizio è invece invocato con l’istanza de qua al di
fuori dell’alveo normativo.
Deve, pertanto, concludersi che l’istanza in questione è
inidonea a fondare un obbligo di provvedere in capo
all’amministrazione comunale e la domanda di accertamento
giudiziale dell’inerzia colpevole della stessa deve essere
respinta (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 08.04.2013 n. 1864 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Un auto annullamento
dell’atto è legittimo solo ove supportato da un interesse
pubblico specifico, distinto dal mero interesse al
ripristino della legalità, che ad un giudizio di
comparazione prevalga sull’interesse del privato al
mantenimento dell’atto stesso.
La comparazione dell’interesse privato con quello pubblico è
regola assoluta, la quale “non tollera eccezioni di sorta,
per quanto rilevante possa essere l'interesse pubblico a
salvaguardia del quale l'autotutela viene in concreto
esercitata”.
---------------
Si è poi concordi nell’affermare che, ove si tratti di atti
i quali non comportino esborso continuativo di danaro, la
motivazione debba essere tanto più rigorosa quanto più
risalente nel tempo è l’atto che si va ad annullare.
Nella specifica materia edilizia, è poi degno di nota
l’orientamento condiviso da C.d.S., che considera in linea
di principio ragionevole l’annullamento in autotutela di una
concessione edilizia nel termine massimo di 10 anni dal suo
rilascio, argomentando dall’identica estensione nel tempo
del potere di annullamento regionale ai sensi dell’art. 39
T.U. 06.06.2001 n. 380.
Dispone al primo comma l’art. 21-novies
della l. 241/1990: “Il provvedimento amministrativo
illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere
annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse
pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei controinteressati,
dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo
previsto dalla legge”.
La norma, come è noto, è stata introdotta con l. 11.02.2005 n. 15 e recepisce regole pacifiche emerse dalla
precedente elaborazione giurisprudenziale, per la quale si
cita per tutte ad esempio C.d.S. sez. IV 17.07.2002
n. 3997; va quindi interpretata in conformità a tale
elaborazione: un auto annullamento dell’atto è legittimo
solo ove supportato da un interesse pubblico specifico,
distinto dal mero interesse al ripristino della legalità,
che ad un giudizio di comparazione prevalga sull’interesse
del privato al mantenimento dell’atto stesso. Si veda, come
particolarmente significativa, la recente C.d.S. sez. VI 20.09.2012 n. 4997, per cui la comparazione
dell’interesse privato con quello pubblico è regola
assoluta, la quale “non tollera eccezioni di sorta, per
quanto rilevante possa essere l'interesse pubblico a
salvaguardia del quale l'autotutela viene in concreto
esercitata”.
Si è poi concordi nell’affermare che, ove si tratti, come
evidente nella specie, di atti i quali non comportino
esborso continuativo di danaro, la motivazione debba essere
tanto più rigorosa quanto più risalente nel tempo è l’atto
che si va ad annullare. Nella specifica materia edilizia, è
poi degno di nota l’orientamento condiviso da C.d.S. sez. IV
03.08.2010 n. 5170, che considera in linea di principio
ragionevole l’annullamento in autotutela di una concessione
edilizia nel termine massimo di dieci anni dal suo rilascio,
argomentando dall’identica estensione nel tempo del potere
di annullamento regionale ai sensi dell’art. 39 T.U. 06.06.2001 n. 380. Si noti poi che il caso di specie
riguardava un intervento di rilievo, ovvero una
lottizzazione abusiva di diciotto fabbricati su un’area di
circa 28.000 mq..
Applicando i suddetti principi al caso di specie, occorre
dire che nel provvedimento di annullamento impugnato, e
nella consequenziale ordinanza di demolizione, il Comune si
è limitato ad enunciare un prevalente interesse pubblico,
del quale non ha dato conto con riguardo alle circostanze,
invero specifiche. Va infatti ricordato che le opere di cui
si ragiona sono un accessorio –portico e terrazza- di un
immobile abitativo già esistente, che secondo logica ricade
anch’esso nella fascia del presunto vincolo: non è stato
spiegato per qual ragione il fabbricato principale possa
rimanere al suo posto, ma non con le opere in questione, e
quale specifico pregiudizio da esse sia cagionato. Nemmeno è
stato considerato che una di tali opere, il portico,
pacificamente realizzato in abuso, esiste dal 1983 (doc. ti
ricorrente da 2 a 9, cit.) e non pare avere sino ad ora
cagionato pregiudizio alcuno. Infine, non è stato dato
adeguato conto della preesistenza del vincolo all’opera, su
cui non sono stati acquisiti elementi definitivi.
Anche sotto il profilo temporale, l’intervento in
autotutela appare privo di motivazione, considerando non
solo che interviene al di là del termine tendenziale di cui
si è detto, ovvero nel novembre 2011 su una concessione del
maggio 2001, concessione relativa all’opera su cui poggiano
le altre, ma anche che tale sanatoria intervenne su una
domanda addirittura del 1986 (sempre doc. ti ricorrente da 2
a 9, cit.), sì che all’amministrazione il tempo per
attivarsi non era mancato.
Per tali ragioni, di carattere assorbente, in quanto
riguardano la possibilità stessa di colpire l’abuso, gli
atti impugnati vanno annullati, rimanendo appunto assorbiti
i residui motivi
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 05.04.2013 n. 340 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La proposizione
dell’istanza di sanatoria dopo la notifica del ricorso
(avverso l'ordinanza di demolizione) determina
l’improcedibilità di quest’ultimo, per effetto della
traslazione dell’interesse della parte ricorrente sul
contenuto e le sorti del provvedimento scaturente dal nuovo
procedimento amministrativo così avviato, facendo venire
meno ogni interesse alla pronuncia sul provvedimento
originario contenente l’ordine di demolizione.
Considerato in fatto:
- che ai ricorrenti, in quanto soci dell’Azienda agricola
Priore, è stata intimata la demolizione della “porzione
avente lunghezza di mt. 64 e larghezza di mt. 5,20 del
fabbricato D” e della “tettoia in aggetto sul lato sud del
fabbricato D avente lunghezza pari a mt. 64 e sporgenza pari
a mt. 2,50”;
- che, dopo il deposito del ricorso, i sig.ri Mingotti hanno
presentato un’istanza di permesso di costruire in sanatoria
con riguardo ai medesimi interventi già oggetto della
diffida;
- che avverso il diniego comunale è stato proposto ricorso
al TAR (R.G. 1141/05), poi dichiarato perento;
Ritenuto, in diritto:
- che la proposizione dell’istanza di sanatoria dopo la
notifica del ricorso determini l’improcedibilità di
quest’ultimo, per effetto della traslazione dell’interesse
della parte ricorrente sul contenuto e le sorti del
provvedimento scaturente dal nuovo procedimento
amministrativo così avviato, facendo venire meno ogni
interesse alla pronuncia sul provvedimento originario
contenente l’ordine di demolizione.
In conformità alla giurisprudenza costante, anche di questo
Tribunale (cfr, tra le tante, TAR Lombardia, Brescia, I,
28.12.2012, n. 2022), dunque, al Collegio non rimane che
dichiarare la sopravvenuta improcedibilità del ricorso
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 04.04.2013 n. 329 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La notificazione del
provvedimento di sospensione dell’efficacia del titolo
edilizio rilasciato ha anche una funzione di comunicazione
dell’avvio di un procedimento preordinato alla verifica
della sussistenza di tutti i parametri di legge legittimanti
la costruzione.
Per costante giurisprudenza, infatti, la notificazione del
provvedimento di sospensione dell’efficacia del titolo
edilizio rilasciato ha anche una funzione di comunicazione
dell’avvio di un procedimento preordinato alla verifica
della sussistenza di tutti i parametri di legge legittimanti
la costruzione.
Anche nel caso di specie, dunque, la proprietaria dei
terreni interessati dall’intervento edificatorio risulta
essere stata resa edotta dell’avvio del procedimento
preordinato alla suddetta verifica proprio in ragione del
ricevimento della notifica degli atti di sospensione degli
effetti del titolo edilizio abilitante all’edificazione, in
possesso della medesima ricorrente
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 04.04.2013 n. 328 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Poiché le opere di cui si
tratta (ndr: grandi strutture coperte) sono urbanisticamente
ammissibili solo in quanto funzionali all'attività di cava,
va da sé che esse debbano seguirne la sorte e dunque vadano
abbattute al cessare dell’escavazione, senza che
quest’ultima necessitata conseguenza possa essere invocata
per sostenerne la gratuità e l’esenzione dagli oneri
concessori dovuti per effetto della loro incidenza
urbanistica durante tutto il non breve lasso temporale in
cui risultano presenti sul territorio.
Ciò premesso, il Collegio ritiene che la
presente controversia vada risolta alla stregua
dell’orientamento ormai manifestatosi con chiarezza in seno
alla giurisprudenza amministrativa e che distingue
nettamente, sotto il profilo edilizio-urbanistico, tra:
- attività estrattiva in sé considerata e come tale non
soggetta ad autorizzazione o concessione da parte
dell'autorità comunale (cfr. Ad. Plen. Cons. Stato, 12.10.1991, n. 8);
- e installazione di strutture che, ancorché funzionali
all'esercizio della cava, assumano rilevanza edilizia
propria e, dunque, non siano esonerabili dall'ordinario
regime concessorio (cfr. la menzionata TAR Catania sez.
I, 29.11.2010, n. 4554, che richiama a sua volta
TAR Lazio, sez. II, 12.04.2002 , n. 3164).
Nel caso di specie, non v’è dubbio che le strutture di cui
si tratta rivestano rilevanza edilizia, in quanto
consistono:
a) per la cava di via Bose, in tre coperture metalliche, di
oltre 200 mq. di superficie ognuna e 8 metri di altezza,
aperte sui lati e con una muratura in cemento armato alta
tre metri, lungo i due lati di contenimento dell’inerte
(cfr. relazione illustrativa allegata alla domanda 21.03.2003 del Gruppo Faustini);
b) per la cava di via Cerca, in una struttura di copertura
dell’inerte, di oltre 600 mq. di superficie, 8 metri di
altezza e muratura in c.a., lungo i due lati di contenimento
dell’inerte, di mt. 3,85 di altezza; e nella costruzione di
un locale, interamente in muratura, per i servizi degli
addetti alla cava (attività amministrative e tecniche:
scrivanie, computer, archivio, spogliatoi, blocco servizi
igienici), di dimensioni 18 x 8 metri e 2,70 mt. di altezza.
La circostanza obiettiva che il manufatto per servizi sia
interamente in muratura e che lungo due lati delle quattro
strutture di copertura sia prevista una muratura in cemento
armato di altezza compresa tra i metri 3 e metri 3,85 vale
di per sé a integrare le caratteristiche di opere
naturaliter destinate a “impattare” sul territorio e ad
aumentarne il carico urbanistico (basti pensare al manufatto
destinato a uffici e servizi): mentre, in contrario, non
rileva che le stesse opere siano destinate alla rimozione,
una volta cessata l’attività di cava cui sono funzionali,
perché la circostanza che siano “a termine” (peraltro non
breve: la durata prevista è di alcuni anni) non può, in
alcun modo, depotenziarne le intrinseche qualità
strutturali.
In sintesi: poiché le opere di cui si tratta sono
urbanisticamente ammissibili solo in quanto funzionali a
detta attività (il che è riconosciuto anche nelle relazioni
accompagnatorie delle domande edilizie presentate dalla
Società ricorrente il 21.03.2003, ove si dà atto delle
diverse destinazioni previste in tali azzonamenti), va da sé
che esse debbano seguirne la sorte e dunque vadano abbattute
al cessare dell’escavazione, senza che quest’ultima
necessitata conseguenza possa essere invocata per sostenerne
la gratuità e l’esenzione dagli oneri concessori dovuti per
effetto della loro incidenza urbanistica durante tutto il
non breve lasso temporale in cui risultano presenti sul
territorio
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 02.04.2013 n. 315 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'abuso edilizio
costituisce un illecito permanente in relazione al quale
l'amministrazione preposta alla vigilanza del rispetto della
normativa urbanistica non può non emettere, una volta
accertato il carattere abusivo dell'opus, gli atti volti a
ripristinare lo stato dei luoghi e a sanzionare la condotta
contra legem tenuta dall'autore della violazione, cosicché
l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata è
"in re ipsa" e non richiede una specifica motivazione in tal
senso.
---------------
E' sufficiente che nell'ordinanza repressiva siano
prefigurate le conseguenze della mancata demolizione,
giacché la corretta determinazione della misura dell'area da
acquisire potrà avvenire solo dopo il rituale accertamento,
da parte del Comune, dell’inottemperanza all'ingiunzione,
con l'attivazione, nell'ambito del procedimento
sanzionatorio, di un sub-procedimento finalizzato
specificamente proprio alla precisazione delle aree da
acquisirsi gratuitamente.
La sorte dell’abuso, in caso di inottemperanza alle
determinazioni del Comune nell’esercizio dei poteri di
vigilanza edilizia, è l’acquisizione gratuita dell’area al
patrimonio comunale, e tale principio non è derogato
dall’art. 11 della L. 47/1985 il quale si limita a regolare
la fattispecie dell’impossibilità della riduzione in
pristino, circostanza appena esclusa nel caso in esame
(sulla base dei progetti di sanatoria elaborati ed
accettati).
---------------
L'effetto acquisitivo (sulle aree) opera ope legis e
automaticamente, a seguito dell'inadempimento all'ordine di
demolizione nel termine assegnato, tanto che l'atto di
accertamento del predetto inadempimento e di acquisizione
delle aree al patrimonio comunale ha natura meramente
dichiarativa.
In materia vale il principio per cui
l'abuso edilizio costituisce un illecito permanente in
relazione al quale l'amministrazione preposta alla vigilanza
del rispetto della normativa urbanistica non può non
emettere, una volta accertato (come avvenuto nella specie)
il carattere abusivo dell'opus, gli atti volti a
ripristinare lo stato dei luoghi e a sanzionare la condotta
contra legem tenuta dall'autore della violazione, cosicché
l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata è
"in re ipsa" e non richiede una specifica motivazione in tal
senso (cfr. ex pluribus Consiglio di Stato, sez. IV –
8/1/2013 n. 32).
---------------
Ritiene il
Collegio, con riguardo a quest’ultimo profilo, che le due
istanze di concessione edilizia in sanatoria (depositate da Finagen e positivamente vagliate dall’amministrazione)
dimostrino l’esistenza e l’attuabilità di opzioni
progettuali capaci di ricondurre l’immobile entro i limiti
fissati dallo strumento urbanistico e al contempo di
preservarne le originarie funzione e destinazione.
Per il
resto, la mancata indicazione di soluzioni da parte
dell’amministrazione non rende illegittimi gli atti
impugnati: secondo la giurisprudenza è sufficiente che
nell'ordinanza repressiva siano prefigurate le conseguenze
della mancata demolizione, giacché la corretta
determinazione della misura dell'area da acquisire potrà
avvenire solo dopo il rituale accertamento, da parte del
Comune, dell’inottemperanza all'ingiunzione, con
l'attivazione, nell'ambito del procedimento sanzionatorio,
di un sub-procedimento finalizzato specificamente proprio
alla precisazione delle aree da acquisirsi gratuitamente
(cfr. TAR Lazio Latina, sez. I – 17/12/2012 n. 978).
Sull’individuazione della frazione in esubero, il titolare
delle unità colpite dalle determinazioni repressive mantiene
la propria naturale prerogativa di disporre della
possibilità edificatoria, da ricondurre entro la cornice del
P.R.G. La sorte dell’abuso, infine, in caso di
inottemperanza alle determinazioni del Comune nell’esercizio
dei poteri di vigilanza edilizia, è l’acquisizione gratuita
dell’area al patrimonio comunale, e tale principio non è
derogato dall’art. 11 della L. 47/1985 il quale si limita a
regolare la fattispecie dell’impossibilità della riduzione
in pristino, circostanza appena esclusa nel caso in esame
(sulla base dei progetti di sanatoria elaborati ed
accettati).
---------------
La censura è
priva di pregio.
Innanzitutto l'effetto acquisitivo (sulle
aree) opera ope legis e automaticamente, a seguito
dell'inadempimento all'ordine di demolizione nel termine
assegnato, tanto che l'atto di accertamento del predetto
inadempimento e di acquisizione delle aree al patrimonio
comunale ha natura meramente dichiarativa (sentenza sez. I –
08/11/2011 n. 1532)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 02.04.2013 n. 312 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La possibilità
di variare il sedime è implicita nella previsione
dell’obbligo di piano di recupero, e costituisce del resto
una facoltà normalmente ricompresa nella nozione di
ristrutturazione edilizia pesante di cui all’art. 10, comma
1-c, del DPR 06.06.2001 n. 380.
---------------
Per quanto riguarda poi il problema delle distanze
all’interno di un piano di recupero situato in zona A, non
vige la regola della distanza minima di 10 metri dalle
pareti finestrate, in analogia a quanto previsto per i piani
particolareggiati relativi al centro storico.
I piani particolareggiati hanno infatti ampi margini di
discrezionalità per disciplinare direttamente questi profili
ma possono anche rimettere le scelte di dettaglio ai singoli
piani di recupero fissando solo alcune disposizioni
generali, come è avvenuto nel caso in esame.
L’unico limite per la zona A desumibile dall’art. 9 del DM
02.04.1968 n. 1444 è che non sia aggravata la situazione
esistente.
Sulle questioni proposte nel ricorso si
possono formulare le seguenti considerazioni:
Sul condono della tettoia abusiva
(c) il punto da cui occorre partire è quindi la data di
realizzazione della tettoia. Nel provvedimento di sanatoria
del 03.10.2000 si prende atto che la tettoia è stata
realizzata prima del 01.09.1967, ossia prima
dell’entrata in vigore della legge 06.08.1967 n. 765,
come dichiarato dalla dante causa dei controinteressati
nella domanda di condono presentata il 18.09.1986.
L’ipotesi di condono utilizzata dal Comune è pertanto quella
disciplinata dall’art. 31, comma 5, della legge 28.02.1985 n. 47. In questo caso la sanatoria è assoggettata al
pagamento dell’oblazione ma non del contributo di
concessione, dovuto invece per le opere abusive realizzate
tra il 01.09.1967 e il 01.10.1983;
(d) a proposito dell’epoca di realizzazione della tettoia il
Comune non ha svolto alcun approfondimento (ad esempio
attraverso le aerofotogrammetrie) e dunque non è possibile
stabilire se l’opera sia effettivamente anteriore al 01.09.1967;
(e) esiste però un elemento che avvicina notevolmente la
presenza della tettoia alla data del 01.10.1983, utile
per beneficiare del condono alle condizioni ordinarie e
quindi con pagamento del contributo di concessione. Si
tratta del provvedimento dell’assessore all’Urbanistica del
20.02.1985, con il quale sono stati autorizzati lavori
di manutenzione straordinaria sulla tettoia. Questo
provvedimento dimostra l’esistenza della tettoia. La
retrodatazione della costruzione a un momento anteriore al 01.10.1983 può essere raggiunta in via presuntiva
considerando (1) il carattere pertinenziale del manufatto
rispetto all’attività produttiva, (2) il dato di comune
esperienza secondo cui una manutenzione straordinaria
interviene a una certa distanza temporale dalla costruzione,
(3) la necessità di interpretare i casi dubbi a favore del
soggetto che chiede il condono (v. TAR Brescia Sez. II 10.05.2012 n. 825; TAR Brescia Sez. I 22.11.2010 n.
4664);
(f) il fatto che la tettoia si trovasse a circa 2,5 metri
dalla parete finestrata dell’edificio di proprietà del
ricorrente non impediva la concessione del condono. Gli
immobili sono infatti collocati in zona A, all’interno della
quale in base all’art. 9 del DM 02.04.1968 n. 1444 non
vige la regola della distanza minima di 10 metri. Occorre
poi sottolineare che la sanatoria è comunque ammissibile
quando sia accompagnata dal vincolo della traslazione del
volume e della superficie oggetto di condono allo scopo di
conseguire un complessivo riordino del comparto (v. TAR
Brescia Sez. II 08.05.2012 n. 788).
Questa condizione nel
caso in esame si è realizzata, in quanto la tettoia è stata
assoggettata a condono esclusivamente per recuperarne la
superficie e riversarla nel nuovo intervento edilizio
regolato dal piano di recupero, con il coinvolgimento di un sedime in parte diverso da quello originario. Il punto di
osservazione del problema delle distanze si trasferisce in
questo modo dall’opera abusiva storica alla nuova disciplina
del piano di recupero. In proposito si osserva che la
possibilità di variare il sedime è implicita nella
previsione dell’obbligo di piano di recupero, e costituisce
del resto una facoltà normalmente ricompresa nella nozione
di ristrutturazione edilizia pesante di cui all’art. 10,
comma 1-c, del DPR 06.06.2001 n. 380 (v. TAR Brescia Sez. II
07.04.2011 n. 525);
(g) la prospettiva dell’utilizzo della superficie della
tettoia a vantaggio di un nuovo edificio consente di
completare la procedura di condono anche se nel frattempo il
manufatto sia stato rimosso. Normalmente infatti l’esistenza
materiale dell’opera abusiva è un presupposto per la
condonabilità della stessa (v. TAR Brescia Sez. I 12.10.2009 n. 1741), ma se la demolizione era già stata in
precedenza valutata e autorizzata in un provvedimento
edilizio, o in un piano urbanistico almeno adottato, il
diritto edificatorio corrispondente all’abuso si può
considerare ormai scorporato dall’opera materiale e
acquisito al patrimonio giuridico del proprietario del
terreno, subordinatamente al rilascio del provvedimento
formale di condono;
Relativamente al piano di recupero
(h) per quanto riguarda poi il problema delle distanze
all’interno di un piano di recupero situato in zona A,
parimenti non vige la regola della distanza minima di 10
metri dalle pareti finestrate, in analogia a quanto previsto
per i piani particolareggiati relativi al centro storico.
I
piani particolareggiati hanno infatti ampi margini di
discrezionalità per disciplinare direttamente questi profili
(v. TAR Brescia Sez. I 29.09.2009 n. 1712) ma possono
anche rimettere le scelte di dettaglio ai singoli piani di
recupero fissando solo alcune disposizioni generali, come è
avvenuto nel caso in esame. L’unico limite per la zona A
desumibile dall’art. 9 del DM 02.04.1968 n. 1444 è che
non sia aggravata la situazione esistente, cosa che in
concreto non sembra essersi verificata;
(i) circa gli aspetti propriamente qualitativi della
progettazione, e in particolare sul disturbo che il nuovo
edificio arreca a quello del ricorrente e sulla possibilità
di individuare soluzioni di maggiore pregio urbanistico, si
tratta di questioni che si collocano ai limiti della
sindacabilità nel processo amministrativo.
La commissione
edilizia nel parere del 03.04.2000 ha considerato
soddisfacenti le controdeduzioni elaborate per conto dei controinteressati dall’ing. Angelo Laffranchini. Tale
valutazione non presenta profili di irragionevolezza, e in
definitiva non sembra che il Comune autorizzando
l’intervento edilizio abbia favorito una parte procurando un
danno ingiusto all’altra.
Le soluzioni urbanistiche
alternative avrebbero infatti comportato sacrifici non
necessari per la proprietà dei controinteressati, e la
gronda del nuovo edificio non sembra idonea a provocare un
oscuramento intollerabile del primo piano del ricorrente,
mentre per quanto riguarda il piano terra, effettivamente
oscurato, una concausa rilevante è il muro di confine posto
a breve distanza;
(j) la superficie della tettoia trasferita nel nuovo
intervento edilizio è pari a 93,35 mq, mentre la superficie
indicata nella domanda di condono era pari a 87,50 mq e
quella riportata sull’elaborato tecnico allegato alla
suddetta domanda era pari a 85 mq. Le differenze sono
certamente significative, ma non implicano che le misure del
progetto siano sbagliate o non veritiere.
In realtà la
misurazione effettuata ai fini del condono è diretta a
stabilire se siano rispettati i limiti di legge entro cui la
sanatoria è ammissibile e a individuare gli importi a carico
del richiedente. Quando la superficie condonata deve essere
traslata e riutilizzata valgono le normali regole della
progettazione, ossia è richiesta una più accurata
misurazione dell’opera mediante i punti fiduciali per
armonizzarne i valori a quelli degli edifici confinanti (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 02.04.2013 n. 307 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
In caso di delibera
comunale, per la cui pubblicità è prescritta la
pubblicazione all'albo, il termine decadenziale, ex art.
124, del d.lgs. 18.08.2000 n. 267, per la sua impugnativa,
per quanto concerne i terzi, decorre dal 15° giorno da detta
pubblicazione, mentre decorre dalla data di notifica o
comunicazione dell'atto o di quella dell'effettiva piena
conoscenza solo con riferimento a quei soggetti direttamente
contemplati nell'atto o che ne siano immediatamente incisi
anche se in esso non contemplati.
E, pur vero che, in caso di delibera comunale, per la cui
pubblicità è prescritta la pubblicazione all'albo, il
termine decadenziale, ex art. 124, del d.lgs. 18.08.2000
n. 267, per la sua impugnativa, per quanto concerne i terzi,
decorre dal quindicesimo giorno da detta pubblicazione,
mentre decorre dalla data di notifica o comunicazione
dell'atto o di quella dell'effettiva piena conoscenza solo
con riferimento a quei soggetti direttamente contemplati
nell'atto o che ne siano immediatamente incisi anche se in
esso non contemplati.
Tuttavia, a prescindere dalla circostanza se la attuale
appellante fosse direttamente incisa o meno dagli effetti di
detta deliberazione, va ricordato che per un provvedimento
come quello di specie, conteneva bensì disposizioni non di
indirizzo, ma di gestione (come meglio specificato in
seguito), ma non immediatamente operative (la deliberazione
n. 41/2006 incaricava il Responsabile del Servizio
Ragioneria di effettuare le opportune variazioni in bilancio
ai fini dell’acquisto del mezzo della Prinoth nelle more
della concessione del contributo regionale richiesto, senza
determinare la definitiva ed attuale espressione negoziale
conclusiva del contratto, rinviata, in modo del tutto
atipico, successivamente alla variazione contabile del
Responsabile); in tale peculiare fattispecie, il termine per
la impugnazione decorre dal momento in cui si è verificata
la lesione dell'interesse sostanziale, cioè dal momento in
cui sono stati adottati gli atti concretamente applicativi
(nel caso di specie le deliberazioni del Responsabile del
Servizio del Territorio di detto Comune n. 120 del 21.02.2006, recante impegno di spesa per l’acquisto di un
battipista Prinoth mod. Husky, e n. 408 del 16.06.2006, con
cui è stato disposto l’acquisto di detto mezzo), rispetto
alla conoscenza dei quali il ricorso di primo grado era
pienamente tempestivo
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.03.2013 n. 1775 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
garanzia fideiussoria, se vale certamente a rafforzare la
posizione della Pubblica Amministrazione, quale creditore
pecuniario, non impone però a quest’ultima la preventiva
escussione del fideiussore né esclude un’attenuazione
dell’obbligo del debitore principale, senza neppure
trasformare l’obbligazione di quest’ultimo in una sorta di
obbligazione sussidiaria rispetto a quella del fideiussore.
Questa Sezione ha peraltro già avuto modo di esaminare la
questione, con dovizia di argomenti, nella propria pronuncia
del 21.07.2009, n. 4405, nella quale ha preso motivatamente
posizione a favore della soluzione interpretativa più
rigorosa, escludendo che si possa <<configurare un obbligo
dell’Amministrazione di escutere la fideiussione allo
scadere del termine di pagamento>>.
Tale interpretazione appare, del resto, maggiormente
rispettosa dei generali principi in materia di obbligazioni
solidali (essendo tali l’obbligazione del fideiussore e
quella del debitore principale, cfr. l’art. 1944, comma 1°,
del codice civile), in forza dei quali il creditore può
indifferentemente rivolgersi a qualsiasi degli obbligati in
solido (cfr. art. 1292 del codice civile, per il quale, in
caso di solidarietà fra debitori, <<ciascuno può essere
costretto all’adempimento per la totalità>>).
Neppure potrebbe trovare applicazione, nella presente
fattispecie, l’art. 1957 del codice civile, invocato
anch’esso nel primo mezzo di gravame: infatti, il credito
del Comune per il pagamento degli oneri concessori è
soggetto a prescrizione ordinaria decennale ex art. 2946 del
codice civile; mentre il credito per la riscossione delle
somme di cui alla sanzione pecuniaria ex art. 42 del DPR
380/2001 si prescrive nel termine di cinque anni di cui
all’art. 28 della legge 689/1981, senza contare che –in ogni
caso- il contratto di fideiussione di cui è causa contiene
l’espressa previsione della rinuncia ad avvalersi della
facoltà di cui al citato art. 1957.
Nel primo motivo di ricorso si denuncia
l’illegittimità della pretesa creditoria del Comune, in
quanto quest’ultimo non avrebbe preventivamente avvisato il
fideiussore dell’esistenza del debito del soggetto garantito
(cioè Amimmobiliare Srl), mentre nel caso di specie la
società garante avrebbe avuto notizia del debito soltanto
attraverso le ingiunzioni impugnate, notificate direttamente
sia al debitore principale sia al suo fideiussore.
La censura è infondata.
Per effetto del rilascio della fideiussione a garanzia del
pagamento degli oneri concessori –e segnatamente del costo
di costruzione– le società esponenti sono obbligate in
solido al pagamento della somma garantita, senza che
sussista alcun obbligo legale del Comune di avvisare o di
escutere preventivamente il fideiussore; d’altronde la
fideiussione vale a rafforzare la posizione del creditore
(nel caso di specie il Comune), e non certo ad indebolirla.
Tale conclusione appare condivisa dalla giurisprudenza
maggioritaria, alla quale aderisce anche lo scrivente
Collegio, che tende a negare validità all’interpretazione
propugnata dalle ricorrenti, affermando che la garanzia
fideiussoria, se vale certamente a rafforzare la posizione
della Pubblica Amministrazione, quale creditore pecuniario,
non impone però a quest’ultima la preventiva escussione del
fideiussore né esclude un’attenuazione dell’obbligo del
debitore principale, senza neppure trasformare
l’obbligazione di quest’ultimo in una sorta di obbligazione
sussidiaria rispetto a quella del fideiussore (si vedano, in
tal senso, Consiglio di Stato, sez. IV, 30.07.2012, n. 4320;
24.04.2009, n. 2581 e 10.08.2007, n. 4419; oltre a TAR Valle
d’Aosta, 02.11.2011, n. 71).
Questa Sezione ha peraltro già avuto modo di esaminare la
questione, con dovizia di argomenti, nella propria pronuncia
del 21.07.2009, n. 4405, nella quale ha preso motivatamente
posizione a favore della soluzione interpretativa più
rigorosa, escludendo che si possa <<configurare un obbligo
dell’Amministrazione di escutere la fideiussione allo
scadere del termine di pagamento>> (cfr. la citata sentenza
n. 4405/2009 con la giurisprudenza ivi richiamata ed anche
le ulteriori sentenze di questa Sezione II, 06.07.2010, n.
2777 e 22.11.2010, n. 7308, costituenti entrambi precedenti
specifici ai quali si rinvia).
Tale interpretazione appare, del resto, maggiormente
rispettosa dei generali principi in materia di obbligazioni
solidali (essendo tali l’obbligazione del fideiussore e
quella del debitore principale, cfr. l’art. 1944, comma 1°,
del codice civile), in forza dei quali il creditore può
indifferentemente rivolgersi a qualsiasi degli obbligati in
solido (cfr. art. 1292 del codice civile, per il quale, in
caso di solidarietà fra debitori, <<ciascuno può essere
costretto all’adempimento per la totalità>>).
Neppure potrebbe trovare applicazione, nella presente
fattispecie, l’art. 1957 del codice civile, invocato
anch’esso nel primo mezzo di gravame: infatti, il credito
del Comune per il pagamento degli oneri concessori è
soggetto a prescrizione ordinaria decennale ex art. 2946 del
codice civile (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 28.11.2012,
n. 6033); mentre il credito per la riscossione delle somme
di cui alla sanzione pecuniaria ex art. 42 del DPR 380/2001
si prescrive nel termine di cinque anni di cui all’art. 28
della legge 689/1981 (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II,
29.12.2009, n. 6265), senza contare che –in ogni caso- il
contratto di fideiussione di cui è causa contiene l’espressa
previsione della rinuncia ad avvalersi della facoltà di cui
al citato art. 1957 (cfr. il doc. 18 dei ricorrenti, ultima
pagina)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
19.03.2013 n. 720 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
E' illegittimo il diniego della domanda di permesso
di costruire in sanatoria
giacché non esprime le ragioni della determinazione assunta,
in misura sufficiente alla comprensione, il cui generico
riferimento a un “contrasto
con le normative vigenti” concreta l’unico dato
esplicativo del diniego di sanatoria.
In tal modo venendo
meno le garanzie di trasparenza dell’attività dei pubblici
poteri, incardinate dalla Carta Costituzionale anche quale
garanzia di difesa per gli amministrati.
... per l'annullamento del provvedimento di reiezione di
domanda di permesso di costruire in sanatoria, comunicato
con nota 10.11.2010 dell’Ufficio Tecnico Edilizia Privata,
Dipartimento II, del Comune di Palestrina.
...
Il ricorso è fondato quanto alla censura con la quale è
dedotto il difetto di motivazione; giacché non esprime le
ragioni della determinazione assunta, in misura sufficiente
alla comprensione, il generico riferimento a un “contrasto
con le normative vigenti”, che concreta l’unico dato
esplicativo del diniego di sanatoria. In tal modo venendo
meno le garanzie di trasparenza dell’attività dei pubblici
poteri, incardinate dalla Carta Costituzionale anche quale
garanzia di difesa per gli amministrati.
La domanda di permesso del costruire in sanatoria, corredata
da elaborati grafici e relazione tecnica, riguardava la
realizzazione di un solaio intermedio sotto una copertura in
legno già realizzata. L’istruttoria, richiamata dal
provvedimento di diniego, è stata conclusa da
verbalizzazione del Corpo Forestale dello Stato in data
04.06.2010, che accerta opere edilizie nuove consistenti in
sopraelevazione da preesistente manufatto munito di
concessione in sanatoria di mq 131 circa, con altezza al
colmo di mt. 2.55 interna e mt. 1.5 sull’imposta, pari a mc.
268.55, allo stato grezzo privo di tramezzature, impianti e
pavimenti, con tetto in legno con manto di copertura in
tegole. L’ordine di demolizione riguarda l’intero complesso
dell’opera abusiva.
Mancano del tutto gli elementi necessari della motivazione,
tali da consentire all’interessato di comprendere le ragioni
del rigetto della domanda di sanatoria. Infatti non è dato
capire perché l’opera non è conforme alle normative vigenti,
dal momento che non è nemmeno prospettato il richiamo delle
specifiche norme violate
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 13.03.2013 n. 2647 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nel procedimento mediante il quale la
Soprintendenza annulla una autorizzazione paesistica ai
sensi dell’art. 146 del d.lgs. 22.01.2004 n. 42 non è dovuto
il preavviso di diniego, incompatibile come tale con la
stringente tempistica imposta dalla norma che il potere di
annullamento prevede.
---------------
Il potere di annullamento di cui alla norma citata, così
come correttamente sottolinea anche la difesa della
ricorrente, si esercita per ragioni di legittimità, che
pertanto non può tradursi in un riesame del merito della
fattispecie per la quale si è ritenuto di rilasciare
l’autorizzazione paesistica.
In tali termini, il potere in questione si può esercitare
anche per il vizio di eccesso di potere per falso
presupposto, ma deve limitarsi appunto ad apprezzare la
figura sintomatica di tal vizio, che come è noto consiste
nell’avere un provvedimento considerato una situazione di
fatto difforme dal vero; non potrà invece sostituire una
valutazione propria di tale fatto a quella, magari opinabile
ma non errata, contenuta nel provvedimento sul quale
interviene.
Il primo motivo di impugnazione è infondato, atteso
che -per costante giurisprudenza, per tutte C.d.S. sez. VI
24.09.2012 n. 5063, che si cita come più recente- nel
procedimento mediante il quale la Soprintendenza annulla una
autorizzazione paesistica ai sensi dell’art. 146 del d.lgs.
22.01.2004 n. 42 non è dovuto il preavviso di diniego,
incompatibile come tale con la stringente tempistica imposta
dalla norma che il potere di annullamento prevede.
Il secondo motivo è invece fondato ed assorbente. Va
premesso che il potere di annullamento di cui alla norma
citata, così come correttamente sottolinea anche la difesa
della ricorrente, si esercita per ragioni di legittimità,
che pertanto non può tradursi in un riesame del merito della
fattispecie per la quale si è ritenuto di rilasciare
l’autorizzazione paesistica: così per tutte C.d.S. a.p. 14.12.2001 n.
9. In tali termini, il potere in questione si può esercitare
anche per il vizio di eccesso di potere per falso
presupposto, ma deve limitarsi appunto ad apprezzare la
figura sintomatica di tal vizio, che come è noto consiste
nell’avere un provvedimento considerato una situazione di
fatto difforme dal vero; non potrà invece sostituire una
valutazione propria di tale fatto a quella, magari opinabile
ma non errata, contenuta nel provvedimento sul quale
interviene
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 12.03.2013 n. 253 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’articolo
16 del d.p.r. n. 380 del 2001 prevede che le opere di
urbanizzazione possano essere eseguite a scomputo (dei soli
oneri di urbanizzazione) solo previo accordo con il Comune;
difatti, avendo le opere di urbanizzazione un fine pubblico,
è l’Ente locale che, nell’ambito dei propri compiti
istituzionali e delle risorse a ciò destinate, deve decidere
quali opere realizzare e quali costi sostenere a tal fine.
Tale disciplina, inoltre, è di stretta interpretazione,
tanto più che essa appare anche derogatoria al regime
generale dell’affidamento mediante pubblica gara
dell’incarico di esecuzione di opere pubbliche (e difatti
l’articolo 16, comma 2-bis, del d.p.r. n. 380 del 2001, come
recentemente modificato, ammette tale deroga solo per lavori
di importo sottosoglia comunitaria).
---------------
L’istituto dell’indebito arricchimento non può essere
utilizzato per ottenere il medesimo risultato che viceversa
non si è realizzato proprio perché non ne sono stati
rispettati i presupposti di legge.
Si realizzerebbe, in caso contrario, una palese
contraddizione nell’ordinamento.
Proprio per tali ragioni, infatti, il requisito,
fondamentale, della sussidiarietà, dell’azione di
arricchimento senza causa, è inteso in giurisprudenza in
senso astratto e non in concreto.
Vale a dire che se, in astratto, il fatto è regolato da una
specifica fattispecie, ma la stessa non si è realizzata per
la mancanza di un suo requisito essenziale (nel caso in
questione, per la mancanza della preventiva approvazione da
parte dell’Ente locale delle opere di urbanizzazione
realizzate), non può trovare applicazione in via sussidiaria
l’azione di indebito arricchimento, al fine di ottenere quel
medesimo spostamento patrimoniale che sarebbe stato
l’effetto della fattispecie non verificatasi.
In altre parole, è solo l’assenza in astratto e non la mera
mancata realizzazione, in concreto, di una fattispecie
idonea a giustificare lo spostamento patrimoniale, che può
consentire, in via sussidiaria, l’applicazione dell’azione
di indebito arricchimento.
Con la delibera impugnata, l’Amministrazione resistente ha
approvato il progetto concernente le opere di
urbanizzazione, già realizzate in proprio dalla ricorrente,
su aree dalla medesima cedute a titolo gratuito
all’Amministrazione (nell’ambito di un intervento edilizio
volto alla realizzazione di un complesso residenziale), ai
sensi dell’articolo 58 delle NTA del PRG vigente (che
prevede, appunto, la cessione del 20% della superficie
fondiaria per interventi sui lotti liberi, fermo restando il
pagamento degli oneri concessori).
La ricorrente ha ritenuto di realizzare tali opere in virtù
di quanto previsto nel medesimo articolo 58 delle NTA,
laddove prevede che l’Amministrazione comunale provvede alla
predisposizione di un piano di urbanizzazione e, in caso di
inerzia di quest’ultima, i privati possono proporre un
intervento diretto e a scomputo degli oneri concessori.
Deludendo le aspettative della ricorrente, l’Amministrazione
resistente, tuttavia, con la delibera impugnata, si è
limitata ad approvare e collaudare i lavori eseguiti,
specificando tuttavia di non volersene accollare gli oneri,
a scomputo di quelli di urbanizzazione, peraltro già
ampiamente corrisposti dalla ricorrente stessa.
Ciò premesso, nel presente ricorso si lamenta la violazione
del citato articolo 58 delle NTA dell’articolo 16 del d.p.r.
n. 380 del 2001, laddove la P.A. pur accettando le opere così
come eseguite dalla ricorrente ha ritenuto di non doverne
scomputare il costo né dagli oneri di urbanizzazione né dai
costi di costruzione; si osserva, a tal fine, inoltre, che
in tal modo si realizzerebbe un indebito arricchimento a
tutto vantaggio dell’Amministrazione stessa.
All’udienza del 07.02.2013, la causa è passata in
decisione.
Il ricorso è infondato.
Come ammesso dalla stessa ricorrente, l’articolo 58 delle
NTA del PRG vigente prevede che l’Amministrazione resistente
avrebbe dovuto predisporre un piano di urbanizzazione.
Tuttavia, per l’ipotesi in cui, come nel caso di specie,
essa sia inadempiente a tale obbligo, il medesimo articolo
prevede che i privati “potranno proporre il proprio
intervento diretto a scomputo degli oneri concessori”.
A ben vedere, quindi, già dal tenore testuale della
disciplina richiamata, il privato ha l’onere di proporre
preliminarmente il proprio progetto di intervento
all’approvazione dell’Amministrazione comunale.
Nel caso di specie, viceversa, la ricorrente non si è
conformata a tale paradigma e pertanto non né può reclamare
gli effetti a proprio vantaggio, come se lo avesse fatto.
Del resto, in linea più generale e di principio, l’articolo
16 del d.p.r. n. 380 del 2001 prevede che le opere di
urbanizzazione possano essere eseguite a scomputo (dei soli
oneri di urbanizzazione) solo previo accordo con il Comune
(cfr. Tar Catania, sentenza n. 279 del 2012); difatti, avendo
le opere di urbanizzazione un fine pubblico, è l’Ente locale
che, nell’ambito dei propri compiti istituzionali e delle
risorse a ciò destinate, deve decidere quali opere
realizzare e quali costi sostenere a tal fine (cfr. Tar
Palermo, sentenza n. 126 del 2012).
Tale disciplina, inoltre, è di stretta interpretazione,
tanto più che essa appare anche derogatoria al regime
generale dell’affidamento mediante pubblica gara
dell’incarico di esecuzione di opere pubbliche (e difatti
l’articolo 16, comma 2-bis, del d.p.r. n. 380 del 2001, come
recentemente modificato, ammette tale deroga solo per lavori
di importo sottosoglia comunitaria).
In conclusione non ricorrono i presupposti di legge per
scomputare i costi sostenuti dall’impresa dagli oneri di
urbanizzazione dalla medesima dovuti al Comune.
A tal proposito, la medesima ricorrente osserva che, in ogni
caso, il Comune ha accettato tali opere e pertanto in tal
modo si realizzerebbe un indebito arricchimento del
medesimo, che finirebbe per percepire gli oneri concessori
oltre alla cessione a titolo gratuito delle opere di
urbanizzazione.
La questione dell’indebito arricchimento, pertanto, non
viene posta nel ricorso come fonte legale di un’obbligazione
e quindi come causa petendi di una domanda di pagamento di
una somma di denaro, ma ci si limita a prospettarla come
conseguenza inaccettabile dell’interpretazione viceversa
accolta dal Collegio.
Nei predetti limiti, pertanto, occorre farsi carico del suo
esame.
A ben vedere, tale indebito arricchimento è frutto di una
scelta consapevole della stessa ricorrente, la quale, al
fine di realizzare le opere autorizzate, ha ritenuto di non
voler o poter attendere la programmazione e realizzazione
delle opere di urbanizzazione da parte del Comune,
provvedendovi pertanto di propria iniziativa.
Quindi è indubbiamente un’attività che la ricorrente ha
compiuto consapevolmente nel proprio interesse.
Ciò premesso, osserva il Collegio, che l’istituto
dell’indebito arricchimento non può essere utilizzato per
ottenere il medesimo risultato che viceversa non si è
realizzato proprio perché non ne sono stati rispettati i
presupposti di legge.
Si realizzerebbe, in caso contrario, una palese
contraddizione nell’ordinamento.
Proprio per tali ragioni, infatti, il requisito,
fondamentale, della sussidiarietà, dell’azione di
arricchimento senza causa, è inteso in giurisprudenza in
senso astratto e non in concreto (cfr. Tar Molise, sentenza
n. 402 del 2012; Cassazione civile, sentenza n. 1216 del
2012; Tar Lazio, sentenza n. 1306 del 2012).
Vale a dire che se, in astratto, il fatto è regolato da una
specifica fattispecie, ma la stessa non si è realizzata per
la mancanza di un suo requisito essenziale (nel caso in
questione, per la mancanza della preventiva approvazione da
parte dell’Ente locale delle opere di urbanizzazione
realizzate), non può trovare applicazione in via sussidiaria
l’azione di indebito arricchimento, al fine di ottenere quel
medesimo spostamento patrimoniale che sarebbe stato
l’effetto della fattispecie non verificatasi.
In altre parole, è solo l’assenza in astratto e non la mera
mancata realizzazione, in concreto, di una fattispecie
idonea a giustificare lo spostamento patrimoniale, che può
consentire, in via sussidiaria, l’applicazione dell’azione
di indebito arricchimento.
Quindi nessun argomento contrario alla soluzione qui
prescelta può derivare dal richiamo a tale azione di
indebito arricchimento
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 21.02.2013 n. 129 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 18.04.2013 |
ã |
Ma per farsi
intendere, vuoi vedere che bisognerà cominciare a
parlare (e scrivere) in cinese ?? Perché si continua
a porre la stessa domanda per avere la stessa
risposta ?? |
Con l'aggiornamento
al 28.01.2013 rappresentavamo -per l'ennesima
volta- come la Corte dei Conti, all'unisono le varie
sezioni regionali di controllo, si fosse pronunciata
più volte nell'affermare che l'incentivo alla
progettazione, in materia urbanistica, spetti
solamente laddove l’attività di pianificazione
rientri nell’alveo di interventi pubblici o di opere
di pubblico interesse, in relazione alle quali
l’ente agirà in veste di stazione appaltante.
|
Evidentemente, qualcuno non sa leggere l'italiano e
aspetta che gli si risponda in cinese ... |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Per atto di pianificazione comunque
denominato va inteso qualsiasi elaborato complesso,
previsto dalla legislazione statale o regionale, composto da
parte grafica/cartografica, da testi illustrativi e da
testi normativi (es., norme tecniche di attuazione),
finalizzato a programmare, definire e regolare, in tutto o
in parte, il corretto assetto del territorio comunale,
coerentemente con le prescrizioni normative e con la
pianificazione territoriale degli altri livelli di governo.
Ai fini del riconoscimento dell’incentivo, la citata
latitudine ermeneutica riconduce l’attività di
pianificazione nell’alveo di interventi pubblici o di opere
di pubblico interesse, in relazione alle quali l’ente agirà
in veste di stazione appaltante.
L'esclusivo riferimento ai lavori pubblici
dell’art. 90 D.Lgs. 163/2206 induce a ritenere che l’art. 92,
presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione
dell’opera pubblica progettata. A fortiori, lo stesso comma
6 dell’art. 92 prevede che l’incentivo alla progettazione
venga ripartito “... tra i dipendenti dell’amministrazione
aggiudicatrice che lo abbiano redatto …” e, dunque, è di
palmare evidenza come il riferimento normativo e la
conseguente voluntas legis sia ascrivibile solo alla materia
dei lavori pubblici, presupponendosi una procedura ad
evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un’opera
di pubblico interesse.
La tassatività della normativa de qua e le ulteriori
considerazioni di ordine sistematico e storico già esposte,
inducono a ritenere che l’ambito di applicazione del citato
art. 92, ivi compreso il comma 6 (e quindi con riferimento
anche alla più generale attività di pianificazione), è
esclusivamente limitato all’attività progettuale e tecnico–amministrative ad essa connesse, di opere e lavori pubblici,
senza possibilità di estendere analogicamente tale
disciplina ad altre tipologie di prestazioni.
---------------
Le risorse
incentivanti destinate a remunerare prestazioni
professionali per la progettazione di opere
pubbliche e per la redazione di atti di
pianificazione devono ritenersi escluse dall’ambito
applicativo dell’art. 9, comma 2-bis, della l. n.
122/2010.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe, il Sindaco del
Comune di Volla (NA) ha sollecitato un parere in merito alla
configurabilità ed all’ambito di applicazione dell’istituto
giuridico dell’incentivo al personale interno per
l’affidamento dell’attività di progettazione urbanistica ai
sensi dell’art. 92 comma 6 del Codice degli Appalti, nonché,
in relazione ai limiti contemplati dall’art. 9, comma 2-bis,
del D.L. n. 78/2010, con riferimento al computo delle
medesime voci incentivanti.
Preliminarmente l’Ente istante ha rappresentato che:
• Con delibera di Giunta Comunale ha affidato la redazione
del Piano Urbanistico Comunale all’Ufficio tecnico,
attribuendo la responsabilità dello stesso al relativo
funzionario, con il supporto del Dipartimento di
Progettazione Urbana e Urbanistica dell’Università di Napoli
e, la redazione degli atti tecnici relativi al procedimento
di Valutazione Ambientale Strategica ed allo Strumento di
Intervento per l’Apparato Distributivo ad un professionista
esterno.
In considerazione dell’orientamento espresso in sede
consultiva dalla giurisprudenza della Corte dei conti, il
Legale Rappresentante del Comune di Volla (NA) ha formulato
i seguenti quesiti:
• Se l’erogazione dell’incentivo per l’affidamento
dell’attività di progettazione urbanistica di cui all’art.
92, comma 6, del Codice degli Appalti sia necessariamente
subordinata alla realizzazione di opere pubbliche, nel senso
che l’atto di pianificazione, comunque denominato, debba
necessariamente riferirsi alla progettazione di opere
pubbliche e non solo ad un atto di pianificazione
territoriale redatto dal personale tecnico abilitato
dipendente dell’amministrazione;
• Se detto compenso, obbligato com’è a transitare nel Fondo
per la contrattazione decentrata, risenta del divieto di
incremento di cui all’art. 9, comma 2-bis, della legge 31.07.2010, n. 122, nel senso che il suo ammontare vada
considerato nel complesso delle voci relative al salario
accessorio che, per effetto della disposizione sopra
richiamata, non potrà superare il corrispondente importo
dell’anno 2010.
Per completezza si precisa che in data 21.03.2013 è
pervenuta un’ulteriore nota, a firma del Sindaco del Comune
di Volla (NA), con la quale vengono trasmesse le
osservazioni formulate dal Responsabile dell’Ufficio Tecnico
comunale in relazione alla richiesta di parere de quo.
...
Il primo quesito sottoposto all’attenzione della Sezione
involge principalmente la portata interpretativa dell’art.
92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006, il quale prevede che il
trenta per cento della tariffa professionale relativa alla
redazione di un “atto di pianificazione comunque denominato”
possa essere ripartito, con le modalità e i criteri previsti
nell’apposito regolamento interno tra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto.
La norma ricalca sostanzialmente quanto disposto dal
previgente art. 18, comma 2, della L. n. 109/1994.
In particolare, l’Ente istante chiede di conoscere se
all’atto di “pianificazione comunque denominato”, ai fini
dell’erogazione dell’incentivo, debba necessariamente
ricondursi l’attività di progettazione di un’opera, ovvero
se possa considerarsi a tal fine, anche un mero atto di
pianificazione. L’espressione utilizzata dal legislatore,
appare generica nella sua formulazione e al più, sembrerebbe
rinviare al regolamento comunale l’individuazione di norme
con un contenuto descrittivo maggiormente dettagliato.
Tuttavia, la giurisprudenza della Corte dei conti, in sede
consultiva, ha già in numerose pronunce esplicitato in via definitoria che: “… per atto di pianificazione comunque
denominato, vada inteso qualsiasi elaborato complesso,
previsto dalla legislazione statale o regionale, composto da
parte grafica/cartografica, da testi illustrativi e da
testi normativi (es., norme tecniche di attuazione),
finalizzato a programmare, definire e regolare, in tutto o
in parte, il corretto assetto del territorio comunale,
coerentemente con le prescrizioni normative e con la
pianificazione territoriale degli altri livelli di governo ...” (Cfr. Corte dei conti, SS.RR. per la Regione siciliana
in sede consultiva,
parere 03.01.2013 n. 2).
Ebbene, è imprescindibile la sussistenza di un contenuto
tecnico-documentale degli elaborati che, richiedendo
necessariamente specifiche competenze professionali
reperibili esclusivamente all’interno dell’ente, fonderebbe
il riconoscimento dell’istituto dell’incentivazione previsto
dall’art. 92, comma 6, del D.Lgs n. 163/2006.
Inoltre, un consolidato orientamento delle Sezioni regionali
di controllo, dal quale il Collegio non ritiene di doversi
discostare, ha ritenuto che l’attività di pianificazione
debba essere contestualizzata nell’ambito dei lavori
pubblici, in un rapporto di necessaria strumentalità con
l’attività di progettazione di opere pubbliche (in tale
senso: Corte dei conti, Sezione regionale di controllo
Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213, Corte dei conti, Sezione
regionale di controllo Puglia,
parere 16.01.2012 n. 1, Corte
dei conti, Sezione regionale di controllo Campania,
parere 10.07.2008 n. 14).
Ai fini del riconoscimento dell’incentivo, la citata
latitudine ermeneutica riconduce l’attività di
pianificazione nell’alveo di interventi pubblici o di opere
di pubblico interesse, in relazione alle quali l’ente agirà
in veste di stazione appaltante.
Questa interpretazione trova fondamento nella collocazione
sistematica nell’ambito del cd. “Codice dei contratti
pubblici”, sia dell’art. 90: rubricato “Progettazione
interna ed esterna alle amministrazioni aggiudicatrici in
materia di lavori pubblici”, che dell’art. 92: rubricato
“Corrispettivi, incentivi per la progettazione e fondi a
disposizioni delle stazioni appaltanti” del D.Lgs n.
163/2006, entrambi inseriti ne Capo IV del codice dei
contratti pubblici (denominato “Servizi attinenti
all'architettura e all'ingegneria”, Sezione I dedicata alla
“Progettazione interna ed esterna, livelli della
progettazione”).
Come già evidenziato da questa Sezione in un altro parere
(deliberazione n. 67 del 13.03.2012): “… la stringente
connessione tra gli artt. 90 e 92 del Codice dei contratti
pubblici è ampiamente acclarata, non solo da ovvie
valutazioni di ordine sistematico, ma soprattutto dalla
storica derivazione degli stessi, dai medesimi artt. 17 e
18, legge n. 109/1994 (Legge-Quadro in materia di lavori
pubblici), facilmente rinvenibile nei riferimenti normativi
riportati nelle rispettive rubriche, così come inseriti dal
legislatore del Codice dei contratti, mediante l’utilizzo di
tale specifica tecnica compilativa …)”.
Pertanto, l’esclusivo riferimento ai lavori pubblici
dell’art. 90 D.Lgs. cit. induce a ritenere che l’art. 92,
presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione
dell’opera pubblica progettata. A fortiori, lo stesso comma
6 dell’art. 92 prevede che l’incentivo alla progettazione
venga ripartito “... tra i dipendenti dell’amministrazione
aggiudicatrice che lo abbiano redatto …” e, dunque, è di
palmare evidenza come il riferimento normativo e la
conseguente voluntas legis sia ascrivibile solo alla materia
dei lavori pubblici, presupponendosi una procedura ad
evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un’opera
di pubblico interesse.
La tassatività della normativa de qua e le ulteriori
considerazioni di ordine sistematico e storico già esposte,
inducono a ritenere che l’ambito di applicazione del citato
art. 92, ivi compreso il comma 6 (e quindi con riferimento
anche alla più generale attività di pianificazione), è
esclusivamente limitato all’attività progettuale e tecnico–amministrative ad essa connesse, di opere e lavori pubblici,
senza possibilità di estendere analogicamente tale
disciplina ad altre tipologie di prestazioni.
Il Collegio osserva che potrebbe comunque competere alla
fonte regolamentare prevista dall’art. 92, commi 5 e 6, del D.Lgs. n. 163/2006 definire l’esatta portata ermeneutica del
concetto di “atto di pianificazione comunque denominato”,
anche prevedendo un’elencazione delle fattispecie di
riferimento, che comunque tengano conto dell’alveo
interpretativo elaborato dalla giurisprudenza contabile.
Il secondo quesito sottoposto all’attenzione della Sezione
riguarda l’applicabilità all’incentivo previsto dall’art. 92
comma 6 citato, del divieto di incremento di cui all’art. 9,
comma 2-bis, della legge 31.07.2010, n. 122, il quale
contempla che il l'ammontare complessivo delle risorse
destinate annualmente al trattamento accessorio del
personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle
amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il
corrispondente importo dell'anno 2010.
Il Collegio osserva che, sulla scorta di quanto statuito
dalle Sezioni Riunite della Corte dei Conti con
la
deliberazione 04.10.2011 n. 51 alla luce del quadro normativo di
riferimento e della ratio che ne costituisce il fondamento,
l’art. 9, comma 2-bis precitato è una disposizione di stretta
interpretazione. Sicché, in via di principio, essa non
sembra possa ammettere deroghe od esclusioni (Cfr. anche
Sezione regionale di controllo per il Veneto
parere 03.05.2011 n. 285),
in quanto la regola generale voluta dal legislatore è quella
di porre un limite alla crescita dei fondi della
contrattazione integrativa destinati alla generalità dei
dipendenti dell’ente pubblico.
Ferma tale enunciazione generale, le Sezioni Riunite della
Corte dei conti hanno ritenuto escluse dall’ambito
applicativo del predetto art. 9, comma 2-bis, le sole risorse
di alimentazione dei fondi destinate a remunerare
prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati o
individuabili e che potrebbero essere acquisite attraverso
il ricorso all’esterno dell’amministrazione pubblica con
possibili costi aggiuntivi per il bilancio dei singoli enti.
In tali ipotesi dette risorse alimentano il fondo in senso
solo figurativo, dato che esse non sono poi destinate a
finanziare gli incentivi spettanti alla generalità del
personale dell’amministrazione pubblica.
In relazione al quesito in oggetto ed in ossequio
all’esegesi nomofilattica delle Sezioni Riunite, il Collegio
segnala che detta caratteristica ricorre per quelle risorse
finalizzate ad incentivare prestazioni poste in essere per
la progettazione di opere pubbliche e per la redazione di
atti di pianificazione, in quanto si tratta di risorse
correlate allo svolgimento di prestazioni professionali
specialistiche offerte da personale qualificato in servizio
presso l’amministrazione pubblica. Peraltro, laddove le
amministrazioni pubbliche non disponessero di personale
interno qualificato, dovrebbero ricorrere al mercato
attraverso professionisti esterni con possibili aggravi di
costi per il bilancio dell’ente interessato.
Alla luce di quanto precede deve aggiungersi che, ai fini
del calcolo del tetto di spesa cui fa riferimento il citato
art. 9, comma 2-bis, e cioè per stabilire se l’ammontare
complessivo delle risorse destinate annualmente al
trattamento accessorio del personale non superi il
corrispondente importo dell’anno 2010, occorrerà
sterilizzare, non includendole nel computo del 2010, le
risorse destinate alla progettazione e alla pianificazione
interna. Con tale accortezza sarà così possibile evitare
effetti distorsivi nell’applicazione della norma, come ad
esempio nel caso in cui un ente, nel 2010, abbia destinato
consistenti risorse a dette finalità, con ciò elevando in
modo improprio il tetto delle risorse complessive
destinabili alla contrattazione integrativa.
In conclusione, le risorse incentivanti destinate a
remunerare prestazioni professionali per la progettazione di
opere pubbliche e per la redazione di atti di pianificazione
devono ritenersi escluse dall’ambito applicativo dell’art.
9, comma 2-bis, della l. n. 122/2010 (Corte
dei Conti, Sez. controllo Campania,
parere 10.04.2013 n. 141). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
L’atto di pianificazione, comunque denominato,
deve necessariamente riferirsi alla progettazione di
opere pubbliche e non ad un mero atto di
pianificazione territoriale redatto dal personale
tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione.
La norma àncora chiaramente il
riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso
incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di
pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non a meri
atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta
all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non
è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo
ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente.
L’interesse pubblico alla
realizzazione dell’opera, quale presupposto per l’erogazione
di compensi incentivanti al personale in servizio per la
redazione di progetti, è testualmente previsto nell’art. 92,
comma 7, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, quale criterio da
prendere in considerazione per lo stanziamento dei fondi
necessari al finanziamento delle spese progettuali in sede
di stesura dei bilanci dello Stato, delle amministrazioni
statali, delle regioni e delle autonome locali.
In conclusione, ciò che rileva ai fini della riconoscibilità
del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen
juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo
contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione
di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di
progettualità interna, rispetto ad un mero atto di
pianificazione generale (piano regolatore o variante
generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione
dell’attività d’ufficio per la quale al dipendente è già
corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante, senza
attribuzione per legge di un ulteriore compenso specifico.
-----------------
Il sindaco del comune di Lecco, mediante nota n. 8927 del
05.02.2013, ha posto un quesito in merito al riconoscimento
del compenso incentivante (di cui all’articolo 92, comma 6,
del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163) a favore del personale
coinvolto nel progetto di redazione del Piano del Governo
del Territorio.
Il sindaco riferisce che il Comune di Lecco, nel 2010,
assunse la decisione di avvalersi del personale comunale
(ritenuto competente) per la redazione del Piano di Governo
del Territorio (articolato come da art. 7 L.R. 12/2005 nel
Documento di Piano, Piano delle Regole e Piano del Servizi)
e del Piano Urbano Generale dei Servizi del Sottosuolo (P.U.G.S.S.).
Per tale attività di progettazione affidata al personale del
settore Pianificazione e Territorio, sotto la direzione del
Dirigente individuato quale responsabile del progetto, fu
previsto il riconoscimento del compenso incentivante di cui
all'art. 92, comma 6, del D. Lgs. 12.04.2006, n. 163.
Tale decisione apparve in linea anche con il parere reso da
codesta Sezione Regionale di Controllo in data 30.11.2010 n. 1023 ("la realizzazione ad opera di personale
tecnico dell'Ente del Piano di Governo del territorio ...
sembra rientrare pacificamente tra gli atti di
pianificazione comunque denominati che, ai sensi dell'art.
92, comma 6, del codice degli appalti, danno diritto alla
corresponsione del premio incentivante nella misura del
trenta per cento della tariffa professionale, da ripartire
tra i dipendenti che lo abbiano redatta").
Si è successivamente appreso che sussistono diversi
pronunciamenti in merito al riconoscimento del compenso di
cui all'art. 92, comma 6, del predetto Codice degli Appalti
per la redazione di atti di pianificazione urbanistica.
Il sindaco inoltre fa presente che:
• il P.G.T. di cui alla L. R. 12/2005 è un elaborato
complesso, con un contenuto tecnico-documentale rientrante
in specifiche competenze professionali, composto da parte
grafica/cartografica, da testi illustrativi e da testi
normativi; la predisposizione dello stesso, esclusivamente a
cura del personale comunale, richiede un impegno di
particolare complessità e consente all'Ente una
significativa economia di spesa rispetto all'affidamento a
professionisti esterni;
• la prestazione, situata nel contesto dell'attività di
governo del territorio, non è stata esternalizzata ad un
professionista esterno e richiede necessariamente l'utilizzo
di specifiche competenze professionali che nel caso in
questione sono reperite esclusivamente all'interno
dell'ente. Il personale comunale non svolge, infatti, nel
merito del redigendo P.G.T. attività sussidiarie,
strumentali o di supporto rispetto alla elaborazione di atti
di pianificazione affidata a professionisti esterni. La
prestazione consiste, infatti, nella diretta e completa
“redazione di un atto di pianificazione”, non in attività
variamente sussidiarie alla predisposizione a cura di
soggetti esterni, attività sussidiarie che possono senza
dubbio rientrare nei doveri d'ufficio dei dipendenti;
• Il P.G.T, secondo quanto delineato dalla L.R. 12/2005,
costituisce il documento fondamentale per la tutela e lo
sviluppo del territorio comunale, in quanto, da un lato,
regola l'attività edilizia privata e, dall'altro, definisce
l'assetto delle strutture pubbliche e di interesse pubblico
occorrenti per li migliore svolgimento della vita cittadina,
risultando, pertanto, detto strumento pianificatorio
intimamente connesso alla realizzazione delle opere
pubbliche, per le quali il contrasto con le previsioni del
P.G.T. costituisce elemento ostativo alla esecuzione.
Ciò premesso, il sindaco del comune di Lecco chiede il
parere della Sezione Regionale di Controllo in ordine alla
legittima possibilità di riconoscere il compenso di cui
all'art. 92, comma 6, del D. Lgs. 12.04.2006, n. 163 al
personale comunale incaricato della completa redazione del P.G.T. di cui alla L.R. 12/2005 (Documento di Piano, Piano
delle Regole, Piano dei Servizi e dei P.U.G.S.S).
...
Il quesito ripropone questioni che rientrano in un
consolidato orientamento consultivo delineato dalla Sezione,
posto che nel precedente richiamato dall’amministrazione
interpellante (SRC Lombardia, deliberazione
n. 1023/2010/PAR), l’orientamento della Sezione ha avuto ad
oggetto i requisiti di legge per poter affidare ai
dipendenti gli incarichi di progettazione, piuttosto che la
qualificazione giuridica degli atti di pianificazione ai
sensi dell’art. 93, comma 6, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163,
a proposito della quale, il collegio si è espresso in
termini potenziali e generali.
Al fine di determinare il corretto significato da attribuire
alla locuzione “atto di pianificazione” inserita nel testo
dell’art. 92, comma 6, del D. Lgs. 12.04.2006, n. 163, la
Sezione richiama il condivisibile orientamento
espresso dalla Sezione regionale di controllo per il
Piemonte (cfr.
parere 30.08.2012 n. 290, riportato nel
precedente SRC Lombardia, deliberazione n. 453/2012/PAR), a
tenore del quale, l’atto di pianificazione, comunque
denominato, debba necessariamente riferirsi alla
progettazione di opere pubbliche e non ad un mero atto di
pianificazione territoriale redatto dal personale tecnico
abilitato dipendente dell’amministrazione.
Stante la sedes materiae della norma sugli incentivi alla
progettazione (Codice degli appalti), nonché la ratio della
disposizione (contenere i costi connessi alla progettazione
delle opere pubbliche valorizzando le professionalità
interne alla pubblica amministrazione), si condivide
l’argomentazione secondo cui “la norma àncora chiaramente il
riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso
incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di
pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non a meri
atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta
all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non
è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo
ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente” (in
termini, Sezione contr. Piemonte deliberazione cit.;
cfr. altresì Sezione contr. Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259;
parere 06.03.2012 n. 57;
Sezione contr. Puglia,
parere 16.01.2012 n. 1;
Sezione contr. Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213).
Si osserva, inoltre, che l’interesse pubblico alla
realizzazione dell’opera, quale presupposto per l’erogazione
di compensi incentivanti al personale in servizio per la
redazione di progetti, è testualmente previsto nell’art. 92,
comma 7, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, quale criterio da
prendere in considerazione per lo stanziamento dei fondi
necessari al finanziamento delle spese progettuali in sede
di stesura dei bilanci dello Stato, delle amministrazioni
statali, delle regioni e delle autonome locali.
In conclusione, ciò che rileva ai fini della riconoscibilità
del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen
juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo
contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione
di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di
progettualità interna, rispetto ad un mero atto di
pianificazione generale (piano regolatore o variante
generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione
dell’attività d’ufficio per la quale al dipendente è già
corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante, senza
attribuzione per legge di un ulteriore compenso specifico.
Non sussistono pertanto motivi per discostarsi dagli
orientamenti già espressi in materia
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 25.03.2013 n. 104). |
Adesso, stiamo a vedere quante altre volte -da qui
in avanti- la Corte dei Conti dovrà perdere tempo
nel pronunciarsi su una questione -ad oggi- trita e
ritrita ...
18.04.2013 -
LA SEGRETERIA PTPL |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
L’Iva agevolata per il recupero degli edifici (articolo
ItaliaOggi Sette del 15.04.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO:
D.Lgs. 14.03.2013 n. 33 - Riordino della disciplina
riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e
diffusione di informazioni da parte delle pubbliche
amministrazioni (marzo 2013 - tratto da www.funzionepubblica.gov.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI
LOCALI: G.U.
12.04.2013 n. 86 "Disciplina sul rispetto dei livelli
minimi di regolazione previsti dalle direttive europee,
nonché aggiornamento del modello di Relazione AIR, ai sensi
dell’articolo 14, comma 6, della legge 28.11.2005, n. 246"
(direttiva
P.C.M. 16.01.2013). |
CORTE DEI
CONTI |
APPALTI: Lavori
da saldare sempre a 30 giorni
È illegittima la clausola che subordina il pagamento di un
corrispettivo di un appalto all'avvenuto finanziamento da
parte di un ente terzo; è sempre a 30 giorni il pagamento
dei lavori perché prevale il decreto 192 sul regolamento del
codice dei contratti pubblici.
È quanto afferma la Corte dei Conti, Sez. regionale di
controllo per la Puglia, con il
parere 14.03.2013
n. 53, che ha preso in considerazione due profili di
particolare delicatezza su richiesta di parere di un ente
locale.
Si chiedeva in primo luogo se, nei contratti
stipulati con imprese relativi a lavori pubblici finanziati
da altre amministrazioni, i pagamenti potessero essere
effettuati dopo l'accredito delle relative somme da parte
degli enti erogatori, mediante previsione espressa nei bandi
di gara e nei relativi contratti d'appalto.
La Corte nega
decisamente la legittimità di una clausola di gara come
quella proposta dall'ente locale sul presupposto che il
rapporto contrattuale investe infatti soltanto l'ente
locale, ma non chi finanzia; è pertanto la stazione
appaltante, all'atto dell'affidamento dei lavori che assume
l'obbligo contrattuale diretto, rimanendo estraneo a tale
rapporto la sussistenza di un rapporto di finanziamento con
soggetti.
Per la delibera l'eventuale clausola che
subordinasse la corresponsione del corrispettivo al
ricevimento del finanziamento sarebbe illegittima. Stessa
sorte avrebbe la clausola che dovesse escludere la
maturazione di interessi a favore dell'appaltatore per
effetto di ritardi da parte dell'ente finanziatore negli
accrediti di rate di finanziamento. Da qui l'indicazione
della Corte a che la stazione appaltante valuti la propria
possibilità autonoma di pagamento e, in assenza di tale
possibilità, non proceda all'affidamento dei lavori.
D'altro
canto per principio generale le disposizioni dettate sui
termini di pagamento e di corresponsione degli interessi di
mora non possono essere derogate in danno dell'appaltatore.
In secondo luogo si poneva il problema se fosse tuttora
applicabile ai pagamenti delle amministrazioni le norme del
codice dei contratti pubblici (art. 133) e del regolamento
(artt. 143 e 144 del dpr 207/2010). Premessa la prevalenza
delle norme comunitarie di recepimento della direttiva
«ritardati pagamenti», come recepite nel decreto 192/2012,
la Corte dei conti precisa che alla luce della normativa Ue
devono essere interpretate e applicate le norme nazionali
con esse configgenti.
Pertanto non potranno essere
considerate più applicabili le norme del dpr 207 che
definiscono interessi di mora in misura diversa da quella
prevista dal decreto 192/12 (tasso d'interesse pari a quello
applicato dalla Bce, maggiorato dell'8% senza necessità di
costituzione in mora). Inapplicabili sono, poi, le norme che
fissano il termine di 45 giorni per l'emissione del
certificato di pagamento del Sal (art. 143, comma 1, dpr n.
207/2010), oggi da considerare fissato a 30 giorni dalla
normativa di recepimento della direttiva europea.
Pertanto risulta illegittimo, per la Corte, inserire
clausole contrattuali che pattuiscano termini maggiori per i
pagamenti, «nel nome di giustificazioni derivanti dalla
natura o l'oggetto del contratto o da circostanze esistenti
al momenti della sua stipulazione»
(articolo ItaliaOggi del 16.04.2013). |
QUESITI & PARERI |
PATRIMONIO:
Contratti di locazione passiva.
Domanda
È consentito a una pubblica amministrazione stipulare un
contratto di locazione passiva?
Risposta
La locazione passiva è quel contratto di locazione dove la
pubblica amministrazione è conduttore di un immobile di
proprietà di terzi.
Gli ultimi interventi del legislatore in materia, in
un'ottica di contenimento della spesa pubblica, tendono a
disincentivare l'utilizzo di questa tipologia contrattuale
da parte delle pubbliche amministrazioni. In particolare,
l'art. 3 del decreto legge sulla spending review prevede la
riduzione del canone di locazione del 15% rispetto a quanto
attualmente corrisposto anche per i contratti in corso,
nonché molte limitazioni al rinnovo del rapporto di
locazione.
L'art. 3 del decreto sulla spending review, nell'ambito di
una serie di misure finalizzate alla razionalizzazione del
patrimonio pubblico, esprime pertanto un generalizzato
disfavore per le locazioni passive, limitando la possibilità
di rinnovare i contratti dopo la scadenza e di stipularne di
nuovi e imponendo la riduzione dei relativi costi (cfr.
Deliberazione della Corte dei conti, sez. regionale di
controllo per il Lazio 09/01/2013 n. 3/2012) (articolo
ItaliaOggi Sette del 15.04.2013). |
PATRIMONIO: Natura del bene pubblico.
Domanda
Quale sia, tra la concessione amministrativa e la locazione,
la tipologia contrattuale più idonea per la stipulazione di
contratti che abbiano a oggetto l'utilizzazione di una
struttura da destinare ad attività commerciale?
Risposta
Al fine di poter rispondere al presente quesito è necessaria
una breve premessa in ordine alla natura dei beni immobili
pubblici. Secondo quanto disposto dagli art. 822 e ss. c.c.
i beni immobili di proprietà degli enti pubblici si
distinguono in demaniali e patrimoniali. I beni
patrimoniali, a loro volta, si distinguono in indisponibili
e disponibili.
Il demanio e il patrimonio indisponibile, per la loro
intrinseca natura a tutelare maggiormente l'interesse
pubblico, sono inalienabili, inusucapibili e non possono
formare oggetto di diritti a favore dei terzi se non nei
limiti e modi stabiliti dalla legge. I beni patrimoniali
disponibili seguono invece il classico regime privatistico
ex codice civile.
Quel che più conta però, ai fini della risposta al quesito
in esame, è che la corretta qualificazione giuridica del
bene assume una decisiva rilevanza ai fini della scelta
della tipologia contrattuale con cui affidarlo a terzi.
Invero, la natura demaniale o patrimoniale indisponibile del
bene determina l'applicazione dello strumento pubblicistico
della concessione, mentre la natura disponibile del bene
implica la possibilità di un affidamento in locazione (cfr.
Corte conti reg. Sardegna, sez. contr., 07/03/2008, n. 4).
In conclusione quindi l'ente locale non gode di
discrezionalità nel compiere la scelta tra i due strumenti
(concessione e/o locazione) di attribuzione in godimento a
soggetti terzi del bene ma che, nella scelta tra le varie
soluzioni percorribili, debba avere quale parametro di
riferimento esclusivo la natura del bene che determina il
conseguente regime giuridico a cui lo stesso bene è
sottoposto (articolo
ItaliaOggi Sette del 15.04.2013). |
TRIBUTI: La condizione di inagibilità.
Domanda
Possiedo un fabbricato che può essere considerato inagibile.
Quali sono gli adempimenti che devo osservare?
Risposta
Se l'immobile può essere riconosciuto inagibile o
inabitabile e non è utilizzato, il lettore è obbligato a
presentare la dichiarazione ai fini dell'Imu. Il beneficio è
riconosciuto relativamente al periodo durante l'anno nel
quale permane tale situazione. L'accertamento dello stato di
degrado è devoluto al comune, con perizia a carico del
proprietario, il quale deve allegare l'apposita
documentazione alla dichiarazione.
In alternativa,
l'interessato può presentare una dichiarazione sostitutiva
ai sensi del dpr n. 445/2000 con la quale dichiara di essere
in possesso della perizia, redatta da un tecnico abilitato (articolo
ItaliaOggi Sette del 15.04.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Attività di C.T.U. e
autorizzazione.
L'attività di c.t.u. (consulente tecnico
d'ufficio) svolta da un pubblico dipendente per conto
dell'autorità giudiziaria parrebbe non necessitare di
preventiva autorizzazione da parte dell'amministrazione di
appartenenza, atteso che la nomina del c.t.u. costituisce
provvedimento giurisdizionale autonomo di scelta fiduciaria,
che non può essere intaccato da atti promananti da altra
autorità.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine
all'assoggettamento, o meno, dell'attività di c.t.u.
(consulente tecnico d'ufficio) svolta nell'ambito di un
processo civile da un dipendente titolare di un rapporto di
lavoro a tempo pieno, ad autorizzazione preventiva da parte
dell'Ente ai sensi dell'art. 53 del d.lgs. n. 165/2001.
L'Amministrazione si è posta nel contempo la questione se
detta attività rientri viceversa tra quelle soggette a mera
comunicazione preventiva da parte del dipendente, in virtù
di una (eventuale) specifica disposizione normativa.
Ai fini di un corretto inquadramento della questione
prospettata, è utile rammentare che il c.t.u. è la figura
professionale, di particolare, competenza tecnica, alla
quale si affida il giudice durante il processo civile, ai
sensi dell'art. 61 del codice di procedura civile. La scelta
dei consulenti tecnici deve essere normalmente effettuata
tra le persone iscritte in albi speciali formati a norma
delle disposizioni di attuazione al codice di procedura
civile.
In tale codice, la consulenza tecnica non costituisce un
mezzo di prova la cui ammissione, come per altri incombenti
istruttori, è rimessa alla esclusiva disponibilità delle
parti. Al contrario, essa consiste in uno strumento
probatorio non soltanto sottratto alla disponibilità delle
parti, bensì anche riservato all'esclusivo, prudente,
apprezzamento del giudice. Detta consulenza, infatti, è
finalizzata all'acquisizione di un parere tecnico necessario
affinché il giudice possa valutare (ed infine decidere)
argomenti e questioni che comportino specifiche conoscenze.
Rientra, pertanto, nei poteri discrezionali del giudice
stabilire se e quando egli ritenga necessaria la consulenza
tecnica e la nomina del proprio ausiliario di giustizia.
Peraltro, nella designazione del consulente, il giudice non
è obbligato a scegliere in albi predisposti, potendo egli
fare ricorso a determinate conoscenze specialistiche
acquisite direttamente da alcuni soggetti.
Conseguentemente non è escluso che la nomina del giudice
possa anche riguardare un pubblico dipendente, in virtù
della apprezzata competenza tecnica posseduta. Pertanto,
l'individuazione del consulente tecnico avviene nella piena
discrezionalità e autonomia del giudice, che nomina detto
ausiliario, valutando il possesso di competenze e conoscenze
ritenute indispensabili al processo in essere.
Premesso un tanto, con specifico riferimento all'attività di
c.t.u. svolta da un pubblico dipendente, in relazione alla
generale disciplina autorizzatoria per gli incarichi
extraistituzionali contemplata all'art. 53 del d.lgs.
165/2001, si osserva che il Ministero di grazia e giustizia
[1] ha
formulato le seguenti osservazioni.
Innanzitutto si è rimarcato in tale sede come il consulente
tecnico d'ufficio sia un 'ausiliare del giudice' per
cui, nello svolgimento di tale funzione, prevale l'aspetto
del munus rispetto a quello della 'attività di
lavoro subordinato od autonomo', alla quale fanno
riferimento le norme che regolamentano il divieto per i
pubblici dipendenti di assumere incarichi extra
istituzionali senza la preventiva autorizzazione
dell'amministrazione di appartenenza [2].
'Del resto -continua il Ministero- ove tale divieto fosse
ritenuto applicabile anche in tema di nomina di periti e
consulenti, non solo si svuoterebbe effettivamente di
contenuto la concreta possibilità di scelta fiduciaria da
parte del giudice, prevista dai vigenti codici di rito, ma
si impedirebbe al medesimo, dominus del processo, di
avvalersi di quelle nozioni tecniche ritenute
indispensabili, individuate soltanto in quel determinato
soggetto, che intende nominare consulente o perito'. Si
potrebbe, infatti, frapporre in concreto un ingiustificato
ostacolo all'accertamento giudiziario, e ciò in contrasto
con la ratio che ha ispirato le varie norme
disciplinanti il divieto in questione.
Si è richiamato, a tal proposito, anche l'orientamento
espresso dalla Corte costituzionale
[3], che
ha affermato che il principio di indipendenza della
magistratura (sancito dall'art. 104 della Costituzione con
riguardo ad ogni giudice, singolo o collegiale, in stretta
correlazione all'autonomia dell'ordine giudiziario), non può
non considerarsi scalfito da una norma che condiziona ad un
atto vincolante di un'autorità amministrativa l'esercizio
della funzione giurisdizionale, in un momento
particolarmente delicato del processo quale è quello della
scelta del consulente.
Pertanto, in detta fattispecie, sembrerebbe doversi ritenere
inapplicabile la disciplina vigente che condiziona
l'espletamento di incarichi extraistituzionali, da parte di
pubblici dipendenti, alla previa autorizzazione rilasciata
dall'amministrazione di appartenenza, in quanto l'incarico
di c.t.u. svolto dal pubblico dipendente è conferito sulla
base di una scelta fiduciaria dell'autorità giudiziaria.
Un tanto verrebbe confermato anche dal tenore del comma 8
dell'art. 53 del d.lgs. n. 165/2001. La richiamata norma
prevede che le pubbliche amministrazioni non possono
conferire incarichi retribuiti a dipendenti di altre
amministrazioni pubbliche senza la previa autorizzazione
dell'amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi.
Salve le più gravi sanzioni, il conferimento dei predetti
incarichi, senza la previa autorizzazione, costituisce in
ogni caso infrazione disciplinare per il funzionario
responsabile del procedimento; il relativo provvedimento è
nullo di diritto.
Il Ministero di grazia e giustizia fa notare, in proposito,
come un provvedimento giurisdizionale non possa in alcun
modo essere dichiarato nullo in base ad una norma
sull'organizzazione amministrativa e come, in relazione al
giudice, per la stessa configurazione dell'ordinamento
giudiziario, non si attagli la figura del 'responsabile
del procedimento'.
In conclusione, si è rilevato come l'applicazione delle
norme in materia di incompatibilità dei pubblici dipendenti
anche alla fattispecie in esame potrebbe comportare, sia per
la specificità e particolare competenza necessaria ad
espletare l'incarico di c.t.u., sia per l'urgenza di
espletare tale compito, gravi situazioni di intralcio
all'attività giudiziaria.
Pertanto, non potendo il potere giudiziario essere intaccato
da atti promananti da altra autorità, nell'ipotesi in
argomento dovrebbe ritenersi sufficiente che il dipendente
comunichi all'ente di appartenenza il conferimento del
predetto incarico, nel rispetto dei principi di correttezza
e buon andamento.
---------------
[1] Cfr. Direzione Generale degli Affari Civili e delle
Libere Professioni, circolare del 04.01.1999. Si osserva che
detta Direzione, in quella sede, ha precisato di aver mutato
l'originario orientamento successivamente all'acquisizione
del parere del C.S.M. reso con nota n. 152 del 15.04.1998.
[2] Cfr. art. 1, comma 60, l. n. 662/1996 e art. 58 del del
d.lgs. 29/1993 ora trasfuso nell'art. 53 del d.lgs.
165/2001.
[3] Cfr. sentenza n. 440 del 1988
(12.04.2013
- link a www.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parere sulla legittimità di un permesso di costruire
rilasciato per la ricostruzione di un fabbricato distrutto
dagli eventi bellici ai sensi dell'art. 10 della legge 13.07.1966 n. 610 - Comune di Cassino
(Regione Lazio,
parere
09.04.2013 n. 99247 di prot.). |
NEWS |
APPALTI: Appalti solo alle imprese pulite.
L'elenco delle aziende mafia-free aggiornato ogni anno.
Pronto il dpcm che attua la legge anticorruzione. Domande di
iscrizione anche via Pec.
Lavori solo alle imprese doc. L'elenco delle aziende
mafia-free che, in qualità di fornitori, prestatori di
servizi ed esecutori di lavori saranno dispensate dal
produrre l'informativa antimafia, sarà aggiornato di anno in
anno e verrà articolato in sezioni a seconda dei settori di
attività.
Le aziende che vorranno farne parte dovranno inoltrare
domanda alla prefettura competente (anche telematicamente
attraverso la posta elettronica certificata) la quale poi
effettuerà le necessarie verifiche se l'impresa non è
censita nella Banca dati nazionale unica antimafia istituita
dal dlgs 159/2011. Viceversa, se essa è già presente nella
Banca dati, l'iscrizione sarà automatica e la liberatoria
antimafia potrà essere rilasciata immediatamente.
Con la
messa a punto da parte del governo del
dpcm che detta le
istruzioni tecniche per l'istituzione e l'aggiornamento
dell'elenco, l'operazione pulizia negli appalti pubblici
prevista dalla legge anticorruzione (legge n. 190/2012) può
dirsi completa. L'iscrizione nella lista delle imprese con
la fedina penale pulita sarà su base volontaria e sarà
ovviamente subordinata all'assenza di eventuali tentativi di
infiltrazione. Ma soprattutto non sarà un'iscrizione a vita.
Le prefetture competenti per territorio dovranno infatti
effettuare verifiche periodiche sull'assenza di commistioni
con le organizzazioni criminali e in caso di esito negativo
disporre la cancellazione di chi non risulta in regola.
Come detto, l'elenco sarà suddiviso in tante sezioni quante
sono le attività considerate come maggiormente esposte al
rischio di infiltrazioni mafiose dalla legge anticorruzione.
Si va dal trasporto di materiali a discarica al trasporto di
rifiuti, dal movimento terra alla fornitura di calcestruzzo,
dalla fornitura di ferro lavorato alla guardiania dei
cantieri. Questo elenco potrà essere aggiornato entro il 31
dicembre di ogni anno, con apposito decreto del ministro
dell'interno, adottato di concerto con i ministri della
giustizia, delle infrastrutture e dei trasporti e
dell'economia e delle finanze.
Le domande di iscrizione nell'elenco potranno essere inviate
anche telematicamente alle prefetture che le valuteranno
seguendo la procedura a doppio binario vista prima:
iscrizione automatica nel caso in cui l'impresa sia già
presente nella Banca dati nazionale antimafia o solo a
seguito di verifiche in caso di mancata iscrizione
nell'elenco. Le prefetture dovranno pronunciarsi entro 90
giorni dal ricevimento dell'istanza.
Le imprese presenti nell'elenco dovranno comunicare entro 30
giorni qualsiasi modifica del proprio assetto proprietario o
degli organi sociali. Mentre le società quotate dovranno
indicare anche le partecipazioni rilevanti. La mancata
osservanza dell'obbligo di comunicazione comporterà la
cancellazione dall'elenco. Almeno 30 giorni prima della
scadenza annuale di validità dell'iscrizione, le imprese
dovranno trasmettere alla prefettura la richiesta di restare
iscritte all'elenco per lo stesso o per settori di attività
diversi rispetto a quelli originari. Le prefetture potranno
disporre controlli a campione per l'accertamento dei
requisiti. E chi non sarà trovato in regola verrà
cancellato.
Gli elenchi delle imprese «pulite» saranno pubblicati sul
sito web delle prefetture nell'apposita sezione
«Amministrazione trasparente» prevista dal dlgs 33/2013 (si
veda altro pezzo in pagina). Per facilitare la comunicazione
delle imprese con le prefetture attraverso la Pec, il
ministero dell'interno pubblicherà sul proprio sito un
elenco di indirizzi Pec dei singoli Uffici territoriali di
governo
(articolo ItaliaOggi del 17.04.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Amministrazioni senza segreti sul personale.
I dati dovranno essere pubblicati sui siti web nella sezione
dedicata alla trasparenza. Una nota
dell'anci spiega il dlgs 33/2013.
Il conto annuale delle pubbliche amministrazioni dovrà
contenere i dati sulla dotazione organica e sul personale in
servizio effettivo. All'interno del conto dovranno essere
indicate sia la diversa distribuzione tra le qualifiche e
tra le aree professionali, sia le relative spese sostenute.
Tutte queste informazioni dovranno poi essere pubblicate sul
sito delle amministrazioni, in una apposita sezione
denominata amministrazione trasparente.
Questo è quanto
emerge dalla nota informativa pubblicata ieri
dall'Associazione nazionale comuni italiani (Anci), in
merito al decreto recante disposizioni in materia di
trasparenza nelle pubbliche amministrazioni (dlgs n.
33/2013).
La nota informativa dell'Anci, sottolinea inoltre,
che a seguito dell'entrata in vigore del decreto
trasparenza, ogni amministrazione sarà tenuta a creare una
apposita banca dati all'interno della quale dovranno essere
reperibili tutte le norme di legge che regolano il
funzionamento dell'ente, della sua organizzazione e delle
sue attività. Questo al fine di completare il quadro
previsto dal nuovo accesso civico, in base al quale tutti i
cittadini, senza obbligo di motivazione potranno avere
accesso a ogni atto amministrativo del quale è prevista la
pubblicazione.
La nota dell'Anci precisa poi che, al fine di vigilare sul
corretto adempimento degli oneri sulla trasparenza, dovrà
essere indicato un apposito responsabile. In base alla nuova
normativa, spetterà infatti al responsabile per la
trasparenza, segnalare all'ufficio per la disciplina, i casi
di inadempimento o di adempimento parziale degli obblighi in
materia di pubblicazioni.
A conclusione della nota informativa, l'Associazione
sottolinea poi come l'inadempimento degli obblighi di
pubblicazione previsti, costituirà elemento di valutazione
della responsabilità dirigenziale, nonché eventuale causa di
responsabilità per danno all'immagine dell'amministrazione.
Il tutto, sarà comunque valutato poi, ai fini della
corresponsione della retribuzione e del trattamento
accessorio collegato alla performance individuale dei
responsabili
(articolo ItaliaOggi del 17.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI:
Norme Ue perimetrate.
Decreti attuativi senza adempimenti extra. Una direttiva di
palazzo Chigi aggiorna l'analisi di impatto (Air).
Applicazione delle direttive e dei regolamenti comunitari
senza adempimenti ulteriori rispetto a quelli fissati dalla
norma Ue. Arriva la bussola per i decreti attuativi delle
norme comunitarie, grazie alla
direttiva 16.01.2013 del
Presidente del Consiglio dei ministri, (in G.U. del 12.04.2013) di disciplina sul rispetto dei livelli minimi
di regolazione previsti dalle direttive europee, nonché di
aggiornamento del modello Air, previsto dalla legge
246/2005.
Va ricordato che se una nuova direttiva europea non prevede
adempimenti formali per avviare un'attività economica, né è
rimessa una scelta agli stati membri, non è possibile
prevedere alcun obbligo a carico delle imprese; ma se la
direttiva comunitaria individua i requisiti inderogabili per
svolgere una determinata attività e prevede che la relativa
procedura sia definita dal diritto interno, permane
autonomia per definire gli adempimenti necessari.
Tuttavia, nel caso in cui sia superato il livello minimo di
regolazione fissato dalla Ue, deve essere seguita la
procedura dell'analisi di impatto della regolamentazione
prevista dal regolamento 170/2008. Insomma non c'è margine
di manovra per aggirare i principi che vengono stabiliti a
livello comunitario e lo Stato, quindi, fissa le regole
operative perché le direttive comunitarie siano
correttamente applicate.
Aggiornato l'Air. La novità del provvedimento è che,
rispetto alle indicazioni contenute nel primo modello
approvato con dpcm 170 del 2008, con la direttiva pubblicata
la scorsa settimana, sono state introdotte apposite sezioni,
relative alla valutazione di impatto sulle piccole e medie
imprese nonché alla valutazione degli oneri informativi e
dei relativi costi amministrativi introdotti o eliminati e,
soprattutto, al rispetto dei livelli minimi di regolazione
europea.
Gli oneri informativi. Tale provvedimento, peraltro, è
soltanto uno dei tasselli con i quali è stato costruito il
complesso percorso avviato con i decreti legge in materia di
semplificazione e di liberalizzazione emanati negli ultimi
anni. Altro regolamento di rilievo, infatti, è il 252/2012
pubblicato in G.U. il 4 febbraio di quest'anno e relativo ai
criteri e modalità per la pubblicazione degli elenchi degli
oneri a carico delle imprese introdotti ed eliminati.
L'obiettivo è quello di disporre del numero più ampio di
elementi in relazione al mandato conferito al Governo di
revisione complessiva della disciplina per l'esercizio delle
attività economiche che dovrà anche individuate «le attività
sottoposte ad autorizzazione, a segnalazione certificata di
inizio di attività (Scia) con asseverazioni o a segnalazione
certificata di inizio di attività (Scia) senza asseverazioni
ovvero a mera comunicazione e quelle del tutto libere» così
come ha previsto il dl 5/2012 (conv. 35/2012) al comma 4
dell'articolo 12, «Semplificazione procedimentale per
l'esercizio di attività economiche».
Competenza regionale. Sta di fatto che le indicazioni della
direttiva pubblicata il 12 aprile scorso sono vincolanti
soltanto per lo Stato, anche se le regioni, con un'intesa
sottoscritta a livello di Conferenza unificata già il 29.03.2007, si sono impegnate ad adottare il criterio
dell'Air al fine di migliorare complessivamente la qualità
della regolamentazione.
Ciò che è certo è che il rispetto
del diritto comunitario, in base al primo comma dell'art.
117 Cost., compete a tutti i soggetti ai quali è affidata la
potestà legislativa, con la conseguenza che la suddetta
direttiva rappresenta un parametro di riferimento ottimale
perché consente l'immediata verifica della compatibilità con
le norme Ue e, attraverso la corretta compilazione delle
diverse sezioni di cui è composto il modello di Air, il
riscontro sugli effettivi esiti della regolamentazione
(articolo ItaliaOggi del 17.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: DECRETO
PAGAMENTI/ Derogata la disciplina a regime (che demanda al
consiglio).
Tares, parla anche la giunta.
Competenza sulla scadenza e sul numero delle rate.
Scadenze e numero delle rate di versamento in acconto della
Tares possono essere deliberate anche dalla giunta comunale.
Per l'anno in corso, infatti, l'articolo 10 del dl 35/2013
deroga a quanto disposto dall'articolo 14 del dl 201/2011,
che a regime demanda al consiglio comunale il compito di
modificare le scadenze stabilite dalla legge.
Questa interpretazione si ricava dalla formulazione
letterale dell'articolo 10 che, per il 2013, ha apportato
delle modifiche alle regole contenute nell'articolo 14 del
dl «salva Italia», che ha istituito la Tares. La nuova
disposizione per accelerare l'iter per la riscossione del
tributo in acconto e far fronte all'esigenza di comuni e
gestori di anticipare la data di pagamento e l'incasso delle
somme dovute dai contribuenti, al fine di garantire lo
svolgimento del servizio di smaltimento dei rifiuti, ha
introdotto delle deroghe alla disciplina della tassa.
Scadenze e numero delle rate di versamento sono stabilite
dal comune con deliberazione adottata, «anche nelle more
della regolamentazione comunale del nuovo tributo», e
pubblicata sul proprio sito web almeno 30 giorni prima della
data indicata per il pagamento.
La prima rata, dunque, non dovrà più essere versata a
luglio, come previsto dal dl rifiuti (1/2013), ma potrà
essere anticipata, anche nel caso in cui il comune non abbia
adottato il regolamento, il cui termine per la deliberazione
è attualmente fissato al prossimo 30 giugno. Pertanto, anche
in assenza di un'espressa previsione, si può ritenere che la
giunta comunale abbia il potere di stabilire le scadenze e
il numero delle rate. In caso contrario, non avrebbe senso
la norma nella parte in cui consente la deliberazione nelle
more del regolamento. Atto che è invece di competenza del
consiglio comunale. Del resto, se così non fosse il
legislatore avrebbe confermato ciò che è già previsto
dall'articolo 14, vale a dire che le scadenze stabilite
dalla norma a regime (gennaio, aprile, luglio, ottobre)
possono essere modificate solo con regolamento. Come già
evidenziato, la facoltà di deliberare le scadenze anche
prima dell'approvazione del regolamento è dettata
dall'urgenza che hanno comuni e gestori di incassare una
quota parte del tributo per assicurare il servizio. E la
delibera di giunta consente di raggiungere questo risultato
in tempi brevi.
È poi espressamente disposto che per le prime due rate i
comuni possono inviare ai contribuenti i modelli di
pagamento precompilati già predisposti per il pagamento di
Tarsu, Tia1 o Tia2 o indicare altre modalità di versamento
giù utilizzate in passato. Considerato che la nuova
disposizione prevede inoltre che i comuni hanno anche la
facoltà di fare ricorso alle altre modalità di pagamento
«già in uso per gli stessi prelievi», è sostenibile la tesi
che concessionari e gestori possano incassare i versamenti
in acconto. Le somme pagate verranno poi scomputate da
quella dovuta, a titolo di Tares, per l'anno 2013, che verrà
richiesta con l'ultima rata e che dovrà essere versata solo
nelle casse comunali. Anche la maggiorazione sui servizi si
pagherà con l'ultima rata, ma il gettito è riservato allo
stato
(articolo ItaliaOggi del 16.04.2013). |
APPALTI:
Strada in salita per lo sblocco dei pagamenti: incerti sia i
tempi sia gli importi liquidati.
P.a., ecco chi sarà pagato. Forse.
Via ai debiti degli enti locali. A patto che ci sia
liquidità.
Con la pubblicazione del dl 35/2013, ossia il decreto che
sblocca i pagamenti delle pubbliche amministrazioni, si è
finalmente messa in moto la macchina che porterà nelle casse
dei creditori delle p.a. circa 40 miliardi di euro da qui al
2014. Il percorso, tuttavia, è assai tortuoso, tanto da
rendere incerti i potenziali beneficiari sui tempi effettivi
di pagamento.
In attesa delle correzioni che potranno essere introdotte
dal parlamento (come richiesto dalle principali associazioni
imprenditoriali), proviamo a capire chi può nutrire una
ragionevole aspettativa di ricevere i soldi. Migliore sembra
essere la posizione di chi vanta crediti nei confronti degli
enti locali, per i quali, infatti, il dl 35 prevede lo
sblocco di 5 miliardi di pagamenti, concedendo una deroga ai
vincoli del Patto di stabilità 2013. In pratica, comuni e
province potranno utilizzare la liquidità di cui dispongono
(e che il Patto ha finora congelato) per estinguere una
parte dei loro debiti «di parte capitale». Si tratta, in
particolare, di acquisti di beni mobili (arredi,
attrezzature, macchinari, automezzi, ecc.), di interventi di
realizzazione e/o manutenzione di opere pubbliche (strade,
fognature ecc.), di acquisti o realizzazione di immobili. Ma
vi rientrano anche, per esempio, le spese di progettazione a
fronte di prestazioni di professionisti.
Il dl 35 consente di pagare due tipologie di debiti: 2)
quelli «certi, liquidi ed esigibili» alla data del 31.12.2012; 2) quelli per i quali, alla medesima data,
sia stata almeno emessa fattura (o richiesta equivalente di
pagamento). Se per la seconda categoria non si pongono
particolari questioni interpretative in quanto fa fede la
data della fattura, qualche dubbio può sorgere rispetto alla
prima. In proposito, si ricorda che un debito si considera
certo quando non è controverso nella sua esistenza (per
esempio per contestazioni giudiziali), liquido quando il suo
ammontare risulta precisamente determinato o determinabile,
esigibile quando non è sottoposto a condizioni o termini. In
tali casi, si può anche prescindere dall'esistenza o meno
della fattura, che presenta un valore più contabile (oltre
che fiscale), che sostanziale. Per esempio, per le opere
pubbliche sembra assumere rilevanza il certificato di
pagamento, che viene rilasciato in coincidenza con gli stati
di avanzamento lavori.
Si ritiene che l'esigibilità sussista anche prima di
ottenere il Durc, fermo restando che quest'ultimo è
necessario ai fini del pagamento effettivo. Analogo discorso
vale per le verifiche presso Equitalia (per i pagamenti
oltre 10 mila euro).
È incerto se possano essere considerati anche i debiti non
commerciali (per esempio, a favore di soggetti espropriati):
la norma non opera distinzioni, anche se la relazione di
accompagnamento parla espressamente di debiti commerciali.
Al di là dei casi dubbi, lo sblocco avverrà in tempi rapidi,
a patto che comuni e province dispongano di sufficienti
risorse liquide. In tal caso, infatti, il dl 35 consente di
pagare immediatamente fino al 13% della liquidità presente
sui conti di tesoreria dei singoli enti.
Una volta esaurito il plafond iniziale, però le cose
iniziano a complicarsi. A questo punto, infatti, occorrerà
attendere il 15 maggio, allorché il Mef indicherà il bonus
che ciascun ente potrà utilizzare per derogare dal Patto. Al
momento, inoltre, non è chiaro se i 5 miliardi totali
includano anche i pagamenti già effettuati nei primi mesi di
quest'anno: se così fosse (come pare confermato dalla
lettera delle norme), è ovvio che gli spazi per nuovi
pagamenti si restringono.
Se poi l'ente debitore è a corto di cassa, le incognite
aumentano ancora. Per fronteggiare tale evenienza, il dl 35
prevede due strumenti. Da un alto, aumenta il margine entro
cui province e comuni possono attivare le anticipazioni di
tesoreria, dall'altro consente loro di accedere a un
prestito a lungo termine della Cassa depositi e prestiti.
Ciò, oltre a comportare un allungamento dei tempi, non
garantisce che le risorse che potranno essere acquisite
siano sufficienti. Sul primo versante, molti enti sono già
vicini al tetto delle anticipazioni. Quanto al secondo
strumento, i 4 miliardi messi a disposizione dal dl 35 (2
quest'anno e 2 il prossimo) sono inferiori rispetto al reale
fabbisogno. Inoltre, il meccanismo è viziato da un corto
circuito: gli enti, infatti, devono presentare richiesta
alla Cassa entro il 30 aprile, che è la stessa scadenza
entro cui devono chiedere la deroga sul Patto. C'è quindi il
rischio che i margini di spesa risultino inferiori alla
reale capacità di pagamento.
Per coloro che resteranno a bocca asciutta, la strada si fa
sempre più stretta. Entro ottobre è prevista una seconda
iniezione di liquidità, ma solo per il 10% dello
stanziamento 2013, mentre non è stabilito quadro verranno
ripartiti i 2 miliardi stanziati per il 2014.
Vita ancora più dura per i creditori delle regioni e degli
enti del servizio sanitario nazionale. In tali casi, il
problema non è tanto legato alle risorse disponibili, che
nel biennio ammontano complessivamente a 22 miliardi (su 26
totali di cash per gli enti territoriali). L'ostacolo qui è
rappresentato dai tempi: per accedere al tesoretto, infatti,
i governatori sono chiamati a predisporre, oltre al piano
dei pagamenti, anche «idonee e congrue» misure di copertura
finanziaria degli impegni assunti, anche a carattere
legislativo. Spesso, si tratta di un passaggio tutt'altro
che scontato, specialmente nelle regioni con i bilanci più
traballanti.
Coloro che aspettano di essere pagati dalle p.a. statali,
infine, dovranno sperare di essere inclusi nella prima
tranche di pagamenti, che scatterà, anche in tal caso, a
metà maggio sulla base degli elenchi cronologici che ciascun
ministero è chiamato a predisporre entro fine aprile con
riferimento ai propri debiti. Per chi resterà fuori,
occorrerà aspettare che vengano definiti appositi piani di
rientro, che prima di essere attuati dovranno passare al
vaglio di parlamento e Corte dei conti.
A differenza dei bonus sul Patto, le iniezioni di liquidità
possono essere destinate anche al pagamento di debiti di
parte corrente (forniture di beni e servizi), sempre che
certi, liquidi ed esigibili o muniti di fattura al 31
dicembre scorso. Per questi, infatti, non si pone un
problema di Patto che vincola solo i pagamenti in conto
capitale. Ma la torta è sempre quella e più aumentano i
commensali più il numero di quelli destinati a restare
ancora digiuni è destinato a crescere (articolo
ItaliaOggi Sette del 15.04.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
La Corte di giustizia: per il legno trattato con sostanze
chimiche si applica il Reach.
Rifiuti, recupero senza rischi.
Se mancano ecoregole ad hoc, valgono altre norme Ue.
In mancanza di norme ambientali ad hoc, per valutare il
corretto recupero di residui trattati con sostanze
pericolose assumono rilevanza le regole tecniche
rintracciabili in altri e indipendenti provvedimenti
dell'ordinamento giuridico comunitario.
Questo, in estrema
sintesi, il principio di diritto pronunciato dalla Corte di
giustizia Ue in risposta alla questione pregiudiziale posta
da un giudice nazionale sul valore delle norme tecniche
dettate dal regolamento Ce n. 1907/2006 (cosiddetto «Reach»)
in materia di sostanze chimiche ai fini dell'applicazione
delle generali norme sul recupero dei rifiuti contenute
nella direttiva 2008/98/Ce.
Il caso. La questione è stata sollevata in via pregiudiziale da un
giudice della Finlandia chiamato a decidere sulla
legittimità del libero riutilizzo, quali elementi
strutturali di una strada carrabile, di alcuni vecchi pali
di legno trattati con una soluzione di rame, cromo arsenico
(cosiddetto «Rca») sottraendoli così alla diversa gestione
di rifiuti pericolosi.
Il tutto sul presupposto, spiega la Corte del rinvio, che il
regolamento «Reach», pur non ammettendo in via generale
l'uso di tali sostanze per la protezione del legno, ne
ammette l'impiego qualora gli stessi materiali siano
destinati a determinate applicazioni non comportanti rischi
per le persone e per l'ambiente (come quelle industriali e
professionali che non comportano contatto cutaneo con il
pubblico).
La sentenza. Pronunciandosi sulla questione con sentenza 7
marzo 2013 n. C-358/11, la Corte di giustizia Ue ha
riconosciuto che in linea di principio il rispetto delle
condizioni di «utilizzo in deroga» previste dal regolamento Reach costituisce sicuramente uno degli elementi che, in
base alla direttiva 2008/98/Ce, possono indurre a
considerare il legno trattato con soluzioni Rca fuoriuscito
dal regime dei rifiuti e riabilitato a comune bene, e ciò
sulla base del fatto che entrambe le normative sono ispirate
agli stessi principi di elevata protezione della salute
umana e dell'ambiente. Il tutto rimettendo, però, alla
valutazione del giudice nazionale la valutazione concreta
se, nel caso di specie, tale protezione sia effettivamente
garantita.
Il contesto normativo. Nel motivare la sua decisione, il
giudice europeo si richiama infatti all'articolo 6 della
direttiva sui rifiuti, articolo che stabilisce le condizioni
generali da soddisfare affinché i rifiuti cessano di essere
tali.
In base a tale articolo l'end of waste dei rifiuti è
decretato dall'applicazione di una procedura di recupero
all'esito della quale i residui: possono essere riutilizzati
per scopi specifici; hanno un loro mercato; soddisfano
standard esistenti per prodotti; non presentano rischi
complessivi negativi per l'ambiente e la salute umana.
È pur vero, rileva il giudice comunitario, che tali
condizioni generali sull'end of waste diventano operative
solo a seguito di provvedimenti della Commissione Ue che ne
declinino l'applicazione su singole categorie di rifiuti
(come già accaduto con i regolamenti su rottami di ferro e
vetro, ndr) ma è altrettanto vero, sottolinea la stessa
Corte, che il medesimo articolo 6 autorizza gli stati
membri, nelle more dell'adozione di tali provvedimenti Ue, a
decidere caso per caso se un determinato rifiuto abbia
cessato di essere tale tenendo conto (e da qui la rilevanza
della sentenza in questione) «della giurisprudenza
applicabile».
Orbene, argomenta La Corte Ue, nessuna norma comunitaria
pare impedire che i rifiuti pericolosi possano cessare di
essere tali se il procedimento di recupero ne consente un
riutilizzo privo di effetti negativi per persone ed ambiente
(come richiesto dal citato articolo 6 della direttiva
rifiuti) e se (inoltre, come previsto dall'articolo 3 della
stessa direttiva rifiuti) il suo detentore non ha l'obbligo
di disfarsene.
E per valutare l'esistenza di tali due parametri (evidenzia
la sentenza) ben può concorrere, nel silenzio del
Legislatore comunitario, il rispetto delle norme sancite da
altri provvedimenti Ue, come (appunto) quelle recate dal
regolamento Ce n. 1907/2006 sulle sostanze chimiche.
Le norme particolari sull'end of waste. Come ricordato dal
giudice comunitario nella sentenza in parola, le eventuali
disposizioni nazionali sulla cessazione della qualifica di
rifiuto per particolari categorie di residui hanno però
valore (ex direttiva 2008/98/Ce) solo fino all'adozione di
particolari regole Ue per specifiche categorie di residui.
E proprio in attuazione della direttiva 2008/98/Ce in parola
l'Esecutivo comunitario ha già adottato, sgombrando dunque
il campo da eventuali norme nazionali incompatibili, in
relazione ai rottami di metallo il regolamento 333/2011/Ue
(in vigore dallo scorso 09.10.2011) e in relazione ai
rottami di vetro il regolamento Ue n. 1179/2012 (in vigore
dal prossimo 11.06.2013). Tutto ciò mentre un terzo
provvedimento (molto atteso dai gestori di rifiuti
elettronici e veicoli fuori uso), quello sull'end of waste
del rame, è già stato predisposto dalla stessa Commissione
Ue lo scorso gennaio 2013 ed è in corso di definitiva
approvazione (articolo
ItaliaOggi Sette del 15.04.2013). |
CONDOMINIO:
Riscaldamento, spese più eque.
Tra le novità la stima del consumo dovuto a dispersione.
Pubblicata l'ultima versione della norma
tecnica Uni 10200/2013 sulla climatizzazione.
Maggiore trasparenza nella contabilizzazione del consumo di
calore in condominio.
È stata, infatti, pubblicata la nuova
versione della norma tecnica Uni 10200/2013, elaborata
dall'Ente nazionale italiano di unificazione e disponibile a
pagamento sul sito internet www.uni.com, che fornisce i
criteri per una corretta ed equa ripartizione della spesa
per la climatizzazione invernale e per l'acqua calda
sanitaria nei condomini serviti da impianto termico
centralizzato o da impianto di teleriscaldamento.
L'aggiornamento messo a punto dall'Ente nazionale italiano
di unificazione offre, quindi, maggiori garanzie ai
condomini, permettendo di calcolare in maniera più evidente
la ripartizione pro quota della spesa totale per il
riscaldamento.
Il sistema della contabilizzazione del calore. La
contabilizzazione del calore è un sistema che consente di
calcolare il consumo di ogni appartamento in modo da operare
il riparto delle spese comuni tra i singoli condomini in
base al consumo che ciascuno di questi abbia effettivamente
registrato.
In questi casi il problema principale da affrontare è quello
del criterio da utilizzare per procedere a detta
rendicontazione. Solitamente negli edifici con impianto
centralizzato c.d. a distribuzione orizzontale si ricorre
alla c.d. contabilizzazione diretta. In questo caso i
contatori vengono collocati in corrispondenza del punto di
ingresso in ciascuna unità immobiliare della derivazione
dell'impianto di distribuzione centralizzato, in modo da
poter conteggiare la quantità di calore prelevata da ciascun
condomino. Viceversa, negli edifici con impianto c.d. a
distribuzione verticale, che rappresentano la tipologia oggi
più diffusa, si procede all'installazione di specifici
ripartitori, che sono programmati in virtù delle
caratteristiche e della potenza termica dei corpi scaldanti
sui quali sono installati e che consentono in tal modo di
determinare i consumi.
La nuova norma Uni 10200/2013. La nuova Uni introduce quindi
una maggiore trasparenza nella gestione della
contabilizzazione del calore perché prevede che nella prima
stagione di attività dell'impianto il responsabile debba
fornire agli utenti un prospetto previsionale della spesa
totale per climatizzazione invernale e acqua calda
sanitaria. Dal punto di vista tecnico, invece, la novità
principale è rappresentata dalla stima del consumo
involontario dovuto alle dispersioni della rete di
distribuzione e che influiscono comunque sulla spesa totale
da ripartire tra i condomini.
Attualmente le specifiche tecniche della norma Uni/Ts 11300
consentono di utilizzare i ripartitori per effettuare anche
detta stima.
Tuttavia la nuova norma Uni 10200 consente in alternativa di
effettuare un calcolo semplificato con l'utilizzo di
coefficienti che attribuiscono valori prestabiliti al
consumo involontario.
Un'altra novità riguarda poi i c.d. millesimi di
riscaldamento, poiché la nuova norma Uni 10200 prevede che
gli stessi possano essere ricondotti non solo ai millesimi
di potenza termica installata, come previsto sino a ora, ma
anche ai millesimi di fabbisogno di energia utile, calcolati
secondo le specifiche della predetta norma Uni/Ts 11300 (articolo
ItaliaOggi Sette del 15.04.2013). |
APPALTI:
Il mosaico delle regole sblocca-pagamenti.
L'utilizzo delle «vecchie» procedure continuerà ad essere
decisivo per chi ora non sarà liquidato.
TASSELLI MANCANTI/
Il decreto legge 35 si inserisce e completa un quadro
normativo molto articolato che alla prova dei fatti si è
rivelato inefficace.
La manovra proposta dal Governo col decreto legge 35 non
intende semplicemente immettere liquidità nel sistema -mediante la soddisfazione diretta dei creditori dello Stato
e delle sue differenti amministrazioni- ma ha la più
articolata (e difficoltosa) finalità di perfezionare e
rendere (finalmente) funzionante un complesso sistema di
norme messe in capo per porre rimedio ai ritardi dei
pagamenti.
Un fenomeno -come emerge dal documento del Centro studi
della Camera con le schede di lettura del Dl n. 35 2013-
che nel corso degli anni ha conosciuto una crescita
impressionante, sino a sfiorare il totale dei 90 miliardi
(secondo stime Banca d'Italia), ovvero circa il 5,8% del
Pil. Come se non bastasse, è lo stesso governo a confermare
che, al momento, non esistono dati certi sull'ammontare dei
debiti delle pubbliche amministrazioni verso le imprese.
Il governo, a più riprese, ha cercato una soluzione. Non
fosse altro perché -a seguito del recepimento della
direttiva 2011/7/UE- c'è stato un significativo giro di
vite sulle sanzioni legate ai mancati pagamenti delle
transazioni commerciali, ivi comprese quelle delle Pa. Per i
contratti conclusi a decorrere dal 01.01.2013, poi, il
termine massimo per i pagamenti della Pa è di 60 giorni e
gli interessi moratori (circa l'8% su base annua) decorrono
automaticamente alla scadenza del termine.
In altre parole, se fino ad ora "chiedere qualche
sacrificio" ai fornitori era tollerato (e tollerabile) -magari con l'introduzione di specifiche clausole
contrattuali negli accordi di fornitura, in deroga alle
previsioni del Dlgs n. 231/02 che, in Italia, regola
tempistica dei pagamenti commerciali e sanzioni per gli
inadempimenti- tutto ciò non è più certamente possibile dal
1° gennaio di quest'anno. La conseguenza è che, oltre a
indebolire il sistema imprenditoriale, il ritardi dei
pagamenti generano anche un danno all'Erario.
In ogni caso, già l'articolo 9 del Dl n. 78/2009 -con il fine
di prevenire la formazione di nuove situazioni debitorie
della pubblica amministrazione- ha introdotto, tra l'altro,
una specifica responsabilità disciplinare e amministrativa
dei funzionari pubblici chiamati ad adottare provvedimenti
che comportano impegni di spesa, laddove questi non
accertino preventivamente la conformità del programma dei
pagamenti coi relativi stanziamenti di bilancio.
Con
obiettivi di certo più ambiziosi, poi, con l'articolo 9,
comma 3-bis, del Dl n. 185/2008 è stata introdotta la cd
"disciplina della certificazione dei crediti verso la Pa"
(in prima battuta, solo quelli verso gli enti territoriali),
anche ai fini della cessione pro-soluto dei medesimi a
banche o altri intermediari finanziari (o, più
verosimilmente, per utilizzarli in compensazione con debiti
erariali). Per rendere più efficace questo nuovo istituto,
la legge di stabilità per il 2012 ha introdotto la
previsione secondo la quale, scaduto il termine di sessanta
giorni, su nuova istanza del creditore, provvede alla
certificazione la Ragioneria territoriale dello Stato
competente per territorio, la quale, ove necessario, nomina
un commissario ad acta con oneri a carico dell'ente
territoriale.
Successivamente, il termine per la
certificazione è stato ridotto da 60 a 30 giorni
dall'articolo 13-bis del Dl 07.05.2012, n. 52 il quale
ha, inoltre, reso obbligatoria -e non più eventuale- la
nomina di un Commissario ad acta, su nuova istanza del
creditore, qualora, allo scadere del termine previsto,
l'amministrazione non abbia provveduto alla certificazione.
Il meccanismo della certificazione dei crediti è stato
esteso anche agli enti del Ssn dal Dl 52/2012 e, alle
amministrazioni statali e agli enti pubblici nazionali,
dall'articolo 12 del Dl 02.03.2012, n. 16. In un primo
momento, la certificazione veniva rilasciata solo in forma
cartacea. Dall'ottobre dello scorso anno è obbligatorio,
invece, l'utilizzo di un'apposita piattaforma elettronica
che, tra l'altro, ha il vantaggio che le cessioni dei
crediti certificati in modalità telematica assolvono al
requisito della forma per atto pubblico e all'obbligo di
notificazione al l'amministrazione ceduta.
Nonostante questi sforzi, l'efficacia dei provvedimenti per
l'accelerazione dei pagamenti della Pa è stata veramente
minima. La mancanza (sinora) di sanzioni per le
amministrazioni inadempienti sulla certificazione ha fatto
si che si fermasse a soli 300 milioni di euro il totale
delle certificazioni "cartacee" rilasciate fino a ottobre
2012 e a soli 31 milioni di euro quelle elettroniche. Un
dato, questo, che non meraviglia, se si considera che le
pubbliche amministrazioni che si sono accreditate sulla
piattaforma elettronica sono solo 1.700, su un totale di
oltre 20.000.
Questa situazione non fa bene al "sistema" di leggi sinora
creato per lo sblocco dei debiti della Pa che non può -visti i numeri- reggersi solo sulle immissioni di liquidità
garantite dal Dl 35. In altri termini, tutti gli strumenti
disponibili per utilizzare i crediti verso la Pa devono
essere resi efficacemente disponibili, soprattutto perché le
imprese che non saranno "soddisfatte" (o non lo saranno per
intero) in questa tornata di pagamenti potranno continuare a
fare affidamento solo sugli strumenti alternativi sinora
esistenti.
---------------
Le responsabilità. Gli strumenti per evitare ulteriori
ritardi.
Sanzioni in agguato per i funzionari distratti.
PARADOSSI/
Appare però blanda la penalità prevista in caso di
inadempienza sulla compilazione dell'elenco dei creditori.
Sembra chiaro che, col varo del Dl 35, il governo abbia ben
presente i motivi per i quali il sistema delle norme, sinora
messo in campo per "smobilizzare" i crediti vantati dalle
imprese verso le Pa, non ha funzionato in maniera
soddisfacente.
La scarsa responsabilizzazione delle amministrazioni (rectius,
dei funzionari) chiamati a gestirlo -legata alla mancanza
di sanzioni per gli inadempimenti e/o i ritardi- sembra
essere una chiave di lettura ancora più efficace della
scarsa liquidità dello Stato.
È per questo motivo che, molto probabilmente, più dei
miliardi di anticipazioni messi in campo per immettere
liquidità nel sistema si ha motivo di ritenere che lo
"sblocco integrale dei crediti" verso la Pa passerà anche
attraverso i canali alternativi di utilizzo dei medesimi già
da tempo vigenti nel nostro ordinamento (si vedano
l'articolo e la tabella in questa stessa pagina). Per
inciso, oltre ad allentare temporaneamente i vincoli del
patto di stabilità degli enti locali, il Decreto 35
istituisce un "Fondo per assicurare la liquidità per
pagamenti dei debiti certi, liquidi ed esigibili", con una
dotazione di 10 miliardi di euro per il 2013 e di 16 per il
2014, distinto in tre sezioni, rispettivamente "per
assicurare la liquidità agli enti locali", "alle regioni e
alle province autonome" e "al Servizio Sanitario Nazionale".
In ogni caso, la corresponsione in denaro di quanto dovuto -se e quando ci sarà- è utile alle sole (o prevalentemente
alle) imprese creditrici dello Stato che non hanno, nel
contempo, debiti erariali o che non sono efficientemente
(ovvero, a tassi ragionevoli) in grado di cedere agli
istituti di credito il proprio diritto. È, infatti,
oltremodo increscioso - per uno Stato di diritto - che non
si riesca a far funzionare un sistema di procedure per
garantire uno dei diritti elementari dei sistemi giuridici
di sempre: quello della possibilità di compensare debiti e
crediti corrispondenti (in questo caso, tra le imprese e lo
Stato, in tutte le sue forme). È altrettanto imbarazzante
che non si riesca a far funzionare il sistema delle
certificazioni dei crediti per far si che -chi ne abbia la
possibilità- possa chiedere delle anticipazioni alle banche
sui medesimi.
Per questo motivo, la sanzione pecuniaria introdotta per i
funzionari che non richiedono gli spazi finanziari nei
termini e secondo le modalità del decreto -così come quella
stabilita per chi non procede, entro l'esercizio finanziario
2013, a effettuare pagamenti per almeno il 90% degli spazi
concessi- è importante esattamente quanto quella stabilita
per la mancata registrazione sulla piattaforma elettronica
per la certificazione dei crediti entro 20 giorni
dall'entrata in vigore del Dl 35.
È certamente utile e giusto che le amministrazioni debitrici
comunichino -a partire dal 01.06.2013 e fino al 15.09.2013, utilizzando la piattaforma elettronica per
le certificazioni dei crediti- l'elenco completo dei debiti
certi, liquidi ed esigibili, maturati alla data del 31.12.2012, con l'indicazione dei dati identificativi del
creditore. C'è, però, da considerare che -anche in ragione
del fatto che questa comunicazione (correttamente e
opportunamente) equivale a certificazione del credito (ai
sensi dell'articolo 9, commi 3-bis e 3-ter, del Dl n.
185/2008)- troppo blanda appare la sanzione in questo caso
prevista per l'inadempimento. Che si sappia, sono molto rari
i casi di contestazioni di responsabilità dirigenziali e
disciplinari per gli inadempimenti nelle nostre Pa.
La
possibilità, poi, prevista anche in questo caso di chiedere
la nomina di un commissario ad acta appare, ancora
una volta, particolarmente irritante per chi si aspetterebbe
di essere tutelato nei propri diritti esattamente con lo
stesso zelo col quale, in alcuni casi, lo Stato esige quanto
gli è dovuto per il contributo al suo funzionamento (articolo
Il Sole 24 Ore del 15.04.2013). |
APPALTI:
Imposte indirette. Il perimetro del vincolo in caso di
omessi versamenti
La solidarietà sull'Iva non si ferma agli appalti.
Responsabilità anche per i beni soggetti a frode e gli
immobili.
Non solo appalti. L'attenzione rivolta alla nuova
responsabilità solidale per l'Iva (e le ritenute) nei
contratti di subappalto, introdotta dall'articolo 13-ter del
Dl 83/2012, non deve far dimenticare che esistono anche
altre situazioni che stabiliscono un vincolo per il
versamento dell'imposta e/o delle sanzioni in capo a
soggetti diversi dal debitore naturale.
La responsabilità solidale sorge quando più soggetti sono
tenuti in solido ad adempiere l'obbligazione (anche)
tributaria. Secondo il Codice civile (articolo 1292),
infatti, in presenza del vincolo di solidarietà ognuno dei
coobbligati può essere tenuto all'adempimento integrale con
conseguente liberazione degli altri. In via di principio, al
coobbligato solidale che paga spetta il diritto di regresso
per l'importo versato nei confronti degli altri obbligati.
Esaminiamo i casi principali (per un elenco più dettagliato
si rinvia alla grafica a lato).
Le merci «sensibili»
La norma di riferimento in materia di responsabilità Iva è
rappresentata dall'articolo 60-bis, comma 2, del Dpr
633/1972. La disposizione prevede il coinvolgimento del
cessionario di beni considerati «sensibili» al rischio di
frode. Si tratta dei prodotti individuati dal decreto 22.12.2005 (autoveicoli, telefoni, computer, animali vivi
e carni), cui si affiancano, dal 4 dicembre dello scorso
anno, quelli previsti dal Dm 31.10.2012 (pneumatici e
gomme).
Affinché operi la solidarietà dell'acquirente soggetto
passivo (la disposizione non opera per gli acquisti dei
privati) è comunque necessario che la cessione dei beni in
questione sia effettuata a un prezzo inferiore al valore
normale e che il cedente non abbia versato la relativa
imposta (verifica tutt'altro che semplice, visto che l'Iva
si liquida per masse e non operazione per operazione). Il
cessionario, in questi casi, può evitare di essere chiamato
in causa per il pagamento del tributo (la solidarietà non si
estende alla sanzione) solo se fornisce la prova documentale
che il minor prezzo dei beni rispetto a quello corrente è
stato determinato in ragione di eventi o situazioni di fatto
oggettivamente rilevabili o, ancora, sulla base di
specifiche disposizioni di legge: questo potrebbe
rappresentare un ulteriore profilo di possibile
incompatibilità comunitaria, se si considera che la prova
contraria della presunzione legale in esame non deve essere
eccessivamente difficile da fornire (causa C-384/04).
In pratica, secondo l'amministrazione finanziaria (circolare
41/E/2005) aver corrisposto un prezzo inferiore al valore
normale dovrebbe trovare riscontro oggettivo in ragioni
diverse dal mancato pagamento dell'imposta da parte del
cedente.
I fabbricati
Senz'altro più ampia è la portata del comma 3-bis
dell'articolo 60-bis. La norma, infatti, prevede che, se
nell'atto di cessione di un immobile e nella relativa
fattura, è dichiarato un corrispettivo diverso (inferiore)
rispetto a quello reale (la responsabilità non scatta se
l'accertamento si fonda su una divergenza fra corrispettivo
e «valore normale» dell'immobile, si veda la circolare
8/E/2009), l'acquirente –anche se privato– è solidalmente
responsabile con il cedente per il mancato versamento
dell'imposta sulla differenza fra corrispettivo effettivo e
prezzo dichiarato, oltre che della relativa sanzione (dal
100 al 200% di tale differenza).
Dal 26.06.2012, per effetto delle modifiche apportate
dall'articolo 9 del Dl 83/2012, anche le imprese
costruttrici che vendono fabbricati abitativi dopo cinque
anni dall'ultimazione possono optare per l'applicazione
dell'imposta. Una novità che, di fatto, aumenta le ipotesi
di cessione di fabbricati imponibili Iva e amplia la platea
dei soggetti che, acquistando un immobile, dovranno fare i
conti con tale disposizione. Se poi si considera che, quando
l'atto è imponibile Iva, l'acquirente privato non può
neppure chiedere l'applicazione del meccanismo di tassazione
su base catastale (il «prezzo valore»), valevole solo per le
cessioni esenti Iva e soggette a registro, è ipotizzabile
che anche la solidarietà giochi un ruolo nella trattativa
fra le parti.
I depositi
Un altro vincolo di solidarietà è quello che impone al
gestore del deposito Iva di rispondere in solido con i
soggetti passivi, nel caso in cui si verifichi una mancata o
irregolare applicazione del prelievo conseguente
all'estrazione dei beni dal deposito (articolo 50-bis, comma
8, del Dl 331/1993). Anche per tale fattispecie, tuttavia,
il consolidato orientamento della giurisprudenza comunitaria
(sentenza nella causa C-499/10) impone di escludere la
possibilità che gli Stati membri introducano forme di
automatismo e, quindi, responsabilità di tipo oggettivo.
Così l'obbligo non scatta quando il depositario è in buona
fede o non sussistono colpe o negligenze da parte sua (articolo
Il Sole 24 Ore del 15.04.2013). |
GIURISPRUDENZA |
CONDOMINIO: È reato gettare oggetti dal balcone.
Confermata la condanna di una vicina che rovesciava
immondizia al piano di sotto.
La Corte di Cassazione,
Sez. III penale, con
sentenza
11.04.2013 n. 16459 (Presidente Squassoni, Relatore
Gazzara), ha confermato la condanna penale di una condomina
che sistematicamente utilizzava il balcone sottostante al
proprio appartamento come pattumiera gettando sigarette,
cenere e detersivi corrosivi come la candeggina.
Lo segnala
l'agenzia Agire, specializzata nel Real Estate.
La condomina maleducata aveva fatto ricorso contro la
sentenza del Tribunale di Palermo del 02.12.2011, che
l'aveva dichiarata colpevole del reato previsto dagli
articoli 81 e 674 del Codice penale per avere arrecato
molestie a una vicina gettando «nel piano sottostante ove si
trovava l'appartamento di quest'ultima, rifiuti, quali
cenere e cicche di sigarette, nonché detersivi corrosivi,
quale candeggina» e l'aveva condannata alla pena di 120 euro
di ammenda.
L'importanza della sentenza è proprio l'aver
considerato l'azione della condomina un reato: per la
precisione, quello di «getto pericoloso di cose», sanzionato
dall'articolo 674 del Codice penale. Nella sentenza il
Tribunale ha anche aumentato la pena a causa delle
reiterazione del reato, per cui è stato applicato il
capoverso dell'articolo 81 del Codice penale (si vedano i
testi di legge qui accanto).
La condomina molesta aveva presentato ricorso per
Cassazione. Il ricorso, però, è stato dichiarato
inammissibile perché «la argomentazione motivazionale,
adottata dal decidente in relazione alla concretizzazione
del reato in contestazione e alla ascrivibilità di esso in
capo alla prevenuta, si palesa logica e corretta». La
Cassazione ha quindi ritenuto corretto l'inquadramento del
comportamento della condomina nell'ambito del reato di
«getto pericoloso di cose», che in alternativa all'ammenda
prevede l'arresto sino a un mese.
Senza contare che a
nessuno fa piacere venire giudicato penalmente. Va quindi
considerata l'importanza, ai fini della deterrenza, di una
sentenza che, confermata dalla Cassazione, ha punito con
severità un comportamento che normalmente viene fatto
passare come illecito civile, dando vita, al massimo, a un
risarcimento, con i tempi eterni del rito civile e l'esborso
di pochi euro.
Ben diverso è pagare magari lo stesso importo
ma con la segnalazione sul certificato del casellario
giudiziario. Da ultimo, la Cassazione ha anche condannato la
ricorrente al pagamento delle spese processuali e al
versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma
di 1.000 euro.
---------------
LE NORME
Articolo 81. È punito con la pena che dovrebbe infliggersi
per la violazione più grave aumentata fino al triplo (..).
Alla stessa pena soggiace chi con più azioni od omissioni,
esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche
in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse
disposizioni di legge. (...)
Articolo 674. Chiunque getta o versa, in un luogo di
pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di
altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare
persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge,
provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a
cagionare tali effetti, è punito con l'arresto fino a un
mese o con l'ammenda fino a duecentosei euro
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.04.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le opere di recinzione di un edificio rientrano
nel concetto di pertinenza, attesa la destinazione a scopo
di protezione e delimitazione della cosa principale, senza
che alle stesse possa essere riconosciuta alcuna sostanziale
autonomia funzionale.
---------------
Non possono svolgersi opere di ristrutturazione o di
manutenzione straordinaria su un manufatto abusivo, mai
oggetto di sanatoria edilizia; né tale ulteriore attività
costruttiva può spiegare effetto preclusivo sulla potestà di
reprimere l'opera abusiva nella sua interezza.
Infatti, «in presenza di manufatti abusivi non sanati, né
condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili,
nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione
straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo,
della ristrutturazione, della realizzazione di opere
costituenti pertinenze urbanistiche), ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla
quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi
la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere
che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono
ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del
Comune di ordinarne la demolizione».
Invero, le opere di recinzione di un edificio rientrano nel
concetto di pertinenza, attesa la destinazione a scopo di
protezione e delimitazione della cosa principale, senza che
alle stesse possa essere riconosciuta alcuna sostanziale
autonomia funzionale (TAR Napoli Campania sez. II 11.09.2009 n. 4935).
Di conseguenza, ferma restando la
natura abusiva del fabbricato, colpito da più ordinanze di
demolizione citate nell’atto impugnato, nella fattispecie
deve applicarsi il principio secondo cui «non possono
svolgersi opere di ristrutturazione o di manutenzione
straordinaria su un manufatto abusivo, mai oggetto di
sanatoria edilizia; né tale ulteriore attività costruttiva
può spiegare effetto preclusivo sulla potestà di reprimere
l'opera abusiva nella sua interezza» (TAR Campania
Napoli, sez. VI, 12.11.2010 n. 24017); infatti, «in
presenza di manufatti abusivi non sanati, né condonati, gli
interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro
oggettività, alle categorie della manutenzione
straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo,
della ristrutturazione, della realizzazione di opere
costituenti pertinenze urbanistiche), ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla
quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi
la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere
che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono
ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del
Comune di ordinarne la demolizione» (TAR Napoli Campania
sez. VI 06.02.2013 n. 760 TAR Napoli Campania sez. VI 02.01.2013 n. 10; TAR Napoli Campania sez. VI
02.05.2012 n. 2000; TAR Napoli Campania sez. VI 02.05.2012 n. 2006).
Nel caso in esame, non risultando istanze o
provvedimenti di condono, si rivela legittimo il diniego
opposto dal Comune di Marcianise oggetto della presente
impugnazione (TAR Campania-Napoli,
Sez. VIII,
sentenza 11.04.2013 n. 1955 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Le preminenti esigenze di certezza connesse allo
svolgimento delle procedure concorsuali di selezione dei
partecipanti impongono di ritenere di stretta
interpretazione le clausole del bando di gara, delle quali
va preclusa qualsiasi esegesi non giustificata da
un’obiettiva incertezza del loro significato, e che,
parimenti, si devono reputare comunque preferibili, a tutela
dell’affidamento dei destinatari e dei canoni di trasparenza
e di par condicio, le espressioni letterali delle previsioni
da chiarire, evitando che il procedimento ermeneutico
conduca all’integrazione delle regole di gara palesando
significati del bando non chiaramente desumibili dalla sua
lettura testuale.
---------------
La disciplina di gara ben può richiedere ai concorrenti
requisiti di partecipazione e di qualificazione più rigorosi
e restrittivi di quelli minimi stabiliti dalla legge, purché
tali ulteriori prescrizioni si rivelino rispettose dei
principi di proporzionalità e di ragionevolezza con riguardo
alle specifiche esigenze imposte dall’oggetto dell’appalto,
e comunque non introducano indebite discriminazioni
nell’accesso alla procedura.
E' principio giurisprudenziale consolidato che le preminenti
esigenze di certezza connesse allo svolgimento delle
procedure concorsuali di selezione dei partecipanti
impongono di ritenere di stretta interpretazione le clausole
del bando di gara, delle quali va preclusa qualsiasi esegesi
non giustificata da un’obiettiva incertezza del loro
significato, e che, parimenti, si devono reputare comunque
preferibili, a tutela dell’affidamento dei destinatari e dei
canoni di trasparenza e di par condicio, le espressioni
letterali delle previsioni da chiarire, evitando che il
procedimento ermeneutico conduca all’integrazione delle
regole di gara palesando significati del bando non
chiaramente desumibili dalla sua lettura testuale (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. III, 11.02.2013 n. 768;
Consiglio di Stato, Sez. V, 26.06.2012 n. 3752 e 19.09.2011 n. 5282; TAR Campania Napoli, Sez. I, 18.03.2011
n. 1498).
---------------
Soccorre al
riguardo il diffuso orientamento giurisprudenziale, seguito
anche da questo Tribunale, che rimarca che la disciplina di
gara ben può richiedere ai concorrenti requisiti di
partecipazione e di qualificazione più rigorosi e
restrittivi di quelli minimi stabiliti dalla legge, purché
tali ulteriori prescrizioni si rivelino rispettose dei
principi di proporzionalità e di ragionevolezza con riguardo
alle specifiche esigenze imposte dall’oggetto dell’appalto,
e comunque non introducano indebite discriminazioni
nell’accesso alla procedura (cfr. per tutte Consiglio di
Stato, Sez. V, 02.02.2010 n. 426; Consiglio di Stato,
Sez. VI, 11.05.2007 n. 2304; TAR Lazio Roma, Sez. II,
09.12.2008 n. 11147) (TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 11.04.2013 n. 1924 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI:
I provvedimenti limitativi della circolazione
stradale nei centri abitati e istitutivi di zone a traffico
limitato sono espressione di scelte latamente discrezionali,
devolute alla esclusiva competenza decisionale dell’autorità
amministrativa e non suscettibili di sindacato di merito in
sede giurisdizionale in ordine alla congruità delle scelte
operate nella composizione e nel bilanciamento dei diversi
interessi coinvolti, a meno che non si palesino vizi di
forma o di procedura, ovvero che non emerga una manifesta
irragionevolezza.
Inoltre, va rimarcato che la parziale compressione della
libertà di locomozione e di iniziativa economica è sempre
giustificata quando scaturisce dall’esigenza di tutela
rafforzata di patrimoni culturali ed ambientali di assoluto
rilievo mondiale o nazionale, tenendo presente che la
gravosità delle limitazioni trova comunque giustificazione
nel valore primario ed assoluto riconosciuto dalla
Costituzione all’ambiente, al paesaggio ed alla salute.
I provvedimenti limitativi della circolazione stradale nei centri
abitati e istitutivi di zone a traffico limitato sono
espressione di scelte latamente discrezionali, devolute alla
esclusiva competenza decisionale dell’autorità
amministrativa e non suscettibili di sindacato di merito in
sede giurisdizionale in ordine alla congruità delle scelte
operate nella composizione e nel bilanciamento dei diversi
interessi coinvolti, a meno che non si palesino vizi di
forma o di procedura, ovvero che non emerga una manifesta
irragionevolezza; inoltre, va rimarcato che la parziale
compressione della libertà di locomozione e di iniziativa
economica è sempre giustificata quando scaturisce
dall’esigenza di tutela rafforzata di patrimoni culturali ed
ambientali di assoluto rilievo mondiale o nazionale, tenendo
presente che la gravosità delle limitazioni trova comunque
giustificazione nel valore primario ed assoluto riconosciuto
dalla Costituzione all’ambiente, al paesaggio ed alla salute
(orientamento consolidato: cfr. per tutte Consiglio di
Stato, Sez. V, 13.02.2009 n. 825; TAR Campania Napoli,
Sez. I, 18.03.2013 n. 1509)
(TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 11.04.2013 n. 1921 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Nel sistema urbanistico, ai sensi dell’art. 28
della legge 17.08.1942 n. 1150 come mod. dall'articolo 8
della legge 06.08.1967 n. 765, il piano di lottizzazione
assume la valenza di piano urbanistico di attuazione, ossia
di pianificazione al dettaglio, di piano esecutivo di
urbanizzazione e di preconcessione edilizia.
Nei casi di lottizzazione su istanza del privato lottizzante
trova quindi applicazione la disciplina di cui agli artt.
28, commi 2 e 5, della l. n. 1150/1942.
Il Comune, nel richiamare la disciplina di cui all’art. 21
del d.p.r. n. 380/2001 per la conclusione del procedimento
di rilascio del permesso di costruire, ha sostenuto che nel
caso di inutile decorso del termine per provvedere, sulla
domanda si sarebbe formato il silenzio-rifiuto impugnabile
in sede giurisdizionale.
Il menzionato provvedimento, privo di un minimum di
determinazione volitiva tale da integrare un momento
decisionale rispetto all'istanza del privato, si pone quale
generico atto soprassessorio di omessa definizione della
funzione amministrativa, privo di istruttoria nonché di una
compiuta e definitiva rappresentazione dello stato del
procedimento, in chiaro inadempimento del dovere di
concludere il procedimento con un provvedimento espresso.
Sicché grava a carico dell'Amministrazione Comunale
l'obbligo di pronunciarsi in maniera espressa e motivata
sull’istanza di approvazione di piano di lottizzazione, dato
che l’art. 2 della legge n. 241/1990 impone
all'Amministrazione di fornire un riscontro esplicito e
motivato, riguardo a ogni istanza proposta dal cittadino.
Il ricorso è fondato e merita accoglimento entro i termini che di
seguito si vanno ad esporre.
Nel giudizio risulta impugnato l’atto con cui il Comune di
Marcianise, nel pronunciarsi sulla diffida con cui la
società istante richiedeva l’esame della pratica edilizia di
cui all’istanza del 12.03.2010 di approvazione di un piano
di lottizzazione convenzionata, ha affermato che il decorso
dei termini per l’adozione del rilascio del permesso di
costruire avrebbe comportato la formazione del silenzio
rifiuto come previsto dal comma 9 dell’art. 20 del d.p.r. n.
380/2001.
Risulta fondata la censura sollevata da parte ricorrente
circa la assoluta inconferenza rispetto ad un’istanza di
approvazione di un piano di lottizzazione della normativa
richiamata nel provvedimento impugnato di cui all’art. 20,
comma 9, del d.p.r. n. 380/2001 in tema di rilascio del
permesso di costruire. Tale normativa, peraltro, alla data
di adozione del provvedimento impugnato, risalente al 06.07.2011, proprio sul punto del “silenzio rifiuto” era
stata modificata rispetto alla sua versione originaria per
effetto del d.l. 13.05.2011 n. 70 conv. in l. 12.07.2011
n. 106 nonché con il d.l. 22.06.2012 n. 83 conv. in l.
07.08.2012 n. 134.
Correttamente parte ricorrente ha opposto l’inapplicabilità
nella specie della normativa sul rilascio del permesso di
costruire, dal momento che l’istanza di approvazione di un
piano di lottizzazione resta, come noto, assoggettata al
diverso procedimento previsto per l’approvazione dei piani
attuativi secondo lo schema di cui all’art. 11 della legge
n. 241/1990 che disciplina gli accordi sostitutivi di
provvedimento.
Nel sistema urbanistico, ai sensi dell’art. 28
della legge 17.08.1942 n. 1150 come mod. dall'articolo 8
della legge 06.08.1967 n. 765, il piano di lottizzazione
assume la valenza di piano urbanistico di attuazione, ossia
di pianificazione al dettaglio, di piano esecutivo di
urbanizzazione e di preconcessione edilizia (C.d.S. sez. IV,
16.03.1999 n. 286) .
Nei casi di lottizzazione su istanza del privato lottizzante
trova quindi applicazione la disciplina di cui agli artt.
28, commi 2 e 5, della l. n. 1150/1942 e, a livello
regionale, dell’art. 27, comma 1, lett. c, prima parte,
della l.r. Campania n. 16/2004. Il procedimento di
approvazione degli strumenti urbanistici anche attuativi è
stato da ultimo modificato del regolamento di attuazione per
il governo del territorio n. 5 del 04.08.2011, approvato
ex art. 43-bis della l.r. Campania n. 16/2004, pubblicato
in forma esecutiva sul B.U.R.C. n. 53 dell’08.08.2011.
L’art. 10, comma 7, del citato regolamento stabilisce che per
i piani urbanistici attuativi di iniziativa privata il
Comune si esprime nei termini previsti dalla legge n.
241/1990.
Tanto premesso, non v'è dubbio che il provvedimento
impugnato costituisce evidente elusione dell’obbligo di
concludere il procedimento con un provvedimento espresso,
dal momento che il Comune, nel richiamare la disciplina di
cui all’art. 21 del d.p.r. n. 380/2001 per la conclusione
del procedimento di rilascio del permesso di costruire, ha
sostenuto che nel caso di inutile decorso del termine per
provvedere, sulla domanda si sarebbe formato il silenzio-rifiuto impugnabile in sede giurisdizionale.
Il menzionato
provvedimento, privo di un minimum di determinazione
volitiva tale da integrare un momento decisionale rispetto
all'istanza del privato, si pone quale generico atto soprassessorio di omessa definizione della funzione
amministrativa, privo di istruttoria nonché di una compiuta
e definitiva rappresentazione dello stato del procedimento,
in chiaro inadempimento del dovere di concludere il
procedimento con un provvedimento espresso.
Sicché grava a carico dell'Amministrazione Comunale
l'obbligo di pronunciarsi in maniera espressa e motivata
sull’istanza di approvazione di piano di lottizzazione, dato
che l’art. 2 della legge n. 241/1990 impone
all'Amministrazione di fornire un riscontro esplicito e
motivato, riguardo a ogni istanza proposta dal cittadino
(TAR Lazio-Latina - Sez. I - 13.01.2011 - n. 7) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 11.04.2013 n. 1915 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il silenzio serbato
sull'istanza ex articolo 36 D.P.R. n. 380/2001 non ha natura
di silenzio-inadempimento (cui conseguirebbe l'obbligo
dell'Amministrazione di provvedere), ma di silenzio
provvedimentale (avente contenuto tipizzato, di atto tacito
di reiezione dell'istanza), con la conseguenza che, una
volta decorso il termine di 60 giorni, si forma il
silenzio-rigetto, che può essere impugnato dall'interessato
in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale
di sessanta giorni, alla stessa stregua di un comune
provvedimento, senza che però possano ravvisarsi in esso i
vizi formali propri degli atti, quali i difetti di procedura
o la mancanza di motivazione.
Secondo il pacifico orientamento della giurisprudenza formatasi sul
punto, il silenzio serbato sull'istanza ex articolo 36
D.P.R. n. 380/2001 non ha natura di silenzio-inadempimento
(cui conseguirebbe l'obbligo dell'Amministrazione di
provvedere), ma di silenzio provvedimentale (avente
contenuto tipizzato, di atto tacito di reiezione
dell'istanza), con la conseguenza che, una volta decorso il
termine di 60 giorni, si forma il silenzio-rigetto, che può
essere impugnato dall'interessato in sede giurisdizionale
nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla
stessa stregua di un comune provvedimento, senza che però
possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti,
quali i difetti di procedura o la mancanza di motivazione
(cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 13.01.2010, n. 100;
TAR Campania, Napoli, sez. VI, 08.06.2004, n. 9278;
TAR Campania, Napoli, sez. VI, 10.02.2010, n. 844)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 10.04.2013 n. 1903 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Le norme in materia di partecipazione al
procedimento amministrativo di cui agli artt. 7 e segg.
della legge 07.08.1990 n. 241 non vanno applicate
meccanicamente e formalisticamente, nel senso che debba
essere annullato ogni procedimento in cui sia mancata la
fase formalmente partecipativa.
Esse vanno interpretate nel senso che la comunicazione è da
ritenersi superflua -e riprendono, pertanto, espressione i
principi di economicità e di speditezza dai quali è retta
l’attività amministrativa-, quando l’interessato è venuto
comunque a conoscenza di vicende che, per la loro natura
conducono necessariamente all’adozione di provvedimenti
obbligati, come nel caso di cui si controverte.
L’ipotesi tipica, nell’ambito della quale la omissione della
comunicazione di avvio risulta non viziante o sanata ex
post, è stata ben presto individuata dalla giurisprudenza
con riferimento ai procedimenti per i quali è normativamente
previsto un qualche atto attraverso il quale sia possibile
realizzare una partecipazione dell’interessato, uguale a
quella che gli consente la comunicazione di cui al citato
art. 7.
La giurisprudenza, con un indirizzo condiviso dal Collegio, ritiene che
le norme in materia di partecipazione al procedimento
amministrativo di cui agli artt. 7 e segg. della legge 07.08.1990 n. 241 non vanno applicate meccanicamente e formalisticamente, nel senso che debba essere annullato ogni
procedimento in cui sia mancata la fase formalmente
partecipativa.
Esse vanno interpretate nel senso che la comunicazione è da
ritenersi superflua -e riprendono, pertanto, espressione i
principi di economicità e di speditezza dai quali è retta
l’attività amministrativa-, quando l’interessato è venuto
comunque a conoscenza di vicende che, per la loro natura
conducono necessariamente all’adozione di provvedimenti
obbligati, come nel caso di cui si controverte.
L’ipotesi tipica, nell’ambito della quale la omissione della
comunicazione di avvio risulta non viziante o sanata ex
post, è stata ben presto individuata dalla
giurisprudenza con riferimento ai procedimenti per i quali è
normativamente previsto un qualche atto attraverso il quale
sia possibile realizzare una partecipazione
dell’interessato, uguale a quella che gli consente la
comunicazione di cui al citato art. 7 (cfr. V Sez.
09.08.1996, n. 999) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 09.04.2013 n. 1950 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’imponenza della
recinzione che si estende per una lunghezza di circa 346
metri di lunghezza con altezza di metri 2,50 non lascia
dubbi al fatto che si sia in presenza di un manufatto che
necessita di apposita provvedimento edilizio abilitativo.
La realizzazione
di una recinzione che presenti un elevato impatto
urbanistico deve essere preceduta ex l. 10/1977 da
provvedimento concessorio da parte dell’amministrazione
comunale. Atto che non risulta necessario solo in presenza
di una trasformazione che per l’utilizzo di materiale di
scarso impatto visivo e per le dimensioni dell’interevento
non comportino un’apprezzabile alterazione ambientale,
estetica e funzionale.
La distinzione tra esercizio dello jus aedificandi e dello
jus excludendi alios va rintracciata quindi nella verifica
concreta delle caratteristiche del manufatto. Sotto questo
profilo appare utile rammentare la decisione secondo la
quale: “La concessione edilizia non è necessaria per modeste
recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e cioè per
la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di
ferro o di legno senza muretto di sostegno), in quanto entro
tali limiti la recinzione rientra solo tra le manifestazioni
del diritto di proprietà, che comprende lo "jus excludendi
alios"; occorre, invece, la concessione, quando la
recinzione è costituita da un muretto di sostegno in
calcestruzzo con sovrastante rete metallica”.
Nello stesso senso la più recente secondo cui “Necessita di
concessione edilizia la recinzione di un fondo rustico
realizzata con installazioni permanenti, in quanto produce
una significativa trasformazione urbanistica del territorio,
a prescindere dalla realizzazione di volumetrie di qualunque
natura” (cfr. in aggiunta, sez. VI, 23.05.2011, n. 3046;
sez. IV, 30.06.2005, n. 3555 secondo cui <<la nozione di
manutenzione ordinaria è di per sé incompatibile con la
realizzazione di nuovi e consistenti manufatti, quand’anche
vengano destinati ad integrare o mantenere in efficienza gli
impianti tecnologici esistenti, fermo restando che si tratta
comunque di attività edilizie in senso proprio, ossia di
attività di trasformazione del territorio mediante
un’attività antropica tesa alla formazione di un opus
espressione di ius utendi (come nel caso di specie) più che
di ius aedificandi; l’elemento ontologico qualificante
dell’attività di manutenzione ordinaria fa sì che gli
elementi da rinnovare, integrare e mantenere in efficienza
possono anche risultare diversi da quelli oggetto di
intervento, con il limite che il nuovo elemento non risulti
né tipologicamente né funzionalmente diverso dal precedente,
non potendosi dare origine ad un quid novi>>).
Uniforme appare anche la giurisprudenza della Suprema Corte
secondo la quale: “La recinzione di un fondo rustico non
necessita di concessione edilizia solo nel caso in cui la
stessa venga attuata con opere non permanenti; il
provvedimento autorizzativo è, invece, richiesto quando
venga realizzata con materiale tipicamente edilizio tra cui
rientra la zoccolatura in calcestruzzo”.
Ad ogni modo, risulta corretta la ricostruzione giuridica operata dal
primo Giudice in ordine alla necessità che la recinzione de
qua fosse preceduta da titolo edilizio, atteso che la
giurisprudenza sia di questo Consiglio che della Suprema
Corte di Cassazione ritiene che la realizzazione di una
recinzione che presenti un elevato impatto urbanistico debba
essere preceduta ex l. 10/1977 da provvedimento concessorio
da parte dell’amministrazione comunale. Atto che non risulta
necessario solo in presenza di una trasformazione che per
l’utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le
dimensioni dell’interevento non comportino un’apprezzabile
alterazione ambientale, estetica e funzionale.
La
distinzione tra esercizio dello jus aedificandi e dello
jus
excludendi alios va rintracciata quindi nella verifica
concreta delle caratteristiche del manufatto. Sotto questo
profilo appare utile rammentare la decisione di questa
Sezione (Cons. Stato Sez. V, 26-10-1998, n. 1537), secondo
la quale: “La concessione edilizia non è necessaria per
modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e
cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da
paletti di ferro o di legno senza muretto di sostegno), in
quanto entro tali limiti la recinzione rientra solo tra le
manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo "jus
excludendi alios"; occorre, invece, la concessione, quando
la recinzione è costituita da un muretto di sostegno in
calcestruzzo con sovrastante rete metallica”.
Nello stesso
senso la più recente Cons. St., Sez. V, 23.02.2012, n.
976: “Necessita di concessione edilizia la recinzione di un
fondo rustico realizzata con installazioni permanenti, in
quanto produce una significativa trasformazione urbanistica
del territorio, a prescindere dalla realizzazione di
volumetrie di qualunque natura” (cfr. in aggiunta, sez. VI,
23.05.2011, n. 3046; sez. IV, 30.06.2005, n. 3555
secondo cui <<la nozione di manutenzione ordinaria è di per
sé incompatibile con la realizzazione di nuovi e consistenti
manufatti, quand’anche vengano destinati ad integrare o
mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti,
fermo restando che si tratta comunque di attività edilizie
in senso proprio, ossia di attività di trasformazione del
territorio mediante un’attività antropica tesa alla
formazione di un opus espressione di ius utendi (come nel
caso di specie) più che di ius aedificandi; l’elemento
ontologico qualificante dell’attività di manutenzione
ordinaria fa sì che gli elementi da rinnovare, integrare e
mantenere in efficienza possono anche risultare diversi da
quelli oggetto di intervento, con il limite che il nuovo
elemento non risulti né tipologicamente né funzionalmente
diverso dal precedente, non potendosi dare origine ad un
quid novi>>).
Uniforme appare anche la giurisprudenza della
Suprema Corte (a far data da Cass. pen., 30.09.1988),
secondo la quale: “La recinzione di un fondo rustico non
necessita di concessione edilizia solo nel caso in cui la
stessa venga attuata con opere non permanenti; il
provvedimento autorizzativo è, invece, richiesto quando
venga realizzata con materiale tipicamente edilizio tra cui
rientra la zoccolatura in calcestruzzo” (cfr. in aggiunta
Cass. pen., sez. III, 02.10.2010, n. 41518; sez. III, 13.12.2007).
Nella fattispecie l’imponenza della
costruzione che si estende per una lunghezza di circa 346
metri di lunghezza con altezza di metri 2,50 non lascia
dubbi al fatto che si sia in presenza di un manufatto che
necessita di apposita provvedimento edilizio abilitativo
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 09.04.2013 n. 1922 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’importo degli oneri di urbanizzazione per
interventi su edifici preesistenti non deve essere
necessariamente inferiore a quello previsto per le nuove
costruzioni, poiché gli oneri sono correlati alla carico
urbanistico derivante dalla trasformazione che interviene
sulle preesistenze; tali conseguenze possono comportare
anche variazione degli standard ed in determinati casi
causano addirittura impatti superiori a quelli derivanti da
nuove costruzioni, ciò soprattutto ove la nuova destinazione
abbia un rilievo quantitativamente e qualitativamente del
tutto differente.
---------------
La gratuità della concessione, ora contenuta negli artt. 6 e
17 d.P.R. n. 380/2001, è connessa all’interesse generale
perseguito ed è evidente che una scuola per disabili
inserita in zona destinata ad attrezzature pubbliche e
sociali doveva beneficiare di quella esenzione dal
contributo costo di costruzione e dagli oneri di
urbanizzazione, ove poi fosse la stessa mano pubblica
chiamata a realizzare l’opera, ponendo così a carico della
fiscalità generale le spese per l’effettuazione di quelle
opere di urbanizzazione accessorie alla nuova costruzione.
Come rilevato dallo stesso appellante, l’importo degli oneri
di urbanizzazione per interventi su edifici preesistenti non
deve essere necessariamente inferiore a quello previsto per
le nuove costruzioni, poiché gli oneri sono correlati alla
carico urbanistico derivante dalla trasformazione che
interviene sulle preesistenze; tali conseguenze possono
comportare anche variazione degli standard ed in determinati
casi causano addirittura impatti superiori a quelli
derivanti da nuove costruzioni, ciò soprattutto ove la nuova
destinazione abbia un rilievo quantitativamente e
qualitativamente del tutto differente, come nel caso di
specie.
Infatti si è passati da un edificio destinato a scopi di
istruzione per persone diversamente abili con una frequenza
pari a poche decine di alunni, ad un immobile sede di uno
dei tour operators tra i maggiori in Italia, con un numero
di addetti che non può essere paragonato al numero di
insegnanti e di scolari del passato -senza smentite si è
insinuato un dato di alcune centinaia di unità- con la
conseguente necessità della creazione di un parcheggio,
elemento questo sufficientemente descrittivo delle
modificazioni di carico urbanistico della zona adiacente.
Ma deve essere ancora aggiunto che per la scuola si era
fatta applicazione del disposto di cui all’art. 9, lett. f),
L. 10/1977, ossia dell’esenzione dai contributi concessori
previsti per impianti, attrezzature ed opere pubbliche e di
interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente
competenti; la gratuità della concessione, ora contenuta
negli artt. 6 e 17 d.P.R. n. 380/2001, è connessa
all’interesse generale perseguito ed è evidente che una
scuola per disabili inserita in zona destinata ad
attrezzature pubbliche e sociali doveva beneficiare di
quella esenzione dal contributo costo di costruzione e dagli
oneri di urbanizzazione, ove poi fosse la stessa mano
pubblica chiamata a realizzare l’opera, ponendo così a
carico della fiscalità generale le spese per l’effettuazione
di quelle opere di urbanizzazione accessorie alla nuova
costruzione (Cons. Stato, V, 29.09.1997 n. 1067; id.,
20.11.1989 n. 752).
L’attuale destinazione dell’edificio è invece volta a fini
tipicamente imprenditoriali ed appare allora del tutto
corretto che Alpitour Italia non possa ora giovarsi della
gratuità di una concessione edilizia al tempo rilasciata per
fini essenzialmente pubblici; è evidente che un
abbattimento, sia pure parziale, degli oneri di
urbanizzazione verrebbe a costituire una sorta di
socializzazione indiretta dei costi derivanti da
investimenti privati, la quale non trova copertura alcuna
nella normativa urbanistica, sia vigente, sia abrogata (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 09.04.2013 n. 1918 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nelle procedure per l'aggiudicazione di appalti
pubblici l'allegazione della copia fotostatica del documento
del sottoscrittore della dichiarazione sostitutiva,
prescritta dall'art. 38, comma 3, t.u. 28.12.2000, n. 445, è
un adempimento inderogabile atto a conferire, in
considerazione della sua introduzione come forma di
semplificazione, legale autenticità alla sottoscrizione
apposta in calce alla dichiarazione, e giuridica esistenza
ed efficacia all'autocertificazione.
Si tratta quindi di un elemento integrante della fattispecie
normativa, teso a stabilire, data l'unità costituita dalla
fotocopia del documento di identità e dalla dichiarazione
sostitutiva, un collegamento tra la dichiarazione ed il
documento, e a comprovare, oltre alle generalità del
dichiarante, l'imputabilità soggettiva della dichiarazione
al soggetto che la presta.
D’altra parte, è noto quanto consolidato sia l’insegnamento
giurisprudenziale relativo all’istituto del c.d. dovere di
soccorso codificato dall’art. 46 d.lgs. n. 163/2006, per cui
l'omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione
previsti a pena di esclusione non può essere considerata
alla stregua di un'irregolarità sanabile, e, quindi, non ne
è permessa l'integrazione o la regolarizzazione postuma, non
trattandosi di rimediare a vizi puramente formali. E ciò
tanto più quando non sussistano equivoci o incertezze
generati dall'ambiguità di clausole della legge di gara.
Questa Sezione ha avuto modo di ribadire anche recentemente,
infatti, che nelle procedure per l'aggiudicazione di appalti
pubblici l'allegazione della copia fotostatica del documento
del sottoscrittore della dichiarazione sostitutiva,
prescritta dall'art. 38, comma 3, t.u. 28.12.2000, n.
445, è un adempimento inderogabile atto a conferire, in
considerazione della sua introduzione come forma di
semplificazione, legale autenticità alla sottoscrizione
apposta in calce alla dichiarazione, e giuridica esistenza
ed efficacia all'autocertificazione. Si tratta quindi di un
elemento integrante della fattispecie normativa, teso a
stabilire, data l'unità costituita dalla fotocopia del
documento di identità e dalla dichiarazione sostitutiva, un
collegamento tra la dichiarazione ed il documento, e a
comprovare, oltre alle generalità del dichiarante,
l'imputabilità soggettiva della dichiarazione al soggetto
che la presta (C.d.S., V, 26.03.2012, n. 1739; nello
stesso senso cfr., ad es., IV, 02.09.2011, n. 4967).
D’altra parte, è noto quanto consolidato sia l’insegnamento
giurisprudenziale relativo all’istituto del c.d. dovere di
soccorso codificato dall’art. 46 d.lgs. n. 163/2006, per cui
l'omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione
previsti a pena di esclusione non può essere considerata
alla stregua di un'irregolarità sanabile, e, quindi, non ne
è permessa l'integrazione o la regolarizzazione postuma, non
trattandosi di rimediare a vizi puramente formali. E ciò
tanto più quando non sussistano equivoci o incertezze
generati dall'ambiguità di clausole della legge di gara
(cfr., tra le più recenti: C.d.S., V, 02.08.2010, n. 5084;
02.02.2010, n. 428; 15.01.2008, n. 36) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 09.04.2013 n. 1915 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non è illegittima una motivazione anche succinta
di un diniego di sanatoria di opere in quanto nel sistema
non è ravvisabile a carico della p.a. l’obbligo di indicare,
in una logica comparativa degli interessi in gioco,
prescrizioni tese a rendere l’intervento compatibile con la
bellezza di insieme tutelata, la cui protezione risponde ad
un interesse pubblico normalmente prevalente su quello
privato, anche per la rilevanza costituzionale che il primo
presenta ex art. 9 Cost..
... come è stato rilevato in giurisprudenza, non è illegittima una
motivazione anche succinta di un diniego di sanatoria di
opere in quanto nel sistema non è ravvisabile a carico della
p.a. l’obbligo di indicare, in una logica comparativa degli
interessi in gioco, prescrizioni tese a rendere l’intervento
compatibile con la bellezza di insieme tutelata, la cui
protezione risponde ad un interesse pubblico normalmente
prevalente su quello privato, anche per la rilevanza
costituzionale che il primo presenta ex art. 9 Cost. (Cons.
Stato, sez. V, 19.10.1999, n. 1587; Cons. Stato, sez.
V, 07.09.2009, n. 5232).
Di qui la congruità della
motivazione del provvedimento di cui si discute nella parte
in cui si individua sia la demolizione delle volte sia
l’aggetto al tetto della copertura quali fattori di
intervento edilizio idonei ad impattare negativamente
sull’amenità dei luoghi (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 09.04.2013 n. 1884 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Costo dell'appalto detratto solo con contratto scritto.
Il costo dell'appalto non può essere detratto sulla base
delle sole fatture ma è necessario un contratto scritto fra
committente e appaltatore.
Lo ha sancito la Corte di Cassazione che,
con l'ordinanza
28.03.2013 n. 7897, ha accolto il
ricorso dell'amministrazione finanziaria.
Insomma a fronte
di grossi lavori le fatture sono del tutto insufficienti,
dice la Suprema corte, ai fini del beneficio fiscale.
Infatti, dicono gli stessi Ermellini, un appalto di importo
molto considerevole, come in questo caso, va stipulato con
atto scritto, o comunque in maniera da lasciare una traccia
documentale. Questo, rileva ancora la Corte, non risulta che
sia avvenuto nel caso in esame, quindi appare legittima la
conclusione che quel contratto non fosse stato mai
stipulato. Tanto più che la parte privata non ha offerto
alla valutazione del giudice argomenti per ritenere che
nella specie la stipula di un contratto scritto non fosse
necessaria per particolari ragioni, idonee a superare l'«id
quod plerumque accidit».
Il fatto certo è che mancava la prova della redazione del
contratto di appalto, quindi la contribuente non aveva
diritto alla detrazione di imposta. In più la Cassazione
ribadisce il principio generale per cui è il contribuente a
dover fornire la prova dell'autenticità delle fatture.
Sul punto l'ordinanza precisa che qualora l'amministrazione
contesti al contribuente l'indebita detrazione di fatture,
in quanto relative ad operazioni inesistenti, e fornisca
attendibili riscontri indiziari sulla inesistenza di quelle
fatturate, come nella specie, è onere del contribuente
dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo
altrimenti indeducibili, non essendo sufficiente, a tal
fine, la dimostrazione della regolarità formale delle
scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto
si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili.
Dunque ora la causa dovrà tornare presso un'altra sezione
della commissione tributaria regionale dell'Emilia Romagna
che dovrà riconsiderare la vicenda e, nel caso il
contribuente non provi l'esistenza di un contratto scritto,
dovrà negare la detrazione al committente
(articolo ItaliaOggi del 17.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
La conduttura realizzata dal Comune di Firenze,
costituente un tratto di fognatura destinato alla raccolta
di acque meteoriche, non è annoverabile tra le opere
idrauliche, in relazione alle quali sussiste la
giurisdizione del Tribunale delle acque pubbliche, poiché le
acque piovane convogliate in condutture sotterranee o in
reti fognarie non sono suscettibili di alcuna utilizzazione
idonea a soddisfare un pubblico interesse generale, ma sono
destinate al mero smaltimento.
Invero, nel caso di specie non rilevano opere afferenti le
acque pubbliche, non potendo essere qualificate come tali le
acque piovane non convogliate in un corso d’acqua o non
raccolte in invasi o cisterne preordinate al soddisfacimento
di un pubblico interesse generale.
---------------
Il Comune ha approvato il progetto esecutivo esclusivamente
in linea tecnica, senza contestuale declaratoria di pubblica
utilità, la quale è stata oggetto di approvazione
successivamente, per effetto della delibera della giunta
comunale n. 467 del 30.07.2008: il provvedimento
dichiarativo della pubblica utilità, per scelta
dell’amministrazione, nel caso in esame non è implicito
nell’atto di approvazione del progetto.
Orbene, la lesione della posizione della deducente è
configurabile solo relativamente alla dichiarazione di
pubblica utilità, la quale soltanto comporta
l’affievolimento ad interesse legittimo del diritto
soggettivo del proprietario e la costituzione, in capo
all’Ente, del potere espropriativo avente ad oggetto i
terreni sui quali l’opera dovrà essere allocata, mentre
l’approvazione del progetto in linea meramente tecnica
costituisce atto endoprocedimentale, come tale di per sé non
impugnabile.
---------------
La tempestiva impugnazione della declaratoria di pubblica
utilità dell’opera esime il ricorrente dal seguire il
prosieguo dell’iter procedurale, avendo l’eventuale
annullamento degli atti presupposti un effetto non già
meramente viziante, ma caducante sul decreto espropriativo
della proprietà o, come nel caso di specie, sul decreto
espropriativo di un diritto reale minore.
E’ stato eccepito il difetto di giurisdizione, sull’assunto
che la controversia in esame, riguardando l’occupazione di
aree finalizzata all’esecuzione di opere idrauliche, sarebbe
devoluta alla competenza del Tribunale delle acque pubbliche
ex art. 140, comma 1, lett. d, del R.D. n. 1775/1933.
L’eccezione non può essere accolta.
La conduttura realizzata dal Comune di Firenze, costituente
un tratto di fognatura destinato alla raccolta di acque
meteoriche, non è annoverabile tra le opere idrauliche, in
relazione alle quali sussiste la giurisdizione del Tribunale
delle acque pubbliche, poiché le acque piovane convogliate
in condutture sotterranee o in reti fognarie non sono
suscettibili di alcuna utilizzazione idonea a soddisfare un
pubblico interesse generale, ma sono destinate al mero
smaltimento (ex multis: Cass. civ., I, 11.01.2001, n.
315).
Invero nel caso di specie non rilevano opere afferenti le
acque pubbliche, non potendo essere qualificate come tali le
acque piovane non convogliate in un corso d’acqua o non
raccolte in invasi o cisterne preordinate al soddisfacimento
di un pubblico interesse generale (TAR Puglia, Lecce, I,
25.01.2012, n. 120; idem, 08.04.2004, n. 2396; TAR Veneto,
III, 04.12.2006, n. 3991).
---------------
La società Il Poggio
ha altresì eccepito l’irricevibilità del ricorso, osservando
che la deliberazione di approvazione del progetto era
conosciuta dalla ricorrente prima dei sessanta giorni
precedenti la notifica dell’impugnativa.
L’obiezione non è condivisibile.
Il Comune, con deliberazione n. 15 del 15.01.2008, ha
approvato il progetto esecutivo esclusivamente in linea
tecnica, senza contestuale declaratoria di pubblica utilità,
la quale è stata oggetto di approvazione successivamente,
per effetto della delibera della giunta comunale n. 467 del
30.07.2008: il provvedimento dichiarativo della pubblica
utilità, per scelta dell’amministrazione, nel caso in esame
non è implicito nell’atto di approvazione del progetto.
Orbene, la lesione della posizione della deducente è
configurabile solo relativamente alla dichiarazione di
pubblica utilità, la quale soltanto comporta
l’affievolimento ad interesse legittimo del diritto
soggettivo del proprietario e la costituzione, in capo
all’Ente, del potere espropriativo avente ad oggetto i
terreni sui quali l’opera dovrà essere allocata, mentre
l’approvazione del progetto in linea meramente tecnica
costituisce atto endoprocedimentale, come tale di per sé non
impugnabile (Cons. Stato, IV, 06.02.1995, n. 73; idem,
16.03.2010, n. 1540; TAR Friuli Venezia Giulia, 17.12.2009,
n. 835).
Pertanto, il termine di ricorso non poteva che decorrere
dalla conoscenza della seconda delibera, adottata nel luglio
2008, la quale costituisce il primo atto con cui il Comune
ha dato avvio alla procedura costitutiva della servitù.
Il Collegio osserva ulteriormente che non può rilevare,
quale motivo di inammissibilità del gravame, la mancata
impugnazione del provvedimento dirigenziale n. 6871 del
18.06.2009, con cui il Comune ha costituito la servitù
permanente di fognatura e di passo e transito (documento n.
21 depositato in giudizio dall’Ente).
Invero, l’impugnazione dell’atto preparatorio fa sì che non
sia necessaria l’impugnazione del provvedimento finale
allorquando tra i due atti vi sia un rapporto di
presupposizione–consequenzialità immediata e diretta, nel
senso che la determinazione successiva si pone come
inevitabile conseguenza di quella precedente, perché non vi
sono nuove e ulteriori valutazioni di interessi.
Su tale premessa la giurisprudenza amministrativa ha
costantemente statuito che la tempestiva impugnazione della
declaratoria di pubblica utilità dell’opera esime il
ricorrente dal seguire il prosieguo dell’iter procedurale,
avendo l’eventuale annullamento degli atti presupposti un
effetto non già meramente viziante, ma caducante sul decreto
espropriativo della proprietà o, come nel caso di specie,
sul decreto espropriativo di un diritto reale minore (ex
multis: Cons. Stato, IV, 12.07.2007, n. 3984; TAR
Campania, Napoli, V, 13.11.2007, n. 12105; TAR Sicilia,
Palermo, III, 04.11.2009, n. 1726) (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 21.03.2013 n. 433 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Il procedimento ablatorio disciplinato dal d.p.r.
n. 327/2001 può colpire non solo il diritto di proprietà ma
anche, in modo autonomo, un diritto reale minore, come
avviene nell’ipotesi dell’imposizione di servitù. Invero
l’art. 1 del d.p.r. n. 327/2001, analogamente al previgente
art. 1 della legge n. 2359/1865, assume ad oggetto
dell’espropriazione sia la piena proprietà, sia singoli
diritti relativi ad immobili.
Pertanto, le fasi del procedimento espropriativo, indicate
nell’art. 8 del d.p.r. n. 327/2001 e articolate
nell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio,
nella dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e nella
determinazione dell’indennità, riguardano i provvedimenti
impugnati, preordinati alla imposizione di una servitù
permanente e quindi all’espropriazione di un diritto reale
minore, il cui procedimento è inderogabilmente sottoposto
alla disciplina contenuta nelle norme evocate dalla
ricorrente.
Il procedimento
ablatorio disciplinato dal d.p.r. n. 327/2001 può colpire
non solo il diritto di proprietà ma anche, in modo autonomo,
un diritto reale minore, come avviene nell’ipotesi
dell’imposizione di servitù. Invero l’art. 1 del d.p.r. n.
327/2001, analogamente al previgente art. 1 della legge n.
2359/1865, assume ad oggetto dell’espropriazione sia la
piena proprietà, sia singoli diritti relativi ad immobili
(Cons. Stato, A.P., 18.07.1983, n. 21; Cons. Stato, A.G.,
29.03.2001, n. 4; TAR Campania, Napoli, II, 23.11.1998, n.
3562).
Pertanto, le fasi del procedimento espropriativo, indicate
nell’art. 8 del d.p.r. n. 327/2001 e articolate
nell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio,
nella dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e nella
determinazione dell’indennità, riguardano i provvedimenti
impugnati, preordinati alla imposizione di una servitù
permanente e quindi all’espropriazione di un diritto reale
minore, il cui procedimento è inderogabilmente sottoposto
alla disciplina contenuta nelle norme evocate dalla
ricorrente.
Nel caso di specie, in violazione del citato art. 8, la
dichiarazione di pubblica utilità non è stata preceduta
dalla necessaria apposizione del vincolo espropriativo, il
quale avrebbe dovuto essere introdotto mediante variante
urbanistica, secondo quanto statuito dagli artt. 9 e 10 del
d.p.r. n. 327 del 2001; tali norme precisano quali sono gli
atti attraverso i quali può essere disposto il vincolo
stesso, individuati nella approvazione di uno strumento
urbanistico generale o sua variante (che preveda la
realizzazione dell’opera pubblica), ovvero nella conferenza
di servizi, accordo di programma o altra intesa che comporti
la variante al piano urbanistico (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 21.03.2013 n. 433 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 15.04.2013 |
ã |
IN EVIDENZA |
Il punto dirimente
tra sottoposizione o meno a tutela ambientale ex
art. 142, comma 1, lett. d), del D.Lgs. n. 42/2004
non è la quota altimetrica della base del manufatto
(o del colmo dello stesso), ma la quota altimetrica
del punto di osservazione (sopra o sotto i 1200
metri s.l.m.), cioè della posizione la cui visuale
(da e verso altri luoghi) deve (o meno) essere
preservata dalle interferenze visive che
l’amministrazione preposta valuti incompatibili con
le esigenze (paesaggistiche) di sua conservazione.
|
EDILIZIA PRIVATA:
Montagne – Tutela ex art. 142 d.lgs. n. 42/2004 –
Quota altimetrica superiore a 1200 mt. s.l.m. –
Estensione della tutela – Visuale – Fattispecie:
aerogeneratori con base a livello inferiore ai 1200
mt., ma con sviluppo in altezza a quota superiore.
Anche
se la lettera d) dell’art. 142 D.Lgs. n. 42/2004 si
riferisce a “le montagne”, ed anche se l’espressione
va intesa come riferimento al suolo, cioè a tutte le
posizioni del versante e della cima che si trovano
oltre la linea altimetrica dei 1200 metri, l’oggetto
della tutela è inequivocabilmente il paesaggio
visibile da quelle posizioni e verso quelle
posizioni, in cui entrano (nella fattispecie in modo
assai rilevante per la loro mole e altezza) anche
tutte le vicine costruzioni fondanti a quota
inferiore ma svettanti a quota superiore, o comunque
significativamente visibili sia verso l’alto che
verso il basso), a meno che non siano abbastanza
lontane da fuoriuscire dalla visuale
significativamente percepibile da quelle posizioni e
verso quelle posizioni.
Perciò, il punto dirimente tra sottoposizione o meno
a tutela ex art. 142, comma 1, lett. d), del Codice
ambiente non è la quota altimetrica della base del
manufatto (o del colmo dello stesso), ma la quota
altimetrica del punto di osservazione (sopra o sotto
i 1200 metri s.l.m.), cioè della posizione la cui
visuale (da e verso altri luoghi) deve (o meno)
essere preservata dalle interferenze visive che
l’amministrazione preposta valuti incompatibili con
le esigenze (paesaggistiche) di sua conservazione.
Tanto premesso, tale lettura dell’art. 142, comma 1,
lett. d), del Codice ambiente è, ad avviso del
Collegio, l’unica compatibile con criteri di
interpretazione letterale, logico-sistematica e
teleologica delle norme di legge, e con la
definizione del paesaggio come bene d’insieme recata
dall’art. 131 del Codice ambiente.
Se la montagna per la parte eccedente i 1200 metri
s.l.m. è sottoposta “alle disposizioni di questo
titolo” (cfr. art. 142 Codice ambiente) per il suo
“interesse paesaggistico” (non soltanto, ad esempio,
geologico, idrogeologico o floristico), ciò
significa che lo è in quanto paesaggio (secondo la
definizione di contesto d’insieme che ne danno
l’art. 131 del Codice ambiente e la pacifica
giurisprudenza amministrativa e costituzionale), che
comprende non soltanto il suolo, il sottosuolo,
l’habitat, … ma anche, e forse anzitutto, la sua
visuale come percepibile da qualsiasi (non soltanto
da sopra ma, evidentemente anche da sotto quota
1200) punto di osservazione, nonché le visuali
godibili da ogni punto della montagna sito oltre
tale quota.
Se oggetto della tutela “ex lege” è anche la visuale
della montagna, e dalla montagna, vi rientrano i
coni visuali che da qualsiasi punto di osservazione
ricomprendano versanti e cime oltre quota 1200
metri; nonché le visuali godibili, verso il basso e
verso l’alto, da tutte le linee altimetriche
superiori a tale quota; tutti gli interventi che
interferiscano in tali visuali, cioè la cui
percezione visiva sia in esse ricompresa, sono
soggetti alla previa valutazione paesaggistica per
verificarne la compatibilità dell’impatto visivo.
Se le montagne oltre quota 1200 mt. s.l.m.
costituiscono paesaggio, meritevole di tutela ex
art. 142/1° c., lett. d), D.Lgs. 42/2004, come tali
devono essere protette non solo dalle trasformazioni
del loro proprio territorio interno al perimetro
della linea altimetrica dei 1200 m s.l.m. in quanto
posto al di sopra di essa, ma anche dalle
interferenze visive che ne pregiudichino la bellezza
panoramica, percepibile dai punti di osservazione
inferiori ed esterni al perimetro stesso,
inserendosi nel cono visuale che da essi si diparte
ed alterandone in modo significativo il contesto
visivo da essi percepibile. Egualmente deve essere
protetta la visuale percepibile, verso valle e verso
monte, dai versanti (e dalle cime) oltre quota 1200,
perché anche il panorama godibile da tali
privilegiate posizioni è parte del bene
paesaggistico costituito dalla montagna oltre 1200
mt s.l.m., che è tale –secondo la definizione di
bene d’insieme che del paesaggio reca l’art. 131
D.Lgs. 42/2004– sia per la sua bellezza intrinseca
come oggetto di visuale che, per il panorama che
offre all’intorno, come punto privilegiato di
osservazione del medesimo.
Del resto, se le bellezze panoramiche suscettibili
della dichiarazione di notevole interesse pubblico,
ai sensi degli articoli da 138 a 141 del Codice
Ambiente, sono “considerate come quadri”, e
comprendono pure “quei punti di vista o di
belvedere, accessibile al pubblico, dai quali si
goda lo spettacolo di quelle bellezze” (cfr. art.
136 lett. d del Codice), tale concezione non può non
essere comune a quelle più specifiche bellezze
panoramiche (come le montagne oltre i 1200 mt.) che,
nell’ambito della categoria, si individuano per
essere dichiarate di notevole interesse pubblico per
definizione legislativa, senza cioè che occorra la
apposizione del decreto di vincolo; in altre parole,
nessuna “ratio” potrebbe giustificare una protezione
minore per quelle tutelate “ope legis”, rispetto a
quelle vincolate con apposito D.M.
Per le stesse ragioni, esse (le montagne per la
parte eccedente i 1200 mt. s.l.m.) sono anche
oggetto della speciale ulteriore forma di tutela
(indiretta), prevista dall’art. 152 del Codice
ambiente, nei confronti di “condotte e impianti
industriali e di palificazioni … in vista delle aree
indicate alle lettere c) e d) dell’art. 136”, con
“la facoltà di prescrivere le distanze, le misure e
le varianti, le quali … valgano ad evitare
pregiudizio ai beni protetti da questo titolo”.
Che la norma riguardi anche i beni protetti “ex lege”
(ex art. 142) è confermato dal suo secondo comma,
che, pur non modificando l’ambito di estensione
oggettivo della tutela ma recando solo una mera
disposizione procedimentale (“la Regione consulta
preventivamente le competenti soprintendenze”),
contiene un riferimento testuale all’art. 142, nella
implicita ma evidente presupposizione che anche ad
esso si riferisca il precedente primo comma.
Lo conferma del resto l’art. 14.9, punto c), del
citato D.M. 10.09.2010, che prevede la obbligatoria
partecipazione del MIBAC, per l’esercizio dei poteri
di cui all’art. 152 del Codice ambiente, nell’ambito
della Conferenza per l’autorizzazione unica degli
impianti di produzione energetica da fonti
rinnovabili, ogni qual volta l’impianto da
realizzare sia localizzato ”in aree contermini a
quelle sottoposte a tutela ai sensi del D.lgs.
42/2004”, senza distinguere affatto tra vincoli “ope
legis” (ex art. 142) e vincoli imponibili con D.M.
(ex art. 136).
La controversia introdotta con il primo motivo verte
sostanzialmente sulla interpretazione dell’art. 142,
1° comma, lett. d), del Codice Ambiente: «sono
comunque sottoposti alle disposizioni di questo
titolo per il loro interesse paesaggistico: …..d) le
montagne per la parte eccedente 1600 metri sul
livello del mare per la catena alpina e 1200 metri
sul livello del mare per la catena appenninica e per
le isole».
Da essa dipende il giudizio sulla esattezza o meno
del presupposto assunto dalla Soprintendenza a
fondamento del suo parere favorevole, e cioè che il
progettato parco eolico, ed anzi nessuno dei 13
aerogeneratori previsti, ricadrebbe in area
vincolata ex art. 142, 1° c., lett. d), del Codice
ambiente (D.Lgs. 42/2004). Tali aree tutelate, in
cui ogni intervento è soggetto a previa valutazione
di compatibilità paesaggistica ex art. 146 D.Lgs.
42/2004, sono vieppiù indicate, dall’allegato 3
(punto f) alle menzionate linee guida ex D.M.
10.09.2010, tra i siti preferenzialmente non idonei
alla localizzazione di impianti di così rilevante
impatto ambientale come quelli eolici.
Per cui la esatta rappresentazione delle
caratteristiche normative dell’area (vincolata o
no), da parte delle amministrazioni competenti alla
valutazione dell’impatto, è a maggior ragione
essenziale ai fini della legittimità della
valutazione stessa.
Le ricorrenti censurano la presa d’atto della nuova
collocazione di tutte le 13 turbine all’esterno del
vincolo paesaggistico altimetrico (che interessa le
aree di altitudine superiore ai 1200 mt. s.l.m.).
Le esponenti contrappongono a tale constatazione una
diversa concezione del vincolo, secondo cui, pur
essendo incontestato che tutti i basamenti delle
turbine sono collocati ad un’altitudine inferiore a
1200 mt. s.l.m., il loro sviluppo in altezza
comporterebbe una parziale “invasione” visiva
dello spazio sovrastante.
Esse rilevano, incontestatamente, che le torri si
ergeranno fino ad avvicinarsi o addirittura a
superare in altezza la vette più significative del
crinale (Monte Comero mt. 1371, Monte Castelvecchio
mt. 1254, Poggio Biancarda mt. 1219), di fatto
incidendo sulle visuali paesaggistiche più
significative anche da distanze maggiori rispetto a
quelle da cui è usuale l’osservazione di questo
paesaggio appenninico.
La Provincia riconosce che l’elemento di novità, dal
punto di vista progettuale, del lay out
oggetto della presente valutazione, è dato dal fatto
che tutte e 13 le pale dell’impianto eolico non
ricadono all’interno di aree sottoposte a vincolo
paesaggistico, ex art. 142, lett. d), del D.Lgs.
42/2004 e s.m.i., per cui la Soprintendenza per i
Beni Architettonici e Paesaggistici non ha reso un
parere finalizzato all’ottenimento
dell’autorizzazione paesaggistica relativamente a
tale aspetto.
Le resistenti propugnano cioè una stretta e
letterale interpretazione, secondo la quale oggetto
della tutela sono soltanto “le montagne” (e
non le visuali oltre i 1200 metri s.l.m.), per cui
il limite dei 1200 metri andrebbe riferito
esclusivamente alla quota altimetrica del suolo.
Se effettivamente fosse esatta questa accezione,
basterebbe posizionare tutti i basamenti delle torri
anche pochi metri al di sotto dei 1200 per non
invadere l’area tutelata, ed esonerare così
l’intervento dalla valutazione di compatibilità con
il vincolo ex art. 142, lett. d), del Codice
ambiente.
Tuttavia, tale interpretazione palesa tutta la sia
illogicità se solo si considerano le aberranti
conseguenze cui essa conduce: mentre sarebbe
sottoposto a previa valutazione l’impatto di un
fienile a metri 1201 s.l.m., non lo sarebbe la
costruzione di un condominio o di un grattacielo a
quota 1199 s.l.m..
D’altronde, anche se oggetto della tutela sono “le
montagne” (che ben possono essere intese,
tuttavia, nel senso di ambiente montano), anche
sotto il profilo letterale la norma è assolutamente
esplicita nell’individuare la sua finalità nella
tutela del paesaggio, affermando che i beni
indicati, e quindi le montagne, «sono sottoposti
alle disposizioni di questo titolo per il loro
interesse paesaggistico», vale a dire in quanto
formano o concorrono a formare un paesaggio di
pregio.
Se la finalità della tutela è la preservazione del
paesaggio montano, lo spazio tutelato non può essere
limitato al suolo.
Una diversa interpretazione, che riferisca il limite
dei 1200 metri s.l.m. al colmo delle costruzioni da
edificare, oltre ad essere meglio supportata dalla
lettura testuale della norma nella sua interezza,
già sarebbe in grado di evitare le irragionevoli
conseguenze applicative sopra descritte, e di meglio
corrispondere a un criterio interpretativo
finalistico-teleologico.
La norma risale a tempi largamente precedenti
l’approvazione delle linee–guida per gli impianti di
produzione di energia da fonti rinnovabili (D.M.
10.09.2010), nei quali, pur essendo già disponibile
una tecnologia di così rilevanti dimensioni, non era
verosimilmente prevedibile e attuale la sua
realizzazione su crinali montuosi.
Essa si pone a presidio della parte più
caratterizzante e preziosa del paesaggio montano –le
cime- per preservarlo da interventi idonei ad
alternarne in modo significativo il profilo e la
visuale a partire dai 1200 metri di altitudine s.l.m..
E’ di palmare evidenza che l’allontanamento di pochi
metri (sia in altitudine che in linea d’aria
orizzontale) dalla linea altimetrica dei 1200 metri
s.l.m. (e nella fattispecie dalla sommità del
crinale a 1219 metri s.l.m.) non può in alcun modo
evitare l’interferenza visiva con la visuale della
montagna oltre quota 1200 (cioè quella godibile da e
verso le posizioni poste su tale linea altimetrica
ed oltre), ove il colmo delle vicinissime
costruzioni superi di gran lunga quota 1200
rientrando quasi interamente in tale visuale
protetta (ma anche quando non la raggiunga ma
soltanto vi si avvicini).
Viceversa, l’interpretazione sostenuta dai
resistenti non è compatibile con la finalità di
protezione del paesaggio montano oltre quota 1200
s.l.m., che deve essere preservato da tutti gli
interventi eccessivamente impattanti su di esso, a
prescindere dal livello altimetrico delle
fondazioni, sotto alcun profilo considerato dalla
norma vincolistica, la quale, da un lato, ha per
oggetto, come visto, il paesaggio e non il suolo, e,
dall’altro, definisce i limiti geografico-spaziali
della tutela con esclusivo riguardo a tale oggetto,
e non con riguardo alle caratteristiche (anche
localizzative) degli interventi di cui prescrive la
previa valutazione, le quali non vengono affatto
prese in considerazione ai fini della delimitazione
delle aree protette.
Perciò, in definitiva, anche se la lettera d)
dell’art. 142 citato si riferisce a “le montagne”,
ed anche se l’espressione va intesa come riferimento
al suolo, cioè a tutte le posizioni del versante e
della cima che si trovano oltre la linea altimetrica
dei 1200 metri, l’oggetto della tutela è
inequivocabilmente il paesaggio visibile da quelle
posizioni e verso quelle posizioni, in cui entrano
(nella fattispecie in modo assai rilevante per la
loro mole e altezza) anche tutte le vicine
costruzioni fondanti a quota inferiore ma svettanti
a quota superiore, o comunque significativamente
visibili sia verso l’alto che verso il basso), a
meno che non siano abbastanza lontane da fuoriuscire
dalla visuale significativamente percepibile da
quelle posizioni e verso quelle posizioni.
Perciò, il punto dirimente tra sottoposizione o meno
a tutela ex art. 142, comma 1, lett. d), del Codice
ambiente non è la quota altimetrica della base del
manufatto (o del colmo dello stesso), ma la quota
altimetrica del punto di osservazione (sopra o sotto
i 1200 metri s.l.m.), cioè della posizione la cui
visuale (da e verso altri luoghi) deve (o meno)
essere preservata dalle interferenze visive che
l’amministrazione preposta valuti incompatibili con
le esigenze (paesaggistiche) di sua conservazione.
Tanto premesso, tale lettura dell’art. 142, comma 1,
lett. d), del Codice ambiente è, ad avviso del
Collegio, l’unica compatibile con criteri di
interpretazione letterale, logico-sistematica e
teleologica delle norme di legge, e con la
definizione del paesaggio come bene d’insieme recata
dall’art. 131 del Codice ambiente.
Se la montagna per la parte eccedente i 1200 metri
s.l.m. è sottoposta “alle disposizioni di questo
titolo” (cfr. art. 142 Codice ambiente) per il
suo “interesse paesaggistico” (non soltanto,
ad esempio, geologico, idrogeologico o floristico),
ciò significa che lo è in quanto paesaggio (secondo
la definizione di contesto d’insieme che ne danno
l’art. 131 del Codice ambiente e la pacifica
giurisprudenza -es. TAR Lazio Roma II-quater
21.01.2011 n. 686 e Corte cost. n. 94/1985, n.
359/1985, n. 151/1986– amministrativa e
costituzionale), che comprende non soltanto il
suolo, il sottosuolo, l’habitat, … ma anche, e forse
anzitutto, la sua visuale come percepibile da
qualsiasi (non soltanto da sopra ma, evidentemente
anche da sotto quota 1200) punto di osservazione,
nonché le visuali godibili da ogni punto della
montagna sito oltre tale quota.
Se oggetto della tutela “ex lege” è anche la
visuale della montagna, e dalla montagna, vi
rientrano i coni visuali che da qualsiasi punto di
osservazione ricomprendano versanti e cime oltre
quota 1200 metri; nonché le visuali godibili, verso
il basso e verso l’alto, da tutte le linee
altimetriche superiori a tale quota; tutti gli
interventi che interferiscano in tali visuali, cioè
la cui percezione visiva sia in esse ricompresa,
sono soggetti alla previa valutazione paesaggistica
per verificarne la compatibilità dell’impatto
visivo.
Se le montagne oltre quota 1200 mt s.l.m.
costituiscono paesaggio, meritevole di tutela ex
art. 142/1° c., lett. d), D.Lgs. 42/2004, come tali
devono essere protette non solo dalle trasformazioni
del loro proprio territorio interno al perimetro
della linea altimetrica dei 1200 m s.l.m. in quanto
posto al di sopra di essa, ma anche dalle
interferenze visive che ne pregiudichino la bellezza
panoramica, percepibile dai punti di osservazione
inferiori ed esterni al perimetro stesso,
inserendosi nel cono visuale che da essi si diparte
ed alterandone in modo significativo il contesto
visivo da essi percepibile. Egualmente deve essere
protetta la visuale percepibile, verso valle e verso
monte, dai versanti (e dalle cime) oltre quota 1200,
perché anche il panorama godibile da tali
privilegiate posizioni è parte del bene
paesaggistico costituito dalla montagna oltre 1200
mt s.l.m., che è tale –secondo la definizione di
bene d’insieme che del paesaggio reca l’art. 131
D.Lgs. 42/2004– sia per la sua bellezza intrinseca
come oggetto di visuale che, per il panorama che
offre all’intorno, come punto privilegiato di
osservazione del medesimo.
Del resto, se le bellezze panoramiche suscettibili
della dichiarazione di notevole interesse pubblico,
ai sensi degli articoli da 138 a 141 del Codice
Ambiente, sono “considerate come quadri”, e
comprendono pure “quei punti di vista o di
belvedere, accessibile al pubblico, dai quali si
goda lo spettacolo di quelle bellezze” (cfr.
art. 136 lett. d del Codice), tale concezione non
può non essere comune a quelle più specifiche
bellezze panoramiche (come le montagne oltre i 1200
mt.) che, nell’ambito della categoria, si
individuano per essere dichiarate di notevole
interesse pubblico per definizione legislativa,
senza cioè che occorra la apposizione del decreto di
vincolo; in altre parole, nessuna “ratio”
potrebbe giustificare una protezione minore per
quelle tutelate “ope legis”, rispetto a
quelle vincolate con apposito D.M.
Per le stesse ragioni, esse (le montagne per la
parte eccedente i 1200 mt. s.l.m.) sono anche
oggetto della speciale ulteriore forma di tutela
(indiretta), prevista dall’art. 152 del Codice
ambiente, nei confronti di “condotte e impianti
industriali e di palificazioni … in vista delle aree
indicate alle lettere c) e d) dell’art. 136”,
con “la facoltà di prescrivere le distanze, le
misure e le varianti, le quali … valgano ad evitare
pregiudizio ai beni protetti da questo titolo”.
Che la norma riguardi anche i beni protetti “ex
lege” (ex art. 142) è confermato dal suo secondo
comma, che, pur non modificando l’ambito di
estensione oggettivo della tutela ma recando solo
una mera disposizione procedimentale (“la Regione
consulta preventivamente le competenti
soprintendenze”), contiene un riferimento
testuale all’art. 142, nella implicita ma evidente
presupposizione che anche ad esso si riferisca il
precedente primo comma.
Lo conferma del resto (cfr. quarto motivo di
ricorso) l’art. 14.9, punto c), del citato D.M.
10.09.2010, che prevede la obbligatoria
partecipazione del MIBAC, per l’esercizio dei poteri
di cui all’art. 152 del Codice ambiente, nell’ambito
della Conferenza per l’autorizzazione unica degli
impianti di produzione energetica da fonti
rinnovabili, ogni qual volta l’impianto da
realizzare sia localizzato ”in aree contermini a
quelle sottoposte a tutela ai sensi del D.lgs.
42/2004”, senza distinguere affatto tra vincoli
“ope legis” (ex art. 142) e vincoli
imponibili con D.M. (ex art. 136).
Anche sotto tale profilo, dunque, l’indagine
sull’impatto visivo, che la Soprintendenza ha svolto
nell’ottica di protezione delle visuali della (e
dalla) vicina area protetta del Monte Fumaiolo (D.M.
30.12.1997), doveva essere estesa alla protezione
delle visuali del (e dal) Poggio della Biancarda
oltre quota 1200 mt. e cime circostanti, benché i
basamenti delle torri siano posizionati appena
sottoquota. Tale omissione integra un chiaro difetto
dell’istruttoria dovuta, ai sensi e per gli effetti
di cui all’art. 152 del Codice ambiente, anche se
fosse vera la affermazione che il parco eolico non
insista in area vincolata ex art. 142, 1° comma,
lett. d), bensì soltanto in area contermini e in
vista della stessa come ritengono i resistenti.
Invece tale indagine è stata limitata (come è
agevole rilevare dalla lettura dei pareri 16.02.2011
e 09.02.2012 della Soprintendenza) alla adiacente
area del Monte Fumaiolo, oggetto di tutela specifica
ex D.M. 30.12.1997 ai sensi dell’art. 136, lett. d),
del D.Lgs. 42/2004 e quindi della tutela indiretta
ex art. 152, mentre la Soprintendenza ha ritenuto
erroneamente di esserne dispensata con riguardo al
Poggio della Biancarda, solo perché i basamenti di
tutte le 13 torri sono posizionati poco al di sotto
della quota altimetrica dei 1200 metri sul livello
del mare, e quindi in area ritenuta non tutelata
dall’art. 142.
Si noti che sul progetto originario la
Soprintendenza, ritenendosi abilitata ad esercitare
i suoi poteri perché alcune torri fondavano oltre i
1200 mt s.l.m., aveva espresso un parere fortemente
negativo in data 14.01.2010 sullo specifico aspetto
delle visuali del Poggio della Biancarda, aspetto
poi tralasciato, come si è visto, sull’erroneo
presupposto che lo spostamento di pochi metri al di
sotto la dispensasse da tale esercizio di potere (il
che non è –ripetesi– sia perché le torri si trovano
ugualmente in area vincolata ex art. 142, 1° c.,
lett. d), Codice Ambiente, sia perché, comunque,
tale area è oggetto della tutela indiretta ex art.
152 dello stesso codice ed art. 14 D.M. 10.09.2010).
Tale erroneo presupposto vizia l’intero procedimento
(in via diretta il parere della Soprintendenza e in
via derivata gli atti successivi) e comporta
l’accoglimento del motivo primo aggiunto (violazione
art. 142 D.Lgs. 42/2004 e travisamento), secondo
(contraddittorietà con precedente parere), quarto
(violazione D.M. 10.09.2010) e terzo (difetto di
istruttoria).
Tale soluzione sconta evidentemente il rigetto delle
eccezioni di inammissibilità per tardività, difetto
di legittimazione delle ricorrenti e sconfinamento
nel merito insindacabile.
In particolare:
- la notificazione dei motivi aggiunti avverso la
DGP 121/12 è avvenuta il 22.06.2012, ovvero entro il
termine decadenziale rispetto alla pubblicazione sul
BUR. n. 71 del 26.04.2012 ma non rispetto a quella
sull’Albo Pretorio: secondo la concorde
giurisprudenza formatasi in tema di “concorrenza
di più forme di publicizzazione”, la presunzione
di conoscenza opera solo dopo che tutte siano state
esperite purché previste dalla legge (cfr. Cons.
Stato 2615/2005, art. 16/3° c. L.R. 9/1999 e art. 27
D.Lgs. 152/2006);
- la legittimazione delle associazioni di protezione
ambientale nazionale, individuate con DM Ambiente
20.02.1987 ex art 13 legge n. 349/1986, è pacifica
in giurisprudenza e fonda sull’art. 18, comma 5,
della medesima legge;
- la censura esaminata ed accolta non involge alcuna
interferenza con valutazioni e scelte di merito
dell’amministrazione, limitandosi a verificare la
erroneità di un presupposto in diritto, la erronea
interpretazione di norme di legge, e la omissione di
una istruttoria doverosa.
Conclusivamente, il ricorso per motivi aggiunti va
accolto con assorbimento dei motivi non esaminati
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 21.03.2013 n. 225 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
COMPETENZE PROGETTUALI - INCARICHI PROGETTUALI:
La progettazione di opere
di sistemazione idraulica di corsi d'acqua rientra nelle
competenze esclusive dell'ingegnere.
Lo svolgimento della progettazione richiamata in oggetto da
parte di professionisti geometri è illegittima e, pertanto,
non abilita la stazione appaltante al pagamento dei compensi
professionali.
Il sub-affidamento delle attività di verifica idrogeologica
ad un ingegnere è in contrasto con l'art. 91, comma 3, del
D.Lgs. n. 163/2006 e s.m., inerente il divieto di subappalto
dei servizi di ingegneria.
--------------
L'assegnazione degli incarichi in parola tramite affidamento
diretto non è conforme alle indicazioni dell'art. 57, comma
5, lett. b) e dell'art. 125, comma 11, del D.Lgs. n.
163/2006 (in via transitoria DPR n. 384/2001), non
ricorrendo i presupposti per l'applicazione delle norme
citate.
... il Consiglio:
2) rileva che la progettazione di opere di sistemazione
idraulica di corsi d'acqua rientra nelle competenze
esclusive dell'ingegnere;
3) rileva che lo svolgimento della progettazione richiamata
in oggetto da parte di professionisti geometri è illegittima
e che pertanto non abilita la stazione appaltante al
pagamento dei compensi professionali;
4) rileva che il sub-affidamento delle attività di verifica
idrogeologica ad un ingegnere è in contrasto con l'art. 91,
comma 3, del D.Lgs. n. 163/2006 e s.m., inerente il divieto
di subappalto dei servizi di ingegneria;
5) rileva che l'assegnazione degli incarichi in parola
tramite affidamento diretto non è conforme alle indicazioni
dell'art. 57, comma 5, lett. b) e dell'art. 125, comma 11,
del D.Lgs. n. 163/2006 (in via transitoria DPR n. 384/2001),
non ricorrendo i presupposti per l'applicazione delle norme
citate (Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici di
Lavori, Servizi e Forniture,
deliberazione 20.12.2007 n. 316). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI LOCALI - VARI:
G.U. 09.04.2013 n. 83 "Indice nazionale degli indirizzi
di posta elettronica certificata delle imprese e dei
professionisti (INI-PEC)"
(Ministero dello Sviluppo Economico,
decreto 19.03.213). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
diritto al rimborso delle spese legali (dei dipendenti
ee.ll.) è condizionato ai seguenti presupposti:
- l’esistenza di esigenze di tutela di interessi e di
diritti facenti capo all’ente pubblico;
- l’assenza di dolo e colpa grave in capo al dipendente
sottoposto a giudizio;
- la stretta inerenza del procedimento giudiziario a fatti
verificatisi nell’esercizio ed a causa della funzione
esercitata o dell’ufficio rivestito dal dipendente pubblico,
riconducibili quindi al rapporto di servizio e perciò
imputabili direttamente all’amministrazione nell’esercizio
della sua attività istituzionale;
- l’assenza di un conflitto di interesse tra il dipendente e
l’ente di appartenenza che permette di procedere ad una
nomina del difensore legale di comune accordo tra le parti.
Con riferimento alla scelta del difensore, l’ente deve
comunque preliminarmente manifestare il “gradimento
dell’ente” (che implica anche la condivisione della relativa
strategia difensiva) atteso che la lettera dell’art. 67 del
D.P.R. n. 268 del 1987 (ed oggi dell’art. 28 del CCNL di
comparto), fa riferimento espresso alla necessità che il
legale, che assumerà la difesa del dipendente con relativo
onere a carico dell’ente locale, sia “di comune gradimento”.
Il Sindaco del Comune di Sant’Egidio alla Vibrata con nota
del 04.11.2011 (ricevuta dalla Corte dei conti in data
08.11.2011), ha presentato una richiesta di parere in
merito al rimborso delle spese legali avanzato da un
dipendente in conseguenza di una sentenza del GIP di Teramo,
resa al termine del giudizio abbreviato, con cui il suddetto
dipendente è stato assolto dal reato ascritto in quanto “il
fatto non sussiste”.
...
Il rimborso delle spese legali, per i dipendenti del
comparto Regioni ed autonomie locali è disciplinato
dall’art. 28 del C.C.N.L. del 14.09.2000 che, richiamando
l’art. 67 del D.P.R. 13.05.1987 n. 268, prevede che “l’Ente,
anche a tutela dei propri diritti ed interessi, ove si
verifichi l’apertura di un procedimento di responsabilità
civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti
o atti direttamente connessi all’espletamento del servizio e
all’adempimento dei compiti di ufficio, assumerà a proprio
carico, a condizione che non sussista conflitto di
interessi, ogni onere di difesa sin dall’apertura del
procedimento, facendo assistere il dipendente da un legale
di comune gradimento”.
Il diritto al rimborso delle spese legali è
pertanto condizionato ai seguenti presupposti: “-
l’esistenza di esigenze di tutela di interessi e di diritti
facenti capo all’ente pubblico; - l’assenza di dolo e colpa
grave in capo al dipendente sottoposto a giudizio; - la
stretta inerenza del procedimento giudiziario a fatti
verificatisi nell’esercizio ed a causa della funzione
esercitata o dell’ufficio rivestito dal dipendente pubblico,
riconducibili quindi al rapporto di servizio e perciò
imputabili direttamente all’amministrazione nell’esercizio
della sua attività istituzionale; - l’assenza di un
conflitto di interesse tra il dipendente e l’ente di
appartenenza che permette di procedere ad una nomina del
difensore legale di comune accordo tra le parti”
(Corte dei conti, Sez. Veneto delibera 05.04.2012, n. 245).
Con riferimento alla scelta del difensore, si è altresì
precisato che l’ente deve comunque
preliminarmente manifestare il “gradimento dell’ente”
(che implica anche la condivisione della relativa strategia
difensiva) atteso che la lettera dell’art. 67 del D.P.R. n.
268 del 1987 (ed oggi dell’art. 28 del CCNL di comparto), fa
riferimento espresso alla necessità che il legale, che
assumerà la difesa del dipendente con relativo onere a
carico dell’ente locale, sia “di comune gradimento”
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, delibera
12.11.2009, n. 1000);
La sussistenza, in concreto, di tali indefettibili
condizioni, non è rilevabile dagli atti prodotti
dall’Amministrazione comunale, rientrando, in ogni caso,
nella sua esclusiva discrezionalità.
In virtù di siffatti argomenti, costituisce compito
dell’Amministrazione verificare, caso per caso, l’esistenza
dei presupposti sopra enunciati per riconoscere il rimborso
delle spese legali al dipendente assolto perché il fatto non
sussiste
(Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo,
parere 05.04.2013 n.
15). |
UTILITA' |
APPALTI - URBANISTICA: Trasparenza
e anticorruzione delle Pubbliche Amministrazioni: in arrivo
nuovi obblighi su appalti, urbanistica e ambiente.
Dal prossimo 20.04.2013 le Amministrazioni Pubbliche avranno
nuovi obblighi in materia di appalti, urbanistica, ambiente
e calamità naturali.
Lo stabilisce il Decreto Legislativo n. 33 del 14.03.2013
che riordina la disciplina riguardante gli obblighi di
pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da
parte delle amministrazioni pubbliche.
Obiettivo del decreto è quello di consentire ai cittadini di
conoscere e controllare le attività delle amministrazioni,
la loro efficienza e imparzialità.
Tra i nuovi obblighi a carico delle stazioni appaltanti:
►
obbligo di pubblicare sui propri siti internet le
informazioni sugli appalti: per ciascun contratto devono
indicare la determina di aggiudicazione definitiva, la
struttura proponente, l'oggetto del bando, l'importo
dell'aggiudicazione, l'aggiudicatario, la base d'asta, la
procedura e la modalità di selezione del contraente, il
numero di offerenti partecipanti, i tempi di completamento
dell'opera, l'importo delle somme liquidate, le modifiche
contrattuali e le decisioni di ritiro e recesso dei
contratti;
►
obbligo di trasmettere tutte le informazioni pubblicate sui
propri siti internet all’AVCP (Autorità per la Vigilanza sui
Contratti Pubblici);
►
obbligo di pubblicare le informazioni relative ai tempi, ai
costi unitari e agli indicatori di realizzazione delle opere
pubbliche completate
►
obbligo di pubblicità dei dati e documenti, tra i quali i
procedimenti di approvazione dei piani regolatori e delle
varianti urbanistiche;
►
obbligo di pubblicare annualmente un “indicatore di
tempestività dei pagamenti” che indica i propri tempi
medi di pagamento per l’acquisto di beni, servizi e
forniture.
Le PA che non rispettano questi obblighi incorrono in
sanzioni fino a 51.545 euro.
L’AVCP entro il 30 aprile di ogni anno comunicherà alla
Corte dei Conti l’elenco delle amministrazioni pubbliche
inadempienti (11.04.2013 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ecco
una utile guida alle pompe di calore.
La pompa di calore è una macchina in grado di trasferire
energia termica da una sorgente a temperatura più bassa ad
una sorgente a temperatura più alta o viceversa; questo
processo, non essendo spontaneo, richiede un certo apporto
energetico che può essere costituito da:
●
energia elettrica
●
combustibile
●
calore ad alta temperatura
Esempi comuni di macchine di questo tipo sono:
►
refrigeratori;
►
condizionatori d'aria;
►
pompa di calore a compressione di gas;
►
pompa di calore a cambiamento di fase;
►
pompa di calore termoelettrica a effetto Peltier;
►
pompa di calore a scambio geotermico;
►
Vortex, detto anche tubo di Ranque-Hilsch.
RSE, società di ricerca del GSE (Gestore dei Servizi
Energetici) ha reso disponibile una pubblicazione completa
sulle pompe di calore.
Il documento utile a tutti gli addetti ai lavori (tecnici,
progettisti, installatori, imprese), fornisce informazioni
sui vantaggi derivanti dall’utilizzo di questa tecnologia,
come ad esempio minori emissioni e consumi rispetto alle
tecnologie concorrenti.
La guida, oltre ad illustrare i vantaggi, tratta gli aspetti
tecnologici, impiantistici, prestazionali ed economici delle
pompe di calore (11.04.2013 - link a www.acca.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: Nuovo decreto sulla segnaletica stradale per
attività lavorative in presenza di traffico veicolare
(ANCE Bergamo,
circolare 12.04.2013 n. 94). |
APPALTI: Oggetto:
Decreto-legge 08.04.2013, n. 35 - Misure per le
amministrazioni tenute a certificare i crediti certi,
liquidi ed esigibili fornitori maturati alla data del
31.12.2012 per somministrazioni, forniture e appalti. Prime
indicazioni operative alle amministrazioni centrali e
periferiche dello Stato in materia di accreditamento alla
piattaforma elettronica e di ricognizione dei debiti
(Ministero dell'Economia e Finanze, Ragioneria Generale
dello Stato,
circolare 10.04.2013 n. 17). |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI:
OGGETTO: Verifiche delle Commissioni di vigilanza sui
locali di pubblico spettacolo in occasione di manifestazioni
aperte al pubblico con allestimento di attrazioni dello
spettacolo viaggiante (Ministero dell'Interno,
Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Ufficio per
l'Amministrazione Generale, Ufficio per gli Affari della
Polizia Amministrativa e Sociale,
nota 15.03.2013 n. 3595 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI:
OGGETTO: Competenza delle commissioni di vigilanza sui
locali di pubblico spettacolo - Verifiche sui locali con
capienza pari o inferiore a 200 persone - Intervenuta
abrogazione dell'art. 124, c. 2, Reg. TULPS - Quesito
(Ministero dell'Interno, Dipartimento della Pubblica
Sicurezza, Ufficio per l'Amministrazione Generale, Ufficio
per gli Affari della Polizia Amministrativa e Sociale,
nota 22.02.2013 n. 2622 di prot.). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
CONDOMINIO:
G. T. Gomitoni,
Il “diritto” del condomino al distacco dall’impianto
di riscaldamento dopo la Riforma (Immobili &
proprietà n. 4/2013 - tratto da www.ispoa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
D. Sammartino,
Demansionamento: scatta il risarcimento danni pari al 20%
della retribuzione (10.04.2013 - link a
www.leggioggi.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: S.
Gamberini,
Mobbing: per la Cassazione il demansionamento non è
sufficiente (04.04.2013 - link a
www.leggioggi.it). |
LAVORI PUBBLICI:
A. Lamantia,
Le riserve nelle opere pubbliche (25.03.2013 -
link a www.appaltieriserve.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
S. Glinianski e P. Russo,
Enti locali: la nomina del Responsabile Prevenzione della
corruzione (12.03.2013 - link a www.altalex.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
G. P. Cirillo,
LA TRASCRIZIONE DEI ‘DIRITTI EDIFICATORI’ E LA
CIRCOLAZIONE DEGLI INTERESSI LEGITTIMI (link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. Scarcella,
Inquinamento di origine fisica: rumore ed inquinamento
elettromagnetico (14.02.2013 - link a
www.lexambiente.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Amministratori locali ed esercizio della libera professione:
il regime di incompatibilità (ottobre 2012 -
tratto da
www.centrostudicni.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: D.
Argenio,
Il diritto di accesso agli atti da parte dei consiglieri
(art. 43, 2° tuel) - RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE (18.11.2010). |
QUESITI & PARERI |
ATTI AMMINISTRATIVI - SEGRETARIO COMUNALE:
Segretario comunale. Controllo successivo ex d.l. 174/2012.
Qualora il segretario comunale svolga
compiti gestionali, il comune dovrà adottare, ai fini dei
controlli successivi di cui all'art. 147 bis del d.lgs.
267/2000, opportuni strumenti atti a garantire l'insorgere
di ipotesi di incompatibilità e conflitto di interesse,
evitando la sovrapposizione del ruolo di 'controllato'e
controllore'.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alle nuove
incombenze previste, per il segretario comunale, dal d.l.
174 del 2012, in particolare in relazione ai controlli
successivi imposti dall'art. 147-bis, comma 2, del d.lgs.
267/2000, come novellato. L'Ente rappresenta che al
Segretario comunale sono stati attribuiti compiti gestionali
che comportano l'adozione di atti per i quali è previsto il
predetto controllo. In questa fattispecie e nel caso di
eventuale conflitto di interesse del Segretario,
l'Amministrazione si è posta la questione se il controllo
successivo, a norma di legge, possa essere effettuato dal
Vicesegretario che, a mente di quanto disposto dal
regolamento degli uffici e dei servizi, sostituisce il
Segretario in caso di assenza o impedimento.
Com'è noto, il d.l. 174/2012, convertito in l. 213/2012, è
intervenuto introducendo alcune modifiche al d.lgs.
267/2000.
Ai fini che ci interessano l'art. 147, come novellato,
dispone che gli enti locali, nell'ambito della loro
autonomia normativa e organizzativa, individuano strumenti e
metodologie per garantire, attraverso il controllo di
regolarità amministrativa e contabile, la legittimità, la
regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa,
disciplinando un efficace sistema di controlli interni.
L'art. 147-bis, comma 1, prevede altresì che il controllo di
regolarità amministrativa e contabile è assicurato, nella
fase preventiva della formazione dell'atto, da ogni
responsabile di servizio ed è esercitato attraverso il
rilascio del parere di regolarità tecnica attestante la
regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa. Il
controllo contabile è effettuato dal responsabile del
servizio finanziario ed è esercitato attraverso il rilascio
del parere di regolarità contabile e del visto attestante la
copertura finanziaria.
Il successivo comma 2 specifica che il controllo di
regolarità amministrativa e contabile è inoltre assicurato,
nella fase successiva, secondo principi generali di
revisione aziendale e modalità definite nell'ambito
dell'autonomia organizzativa dell'ente, sotto la direzione
del Segretario, in base alla normativa vigente. Sono
soggette al controllo le determinazioni di impegno di spesa,
gli atti di accertamento di entrata, gli atti di
liquidazione di spesa, i contratti e gli altri atti
amministrativi, scelti secondo una selezione casuale
effettuata con motivate tecniche di campionamento
[1].
Il comma 3 infine dispone che le risultanze del predetto
controllo successivo siano trasmesse periodicamente, a cura
del Segretario, ai responsabili dei servizi, ai revisori dei
conti e agli organi di valutazione dei risultati dei
dipendenti, come documenti utili per la valutazione, e al
consiglio comunale.
A tal proposito, certa dottrina [2]
ha evidenziato come nella nuova formulazione della norma in
esame, il legislatore non si sia preoccupato di disciplinare
esplicitamente i casi in cui il Segretario comunale assuma
direttamente la responsabilità di alcuni servizi, ai sensi
dell'art. 97, comma 4, lett. d), del TUEL. Si è osservato
che l'art. 147 bis citato pone in rilievo essenzialmente due
aspetti: l'autonomia del singolo ente locale
nell'organizzare tale forma di controllo e il ruolo di
'direzione' rivestito dal Segretario comunale.
In realtà, l'aver precisato che il Segretario assume tale
ruolo di direzione non significa necessariamente che detto
soggetto debba intervenire direttamente su tutte le attività
riferite a tale forma di controllo, dovendo comunque
garantire il coordinamento complessivo delle attività.
E' evidente che, in ogni caso, occorre garantire il rispetto
del principio generale di separazione tra il soggetto che ha
redatto gli atti ed il soggetto che effettua il controllo
successivo sui medesimi. Nei comuni di piccole dimensioni,
infatti, in cui al Segretario possono essere attribuite le
funzioni di Responsabile di determinati servizi, il
Segretario si ritroverebbe contemporaneamente nella duplice
veste di controllato e controllore, pregiudicando
l'imparzialità dei controlli [3].
In merito a tale aspetto, si sono ipotizzate diverse
soluzioni, che gli enti stanno attualmente elaborando per
fronteggiare il problema concreto.
Ad esempio, in alcuni regolamenti si prevede che il comune
si convenzioni con altri enti e che, per gli atti adottati
dal Segretario nella funzione di responsabile di servizio,
il controllo sia esercitato dal Segretario dell'altro comune
convenzionato, prevedendo, in sostanza, uno 'scambio'
tra soggetti controllori.
Appare valida anche la scelta di individuare l'O.I.V
(organismo indipendente di valutazione), al fine di evitare
situazioni di conflitto di interessi, considerato che detto
organismo è composto da membri esterni (e pertanto opera in
totale autonomia e indipendenza [4]).
Si è evidenziata, in detta fattispecie, l'opportunità che il
Segretario, che mantiene la direzione di tale controllo,
definisca una programmazione annuale dell'attività di
controllo che intende realizzare. Nell'ambito di tale
programmazione, dovrà acquisire dall'O.I.V. l'elenco dei
procedimenti e le modalità di selezione del campione di atti
redatti direttamente dal Segretario e che l'organo stesso si
impegna ad esaminare.
Altra possibilità è quella di demandare il controllo di tali
atti all'organo di revisione al quale, ai sensi dell'art.
239 del TUEL, già spetta il compito di effettuare verifiche
sulla regolarità amministrativa, contabile e finanziaria
mediante tecniche motivate di campionamento.
La stessa Corte dei conti [5]
ha rilevato come l'assetto di compiti/funzioni in capo ai
Segretari comunali e ai dirigenti non venga interessato dal
recente d.l. 174/2012. La magistratura contabile ha ribadito
l'autonomia normativa, organizzativa e regolamentare
riconosciuta dal legislatore in capo agli enti locali,
rimarcando la possibilità loro rimessa di selezionare la
concreta articolazione delle modalità dei controlli, da
calibrare anche con riferimento alle caratteristiche
dimensionali dei diversi enti, adottando strumenti comunque
atti ad evitare l'insorgere di ipotesi di incompatibilità e
conflitto di interesse.
---------------
[1] Come rappresentato dall'ANCI, il controllo nella fase
successiva va limitato alle categorie di provvedimenti più
significativi da scegliere con idonea campionatura (cfr.
parere del 22.01.2013).
[2] Cfr. Sistema 24 PA Risponde del 03.02.2013, Controllo
regolarità amministrativa di Bertocchi Marco.
[3] La legge di conversione del d.l. 174/2012 è intervenuta
proponendo alcuni correttivi al nuovo articolo 147-bis del
TUEL, che rimuovono in buona parte gli aspetti più critici.
Ad esempio si è previsto che i controlli di fase successiva
affidati al Segretario sono effettuati solo sulla regolarità
amministrativa, e non anche sulla regolarità contabile degli
atti. Si sono poi sottratti ai controlli successivi del
Segretario gli atti di accertamento di entrata e di
liquidazione della spesa (cfr. Controllo di regolarità
amministrativa e contabile: cosa cambia il decreto enti
locali, pubblicato da Fabio Federici e consultabile sul
sito: www.larevisionelegale.it).
[4] Cfr. art. 6, comma 5, della L.R. 16/2010.
[5] Cfr. sez. di controllo per la Regione Sardegna,
deliberazione n. 28/2013/PAR
(11.04.2013
- link a www.regione.fvg.it). |
NEWS |
TRIBUTI: Fisco-comuni.
Scambio dati per la Tares.
Operative le regole tecniche per determinare la superficie
catastale su cui i contribuenti dovranno pagare la Tares.
Sono state infatti definite le modalità per lo scambio dei
dati fra Agenzia delle entrate e comuni per acquisire le
informazioni relative alle superfici degli immobili a
destinazione ordinaria per calcolare il nuovo tributo sui
rifiuti e i servizi.
Lo rende noto un comunicato stampa dell'Agenzia diffuso
ieri.
Nel comunicato viene precisato che in un documento
pubblicato sul sito internet (www.agenziaterritorio.it) sono
indicati i formati utilizzati dalle Entrate per fornire ai
comuni le superfici calcolate in base alle regole contenute
nel dpr 138/1998. Nel comunicato viene inoltre specificato
che le procedure di interscambio tra comuni e Agenzia sono
state definite con il provvedimento del direttore delle
Entrate del 29.03.2013. L'attività di collaborazione tra i
due enti serve a determinare la superficie catastale degli
immobili, che i contribuenti in futuro dovranno dichiarare
per il pagamento della nuova tassa sui rifiuti e i servizi.
Quando saranno ultimate le operazioni di interscambio, la
superficie catastale dovrà essere utilizzata da tutti i
comuni per l'accertamento tributario.
Come previsto dall'articolo 14 del dl 201/2011, richiamato
nel comunicato, in seguito alle modifiche apportate
dall'articolo 1, comma 387, della legge di stabilità
(228/2012), sono state fissate le modalità per lo scambio
tra Agenzia delle entrate e comuni delle informazioni
relativi alla superficie degli immobili a destinazione
ordinaria, iscritti in catasto e corredate di planimetria.
Questi dati sono determinati scorporando dalla superficie
catastale, per le sole destinazioni abitative, quella
relativa a balconi, terrazzi e aree scoperte pertinenziali e
accessorie, comunicanti o non comunicanti.
Il tracciato per la comunicazione delle superfici per la
Tares è stato predisposto sulla base di quello già in uso
per l'applicazione della Tarsu. Per ciascuna unità
immobiliare devono essere trasmessi identificativo
catastale, intestatari catastali e indirizzo presente nella
banca dati. I comuni sono tenuti a segnalare all'Agenzia
eventuali scostamenti significativi di dati della superficie
degli immobili a destinazione ordinaria (articolo
ItaliaOggi del 13.04.2013). |
APPALTI:
DECRETO PAGAMENTI/ La circolare della
Rgs. P.a., debiti online. Sulla piattaforma entro il 29/04.
Scatta una vera e propria corsa contro il tempo per le
amministrazioni statali che non hanno ancora provveduto a
registrarsi alla piattaforma elettronica necessaria a
certificare i crediti certi, liquidi ed esigibili vantati
nei confronti della p.a. per forniture, somministrazioni ed
appalti, alla luce delle novità introdotte con il decreto
legge n. 35/2013.
Entro il prossimo 29 aprile, infatti, le p.a. sono obbligate
a registrarsi pena la sanzione pecuniaria di 100 euro di
ammenda per ogni giorno di ritardo nella registrazione a
carico del dirigente responsabile e una segnalazione per
responsabilità dirigenziale e disciplinare nei confronti
dello stesso.
È quanto ricorda la Ragioneria generale dello stato nel
testo della recente
circolare 10.04.2013 n. 17, emanata a seguito
delle novità introdotte dal decreto legge sui pagamenti
della p.a., in particolare dalle disposizioni contenute
all'articolo 7.
Secondo tale norma, entro 20 giorni dall'entrata in vigore
della stessa (09.04.2013), le amministrazioni interessate
provvedono a registrarsi sulla piattaforma elettronica,
accessibile all'indirizzo http://certificazionicrediti.mef.gov.it/.
Una piattaforma già attiva dallo scorso anno, a seguito
delle novità introdotte dal decreto legge sviluppo (il n.
1/2012), in materia di pagamento dei crediti commerciali
delle p.a. e dalle successive regolamenti attuativi operati
dal Mineconomia con i decreti del 22/05 e 24/09/2012.
L'iscrizione non è certo facoltativa, ma costituisce un vero
e proprio obbligo per tutte le p.a., in quanto il comma 2
del ricordato articolo 7, sancisce che la mancata
registrazione entro il 29 aprile rilevi ai fini della
misurazione e della valutazione della performance
individuale dei dirigenti responsabili e comporta altresì
l'attivazione di un procedimento di responsabilità
dirigenziale e disciplinare, così come prevedono gli
articoli 21 e 55 del Testo unico sul pubblico impiego (il
dlgs n. 165/2001). Ma non è finita. La norma, al fine di
evitare inutili rinvii, prevede altresì che al dirigente
responsabile sia comminata una sanzione pecuniaria di cento
euro, per ogni giorno di ritardo nella registrazione sulla
piattaforma elettronica.
E proprio su questo punto, la circolare firmata dal
Ragioniere generale dello stato, Mario Canzio, non va tanto
per il sottile quando ricorda che alcune amministrazioni
centrali e «numerose amministrazioni periferiche»
risultano ancora inadempienti alla predetta registrazione.
In pratica, ogni amministrazione, secondo le proprie
necessità, può individuare i soggetti ritenuti alla
registrazione. A titolo esemplificativo, ad esempio,
dovranno iscriversi i capi dei dipartimenti, i segretari
generali e i responsabili delle strutture quali i prefetti e
i dirigenti scolastici. Ma anche chi ha il potere di spesa o
a chi compete la gestione delle risorse è tenuto a farlo.
Sul versante operativo, poi, il documento della Rgs precisa
che la certificazione dei crediti vantati nei confronti
della p.a. sia comunicata esclusivamente per il tramite
telematico. Ne consegue che, dallo scorso 8 aprile, non
potranno più essere accolte istanze presentate dai creditori
in modalità cartacea. Riepilogando, il primo passo da
effettuarsi sarà la registrazione, mentre, sulla base di un
apposito modello che sarà reso disponibile sul predetto
portale, le amministrazioni debitrici dovranno comunicare
l'elenco completo dei debiti certi, liquidi ed esigibili
maturati al 31 dicembre dello scorso anno e tuttora in
essere, con l'indicazione dei dati identificativi del
creditore.
La finestra temporale per potervi provvedere scatterà
dall'01/06 al 15 settembre. Anche in questo caso, l'omesso o
tardivo inserimento costituisce elemento rilevante sia ai
fini della misurazione e valutazione della performance
individuale dei dirigenti responsabili che per la
responsabilità dirigenziale e disciplinare degli stessi (articolo
ItaliaOggi del 13.04.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
APPALTI:
Linea del mef. Pregresso forse fuori dal
Patto.
I pagamenti relativi a debiti pregressi effettuati dagli
enti locali nel 2013 ma prima dell'entrata in vigore del dl
35 potrebbero non essere esclusi dal Patto.
È questa la linea interpretativa su cui sembra attestarsi il
Mef e che potrebbe essere confermata ufficialmente nei
prossimi giorni e tradotta in un correttivo al testo da
presentare durante l'iter di conversione in legge.
Il dubbio si è posto agli operatori fin dalle prime ore
successive alla pubblicazione del decreto sblocca-debiti (si
veda ItaliaOggi del 10 aprile). La deroga al Patto prevista
dall'art. 1, comma 1, include anche i pagamenti già
effettuati anteriormente all'8 aprile (data in cui il
provvedimento è arrivato in G.U.), ovvero consente di solo
di chiedere lo sblocco dei debiti ancora da saldare?
La prima soluzione pare più aderente alla formulazione
letterale della norma, che consente di escludere dal saldo
di competenza mista tutti i pagamenti «sostenuti nel
corso del 2013», purché relativi ai debiti certi,
liquidi ed esigibili al 31/12/2012 o per i quali alla stessa
data vi fosse almeno fattura o analoga richiesta di
pagamento.
Anche il primo prospetto per le richieste di comuni e
province messo online dal Mef sembrava confermare questa
lettura: esso, infatti, parlava solo di debiti al 31/12/2012
senza escludere quelli già pagati.
Nelle scorse ore, tuttavia, il modello è stato modificato ed
ora contiene campi distinti, rispettivamente, per i debiti
già estinti e per quelli ancora da pagare, individuando come
discrimine temporale proprio l'8 aprile.
Tali modifiche sembrano rivelare l'intenzione di autorizzare
la detrazione dei soli pagamenti effettuati in data
successiva. Da via XX settembre potrebbe arrivare a breve
una conferma ufficiale e non è esclusa la presentazione di
un emendamento in tal senso durante i prossimi passaggi
parlamentari (articolo ItaliaOggi del 13.04.2013). |
TRIBUTI: Il
non uso salva dalla Tares. Esenti unità senza servizi, sia
private sia industriali.
Le linee guida del Mef. Che però confliggono con
la relazione al decreto 201/2011.
Gli immobili
inutilizzati destinati ad abitazioni private o ad attività
commerciali e industriali non sono soggette al pagamento
della Tares. Il ministero dell'economia e delle finanze,
nelle linee guida che ha fornito ai comuni sulla corretta
applicazione della nuova tassa sui rifiuti e i servizi, ha
preso una posizione netta precisando che non sono soggette
al pagamento le unità immobiliari prive di mobili e di
allacci alle reti idriche ed elettriche, che di fatto non
vengono utilizzate.
Questa tesi, però, non è in linea con quanto sostenuto nella
relazione ministeriale di accompagnamento alla norma che
disciplina il tributo (articolo 14 del dl 201/2011). Nella
relazione viene richiamato il consolidato orientamento della
Cassazione che ha chiarito quali sono i locali e le aree non
suscettibili di produrre rifiuti. Per i giudici di
legittimità sono esclusi dal prelievo solo quelli
oggettivamente inutilizzabili, vale a dire gli immobili
inagibili, inabitabili, diroccati, interclusi, in stato di
abbandono.
Dall'interpretazione contenuta nelle linee guida, dunque,
emerge che il ministero non è d'accordo con se stesso. Nelle
istruzioni allegate al prototipo di regolamento Tares,
infatti, viene indicato che non sono soggetti al tributo i
locali e le aree che non possono produrre rifiuti o che non
comportano, «secondo la comune esperienza, la produzione
di rifiuti in misura apprezzabile per la loro natura o per
il particolare uso cui sono stabilmente destinati». E
tra le unità immobiliari escluse dal prelievo rientrano
quelle «adibite a civile abitazione prive di mobili e
suppellettili e sprovviste di contratti attivi di fornitura
dei servizi pubblici a rete».
Nella relazione sull'articolo 14 del dl «salva-Italia»,
che ha istituito il nuovo balzello, viene invece posto in
rilievo che il legislatore, laddove assoggetta al tributo
gli immobili «suscettibili di produrre rifiuti», ha
inteso recepire «il consolidato orientamento della Corte
di cassazione, riconducendo l'applicazione del tributo alla
mera idoneità dei locali e delle aree a produrre rifiuti,
prescindendo dall'effettiva produzione degli stessi».
In realtà, la Suprema Corte ha sempre posto dei limiti
rigidi per l'esonero dal pagamento del tributo sui rifiuti,
che è dovuto a prescindere dal fatto che il contribuente
utilizzi l'immobile. Ex lege, vanno esclusi dalla
tassazione solo gli immobili non utilizzabili (inagibili,
inabitabili, diroccati). Non ha alcuna rilevanza la scelta
soggettiva del titolare di non utilizzare l'immobile. Anche
il mancato arredo non costituisce prova
dell'inutilizzabilità dell'immobile e della inettitudine
alla produzione di rifiuti. Un alloggio che il proprietario
lasci inabitato e non arredato si rivela inutilizzato, ma
non oggettivamente inutilizzabile.
Per la prima volta il principio è stato affermato con la
sentenza 16785 del 30.11.2002. Regola ribadita con le
sentenze 9920/2003, 22770/2009, 1850/2010 e altre. Da
ultimo, sempre la Cassazione (ordinanza 1332 del 21.01.2013)
ha stabilito che l'esonero dal pagamento del tributo non
spetta neppure quando il contribuente fornisca la prova «dell'avvenuta
cessazione di una attività industriale (nella specie: un
oleificio)».
Anche il presupposto Tares, come la Tarsu, è l'occupazione,
detenzione o conduzione di locali e aree scoperte a
qualsiasi uso adibiti. Non sono soggetti solo gli immobili
che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per
il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché
risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel
corso dell'anno. Pertanto insuscettibili di produrre
rifiuti, come quelli situati in luoghi impraticabili,
interclusi o in stato di abbandono. Il contribuente può fare
ricorso solo a prove vincolate per dimostrare che l'immobile
sia inidoneo a produrre rifiuti e quindi non soggetto al
pagamento.
È evidente che se i comuni si allineano alla tesi della
Cassazione, richiamata nella relazione governativa alla
norma di legge, ai contribuenti viene imposto di pagare la
Tares anche nel caso in cui non producano rifiuti. Ma queste
regole, con molta probabilità, daranno luogo a rilievi
comunitari e a procedure d'infrazione per il mancato
rispetto del principio «chi inquina paga» (articolo
ItaliaOggi del 12.04.2013). |
APPALTI: Centrale
di committenza al via. Spacchettamento per i nuovi appalti.
Appalti spacchettati dopo la committenza unica. Dal
31.03.2013 la Centrale di Committenza è la modalità
organizzativa attraverso la quale i comuni con popolazione
inferiore a 5 mila abitanti «affidano obbligatoriamente a
un'unica centrale di committenza l'acquisizione di lavori,
servizi e forniture» ai sensi dell'art. 33, comma 3-bis,
dlgs. 163 del 2006.
Sull'argomento è intervenuta anche la legge 13.08.2010, n.
136 («piano straordinario contro le mafie»), la quale
stabilisce (all'art. 13) che con successivo decreto si
sarebbero delineate le modalità per istituire in ambito
regionale una o più stazioni uniche appaltanti (Sua), avente
natura giuridica di centrale di committenza.
Ne consegue che il ciclo dell'appalto, così come delineato
dal codice dei contratti e regolamento attuativo, ovvero
programmazione-progettazione-affidamento-esecuzione viene a
essere «spacchettato» fra due distinti soggetti e due
responsabili diversi, con buona pace dell'unicità del Rup di
cui all'articolo 10 del citato codice.
La tabella in pagina contiene in ordine cronologico le
attività facenti capo ai «vecchi» responsabili unici
di procedimento e ai nuovi responsabili delle Cdc. La
suddivisione delle attività sviluppa il tracciato fissato
dal dpcm 30.6.2011 e indica come passare dalla norma alla
prassi operativa ovvero «chi fa cosa».
I Rup dei piccoli comuni mantengono la titolarità della fase
«a monte» della programmazione dei lavori, servizi e
forniture, della «progettazione del contratto» e la
fase «a valle» della stipulazione ed esecuzione del
contratto. La fase dell'affidamento diviene di competenza
della Cdc, salvo naturalmente la verifica di disponibilità
del prodotto o servizio presso la centrale «superiore»
ovvero Consip spa.
Viene meno quindi l'impostazione originaria degli appalti,
perché si perde l'univocità del responsabile del
procedimento, derivante, per chi ne abbia memoria,
dall'articolo 7 c. 1 della «vecchia» legge 109/94. È
da sottolineare come questo profondo cambiamento non sia
avvenuto attraverso un ripensamento strutturale della
materia dei contratti, ma attraverso un comma, il 3-bis,
aggiunto a un articolo in modo sottile e quasi «inconsapevole».
Infine si consideri che l'art. 33 parla di «gare bandite»
da cui la riflessione che l'obbligo della gestione
centralizzata sia precettivo per le procedure con confronto
concorrenziale, mentre rimane in capo ai singoli comuni la
facoltà di gestire autonomamente il procedimento
contrattuale per l'acquisizione in economia, oppure nei casi
per i quali la legge ammette la procedura negoziata diretta
(cfr. artt. 56, 57, 125 dlgs n. 163/2006). In tal senso si è
pronunciata anche la Corte dei conti Piemonte (Sez.
Controllo n. 271/2012) (articolo
ItaliaOggi del 12.04.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Pagella
per i vigili urbani.
Arriva la pagella di tutti i comandi dei vigili urbani. Ma
questa volta dovranno pagare dazio i servizi spendaccioni e
non i soliti trasgressori.
È la conseguenza derivante dall'avvenuta pubblicazione del
dpcm 21.12.2012 (G.U. n. 80 del 05/04/2013). Per la prima
volta è stato analizzato il complesso e variegato mondo
della polizia municipale per tentare di capire «cosa
fanno» i vigili e quanto deve costare teoricamente un
modello efficiente ed efficace di polizia locale.
La legge delega sul federalismo ha aperto le porte a questa
difficile ricerca che è divenuta concreta con il dlgs
216/2010 che in pratica ha disposto che per arrivare al
superamento del tradizionale concetto del costo storico dei
sei servizi strategici degli enti locali (tra cui il
servizio vigilanza), era necessario elaborare una
ricognizione dei costi giusti, proporzionati alle reali
esigenze del territorio.
Agli enti locali sono stati richiesti dati molto utili per
confrontare la qualità del servizio erogato dai vigili in
proporzione alle esigenze reali del territorio. L'esito? Una
vera e propria pesatura dei singoli comandi.
Ma come evidenziato dalla commissione parlamentare per il
federalismo fiscale della camera il 14 novembre scorso, i
dati forniti non sono immediatamente fruibili. Oltre
all'indicazione del coefficiente di riparto relativo al
fabbisogno standard, specifica il documento, andrebbe
evidenziata per ciascun comune anche la spesa effettivamente
sostenuta dall'ente stesso per tali servizi. Al momento, un
passo avanti per organizzare meglio i rapporti di forza in
caso di unioni di comuni e convenzioni (articolo
ItaliaOggi del 12.04.2013). |
APPALTI - INCARICHI PROFESSIONALI: Contributi
alla luce del sole. Dal 20 aprile trasparenza anche per
incarichi e appalti.
Ecco cosa cambierà con l'entrata in vigore del
decreto legislativo n. 33 del 2013.
Cambia la pubblicità per contributi, incarichi e appalti. Il
20 aprile prossimo entrerà in vigore il dlgs 33/2013,
decreto legislativo sul riordino della trasparenza, che
spazza via l'articolo 18 del dl 83/2012, convertito in legge
134/2012, sostituito dagli articoli 26 e 27 del nuovo
decreto.
In sostanza, il legislatore, sia pure con notevole
confusione, distingue più nettamente le fattispecie di
pubblicità che fino al 4 aprile scorso erano tutte comprese
nell'abolito articolo 18: contributi, incarichi di
collaborazione e appalti.
Contributi.
È la fattispecie di provvedimenti più chiara. Non vi è alcun
dubbio che gli articoli 26 e 27 si riferiscano a procedure
mediante le quali le amministrazioni pubbliche assegnano «sovvenzioni,
contributi, sussidi ed ausili finanziari alle imprese, e
comunque vantaggi economici di qualunque genere a persone ed
enti pubblici e privati», in applicazione dell'articolo
articolo 12 della legge 241/1990, se di importo superiore a
mille euro.
In questo caso, si pubblicano senza alcun problema i dati
elencati dall'articolo 27, comma 1, anche se occorre
precisare che detta elencazione non menziona i provvedimenti
di assegnazione, che, come vedremo in seguito, sono
essenziali.
Incarichi di collaborazione.
La nuova formulazione dell'articolo 26 del dlgs 33/2013
elimina il riferimento contenuto, precedentemente, nel comma
1 dell'articolo 18 ai «compensi a persone,
professionisti, imprese ed enti privati». Dunque, gli
incarichi professionali di collaborazione e consulenza,
prima inclusi nell'articolo 18, sembrano estrapolati. In
effetti, la disciplina della pubblicità degli incarichi di
collaborazione esterna si riscontra prevalentemente
nell'articolo 15, commi 2 e 3, del decreto di riordino, i
quali sostituiscono l'articolo 1, comma 127, della legge
662/1996 e l'articolo 3, comma 18, della legge 244/2007,
anch'essi aboliti.
Tuttavia, l'articolo 27, comma 1, continua a citare tra i
dati da pubblicare il «curriculum del soggetto incaricato».
Ora, poiché nell'ambito dell'erogazione di contributi e
sussidi non vi è alcun soggetto «incaricato», e visto
che la gran parte delle informazioni da rendere note ai
sensi dell'articolo 15 coincidono con quelle richieste
dall'articolo 27, comma 1, è corretto ritenere che per
quanto riguarda gli incarichi esterni l'elenco dei dati da
pubblicare sia quello previsto dall'articolo 27, comma 1,
integrato con gli specifici elementi richiesti dall'articolo
15: in particolare, la «ragione dell'incarico».
Appalti.
Gli articoli 26 e 27 non contengono più alcun riferimento
indiretto agli appalti. L'elenco dei dati da pubblicare
previsto dall'articolo 27, comma 1, alla lettera h) non
contiene più il periodo, presente invece nell'abolito
articolo 18, «nonché al contratto e capitolato della
prestazione, fornitura o servizio». Dunque, gli articoli
26 e 27 non disciplinano la pubblicità degli appalti.
E questo è confermato dall'articolo 37 del decreto di
riordino, il quale in modo espresso sancisce che la
pubblicità relativa agli appalti di lavori, forniture e
servizi è contenuta esclusivamente nelle specifiche norme
del dlgs 163/2006 e nell'articolo 1, comma 32, della legge
190/2012 (legge «anticorruzione»).
Efficacia.
Altra rilevantissima modifica apportata dal dlgs 33/2013
rispetto all'abolito articolo 18 concerne la condizione di
efficacia, connessa alla pubblicazione dei dati. La norma
abolita stabiliva che detta pubblicazione condizionasse
l'efficacia del «titolo legittimante»; ciò
significava che occorreva pubblicare il contratto o la
convenzione regolanti i rapporti di appalto, collaborazione
o contributo (era totalmente erronea la tesi che il titolo
legittimante potessero essere le fatture).
L'articolo 26, comma 3, del decreto di riordino, invece,
stabilisce che la pubblicazione costituisce «condizione
legale di efficacia dei provvedimenti che dispongano
concessioni e attribuzioni di importo complessivo superiore
a mille euro nel corso dell'anno solare al medesimo
beneficiario». Sparisce, quindi, il riferimento al
titolo legittimante.
Occorre, allora, pubblicare il provvedimento di assegnazione
(delibera, determina) e tale pubblicazione lo rende
efficace, non dunque, la pubblicazione all'albo pretorio,
che resta in ogni caso necessaria. Pertanto, sebbene
l'articolo 27, comma 1, non li menzioni nel suo elenco di
dati da pubblicare, è evidente che i provvedimenti di
assegnazione dei contributi o sussidi, nonché degli
incarichi di collaborazione, debbono essere necessariamente
pubblicati, così da permettere l'acquisizione di efficacia.
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La Consip non è sempre obbligatoria.
Nessun obbligo di adesione alle convenzioni Consip per gli
enti locali, tranne che per le forniture di energia, gas,
combustibili e telefonia; è invece obbligatorio il rispetto
dei parametri-qualità prezzo desunti dalle convenzioni
stipulate dalle centrali di committenza.
È questo il quadro che si trae dalla lettura delle norme che
si sono succedute in questi ultimi mesi e sulle quali sono
sorte, in sede interpretative, alcune tesi difformi che
meritano di essere meglio chiarite e specificate alla luce
della normativa vigente.
In sintesi la situazione è tale per cui, alla luce del
decreto c.d. spending review bis (legge 94/2012 di
conversione del dl 52/2012), che ha rafforzato l'obbligo,
per tutte le p.a., di fare ricorso alle convenzioni Consip
per gli acquisti, ai sensi dell'art. 1, c. 499, della legge
296/2006, come modificato di recente dalla stessa legge 94,
effettivamente esistono da un lato l'obbligo di adesione
alle convenzioni Consip per le sole amministrazioni statali
(tranne per quelle operanti nel settore dell'istruzione:
scuole e università) e dall'altro l'obbligo di utilizzo
delle convenzioni stipulate dalle centrali regionali da
parte del servizio sanitario nazionale.
Per gli enti locali (ma sono esclusi gli enti con
popolazione fino a 1.000 abitanti, o a 5.000 per i comuni
montani), invece, i paletti sono due: utilizzare i parametri
di qualità e prezzo, sia delle convenzioni stipulate dalla
centrale di committenza statale o da quelle regionali, come
limiti massimi per la stipulazione dei contratti; aderire
alle convenzioni Consip per i contratti di fornitura di
energia elettrica; gas; carburanti rete e carburanti
extra-rete; combustibili per riscaldamento; telefonia fissa
e telefonia mobile (le precise categorie merceologiche sono
indicate dall'art. 1 c. 7, del dl 95/2012).
Sull'aggiudicatario dei contratti.
C'è poi, sull'altro versante (privato), l'obbligo di
pagamento di una commissione non superiore all'1,5% del
valore del contratto per l'aggiudicatario delle convenzioni
stipulate da Consip, per l'aggiudicatario di gare su delega
bandite da Consip nell'ambito del Programma di
razionalizzazione degli acquisti del Dipartimento
dell'amministrazione generale, del personale e dei servizi,
nonché per l'aggiudicatario degli appalti basati su accordi
quadro (articolo
ItaliaOggi del 12.04.2013. |
ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Il caso:
annullamento della delibera sul piano particolareggiato.
Referendum in progress. È dell'ente l'interpretazione sulla
valenza.
È possibile indire un referendum popolare al fine di
annullare le scelte adottate dall'amministrazione comunale
con una delibera avente per oggetto una variante ad un piano
particolareggiato?
L'istituto dei referendum locali, contemplato dall'art. 8,
comma 3, del Tuoel, costituisce un tipico istituto di
democrazia diretta, una forma di partecipazione popolare di
carattere opzionale, in quanto si configura quale elemento
meramente eventuale e facoltativo dello statuto comunale.
Rispetto alla normativa previgente è stata ampliata la
valenza dell'istituto del referendum popolare, attualmente
configurabile non solo più come consultivo (unica tipologia
prevista nell'originale formulazione della legge n. 142 del
1990, volta a consentire la consultazione della popolazione
su rilevanti questione di interesse locale), ma anche come
abrogativo (di provvedimenti a carattere generale degli
organi istituzionali e burocratici dell'ente), propositivo
(per approvare proposte di atti avanzate dalla stessa
amministrazione o da altri soggetti), confermativo, di
indirizzo e oppositivo-sospensivo.
Come sottolineato dalla prevalente dottrina, il dlgs n.
267/2000 nulla dice circa l'effetto dell'esito del
referendum consultivo e gli statuti comunali tendono a
escludere che l'esito sia vincolante per l'amministrazione,
preferendo precisare che l'ente locale possa discostarsi
dallo stesso, con adeguata motivazione, al fine di tutelare
la piena autonomia politica del consiglio.
In tal senso, si è anche affermato che il potere statutario
in materia resta ampio con riguardo all'oggetto del
referendum (che è sufficiente che rientri tra le materie di
competenza esclusiva dell'ente), alla determinazione del
numero dei partecipanti per la sua validità a alla
possibilità di prevedere effetti consequenziali per
l'amministrazione locale legati all'esito del referendum con
il solo limite della conservazione del potere decisionale in
capo agli organi di governo.
La giurisprudenza amministrativa, inoltre, ha affermato che
«il referendum consultivo impone solo all'amministrazione
che lo ha indetto di tener conto della volontà popolare, ma
non esplica alcun effetto sull'azione amministrativa che ne
è stato oggetto, né tanto meno su vicende successive o di
altre amministrazioni, né la volontà popolare espressa con
il referendum è idonea ad attribuire all'ente locale poteri
estranei alla sfera di attribuzione fissate con legge»
(Consiglio di stato, sez. VI, 20.05.2004, n. 3263 e Tar
Puglia , Bari, sez II, 10.03.2003, n. 1098).
Tale orientamento è stato confermato da successive pronunce
(Consiglio di stato, sez IV, 29.07.2008, n- 3769 e Tar
Veneto, Venezia, sez. II, 21.03.2007, n. 807), nelle quali
si legge che «le consultazioni costituiscono strumento di
partecipazione popolare all'elaborazione delle scelte
amministrative, non strumento di verifica a posteriori da
parte dei cittadini di scelte già definite con formali
provvedimenti amministrativi (_). L'attività consultiva, per
propria natura, deve precedere l'attività decisionale, non
seguirla».
Nel caso in esame, inoltre, lo Statuto del comune prevede
l'istituto del referendum consultivo «su questioni di
interesse generale della comunità» e rinvia ad apposito
regolamento la disciplina dei termini e delle modalità per
l'indizione della consultazione referendaria.
In particolare, lo statuto prevede che spetta al collegio
dei garanti la «valutazione sull'ammissibilità
dell'iniziativa referendaria...» con le procedure
indicate dal regolamento per lo svolgimento delle
consultazioni referendarie. Tuttavia le argomentazioni
formulate possono costituire meri elementi di valutazione
della questione, in quanto soltanto il consiglio comunale,
nella sua autonomia e in quanto titolare della competenza a
dettare le norme cui conformarsi in tale materia, è
abilitato a fornire un'interpretazione autentica delle norme
statutarie e regolamentari di cui l'ente è dotato (articolo
ItaliaOggi del 12.04.2013). |
ENTI LOCALI: Nomina
revisori trasparente. Certezza sui nominativi estratti dalle
prefetture.
Ecco come funziona la procedura (e quali sono i
dubbi ancora da dirimere).
Nelle ultime settimane vari colleghi hanno sottoposto alla
nostra associazione un problema solo in apparenza banale:
come fare a sapere con certezza i nominativi estratti dalle
prefetture in occasione dei rinnovi degli organi di
revisione di comuni e province?
La domanda, in realtà per niente oziosa, riguarda la
trasparenza di tutta la procedura che porta alla nomina
effettiva con l'assunzione dell'apposita delibera da parte
dell'organo consiliare. Il decreto 15.02.2012 n. 23, prodigo
di dettagli per quanto riguarda formazione ed aggiornamento
dell'elenco dei revisori, in realtà lascia un'ampia zona
grigia nella «Scelta dell'organo di revisione
economico-finanziario»: l'articolo 5 si ferma infatti
alla comunicazione che la prefettura deve fare all'ente
locale dell'avvenuta estrazione (e del relativo verbale) e
rimanda per la nomina alla delibera del consiglio dell'ente
stesso, previa verifica di eventuali cause di
incompatibilità (art. 236/Tuel) o di altri impedimenti
(artt. 235 e 238/Tuel), «ovvero in caso di eventuale
rinuncia», locuzione questa che non brilla certamente
per chiarezza, non fosse altro per la difficile integrazione
con il testo del comma 4 della norma.
Sulla «eventuale rinuncia» in realtà si addensano i
principali dubbi: chi ne effettua l'accertamento e,
soprattutto, con quali formalità?
Dalla consultazione dei colleghi responsabili delle sedi
Ancrel è emerso un quadro di sicura buona volontà da parte
del personale degli enti locali, che tuttavia non consente
di delineare un percorso formale di assoluta sicurezza per i
revisori estratti.
La «prassi» che si sta affermando è quella del
contatto telefonico, con il quale il responsabile del
servizio ragioneria (di solito) comunica al revisore che il
suo nominativo è stato estratto e chiede se intende
accettare la nomina. Primo problema: e se il telefono è
spento o non raggiungibile?
Se l'interessato comunica telefonicamente l'immediata
disponibilità (con i tempi che corrono i rifiuti riguardano
solo piccoli comuni lontani dalla residenza del revisore,
poco appetibili per la modesta entità del compenso) resta
però il problema della formale conferma di questa
disponibilità, che di solito si chiede di esprimere con un
semplice messaggio di posta elettronica.
A ben vedere, un funzionario comunale poco ligio al dovere
non avrebbe particolare difficoltà a «scorrere» i
nominativi estratti sino ad arrivare a quello gradito
(semmai ci fosse): senza una stabile e rigorosa forma di
pubblicità delle nomine da parte delle Prefetture chi
verrebbe mai a sapere se il suo nome è stato estratto o
meno?
In assenza di indicazioni nel decreto 15.02.2012 n. 23 e nei
successivi provvedimenti, purtroppo le prefetture oggi si
attengono esclusivamente a quanto è scritto, procedendo per
il resto in ordine sparso, ma con solo rari casi di
pubblicità nella forma più immediatamente accessibile a
tutti, ovvero la pubblicazione dei verbali di estrazione sul
sito internet. Né sul punto si hanno riscontri presso le
Sezioni regionali della Corte dei conti, che pure sono
particolarmente attente ed interessate alla questione.
Serve quindi un passaggio formale, da parte del Ministero
dell'interno, che con un decreto chiarisca in via definitiva
le regole per la trasparenza della fase finale della
procedura di estrazione a sorte, imponendo alle prefetture
di dare preventiva pubblicità alle estrazioni (e non solo
comunicazione agli enti locali interessati), quindi di
pubblicare sistematicamente tutti i verbali, magari proprio
sul sito del Ministero, nella sezione dedicata ai revisori,
e infine di dare immediata comunicazione del verbale a tutti
i revisori estratti, utilizzando l'indirizzo di posta
elettronica certificata con il quale è stato imposto di
gestire l'iscrizione nell'elenco. La procedura si potrebbe
addirittura completare con la conferma del revisore alla
prefettura.
In ogni caso, con lo stesso strumento della Pec dovrà quindi
essere gestita ogni successiva comunicazione tra l'Ente e i
revisori nominati, in modo che ne sia garantita
correttamente la tracciabilità, anche grazie all'obbligo di
protocollazione da parte dell'ente. È una questione in
apparenza solo formale, ma che deve trovare soluzione
garantendo la più assoluta trasparenza al procedimento di
nomina mediante estrazione a sorte, che finalmente –seppure
non da solo– sta portando ad una piena indipendenza la
figura del revisore dell'Ente, nonostante continue e
rinnovate difficoltà nel reperire e gestire dati ed
informazioni.
Resta infine da formulare un ulteriore auspicio: che questo
procedimento possa essere quanto prima esteso a tutte le
nomine pubbliche che riguardano l'organo di revisione e, in
particolare, a tutti gli organismi partecipati, dove ancora
troppo spesso si avverte forte la necessità di indipendenza
(articolo
ItaliaOggi del 12.04.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
strana mutazione degli Organismi di valutazione. Da presidio
della performance a ennesima struttura burocratica.
Il protocollo sottoscritto con CiVIT il 06.06.2012, nelle
intenzioni del Cndcec avrebbe dovuto aprire nuove
opportunità professionali agli appartenenti alla categoria,
tant'è che venne anche istituita un'apposita Commissione di
studio.
L'iniziativa era stata costruita intorno al termine «performance»
citato ben 109 volte nel decreto Brunetta (dlgs 150/2009),
mentre le parole «misurazione» e «trasparenza»
sono ripetute rispettivamente 31 e 85 volte. Ne conseguì che
nella fase iniziale della propria attività CiVIT indirizzò
le proprie delibere sugli organismi indipendenti di
valutazione (OIV) in funzione del più ampio ciclo della
performance (art. 4, dlgs 150).
A seguito della nomina ad Autorità nazionale anticorruzione
(legge 190/2012), però, CiVIT ha nei fatti privilegiato
quest'ultima tra le funzioni attribuitele dall'art. 13 del
dlgs 150, anche per un'oggettiva carenza di trasparenza e
riferimenti certi in materia. In particolare negli enti
locali, le delibere successive hanno spinto verso
un'eccessiva burocratizzazione le loro strutture
organizzative, spesso sottodimensionate agli adempimenti
richiesti dalla legge 190/2012 e (sulla trasparenza)
dall'art. 18 del dl 83/2012.
Per colpire gli enti che non operano correttamente, sono
stati catapultati indietro di 20 anni quelli da sempre ben
gestiti, ma soprattutto, in entrambi i casi ci si è
allontanati dall'idea di performance costruita
sull'efficienza, sull'efficacia e sull'economicità della
gestione per avvicinarla a quella del semplice rispetto
della norma, in cui il contenuto dei commi 1 e 3 dell'art.
11 dlgs 150/2009 è qualificato dal legislatore come livello
essenziale delle prestazioni erogate. A meno che, con le
dovute eccezioni, correlare la performance dell'ente con
quanto emergerà dall'imminente esordio dei fabbisogni
standard (legge 216/2010) possa significare qualcosa di più
dell'essere sopra o sotto una mediana costruita su dati
storici senza tener conto dell'apporto qualitativo e dell'outcome
dell'azione gestionale.
Nel contesto descritto, la deliberazione di CiVIT n. 12 del
27/02/2013, con oggetto «requisiti e procedimento per la
nomina dei componenti degli OIV», dà un impulso diverso
rispetto al passato (delibere nn. 4/2010, 107/2010, 21/2012,
23/2012, 27/2012 e 29/2012) aprendo di fatto a chiunque di
poterne far parte e accantonando i temi della performance
nelle corde degli aziendalisti e asse portante della riforma
Brunetta. Oltre alla composizione, al p.9 la delibera 12
presenta altre criticità quali l'esclusività e l'operare
nella stessa area geografica. Conseguentemente nessun
componente potrà più appartenere a più OIV o NdV a meno che,
precisa CiVIT, si tratti di incarichi in enti di piccole
dimensioni che trattano problematiche affini e che operano
nella stessa area geografica, anche in relazione alla
valutazione complessiva degli impegni desumibili dal
curriculum. Tutti elementi apprezzabili soggettivamente e
che non potranno che scontentare i destinatari.
CiVIT tra le righe evidenzia come la maggior parte degli OIV
non funzioni correttamente, così come gli enti locali sono
ancora troppo burocratizzati (è la stessa CiVIT ad aver
rilevato che alcune amministrazioni hanno effettuato per ben
340 volte comunicazioni diverse relative allo stesso
adempimento). Allora occorre dare seguito ai protocolli
sottoscritti dalla Commissione con le associazioni degli
attori in campo affinché si lavori su codici etici. Infatti
chi ci dice che il componente di un solo OIV (esclusività)
non sia poi assorbito da altri incarichi professionali?
Occorre stabilire cosa devono fare veramente questi organi e
non diventare in via residuale chi alla fine svolge
controlli e adempimenti perché nelle amministrazioni
pubbliche non si trova nessun altro disponibile.
Occorre inoltre stabilire compensi adeguati se si pretende
l'esclusività. Una Regione italiana riconosce ben 135 mila
euro al componente dell'OIV, mentre da un'altra indagine
sembra che alcuni dei componenti degli OIV di altre regioni
e ministeri non siano in regime di esclusiva. In più, la
previsione di operare nella stessa area geografica lascia
intendere una presenza assidua dell'OIV presso l'ente, non
tenendo però conto degli attuali strumenti di mobilità. Da
quanto su riportato agli enti locali conviene conservare i
NdV (a cui non si applica la delibera 12 commentata)
affinché possano esercitare la propria autonomia.
Infine, occorre porre fine alle riforme senza essersi prima
soffermati su cosa si vuole ottenere e come; infatti non è
detto che performance e controlli di regolarità
amministrativa siano antitetici, bisogna solo strutturarli
in modo corretto e gli ingredienti ci sono tutti (articolo
ItaliaOggi del 12.04.2013). |
APPALTI: Arriva
il Testo unico sulla trasparenza. Da pubblicare on-line i
tempi per le fatture.
Con il Testo unico sulla Trasparenza, che entra in vigore il
20 aprile, per tutte le amministrazioni scatta l'obbligo di
pubblicare on-line i tempi medi con i quali si garantiscono
i pagamenti ai fornitori.
Lo ha annunciato ieri il ministro per la Pa e la
Semplificazione, Filippo Patroni Griffi, illustrando le
principali novità del decreto n. 33 del marzo scorso.
Si tratta di uno strumento utile in vista dei nuovi limiti
che dovranno essere rispettati dopo il recepimento delle
disposizioni europee e consentirà, ha spiegato il ministro,
di misurare «la capacità di spesa delle amministrazioni».
Le sanzioni per i dirigenti responsabili che possono
incidere sui trattamenti accessori.
Il Testo unico mette insieme tutti gli obblighi di
pubblicità a carico della Pa e attiva il diritto del
cittadino al «controllo sociale» delle
amministrazioni. Si prevede tra l'altro l'obbligo di
pubblicare le situazioni patrimoniali di politici e parenti
entro il secondo grado, pena una multa da 500 a 10mila euro.
Vanno pubblicati anche gli incarichi dirigenziali e le
consulenze altrimenti si applica una sanzione pari alla
somma corrisposta (articolo
Il Sole 24 Ore del 12.04.2013). |
TRIBUTI:
Imu, un po' di respiro. Dichiarazioni da fare
entro il 30 giugno.
Il dl 35 spazza via il termine dei 90 giorni
dall'evento da denunciare.
Più tempo per la dichiarazione Imu. Che
potrà essere presentata entro il 30 giugno dell'anno
successivo a quello in cui si è verificato l'evento da
dichiarare.
Lo prevede l'art. 10, c. 4, lett. a), del dl 35/2013 sui
pagamenti dei debiti della p.a. che, spazzando via l'angusto
termine di 90 giorni originariamente previsto dall'art. 13,
c. 12-ter, del dl 201/2011, non solo rimuove le difficoltà
rilevate dai contribuenti nell'assolvimento dell'obbligo
dichiarativo, ma risolve anche i problemi sorti in ordine
all'applicazione del ravvedimento dei versamenti di acconti
e saldi.
Resta solo da capire se entro il 30/6/2013, come è
ragionevole ritenere, sarà possibile presentare, senza
incorrere in sanzioni, dichiarazioni eventualmente omesse
per eventi accaduti prima dell'entrata in vigore del dl
35/2013 (09/04/2013).
La norma.
L'art. 13, c. 12-ter del dl 201/2011 prevedeva, fino alla
recente modifica, che la dichiarazione Imu dovesse essere
presentata entro 90 giorni dalla data in cui si era
verificato uno dei casi indicati nelle istruzioni
ministeriali allegate al modello approvato con dm
30/10/2012. Il che poneva due ordini di problemi. Il primo
riguardava il rischio che i contribuenti venissero a
conoscenza dell'adempimento in ritardo, e quindi, in molti
casi, oltre il termine utile per ricorrere al ravvedimento.
Il secondo, come riportato nella relazione governativa al dl
35/2013, era connesso agli «insolubili problemi»
sorti nell'applicazione del cd. ravvedimento lungo, non
essendosi più in presenza di una “dichiarazione periodica”.
La sostituzione, ad opera dell'art. 10, c. 4, del dl
35/2013, della locuzione “entro 90 giorni” con quella
“entro il 30 giugno dell'anno successivo”, fa sì che
entro la fine di giugno il contribuente possa dichiarare
tutte le variazioni rilevanti intervenute l'anno precedente.
Proprio come accadeva per l'Ici, con l'unica differenza che
adesso il termine non è più legato a quello di presentazione
della dichiarazione dei redditi ma è a data fissa per tutti
i contribuenti: entro il 30 di giugno dell'anno successivo.
Il ravvedimento.
Essendo fuori discussione che la dichiarazione Imu non
riguarda più un singolo evento bensì l'intera annualità
d'imposta, con effetto anche per gli anni successivi, non
dovrebbero più esservi più dubbi sul fatto che il termine
lungo (art. 13, c. 1, lett. b, dlgs 446/1997), utile a
sanare omessi, insufficienti o tardivi versamenti di acconti
e saldi, vada individuato nel 30 giugno dall'anno
successivo; con applicazione della sanzione ridotta del
3,75%. L'omissione dichiarativa potrà invece essere sanata
entro il 28 di settembre con una sanzione pari al 10%
dell'imposta dovuta (con un importo minimo di 5 euro).
Il raggio d'azione.
Rimossi così gli ostacoli posti dal termine “mobile”
dei 90 giorni, resta ora da capire se la modifica in esame
potrà operare retroattivamente o se, invece, riguarderà le
sole variazioni intervenute dal 9/4/2013 in poi. A favore di
un'applicazione della novella anche nei casi di variazioni
significative accadute dall'1/1/2012, militerebbe la
circostanza che l'Imu è entrata in vigore l'anno scorso, e
quindi si potrebbe ragionevolmente parlare di una “riapertura
dei termini”, fino al 30/06/2013, per la presentazione
di dichiarazioni riguardanti le variazioni intervenute nel
2012.
Sennonché l'assenza di una disposizione derogatoria rispetto
alla data di entrata in vigore del dl 35/2013, oltre al
fatto che non è stato contestualmente abrogato l'ultimo
periodo del comma 12-ter dell'art. 13 del dl 201/2012, che
ha fissato al 04/02/2013 il termine per la presentazione
della dichiarazione relativa alle variazioni
01/01-06/11/2012, non rende certa l'applicabilità della
nuova scadenza a tutte le situazioni accadute
dall'01/01/2012. Esigenze di semplificazione dovrebbero
tuttavia portare il legislatore, in sede di conversione del
decreto, o il ministero, in sede interpretativa, ad un
superamento di tale ostacolo (articolo ItaliaOggi
dell'11.04.2013). |
APPALTI:
Pubblicità legale, l'Autorità vuole
chiarezza sulle norme.
L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici chiede a
governo e parlamento di fare chiarezza sul regime giuridico
applicabile alla pubblicità legale dei bandi e avvisi di
gara.
Con l'atto
di segnalazione 09.04.2013 a governo e parlamento,
concernente le modalità di pubblicazione di avvisi e bandi
di gara sui quotidiani, l'Authority prende atto dei diversi
interventi normativi succedutisi dal 2009 ad oggi e che
hanno creato una situazione di scarsa chiarezza rispetto
all'applicazione dell'obbligo di pubblicazione di avvisi e
bandi per estratto sui quotidiani, così come previsto
dall'art. 66, comma 7, del Codice dei contratti; da ciò
l'auspicio di un intervento normativo che coordini le
diverse disposizioni intervenute.
In particolare l'art. 66 prescrive, al comma 7, che la
pubblicazione degli avvisi e dei bandi avvenga «per
estratto su almeno due dei principali quotidiani a
diffusione nazionale e su almeno due a maggiore diffusione
locale nel luogo ove si eseguono i contratti».
Parimenti, per i contratti di lavori pubblici sotto soglia,
mentre l'art. 122, comma 5, prevede che l'avviso sui
risultati della procedura di affidamento ed i bandi relativi
a contratti di importo pari o superiore a cinquecentomila
euro siano pubblicati «per estratto, a scelta della
stazione appaltante, su almeno uno dei principali quotidiani
a diffusione nazionale e su almeno uno dei quotidiani a
maggiore diffusione locale nel luogo ove si eseguono i
lavori». La segnalazione si è resa necessaria in
considerazione del fatto che l'applicazione delle norme
sulla pubblicità di avvisi e bandi per l'affidamento dei
contratti pubblici è materia che reca con sé importanti
implicazioni sulla regolarità delle procedure di gara.
L'Autorità presieduta da Sergio Santoro ritiene, dunque,
auspicabile un intervento normativo che coordini le diverse
disposizioni intervenute, in linea con le misure di
modernizzazione, semplificazione e digitalizzazione
dell'attività amministrativa, introdotte con i recenti
interventi normativi, in tema di spending review e di
sviluppo (articolo ItaliaOggi dell'11.04.2013). |
ENTI LOCALI - VARI: L'indice
nazionale delle Pec di imprese e professionisti.
Istituito presso il ministero dello sviluppo economico il
pubblico elenco denominato «indice nazionale degli
indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e
dei professionisti» (Ini-Pec). Con la finalità di
favorire la presentazione per via telematica delle istanze,
delle dichiarazioni e dei dati, nonché lo scambio di
informazioni e documenti tra la pubblica amministrazione,
imprese e professionisti.
Due sono le sezioni in cui è suddiviso l'Ini-Pec: «sezione
imprese» e «sezioni professionisti». Tutto questo
grazie alla pubblicazione in gazzetta ufficiale del
09.04.2013 n. 83 del decreto del ministero dello sviluppo
economico 19.03.2013 rubricato «indice nazionale degli
indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e
dei professionisti (Ini-Pec)».
Il decreto Mise è stato emanato in attuazione dell'articolo
6-bis, comma 1, del dlgs 07.03.2005, n. 82 concernente
«codice delle amministrazione digitale», introdotto
dall'art. 5, comma 3, del dl 18.10.2012, n. 179, convertito
dalla legge 17.12.2012, n. 221. L'Ini-Pec è realizzato e
gestito in modalità informatica dal Mise avvalendosi del
supporto di InfoCamere. È incardinato in una infrastruttura
tecnologica e di sicurezza, che rende disponibili gli
indirizzi Pec per il tramite del portale telematico.
In fase di prima costituzione, la sezione imprese verrà
realizzata attraverso l'estrazione dal Registro delle
imprese delle informazioni relative alle imprese che
risultano attive e che hanno provveduto al deposito
dell'indirizzo Pec. Mentre la sezione professionisti verrà
realizzata con il trasferimento in via telematica da parte
degli ordini e collegi professionali a InfoCamere, degli
indirizzi Pec detenuti, che dovrà avvenire entro
l'08.06.2013.
Inoltre in fase di prima applicazione gli ordini e collegi
professionali sono tenuti a trasmettere gli aggiornamenti
dei dati da inserire nell'Ini-Pec, ovvero a confermare
l'assenza di aggiornamenti degli stessi, ogni 30 giorni
mentre InfoCamere procede all'estrazione di tutti gli
aggiornamenti intervenuti nel Registro delle imprese,
relativamente ai dati da inserire nell'Ini-Pec, ogni 30
giorni (articolo ItaliaOggi dell'11.04.201). |
APPALTI: Tutti
gli ostacoli sulla via dei pagamenti. I Comuni devono
censire il quadro del dovuto, le Regioni varare «manovre» di
ripiano.
IL PARADOSSO/ Il via libera immediato alle sole risorse
depositate nella «tesoreria statale» può escludere proprio i
fondi destinati agli investimenti.
Il calendario fissato dal decreto sui debiti della Pubblica
amministrazione è rapido, e i primi provvedimenti attuativi
seguono lo stesso ritmo, come impone l'acutezza
dell'emergenza. La strada che può condurre il creditore al
traguardo dell'incasso, però, può essere lunga e tortuosa,
costretta com'è a divincolarsi fra la rigidità dei vincoli
europei che rimangono in campo e la mole di un problema che
si è accumulato negli anni. Lungo il sentiero, si incontra
più di un ostacolo, su cui si dovrà esercitare l'«esame
attento» dei testi già annunciato dai partiti e l'azione
di «semplificazione» chiesta a gran voce da imprese e
operatori.
Le prime incognite si incontrano fin dall'inizio del
percorso, tra i Comuni che potrebbero riavviare la macchina
senza aspettare gli interventi dell'Economia previsti per la
metà di maggio. Il decreto è in vigore da martedì, ma di
pagamenti immediati non se ne vedono perché tutti i Comuni
carichi di arretrati devono ricostruire il puzzle
dettagliato dei debiti al 31 dicembre scorso, e su questa
base misurare la richiesta di sblocco dal Patto di stabilità
che andrà presentata entro fine aprile. Anche chi ha i soldi
in cassa, s'inceppa in un primo nodo interpretativo.
Il decreto consente di liberare fino al 13% della liquidità
«detenuta presso la tesoreria statale» (articolo 1,
comma 5), ma gli amministratori spiegano in coro che solo
una parte delle risorse finisce in quei conti. Oltre a
tagliare drasticamente l'ossigeno finanziario che si può
immettere nel sistema senza aspettare la distribuzione delle
quote da parte dell'Economia, una lettura restrittiva della
regola finirebbe dritta in un paradosso: fuori dalla
tesoreria statale ci sono le entrate prodotte dai mutui
accesi per gli investimenti, cioè proprio le risorse che il
decreto intende sbloccare e che invece tornerebbero a
incagliarsi.
L'altro vincolo, che impedisce di pagare più del 50% delle
somme che si intendono sbloccare con il meccanismo del
decreto, rischia poi di imbrigliare i pagamenti nei Comuni
più in ordine, che hanno pochi arretrati da smaltire e
quindi pochi "bonus" da chiedere. A regime, invece,
l'impatto del provvedimento sui creditori dei diversi Comuni
dipenderà dalla somma che ogni sindaco chiederà, e riuscirà
ad ottenere, al tavolo delle deroghe al Patto; la somma, a
sua volta, è legata alla quantità dei «debiti certi,
liquidi ed esigibili» accumulati al 31 dicembre scorso,
spesso tutti da ricostruire, e dai criteri che saranno
adottati per distribuirla. Sindaci e Governo hanno tempo
fino al 10 maggio per trovare metodi diversi, altrimenti si
applicherà il parametro proporzionale che finirà per
premiare chi è più "audace" nelle istanze.
Una quota importante dei debiti degli enti locali è legata
poi a finanziamenti regionali, che si possono riattivare in
pieno solo se i Governatori procedono in tempi record nel
tour de force loro riservato dal secondo articolo del
decreto. Per ottenere l'anticipazione dall'Economia, da
girare per il 66% agli enti locali, le Regioni devono
scrivere provvedimenti in grado di coprire anticipo e
interessi, presentare un piano dettagliato dei pagamenti e
firmare un contratto con l'Economia per lo sblocco delle
risorse. Il tutto senza dare più spazio all'interno del
Patto di stabilità ai pagamenti diretti delle Regioni (sono
esclusi solo quelli "girati" agli enti locali), che
nella nuova versione «eurocompatibile» in vigore dal
2013 ha effetti ancora da misurare.
Per i debiti statali, la premessa obbligatoria è un elenco
cronologico dei debiti in ogni ministero. Una tranche verrà
sbloccata a metà maggio, ma chi non salirà sul primo treno
dovrà aspettare i piani di rientro e il loro passaggio in
Parlamento e Corte dei conti. Entro metà dicembre (articolo
Il Sole 24 Ore dell'11.04.2013). |
APPALTI:
Trasparenza totale per le gare della Pa.
Pubblicato il decreto legislativo.
Non solo avvisi di gara su Gazzette,
giornali e web. Con la pubblicazione del decreto legislativo
33/2013 la trasparenza nel settore degli appalti diventa un
imperativo a 360 gradi per le Pa. Con nuovi obblighi che
includono la pubblicazione di dati su tempi e costi delle
opere in aggiunta a un indicatore capace di fotografare
anche i tempi medi di pagamento.
Il quadro è però ancora lontano dall'essere chiaro. Anzi. La
doverosa richiesta di massima trasparenza -anche in campo
urbanistico- rischia di trasformarsi in un labirinto di
impegni per i funzionari pubblici. Con il doppio pericolo di
sovrapposizione di obblighi già previsti dall'ordinamento
(vedi l'invio dei dati sugli appalti di importo superiore a
50mila euro all'Osservatorio gestito dall'Autorità) e di
impossibilità di dar seguito ai nuovi impegni per l'assenza
dei provvedimenti di attuazione .
Il decreto fa scattare innanzitutto l'obbligo per le
amministrazioni di attrezzare l'home page dei siti
istituzionali con un'apposita sezione denominata «Amministrazione
trasparente» in cui, ogni sei mesi, devono confluire le
informazioni e i documenti a pubblicazione obbligatoria, tra
cui i dati sulle aggiudicazioni degli appalti.
Per definire l'organizzazione della sezione il decreto ha
previsto l'emanazione di linee guida da parte del ministero
della Funzione pubblica, che però non sono state ancora
pubblicate. Un'altra novità del decreto si intreccia con la
cronaca sul ritardo di pagamenti delle Pa. D'ora in avanti
le amministrazioni dovranno pubblicare con cadenza annuale
un indicatore dei tempi medi di saldo delle fatture per
acquisto di beni, servizi e forniture.
Obbligatorio rendere pubbliche anche le informazioni su
tempi e costi di realizzazione delle opere. I dati dovranno
essere poi forniti all'Autorità «che ne cura la raccolta
e la pubblicazione nel proprio sito web, al fine di
consentirne un'agevole comparazione». Il tutto sulla
base di uno schema-tipo che però Via Ripetta non ha ancora
messo a punto e diffuso. Operazione trasparenza anche per
gli appalti affidati a trattativa privata, senza
pubblicazione di un bando di gara. In questo caso, il
decreto impone di pubblicare la delibera a contrarre.
Infine, il provvedimento punta a fare luce anche sulle
operazioni di trasformazione urbana. La novità principale è
l'obbligo di pubblicare i documenti relativi alle proposte
di trasformazione, anche privata, nel caso in cui prevedano
bonus volumetrici o cessione di aree o volumi per finalità
pubbliche.
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LE NOVITÀ
Tempi e costi delle opere
Sui siti internet degli enti dovranno essere pubblicate le
informazioni su tempi e costi di realizzazione delle opere
pubbliche, oltre a un indicatore sulla «tempestività dei
pagamenti», da rendere noto con cadenza annuale
Trasformazione urbana
Novità anche nel settore urbanistico. Diventa obbligatorio
pubblicare i documenti relativi alle proposte di sviluppo,
con bonus volumetrici e cessione di aree a privati, anche se
non comportano variante rispetto alle previsioni dello
strumento di pianificazione (articolo
Il Sole 24 Ore del 10.04.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: DECRETO
PAGAMENTI/ Una importante novità sulle superfici
pertinenziali. Aree scoperte senza la Tares. Si alleggerisce
il carico tributario sulle imprese.
Il tributo sui rifiuti e i servizi alleggerisce il carico
fiscale sulle imprese. Non sono più soggette alla Tares le
aree scoperte non operative, che possono essere considerate
pertinenziali o accessorie a locali tassabili.
Lo prevede l'articolo 10 del dl sui debiti della p.a.
(35/2013), che ha apportato delle modifiche alla disciplina
della Tares.
Prima dell'intervento normativo, infatti, le aree scoperte
pertinenziali erano soggette a tassazione, mentre fino al
2012 erano escluse dal pagamento sia della Tarsu che della
Tia.
L'articolo 14 del del dl «salva Italia»(201/2011),
che dal 2013 ha istituito il nuovo regime di prelievo sui
rifiuti, esonerava dal pagamento solo le aree scoperte
pertinenziali di civili abitazioni e quelle condominiali.
Con un aumento notevole della tassazione per i soggetti che
svolgono attività commerciali e industriali, qualora i
comuni avessero applicato a superfici di ampie dimensioni la
tariffa relativa alla specifica attività esercitata
dall'impresa. Non a caso più volte dalle pagine di questo
giornale era stata sollecitata una modifica normativa, per
escludere dal pagamento della tassa le aree pertinenziali o
accessorie, cosiddette non operative (per esempio, il
parcheggio di un supermercato o l'area di manovra di uno
stabilimento industriale).
L'articolo 10, inoltre, ribadisce l'esonero dal nuovo
balzello delle aree scoperte pertinenziali o accessorie a
civili abitazioni e quelle condominiali, a meno che non
siano detenute o occupate in via esclusiva. Si intende per
area accessoria o pertinenziale quella che viene destinata
in modo permanente e continuativo al servizio del bene
principale o che abbia con lo stesso un rapporto
oggettivamente funzionale. Per esempio, un cortile o un
giardino condominiale, un'area di accesso ai fabbricati
civili e così via.
In effetti, presupposto del tributo è il possesso,
l'occupazione o detenzione di locali o aree scoperte, a
qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti
urbani. Quello che conta è la mera idoneità dei locali e
delle aree a produrre rifiuti, a prescindere dall'effettiva
produzione degli stessi. Rimangono infatti soggette
integralmente al pagamento della Tares tutte le aree
scoperte utilizzate nell'ambito di attività economiche e
produttive, che non abbiano natura pertinenziale. Del resto,
per le aree scoperte cosiddette operative esiste una
presunzione di produzione di rifiuti.
L'orientamento giurisprudenziale è univoco nell'affermare
che tutte le aree, a parte le ipotesi di esclusioni
contemplate dalla legge, sono potenzialmente produttive di
rifiuti. Anche gli specchi acquei sono aree scoperte
soggette al prelievo. In materia di Tarsu, il cui
presupposto impositivo è analogo alla Tares, la Cassazione
ha più volte sostenuto non solo che l'amministrazione
comunale si possa avvalere della presunzione di produzione
dei rifiuti, ma, addirittura, che il contribuente non possa
fornire qualunque prova per superare la presunzione di
tassabilità di tutti gli immobili (articolo
ItaliaOggi del 10.04.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
APPALTI: DECRETO
PAGAMENTI/ Nota della Ragioneria, mentre affiorano i primi
dubbi.
Gli enti locali subito in moto. Applicazione per ottenere il
via libera ai versamenti.
Al via le comunicazioni degli enti locali per ottenere il
via libera al pagamento dei propri debiti. Ma intanto
affiorano i primi dubbi sull'applicazione dei nuovi
meccanismi.
Da ieri, comuni e province possono trovare sul sito web
della ragioneria generale dello Stato (al consueto indirizzo
http://pattostabilitainterno.tesoro.it) l'applicazione per
trasmettere al Mef la richiesta degli spazi finanziari in
deroga al Patto ai sensi del dl 35/2013.
I tempi sono strettissimi: per partecipare al primo riparto
(che riguarderà il 90% dei 5 miliardi a disposizione e sarà
definito entro il 15 maggio) c'è tempo solo fino al prossimo
30 aprile. I ritardatari dovranno accontentarsi del restante
10% (oltre alle eventuali quote non assegnate al primo
giro), che verrà distribuito entro il 15 luglio.
Interessati alla misura sono tutti gli enti soggetti al
Patto 2013, compresi, quindi, anche i comuni fra 1.001 e
5.000 abitanti, che fino allo scorso anno erano esenti. Il
dl, infatti, pur se riferito a debiti pregressi, non opera
distinzioni sul punto.
Le richieste possono riguardare due tipologie di debiti di
parte capitale: 1) quelli certi, liquidi ed esigibili alla
data del 31/12/2012; 2) quelli per i quali, alla medesima
data, sia stata almeno emessa fattura o richiesta
equivalente di pagamento.
Al momento, non è del tutto chiaro se possano essere
comunicati anche i dati relativi ai pagamenti già effettuati
prima della pubblicazione del dl o se viceversa si possa
chiedere lo sblocco solo dei debiti ancora da saldare. La
prima soluzione pare preferibile e più aderente alla
formulazione letterale dell'art. 1, comma 1, che consente di
escludere dal Patto tutti i pagamenti relativi ai debiti di
cui sopra, senza distinzione rispetto alla data in cui sono
stati effettuati. La stessa norma, del resto, con
riferimento specifico ai pagamenti delle province a favore
dei comuni (anch'essi pienamente rientranti nella deroga)
espressamente precisa «sostenuti nel corso del 2013».
Anche il prospetto da compilare on-line sembra confermare
questa lettura: esso, infatti, parla di debiti al 31/12/2012
senza escludere quelli già pagati.
In questa prospettiva, l'importo da comunicare entro il 30
aprile è quello risultante dalla ricognizione di tutti i
debiti al 31/12/2012 appartenenti alle tipologie richiamate.
Gli eventuali pagamenti già effettuati sono comunque validi
sia ai fini dell'esclusione dal Patto, sia ai fini della
verifica del rispetto del 90% al di sotto della quale
scattano le sanzioni a carico dei responsabili (pari due
mensilità di stipendio), ai sensi dell'art. 1, comma 4, del
dl.
Sul punto, comunque, proprio alla luce delle sanzioni
previste (che scattano anche in caso di mancata richiesta
senza che ricorra un giustificato motivo) non sarebbe
superfluo un chiarimento ufficiale.
Altri dubbi riguardano le anticipazioni di liquidità che
potranno essere erogate dalla Cassa depositi e prestiti agli
enti a corto di cassa. Anche in tal caso, la richiesta va
trasmessa entro il 30 aprile (art. 1, comma 13, del dl). La
formulazione finale del testo, a differenza delle bozze
circolate nei giorni scorsi, non contiene più la
formulazione «possono chiedere», ma quella «chiedono»,
il che potrebbe prefigurare un obbligo di adesione. In senso
contrario, va rilevato, però, che la relazione di
accompagnamento mantiene la precedente formulazione. La
scelta è tutt'altro che agevole, specialmente per gli enti
che vantano consistenti crediti (residui attivi) e che
potrebbero trovarsi nella paradossale situazione di chiedere
l'intervento della Cassa e poi di non averne più bisogno,
una volta riscosso il dovuto.
Molti enti, in particolare, vantano crediti nei confronti
delle regioni e non a caso il dl contiene misure ad hoc
per consentirne lo sblocco (art. 1, commi 7 e 8). Da qui la
domanda: le anticipazioni della Cassa potranno essere
restituite anticipatamente? E se sì, a che condizioni? Le
risposta dovrà esser fornita in tempi rapidi attraverso
l'apposito addendum alla Convenzione in essere fra la Cassa
e il Mef, che fra l'altro dovrà definire uno schema di
contratto tipo per regolare i prestiti (articolo
ItaliaOggi del 10.04.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
APPALTI: Alle
imprese creditrici lettera entro giugno. Le aziende possono
controllare l'inclusione nell'elenco di chi sarà pagato e
sollecitare gli enti inadempienti. Un aiuto dalla
certificazione.
La pubblicazione del decreto «sblocca crediti» dovrebbe
mettere liquidità a disposizione delle imprese. Queste,
però, devono fare qualcosa o tutti gli adempimenti sono a
carico delle pubbliche amministrazioni debitrici?
Il decreto «sblocca crediti» propone una complessa
manovra che ricade, in termini di adempimenti, in larga
parte sulla Pa. Essa, però, non è scollegata da un filone di
norme che, già dalla metà dello scorso anno, si sono
susseguite per provare a fornire -ai creditori delle Pa-
strumenti alternativi per il soddisfacimento dei propri
crediti.
È in tale ambito che essa si inserisce e, dunque, le nuove
norme devono coordinarsi con quelle precedenti che,
peraltro, anche le imprese farebbero bene ad avere presenti.
In particolare, si richiama l'attenzione degli operatori
economici sulle procedure (già operative da qualche mese)
per ottenere la cosiddetta «certificazione dei crediti».
Richiedere questa attestazione non è obbligatorio –ed, anzi,
il decreto n. 35/2013 ne prevede ora una sorta di «rilascio
in automatico»– ma poiché i pagamenti che saranno
sbloccati sono quelli che risultano negli archivi
dell'amministrazione debitrice come «certi, liquidi ed
esigibile», la certificazione mette al riparo da brutte
sorprese, anche in merito allo «sblocca crediti». ...
(articolo
Il Sole 24 Ore del 10.04.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Perché la nuova legge sulla trasparenza nella PA
può rivelarsi controproducente.
Con il duplice obiettivo di contrastare la corruzione e
rendere più trasparenti le informazioni relative all'operato
della pubblica amministrazione, il Governo Monti ha
recentemente adottato il decreto legislativo 33 del
14.03.013, il cui intento è riordinare in un unico corpo
normativo le numerose disposizioni in materia di obblighi di
informazione, trasparenza e pubblicità.
Con questo obiettivo si è dato vita a un provvedimento che
-attraverso i suoi 53 articoli- ha notevolmente aggravato
gli adempimenti cui le Pubbliche Amministrazioni sono
tenute, anche nell'ambito degli appalti pubblici. Dal
prossimo 20 aprile, infatti, le stazioni appaltanti
rientranti nell'ambito di applicazione soggettiva del nuovo
Testo unico in materia di trasparenza dovranno pubblicare
sui rispettivi siti istituzionali il contenuto, l'oggetto
del provvedimento, la spesa prevista e gli estremi dei
documenti contenuti nel fascicolo del procedimento con cui è
stato scelto il contraente per l'affidamento di un appalto
di lavori, servizi e forniture.
A ciò si aggiungono, tra gli altri, l'obbligo di
pubblicazione dei documenti di programmazione pluriennale
delle opere pubbliche, dei documenti su tempi, costi unitari
e indicatori di realizzazione delle opere pubbliche
completate nonché -con cadenza annuale- di un indicatore dei
tempi medi di pagamento.
Non ci si può non chiedere allora quale sarà l'impatto delle
nuove misure sull'operatività della Pubblica
Amministrazione, e quindi sui tempi di realizzazione degli
appalti pubblici. Senza parlare inoltre dei sacrifici -in
termini di costi e risorse- che l'adempimento a tali norme
inevitabilmente comporterà per gli uffici pubblici, e ciò
peraltro in un periodo di scarsezza generale di risorse
pubbliche.
Ma la novità più dirompente introdotta dal decreto n. 33 è
che, al potenziamento degli obblighi di trasparenza,
corrisponde il diritto di qualsiasi cittadino di richiedere,
al responsabile della Pubblica Amministrazione incaricato, ì
documenti e le informazioni oggetto di pubblicazione, nel
caso in cui quest'ultima non sia intervenuta.
Si tratta di una novità assoluta, atteso che fino a oggi il
diritto d'accesso non poteva prescindere dalla sussistenza,
in capo al privato richiedente i documenti, di un interesse
differenziato, attuale e concreto, che legittimasse la sua
richiesta. L'art. 5 del Testo unico, invece, scardina questo
principio e -in applicazione della massima esigenza di
trasparenza- consente a chiunque di prendere visione dei
documenti e dunque di «controllare» in modo
generalizzato come la Pubblica Amministrazione abbia operato
e come siano state utilizzate le risorse pubbliche.
Non è chiaro a rigore -dal testo della nonna- se tale
possibilità possa trovare applicazione anche con riferimento
alla materia degli appalti pubblici, legittimando chiunque
-a prescindere dalla partecipazione dalla gara- a visionare
la documentazione relativa al procedimento di selezione del
contraente e dunque le offerte presentate dai concorrenti.
Ora, una lettura della stessa in conformità con i principi
dettati dal Codice degli Appalti risulta obbligata se non si
vuole ledere quella libera e leale concorrenza che
rappresenta l'obiettivo principale delle nonne nazionali e
dei principi comunitari in tema di appalti pubblici, e per
il conseguimento della quale è necessario che le
amministrazioni aggiudicatrici non divulghino informazioni
relative a procedure di aggiudicazione di appalti pubblici,
il cui contenuto potrebbe essere utilizzato per falsare il
libero gioco della concorrenza.
Infatti, interpretare diversamente la norma porterebbe
qualunque soggetto terzo, del tutto estraneo alla procedura
di gara medesima, a entrare in possesso di informazioni
riservate, senza che tali conoscenze possano al tempo stesso
servire al soggetto che le ha acquisite per far valere i
propri diritti e interessi in relazione a quella procedura
concorrenziale. A questo punto viene da chiedersi se un
controllo generalizzato sull'operato della Pubblica
Amministrazione possa giustificare un tale sovvertimento di
regole e principi consolidati del nostro ordinamento (articolo
Milano Finanza del 09.04.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: DECRETO
PAGAMENTI/ Gli enti devono indicare scadenze e numero di
versamenti
Tares, un debutto a conguaglio. Nuova tassa e maggiorazione
si pagano all'ultima rata.
La nuova tassa sui rifiuti e la
maggiorazione sui servizi si pagheranno con l'ultima rata, a
conguaglio delle somme versate in acconto che sono
determinate in base a quanto già versato dai contribuenti
nell'anno precedente per Tarsu, Tia1 e Tia2. Inoltre la
maggiorazione, fissata nella misura di 0,30 euro per metro
quadrato, non può essere aumentata dai comuni e il gettito è
riservato allo stato. Gli enti locali, con propria
deliberazione, sono tenuti a indicare scadenze e numero
delle rate di versamento del tributo. I cittadini dovranno
essere informati, anche con la pubblicazione sul sito
internet del comune, almeno 30 giorni prima della data del
versamento. Per le prime due rate le amministrazioni locali
possono inviare i modelli già predisposti per il pagamento
di Tarsu, Tia1 o Tia2. Gli acconti verranno scomputati dal
quantum dovuto, a titolo di Tares, per l'anno 2013.
Concessionari e gestori del servizio potranno continuare a
riscuotere il tributo.
Sono queste le novità sulla tassa sui rifiuti e i servizi
contenute nell'articolo 10 del dl «pagamenti p.a.»
(35/2013).
Con questa disposizione il legislatore anziché rinviare al
prossimo anno l'istituzione del tributo, come richiesto a
gran voce da più parti, considerato che il nuovo balzello
comporterà un aumento della tassazione, si limita a
differire l'applicazione delle regole di determinazione
della Tares al momento del saldo, con la richiesta di
conguaglio di quanto dovuto dal contribuente in sede di
pagamento dell'ultima rata.
Per l'anno in corso, infatti, scadenze e numero delle rate
di versamento sono stabilite dal comune con deliberazione
adottata, «anche nelle more della regolamentazione
comunale del nuovo tributo», e pubblicata sul proprio
sito web almeno 30 giorni prima della data fissata per il
pagamento. La prima rata, dunque, non dovrà più essere
versata a luglio, come previsto dal dl rifiuti (1/2013), ma
potrà essere anticipata, anche nel caso in cui il comune non
abbia adottato il regolamento, il cui termine di scadenza è
attualmente fissato al prossimo 30 giugno. È espressamente
stabilito che per le prime due rate i comuni possono inviare
ai contribuenti i modelli di pagamento precompilati già
predisposti per il pagamento di Tarsu, Tia1 o Tia2 o
indicare altre modalità di versamento giù utilizzate in
passato. Non si capisce però quale sia l'alternativa
all'invio dei bollettini di pagamento precompilati, visto
che il tributo non può essere pagato in autoliquidazione, ma
deve essere determinato dal comune. I versamenti in acconto
verranno scomputati dalla somma dovuta, a titolo di Tares,
per l'anno 2013, che verrà richiesta con l'ultima rata.
Una delle novità di rilievo del decreto è rappresentata
dalla maggiorazione per i servizi indivisibili, che da
quest'anno va pagata unitamente alla tassa sui rifiuti. La
misura della maggiorazione è solo quella standard, pari a
0,30 euro per metro quadrato. Viene sottratta ai comuni la
facoltà di aumentarla fino a 0,40 euro e di differenziarla
per zone di ubicazione e tipologie di immobili. L'articolo
10 del dl, infatti, riserva questa entrata allo stato. Anche
il versamento della maggiorazione va fatto in unica
soluzione unitamente all'ultima rata del tributo, con il
modello F24 oppure utilizzando apposito bollettino di conto
corrente postale.
La norma, infine, consente alle amministrazioni locali di
continuare ad avvalersi per la riscossione del tributo dei
soggetti affidatari del servizio di gestione rifiuti.
Pertanto, l'attività potrebbe essere affidata sia ai gestori
del servizio di smaltimento rifiuti sia ai concessionari
iscritti all'albo ministeriale, considerato che questa
possibilità è già prevista dall'articolo 14 del dl «salva
Italia» (201/2011) in seguito alle modifiche apportate
dall'articolo 1, comma 387, della legge di stabilità
(228/2012). Del resto nella nozione di «gestione»
rientrano tutte le attività dell'ente, che vanno
dall'accertamento alla riscossione.
---------------
Più tempo per denunce e delibere Imu.
Si allungano i termini per la presentazione della
dichiarazione Imu. Slitta al 30 giugno dell'anno successivo
all'acquisto del possesso dell'immobile il termine per
denunciarne la titolarità o per dichiararne le variazioni. I
versamenti in acconto e saldo dell'imposta, inoltre, devono
essere effettuati in base alle aliquote e detrazioni
dell'anno precedente se delibere e regolamenti non vengono
pubblicate sul sito del ministero delle finanze,
rispettivamente, entro il 16 maggio o il 16 novembre. Nel
caso in cui venga pagato l'acconto in base alle vecchie
aliquote e detrazioni, il saldo dell'imposta dovuta per
l'intero anno dovrà essere versato a conguaglio della prima
rata, in base agli atti pubblicati sul sito informatico
entro il 16 novembre di ciascun anno d'imposta. È quanto
prevede l'art. 10 del dl «pagamenti p.a.».
Dichiarazioni.
Viene dunque ampliato il termine per presentare la
dichiarazione della nuova imposta locale. Il termine breve
di 90 giorni, oltre a rendere più difficoltosi gli
adempimenti dei contribuenti, si legge nella relazione
ministeriale, ha «ripercussioni negative
sull'applicabilità delle norme in materia di ravvedimento».
Del resto l'articolo 13 del decreto legislativo 472/1997,
che disciplina il ravvedimento operoso, come indicato nella
relazione di accompagnamento al decreto, prevede due diversi
termini «collegati alla natura periodica o non periodica
della dichiarazione».
Delibere comunali e versamenti.
Dal 2013 ha effetto costitutivo la pubblicazione sul sito
del Mef delle delibere di approvazione di aliquote e
detrazioni d'imposta, nonché dei regolamenti comunali.
Questi atti devono essere inviati solo per via telematica e
vanno inseriti nell'apposito Portale del federalismo
fiscale. Delibere e regolamenti, tra l'altro, condizionano
anche i versamenti del tributo. Il
quantum dovuto per l'imposta è infatti legato
all'avvenuta pubblicazione sul sito ministeriale degli atti
generali comunali. Se la pubblicazione non viene fatta entro
il 16 maggio, i contribuenti sono legittimati a calcolare
l'acconto, nella misura del 50%, sulla base delle aliquote e
detrazioni dei 12 mesi dell'anno precedente.
Per rispettare la data del 16 maggio è però imposto ai
comuni di inviare delibere e regolamenti entro il 9 maggio
dell'anno di riferimento. Qualora non vengano pubblicati
entro il 16 maggio, il versamento della seconda rata, a
saldo dell'imposta dovuta per l'intero anno, con eventuale
conguaglio sulla prima rata, deve essere eseguito tenendo
conto degli atti pubblicati sul sito ministeriale entro il
16 novembre. In tal caso i comuni devono trasmettere le loro
determinazioni entro il 9 novembre. Altrimenti, imposta
calcolata con riferimento a aliquote e detrazioni dell'anno
precedente (articolo
ItaliaOggi del 09.04.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: La
Scia senza imposta di bollo. Le Entrate esonerano dal
tributo, salvo altre certificazioni.
Risoluzione dell'amministrazione
finanziaria sul nullaosta in materia di prevenzione incendi.
No all'applicazione dell'imposta di
bollo per la presentazione della Segnalazione certificata
d'inizio attività (Scia), purché la stessa non preveda il
rilascio di un provvedimento o, comunque, di certificazioni.
Imposta di bollo nella misura di euro 14,62 a foglio,
invece, per nulla osta di fattibilità che i titolari delle
attività soggette ai controlli di prevenzione possono
richiedere, al comando dei vigili del fuoco.
L'Agenzia delle entrate, con la
risoluzione 08.04.2013 n. 24/E, risponde al quesito
posto dal dipartimento dei vigili del fuoco in ordine al
corretto trattamento da riservare, ai fini dell'imposta di
bollo, su alcuni documenti. In pratica si tratta del
nullaosta di fattibilità che i titolari delle attività
soggette al controllo dei vigili del fuoco possono
richiedere preventivamente al comando provinciale vigili del
fuoco e delle richieste di verifiche in corso d'opera al
fine di attestare la rispondenza delle opere alle
disposizioni in materia di prevenzione incendi, anche
durante la loro realizzazione.
I tecnici di prassi sostengono il nulla osta di fattibilità
rientra tra gli «Atti e provvedimenti_» di cui
all'articolo 4 della tariffa allegata al dpr n. 642 del
1972, «_ rilasciati (_) a coloro che ne abbiano fatto
richiesta» e, pertanto, è soggetto all'imposta di bollo
nella misura di euro 14,62 per ogni foglio. Nel caso delle
richieste di verifiche in corso d'opera, se a seguito della
effettuazione di queste visite, l'amministrazione proceda
all'emanazione di un atto amministrativo, sia l'istanza
presentata dall'ente o dal privato che il relativo atto
rilasciato devono essere assoggettati ad imposta di bollo,
ai sensi degli articoli 3 e 4 della tariffa del dpr n. 642
del 1972.
Per quanto riguarda la Scia, l'Agenzia delle entrate con la
risoluzione 05.07.2001 n. 109, ha avuto modo di chiarire,
con riferimento alle denunce di inizio attività di cui alla
legge 07.08.1990 n. 241, che le stesse «_ non sono da
assimilare alle istanze volte ad ottenere l'emanazione di un
provvedimento_ Non essendo prevista l'emanazione di un
provvedimento (_) non è possibile far rientrare tra le
istanze_» di cui al citato articolo 3 dpr n. 642 del
1972 «_ le denunce di inizio attività (_) che sono
infatti da considerare come semplici comunicazioni e
pertanto non soggette ad imposta di bollo_».
Oggi, sulla base di tale risoluzione del 2001, i tecnici di
prassi ritengono che la Scia, non deve essere assoggettata a
imposta di bollo, sempreché la stessa non preveda il
rilascio di un provvedimento o, comunque, il rilascio di
certificazioni (articolo
ItaliaOggi del 09.04.2013 - tratto da
www.fiscooggi.it). |
ENTI LOCALI:
Elaborazione buste paga. Comuni contro
il Mef. Convenzioni sui cedolini, un aggravio di costi.
I comuni interessati alle convenzioni sull'elaborazione
delle retribuzioni imposte dal MEF chiedono di poter
recedere dalle stesse, per tornare a ricercare sul mercato
le soluzioni più convenienti e adatte alle proprie esigenze.
Continuano, infatti, a giungere all'Anci (Associazione
nazionale comuni italiani) segnalazioni su disguidi e
malfunzionamenti che stanno comportando anche un
considerevole aggravio dei costi, in aperto contrasto con
gli obiettivi di risparmio della spending review. A
carico dell'Amministrazione, infatti, aumentano le spese e
questo non va nella direzione voluta dalla norma volta alla
razionalizzazione e al contenimento degli stessi.
Il Mef, imponendo i parametri qualità/prezzo, dimentica la
delicatezza, non solo dell'elaborazione dei cedolini, ma
della consulenza del lavoro a corollario, il valore dei dati
contenuti e la necessita che siano elaborati da soggetti
qualificati.
Il ministero dell'Economia impone all'Anci l'applicabilità
dell'art. 5, comma 10 del dl n. 95/2012 agli enti locali. Il
ministero ha infatti ritenuto che «sotto il profilo
soggettivo, i comuni sono sottoposti alla disciplina in
quanto inclusi tra le pubbliche amministrazioni (art. 1,
comma 2, dlgs n. 165/2001), diverse da quelle statali già
obbligate dalla previgente normativa».
Il ministero chiarisce che lo schema di convenzione
disponibile costituisce «uno standard, da adattare e
utilizzare in relazione alle specificità e caratteristiche
delle singole amministrazioni». Inoltre il Mef ricorda
agli Enti che il decreto ministeriale del 06.07.2012 ha
definito «contenuti e modalità di attivazione dei servizi
in materia stipendiale erogati dal Mef alle Amministrazioni
pubbliche»; nel decreto e definito il contributo dovuto
dalle singole amministrazioni al ministero in relazione al
servizio erogato.
A seguito dell'entrata in vigore del dl n. 95/2012, «i
servizi e il relativo contributo definiti nel decreto
rappresentano parametri di prezzo/qualità che le
Amministrazioni pubbliche diverse da quelle statali devono
rispettare per l'acquisto degli stessi servizi sul mercato
di riferimento». La comparazione avviene con riferimento
ai costi di produzione dei servizi, diretti e indiretti,
interni ed esterni sostenuti dalle amministrazioni.
Pertanto, ai fini di una corretta comparazione, occorrerà
prendere in considerazione i costi attualmente sostenuti
dall'Amministrazione per l'acquisizione dei servizi resi dal
ministero dell'Economia.
In questo scenario l'Anci, in una lettera inviata al
ministero dell'Economia, chiede un urgente incontro
finalizzato a valutare le problematiche segnalate dagli Enti
che, sulla base del dl n. 95/2012 (spending review),
hanno aderito ai servizi stipendiali forniti dal Ministero.
Tenuto anche conto della prossima scadenza del termine per
la sottoscrizione delle convenzioni per l'erogazione del
servizio a decorrere dal 2014, nella citata nota si
ribadisce la necessita di un «approfondimento sul tema
volto a valutare le modalità e i margini di risoluzione
delle problematiche segnalate, rendendo, ove possibile, lo
strumento della convenzione maggiormente flessibile in
relazione alle specificità e caratteristiche delle singole
amministrazioni».
Questo al fine di «dare piena e compiuta attuazione alle
finalità di razionalizzazione dei costi sottese al dettato
normativo e per consentire alle amministrazioni locali di
usufruire, progressivamente, di servizi il più rispondenti
possibili alle proprie specifiche esigenze» (articolo
ItaliaOggi del 09.04.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: Retribuzioni
adeguate da maggio. Emissione straordinaria ad aprile per
gli arretrati
Vecchi scatti pagati. Poi si vedrà. Il nuovo decreto annulla
le progressioni del 2013.
È fatta. Il lungo slalom, durato quasi un anno, per portare
a pagamento gli scatti di anzianità maturati nel 2011 è
riuscito, tra manifestazioni, sindacati divisi,
tentennamenti dell'amministrazione, risorse carenti,
accordi. Il Tesoro (messaggio 051 del 5 aprile scorso) ha
dato disposizioni perché gli aumenti contrattuali per il
2011 siano pagati da maggio e che ad aprile ci sia
un'emissione straordinaria a copertura degli arretrati.
Il recupero dell'anno congelato dal decreto legge n. 78/2010
sarà valido ai fini giuridici per tutti i lavoratori della
scuola, mentre i benefici economici, nell'immediatezza della
conquista dello scalone, interessano circa 180 mila
insegnanti, che vedranno crescere la busta paga di circa
cento euro al mese. Sui 1400 euro gli arretrati.
Resta ora da recuperare il 2012, l'ultimo anno del blocco.
Anche in questo caso andranno certificati i risparmi
conseguiti dal sistema dopo i tagli della riforma Gelmini,
si dovrà verificare se c'è capienza per dare gli aumenti
oppure se si dovrà ricorrere, come avvenuto in questa
circostanza, al fondo di funzionamento della scuola per
coprire quanto mancava. Ma il decreto 78 consente di
recuperare per via negoziale tutti gli anni di servizio del
triennio congelato. E dunque, anche se sarà una trafila
lunga, ci sono i margini perché si possa trattare, come
fatto con l'intesa siglata il 13 marzo scorso.
Discorso diverso invece per il futuro. Nell'aria, infatti,
c'è già aria di nuovi blocchi: il decreto del presidente
della repubblica con il quale si dispone la proroga per il
2013/2015 del blocco dei contratti pubblici, e con essi di
tutte le progressioni individuali, comprende gli scatti di
anzianità nella scuola per il 2013. Il decreto, inviato per
i controlli di rito al Consiglio di stato prima della firma
definitiva, prevede all'art. 1, comma 1, lettera b), «la
proroga al 31.12.2013, con effetto sull'anno 2014, dei
blocchi introdotti dall'art. 9, comma 23, del dl 78/2010,
riguardanti il personale docente, educativo ed Ata della
scuola».
Il dpr si è reso necessario, si legge nella bozza di
relazione tecnica, per conseguire i risparmi fissati
dall'art. 16, comma 1, del dl 98/2011, convertito con
modificazioni in legge 15.07.2011 n. 111. Si tratta, ha
precisato il Tesoro, di obiettivi di risparmio, valutati in
2,7 miliardi di euro, che sono stati già scontati ai fini
dell'indebitamento netto. Per cui senza il decreto ci
sarebbe un buco nel bilancio dello stato. Insomma, anche se
il premier Mario Monti non ponesse alla firma del capo dello
stato Giorgio Napolitano il provvedimento, è il ragionamento
del ministero del tesoro guidato da Vittorio Grilli, si
tratterebbe solo di un rinvio, il nuovo governo non potrebbe
fare a meno di adottarlo.
«Per noi il blocco degli scatti va rimosso senza far
gravare il ripristino a carico del salario accessorio di
altri lavoratori», attacca Mimmo Pantaleo, numero uno
della Flc-Cgil, da sempre contrario a risoluzioni per via
negoziale (infatti l'intesa all'Aran non reca la sua firma),
«l'unica via di uscita è ottenere il ripristino dei
rinnovi dei contratti».
Per Francesco Scrima, segretario della Cisl scuola, «lo
sblocco degli scatti è il risultato di un'azione sindacale
concreta e utile per tutti i lavoratori. Senza attendere
l'arrivo di un presunto governo amico». Il segretario
Uil scuola Massimo Di Menna ammette: «Abbiamo superato,
sostenuti dalla mobilitazione del personale, una lunga serie
di ostacoli posti dal governo, dal ministero, dalle lentezze
di una amministrazione che non si fida di se stessa, per
ripristinare un diritto...Ora si ricomincia».
Parla di «scelta utile a difesa dell'unico strumento di
incremento oggi disponibile delle paghe dei lavoratori»,
Marco Paolo Nigi, numero uno dello Snals-Confsal, e intanto
Rino di Meglio, coordinatore Gilda, chiede di superare
l'attuale situazione concentradosi «sull'insegnamento
attivo e la sua valorizzazione» (articolo
ItaliaOggi del 09.04.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
APPALTI:
DECRETO PAGAMENTI/ Riparto in due
tranche dei 5 mld di valore della deroga.
Patto di stabilità meno pesante. Esclusi i debiti di parte
capitale corredati di fattura.
Esclusione dal Patto per tutti i debiti
di parte capitale per i quali al 31/12/2012 vi sia stata
almeno l'emissione della fattura. Riparto in due tranche dei
5 miliardi di valore complessivo della deroga: 90% entro il
15 maggio, il resto a luglio. Per gli enti che hanno cassa
sblocco immediato dei pagamenti fino al 13% della liquidità
disponibile al 31 marzo, per gli altri obbligo di accedere
alla anticipazioni erogate dalla Cassa depositi e prestiti e
margini più ampi per attivare le anticipazioni di tesoreria.
Sanzioni a largo raggio per i responsabili dei servizi che
si metteranno di traverso.
Sono queste (al netto del capitolo tributi, su cui si veda
articolo a pagina 25) le principali novità per gli enti
locali contenute nel testo finale del decreto 35/2013 sullo
sblocco dei debiti della p.a.
Confermato l'allentamento del Patto 2013 per un importo pari
a 5 miliardi di euro, ma il ventaglio dei pagamenti
consentiti si allarga, oltre che ai debiti certi, liquidi ed
esigibili al 31/12/2012, anche a quelli per i quali, entro
tale data, sia stata almeno emessa fattura o richiesta
equivalente di pagamento.
Nell'immediato, il via libera riguarda solo gli enti che
hanno cassa, che potranno pagare fino al 13% delle
disponibilità liquide detenute presso la tesoriera statale
al 31 marzo. In attesa del decreto che distribuirà l'intero
plafond, nessun ente, però, potrà pagare più del 50% degli
spazi finanziari che intende comunicare al Mef. Il riparto
avverrà in due tranches: il primo 90% entro il 15 maggio,
sulla base delle richieste che gli enti dovranno trasmettere
entro il 30 aprile mediante il sistema web della Rgs; il
restante 10%, oltre alle eventuali quote non assegnate in
precedenza, entro il 15 luglio, sulla base delle richieste
pervenute entro il 5 luglio. L'assegnazione avverrà sulla
base dei criteri definiti in Conferenza stato-città e
autonomie locali entro il 10 maggio ovvero, in mancanza, su
base proporzionale.
Gli enti dovranno effettuare pagamenti almeno per il 90%
degli spazi finanziari concessi. In mancanza, scatterà una
sanzione pecuniaria pari a 2 mensilità di retribuzione per i
responsabili dei servizi interessati. Analoga sanzione è
prevista in caso di mancata adesione alla procedura senza
giustificato motivo. La competenza spetta alle sezioni
giurisdizionali della Corte dei conti, che potranno agire
anche su segnalazione dei revisori del conti.
Confermato anche lo stanziamento di 2 miliardi per ciascuno
dei prossimi 2 anni a favore degli enti a corto di
liquidità. L'adesione al fondo diviene obbligatoria, come si
evince dalla formulazione del provvedimento pubblicato in
G.u., che contiene il verbo «chiedono», anziché «possono
chiedere». Le sanzioni di cui sopra non sembrano
direttamente applicabili alle ipotesi di mancate adesione,
ma anche in tal caso potrebbero comunque emergere delle
responsabilità a carico dei responsabili. Per le richieste è
prevista una corsia preferenziale rispetto alla disciplina
del Tuel: esse, infatti, andranno in deroga agli artt. 42
(sulla competenza del Consiglio), 203 e 204 (che limitano il
ricorso all'indebitamento). Le anticipazioni saranno erogate
dalla CcDdPp (anche in tal caso su base proporzionale, salvo
diverso accordo) e andranno restituite al massimo entro 30
anni, a rate costanti e con un tasso pari a quello dei Btp
quinquennali. Per gli enti beneficiari non sono più previsti
il blocco degli investimenti e il tetto alla spesa corrente,
ma solo l'obbligo di portare al 50% il fondo svalutazione
crediti. Per il solo 2013 e sino al 30 settembre, inoltre,
il tetto alle anticipazioni di tesoreria sale da tre a
cinque dodicesimi, ma sarà compensato da un vicolo, pari
all'eccedenza, sulle entrate tributarie (da Imu per i
comuni, da imposta Rc auto per le province).
Giro di vite, infine, sull'obbligo di accreditamento alla
piattaforma del Mef per la certificazione dei crediti, che
dovrà essere completato entro 20 giorni dall'entrata in
vigore del decreto (quindi entro il 28 maggio), a pena di
sanzioni a carico dei dirigenti responsabili (articolo
ItaliaOggi del 09.04.2013). |
GIURISPRUDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO: Cassazione.
Reato limitato al pubblico ufficiale - Illecito contestabile
anche all'incaricato di pubblico servizio ma come estorsione.
Concussione con nuovi confini.
Scatta l'induzione indebita quando il privato ha una
convenienza economica.
Lo "spacchettamento" della concussione operato dalla legge
190/2012 (nuovo articolo 317 del codice penale) la fa
ricadere di fatto nelle «situazioni sostanzialmente
corrispondenti alla estorsione». Mentre la induzione
indebita (articolo 319–quater) si configura, oggi, nel caso
in cui al privato non sia minacciato un danno ingiusto e lo
stesso sia quindi in grado di avere addirittura «una
convenienza economica nel cedere alle richieste del pubblico
ufficiale» evitando «l'adozione di atti legittimi della
amministrazione» a suo carico.
Con una lunghissima motivazione la VI Sez. penale della
Corte di Cassazione (sentenza 12.04.2013 n. 16566) torna sul
tema del rapporto patologico tra Pa e privati cittadini per
fissare le linee guida destinate alle corti di merito.
Il caso è quello, storicamente molto articolato, di una
serie di illeciti imputati a un tenente colonnello della
Guardia di Finanza dell'Ufficio operazioni del Piemonte,
sospettato di aver "sollecitato" una lunga teoria di piccoli
pagamenti ai danni di imprenditori del Nordovest. Uno dei
motivi di ricorso della difesa riguardava proprio la
qualificazione giuridica di alcuni fatti –non contestati–
per i quali si chiedeva la derubricazione in «induzione
indebita», la forma lieve "spacchettata" dalla riforma
Severino.
La questione teorica a cui il relatore dedica larga parte è,
alla luce del dato normativo, la compatibilità delle due
nuove fattispecie, sia nella prospettiva del soggetto attivo
(considerato che l'«incaricato di pubblico servizio» è oggi
"immune" dalla concussione, rimasta per il solo «pubblico
ufficiale»), sia anche nella prospettiva del privato
"intimidito", che resta ancora vittima della «concussione»
ma è oggi correo della «induzione indebita».
Sul primo punto –il comportamento minatorio dell'incaricato
di pubblico servizio, non più punibile per concussione– è
inevitabile ritenere che queste condotte ricadano oggi sotto
l'ombrello del reato di estorsione: altrimenti, se restasse
un'induzione indebita, paradossalmente ne dovrebbe
rispondere anche il privato cittadino, che invece negli
stessi casi ma di fronte a un "pubblico ufficiale"
risulterebbe vittima.
Ma quali sono allora i limiti della induzione indebita? Per
la Sesta sezione, sono la presenza di metus publicae
potestatis, di pressione psicologica nelle modalità di
«persuasione, prospettazione o convenienza del cedere alle
richieste del pubblico ufficiale/incaricato di pubblico
servizio, piuttosto che la minaccia in senso tecnico»,
circostanza questa che farebbe scattare la concussione (per
il pubblico ufficiale) o la estorsione (per l'incaricato di
pubblico servizio).
Dal punto di vista del privato cittadino, valgono ancora le
conclusioni recenti della Corte (40898/11) per separare la
corruzione (comportamento attivo) dalla concussione
(posizione passiva). Nel primo caso i due soggetti «trattano
su livelli paritari e si accordano per il pactum sceleris,
nella concussione invece non si verifica la par condicio contrattualis perché, di fatto, è il pubblico ufficiale a
dettare le regole "estorsive".
In sintesi, conclude il relatore, compie induzione passiva
«chi per ricevere indebitamente le stesse cose prospetta una
qualsiasi conseguenza dannosa che non sia contraria alla
legge» e cioè non una "minaccia". Così delimitato l'ambito
di azione, l'articolo 319–quater fa salva da un lato la
concussione (a carico del pubblico ufficiale) e dall'altro
l'estorsione (per l'"incaricato di pubblico servizio")
tenendo in questi casi immune la vittima–cittadino privato.
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LA SENTENZA
In una situazione in cui, pur a fronte di un comportamento
prevaricatore, il pubblico ufficiale prospetta una
situazione comunque vantaggiosa per il caso di
corresponsione di quanto richiesto, si rientra certamente
nell'ambito dei comportamenti esigibili (da parte del
privato, ndr).
È infatti "esigibile" che il privato resista
ad una tale pretesa, ancorché il complesso della situazione
abbia fatto ragionevolmente optare per un livello di
sanzione inferiore a quella del soggetto pubblico; ed è "rimproverabile"
il privato nel caso in cui abbia invece optato per cedere
alle richieste, senza però rischiare un danno ingiusto ma
ottenendone, comunque, un vantaggio
(Cassazione penale, sentenza 16566/2013)
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.04.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il potere di annullamento
del nulla-osta paesaggistico da parte della Soprintendenza
statale non comporta un riesame complessivo delle
valutazioni discrezionali compiute dalla regione o da un
ente sub-delegato, tale da consentire la sovrapposizione o
sostituzione di una propria valutazione di merito a quella
compiuta in sede di rilascio dell’autorizzazione, ma si
estrinseca in un controllo di mera legittimità, che si
estende a tutte le ipotesi riconducibili all’eccesso di
potere per difetto d’istruttoria e carenza, illogicità o
irrazionalità motivazionale.
Con particolare riguardo al regime transitorio di cui
all’art. 159, comma 3, d.lgs. n. 42 del 2004, e s.m.i.
-vigente fino al 31.12.2009 ed applicabile ratione temporis
alla fattispecie in esame- è stato condivisibilmente
riaffermato il principio secondo cui, in materia di
nulla-osta paesaggistico, l’autorità statale, in sede di
esercizio dei suoi poteri di controllo, è munita degli
stessi poteri di riscontro in termini di legittimità
costantemente riconosciuti come ambito della sua potestà di
annullamento, senza che possa profilarsi, in relazione alla
“non conformità” dell’autorizzazione paesaggistica
rilasciata dall’organo delegato dalla regione, un potere di
riesame nel merito.
... si osserva, in linea di diritto, che secondo un
consolidato orientamento di questo Consiglio di Stato, da
cui non v’è motivo di discostarsi, il potere di annullamento
del nulla-osta paesaggistico da parte della Soprintendenza
statale non comporta un riesame complessivo delle
valutazioni discrezionali compiute dalla regione o da un
ente sub-delegato, tale da consentire la sovrapposizione o
sostituzione di una propria valutazione di merito a quella
compiuta in sede di rilascio dell’autorizzazione, ma si
estrinseca in un controllo di mera legittimità, che si
estende a tutte le ipotesi riconducibili all’eccesso di
potere per difetto d’istruttoria e carenza, illogicità o
irrazionalità motivazionale (C.d.S., sez. VI, sent.
13.02.2009 n. 772; sent. 25.11.2008 n. 5771).
Con particolare riguardo al regime transitorio di cui
all’art. 159, comma 3, d.lgs. n. 42 del 2004, e s.m.i.
-vigente fino al 31.12.2009 ed applicabile ratione
temporis alla fattispecie in esame- è stato
condivisibilmente riaffermato il principio secondo cui, in
materia di nulla-osta paesaggistico, l’autorità statale, in
sede di esercizio dei suoi poteri di controllo, è munita
degli stessi poteri di riscontro in termini di legittimità
costantemente riconosciuti come ambito della sua potestà di
annullamento, senza che possa profilarsi, in relazione alla
“non conformità” dell’autorizzazione paesaggistica
rilasciata dall’organo delegato dalla regione, un potere di
riesame nel merito (C.d.S., sez. VI, sent. 11.06.2012 n.
3401; sent. 02.04.2010 n. 1899; sent. 23.07.2009 n. 4630;
sent. 23.02.2009 n. 1051) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 12.04.2013 n. 1991 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L’articolo
6, paragrafo 3, della direttiva 92/43/CEE del Consiglio, del
21.05.1992, relativa alla conservazione degli habitat
naturali e seminaturali e della flora e della fauna
selvatiche, deve essere interpretato nel senso che un piano
o un progetto non direttamente connesso o necessario alla
gestione di un sito pregiudicherà l’integrità di tale sito
se è atto a impedire il mantenimento sostenibile delle
caratteristiche costitutive dello stesso, connesse alla
presenza di un habitat naturale prioritario, per conservare
il quale, il sito in questione è stato designato nell’elenco
dei siti di importanza comunitaria (SIC) conformemente alla
suddetta direttiva.
Ai fini di tale valutazione occorre applicare il principio
di precauzione.
L’articolo 6, paragrafo 3, della direttiva «habitat» prevede
una procedura di valutazione volta a garantire, mediante un
controllo preventivo, che un piano o un progetto non
direttamente connesso o necessario alla gestione del sito
interessato, ma idoneo ad avere incidenze significative
sullo stesso, sia autorizzato solo se non pregiudicherà
l’integrità di tale sito (v. sentenza Waddenvereniging e
Vogelbeschermingsvereniging, cit., punto 34, nonché sentenza
del 16.02.2012, Solvay e a., C‑182/10, non ancora pubblicata
nella Raccolta, punto 66).
Detta disposizione prevede così due fasi. La prima, di cui
al primo periodo della stessa disposizione, richiede che gli
Stati membri effettuino un’opportuna valutazione
dell’incidenza di un piano o un progetto su un sito protetto
quando è probabile che tale piano o progetto pregiudichi
significativamente detto sito (v., in tal senso, sentenza
Waddenvereniging e Vogelbeschermingsvereniging, cit., punti
41 e 43).
Ebbene, un piano o un progetto non direttamente connesso o
necessario alla gestione di un sito che rischi di
comprometterne gli obiettivi di conservazione deve essere
ritenuto pregiudicare significativamente tale sito. La
valutazione di detto rischio va effettuata segnatamente alla
luce delle caratteristiche e delle condizioni ambientali
specifiche del sito interessato da un tale piano o progetto
(v., in tal senso, sentenza Waddenvereniging e
Vogelbeschermingsvereniging, cit., punto 49).
La seconda fase, di cui all’articolo 6, paragrafo 3, secondo
periodo, della direttiva «habitat», che interviene una volta
effettuata detta opportuna valutazione, subordina
l’autorizzazione di un tale piano o progetto alla condizione
che lo stesso non pregiudichi l’integrità del sito
interessato, fatte salve le disposizioni del paragrafo 4 del
medesimo articolo.
A tale riguardo, al fine di contestualizzare la portata
dell’espressione «pregiudica l’integrità del sito», occorre
precisare che, come ha rilevato l’avvocato generale al
paragrafo 43 delle sue conclusioni, le disposizioni
dell’articolo 6 della direttiva «habitat» devono essere
interpretate come un insieme coerente con riferimento agli
obiettivi di conservazione perseguiti dalla direttiva. In
effetti, i paragrafi 2 e 3 di detto articolo mirano ad
assicurare uno stesso livello di protezione degli habitat
naturali e degli habitat delle specie (v., in tal senso,
sentenza del 24.11.2011, Commissione/Spagna, C‑404/09, non
ancora pubblicata nella Raccolta, punto 142), mentre il
paragrafo 4 del medesimo articolo costituisce solo una
disposizione in deroga al secondo periodo del paragrafo 3.
La Corte ha già affermato che le disposizioni dell’articolo
6, paragrafo 2, della direttiva «habitat» consentono di
rispondere all’obiettivo essenziale della preservazione e
della protezione della qualità dell’ambiente, compresa la
conservazione degli habitat naturali nonché della fauna e
della flora selvatiche, e stabiliscono un obbligo di tutela
generale, al fine di evitare degrado o perturbazioni che
possano avere conseguenze significative per quanto riguarda
gli obiettivi di tale direttiva (sentenza del 14.01.2010,
Stadt Papenburg, C‑226/08, Racc. pag. I‑131, punto 49 e la
giurisprudenza ivi citata).
L’articolo 6, paragrafo 4, della direttiva «habitat» prevede
che, qualora, nonostante conclusioni negative nella
valutazione dell’incidenza effettuata in conformità
all’articolo 6, paragrafo 3, prima frase, di detta
direttiva, un piano o un progetto debba essere comunque
realizzato per motivi imperativi di rilevante interesse
pubblico, inclusi motivi di natura sociale o economica, e in
mancanza di soluzioni alternative, lo Stato membro adotti
ogni misura compensativa necessaria per garantire che la
coerenza globale di Natura 2000 sia tutelata (v. sentenze
del 20.09.2007, Commissione/Italia, C‑304/05, Racc. pag.
I‑7495, punto 81, e Solvay e a., cit., punto 72).
Ebbene, in quanto disposizione derogatoria rispetto al
criterio di autorizzazione previsto dal secondo periodo del
paragrafo 3 dell’articolo 6 della direttiva «habitat», il
paragrafo 4 del medesimo articolo può trovare applicazione
solo dopo che gli effetti di un piano o di un progetto siano
stati esaminati conformemente alle disposizioni di detto
paragrafo 3 (v. sentenza Solvay e a., cit., punti 73 e 74).
Ne consegue che le disposizioni dell’articolo 6, paragrafi
2‑4, della direttiva «habitat» impongono agli Stati membri
una serie di obblighi e di procedure specifiche intesi ad
assicurare, come risulta dall’articolo 2, paragrafo 2, della
medesima direttiva, il mantenimento o, se del caso, il
ripristino, in uno stato di conservazione soddisfacente,
degli habitat naturali e, in particolare, delle zone
speciali di conservazione.
Ora, a termini dell’articolo 1, lettera e), della direttiva
«habitat», lo stato di conservazione di un habitat naturale
è considerato «soddisfacente» segnatamente quando la sua
area di ripartizione naturale e le superfici che comprende
sono stabili o in estensione e la struttura e le funzioni
specifiche necessarie al suo mantenimento a lungo termine
esistono e possono continuare ad esistere in un futuro
prevedibile.
In proposito la Corte ha già affermato che le disposizioni
della direttiva «habitat» mirano a che gli Stati membri
adottino misure di salvaguardia appropriate al fine di
mantenere le caratteristiche ecologiche dei siti che
comprendono tipi di habitat naturali (v. sentenze del
20.05.2010, Commissione/Spagna, C‑308/08, Racc. pag. I‑4281,
punto 21, e del 24.11.2011, Commissione/Spagna, cit., punto
163).
Se ne deve inferire, di conseguenza, che, per non arrecare
pregiudizio all’integrità di un sito in quanto habitat
naturale, ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 3, secondo
periodo, della direttiva «habitat», lo si deve conservare in
uno stato soddisfacente, e ciò implica, come ha osservato
l’avvocato generale ai paragrafi 54‑56 delle sue
conclusioni, il mantenimento sostenibile delle
caratteristiche costitutive di tale sito, connesse alla
presenza di un tipo di habitat naturale, per conservare il
quale, il sito in questione è stato designato nell’elenco
dei SIC conformemente a detta direttiva.
L’autorizzazione di un piano o di un progetto, ai sensi
dell’articolo 6, paragrafo 3, della direttiva «habitat», può
quindi essere concessa solo a condizione che le autorità
competenti, una volta identificati tutti gli aspetti di
detto piano o progetto idonei, da soli o insieme ad altri
piani o progetti, a compromettere gli obiettivi di
conservazione del sito di cui trattasi, e allo stato della
scienza, abbiano acquisito la certezza che esso è privo di
effetti pregiudizievoli stabili per l’integrità di detto
sito. Ciò avviene quando non sussiste alcun dubbio
ragionevole da un punto di vista scientifico quanto
all’assenza di tali effetti (v., in tal senso, citate
sentenze del 24.11.2011, Commissione/Spagna, punto 99, e
Solvay e a., punto 67).
Al riguardo, si deve constatare che, dovendo l’autorità
negare l’autorizzazione per il piano o il progetto
considerato quando non è certa l’assenza di effetti
pregiudizievoli per l’integrità del sito, il criterio di
autorizzazione previsto all’articolo 6, paragrafo 3, secondo
periodo, della direttiva «habitat» integra il principio di
precauzione e consente di prevenire efficacemente i
pregiudizi all’integrità dei siti protetti dovuti ai piani o
progetti previsti. Un criterio di autorizzazione meno
rigoroso di quello in questione non può garantire in modo
altrettanto efficace la realizzazione dell’obiettivo di
protezione dei siti cui tende detta disposizione (sentenza
Waddenvereniging e Vogelbeschermingsvereniging, cit., punti
57 e 58).
Analoga valutazione s’impone a fortiori nel procedimento
principale, in quanto l’habitat naturale interessato dal
progetto stradale in questione rientra fra i tipi di habitat
naturali prioritari che l’articolo 1, lettera d), della
direttiva «habitat» definisce come «tipi di habitat naturali
che rischiano di scomparire» per la cui conservazione
l’Unione europea ha una «responsabilità particolare».
Le autorità nazionali competenti non possono, pertanto,
autorizzare gli interventi che rischiano di compromettere
stabilmente le caratteristiche ecologiche dei siti che
comprendono tipi di habitat naturali prioritari. Sarebbe
questo il caso qualora l’intervento rischi di condurre alla
scomparsa o alla distruzione parziale e irreversibile di un
tipo di habitat naturale prioritario presente sul sito
interessato (v., riguardo alla scomparsa di specie
prioritarie, citate sentenze del 20.05.2010,
Commissione/Spagna, punto 21, e del 24.11.2011,
Commissione/Spagna, punto 163).
Per quanto attiene alla valutazione effettuata ai sensi
dell’articolo 6, paragrafo 3, della direttiva «habitat»,
occorre precisare che essa non può comportare lacune e deve
contenere rilievi e conclusioni completi, precisi e
definitivi atti a dissipare qualsiasi ragionevole dubbio
scientifico in merito agli effetti dei lavori previsti sul
sito protetto in questione (v., in tal senso, sentenza del
24.11.2011, Commissione/Spagna, cit., punto 100 e la
giurisprudenza ivi citata). Spetta al giudice nazionale
verificare se la valutazione dell’incidenza sul sito
soddisfi tali condizioni
(Corte di Giustizia UE, Sez. III,
sentenza 11.04.2013
n.
C-258/11 - link a www.http://eur-lex.europa.eu). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il bando costituisce la
lex specialis concorsus da interpretare in termini
strettamente letterali, per cui le regole da esso risultanti
vincolano rigidamente l’operato dell’Amministrazione,
obbligata alla loro applicazione senza alcun margine di
discrezionalità.
Ciò in forza del principio di tutela della par condicio dei
concorrenti, che sarebbe pregiudicata ove si consentisse la
modifica delle regole di gara cristallizzate nella lex
specialis e dell’altro più generale principio che vieta la
disapplicazione del bando quale atto con cui
l’Amministrazione si è originariamente autovincolata
nell’esercizio delle potestà connesse alla conduzione della
procedura selettiva.
--------------
I requisiti prescritti per la partecipazione ad una
selezione concorsuale debbano essere posseduti alla data di
scadenza prevista per la presentazione delle relative
domande
Come accertato dal TAR, a seguito di specifica istruttoria
disposta, il bando di concorso, approvato dal consiglio
della Comunità montana alla seduta del 06.11.1981, prevede
come requisito essenziale per la partecipazione il solo
possesso del titolo di laurea in architettura.
Il TAR ha quindi correttamente evidenziato, citando conforme
giurisprudenza, che il bando costituisce la lex specialis
concorsus da interpretare in termini strettamente
letterali, per cui le regole da esso risultanti vincolano
rigidamente l’operato dell’Amministrazione, obbligata alla
loro applicazione senza alcun margine di discrezionalità.
Ciò in forza del principio di tutela della par condicio dei
concorrenti, che sarebbe pregiudicata ove si consentisse la
modifica delle regole di gara cristallizzate nella lex
specialis e dell’altro più generale principio che vieta
la disapplicazione del bando quale atto con cui
l’Amministrazione si è originariamente autovincolata
nell’esercizio delle potestà connesse alla conduzione della
procedura selettiva.
Nel caso in esame il bando di concorso prevedeva, come si è
detto, quale requisito richiesto per la partecipazione alla
selezione pubblica, il possesso da parte dei candidati al
momento della presentazione della domanda di partecipazione
del diploma di laurea, ma non della abilitazione
all’esercizio della professione (Consiglio di Stato, Sez. V,
03.07.2012, n. 4433).
---------------
Sul punto è
giurisprudenza costante, invero, che i requisiti prescritti
per la partecipazione ad una selezione concorsuale debbano
essere posseduti alla data di scadenza prevista per la
presentazione delle relative domande (Cons. Stato, sez. VI,
04.02.2002 n. 6010)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 10.04.2013 n. 1969 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il giudizio comparativo
tecnico-discrezionale sull’offerta economicamente più
vantaggiosa -caratterizzato dalla complessità delle
discipline specialistiche di riferimento e dall’opinabilità
dell’esito delle valutazioni- sfugge al sindacato del
giudice amministrativo ove non vengano in rilievo indici
sintomatici del non corretto esercizio del potere, sotto il
profilo dell’illogicità manifesta, dell’erroneità dei
presupposti di fatto, dell’incoerenza del procedimento
valutativo.
Secondo un consolidato orientamento (ex multis, Consiglio di
Stato, Sez. V, 01.03.2012, n. 1195; TAR Campania
Napoli, Sez. VIII, 10.01.2013, n. 240; TAR Lazio
Roma, Sez. III, 24.04.2012, n. 3663), dal quale non v’è
motivo di discostarsi, il giudizio comparativo
tecnico-discrezionale sull’offerta economicamente più
vantaggiosa -caratterizzato dalla complessità delle
discipline specialistiche di riferimento e dall’opinabilità
dell’esito delle valutazioni- sfugge al sindacato del
giudice amministrativo ove non vengano in rilievo indici
sintomatici del non corretto esercizio del potere, sotto il
profilo dell’illogicità manifesta, dell’erroneità dei
presupposti di fatto, dell’incoerenza del procedimento
valutativo (TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 03.04.2013 n. 3365 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi degli artt. 2, comma 7, e 3, comma 1, p.
52, del D.L.vo 30.04.1992 n. 285 (codice della strada),
l'assoggettamento ad uso pubblico di una strada privata può
derivare proprio dall’uso pubblico risalente nel tempo.
Ai sensi del richiamato codice della strada, quanto alla
disciplina del traffico su strade di proprietà privata
ricadenti all'interno del centro abitato, queste sono
assoggettate agli ordinari poteri di regolamentazione
assegnati al Sindaco dall'art. 7 D.L.vo n. 285 cit..
Occorre rilevare che le strade di cui è questione,
interessate al disposto temporaneo divieto di sosta
finalizzato alla esecuzione sulle stesse di lavori di
asfaltatura, sono strade private aperte al pubblico
transito. Sono esattamente strade consortili appunto aperte
al pubblico transito, facenti parte del Consorzio stradale
distacchi convenzionati Via Marconi – Comprensorio B,
tuttavia non più operante poiché sciolto in data 01.11.1991.
Del resto, ai sensi degli artt. 2, comma 7, e 3, comma 1, p. 52,
del D.L.vo 30.04.1992 n. 285 (codice della strada),
l'assoggettamento ad uso pubblico di una strada privata può
derivare proprio dall’uso pubblico risalente nel tempo (cfr.
TAR Trento, 13.01.2012 n. 15).
Così come occorre anche ricordare che ai sensi del
richiamato codice della strada, quanto alla disciplina del
traffico su strade di proprietà privata ricadenti
all'interno del centro abitato, queste sono assoggettate
agli ordinari poteri di regolamentazione assegnati al
Sindaco dall'art. 7 D.L.vo n. 285 cit..
Risulta pertanto legittima la determinazione dirigenziale
con cui, attesa propria la fruizione pubblica delle strade,
si è disposto per (soli) tredici giorni il divieto di sosta
per consentire di asfaltare le strade medesime. La chiara ed
inequivoca necessità di tutelare il pubblico interesse alla
sicurezza della circolazione stradale è ragione sufficiente
a reggere la avversata determinazione.
Deve in effetti il Collegio anche rilevare che appare
difficile cogliere nella determinazione avversata contestata
un pregiudizio grave ed irreparabile alla sfera giuridica
dei ricorrenti in ragione del disposto divieto di sosta,
finalizzato a mezzo dei lavori di asfaltatura a migliorare
la circolazione sulle strade interessate e quindi la loro
sicurezza, con beneficio innanzitutto di chi, come i
ricorrenti, maggiormente ne usufruisce (TAR
Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 03.04.2013 n. 3348 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI:
Sul patto di stabilità è competente il TAR Lazio.
Sempre più spesso torna alla ribalta la posizione dei
diversi enti locali che, soggetti alle restrizioni connesse
al cd. patto di stabilità interno, hanno in più occasioni
ipotizzato lo sforamento dei parametri imposti e, come noto,
in alcuni casi, alle intenzioni sono seguiti i fatti,
determinando conseguentemente l’applicazione delle relative
sanzioni previste dalla legge.
Secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che si è
pronunciata con l’ordinanza
02.04.2013 n. 6, le questioni connesse alla violazione
degli obblighi derivanti dal c.d. patto di stabilità pongono
aspetti da un lato riferibili all’ente interessato, ma, più
in generale, assumono un’ampia portata, poiché attengono
anche all’equilibrio della finanza statale.
Per tali ragioni, in caso di impugnazione dei provvedimenti
sanzionatori, sussiste la competenza territoriale
inderogabile del TAR del Lazio, ai sensi dell’art. 13 c.p.a.
Il caso trae spunto dall’impugnazione da parte del Comune di
Messina del provvedimento con il quale sono state irrogate
le sanzioni di cui all’art. 7 del decreto legislativo
06.09.2011, n. relazione alla contestazione degli
inadempimenti agli obblighi di cui al patto di stabilità
relativo all’anno 2011.
In primo grado, innanzi al TAR Catania, il predetto Comune
aveva ottenuto l’accoglimento dell’istanza incidentale di
sospensiva.
La sentenza segnalata scaturisce a seguito del ricorso per
regolamento di competenza ai sensi dell’art. 16 c.p.a., con
il quale i Ministeri dell’Interno e dell’Economia e delle
Finanze hanno opposto, tra l’altro, l’incompetenza del TAR
adito, chiedendo che fosse affermata la competenza
territoriale del TAR del Lazio ai sensi dell’art. 13 c.p.a.,
considerato che “il provvedimento impugnato non può
ritenersi avente efficacia circoscritta al solo territorio
della Regione siciliana, in quanto alla stregua della
normativa vigente alle sanzioni irrogate ai Comuni
inadempienti sub specie di riduzione dei trasferimenti di
risorse erariali consegue, nell’ambito di un più generale
equilibrio della finanza statale, il riconoscimento di
misure premiali ai Comuni "virtuosi", la cui determinazione
è strettamente dipendente dall’entità delle predette
sanzioni”.
Sulla base di tali osservazioni, i Giudici amministrazioni,
in seduta Plenaria, hanno osservato che, se da un lato,
l’irrogazione delle sanzioni ha un’immediata incidenza sulle
finanze del Comune ricorrente, sotto altro profilo, “le
predette sanzioni costituiscono parte di una manovra
finanziaria unitaria, le cui ripercussioni sulla finanza
pubblica statale non possono in alcun modo qualificarsi
quali effetti indiretti non rilevanti ai fini suindicati”.
Inoltre il cd. patto di stabilità interno deriva dagli
impegni che lo Stato italiano ha assunto in sede europea ed
espone comunque il primo a sanzioni sul piano comunitario “indipendentemente
dall’ascrivibilità della violazione stessa alle Regioni o ad
altre articolazioni territoriali interne”.
Infine, è stato evidenziato che “è del tutto evidente che
l’individuazione di un minor importo di risorse finanziarie
da trasferire ai sensi della normativa sul federalismo
fiscale incide direttamente sul complessivo equilibrio
finanziario dello Stato, sotto il profilo della generale
disponibilità di risorse da destinare agli altri obiettivi
della più generale politica economica e finanziaria”
(commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Delibere degli Enti, l'obbligo di astensione non
''equivale'' sempre a reato.
La violazione dell'obbligo di astensione integra l'abuso
d'ufficio solo se determina un vantaggio patrimoniale
ingiusto. Secondo la Cassazione, ai fini dell'integrazione
del reato di abuso di ufficio, anche nel caso di violazione
dell'obbligo di astensione, è necessario che a tale
omissione si aggiunga l'ingiustizia del vantaggio
patrimoniale procurato o del danno arrecato.
L’affermazione è stata resa in una vicenda in cui al sindaco
di un comune era stato contestato di non essersi astenuto
dal partecipare alle sedute del consiglio comunale nel corso
delle quali era stata adottata una deliberazione di variante
al piano regolatore generale con la quale la zona di
proprietà riconducibile a soggetti con i quali questi aveva
avuto rapporti economici [quale perito si era occupato
proprio delle questioni tecniche concernenti i terreni
interessati alla variante] era stata trasformata da area a
destinazione turistico-alberghiera in zona residenziale.
La Corte, pur riconoscendo sussistente l’obbligo di
astensione, ha però evidenziato la carenza di motivazione
sul requisito della “ingiustizia” del vantaggio
derivato dal mutamento di destinazione d’uso dei costruendi
fabbricati, che non poteva basarsi semplicisticamente su un
asserito, generico interesse della collettività a che quella
zona venisse conservata ad una destinazione esclusivamente
di tipo turistico.
Proprio da queste premesse, la Corte ha annullato con rinvio
la sentenza di condanna evidenziando la sommarietà della
motivazione della sentenza di condanna resa in grado di
appello che, riformando quella assolutoria di primo grado
[che aveva escluso che la variante avesse importato la
violazione delle norme oggettive regolanti l’assetto del
territorio] si era limitata a sostenere sussistente il
requisito dell’ingiustizia con l’argomento che la variante
era stata attuata mediante un “ampliamento della zona
residenziale a scapito della zona, ovviamente di interesse
generale, destinata a favorire il turismo”.
E’ di interesse un altro principio pure affermato dalla
Cassazione, con riferimento all’obbligo di astensione del
sindaco che abbia un interesse personale in occasione delle
delibere aventi ad oggetto il piano regolatore cittadino.
Il giudice di legittimità sul punto ha chiarito che il
sindaco non ha il dovere di astenersi dalla delibera di
approvazione del piano regolatore generale, trattandosi di
un atto finale di un procedimento complesso in cui vengono
valutati, ponderati e composti molteplici interessi, sia
individuali che pubblici, sicché il voto espresso dagli
amministratori non riguarda la destinazione della singola
area o la specifica prescrizione, ma il contenuto generale
del provvedimento, cioè l'assetto territoriale nel suo
complesso.
Tale obbligo di astensione sussiste, invece, se il voto
espresso dagli amministratori riguardi la destinazione della
singola area o una specifica prescrizione, come, in
particolare, nell’ipotesi in cui il voto riguardi una
variante al piano regolatore, concernente un’area in
relazione alla quale sia riconoscibile un interesse
personale, anche indiretto, del pubblico amministratore
(commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione
penale, sentenza 27.03.2013 n. 14457 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La conoscenza dell’atto non può essere separata
dalla piena conoscenza della lesività dell’atto e dai
possibili vizi che hanno inficiato l’agere
dell’amministrazione.
Il concetto di "piena conoscenza" —il verificarsi della
quale determina il dies a quo per il computo del termine
decadenziale per la proposizione del ricorso
giurisdizionale— è integrato dalla percezione dell'esistenza
di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne
rendono evidente la lesività della sfera giuridica del
potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile
l'attualità dell'interesse ad agire contro di esso, mentre
la conoscenza "integrale" del provvedimento (o di altri atti
del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e
sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e
quindi sulla causa petendi.
Maggiormente suggestivo è l’argomento speso dalla difesa con la memoria
del 15.01.2013, che riprende numerose pronunce di
questo Consiglio sul tema della “piena conoscenza” dell’atto
amministrativo dal quale decorre il termine per proporre
impugnazione.
Negli ultimi anni, infatti, la giurisprudenza
amministrativa ha mostrato maggiore sensibilità nella
lettura della nozione di conoscenza dell’atto dalla quale
decorre il termine per impugnare, sposando un approccio più
attento alle ragioni del ricorrente, che deve poter essere
in grado di apprezzare l’esercizio del potere
dell’amministrazione e valutare anche le possibilità
dell’esito favorevole del rimedio giurisdizionale.
Tutte le
pronunce richiamate dall’appellante ribadiscono un principio
ormai acquisito dalla giurisprudenza di questo Consiglio: la
conoscenza dell’atto non può essere separata dalla piena
conoscenza della lesività dell’atto e dai possibili vizi che
hanno inficiato l’agere dell’amministrazione (sul tema da
ultimo la rimessione operata all’Adunanza Plenaria da Cons.
St., sez. VI, 11.02.2013, n. 790).
Così, pronunce
anche più recenti di quelle richiamate dall’appellante
chiariscono che: “Il concetto di "piena conoscenza" —il
verificarsi della quale determina il dies a quo per il
computo del termine decadenziale per la proposizione del
ricorso giurisdizionale— è integrato dalla percezione
dell'esistenza di un provvedimento amministrativo e degli
aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera
giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere
percepibile l'attualità dell'interesse ad agire contro di
esso, mentre la conoscenza "integrale" del provvedimento (o
di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del
ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di
impugnazione, e quindi sulla causa petendi” (Cons. St.,
2974/2012) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.03.2013 n. 1829 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Ai sensi dell'art. 21-nonies, comma 2, della l.
n. 241 del 1990, che fa salva la possibilità del ricorso
all’istituto della convalida (in cui è compresa anche la
ratifica) del provvedimento annullabile, sussistendone le
ragioni di interesse pubblico ed entro un termine
ragionevole, l'Amministrazione ha il potere di convalidare o
ratificare un provvedimento viziato.
Del resto, il potere di sanatoria rientra in via di
principio nella potestà di autotutela spettante all'Autorità
amministrativa, senza entrare in contrasto con i principi di
effettività della tutela giurisdizionale dei diritti e degli
interessi legittimi, nella misura in cui costituisce un
implicito riconoscimento dei vizi da cui è affetto il
provvedimento, anticipando la pronuncia del competente
Giudice e nel contempo emendando l'azione amministrativa,
senza attendere la instaurazione del giudizio e la
successiva riedizione conformata del potere amministrativo
all'esito di un giudicato, sempreché ovviamente si tratti di
vizi che lasciano salvo l'eventuale successivo esercizio
della funzione amministrativa.
L’atto di convalida deve tuttavia contenere una motivazione
espressa e persuasiva in merito alla sua natura e in punto
di interesse pubblico alla convalida, essendo insufficiente
la semplice e formale appropriazione da parte dell'organo
competente all'adozione del provvedimento, in assenza
dell'esternazione delle "ragioni di interesse pubblico"
giustificatrici del potere di sostituzione e della
presupposta indicazione, espressa, della illegittimità per
incompetenza in cui sarebbe incorso l’organo che ha adottato
l’atto recepito in via “sanante”.
Pur se non è necessario che l'organo adottante il
provvedimento di convalida debba ripercorrere, con obbligo
di dettagliata motivazione, tutti gli aspetti (e gli atti
del procedimento) relativi al provvedimento convalidato, è
invero quanto meno necessario che emergano chiaramente
dall'atto convalidante le ragioni di interesse pubblico e la
volontà del'organo di assumere tale atto.
Ai sensi dell'art. 21-nonies, comma 2, della l. n. 241 del 1990, che fa
salva la possibilità del ricorso all’istituto della
convalida (in cui è compresa anche la ratifica) del
provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di
interesse pubblico ed entro un termine ragionevole,
l'Amministrazione ha il potere di convalidare o ratificare
un provvedimento viziato.
Del resto, il potere di sanatoria
rientra in via di principio nella potestà di autotutela
spettante all'Autorità amministrativa, senza entrare in
contrasto con i principi di effettività della tutela
giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi,
nella misura in cui costituisce un implicito riconoscimento
dei vizi da cui è affetto il provvedimento, anticipando la
pronuncia del competente Giudice e nel contempo emendando
l'azione amministrativa, senza attendere la instaurazione
del giudizio e la successiva riedizione conformata del
potere amministrativo all'esito di un giudicato, sempreché
ovviamente si tratti di vizi che lasciano salvo l'eventuale
successivo esercizio della funzione amministrativa.
L’atto di convalida deve tuttavia contenere una motivazione
espressa e persuasiva in merito alla sua natura e in punto
di interesse pubblico alla convalida, essendo insufficiente
la semplice e formale appropriazione da parte dell'organo
competente all'adozione del provvedimento, in assenza
dell'esternazione delle "ragioni di interesse pubblico"
giustificatrici del potere di sostituzione e della
presupposta indicazione, espressa, della illegittimità per
incompetenza in cui sarebbe incorso l’organo che ha adottato
l’atto recepito in via “sanante”.
Pur se non è necessario che l'organo adottante il
provvedimento di convalida debba ripercorrere, con obbligo
di dettagliata motivazione, tutti gli aspetti (e gli atti
del procedimento) relativi al provvedimento convalidato, è
invero quanto meno necessario che emergano chiaramente
dall'atto convalidante le ragioni di interesse pubblico e la
volontà del'organo di assumere tale atto (Consiglio di
Stato, sez. IV, 12.05.2011, n. 2863) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.03.2013 n. 1775 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: La
violazione, da parte degli amministratori locali, del
divieto di cui all'art. 78, t.u. 18.08.2000 n. 267,
rivenendo il proprio fondamento di razionalità nel principio
costituzionale di imparzialità dell'Amministrazione, ed
essendo funzionale ad evitare che il consigliere comunale
non si trovi in posizione di assoluta serenità rispetto alle
decisioni di natura discrezionale che è chiamato ad
assumere, vizia di per sé i provvedimenti adottati
dall'organo nel corso della seduta a cui ha partecipato il
soggetto in posizione di incompatibilità, e ciò a
prescindere dalla c.d. prova di resistenza, in quanto la
sola presenza del soggetto incompatibile è da ritenersi
comunque influente sugli orientamenti del consesso e
potenzialmente idonea a incidere negativamente sulla
serenità degli altri consiglieri comunali.
Venendo al merito, sono fondate le censure
con cui si lamenta l’illegittimità delle delibere del
Consiglio Comunale di adozione della variante (nn. 57/95,
46/97 e 18/99), per essere state assunte senza l’astensione
del Consigliere Comunale S.T., che avrebbe invece
dovuto astenersi, in quanto proprietario di un terreno sito
nel Comune (Fg. 9 mapp. 2252).
La violazione, da parte degli amministratori locali, del
divieto di cui all'art. 78, t.u. 18.08.2000 n. 267,
rivenendo il proprio fondamento di razionalità nel principio
costituzionale di imparzialità dell'Amministrazione, ed
essendo funzionale ad evitare che il consigliere comunale
non si trovi in posizione di assoluta serenità rispetto alle
decisioni di natura discrezionale che è chiamato ad
assumere, vizia di per sé i provvedimenti adottati
dall'organo nel corso della seduta a cui ha partecipato il
soggetto in posizione di incompatibilità, e ciò a
prescindere dalla c.d. prova di resistenza, in quanto la
sola presenza del soggetto incompatibile è da ritenersi
comunque influente sugli orientamenti del consesso e
potenzialmente idonea a incidere negativamente sulla
serenità degli altri consiglieri comunali (TAR Umbria,
Sez. I, 07.09.2009 n. 509)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza
21.03.2013 n. 751 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Comune può certamente dettare prescrizioni circa le modalità
tecniche da osservare nella realizzazione delle recinzioni,
nell'ambito della propria potestà pianificatoria, ma non può
precluderne in toto l'edificazione, essendo pertanto
illegittimo un generalizzato divieto di recinzione dei
fondi.
Sono parimenti fondate le censure rivolte avverso gli
artt. 31.3.6 e 32.5.1 delle N.T.A., nella parte in cui
vietano qualsiasi tipo di recinzione delle proprietà nelle
zone agricole E1 ed E2.
Il Comune può certamente dettare prescrizioni circa le
modalità tecniche da osservare nella realizzazione delle
recinzioni, nell'ambito della propria potestà pianificatoria,
ma non può precluderne in toto l'edificazione, essendo
pertanto illegittimo un generalizzato divieto di recinzione
dei fondi (TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 05.02.2008 n.
40), come invece avvenuto nel caso di specie
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza
21.03.2013 n. 751 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gare di appalto, per chi partecipa accesso agli
atti sempre riconosciuto.
Dev’essere accordato l’accesso agli atti di una procedura di
appalto chiesto da una ditta in dichiarata qualità di
soggetto partecipante alla gara, essendo pacifico che chi ha
partecipato a una procedura concorsuale è portatore di un
interesse differenziato da quello della generalità dei
consociati.
Con la
sentenza 21.03.2013 n. 442, il TAR Firenze, Sez.
I, ha affrontato la quaestio relativa alla possibilità per
le partecipanti a una gara di appalto di ottenere l’accesso
agli atti della medesima procedura.
La ricorrente ha contestato l’illegittimità del
provvedimento con cui la stazione appaltante, in violazione
degli artt. 22 e ss., L. n. 241/1990, aveva negato alla
medesima l’accesso agli atti di gara sulla scorta della
considerazione per cui la relativa istanza avrebbe dovuto
essere motivata alla stregua di un interesse concreto e
meritevole di tutela.
Il giudicante ha accolto il gravame, all’uopo statuendo che
la stazione appaltante avrebbe dovuto consentire l’accesso
all’impresa poiché la stessa, avendo partecipato alla
procedura in questione, era titolare di un interesse
giuridicamente differenziato rispetto a quello del
quisque de populo.
Il caso
La deducente ha preso parte a una procedura aperta indetta
da un’azienda pubblica per la fornitura e manutenzione di
due spazzatrici aspiranti idrostatiche.
In seguito all’adozione del provvedimento di esclusione
dalla gara per mancanza dei requisiti tecnici, l’interessata
ha presentato una formale istanza di accesso al fine di
prendere visione dei verbali di gara e della documentazione
amministrativa delle partecipanti alla medesima procedura.
La stazione appaltante, però, ha disposto l’accoglimento
della predetta domanda rispetto al verbale di gara, mentre
ha differito l’accesso alla documentazione amministrativa
delle altre concorrenti.
Disposta medio tempore l’aggiudicazione dell’appalto, la
ricorrente ha provveduto a reiterare la richiesta di accesso
alla documentazione amministrativa: la stazione appaltante,
indi, ha accordato quest’ultima istanza, così fornendo tutta
la documentazione chiesta in ostensione.
Sta di fatto che l’impresa, per mezzo di un’ulteriore
istanza di accesso, ha chiesto anche l’acquisizione della
documentazione tecnica presentata dalle ditte partecipanti
alla selezione.
La società pubblica, avuto riguardo a quest’ultima istanza,
ha negato l’accesso, contestualmente suggerendo
all’interessata la presentazione di una nuova domanda di
accesso debitamente motivata, al fine di “dare
dimostrazione dell’esistenza di un interesse concreto
meritevole di tutela”.
Avverso siffatta determinazione è insorta la ricorrente,
contestando la violazione e falsa applicazione dell’art. 97
Cost., nonché degli artt. 22 e ss., L. n. 241/1990 e
dell’art. 13, D.Lgs. n. 163/2006.
Le norme violate
L’impresa ha eccepito, oltre al resto la violazione degli
artt. 22 e ss., L. n. 241/1990, alla stregua della
considerazione per cui la propria partecipazione al
procedimento selettivo le avrebbe consentito di presentare
l’istanza di accesso ai documenti tecnici offerti dalle
imprese concorrenti, a prescindere dall’impugnabilità del
provvedimento di aggiudicazione.
Orbene, in materia di accesso, si rammenta come l’art. 22
cit., con riferimento all’interesse del soggetto richiedente
l’accesso agli atti, statuisce espressamente che: “Ai
fini del presente del capo si intende: … b) per
"interessati", tutti i soggetti privati, compresi quelli
portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un
interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l'accesso”.
E ancora, con riferimento al diritto di accesso agli atti
delle procedure di affidamento di contratti pubblici, l’art.
13, D.Lgs. n. 163/2006 prevedono che: “Fatta salva la
disciplina prevista dal presente codice per gli appalti
segretati o la cui esecuzione richiede speciali misure di
sicurezza, sono esclusi il diritto di accesso e ogni forma
di divulgazione in relazione: a) alle informazioni fornite
dagli offerenti nell'ambito delle offerte ovvero a
giustificazione delle medesime, che costituiscano, secondo
motivata e comprovata dichiarazione dell'offerente, segreti
tecnici o commerciali; b) a eventuali ulteriori aspetti
riservati delle offerte, da individuarsi in sede di
regolamento” (comma 5); e ancora: “In relazione
all'ipotesi di cui al comma 5, lett. a) e b), è comunque
consentito l'accesso al concorrente che lo chieda in vista
della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione
alla procedura di affidamento del contratto nell'ambito
della quale viene formulata la richiesta di accesso”
(comma 6).
La decisione del TAR
Il Tribunale di Firenze ha condiviso le doglianze formulate
dalla deducente in merito all’illegittimità del gravato
provvedimento di diniego emesso dalla stazione appaltante.
Sul proposito, ha rammentato che, in linea di principio,
l’accesso ai documenti amministrativi si configura come un
diritto soggettivo perfetto da esercitarsi indipendentemente
dal giudizio sull’ammissibilità o fondatezza di un’eventuale
impugnazione dei documenti acquisiti mediante l’accesso.
Di conseguenza, ha precisato che l’inoppugnabilità degli
atti oggetto dell’istanza di ostensione non avrebbe potuto
precludere l’esercizio del suddetto diritto, in quanto
l’interesse presupposto dall’art. 22, L. n. 241/1990 è
nozione diversa e più ampia dell’interesse all’impugnazione
(a partire da Cons. Stato, Sez. VI, 24.11.2000, n. 6246).
Sicché il Collegio ha sottolineato che il rilascio della
documentazione tecnica offerta dalle altre concorrenti era
stato chiesto dalla ricorrente, nella dichiarata qualità di
soggetto partecipante alla gara, al solo fine di prendere
visione dei medesimi documenti.
In ragione di siffatta circostanza, ha ritenuto che non
avrebbe potuto disconoscersi in capo all’impresa interessata
la titolarità del diritto di accesso, atteso che la
medesima, avendo partecipato alla procedura concorsuale, era
portatrice di un interesse differenziato da quello della
generalità dei consociati e, quindi, legittimata a chiedere
copia degli atti prodotti dagli altri concorrenti (in tal
senso, TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 11.02.2002, n. 430).
Alla stregua delle suddette argomentazioni, il G.A. di
Firenze ha accolto il gravame e, per l’effetto, dichiarato
l’obbligo della stazione di provvedere al rilascio delle
copie della documentazione tecnica dei concorrenti, come
chiesta in ostensione dalla deducente.
I precedenti ed i possibili impatti
pratico-operativi
La pronuncia conferma il principio indicato negli arresti
giurisprudenziali susseguitisi sull’argomento, in relazione
alla doverosità per le stazioni appaltanti di consentire
l’accesso agli atti di gara a tutte le imprese partecipanti
che, in quanto tali, risultano essere detentrici di un
interesse qualificato e differenziato da quello della
generalità dei consociati.
Sul punto, è appena il caso di richiamare una recente
pronuncia di Palazzo Spada che ha dichiarato l’illegittimità
del provvedimento con cui una stazione appaltante aveva
disposto il differimento dell’accesso agli atti relativi al
sub procedimento di verifica dell’anomalia delle offerte
presentate dalle imprese partecipanti (Cons. Stato, Sez. IV,
22.05.2012, n. 2974, in Guida al diritto, 2012, 24, 109).
Inoltre, il TAR di Roma ha dichiarato legittimo il
provvedimento di rigetto di una domanda tendente a ottenere
copia degli atti di una gara di appalto, avanzata da una
ditta che, benché non avesse partecipato alla medesima
procedura selettiva, aveva motivato la propria istanza con
riferimento alla volontà di ottenere la rinnovazione della
procedura per la propria partecipazione (TAR Lazio, Roma,
Sez. III-ter, 10.05.2011, n. 4081, in Giur. Merito, 2011, 9,
2282).
E ancora, la Sez. VI del Consiglio di Stato non ha mancato
di evidenziare il rapporto intercorrente tra la disciplina
contemplata nel Codice dei contratti pubblici e la L. n.
241/1990, all’uopo precisando che, ai sensi dell’art. 13,
D.Lgs. n. 163/2006, il carattere segreto delle informazioni
tecniche e commerciali non può inibire l’esibizione della
documentazione di gara non coinvolta da profili di
meritevole segregazione (Cons. Stato, Sez. VI, 30.07.2010,
n. 5062, in Foro amm., 2010, 7-8, 1644).
E pertanto, sulla scorta delle menzionate pronunce, si può
ragionevolmente desumere che la partecipazione a una gara di
appalto costituisce il requisito discriminante mediante il
quale un’impresa, a prescindere da una sottesa volontà
impugnatoria, può legittimamente chiedere l’esibizione dei
documenti offerti dalle altre imprese concorrenti.
Né a differenti conclusioni si giunge avuto riguardo alla
circostanza per cui i documenti potenzialmente oggetto di
accesso possano riguardare documenti afferenti le
caratteristiche tecniche di un’impresa.
Sul punto, infatti, si rileva che l’art. 13, comma 6, D.Lgs.
n. 163/2006 non costituisce una previsione derogatoria di
carattere generale, ma un’ipotesi di speciale deroga da
applicare esclusivamente nei casi in cui l’accesso sia
inibito in ragione della tutela di segreti tecnici o
commerciali, motivatamente evidenziati dalla concorrente in
sede di presentazione della offerta (commento tratto da
www.ispoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sentenza del Consiglio di stato.
P.a., in congedo per fare ricerca.
Il dipendente della pubblica amministrazione può essere
collocato in congedo straordinario per motivi di studio, in
relazione alla frequenza, per l'intera durata di un corso
per conseguire il dottorato di ricerca, purché il corso sia
istituito sul territorio italiano, e pertanto tale ipotesi
non si può estendere ai corsi di dottorato frequentati
all'estero.
Questa è l'interpretazione che il Consiglio di Stato, Sez.
IV, con
sentenza 19.03.2013 n. 1608, ha dato dell'art. 2 della
legge n. 476 del 1984, il quale dispone che «il pubblico
dipendente ammesso ai corsi di dottorato di ricerca è
collocato a domanda, compatibilmente con le esigenze
dell'amministrazione, in congedo straordinario per motivi di
studio senza assegni per il periodo di durata del corso e
usufruisce della borsa di studio ove ricorrano le condizioni
richieste; in caso di ammissioni a corsi di dottorato di
ricerca senza borsa di studio o di rinuncia a questa,
l'interessato in aspettativa conserva il trattamento
economico, previdenziale e di quiescenza in godimento da
parte da parte dell'amministrazione pubblica».
La decisione
del Consiglio di stato, che trova conferma anche in un
precedente (Cons. stato, sez. VI, 02.10.2007 n. 5066), è
del tutto coerente con la normativa dettata dal dpr 11.07.1980 n. 382 in tema di riordino della docenza
universitaria e segnatamente con l'art. 74 disciplinante
«riconoscimenti ed equipollenze», in cui si legge: «Coloro
che abbiano conseguito presso università non italiane il
titolo di dottore di ricerca o analoga qualificazione
accademica possono chiederne il riconoscimento con domanda
diretta al ministero della pubblica istruzione. La domanda
può essere corredata dai titoli attestanti le attività di
ricerca e dai lavori compiuti presso le università non
italiane. L'eventuale riconoscimento è operato con decreto
della pubblica istruzione su conforme parere del Consiglio
universitario nazionale_».
Dunque il titolo di studio conseguito presso università
estere dovrà essere subordinato a un'attività di
intermediazione del ministero dell'istruzione che con
apposita valutazione sarà chiamato a pronunciarsi circa
l'inserimento di tale titolo nel sistema ordinamentale dei
titoli accademici validamente conseguiti in Italia
(articolo ItaliaOggi del 10.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI:
La stazione appaltante deve consentire l'integrazione della
cauzione insufficiente.
La stazione appaltante non può disporre l'esclusione del
concorrente che abbia presentato la cauzione di importo
inferiore a quello richiesto.
Così ha stabilito il Tar
Sicilia nella sentenza in commento. Inoltre il principio di
tassatività delle cause di esclusione, secondo i giudici
amministrativi isolani, si applica anche per gli appalti di
cui all'art. 20, allegato IIB del D.Lgs n. 163 del 2006.
La
disposizione dell'art. 75, D.Lgs n. 163 del 2006, (Codice
dei contratti pubblici), va intesa, alla luce del principio
di tassatività delle cause di esclusione, nel senso che la
stazione appaltante non può disporre l'esclusione del
concorrente che abbia presentato la cauzione di importo
inferiore a quello richiesto, e in applicazione della regola
di cui all'art. 46, c. 1, del Codice dei contratti pubblici,
deve consentire la regolarizzazione degli atti,
tempestivamente depositati, ovvero consentire l'integrazione
della cauzione insufficiente. Il principio di tassatività
delle cause di esclusione così come previsto dall'art. 46,
c. 1-bis, del D.Lgs n. 163 del 2006, aggiunto dall'art. 4,
II c., n. 2, lett. "d" del D.L. n. 70 del 2011, si applica
anche per gli appalti di cui all'art. 20, allegato IIB.
E'
pacificamente riconosciuto in giurisprudenza, infatti, che
la riconducibilità del servizio appaltato all'All. II B non
esonera le amministrazioni aggiudicatrici dall'applicazione
dei principi generali in materia di affidamenti pubblici
desumibili dalla normativa comunitaria e nazionale e, in
particolare dei principi di imparzialità e buon andamento
dell'azione amministrativa di cui all'art. 97 Cost..
E, del
resto, è lo stesso art. 27 del Codice dei contratti pubblici
che, proprio con riferimento alle prestazioni di cui
all'allegato IIB, pone l'obbligo per le Amministrazioni di
disporre siffatti affidamenti rientranti nell'ambito di
applicazione oggettiva del medesimo d.lgs. n. 163 del 2006,
"nel rispetto dei principi di economicità, efficacia,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità" (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR
Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 19.03.2013 n. 647 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
fascia di rispetto cimiteriale risponde, da un lato,
all'esigenza di tutela dell'interesse pubblico all'igiene di
ogni tipo di costruzione destinata alla vita dell'uomo e,
dall'altro, all'esigenza di assicurare decoro ai luoghi di
sepoltura.
Il suddetto vincolo riguarda, pertanto, quelle costruzioni
incompatibili con la funzione cimiteriale, in quanto
destinate ad ospitare stabilmente l’uomo, quali: le
abitazioni, gli alberghi, gli ospedali, le scuole. Tale
vincolo non è quindi suscettibile di un’applicazione
estensiva nei confronti della realizzazione di altri
manufatti privi invece di tale funzione come nel caso, che
qui interessa, delle strade e dei parcheggi.
Questa interpretazione è del resto avvalorata anche dal dato
letterale della disposizione che vieta specificamente la
realizzazione di nuovi “edifici” e non già la realizzazione
di una qualsiasi opera.
Quanto alla asserita violazione della fascia di rispetto
cimiteriale di 200 metri, il Collegio evidenzia che, come
condivisibilmente affermato dalla giurisprudenza
maggioritaria, la fascia di rispetto in questione risponde,
da un lato, all'esigenza di tutela dell'interesse pubblico
all'igiene di ogni tipo di costruzione destinata alla vita
dell'uomo e, dall'altro, all'esigenza di assicurare decoro
ai luoghi di sepoltura.
Il suddetto vincolo riguarda, pertanto, quelle costruzioni
incompatibili con la funzione cimiteriale, in quanto
destinate ad ospitare stabilmente l’uomo, quali: le
abitazioni, gli alberghi, gli ospedali, le scuole. Tale
vincolo non è quindi suscettibile di un’applicazione
estensiva nei confronti della realizzazione di altri
manufatti privi invece di tale funzione come nel caso, che
qui interessa, delle strade e dei parcheggi.
Questa interpretazione è del resto avvalorata anche dal dato
letterale della disposizione che vieta specificamente la
realizzazione di nuovi “edifici” e non già la
realizzazione di una qualsiasi opera (cfr. in termini TAR
Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 26.09.2011 n. 2295)
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 19.03.2013 n. 417 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Impianti tecnologici, gli architetti possono progettarli.
CdS: devono servire da completamento al fabbricato per
rientrare tra le opere di edilizia civile.
La disciplina del regio decreto n. 2537
del 1925, fondamentale nella questione, è stata più volte
vagliata dalla giurisprudenza, la quale ne ha dovuto
sottolineare con maggior dettaglio le fattispecie comprese.
In effetti, la delimitazione delle rispettive competenze è
data da concetti non meglio definiti normativamente di
“applicazioni della fisica” (art. 51) ed “opere di edilizia
civile” (art. 52), e quindi di carattere descrittivo.
La natura di tali elementi, che fanno riferimento a dati
extragiuridici, è implicitamente collegata alla necessità di
adeguare la disciplina all’evoluzione della tecnica e delle
qualificazioni professionali, permettendo così la
sopravvivenza di norme anche risalenti nel tempo ma
flessibili nella loro applicazione in concreto.
Le ragioni appena richiamate inducono la Sezione a valutare
gli apporti recenti, conseguenti alla funzione
interpretativa ed adeguatrice svolta dalla giurisprudenza
nella decisione di casi contermini.
Non può quindi non notarsi che, sempre valorizzando il
discrimine tra le due professioni di architetto e di
ingegnere, la giurisprudenza recente postula una lettura
riduttiva del concetto di applicazione delle leggi della
fisica, sulla ovvia considerazione che, in una lettura
ampia, qualsiasi tipo di manufatto dovrebbe esservi
considerato. Sono quindi esclusivo appannaggio della
professione di ingegnere solo le opere di carattere più
marcatamente tecnico-scientifico (ad esempio le opere di
ingegneria idraulica, di ammodernamento e ampliamento della
rete idrica comunale).
Per altro verso, il secondo polo normativo di riferimento,
ossia il concetto di edilizia civile, viene interpretato
estensivamente, facendovi ricadere le realizzazioni tecniche
anche di carattere accessorio che vengono collegate al
fabbricato mediante l'esecuzione delle necessarie opere
murarie (vedi Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd.,
21.01.2005 n. 9, che, in relazione ad un sistema di
videosorveglianza, ha ritenuto che si verta in un mero
profilo di realizzazione di edilizia civile, dove invece il
concetto di “applicazione della fisica” può rilevare semmai
nella progettazione e realizzazione degli apparati
industriali).
Si tratta di una tendenza interpretativa che la Sezione
ritiene di condividere e fare propria, perché consona ad una
lettura aggiornata e coerente della norma, che privilegi il
momento unitario della costruzione dell’opera di edilizia
civile, senza artificiose frammentazioni, e che tenga conto
sia della trasformazione dei sistemi produttivi che
dell’evoluzione tecnologica anche nelle applicazioni civili.
Nel caso in specie, si può affermare che il concetto di
“opere di edilizia civile” si estenda sicuramente oltre gli
ambiti più specificamente strutturali, fino a ricomprendere
l’intero complesso degli impianti tecnologici a corredo del
fabbricato, e quindi non solo gli impianti idraulici ma
anche quelli di riscaldamento compresi nell’edificazione.
Non è dato quindi cogliere il profilo di razionalità del
provvedimento gravato in primo grado che, di fronte alla
progettazione di un impianto di riscaldamento e quindi di
un’opera accessoria all’edificazione, ritiene che questo,
poiché proposto come impianto collegato ad un edificio già
esistente e non da realizzare, debba essere predisposto da
un ingegnere.
Al contrario, trattandosi di impianto accessorio ad un
edificio, la circostanza che il progetto sia presentato
autonomamente non fa venire meno il collegamento univoco e
funzionale con l’opera di edilizia civile e, quindi,
permette che il progetto stesso sia sottoscritto anche da un
architetto.
Come si è anticipato in narrativa, il fulcro del thema
decidendum consiste nello stabilire l’ampiezza delle
competenze riconosciute –rispettivamente– agli ingegneri e
agli architetti ai sensi del combinato disposto degli
articoli 51 e 52 del regio decreto 23.10.1925, n. 2537 (‘Approvazione
del regolamento per le professioni di ingegnere e di
architetto’).
In particolare, si tratta di stabilire se la previsione di
cui al primo comma dell’articolo 52 (secondo cui “formano
oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di
quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i
rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse
relative”) comporti o meno la competenza degli
architetti in materia di impianti soggetti ad omologazione
ISPESL comunque afferenti ad opere di edilizia civile.
Al quesito deve essere fornita risposta in senso
affermativo.
Come già affermato dalla giurisprudenza di questo Consiglio
(sentenza 31.07.2009, n. 4866), la centralità delle
disposizioni sopra indicate (articoli 51 e 52 del regio
decreto n. 2537 del 1925) è confermata dal fatto che anche
le successive normative in tema di progettazione d’impianti,
ed in particolare la legge 05.03.1990, n. 46 (recante “Norme
per la sicurezza degli impianti”), vigente al momento
dell’emissione del provvedimento gravato, prevede che sia “obbligatoria
la redazione del progetto da parte di professionisti,
iscritti negli albi professionali, nell'ambito delle
rispettive competenze”, facendo in tal modo implicito
rinvio alla disciplina del 1924.
La disciplina del regio decreto n. 2537 del 1925,
fondamentale nella questione, è stata più volte vagliata
dalla giurisprudenza, la quale ne ha dovuto sottolineare con
maggior dettaglio le fattispecie comprese. In effetti, la
delimitazione delle rispettive competenze è data da concetti
non meglio definiti normativamente di “applicazioni della
fisica” (art. 51) ed “opere di edilizia civile”
(art. 52), e quindi di carattere descrittivo. La natura di
tali elementi, che fanno riferimento a dati extragiuridici,
è implicitamente collegata alla necessità di adeguare la
disciplina all’evoluzione della tecnica e delle
qualificazioni professionali, permettendo così la
sopravvivenza di norme anche risalenti nel tempo ma
flessibili nella loro applicazione in concreto.
Le ragioni appena richiamate inducono la Sezione a valutare
gli apporti recenti, conseguenti alla funzione
interpretativa ed adeguatrice svolta dalla giurisprudenza
nella decisione di casi contermini.
Non può quindi non notarsi che, sempre valorizzando il
discrimine tra le due professioni di architetto e di
ingegnere, la giurisprudenza recente postula una lettura
riduttiva del concetto di applicazione delle leggi della
fisica, sulla ovvia considerazione che, in una lettura
ampia, qualsiasi tipo di manufatto dovrebbe esservi
considerato. Sono quindi esclusivo appannaggio della
professione di ingegnere solo le opere di carattere più
marcatamente tecnico-scientifico (ad esempio le opere di
ingegneria idraulica, di ammodernamento e ampliamento della
rete idrica comunale, TAR Campania Napoli, sez. I,
14.08.1998 n. 2751).
Per altro verso, il secondo polo normativo di riferimento,
ossia il concetto di edilizia civile, viene interpretato
estensivamente, facendovi ricadere le realizzazioni tecniche
anche di carattere accessorio che vengono collegate al
fabbricato mediante l'esecuzione delle necessarie opere
murarie (vedi Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd.,
21.01.2005 n. 9, che, in relazione ad un sistema di
videosorveglianza, ha ritenuto che si verta in un mero
profilo di realizzazione di edilizia civile, dove invece il
concetto di “applicazione della fisica” può rilevare
semmai nella progettazione e realizzazione degli apparati
industriali).
Si tratta di una tendenza interpretativa che la Sezione
ritiene di condividere e fare propria, perché consona ad una
lettura aggiornata e coerente della norma, che privilegi il
momento unitario della costruzione dell’opera di edilizia
civile, senza artificiose frammentazioni, e che tenga conto
sia della trasformazione dei sistemi produttivi che
dell’evoluzione tecnologica anche nelle applicazioni civili.
Nel caso in specie, si può affermare che il concetto di “opere
di edilizia civile” si estenda sicuramente oltre gli
ambiti più specificamente strutturali, fino a ricomprendere
l’intero complesso degli impianti tecnologici a corredo del
fabbricato, e quindi non solo gli impianti idraulici ma
anche quelli di riscaldamento compresi nell’edificazione.
Non è dato quindi cogliere il profilo di razionalità del
provvedimento gravato in primo grado che, di fronte alla
progettazione di un impianto di riscaldamento e quindi di
un’opera accessoria all’edificazione, ritiene che questo,
poiché proposto come impianto collegato ad un edificio già
esistente e non da realizzare, debba essere predisposto da
un ingegnere.
Al contrario, trattandosi di impianto accessorio ad un
edificio, la circostanza che il progetto sia presentato
autonomamente non fa venire meno il collegamento univoco e
funzionale con l’opera di edilizia civile e, quindi,
permette che il progetto stesso sia sottoscritto anche da un
architetto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 15.03.2013 n. 1550 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il documento contenuto in un'altra busta non integra
inadempimento del bando di gara.
L’interpretazione delle clausole munite di sanzioni
espulsive va condotta necessariamente alla luce dell’art.
46, c. 1-bis, d.lgs. n. 163 del 2006, che fa riferimento ai
casi “di incertezza assoluta sul contenuto o sulla
provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di
altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità
del plico contenente l'offerta o la domanda di
partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura
dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze
concrete, che sia stato violato il principio di segretezza
delle offerte”.
Poiché, in questa circostanza i plichi erano
integri, completi, sicuramente provenienti e sottoscritti e
non mancava l’atto richiesto. Secondo i giudici del
Consiglio di Stato non è quindi possibile interpretare tale
contesto fuori dal principio di tassatività delle cause
d’esclusione indicate dalla norma.
Più precisamente, nella
pronuncia in commento si contestava la violazione della lex
specialis di una procedura negoziata, in quanto la “domanda
di autorizzazione di commercio all’ingrosso di farmaci”
era stata rinvenuta nella busta della documentazione
amministrativa, e non in quella della documentazione
tecnica, come era invece richiesto dal bando.
Ma secondo i giudici di Palazzo Spada ciò non integra
affatto un inadempimento della legge di gara, perché lo
stesso seggio di gara dava atto che, nella busta della
documentazione tecnica dell’aggiudicataria, era presente il
predetto documento (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza 14.03.2013 n.
1533 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'articolo
338 del testo unico delle leggi sanitarie di cui al R.D. n.
1265/1934 vieta l'edificazione nelle aree ricadenti in fasce
di rispetto cimiteriale dei manufatti che possono
qualificarsi come costruzione edilizie, come tali
incompatibili con la natura dei luoghi e con l'eventuale
espansione del cimitero.
Invero, in materia di vincolo cimiteriale la salvaguardia
del rispetto dei duecento metri prevista dal citato articolo
(o del limite inferiore di cui al d.p.r. numero 285/1990 che
ha previsto la possibilità di riduzione della fascia di
rispetto da 200 mt. a 100 mt.) "si pone alla stregua di un
vincolo assoluto di inedificabilità che non consente in
alcun modo l'allocazione sia di edifici, che di opere
incompatibili col vincolo medesimo, in considerazione dei
molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto
intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di
natura igienico sanitaria, nella salvaguardia della
peculiare sacralità che connota i luoghi destinati
all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento di un'area
di possibile espansione della cinta cimiteriale".
Ritiene il Collegio tuttavia di aderire all’opposto
orientamento giurisprudenziale, di recente confermato,
secondo cui “In sede di condono di opere insistenti su
fascia di rispetto cimiteriale l'Amministrazione è tenuta a
valutare se ed in quale misura l'opera in questione venga
effettivamente a concretizzare una lesione per il vincolo
cimiteriale di inedificabilità e, più in particolare, se le
opere da sanare possano aggravare il peso insediativo
dell'area con la realizzazione di volumi edilizi tali da
considerarsi nuove costruzioni”.
Tale lettura interpretativa si fonda, esattamente, sulle
finalità perseguite dalla normativa di tutela del vincolo
cimiteriale, che sono sostanzialmente tre: garantire la
futura espansione del cimitero; garantire il decoro di un
luogo di culto; assicurare una cintura sanitaria attorno a
luoghi per loro natura insalubri.
In punto di diritto, va ricordato che l'articolo 338 del
testo unico delle leggi sanitarie di cui al R.D. n.
1265/1934, vigente ratione temporis, vieta
l'edificazione nelle aree ricadenti in fasce di rispetto
cimiteriale dei manufatti che possono qualificarsi come
costruzione edilizie, come tali incompatibili con la natura
dei luoghi e con l'eventuale espansione del cimitero.
Non sfugge al Collegio che, secondo cospicuo orientamento
giurisprudenziale, in materia di vincolo cimiteriale la
salvaguardia del rispetto dei duecento metri prevista dal
citato articolo (o del limite inferiore di cui al d.p.r.
numero 285/1990 che ha previsto la possibilità di riduzione
della fascia di rispetto da 200 mt. a 100 mt.) "si pone
alla stregua di un vincolo assoluto di inedificabilità che
non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, che
di opere incompatibili col vincolo medesimo, in
considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale
fascia di rispetto intende tutelare e che possono enuclearsi
nelle esigenze di natura igienico sanitaria, nella
salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento
di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale"
(ex multis C.d.S., V, 14.09.2010, n. 6671; C.d.S., IV
12.03.2007, n. 1185, C.d.S., V, 12.11.1999, n. 1871; C.d.S.,
II, parere 28.02.1996, n. 3031/95; TAR Sicilia, Palermo, III,
18.01.2012, n. 77; TAR Campania, Napoli, IV, 29.11.2007, n.
15615; Tar Lombardia-Milano, 11.07.1997, n. 1253; Tar
Toscana, I, 29.09.1994, n. 471).
Ritiene il Collegio tuttavia di aderire all’opposto
orientamento giurisprudenziale, di recente confermato,
secondo cui “In sede di condono di opere insistenti su
fascia di rispetto cimiteriale l'Amministrazione è tenuta a
valutare se ed in quale misura l'opera in questione venga
effettivamente a concretizzare una lesione per il vincolo
cimiteriale di inedificabilità e, più in particolare, se le
opere da sanare possano aggravare il peso insediativo
dell'area con la realizzazione di volumi edilizi tali da
considerarsi nuove costruzioni” (cfr. TAR Genova Liguria
sez. I, 20.06.2008, n. 1388).
Tale lettura interpretativa si fonda, esattamente, sulle
finalità perseguite dalla normativa di tutela del vincolo
cimiteriale, che sono sostanzialmente tre: garantire la
futura espansione del cimitero; garantire il decoro di un
luogo di culto; assicurare una cintura sanitaria attorno a
luoghi per loro natura insalubri (cfr. TAR Liguria, 1^,
25.03.2004 n. 290; id., 09.07.1998 n. 373; id., 06.11.1995
n. 320; da ultimo Cons. Stato, V, 03.05.2007 n. 1933)
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 06.03.2013 n. 128 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze tra camini, violazione di regolamenti
comunali: è molestia possessoria.
Con
l'interessante
sentenza 06.03.2013
il TRIBUNALE di Taranto è intervenuto in materia di distanze
tra camini risolvendo la questione proposta.
Nel caso di specie, alcuni condomini di uno stabile
lamentavano l’illiceità di una sezione di sfiato, di forma
circolare, della cappa situata all’interno di un locale a
piano terra dello stabile; cappa destinata ad aspirare verso
l’esterno le esalazioni provenienti dalla cottura di cibi
per la ristorazione d’asporto. Tale infatti era l’utilizzo
del locale concesso per permettere la gestione di una
pizzeria da asporto.
Gli attori, proprietari degli appartamenti vicini al locale,
lamentavano, sotto il profilo della manutenzione del
possesso ex art. 1170 cod. civ. la violazione delle distanze
prescritte dalla disciplina regolamentare applicabile in
materia. Inoltre, gli stessi chiedevano una tutela in forma
specifica per neutralizzare la fonte del pregiudizio
lamentato in quanto le esalazioni proveniente dal
locale–pizzeria pregiudicavano in ogni caso la salute ovvero
il godimento sereno dell’abitazione. Si noti che l’esercizio
dell’azione avveniva sia nella forma del ricorso per
denuncia di nuova opera e di danno temuto sia in termini di
ricorso d’urgenza ex art. 669-bis, avuto riguardo alla
tutela obbligatoria ex art. 2043 c.c.
Il giudice, nel dirimere la questione, afferma che quando la
proprietà individuale viene in conflitto con la presenza di
canne fumarie –o con l’equiparabile ventola di sfiato di
esalazioni provenienti da cucina– il legislatore ha inteso
risolvere il tema con la regola generale di cui all’art. 890
del cod. civ., in base al quale è imposto che i camini ed
opere simili a confine della proprietà devono rispettare le
distanze prescritte dai regolamenti ed, in mancanza, quelle
necessarie a preservare i fondi vicini da ogni danno alla
solidità, salubrità e sicurezza. Grazie a questa norma –si
legge nella sentenza– la proprietà risulta conformata nel
suo contenuto, nel senso che i camini ed opere similari,
come in questo caso lo sfiato di areazione di cucina
commerciale, devono trovarsi alle prescritte distanze.
Conseguentemente la violazione delle prescrizioni
regolamentari sulle distanze comporta una lesione petitoria
e quindi, ricorrendone i presupposti anche soggettivi, una
lesione al possesso. Questa forma di pregiudizio comporterà,
alla fonte di formazione secondaria contenuta nell’art. 890
cod. civ. In buona sostanza, secondo i giudici di merito, i
ricorrenti hanno agito correttamente ex art. 1170 cod. civ.,
dal momento che il mancato rispetto delle prescrizioni
regolamentari tipizzate nel posizionamento di camini ed
opere simili può integrare una molestia possessoria.
Infine, secondo il Tribunale, in caso di condotta che viola
le prescrizioni regolamentari sulle distanze non è
necessario accertare la ricorrenza in concreto della
nocività per il vicino delle esalazioni; infatti imponendo
la norma applicabile una certa distanza o una certa
conformazione dell’impianto di areazione, quando si tratta
di edificio condominiale, è il legislatore che ha già
operato la valutazione di pericolosità. Rebus sic stanti
bus, è evidente come la realizzazione dello sfiato a
servizio dell’impianto di aerazione della pizzeria viola in
primo luogo la prescrizione che impone che l’esalazione sia
convogliata in canne ed in modo che trovino sicuro sfogo con
apposito comignolo al di là del tetto; in secondo luogo
quella sulla distanza minima di metri 2,5.
Da qui l’accoglimento della domanda in ordine alla
eliminazione della sezione finale di sfiato della cappa a
servizio del locale commerciale, situato al piano terra (TRIBUNALE
di Taranto, Sez. II civile,
sentenza 06.03.2013 -
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EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso di ufficio nel reato urbanistico -
Configurabilità - Presupposti - Giurisprudenza.
Il rilascio di un titolo abilitativo edilizio per la
realizzazione di un immobile la cui edificazione non è
consentita determina inequivocabilmente un vantaggio
patrimoniale ingiusto nei confronti del privato che lo
ottiene e che, in forza del titolo indebitamente conseguito,
costruisce un manufatto il quale, oltre ad incrementare il
valore dell'area ove insiste, ha un valore intrinseco e può
essere successivamente alienato, locato o destinato comunque
ad utilizzazioni economicamente vantaggiose (si veda anche
Cass. Sez. VI n. 35856, 18/09/2008, fattispecie in tema di
rilascio di concessione edilizia in sanatoria per opere
realizzate in zona inedificabile. Cass. Sez. VI n. 44999,
07/12/2005 relativa al rilascio di una concessione edilizia
in violazione del piano regolatore che avrebbe favorito il
proprietario di un suolo limitrofo a quello del
denunciante).
Reato di abuso d'ufficio - Violazione
della normativa legale in materia urbanistica - Ingiusto
vantaggio patrimoniale - Qualificazione - Art. 323 cod. pen..
Pur non potendosi qualificare gli strumenti urbanistici come
norme di legge o di regolamento, la loro violazione
rappresenta solo il presupposto di fatto della violazione
della normativa legale in materia urbanistica alla quale si
deve fare riferimento quale elemento strutturale del reato
di abuso d'ufficio (giurisprudenza consolidata Cass. Sez. VI
n. 46503, 03/12/2009; Sez. VI n. 11620, 20/03/2007; Sez. VI
n. 16241, 20/04/2001; Sez. VI n. 9422, 05/09/2000; Sez. VI n.
6247, 29/05/2000; Sez. VI n. 13794, 01/12/1999; Sez. VI n.
12221, 26/10/1999).
Un ulteriore aspetto è quello concernente la individuazione
del requisito dell'ingiustizia del danno e del vantaggio, in
assenza del quale il reato di cui all'art. 323 cod. pen. non
sarebbe sussistente. Precisando che, costituisce ingiusto
vantaggio patrimoniale anche il semplice incremento di
valore commerciale dell'immobile (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.03.2013 n. 10248 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Intervento edilizio in presenza di permesso
illegittimo - Effetti.
Deve ritenersi sostanzialmente inesistente il titolo
abilitativo emesso da soggetto totalmente privo del potere
di emanarlo o frutto di attività criminosa del funzionario
che lo rilascia o del privato che lo consegue.
Punto fermo è, dunque, che il reato di esecuzione di lavori
edilizi in assenza di permesso di costruire può ravvisarsi
anche in presenza di un titolo edilizia illegittimo (Cass.
Sez. III n. 21487, 21/06/2006) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.03.2013 n. 10248 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Aree e costruzioni destinate a parcheggio - Legge
Tognoli (L. 24/03/1989, n. 122) - Applicazione e limiti -
Giurisprudenza.
La legge 24.03.1989, n. 122, riguarda esclusivamente aree e
costruzioni destinate a parcheggio, con esclusione di
qualsiasi altra destinazione incompatibile con il vincolo
pubblicistico di natura funzionale introdotto dalla stessa
legge (Cons. Stato, sez. V n. 2609, 24/04/2009).
Nello specifico, la legge 24.03.1989, n. 122 (c.d. Legge
Tognoli) riguarda i parcheggi a servizio di edifici già
esistenti e stabilisce, nell'art. 9, comma 1, che detti
parcheggi, costruiti dai proprietari degli immobili, possono
essere realizzati nel sottosuolo, ovvero nei locali siti al
piano terreno dei fabbricati anche in deroga agli strumenti
urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti; possono
essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel
sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato,
purché non in contrasto con i piani urbani del traffico,
tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e
compatibilmente con la tutela dei corpi idrici; devono
essere destinati a pertinenza dei fabbricati; non possono
essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla
quale sono legati da vincolo pertinenziale. I relativi atti
di cessione sono nulli. Vengono fatte salve le disposizioni
paesaggistiche ed ambientali.
Escludendo, nella specie, l'applicazione delle disposizioni
in esame per la realizzazione, unitamente ad un garage
interrato, di un insieme ulteriore di opere ad esso
accessorie finalizzate ad una nuova sistemazione degli
accessi all'edificio residenziale: terrazza con pensilina e
scala di collegamento (Cass. Sez. III n. 28840, 11/07/2008),
per parcheggi realizzati in superficie (Cass. Sez. III n.
23730, 08/06/2009; Sez. III n. 38841, 23/11/2006; Sez. III
n. 37013, 15/10/2001) e per parcheggi costruiti con
interramenti ottenuti per effetto del riporto di terra
(Cass. Sez. III n. 26825 20/06/2003).
A conclusioni identiche è ripetutamente pervenuta anche la
giurisprudenza amministrativa (v. ad es., Cons. Stato sez.
IV n. 4645, 26/09/2008; Consiglio di Stato Sez. V n. 1608,
29/03/2006; Cons. Stato Sez. V n. 1662 29/03/2004) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.03.2013 n. 10248 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Ordine giudiziale di demolizione - Natura -
Autonoma funzione ripristinatoria - Art. 31 d.P.R. 380/2001
- Art. 445, c. 2, cod. proc. pen..
La diversa natura dell'ordine di demolizione previsto
dall'art. 31 d.P.R. 380/2001 è stata da tempo delineata,
trattandosi della medesima disposizione già contenuta
nell'art. 7 della legge n. 47 del 1985, riconoscendo piena
continuità normativa (Cass. Sez. III n. 32211, 31/07/2003).
Inoltre, l'ordine giudiziale di demolizione ha natura di
sanzione amministrativa di tipo ablatorio, che costituisce
esplicitazione di un potere sanzionatorio autonomo e non
residuale o sostitutivo rispetto a quello dell'autorità
amministrativa, assolvendo ad una autonoma funzione
ripristinatoria del bene giuridico leso (Cass. Sez. III n.
37120, 13/10/2005).
Per cui esso non è inscrivibile nel novero delle pene
accessorie, tassativamente previste, e per tale ragione la
demolizione ordinata dal giudice resta esclusa
dall'applicabilità del beneficio della sospensione
condizionale della pena (Cass. Sez. III n. 34297,
11/09/2007; Sez. III n. 36555, 04/11/2002), non è ricompresa
nel divieto della «reformatio in peius» e resta
eseguibile, qualora sia stata impartita con la sentenza di
applicazione della pena su richiesta, anche nel caso di
estinzione del reato conseguente al decorso del termine di
cui all'art. 445, comma 2, cod. proc. pen. (Cass. Sez. III
n. 18533, 11/05/2011; Sez. III n. 16552, 23/04/2001).
Conformità alla legge ed agli strumenti
urbanistici - Accertamento del giudice penale - Poteri e
limiti.
Il potere del giudice penale di accertare la conformità alla
legge ed agli strumenti urbanistici di una costruzione
edilizia trova un limite nei provvedimenti giurisdizionali
del giudice amministrativo passati in giudicato che abbiano
espressamente affermato la legittimità della concessione o
della autorizzazione edilizia ed il conseguente diritto del
cittadino alla realizzazione dell'opera (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.03.2013 n. 10248 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Varianti essenziali - Individuazioni - Diverso e
autonomo permesso di costruire - Necessità - Interventi
subordinati a denuncia di inizio attività - Art. 22 d.P.R.
n.380/01.
In materia urbanistica, sono da qualificarsi "varianti
essenziali" quelle che si distaccano dalla progettazione
originaria in modo radicale sia sotto il profilo qualitativo
che quantitativo e si risolvono nella realizzazione di
un'opera completamente diversa da quella assentita (Cass.
Sez. III n. 24236, 24/06/2010).
Esse non sono specificamente disciplinate e presuppongono,
per la loro realizzazione, un diverso e autonomo permesso di
costruire, mentre le varianti al permesso di costruire sono
contemplate dall'art. 22 del d.P.R. n. 380/2001 e sono
soggette a determinate condizioni: non devono incidere sui
parametri urbanistici (indici di edificabilità, rapporti di
copertura, superfici fondiarie etc.), tra i quali vanno
ricomprese anche le distanze tra gli edifici (Sez. III n.
9922, 05/03/2009) e sulle volumetrie; non devono modificare
la destinazione d'uso e la categoria edilizia, quest'ultima
sostanzialmente corrispondente con la categoria catastale e
non devono alterare la sagoma dell'edificio e violare le
eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.03.2013 n. 10248 -
link a www.ambientediritto.it). |
VARI:
Invio di fax pubblicitario senza consenso? C’è il
danno morale.
Il TRIBUNALE di Brescia, Sez. I civile, con la
sentenza 04.03.2013 riprende una tematica molto
delicata, che da tempo viene affrontata nelle aule
giudiziarie, anche se con maggiore frequenza avuto
riferimento all’uso illegittimo della posta elettronica
(spamming) più che all’uso del fax, come nel caso di specie.
In entrambi i casi, comunque, ci troviamo di fronte a dei
sistemi automatizzati che rientrano nell’ambito di
applicazione dell’art. 130 del Codice per la protezione dei
dati personali.
Nel caso di specie l’attrice chiede la condanna della
società di telefonia Wind Telecomunicazioni S.p.a. al
risarcimento del danno patrimoniale e morale conseguente
all’illecito trattamento dei propri dati personali in
quanto, nonostante l’espressa richiesta di cessazione, la
società ha continuato ad inviare a mezzo fax materiale
pubblicitario all’utenza del suo studio professionale.
Il giudice considera convincenti le ragioni dell’attrice
rigettando la “debole” difesa, per la verità, della
convenuta che, al di là di eccezioni di carattere
procedurale, sostiene nel merito che la parte attrice aveva
espressamente autorizzato l’invio di materiale commerciale
con riguardo ad una vecchia linea residenziale poi cessata,
per cui tale autorizzazione doveva ritenersi estesa anche
alla linea per cui è stata intentata causa, ai sensi
dell’articolo 130, punto 4, del decreto legislativo
196/2003.
In realtà, come giustamente sostenuto dal tribunale, l’art.
130 del codice per la protezione dei dati personali sostiene
che l'uso di sistemi automatizzati di chiamata o di
comunicazione di chiamata senza l'intervento di un operatore
per l'invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta
o per il compimento di ricerche di mercato o di
comunicazione commerciale è ammesso con il consenso del
contraente o utente che tra l’altro può sempre revocare tale
consenso. Nel caso di specie, poi , inequivocabile è la
raccomandata della parte attrice con la quale si diffidava
formalmente la convenuta dall’invio di materiale
pubblicitario a mezzo fax. Tale circostanza rende, quindi,
inutile il ricorso al comma 4 dell’art. 130 da parte della
convenuta.
Alla luce di tali considerazioni il tribunale condanna la
wind al risarcimento, oltre che del danno patrimoniale,
anche del danno morale ai sensi dell’art. 15 del Codice
privacy e dell’art. 1226 c.c., in considerazione del
particolare patimento e disagio conseguente al continuo
invio di fax da parte di Wind anche successivamente alla
diffida e persino in corso di causa. Danno che viene
quantificato in 5000,00 euro comprensivi del danno emergente
costituito dal costo del toner e della carta.
Si ricorda che l’art. 15 del codice prende spunto dall’art.
23 della Direttiva 95/46/CE il quale sancisce che “Gli
Stati membri dispongono che chiunque subisca un danno
cagionato da un trattamento illecito o da qualsiasi altro
atto incompatibile con le disposizioni nazionali di
attuazione della presente direttiva abbia il diritto di
ottenere il risarcimento del pregiudizio subito dal
responsabile del trattamento”. Inoltre specifica al 2°
comma che “il responsabile del trattamento può essere
esonerato in tutto o in parte da tale responsabilità se
prova che l’evento dannoso non gli è imputabile”.
In base a quanto prescritto dall'art. 15 chi ritiene di
essere stato leso a seguito dell'attività di trattamento dei
dati personali che lo riguardano può ottenere il
risarcimento dei danni senza dover provare la "colpa"
del titolare che ha trattato i suoi dati. Resta ovviamente a
carico dell'interessato l'onere di provare eventuali danni
derivanti dal trattamento dei dati.
Tanto in sede comunitaria quanto in quella nazionale, è
stato ben chiaro che i rischi maggiori sono connessi all’uso
“tecnologico” dei dati, ma, valutato che l’angolo
visuale è, in ultima analisi, il valore della riservatezza e
dei diritti della personalità, è prevalsa la posizione che
la tutela della privacy debba estendersi a tutte le specie
di dati personali.
Il 2° comma di dell’art. 15 apre, poi, la strada al
riconoscimento del danno non patrimoniale che come ben
sappiamo viene diversamente inteso in dottrina. Difatti
secondo taluni essa viene a coincidere con la sofferenza
psico-fisica del soggetto e meglio vi si attaglia la
definizione di danno morale (SCOGNAMIGLIO), ma non manca chi
tende a circoscrivere nell’area del danno morale i
pregiudizi non suscettibili di valutazione economica
mediante criteri obiettivi (BUSNELLI). Non bisogna
dimenticare, inoltre, un altro indirizzo dottrinale che
determina, in negativo, la figura del danno non
patrimoniale, facendola coincidere con una serie di fenomeni
eterogenei accomunati dalla non patrimonialità
dell’interesse leso o dalla non valutabilità in denaro della
lesione (DE CUPIS).
È plausibile, comunque, affermare che tale disposizione
finisce per contenere una sorta di principio di “indemnisation
integrale del danno non patrimoniale da trattamento dei dati
personali”. Invero, è difficile scorgere una fattispecie
che resti fuori dalla previsione dell’art. 11 e, dunque, non
rilevi, ai fini riparatori, come violazione di detto
articolo (link a www.altalex.com). |
APPALTI SERVIZI:
Il Comune può gestire in economia il servizio delle lampade
votive.
Il tribunale amministrativo di Latina, nella sentenza in
commento, si pronuncia sulla possibilità per
l'amministrazione comunale di gestire in economia il
servizio delle lampade votive all'interno del cimitero
comunale.
È legittimo, ad avviso dei giudici
amministrativi laziali, il provvedimento con cui la giunta
municipale, revocando la precedente deliberazione recante la
dichiarazione di pubblico interesse di un progetto
presentato da un terzo nominato promotore, ha deciso di
gestire direttamente il servizio delle lampade votive
all'interno del cimitero comunale.
La disciplina normativa consente, infatti, alle
amministrazioni pubbliche la gestione in economia (diretta o
con cottimo fiduciario) "a condizione di ottenere
conseguenti economie di gestione" (art. 6-bis, d. lg.
30.03.2001 n. 165) e, "qualora ne ricorrano le condizioni"
ai sensi dell'art. 125, d. lg. 12.04.2006 n. 163. Sebbene,
spiegano gli stessi giudici, dal quadro normativo
complessivo, emerga la netta preferenza del legislatore per
l'esternalizzazione dei servizi pubblici, tuttavia, non può
non riconoscersi anche una -seppur limitata -possibilità,
per l'ente pubblico, di gestione in economia di detti
servizi.
Infatti, nonostante tutta la normativa in materia è
finalizzata alla regolamentazione della concorrenza, essa
non ha alcuna incidenza in ipotesi in cui l'ente pubblico
decida, a monte e nei limiti in cui detta discrezionalità è
riconosciuta dall'ordinamento, di gestire da sé medesimo il
servizio pubblico.
Né può in radice escludersi detta possibilità in capo
all'amministrazione, posto che il principio della
concorrenza, a cui è ispirata la disciplina sui servizi
pubblici, non può prevalere sui principi di efficienza ed
economicità e buon andamento dell'attività amministrativa,
laddove una ragionevole valutazione induca a ritenere
preferibili soluzioni interne all'amministrazione
interessata e dunque non competitive (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - TAR Lazio-Latina,
sentenza 28.02.2013 n. 207
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Viene meno il principio della eccezionalità del modello in
house.
I giudici del Consiglio di Stato hanno sancito con la
pronuncia in commento che a seguito dell'abrogazione
referendaria dell'art. 23-bis d.l. n. 112/2008, è venuto
meno il principio della eccezionalità del modello in house
per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza
economica.
Stante l'abrogazione referendaria dell'art.
23-bis d.l. n. 112/2008 e la declaratoria di
incostituzionalità dell'art. 4, d.l. n. 138/2011, e le
ragioni del quesito referendario (lasciare maggiore scelta
agli enti locali sulle forme di gestione dei servizi
pubblici locali, anche mediante internalizzazione e società
in house) è venuto meno il principio, con tali
disposizioni perseguito, della eccezionalità del modello in
house per la gestione dei servizi pubblici locali di
rilevanza economica.
Venuto meno l'art. 23-bis d.l. n. 112/2008 per scelta
referendaria, e dunque venuto meno il criterio prioritario
dell'affidamento sul mercato dei servizi pubblici locali di
rilevanza economica e l'assoluta eccezionalità del modello
in house, la scelta dell'ente locale sulle modalità di
organizzazione dei servizi pubblici locali, e in particolare
la opzione tra modello in house e ricorso al mercato, deve
basarsi sui consueti parametri di esercizio delle scelte
discrezionali, vale a dire:
- valutazione comparativa di tutti gli interessi pubblici e
privati coinvolti;
- individuazione del modello più efficiente ed economico;
- adeguata istruttoria e motivazione.
Trattandosi di scelta discrezionale, la stessa è sindacabile
se appaia priva di istruttoria e motivazione, viziata da
travisamento dei fatti, palesemente illogica o irrazionale
(commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 11.02.2013 n. 762 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: CONCESSIONE IN SANATORIA ED ESTINZIONE DEI REATI
ANTISISMICI.
Le violazioni della normativa antisismica, da cui non
discende
danno urbanistico, avendo finalità diverse rispetto
allo sviluppo e all’assetto del territorio, non sono
estinte dalla concessione in sanatoria.
Il tema oggetto di esame da parte della Suprema Corte nella
sentenza in esame è quello dell’esatta delimitazione
dell’ambito
applicativo, a fini estintivi, della concessione edilizia
in sanatoria, ossia se la stessa si applichi o meno a
violazioni
diverse da quelle urbanistiche.
La vicenda processuale
vedeva imputato del reato di cui al D.P.R. n. 380 del
2001 (artt. 93, 94, 95) il proprietario di un immobile, cui
era
stato addebitato di aver eseguito un manufatto senza darne
avviso al genio civile, senza la preventiva autorizzazione
scritta di tale ufficio e senza la presentazione dei calcoli
di
stabilità. Contro la sentenza di condanna proponeva
ricorso
per cassazione la difesa dell’imputato, sostenendo, per
quanto di interesse in questa sede, con un primo motivo,
che il giudice di legittimità avrebbe dovuto pronunciare
sentenza di annullamento senza rinvio per intervenuta
estinzione del reato (durante il giudizio di primo grado
l’imputata
aveva, infatti, presentato istanza di sanatoria che
era evasa dall’Assessorato Infrastrutture e Mobilità -
Ufficio
Genio Civile della Regione soltanto dopo l’emissione della
sentenza).
Tesi, questa, che è stata rigettata dalla Cassazione che,
sul
punto, ha ricordato come la sanatoria edilizia prevista
dalla L.
28.02.1985, n. 47 (art. 13), oggi contemplata dal
D.P.R. n. 380 del 2001 (art. 36), è una fattispecie penale
estintiva che trova applicazione ai soli reati edilizi,
basandosi
sull’accertamento dell’inesistenza di danno urbanistico
mediante
la verifica della doppia conformità agli strumenti
urbanistici
vigenti, sia al momento del rilascio della concessione
in sanatoria, sia al momento della realizzazione dell’opera;
nel caso di specie, però, essendo state contestate
violazioni
della normativa antisismica, da cui non discende danno
urbanistico,
in quanto le stesse hanno finalità diverse rispetto allo
sviluppo e all’assetto del territorio, per tale diversa
natura,
non sono estinte dalla concessione in sanatoria (Cass. pen.,
sez. III, 21.05.2008, n. 20275, in Ced. Cass., n. 239871,
che ritiene invece il condono operante -atteso il richiamo
espresso operato dall’art. 38 all’art. 20 L. n. 64 del 1974- anche
ai reati relativi a violazioni di disposizioni in materia di
costruzioni
in zona sismica) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.02.2013 n. 5984
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 4/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
MANCANZA DEL PIANO PARTICOLAREGGIATO ED ESISTENZA
DI OPERE DI URBANIZZAZIONE.
L’approvazione di interventi destinati a creare nuovi
insediamenti
in una zona per la quale il PRG subordina
l’attività edificatoria all’adozione di Piani
Particolareggiati
ovvero di Piani di Lottizzazione Convenzionati, in
assenza dei prescritti strumenti attuativi, rende
necessaria,
ai fini della legittimità dell’intervento, la prova
rigorosa
della preesistenza e sufficienza delle opere di
urbanizzazione
primaria, tali da rendere del tutto superfluo
lo strumento attuativo.
Tema ricorrente nella giurisprudenza di legittimità della
Corte
di Cassazione quello afferente la configurabilità di
un’ipotesi
di lottizzazione abusiva ove gli interventi edilizi siano
eseguiti
in zone parzialmente urbanizzate.
La vicenda processuale
vedeva
indagato il legale rappresentante di una s.p.a., nei cui
confronti era stato emesso un decreto di sequestro
preventivo
avente ad oggetto un complesso immobiliare in corso di
realizzazione, ritenuto frutto di attività lottizzatoria
illecita. In
sede di riesame, il decreto veniva annullato dal Tribunale,
ritenendo
che il decreto di sequestro si fondasse sugli accertamenti
espletati dalla polizia giudiziaria in relazione ad
interventi
di ristrutturazione edilizia e cambio di destinazione d’uso
di
un ex complesso industriale, assentiti con un permesso di
costruire ed una DIA; l’area ricadeva in zona D1 del PRG e
l’art. 32 NTA prevedeva la possibilità di realizzare
edifici destinati
a uffici pubblici e privati, locali commerciali, alberghi
autorimesse, previa redazione di un piano particolareggiato
o
di lottizzazione convenzionata.
Secondo i giudici di merito,
la
formale mancanza del piano particolareggiato non era
sufficiente
a configurare il fumus del reato di cui al D.P.R. n. 380
del 2001 (art. 44), in quanto secondo la giurisprudenza
amministrativa
e della Corte di Cassazione, la necessità dello strumento
attuativo si verifica soltanto per le aree assolutamente
inedificate o parzialmente edificate, e la valutazione del
grado
di urbanizzazione compete alla p.a.: la situazione di fatto
dell’area
e la natura dell’intervento, invece giustificava pienamente
l’attestazione di conformità dell’intervento all’art. 32
delle NTA del PRG, sicché era da escludersi che vi fosse
stata
una violazione sostanziale delle norme che impongono
l’adozione
del piano attuativo, per cui i titoli rilasciati non
potevano
ritenersi illegittimi, né vi era stato alcun accertamento
tecnico idoneo a confutare il giudizio di conformità
espresso
dall’Autorità amministrativa.
Contro l’ordinanza del
tribunale
del riesame proponeva ricorso per cassazione il P.M.,
sostenendo
che l’intervento in questione, volto a trasformare un
preesistente tessuto urbano (zona industriale imperniata su
un ex pastificio) in una zona destinata a centri direzionali
e attività
commerciali (con negozi, uffici, depositi), non si inseriva
in un quadro già urbanizzato, tanto che erano previsti nel
progetto
nuovi standards urbanistici per integrare quelli
preesistenti
(parcheggi, aree di verde); in definitiva, la mancanza
del piano attuativo aveva consentito di fatto al privato di
sostituirsi
alla p.a. nelle scelte pianificatorie, con conseguente
configurabilità dell’illecito lottizzatorio.
La Corte ha ritenuto fondato il ricorso della pubblica
accusa,
disponendo pertanto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza
davanti al Tribunale del riesame. In particolare, la Corte,
rilevava
che l’intervento eseguito, di carattere palesemente
lottizzatorio,
richiedeva un piano particolareggiato e/o di lottizzazione
convenzionata, come, del resto, previsto dall’art. 32
delle NTA del PRG. Premesso ciò in fatto, ha ritenuto la
Cassazione
che, nel caso di specie, era necessario un piano di
attuazione o di edilizia convenzionata in quanto richiesto
espressamente dal PRG, di talché -seguendo quanto
rigorosamente
affermato anche dalla giurisprudenza amministrativa- non può che ribadirsi come l’esonero dal piano di
lottizzazione
previsto in un piano regolatore generale può avvenire
riguardo ai casi assimilabili a quello del ‘‘lotto
intercluso’’,
nel quale nessuno spazio si rinviene per un’ulteriore
pianificazione,
mentre detto esonero è precluso in caso di zone
solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di
compromissione
di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può
ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il
disordine
edificativo in atto (Cons. Stato, sez. V, 18.12.2003, n. 7799, in Foro Amm. CdS, 2003, 3742; sostanzialmente
conf., sez. VI, 03.11.2003, n. 6833).
Inoltre, è
stato altresì reiteratamente affermato dalla giurisprudenza
amministrativa che l’approvazione del piano di
lottizzazione,
a differenza del permesso di costruire, non è atto dovuto,
pur se conforme al piano regolatore generale, ma costituisce
sempre espressione di potere discrezionale dell’autorità
chiamata a valutare l’opportunità di dare attuazione alle
previsioni
dello strumento urbanistico generale (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 02.03.2004, n. 957; Cons. Stato, sez. IV, 02.03.2001, n. 1181).
Ed allora, conclude la Corte, appare
indubbio
che l’approvazione di interventi destinati a creare
nuovi insediamenti in una zona per la quale il PRG,
subordina
l’attività edificatoria all’adozione di Piani
Particolareggiati
ovvero di Piani di Lottizzazione Convenzionati, in assenza
dei
prescritti strumenti attuativi, rende necessaria, ai fini
della legittimità
dell’intervento, la prova rigorosa della preesistenza
e sufficienza delle opere di urbanizzazione primaria, tali
da
rendere del tutto superfluo lo strumento attuativo (v., in
termini:
Cass. pen., sez. III, 19.09.2008, n. 35880, in
Ced Cass., n. 241031) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.02.2013 n. 5870
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 4/2013). |
EDILIZIA PRIVATA: TAMPONATURE LATERALI INSUFFICIENTI PER L’ULTIMAZIONE
DELL’EDIFICIO.
La realizzazione al rustico del manufatto, rilevante ai fini
dell’assoggettabilità temporale dello stesso al condono,
comporta il necessario completamento della copertura
e il tamponamento dei muri perimetrali.
La questione oggetto di attenzione da parte della Suprema
Corte verte, nel caso in esame, sulla individuazione dei
requisiti
minimi in presenza dei quali un’opera edilizia può
considerarsi
‘‘ultimata’’ e, dunque, suscettibile di essere condonata.
La vicenda processuale segue alla condanna inflitta dai
giudici di merito al proprietario di un immobile per il
reato di
cui al D.P.R. n. 445 del 2000 (art. 76) in relazione
all’art. 483
c.p., cui era stato addebitato di avere falsamente
attestato,
in una dichiarazione inoltrata per ottenere il rilascio di
un titolo
in sanatoria, l’ultimazione di fabbricato prima della data
del 31.03.2003. Contro la sentenza di condanna proponeva
ricorso per cassazione l’imputato, sostenendo che, per
ultimazione
dell’opera, doveva intendersi, ai fini del condono,
non la posa in opera del solaio di copertura bensì la sua
tamponatura.
La tesi è stata ritenuta infondata dai giudici di legittimità che
hanno respinto il ricorso.
In particolare, hanno osservato i Supremi Giudici, la
nozione
di ultimazione dell’opera, cui fare riferimento ai fini
dell’applicabilità
della disciplina del condono edilizio, coincide con
l’esecuzione
del rustico ed il completamento della copertura
(per tutte, da ultimo: Cass. pen., sez. III, 24.02.2009,
n. 8064, in Ced. Cass., n. 242740). Infatti, ha precisato la
Corte,
la L. n. 47 del 1985 (art. 31, comma 2) cui rinvia la L. n.
326 del 2003 (art. 32, comma 25), prevede che si intendono
come ultimati «gli edifici nei quali sia stato eseguito il
rustico
e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne
agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla
residenza,
quando esse siano state completate funzionalmente»; tale
disposizione di favore, secondo la Corte, non può trovare
applicazione al di fuori del limitato ambito di operatività
assegnatole
dal legislatore con riferimento al condono, tant’è che
la stessa è stata costantemente interpretata dalla
giurisprudenza
nel senso che la realizzazione al rustico del manufatto
comporta che la copertura deve essere completata e i muri
perimetrali debbono essere tamponati, donde non costituisce
completamento della costruzione al rustico la semplice
realizzazione delle strutture portanti in cemento armato,
senza
le tamponature laterali (v., tra le altre: Cass. pen., sez.
III,
18.07.2011, n. 28233, in Ced. Cass., n. 250658).
Ed
allora,
proprio il richiamo a tale consolidata giurisprudenza rende
evidente che, nella fattispecie, le opere non potevano
considerarsi
ultimate al rustico, posto che, nella specie, era stata
predisposta la mera armatura in ferro per la successiva posa
in opera del solaio di copertura (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.02.2013 n. 5494
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 4/2013). |
EDILIZIA PRIVATA: DISCIPLINA URBANISTICA E DEROGABILITA' DELLE NORME
IN TEMA DI DISTANZE.
Le disposizioni in tema di distanze debbono considerarsi
non derogabili dalla disciplina urbanistica, sicché il
permesso di costruire rilasciato senza che siano stati
rispettati
tali limiti comporta la illegittimità dell’atto
amministrativo;
ne consegue che l’ente competente può
procedere in via di autotutela qualora ravvisi l’esistenza
di detta illegittimità.
La Corte Suprema si sofferma con la sentenza in esame su
un tema che si pone nella sottile linea di confine tra la
disciplina
amministrativa e quella penale, riguardante segnatamente
l’esercizio del potere di autotutela dell’amministrazione
in presenza di atto amministrativo illegittimo.
La vicenda
processuale vedeva imputato il proprietario e direttore dei
lavori
nonché l’esecutore degli stessi, ritenuti responsabili del
reato previsto dall’art. 44, lett. b), del D.P.R. n. 547/1955;
in particolare
agli imputati era stato addebitato di avere proseguito,
nonostante l’ordine di sospensione dei lavori di
ristrutturazione
ed elevazione, la realizzazione di un solaio di circa
mq. 140 situato al terzo livello di un immobile urbano. In
sede
di merito, gli imputati erano stati condannati, nonostante
le censure sollevate in appello, ed incentrate
essenzialmente
sulla illegittimità dell’ordine di sospensione dei lavori,
a
fronte di un previo rilascio di permesso di costruire, e
dunque
di lavori legittimamente avviati.
Secondo i giudici di
appello
l’ordine di sospensione era legittimo, e anzi doveroso,
in quanto rispettoso del D.M. 02.04.1968, n. 1444 (art.
9)
in tema di distanze tra edifici, che il permesso di
costruire
non aveva invece preso in considerazione così autorizzando opere non conformi alla disciplina primaria. Contro la
sentenza
di condanna proponevano ricorso per Cassazione gli imputati,
sostenendo -per quanto di interesse con riferimento
allo specifico profilo- che la Corte di appello avrebbe
omesso
di considerare che il permesso di costruire non era stato
revocato e che l’ordinanza di sospensione dei lavori è
illegittima
se non preceduta da un provvedimento che in sede di
autotutela intervenga sull’atto autorizzatorio: posto che il
D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 è disposizione che ha come
destinatari i soli enti territoriali e non i privati, non
può sostenersi
per la difesa che il permesso di costruire fosse
illegittimo.
La testi ha convinto i giudici della Suprema Corte che
hanno,
sul punto, annullato con rinvio la decisione. In
particolare, ha
osservato la Cassazione, le disposizioni in tema di distanze
debbono considerarsi non derogabili dalla disciplina
urbanistica
e il permesso di costruire rilasciato senza che siano
stati rispettati tali limiti comporta la illegittimità
dell’atto amministrativo
(v. Cass. pen., sez. III, 16.03.2012, n. 10431,
in Ced. Cass., n. 252247): ciò comporta, per la Corte, la
conseguenza
di ordine generale che l’ente competente può procedere
in via di autotutela qualora ravvisi l’esistenza di detta
illegittimità.
Venendo al contenuto della decisione
impugnata,
la Corte rileva che la sentenza d’appello è caduta in
errore
quando omette di rilevare che il provvedimento
amministrativo
opera un rinvio alla natura sismica del suolo. Tale rinvio
potrebbe risultare coerente, secondo la Cassazione, qualora
l’ordine di sospensione fosse stato emanato in ragione
della tutela sismica; al contrario, il provvedimento che
dispone
la sospensione dei lavori venne emesso per motivi attinenti
il rispetto delle distanze legali tra edifici, e non può
certamente
essere invocata la natura sismica del suolo come
motivazione che ne prolunga gli effetti oltre il termine
fissato
dalla legge. Da qui, dunque, la necessità dell’annullamento (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.02.2013 n. 5487
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 4/2013). |
EDILIZIA PRIVATA: LA DOPPIA CONFORMITA` QUALIFICA LA ‘‘VERA’’
SANATORIA EDILIZIA.
Per il rilascio della sanatoria ex D.P.R.
06.06.2001, n.
380 (art. 36) è necessario che l’intervento sia «conforme
alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al
momento
della realizzazione dello stesso, sia al momento
della presentazione della domanda», ciò connettendosi
ad un’attività vincolata della p.a., consistente
nell’applicazione alla fattispecie concreta di previsioni
legislative
ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica,
che non lasciano all’Amministrazione medesima spazi
per valutazioni di ordine discrezionale.
Questione ricorrente e, proprio per questo, frutto di
tentativi
di interpretazione spesso contrario alla ratio normativa,
quella
oggetto di esame da parte della Suprema Corte nella sentenza
in commento, in cui la Corte si sofferma ad analizzare
il tema della configurabilità della sanatoria edilizia.
La
vicenda
processuale vedeva imputati due soggetti per avere
realizzato,
in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, in assenza
del prescritto permesso di costruire, le strutture in legno
di
uno stabilimento balneare; la Corte aveva escluso la
‘‘precarietà’’ dei manufatti e, per quanto qui di interesse, aveva
affermato
che il reato non poteva ritenersi estinto in seguito
all’avvenuto rilascio, da parte del Comune, di permesso di
costruire, non potendo assimilarsi tale titolo edilizio a
quello
previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36.
Avverso tale
sentenza proponeva ricorso il difensore degli imputati, il
quale
-per quanto qui di interesse- eccepiva l’erroneo
disconoscimento
di efficacia sanante al permesso di costruire rilasciato
dal Comune, in quanto era pacifica la ‘‘doppia conformità’’ delle opere agli strumenti urbanistici vigenti, sia
all’epoca
della loro realizzazione sia a quella di rilascio del
provvedimento,
secondo le previsioni del D.P.R. n. 380 del 2001,
art. 36.
La Corte, nel respingere il ricorso, coglie l’occasione per
precisare
le condizioni ed i requisiti in base ai quali può
considerarsi
‘‘sanante’’ il rilascio del permesso di costruire agli
effetti
dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001.
In particolare, osserva
la Corte, nella fattispecie in esame, il provvedimento
rilasciato
dal Comune:
a) non conteneva alcun riferimento
all’indispensabile
verifica di ‘‘doppia conformità’’ alle previsioni di
piano;
b) non recava la menzione espressa dell’avvenuto
versamento della somma di danaro dovuta a titolo di
oblazione
(che neppure risulta determinata e richiesta).
Da qui,
dunque,
la conclusione che il titolo edilizio rilasciato dal Comune
non comportava l’estinzione del reato urbanistico, non
essendo
applicabile il D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (art. 45),
difettandone
i presupposti (in precedenza, sulla possibilità per
il giudice, in tali casi, di disapplicare la concessione
illegittima
ex art. 5 della L. 20.03.1865 n. 2248, all. E): Cass.
pen., sez. III, 20.05.2005, n. 19236, in Ced Cass., n.
231834) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.01.2013 n. 4131
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 4/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
MEZZI MOBILI DI PERNOTTAMENTO E NUOVE COSTRUZIONI.
Rientra nella nozione di ‘‘nuova costruzione’’
l’installazione
di manufatti non qualificabili come mezzi autonomi
di pernottamento, trasportabili dal turista per via
ordinaria
e senza ricorrere a trasporto eccezionale, non
potendo gli stessi rientrare in quella di ‘‘mezzi mobili di
pernottamento’’ di cui alla L. 23.07.2009, n. 99 (art.
3,
comma 9), la cui caratteristica precipua va individuata
nella naturale destinazione ad offrire all’utilizzatore la
possibilità di abbinare la facilità di spostamento con la
costante disponibilità di un alloggio nel quale anche
pernottare.
Altra decisione della Corte sul tema della presunta natura
‘‘libera’’
dell’intervento edilizio, stavolta, però, applicata con
riferimento
al regime di favore previsto dalla disciplina fissata
dalla regione Sardegna.
La vicenda processuale vedeva
imputato
il proprietario di un’area di numerosi reati, tra cui, per
quanto qui di interesse, il D.P.R. n. 380 del 2001 (art. 44,
lett. c) per avere realizzato una lottizzazione abusiva a
scopo
edificatorio di un appezzamento di terreno di circa 2.700
mq., effettuando in esso opere di urbanizzazione primaria
(reti idrica, elettrica e fognaria) e collocandovi n. 27
unità abitative
prefabbricate nonché del D.P.R. n. 380 del 2001 (art.
44, lett. c), per avere realizzato le opere anzidette in
assenza
della prescritta concessione edilizia.
L’imputato era
rappresentante
legale di una società cooperativa che aveva assunto
la gestione di un campeggio, sito in zona ‘‘F’’ (turistica)
del piano urbanistico generale del Comune, regolarmente
autorizzato ma di fatto abbandonato; nel corso di un
sopralluogo,
personale del Corpo Forestale aveva rilevato l’intervenuta
installazione, nell’area del campeggio, di una serie di
‘‘case mobili’’, in mancanza di concessione edilizia e di
autorizzazione
dell’Ufficio Tutela del Paesaggio.
Si trattava di manufatti
di mt. 8,50 circa di lunghezza, larghi ed alti circa mt.
2,90, attrezzati con servizi igienici, muniti di ruote e di
un sistema
di aggancio per il traino ma privi di targhe e di luci di
posizione, sicché non potevano circolare su strada e a tale
circolazione non erano omologati; essi erano stati collegati
ai
servizi già esistenti nel campeggio (rete idrica, fognaria
ed
elettrica) attraverso la nuova plurima realizzazione di
tubature
in PVC e pozzetti interrati. I manufatti erano stati
stabilizzati
poggiandoli su basamenti di cemento, in modo da lasciare
sollevate le ruote, e ad essi erano state addossate verande
di legno oppure pavimentazioni di mattonelle autobloccanti.
Contro la sentenza di condanna, proponeva ricorso per
cassazione
l’imputato, il quale eccepiva l’insussistenza della
lottizzazione
abusiva, pure a fronte delle disposizioni introdotte
dalla L. 08.11.2011, n. 21 (art. 20) della Regione
Sardegna,
modificative della disciplina già posta dalla L.R. 14.05.1984, n. 22 (art. 4-bis); in secondo luogo, sosteneva
la piena legittimità dell’insediamento libero (attuato
cioè in
assenza di titolo abilitativo edilizio) delle case mobili
nell’area
destinata a campeggio, essendo le stesse dotate di
meccanismi
di rotazione funzionanti, prive di alcun collegamento di
natura permanente al suolo e con allacciamenti agli impianti
rimovibili in ogni momento.
La tesi, pur suggestiva, è stata respinta dalla Cassazione
che, dopo aver richiamato la normativa statale (D.P.R. n.
380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. e), n. 5); L. 23.07.2009, n. 99, art. 3, comma 9), e regionale (L.R. Sardegna 14.05.1984, n. 22, art. 5, comma 3, e art. 6, comma 4-bis;
L.R. Sardegna 07.08.2009, n. 3, art. 5, comma 6; L.R.
Sardegna 08.11.2011, n. 21, art. 20) applicabile, ha
osservato come, per effetto della legislazione della Regione
a statuto speciale, non costituiscono attività rilevante a
fini urbanistici, edilizi e paesaggistici, gli allestimenti
mobili
di pernottamento che presentino i seguenti requisiti:
a)
conservino i meccanismi di rotazione in funzione;
b) non
posseggano alcun collegamento di natura permanente al
terreno e gli allacciamenti alle reti tecnologiche;
c) gli
accessori
e le pertinenze siano rimovibili in ogni momento.
La sospetta incostituzionalità della disciplina regionale,
è
stata però legittimamente considerata irrilevante, a fronte
degli elementi fattuali che caratterizzavano in concreto la
vicenda in esame, allorché si consideri che:
a) gli
allestimenti
abitativi installati non potevano ad evidenza ritenersi
diretti a soddisfare esigenze di carattere turistico
meramente
temporanee;
b) i meccanismi di rotazione dei quali i
manufatti erano dotati, non erano destinati ad assicurare
un normale e naturale spostamento di essi al di fuori del
campeggio per l’inadeguatezza strutturale al viaggio su
strada;
c) era stato realizzato un collegamento permanente
al suolo mediante la stabilizzazione su basamenti di cemento
e la realizzazione di pertinenze (verande ed accessi
pavimentati) peculiari a ciascuna singola installazione e
non
precarie;
d) carattere di stabilità presentavano gli
allacciamenti
alle reti tecnologiche, la cui rimozione avrebbe dovuto
comportare lavori di scavo e smantellamento delle opere
di collegamento del singolo manufatto anche alle reti
periferiche
interrate. Da qui, dunque, non solo la configurabilità
dell’illecito lottizzatorio, ma anche del connesso reato
edilizio, necessitando tali strutture di permesso di
costruire (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.01.2013 n. 4129
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 4/2013). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Furto in condominio agevolato da ponteggi: chi ne
risponde?
La sentenza in commento si pone sulla scia di quello che può
essere considerato un orientamento giurisprudenziale unanime
e ormai consolidato in tema di responsabilità dell’impresa
appaltatrice e del condominio nell’ipotesi di furto
consumato da persone introdottesi in un appartamento
attraverso i ponteggi installati per i lavori di
restauro/manutenzione dello stabile.
Tale pronuncia si differenzia da quelle emesse fino a questo
momento per la particolarità del caso concreto e per la
conclusione a cui è giunta la Corte d’Appello.
Nel caso de quo, per la prima volta, la Corte
d’Appello, sulla base di un’analisi delle circostanze
fattuali condivisa anche dal Supremo Collegio, ha dato
rilievo ad elementi mai considerati prima d’ora, per quanto
normativamente previsti quale causa di esonero di
responsabilità.
Trattasi del comportamento colposo del condomino vittima del
furto consistente, nel caso de quo, sia nella mancata
adozione di cautele nella conservazione dei gioielli poi
rubati, circostanza che secondo i giudici avrebbe agevolato,
o comunque non evitato, la commissione del furto, sia
soprattutto nell’aver aderito alla delibera con la quale il
condominio decideva di non installare sui ponteggi
l’impianto antifurto perché ritenuto troppo costoso.
Quest’ultimo elemento, in particolare, è stato ritenuto
prevalente e determinante ai fini della decisione, con
conseguente esclusione di ogni responsabilità, non solo in
capo all’impresa esecutrice dei lavori, ma anche del
condominio.
Quest’ultimo, proprio in ragione della decisione assunta,
avrebbe potuto essere considerato l’unico responsabile del
furto, responsabilità che, ai sensi dell’art. 1227 c.c.,
sarebbe stata diminuita in ragione del comportamento colposo
del condomino che non conservava adeguatamente i propri
valori.
All’impresa esecutrice dei lavori invece, essendosi limitata
ad eseguire un ordine impartitegli dal
condominio–committente, non poteva comunque essere imputato
alcun profilo di responsabilità.
Invece, nel caso specifico, l’adesione del condomino alla
delibera condominiale ha finito per annullare la
responsabilità del condominio in quanto il condomino,
aderendo alla decisione del condominio di non installare sui
ponteggi alcun impianto antifurto, si era assunto il rischio
di poter subire un furto.
Brevemente il fatto.
L’attore esponeva di aver subito nella propria abitazione un
furto, assumendo che l’esecuzione dello stesso fosse stata
agevolata dalla presenza di un ponteggio posto sulla
facciata condominiale dall’impresa incaricata di eseguire i
lavori.
Convenne pertanto in giudizio sia il condominio sia
l’impresa appaltatrice, invocandone la responsabilità,
rispettivamente, ai sensi dell’art. 2051 e dell’art. 2043, e
chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni
subiti.
Il Tribunale adito, applicati gli artt. 2043 e 2051,
accoglieva la domanda attorea.
Proposto appello da parte del condominio e dell’impresa, la
Corte d’Appello di Milano, in totale riforma della sentenza
di primo grado, respingeva le domande proposte nei confronti
degli appellanti.
Proponeva quindi ricorso in Cassazione l’attore in primo
grado.
Il Supremo Collegio confermava in toto la decisione resa in
secondo grado.
Vediamo ora gli orientamenti giurisprudenziali registrati in
materia.
Tradizionalmente la giurisprudenza sia di
merito sia di legittimità individua, nell’impresa
appaltatrice, il soggetto responsabile in via principale ai
sensi dell’art. 2043 c.c. e, nel condominio, il soggetto
responsabile in via concorrente ai sensi dell’art. 2051 c.c.
Ovviamente, la responsabilità sia dell’impresa appaltatrice
sia del condominio nei confronti del condomino è di tipo
extracontrattuale, non essendo quest’ultimo parte del
contratto di appalto stipulato direttamente tra il
condominio e l’impresa esecutrice.
In particolare, la responsabilità dell’impresa appaltatrice
è ravvisata qualora quest’ultima, trascurando le più
elementari norme di diligenza e perizia e la doverosa
adozione delle cautele idonee ad impedire l’uso anomalo
delle impalcature, in violazione del principio del “neminen
laedere”, abbia colposamente creato un agevole accesso
ai ladri, ponendo così in essere le condizioni del
verificarsi del danno
(cfr. ex multis: Appello Roma, Sez. III, 11.01.2011;
Trib. Torino, Sez. IV, 23.07.2008; Cass. Civ., Sez. III,
23.05.2006, n. 12111; Cass. Civ., Sez. III, 12.04.2006, n.
8630; Cass. Civ., Sez. III, 11.02.2005, n. 2844; Cass. Civ.
Sez. III, 10.06.1998, n. 5775; Cass., civ., Sez. III,
23.05.1991, n. 5840; Cass., civ., Sez. III, 24.01.1979, n.
539).
Dal punto di vista processuale, il
condomino che agisce per ottenere il risarcimento dei danni
subiti in conseguenza di un furto deve dimostrare:
• l’evento dannoso, ovvero il furto subito e i danni
conseguenti;
• la condotta colposa del danneggiante, consistente, ad
esempio nella mancata adozione di idonee misure di cautela o
nell’installazione di un sistema non conforme alle
prescrizioni contrattuali;
• il nesso di causalità tra l’evento dannoso e la condotta
colposa.
Dal canto suo, l’impresa appaltatrice, per
andare esente da responsabilità, deve fornire la prova di
avere adottato tutte le cautele atte ad evitare che le
impalcature divengano un agevole accesso ai piani per i
ladri, e quindi idonee ad impedire una più facile esecuzione
dei furti, nonché l’eventuale prova che i ladri non si siano
serviti dei ponteggi per accedere all’appartamento del
condomino vittima del furto.
Il condominio può essere, invece, chiamato
a rispondere del danno patito dal condomino secondo un
duplice titolo di responsabilità, ovvero sia quale custode
del fabbricato ai sensi dell’art. 2051 c.c., sia per
culpa in vigilando od in eligendo, allorché
risulti che abbia omesso di sorvegliare l’operato
dell’impresa appaltatrice oppure ne abbia scelta una
manifestamente inadeguata per l’esecuzione dell’opera,
oppure quando risulti che l’impresa sia stata una semplice
esecutrice degli ordini del committente ed abbia agito quale
“nudus minister” attuandone specifiche direttive
(cfr., ex multis: Trib. Terni, 11.05.2011; Cass.
Civ., Sez. III, 17.03.2009, n. 6435; Trib. Milano, Sez. X,
20.04.2006; Cass. Civ., 09.02.1980, n. 913).
Trattandosi di responsabilità di tipo oggettivo, l’onere
probatorio a carico del condominio risulta in tal caso più
gravoso.
Il condomino, infatti, dovrà limitarsi a fornire la prova
del fatto e del danno subito, mentre il condominio si
libererà solo fornendo prova del caso fortuito, inteso in
senso lato e comprensivo, quindi, del fatto del terzo e
della colpa esclusiva del danneggiato.
Tradizionalmente, per riconoscere al
condomino il diritto al risarcimento dei danni conseguenti
al furto subito, i giudici, sia di merito sia di
legittimità, hanno ritenuto sufficiente la dimostrazione
dell’ingresso dei ladri nell’appartamento per mezzo dei
ponteggi, della presenza dei ponteggi e dell’assenza di
norme di cautela, ritenendo per contro irrilevanti eventuali
comportamenti colposi realizzati dagli stessi condomini
vittime di furti quali, ad esempio, l’aver lasciato aperte
le finestre attraverso le quali erano penetrati i ladri,
oppure l’aver lasciato incustoditi i beni di valore
sottratti (Corte
di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 28.01.2013 n. 1890 -
link a www.altalex.com). |
APPALTI: Legittima la revoca dell'aggiudicazione per indisponibilità
delle risorse finanziarie.
E' legittima la revoca dell'aggiudicazione disposta per
indisponibilità delle risorse finanziarie: lo ha ribadito il
CGARS nella
sentenza 25.01.2013 n. 47.
Secondo un
consolidato indirizzo giurisprudenziale in materia di
appalti pubblici, che i giudici amministrativi siciliani
condividono, anche dopo l'intervento dell'aggiudicazione
definitiva (nel caso di specie, solo provvisoria), non è
precluso all'amministrazione appaltante di revocare
l'aggiudicazione stessa, in presenza di un interesse
pubblico individuato in concreto, del quale occorre dare
atto nella motivazione del provvedimento di autotutela.
Sono
elementi sufficienti per considerare adeguatamente motivato
il provvedimento (specie ove si consideri che il
procedimento era giunto alla fase dell'aggiudicazione
provvisoria e non ancora a quella dell'aggiudicazione
definitiva) il riferimento all'indisponibilità delle
relative somme in bilancio e alla necessità di assicurare il
rispetto delle previsioni del bilancio e del patto di
stabilità (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it
-
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
TRASFERIBILITA' DEI PARCHEGGI CONDOMINIALI.
L’art. 41-sexies della legge urbanistica 17.08.1942 n.
1150, introdotto dall’art. 18 della L. 06.08.1967 n.
765, il quale dispone che nelle nuove costruzioni debbono
essere riservati appositi spazi per parcheggi, stabilisce
un vincolo di destinazione, imponendo di riservare
detti spazi ad uso diretto dei proprietari delle unità
immobiliari
comprese nell’edificio, e dei loro aventi causa.
Pertanto, sono nulle e sostituite ope legis dalla norma
imperativa, ai sensi dell’art. 1419, comma 2, c.c., le
clausole
dei contratti di vendita che sottraggono le aree predette
al loro obbligatorio asservimento all’uso ed al godimento
dei condomini.
L’art. 12, comma 9, della L. 28.11.2005 n. 246,
modificativo
dell’art. 41-sexies della L. n. 1150/1942, in base
al quale gli spazi per parcheggio possono essere trasferiti
in modo autonomo rispetto alle altre unità immobiliari,
non ha efficacia retroattiva e trova applicazione per
le sole costruzioni non realizzate o per quelle per le
quali,
al momento della sua entrata in vigore, non erano ancora
state stipulate le vendite delle singole unità immobiliari.
Con la sentenza in esame la Cassazione torna ad occuparsi
del vincolo pertinenziale gravante sugli spazi per parcheggi
realizzati in un edificio condominiale.
La vicenda trae origine dalla pretesa avanzata da alcuni
condomini
di un edificio, con area seminterrata destinata a superficie
di parcheggio, nei confronti di una società immobiliare,
la quale si era riservata la proprietà nonché l’uso
esclusivo
del seminterrato in questione, procedendo alla vendita
delle singole unità abitative dell’edificio in via separata
rispetto
all’area accessoria di esso.
Accertato che il seminterrato era, in virtù della
rilasciata licenza
edilizia, destinato all’uso di parcheggio e che tale
destinazione
risultava permanente ai sensi della L. 06.08.1967, n. 765 e della L. 28.02.1985, n. 47, la
controversia
veniva decisa nel merito mediante la condanna della società
immobiliare al risarcimento dei danni subiti dai condomini
per il denegato uso del seminterrato a garage e mediante
la dichiarazione di nullità delle clausole contenute nel
regolamento di condominio e negli atti di compravendita,
nella parte in cui, riservando la proprietà e l’uso
esclusivo
del seminterrato alla società immobiliare, avevano
sottratto
tale spazio alla sua inderogabile destinazione, escludendolo
dalle operazioni di trasferimento.
Contro la decisione della Corte d’Appello la società
immobiliare
proponeva ricorso per Cassazione.
In particolare la società lamentava, per quanto qui di
interesse,
la mancata applicazione, al caso di specie, della normativa
di cui all’art. 12, comma 9, L. 28.11.2005, n. 246,
in base alla quale «gli spazi per parcheggi realizzati in
forza
della L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-sexies, comma 1
non sono gravati da vincoli pertinenziali di sorta né da
diritti
d’uso a favore dei proprietari di altre unità immobiliari e
sono
trasferibili autonomamente da esse», ritenendo che tale
disciplina
possa trovare applicazione anche nei giudizi già pendenti
al momento dell’entrata in vigore della stessa, in cui
non sia ancora stata definita una situazione giuridica con
una
pronuncia passata in giudicato.
E'
noto come, secondo un costante orientamento, l’art.
41-sexies
della L. n. 1150/1942, introdotto dall’art. 18 della L. n.
765/1967, disponendo che nelle nuove costruzioni ed anche
nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse debbano
essere
riservati appositi spazi per parcheggi in misura non
inferiore
ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di
costruzione
(rapporto poi modificato dalla L. 24.03.1989, n.
122, che ha raddoppiato la superficie minima obbligatoria
degli
spazi riservati a parcheggio), ha posto in essere una norma
imperativa ed inderogabile, in correlazione degli interessi
pubblicistici da essa perseguiti, che opera non soltanto nel
rapporto fra il costruttore o proprietario di edificio e l’autorità
competente in materia urbanistica, ma anche nei rapporti
privatistici
inerenti a detti spazi, nel senso di imporre la loro
destinazione
ad uso diretto delle persone che stabilmente occupano
le costruzioni o ad esse abitualmente accedono.
Ciò
comporta, in ipotesi di fabbricato condominiale, che,
qualora
il godimento dello spazio per parcheggio non sia assicurato
in favore del proprietario del singolo appartamento in
applicazione
dei principi sull’utilizzazione delle parti comuni
dell’edificio
o delle sue pertinenze, essendovi un titolo contrattuale
che attribuisca ad altri la proprietà dello spazio
medesimo,
deve affermarsi la nullità di tale contratto nella parte in
cui
sottrae lo spazio per parcheggio alla suddetta inderogabile
destinazione, e conseguentemente deve ritenersi il contratto
stesso integrato ope legis con il riconoscimento di un
diritto
reale di uso di quello spazio in favore di detto condomino,
salva restando la possibilità delle parti di ottenere,
anche giudizialmente,
un riequilibrio del sinallagma contrattuale (così,
ad esempio, Cass., Sez. Un., 17.12.1984, n. 6602).
Tale orientamento non è mutato per effetto della entrata in
vigore della L. 28.02.1985 n. 47, che, all’art. 26
ultimo
comma ha stabilito che gli ‘‘spazi’’ di cui all’art. 18 cit.
«costituiscono
pertinenze delle costruzioni, ai sensi e per gli effetti
degli artt. 817, 818 e 819 del codice civile». Secondo la
Suprema Corte, tale disposizione «non ha portata innovativa,
assolvendo soltanto alla funzione di conferire certezza
testuale
alle già evincibili regole secondo cui detti spazi possono
essere oggetto di atti o rapporti separati, fermo però
restando
quel vincolo pubblicistico» (Cass. civ., sez. II, 17.12.1993, n. 12495).
In definitiva, pertanto, secondo l’orientamento consolidato
«la norma richiamata istituisce fra costruzioni e spazi di
parcheggio
ad esse progettualmente annessi una relazione che
ha connotazione di necessità e di indispensabile
permanenza,
di rilievo pubblicistico e con caratteristiche di realità,
che,
nell’ipotesi in cui la costruzione sia costituita da un
fabbricato
in condominio comporta che detti spazi ricadano fra le
parti comuni dell’edificio condominiale ex art. 1117 c.c.
quando appartengano in comunione a tutti i condomini, ovvero
vengano a costituire oggetto di un diritto, reale, di uso
spettante ai condomini medesimi quando la relativa
proprietà
competa a terzi estranei alla collettività condominiale o a
uno solo dei componenti di questa»; «la normativa in
discorso
non vieta la negoziazione separata delle costruzioni e delle
aree di parcheggio ad esse pertinenti, ma esclude che tale
negoziazione possa incidere sulla permanenza del vincolo
reale di destinazione gravante sulle aree cennate» (così
Cass. civ., sez. II, 13.04.1998, n. 3422).
Come è noto, nel 2005 è intervenuto sul punto il
legislatore,
prevedendo che «Gli spazi per parcheggi realizzati in forza
del primo comma dell’art. 41-sexies L. n. 1150/1942 non sono
gravati da vincoli pertinenziali di sorta né da diritti
d’uso a
favore dei proprietari di altre unità immobiliari e sono
trasferibili
autonomamente da esse» (L. n. 246/2005).
La novità legislativa ha immediatamente suscitato un
dibattito
circa la sua applicabilità rispetto ai contratti già
conclusi.
Nella sentenza che si commenta, la Suprema Corte si conforma
alle sue precedenti pronunce sul punto, affermando
che la nuova disposizione trova applicazione soltanto per il
futuro, vale a dire per le sole costruzioni non realizzate o
per
quelle per le quali, al momento della sua entrata in vigore,
non erano ancora state stipulate le vendite delle singole
unità
immobiliari; l’efficacia retroattiva della norma va pertanto
esclusa (cfr. Cass. civ., sez. II, 24.02.2006, n.
4264; 13.01.2010, n. 378; 05.06.2012, n. 9090) (Corte
di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 24.01.2013 n. 1753
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 4/2013). |
EDILIZIA PRIVATA: La Consulta sui poteri delle regioni.
Distanze edifici? Solo se servono.
Le regioni possono introdurre deroghe alle distanze tra
edifici solo per «interessi pubblici di territorio». La
disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra
infatti nella materia dell'ordinamento civile e, quindi,
attiene alla competenza legislativa statale. Alle regioni è
consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime
stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la
deroga sia giustificata dall'esigenza di soddisfare
interessi pubblici legati al governo del territorio.
Pertanto, la legislazione regionale che interviene in tale
ambito è legittima solo in quanto persegue chiaramente
finalità di carattere urbanistico, rimettendo l'operatività
dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un
assetto complessivo ed unitario di determinate zone del
territorio». Le norme regionali che, disciplinando le
distanze tra edifici, esulino da tali finalità, ricadono
illegittimamente nella materia «ordinamento civile»,
riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Questo è quanto contenuto nella
sentenza 23.01.2013 n. 6 della Corte Costituzionale.
Il fatto in sintesi: l'articolo 1, 2° comma, della legge
della regione Marche 04/09/1979 n. 31 prevede che i comuni
possono individuare gli edifici da ampliare nelle zone di
completamento con destinazione residenziale. Procedura che
ha l'efficacia di piano particolareggiato.
Sulla base di questa disposizione normativa, un cittadino
aveva effettuato un ampliamento, ma il suo vicino ne aveva
chiesto la demolizione. La Corte costituzionale ha precisato
che la deroga alle distanze è consentita solo per interessi
pubblici legati al governo del territorio. Ed ha affermato
che le regioni possono introdurre delle deroghe in
considerazione degli interessi e delle specificità
territoriali.
Pertanto la disposizione della regione Marche è stata
considerata illegittima in quanto non rispetta i limiti
entro i quali la deroga è ammessa (articolo
ItaliaOggi del 09.04.2013). |
URBANISTICA: INDIVIDUAZIONE DEGLI INDICI SINTOMATICI
DELLA LOTTIZZAZIONE ABUSIVA.
Ai fini della configurabilità dell’illecito lottizzatorio,
gli
elementi qualificanti l’attività di lottizzazione abusiva
sono individuabili:
a) nella utilizzazione del suolo che,
indipendentemente dall’entità del frazionamento fondiario
e dal numero dei proprietari, preveda la realizzazione
contemporanea o successiva di una pluralità di edifici a
scopo residenziale, turistico o industriale, che postulino
l’attuazione di opere di urbanizzazione primaria o
secondaria,
occorrenti per le necessità dell’insediamento;
b) in
nuovi interventi sul territorio tali da comportare una
radicale
e consistente trasformazione dell’assetto preesistente
in zona non urbanizzata o non sufficientemente
urbanizzata, per cui esiste la necessità di attuare le
previsioni
dello strumento urbanistico generale attraverso
la redazione e la stipula di una convenzione lottizzatoria
adeguata alle caratteristiche dell’intervento di nuova
realizzazione;
c) in interventi edilizi incompatibili per le loro connotazioni oggettive, con previsioni di zonizzazione
e/o localizzazione dello strumento generale di
pianificazione,
che non possono esser modificati da piani
urbanistici attuativi.
La questione oggetto di attenzione da parte della Corte di
cassazione verte sulla individuazione degli elementi
sintomatici
in presenza dei quali può ritenersi configurabile
l’illecito
lottizzatorio previsto dal combinato disposto degli artt. 30
e
44, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001.
La vicenda processuale
segue al rigetto da parte del Tribunale del riesame del
decreto
di sequestro preventivo emesso dal GIP del Tribunale con
il quale -per quanto qui rileva- veniva disposto il
sequestro
preventivo di un lotto di terreno, con relativi immobili, di
proprietà
di tre soggetti, indagati -unitamente ad altri- per i
reati
di lottizzazione abusiva e per il delitto paesaggistico
previsto
dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis.
Il
Tribunale
aveva ritenuto di dover inquadrare la condotta degli
indagati
nell’ambito della cd. ‘‘lottizzazione abusiva mista’’
(negoziale
e materiale) in relazione alla radicale e consistente
trasformazione di una zona a vocazione eminentemente
agricola
e sottoposta a vincolo ambientale paesaggistico, avvenuta
a seguito di opere di edificazione rilevanti e incompatibili
con la destinazione agricola del fondo, attesa, oltretutto,
la presenza occasionale degli indagati circoscritta al
periodo
estivo e la relativa limitatezza degli impianti arborei ed
ortofrutticoli
in generale.
Contro l’ordinanza del Tribunale del riesame
proponeva ricorso per cassazione la difesa degli indagati,
censurandola, per quanto qui di interesse, per violazione
di legge, attesa l’erronea qualificazione della condotta
sotto lo schema della lottizzazione abusiva dal punto di
vista
oggettivo in quanto le opere realizzate, al più, potevano
concretizzare
l’ipotesi dell’abuso urbanistico per difformità rispetto
al permesso di costruzione ma non opere di urbanizzazione
o formazione di lotti a scopo edificatorio.
La tesi è stata respinta dalla Cassazione che ha ritenuto
privo
di fondamento il ricorso degli indagati. Sul punto, in
particolare,
i giudici di legittimità hanno osservato che gli interventi
edilizi posti in essere risultavano caratterizzati,
anzitutto,
dal frazionamento dell’area ed, ancora, dall’esecuzione di
interventi edilizi specifici che si collocano nell’ambito di
un
unico, evidente, proposito lottizzatorio. La lottizzazione
in
questione, dunque, per la Corte è stata esattamente
qualificata
di tipo ‘‘misto’’ in quanto caratterizzata dalla compresenza
delle attività materiali (opere edificatorie) e negoziali
(contratto di vendita e frazionamento): il frazionamento di
un
terreno agricolo in piccoli lotti non utilizzabili per
l’esercizio
dell’agricoltura è, infatti, uno degli elementi tipici
della lottizzazione
cartolare.
A tal proposito, ricorda la cassazione che
le linee generali dell’attività lottizzatoria sono
individuabili:
a)
nella utilizzazione del suolo che, indipendentemente dall’entità
del frazionamento fondiario e dal numero dei proprietari,
preveda la realizzazione contemporanea o successiva di una
pluralità di edifici a scopo residenziale, turistico o
industriale,
che postulino l’attuazione di opere di urbanizzazione
primaria
o secondaria, occorrenti per le necessità
dell’insediamento;
b) in nuovi interventi sul territorio tali da comportare una
radicale
e consistente trasformazione dell’assetto preesistente
in zona non urbanizzata o non sufficientemente urbanizzata,
per cui esiste la necessità di attuare le previsioni dello
strumento
urbanistico generale attraverso la redazione e la stipula
di una convenzione lottizzatoria adeguata alle
caratteristiche
dell’intervento di nuova realizzazione;
c) in interventi
edilizi incompatibili per le loro connotazioni oggettive,
con
previsioni di zonizzazione e/o localizzazione dello
strumento
generale di pianificazione, che non possono esser modificati
da piani urbanistici attuativi (v., ad es., tra le tante:
Cass.
pen., sez. III, 30.12.1996, n. 11249, Pin Ced Cass.,
n. 207198) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.01.2013 n. 3259
- tratto da
Urbanistica e appalti n. 4/2013). |
APPALTI: Accesso: know-how eccepibile solo se coperto da segreto
tecnico.
E’ illegittimo il rigetto di una istanza ostensiva avanzata
dalla ditta seconda classificata in graduatoria, tendente ad
ottenere copia dell’offerta presentata dall’aggiudicataria,
che sia motivato con riferimento alla necessità di tutelare
la segretezza del know-how aziendale e quella relativa ai
rapporti commerciali, nel caso in cui, da un lato, la
domanda di accesso sia stata avanzata a fini difensivi, e
dall’altro, l’attività da svolgere a seguito
dell’aggiudicazione dell’appalto sia sostanzialmente priva
di un segreto tecnico o commerciale.
L’art 13, comma 5, lett.
a), del D. Lgs. n. 163 del 2006, richiamato nel
provvedimento di diniego, spiegano i giudici del Tribunale
amministrativo di Milano, ha introdotto un'ipotesi di
speciale deroga rispetto alla disciplina di cui alla legge
n. 241 del 1990, da applicare esclusivamente nei casi in cui
l'accesso sia inibito in ragione della tutela di segreti
tecnici o commerciali motivatamente evidenziati
dall'offerente in sede di presentazione dell'offerta.
Ma in questa occasione, chiariscono i giudici lombardi,
l’Ente in causa ha richiamato la disposizione sopra
riportata, senza tuttavia rappresentare quali fossero le
specifiche ragioni di tutela del segreto industriale e
commerciale, in riferimento a precisi dati tecnici, dati che
avrebbero già dovuti essere indicati in sede di offerta.
Mentre di tale indicazione non vi è alcuna prova. La
disposizione si riferisce infatti a documentazione
suscettibile di rivelare il know-how industriale e
commerciale contenuto nelle offerte delle imprese
partecipanti, in modo da evitare che operatori economici in
diretta concorrenza tra loro possano utilizzare l'accesso
per giovarsi delle specifiche conoscenze possedute da altri,
al fine di conseguire un indebito vantaggio commerciale
all'interno del mercato.
E’ difficile, concludono gli stessi giudici, immaginare in
un servizio di manutenzione del verde, in cui sono
utilizzati ordinari mezzi agricoli e viene utilizzato
personale tecnico con funzioni di operatore giardiniere,
quale possa essere il "segreto tecnico o commerciale"
da tutelare, dal momento che ciò che assume maggiore
rilevanza, anche in termini di punteggio nella gara, è
l’aspetto organizzativo del servizio (cioè la ripartizione
del lavoro, la tipologia di interventi operativi, il
contratto di lavoro applicato e il piano di formazione dei
dipendenti) ambito in cui non è configurabile un know-how
commerciale o industriale
(commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 15.01.2013 n. 116 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La cessazione della materia del contendere si
verifica quando l’amministrazione elimina ex tunc il
provvedimento impugnato in aderenza alle pretese del
ricorrente, con la conseguenza che quest’ultimo realizza in
via amministrativa l’interesse che voleva ottenere in via
giudiziale, rendendosi pertanto inutile la pronuncia del
giudice (cfr. sul punto la più risalente pronuncia di Cons.
Stato, Sez. V, 16.09.1994 n. 994, laddove espressamente si
precisa –tra l’altro– che nel caso in cui gli effetti
dell’atto lesivo vengano meno in dipendenza dell’adozione di
un altro provvedimento privo di effetti retroattivi, la
cessazione del contendere non può intendersi realizzata).
Come infatti ha ben evidenziato
il TAR, è ius receptum che la cessazione della
materia del contendere si verifica quando l’amministrazione
elimina ex tunc il provvedimento impugnato in
aderenza alle pretese del ricorrente, con la conseguenza che
quest’ultimo realizza in via amministrativa l’interesse che
voleva ottenere in via giudiziale, rendendosi pertanto
inutile la pronuncia del giudice (cfr. sul punto, ad es.,
Cons. Stato, Sez. IV, 30.05.2005 n. 2772, nonché la più
risalente pronuncia di Cons. Stato, Sez. V, 16.09.1994 n.
994, laddove espressamente si precisa –tra l’altro– che nel
caso in cui gli effetti dell’atto lesivo vengano meno in
dipendenza dell’adozione di un altro provvedimento privo di
effetti retroattivi, la cessazione del contendere non può
intendersi realizzata)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.01.2013 n. 32 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA:
Le modifiche della disciplina urbanistica non
hanno effetto retroattivo: e ciò in applicazione del più
generale principio dell’irretroattività degli atti
amministrativi, il quale a sua volta discende dal
fondamentale principio di legalità, deputato a garantire la
certezza delle situazioni giuridiche in atto.
---------------
Il mero sopravvenire di una nuova destinazione urbanistica
non può ex se dispiegare un effetto sanante sulle opere
realizzate in forza del titolo edilizio annullato, posto che
a ciò osta l’art. 13 della L. 28.02.1985 n. 47, vigente
all’epoca dei fatti di causa e ora riprodotto sul punto
dall’art. 36, comma 1, del T.U. approvato con D.P.R.
06.06.2001 n. 380 nel testo integrato per effetto dell’art.
1 del D.L.vo 27.12.2002 n. 301, laddove segnatamente dispone
che il titolo edilizio è rilasciato “in sanatoria
allorquando la relativa opera risulta conforme agli
strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e
non in contrasto con quelli adottati, sia al momento della
realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione
della domanda”.
---------------
In presenza del requisito c.d. “doppia conformità” il
rilascio del titolo edilizio in sanatoria costituisce atto
dovuto, nel mentre ove ciò non fosse l’Amministrazione
Comunale è vincolata all’adozione del provvedimento di
diniego.
Il giudice di primo grado non ha dunque condiviso al
riguardo la giurisprudenza minoritaria che reputa
sufficiente la sussistenza della conformità edilizia
all’atto dell’avvenuto mutamento della disciplina di piano,
e la cui ratio ad essa sottesa è da individuarsi
nell’esigenza di non imporre la demolizione di un’opera che,
in quanto conforme alla disciplina urbanistica attuale,
dovrebbe essere successivamente autorizzata su semplice
presentazione di istanza di rilascio, in tal modo evitando
uno spreco di attività inutili, sia per l’Amministrazione,
che per il privato autore dell’abuso: indirizzo, questo,
contraddistinto peraltro da una concezione antinomica tra
principio di efficienza e principio di legalità e che –per
l’appunto– assegna la prevalenza al primo rispetto al
secondo.
Il giudice di primo grado ha rettamente denotato in tal
senso che tale figura pretoria di sanatoria trovava
apparentemente fondamento nell’art. 15, comma 12, della L.
28.01.1977 n. 10, il quale peraltro si limitava –a ben
vedere- a liberalizzare la realizzazione di alcune varianti
di importanza secondaria a progetti edilizi assentiti ma
senza disciplinare la complessiva problematica della
sanatoria amministrativa degli interventi abusivi, solo
susseguentemente affrontata sul punto dall’anzidetto art. 13
della L. 47 del 1985 ma in termini che anche sotto
l’immediato profilo letterale divergono da quello
dell’anzidetto indirizzo giurisprudenziale rimasto
minoritario.
In tale contesto il giudice di primo grado ha dunque
esattamente inteso il titolo edilizio in sanatoria quale
provvedimento tipico che elimina l’antigiuridicità
dell’abuso estinguendo il reato ed il potere repressivo
dell’Amministrazione, con la conseguenza che la sua
applicazione ed i suoi limiti non possono che essere
specificamente disciplinati dalla legge, non essendo con ciò
possibile l’esercizio, da parte dell’amministrazione, di un
potere di sanatoria che si estenda oltre i limiti imposti
dal legislatore: anche perché non sarebbe ammissibile una
interpretazione finalizzata alla protezione di interessi
privati scaturenti da comportamenti antigiuridici, che
permetterebbe, oltretutto, la possibilità di usufruire delle
modifiche della disciplina urbanistica idonee a legittimare
l’edificazione abusiva, addirittura, fino alla esecuzione
della definitiva sanzione della demolizione; e, se così è,
il principio di cui all’art. 97 della Cost., laddove farebbe
ritenere illogica la demolizione dell’opera quando la stessa
potrebbe essere assentita sulla base della sopravvenuta
strumentazione urbanistica primaria,deve comunque intendersi
recessivo rispetto al principio di legalità, il quale impone
invece la necessaria e stretta osservanza della disciplina
dettata dalla legge per la sanatoria delle opere abusive.
Nel caso di specie va in
effetti evidenziato che la variante allo strumento
urbanistico primario comunale, ancorché approvata mediante
deliberazione della Giunta Regionale, non reca alcuna
espressa disciplina di rimozione della deliberazione della
medesima Giunta Regionale qui impugnata, la quale dunque
seguita a dispiegare effetto per il passato; e, del resto,
risulta pure assodato che le modifiche della disciplina
urbanistica non hanno effetto retroattivo: e ciò in
applicazione del più generale principio dell’irretroattività
degli atti amministrativi, il quale a sua volta discende dal
fondamentale principio di legalità, deputato a garantire la
certezza delle situazioni giuridiche in atto (cfr. sul
punto, ad es., Cons. Stato, 26.11.2001 n. 5949).
Né, comunque, la disciplina introdotta dalla variante
urbanistica è tale da consentire la convalida dell’anzidetto
piano di lottizzazione, se non altro in considerazione della
circostanza che con la variante medesima vengono introdotte
ben più elevate dotazioni di aree a standard.
Va anche soggiunto che il mero sopravvenire di una nuova
destinazione urbanistica non può ex se dispiegare un
effetto sanante sulle opere realizzate in forza del titolo
edilizio annullato, posto che a ciò osta l’art. 13 della L.
28.02.1985 n. 47, vigente all’epoca dei fatti di causa e ora
riprodotto sul punto dall’art. 36, comma 1, del T.U.
approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380 nel testo integrato
per effetto dell’art. 1 del D.L.vo 27.12.2002 n. 301,
laddove segnatamente dispone che il titolo edilizio è
rilasciato “in sanatoria allorquando la relativa opera
risulta conforme agli strumenti urbanistici generali e di
attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati,
sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al
momento della presentazione della domanda”.
A ragione il giudice di primo grado, pertanto, ha
evidenziato che in presenza dei requisiti testé descritti
(c.d. “doppia conformità”) il rilascio del titolo
edilizio in sanatoria costituisce atto dovuto, nel mentre
ove ciò non fosse l’Amministrazione Comunale è vincolata
all’adozione del provvedimento di diniego (cfr. al riguardo,
ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 02.11.2009 n.
6784).
Il giudice di primo grado non ha dunque condiviso al
riguardo la giurisprudenza minoritaria che reputa
sufficiente la sussistenza della conformità edilizia
all’atto dell’avvenuto mutamento della disciplina di piano,
e la cui ratio ad essa sottesa è da individuarsi
nell’esigenza di non imporre la demolizione di un’opera che,
in quanto conforme alla disciplina urbanistica attuale,
dovrebbe essere successivamente autorizzata su semplice
presentazione di istanza di rilascio, in tal modo evitando
uno spreco di attività inutili, sia per l’Amministrazione,
che per il privato autore dell’abuso: indirizzo, questo,
contraddistinto peraltro da una concezione antinomica tra
principio di efficienza e principio di legalità e che –per
l’appunto– assegna la prevalenza al primo rispetto al
secondo (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. V, 21.10.2003 n.
6498 e 13.02.1995 n. 238).
Il giudice di primo grado ha rettamente denotato in tal
senso che tale figura pretoria di sanatoria trovava
apparentemente fondamento nell’art. 15, comma 12, della L.
28.01.1977 n. 10, il quale peraltro si limitava –a ben
vedere- a liberalizzare la realizzazione di alcune varianti
di importanza secondaria a progetti edilizi assentiti ma
senza disciplinare la complessiva problematica della
sanatoria amministrativa degli interventi abusivi, solo
susseguentemente affrontata sul punto dall’anzidetto art. 13
della L. 47 del 1985 ma in termini che anche sotto
l’immediato profilo letterale divergono da quello
dell’anzidetto indirizzo giurisprudenziale rimasto
minoritario.
In tale contesto il giudice di primo grado ha dunque
esattamente inteso il titolo edilizio in sanatoria quale
provvedimento tipico che elimina l’antigiuridicità
dell’abuso estinguendo il reato ed il potere repressivo
dell’Amministrazione, con la conseguenza che la sua
applicazione ed i suoi limiti non possono che essere
specificamente disciplinati dalla legge, non essendo con ciò
possibile l’esercizio, da parte dell’amministrazione, di un
potere di sanatoria che si estenda oltre i limiti imposti
dal legislatore: anche perché non sarebbe ammissibile una
interpretazione finalizzata alla protezione di interessi
privati scaturenti da comportamenti antigiuridici, che
permetterebbe, oltretutto, la possibilità di usufruire delle
modifiche della disciplina urbanistica idonee a legittimare
l’edificazione abusiva, addirittura, fino alla esecuzione
della definitiva sanzione della demolizione; e, se così è,
il principio di cui all’art. 97 della Cost., laddove farebbe
ritenere illogica la demolizione dell’opera quando la stessa
potrebbe essere assentita sulla base della sopravvenuta
strumentazione urbanistica primaria,deve comunque intendersi
recessivo rispetto al principio di legalità, il quale impone
invece la necessaria e stretta osservanza della disciplina
dettata dalla legge per la sanatoria delle opere abusive.
Concludendo sul punto, il TAR ha pertanto a ragione ricusato
di dichiarare nella specie la cessazione della materia del
contendere, in quanto l’operato dell’Amministrazione
susseguente alla proposizione della causa non si configura
integralmente satisfattivo dell’interesse azionato (così, ad
es., Cons. Stato, Sez. VI, 18.10.2011 n. 5595)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.01.2013 n. 32 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Il Cons. Stato ha rimarcato la differenza
dell’istituto di annullamento regionale rispetto al potere
di annullamento d’ufficio delle concessioni di costruzione
illegittime viceversa conferito al Sindaco dall’art. 10
della L. 06.08.1967 n. 765 e dall’art. 1 della L. 28.01.1977
n. 10, posto che l’Amministrazione Regionale è soltanto
titolare di poteri di vigilanza e di controllo ma è priva
della facoltà di sostituirsi al Comune nell’adottare
determinate scelte ed è tenuta a valutare l’interesse
pubblico con riferimento esclusivo alla conservazione della
situazione esistente; viceversa il Sindaco deve valutare
l’interesse pubblico alla rimozione dell’ atto invalido alla
stregua delle altre possibilità di eliminare, in via
alternativa, il vizio riscontrato, ossia mediante la
modifica agli strumenti urbanistici, l’offerta di
integrazione delle opere di urbanizzazione, ecc..
L’annullamento disposto dall’Amministrazione Regionale è
configurato dal legislatore quale adattamento del generale
potere di annullamento d’ufficio contemplato dall’allora
vigente art. 6 del R.D. 03.03.1934 n. 383 (ora riferibile
all’art. 2, comma 3, lett. p), della L. 23.08.1988 n. 400,
nonché all’art. 138 del T.U. approvato con D.L.vo 18.08.2000
n. 267).
Quindi, l’esercizio del potere sostitutivo da parte
dell’Amministrazione Regionale, a differenza del potere di
autotutela riconosciuto sempre in via generale al Comune,
non comporta un riesame del precedente operato da parte del
soggetto titolare del potere di annullamento, ma è
essenzialmente finalizzato ad assicurare da parte delle
Amministrazioni comunali il rigoroso rispetto della
normativa in materia edilizia.
---------------
Il vizio di eccesso di potere per sviamento consiste
nell’effettiva e comprovata divergenza fra l’atto e la sua
funzione tipica, ovvero –detto altrimenti– allorquando il
potere è stato esercitato per finalità diverse da quelle
enunciate dal legislatore con la norma attributiva del
potere medesimo e, in particolare, allorquando l’atto posto
in essere sia stato determinato da un interesse diverso da
quello pubblico.
Tuttavia, la censura di eccesso di potere per sviamento deve
essere supportata da precisi e concordanti elementi di
prova, idonei a dar conto delle divergenze dell’atto dalla
sua tipica funzione istituzionale, non essendo a tal fine
sufficienti semplici supposizioni o indizi che non si
traducano nella dimostrazione dell’illegittima finalità
perseguita in concreto dall’organo amministrativo; né il
vizio in questione è ravvisabile allorquando l’atto
asseritamene viziato risulta comunque adottato nel rispetto
delle norme che ne disciplinano la forma e il contenuto e
risulta in piena aderenza al fine pubblico al quale è
istituzionalmente preordinato, anche se, attraverso la sua
emanazione, l’amministrazione ha indirettamente consentito
il perseguimento da parte di terzi di ulteriori finalità
secondarie, lecite e non in contrasto con quella principale.
Giova quindi evidenziare,
innanzitutto, che l’art. 27, primo comma, della L.
17.08.1942 n. 1150, intitolato “annullamento di
autorizzazione comunali”, nel testo sostituito dall’art.
7 della L. 06.08.1967 n. 765 dispone al primo comma che “entro
dieci anni dalla loro adozione le deliberazioni ed i
provvedimenti comunali che autorizzano opere non conformi a
prescrizioni del piano regolatore o del programma di
fabbricazione od a norme del regolamento edilizio, ovvero in
qualsiasi modo costituiscano violazione delle prescrizioni o
delle norme stesse possono essere annullati, ai sensi
dell’art. 6 del testo unico della legge comunale e
provinciale, approvato con R.D. 03.03.1934, n. 383, con
decreto del Presidente della Repubblica su proposta del
Ministro per i lavori pubblici di concerto con quello per
l’interno”.
Tale potere è stato trasferito alle Regioni a’ sensi
dell’art. 1, lett. o), del D.P.R. 15.01.1972 n. 8, laddove
segnatamente si prevede, nell’effettuare il trasferimento
alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni
amministrative statali in materia di urbanistica, la
clausola d’ordine generale che ricomprende nel trasferimento
medesimo “ogni ulteriore funzione amministrativa
esercitata dagli organi centrali e periferici dello Stato …”
(cfr. in tal senso la dianzi citata decisione di Cons. Stato
Sez. V, 30.09.1980 n. 801).
Il terzo comma dello stesso art. 27 dispone quindi che il
provvedimento di annullamento “è preceduto dalla
contestazione delle violazioni stesse al titolare della
licenza, al proprietario della costruzione e al progettista,
nonché alla Amministrazione comunale con l’invito a
presentare controdeduzioni entro un termine all’uopo
prefissato”.
Inoltre Cons. Stato, Sez. IV, 20.02.1998 n. 315 ha rimarcato
la differenza dell’istituto in esame rispetto al potere di
annullamento d’ufficio delle concessioni di costruzione
illegittime viceversa conferito al Sindaco dall’art. 10
della L. 06.08.1967 n. 765 e dall’art. 1 della L. 28.01.1977
n. 10, posto che l’Amministrazione Regionale è soltanto
titolare di poteri di vigilanza e di controllo ma è priva
della facoltà di sostituirsi al Comune nell’adottare
determinate scelte ed è tenuta a valutare l’interesse
pubblico con riferimento esclusivo alla conservazione della
situazione esistente; viceversa il Sindaco deve valutare
l’interesse pubblico alla rimozione dell’ atto invalido alla
stregua delle altre possibilità di eliminare, in via
alternativa, il vizio riscontrato, ossia mediante la
modifica agli strumenti urbanistici, l’offerta di
integrazione delle opere di urbanizzazione, ecc..
L’annullamento disposto dall’Amministrazione Regionale è
configurato dal legislatore quale adattamento del generale
potere di annullamento d’ufficio contemplato dall’allora
vigente art. 6 del R.D. 03.03.1934 n. 383 (ora riferibile
all’art. 2, comma 3, lett. p), della L. 23.08.1988 n. 400,
nonché all’art. 138 del T.U. approvato con D.L.vo 18.08.2000
n. 267).
A ragione il giudice di primo grado ha rimarcato in tal
senso che l’esercizio del potere sostitutivo da parte
dell’Amministrazione Regionale, a differenza del potere di
autotutela riconosciuto sempre in via generale al Comune,
non comporta un riesame del precedente operato da parte del
soggetto titolare del potere di annullamento, ma è
essenzialmente finalizzato ad assicurare da parte delle
Amministrazioni comunali il rigoroso rispetto della
normativa in materia edilizia.
---------------
Né può condividersi la tesi de L’Alco secondo la quale la
finalità perseguita dalla Giunta Regionale mediante
l’annullamento da essa disposto non sarebbe in realtà
deputata alla tutela dell’interesse alla legittimità dei
provvedimenti urbanistico-edilizi, ma alla surrettizia
protezione degli interessi strettamente commerciali che sono
stati posti alla base della segnalazione pervenuta alla
Giunta medesima da parte di Sermark.
Come a ragione ha affermato il giudice di primo grado, il
vizio di eccesso di potere per sviamento consiste
nell’effettiva e comprovata divergenza fra l’atto e la sua
funzione tipica, ovvero –detto altrimenti– allorquando il
potere è stato esercitato per finalità diverse da quelle
enunciate dal legislatore con la norma attributiva del
potere medesimo e, in particolare, allorquando l’atto posto
in essere sia stato determinato da un interesse diverso da
quello pubblico (cfr. sul punto, ex plurimis e tra le
più recenti, Cons. Stato, Sez. V, 25.05.2010 n. 3321).
Tuttavia, la censura di eccesso di potere per sviamento deve
essere supportata da precisi e concordanti elementi di
prova, idonei a dar conto delle divergenze dell’atto dalla
sua tipica funzione istituzionale, non essendo a tal fine
sufficienti semplici supposizioni o indizi che non si
traducano nella dimostrazione dell’illegittima finalità
perseguita in concreto dall’organo amministrativo (cfr., ad
es., Cons. Stato, Sez. V, 11.03.2010 n. 1418 e 15.10.2009 n.
6332); né il vizio in questione è ravvisabile allorquando
l’atto asseritamene viziato risulta comunque adottato nel
rispetto delle norme che ne disciplinano la forma e il
contenuto e risulta in piena aderenza al fine pubblico al
quale è istituzionalmente preordinato, anche se, attraverso
la sua emanazione, l’amministrazione ha indirettamente
consentito il perseguimento da parte di terzi di ulteriori
finalità secondarie, lecite e non in contrasto con quella
principale (così Cons. Stato, Sez. IV, 17.12.2003 n. 8306).
Nel caso di specie, se è ben vero che Sermark mediante la
presentazione del suo esposto ha inteso tutelare propri
interessi di carattere eminentemente commerciale e non già
di ordine urbanistico-edilizio, risulta altrettanto assodato
che la Giunta Regionale non poteva che disporre
l’annullamento del piano di lottizzazione e del titolo
edilizio conseguentemente rilasciato proprio in dipendenza
dell’oggettiva loro illegittimità rappresentata
dall’esponente, e ciò -quindi- anche a prescindere
dall’interesse individuale di quest’ultima
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.01.2013 n. 32 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA:
La “densità edilizia territoriale” è
riferita a ciascuna zona omogenea e definisce il carico
complessivo di edificazione che può gravare sull’intera
zona; viceversa, la “densità edilizia fondiaria” è
riferita alla singola area e definisce il volume massimo su
di essa edificabile.
La differenza consiste nel fatto che la densità edilizia
territoriale, riferendosi a ciascuna zona omogenea dello
strumento di pianificazione, definisce il complessivo carico
di edificazione che può gravare su ciascuna zona stessa, per
cui il relativo indice è rapportato all’intera superficie
della zona, ivi compresi gli spazi pubblici, quelli
destinati alla viabilità, ecc.; viceversa, la densità
edilizia fondiaria, concernendo la singola area e
definendo il volume massimo edificabile sulla stessa,
implica che il relativo indice sia rapportato all’effettiva
superficie suscettibile di edificazione.
Nel D.M. 02.04.1968, recante la
fissazione degli standards di edificabilità delle aree, la
densità edilizia si distingue in territoriale e fondiaria.
La “densità edilizia territoriale” è riferita
a ciascuna zona omogenea e definisce il carico complessivo
di edificazione che può gravare sull’intera zona; viceversa,
la “densità edilizia fondiaria” è riferita
alla singola area e definisce il volume massimo su di essa
edificabile.
La differenza consiste nel fatto che la densità edilizia
territoriale, riferendosi a ciascuna zona omogenea dello
strumento di pianificazione, definisce il complessivo carico
di edificazione che può gravare su ciascuna zona stessa, per
cui il relativo indice è rapportato all’intera superficie
della zona, ivi compresi gli spazi pubblici, quelli
destinati alla viabilità, ecc.; viceversa, la densità
edilizia fondiaria, concernendo la singola area e
definendo il volume massimo edificabile sulla stessa,
implica che il relativo indice sia rapportato all’effettiva
superficie suscettibile di edificazione (cfr. sul punto, tra
le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 22.03.1993 n. 182)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.01.2013 n. 32 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
I “volumi tecnici” sono essenzialmente destinati
ad ospitare impianti aventi un rapporto di strumentalità
necessaria con l’utilizzazione dell’immobile (ossia, ad
esempio, gli impianti idrici, gli impianti termici, gli
ascensori e i macchinari in genere), nel mentre non possono
rientrare in tale nozione i volumi che assolvano ad una
funzione diversa, sia pur necessaria al godimento
dell’edificio stesso e delle sue singole porzioni di
proprietà individuale.
Non possono pertanto ragionevolmente configurarsi volumi
tecnici la cupola e la galleria coperta, in quanto
inoppugnabilmente trattasi di elementi che sono posti a
servizio dei singoli esercizi che costituiscono, nel loro
insieme, il centro commerciale, il quale a sua volta trova
la ragione della propria realizzazione proprio nella comune
utilizzazione degli spazi (parcheggi, gallerie coperte,
ecc.) che consentono agli utenti di accedere contestualmente
e comodamente ad una pluralità di negozi di variegata
tipologia.
Per quanto riguarda il
superamento delle altezze massime, va ribadito che
l’avvenuto superamento dell’altezza massima contemplata
dalla disciplina di zona non può essere giustificato dalla
circostanza secondo la quale la cupola piramidale e la
copertura della galleria costituirebbero meri volumi
tecnici, in quanto tali non computabili anche per quanto
attiene alla loro altezza.
I “volumi tecnici” sono infatti essenzialmente
destinati ad ospitare impianti aventi un rapporto di
strumentalità necessaria con l’utilizzazione dell’immobile
(ossia, ad esempio, gli impianti idrici, gli impianti
termici, gli ascensori e i macchinari in genere), nel mentre
non possono rientrare in tale nozione i volumi che assolvano
ad una funzione diversa, sia pur necessaria al godimento
dell’edificio stesso e delle sue singole porzioni di
proprietà individuale (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato,
Sez. V, 04.03.2008 n. 918 e, più recentemente, anche Cons.
Stato, Sez. IV, 08.02.2011 n. 812).
Non possono pertanto ragionevolmente configurarsi volumi
tecnici la cupola e la galleria coperta, in quanto
inoppugnabilmente trattasi di elementi che sono posti a
servizio dei singoli esercizi che costituiscono, nel loro
insieme, il centro commerciale, il quale a sua volta trova
la ragione della propria realizzazione proprio nella comune
utilizzazione degli spazi (parcheggi, gallerie coperte,
ecc.) che consentono agli utenti di accedere contestualmente
e comodamente ad una pluralità di negozi di variegata
tipologia
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.01.2013 n. 32 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA:
Gli spazi di parcheggio di cui all’art.
41-quinquies L. 1150/1942 costituiscono aree pubbliche da
conteggiarsi ai fini della dotazione di standard, nel mentre
i parcheggi di cui al successivo art. 41-sexies sono
qualificati come aree private pertinenziali alle nuove
costruzioni, con la conseguenza che l’art. 3, comma 2, lett.
d), del D.M. 02.04.1968 n. 1444 espressamente li esclude dal
computo nel calcolo della misura degli standards.
---------------
Mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve
in un contributo per la realizzazione delle opere stesse,
senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona
in cui è inserita l’area interessata alla imminente
trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della
cessione degli standards essenzialmente pertiene al
reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle
opere di urbanizzazione all’interno della specifica zona di
intervento.
---------------
La monetizzazione degli standard si configura quale facoltà
eminentemente discrezionale dell’Amministrazione Comunale e
non già quale diritto del privato, il quale non può pertanto
ritenersi esente dall’onere di individuare le aree da
computare in quota standard.
Da ultimo, per quanto attiene
agli spazi per parcheggi, va rilevato quanto segue.
Il D.M. 02.04.1968 n. 1444, adottato in attuazione dell’art.
41-quinquies, commi ottavo e nono, della L. 1150 del 1942
come introdotto dall’art. 17 della L. 06.08.1967 n. 765,
disciplina i cosiddetti standards urbanistici ed edilizi.
Per quanto qui segnatamente interessa, l’art. 5 di tale D.M.
individua i rapporti massimi tra gli spazi destinati agli
insediamenti produttivi e gli spazi pubblici destinati alle
attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi,
prescrivendo che:
1) nei nuovi insediamenti di carattere industriale o ad essi
assimilabili compresi nelle zone D) la superficie da
destinare a spazi pubblici o destinata ad attività
collettive, a verde pubblico o a parcheggi (escluse le sedi
viarie) non può essere inferiore al 10% dell’intera
superficie destinata a tali insediamenti;
2) nei nuovi insediamenti di carattere commerciale e
direzionale, a 100 mq. di superficie lorda di pavimento di
edifici previsti, deve corrispondere la quantità minima di
80 mq. di spazio, escluse le sedi viarie, di cui almeno la
metà destinata a parcheggi (in aggiunta a quelli di cui al
predetto art. 18 della L. 765 del 1967); tale quantità, per
le zone A) e B) è ridotta alla metà, purché siano previste
adeguate attrezzature integrative.
Gli spazi di parcheggi testé riferiti sono quindi aggiuntivi
e non sostitutivi di quelli imposti dall’art. 18 della L.
765 del 1967, la cui misura è stata quindi modificata per
effetto dell’art. 2 della L. dalla L. 24.03.1898 n. 122
(cfr. ivi: “nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree
di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere
riservati appositi spazi per parcheggi in misura non
inferiore ad un metro quadrato per ogni 10 metri cubi di
costruzione”).
Si rinviene comprova di ciò dal differente contenuto
dell’art. 41-quinquies, ottavo comma, della L. 1150 del 1942
e dell’art. 41-sexies della legge medesima.
Gli spazi di parcheggio di cui all’art. 41-quinquies
costituiscono infatti aree pubbliche da conteggiarsi ai fini
della dotazione di standard, nel mentre i parcheggi di cui
al successivo art. 41-sexies sono qualificati come aree
private pertinenziali alle nuove costruzioni, con la
conseguenza che l’art. 3, comma 2, lett. d), del D.M.
02.04.1968 n. 1444 espressamente li esclude dal computo nel
calcolo della misura degli standards.
Ciò posto, l’allora vigente art. 22 della L.R. 15.04.1975 n.
51 disponeva nel senso che “la dotazione minima di
standard funzionali ai nuovi insediamenti di carattere
commerciale stabilita dall’art. 5 del D.M. n. 1444 in misura
dell’ 80% della superficie lorda di pavimento è elevata al
100%. Di tali aree almeno la metà dovrà essere destinata a
parcheggi di uso pubblico”.
La finalità complessivamente perseguita dalle disposizioni
sin qui riferite risulta ben evidente, ed è stata dianzi già
enunciata: poiché i centri commerciali richiamano un elevato
numero di consumatori è necessario, onde evitare disfunzioni
e pericoli alla circolazione stradale e turbative alle
proprietà che potrebbero essere causate dall’ingente numero
di veicoli, predisporre un congruo numero di spazi destinati
al parcheggio.
L’Alco si è invero riferita nelle sue difese all’istituto
della c.d. “monetizzazione degli standards”, il quale
–come è ben noto- consiste nel versamento al comune di un
importo alternativo alla cessione diretta delle stesse aree,
ogni volta che tale cessione non venga disposta: in tal
modo, pertanto, è consentito al lottizzante di corrispondere
all’Amministrazione Comunale un corrispettivo in danaro per
ogni metro quadrato non ceduto, con il conseguente obbligo
del Comune medesimo di utilizzare quanto ottenuto dalla
monetizzazione per la realizzazione di opere pubbliche da
localizzarsi ove pianificato.
Va opportunamente rimarcato che mentre il pagamento degli
oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la
realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un
vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita
l’area interessata alla imminente trasformazione edilizia,
la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standards
essenzialmente pertiene al reperimento delle aree necessarie
alla realizzazione delle opere di urbanizzazione all’interno
della specifica zona di intervento (cfr. al riguardo, ad
es., Cons. Stato, Sez. IV, 16.02.2011 n. 1013).
Nella Regione Lombardia l’istituto della monetizzazione è
attualmente normato dall’art. 46, comma 2, lettera a),
ultimo periodo, della L.R. 11.03.2005 n. 12, in forza del
quale “qualora l’acquisizione di tali aree non risulti
possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune in
relazione alla loro estensione, conformazione o
localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di
intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa
totale o parziale della cessione, che all’atto della
stipulazione i soggetti obbligati corrispondano al comune
una somma commisurata all’utilità economica conseguita per
effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al
costo dell'acquisizione di altre aree”.
Non dissimilmente l’art. 12, lett. a), della L.R. 05.12.1977
n. 60, vigente all’epoca dei fatti di causa, disponeva che,
qualora l’acquisizione delle aree necessarie per le opere di
urbanizzazione primaria e per le attrezzature pubbliche e di
uso pubblico “non venga ritenuta opportuna dal Comune in
relazione alla loro estensione, conformazione o
localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di
intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa
totale o parziale della cessione, che all’atto della stipula
i lottizzanti corrispondano al comune una somma commisurata
all’utilità economica conseguita per effetto della mancata
cessione e comunque non inferiore al costo dell’acquisizione
di altre aree”.
La legislazione regionale subordinava e subordina pertanto
la monetizzazione degli standards a ben precisi presupposti,
e ciò nella considerazione che la monetizzazione
presupponeva -e presuppone- comunque un’offerta di aree,
restando in facoltà del Comune la commutazione sulla base di
un apprezzamento complesso, che investe sia l’idoneità o
meno delle aree offerte in funzione dell’uso pubblico cui
verrebbero destinate, sia la possibilità di acquisire aree
alternative (con monetizzazione, quindi, a carico del
lottizzante) al fine mantenere invariato il livello di
dotazione di standards fissato dal piano regolatore e che
non può comunque scendere al di sotto del minimo contemplato
dalla legge ovvero dalla fonte autorizzata dalla legge.
Da tutto ciò discende quindi che la monetizzazione si
configura quale facoltà eminentemente discrezionale
dell’Amministrazione Comunale e non già quale diritto del
privato, il quale non può pertanto ritenersi esente
dall’onere di individuare le aree da computare in quota
standard: e, se così è, deve ricavarsi la conseguenza che la
Giunta Regionale, laddove ha affermato la sussistenza di una
palese inopportunità della disposta monetizzazione, ha
utilizzato il termine in senso improprio, avendo viceversa
all’evidenza inteso censurare sotto il profilo della
legittimità, segnatamente dell’eccesso di potere per
illogicità, la mancanza dei presupposti nella per
l’applicazione dell’istituto della monetizzazione, stante la
mancata individuazione, da parte del Comune, di aree idonee
ad integrare in altre parti del territorio comunale le
superfici a standard rese necessarie dall’intervento de L’Alco
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.01.2013 n. 32 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
In house: è sufficiente controllo
analogo congiunto.
In questa
sentenza 20.12.2012 n. 2090 i giudici del TAR Toscana,
Sez. I, fanno luce sui requisiti del controllo analogo
congiunto nel caso di società partecipate da più enti
locali.
Secondo i giudici toscani, nel caso di affidamento in house
conseguente alla istituzione da parte di più enti locali di
una società di capitali da essi interamente partecipata per
la gestione di un servizio pubblico, il controllo, analogo a
quello che ciascuno di essi esercita sui propri servizi,
deve intendersi assicurato anche se svolto non
individualmente ma congiuntamente dagli enti associati,
deliberando se del caso anche a maggioranza, ma a condizione
che il controllo sia effettivo, dovendo il requisito del
controllo analogo essere verificato secondo un criterio
sintetico e non atomistico.
Sicché è sufficiente che il controllo della mano pubblica
sull'ente affidatario, purché effettivo e reale, sia
esercitato dagli enti partecipanti nella loro totalità,
senza che necessiti una verifica della posizione di ogni
singolo ente (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla possibilità o meno di qualificare come “volumi
tecnici” le soffitte, gli stenditori chiusi, le mansarde
ed i sottotetti.
Devono considerarsi vani tecnici solo
quelli destinati esclusivamente agli impianti necessari per
l'utilizzo dell'abitazione e che non possono essere
collocati al suo interno e che, in quanto tali, non solo non
sono abitabili, ma non sono nemmeno suscettibili di essere
considerati dei volumi autonomi.
Altresì, vanno considerati come volumi tecnici (come tali
non rilevanti ai fini della volumetria di un immobile) quei
volumi destinati esclusivamente agli impianti necessari per
l'utilizzo dell'abitazione e che non possono essere ubicati
al suo interno, mentre non sono tali -e sono quindi
computabili ai fini della volumetria consentita- le
soffitte, gli stenditori chiusi e quelli di sgombero, nonché
il piano di copertura (impropriamente definito sottotetto,
ma costituente in realtà una mansarda, in quanto dotato di
rilevante altezza media rispetto al piano di gronda).
Ulteriori pronunce hanno evidenziato come l’esistenza di una
scala interna, così com’è presente nel caso di specie -e
nell’ambito della realizzazione di un vano sottotetto-,
costituisce un indice rivelatore dell'intento di rendere
abitabile detto locale, “non potendosi considerare volumi
tecnici i vani in esso ricavati.
Sul punto va ricordato che per un costante orientamento
giurisprudenziale devono considerarsi vani tecnici, solo
quelli destinati esclusivamente agli impianti necessari per
l'utilizzo dell'abitazione e che non possono essere
collocati al suo interno e che, in quanto tali, non solo non
sono abitabili, ma non sono nemmeno suscettibili di essere
considerati dei volumi autonomi.
Come, peraltro, ha confermato una recente pronuncia di
merito (TAR Lombardia Milano Sez. II, 05.01.2012, n. 38)
...”vanno considerati come volumi tecnici (come tali non
rilevanti ai fini della volumetria di un immobile) quei
volumi destinati esclusivamente agli impianti necessari per
l'utilizzo dell'abitazione e che non possono essere ubicati
al suo interno, mentre non sono tali -e sono quindi
computabili ai fini della volumetria consentita- le
soffitte, gli stenditori chiusi e quelli di sgombero, nonché
il piano di copertura (impropriamente definito sottotetto,
ma costituente in realtà una mansarda, in quanto dotato di
rilevante altezza media rispetto al piano di gronda)”.
Ulteriori pronunce hanno evidenziato come l’esistenza di una
scala interna, così com’è presente nel caso di specie -e
nell’ambito della realizzazione di un vano sottotetto-,
costituisce un indice rivelatore dell'intento di rendere
abitabile detto locale, “non potendosi considerare volumi
tecnici i vani in esso ricavati (TAR Lombardia Milano Sez.
II, 29-04-2011, n. 1105)” (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 14.12.2012 n. 1563 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Il Comune non ha il potere di
individuare i servizi locali.
L'individuazione delle funzioni fondamentali per il
soddisfacimento dei bisogni primari delle comunità locali
costituisce materia riservata alla potestà legislativa
esclusiva dello Stato ai sensi dell'art. 117 della
Costituzione.
L'elencazione dei servizi locali indispensabili per i Comuni
è contenuta nel D.M. 28.05.1993 adottato dal Ministero
dell'interno di concerto con il Ministero del Tesoro; tale
D.M. costituisce applicazione dell'art. 11 del d.l.
18.1.1993 n. 8, conv. in l. 19.3.1993 n. 68 (Disposizioni
urgenti in materia di finanza derivata e di contabilità
pubblica). Ancorché il citato D.M. non risulti espressamente
richiamato nell'art. 159 T.U.E.L. lo stesso integra atto di
normazione secondaria con carattere di tassatività.
La fonte normativa del citato atto di normazione secondaria,
art. 11 del d.l. 8/1993, conv. in l. 68/1993, è stato
oggetto di espressa abrogazione ex art. 123, lett. q), del
D.Lgs. 77/1995 come sostituito dall'art. 46 del D.Lgs.
11.6.1996 n. 336.
Tale circostanza non può ritenersi idonea a determinare il
venir meno della competenza ministeriale in ordine alla
individuazione dei servizi locali indispensabili, atteso che
"l'individuazione delle funzioni fondamentali per il
soddisfacimento dei bisogni primari delle comunità locali
costituisce comunque materia riservata alla potestà
legislativa esclusiva dello Stato ai sensi del novellato
art. 117 Cost., tant'è che la relativa disciplina ha formato
oggetto di delega parlamentare al Governo (art. 2, c. 1, l.
05.06.2003 n. 131)".
La riserva di potestà esclusiva in favore dello Stato ai
sensi dell'art. 117 Cost. così come riformulato a seguito
delle modifiche del Titolo V Parte II della Costituzione,
costituisce circostanza idonea a determinare la perdurante
validità e vigenza del citato D.M. del 1993, colmando il
vuoto normativo determinatosi a seguito dell'abrogazione
dell'art. 11. del d.l. 18/1993.
Tuttavia, anche diversamente opinando, riconosciuto comunque
il carattere derogatorio dell'art. 159 T.U.E.L., un
ipotetico venir meno del potere di formazione primaria e
secondaria in capo allo Stato non consentirebbe comunque al
Comune un libero e indiscriminato uso del potere di
individuazione dei servizi locali indispensabili (commento
tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Puglia-Bari,
Sez. II,
sentenza 07.12.2012 n. 2109 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Le ordinanze contingibili e urgenti non debbono
per forza avere sempre il carattere della provvisorietà,
dato che il loro connotato essenziale è la necessaria
idoneità delle relative misure ad eliminare la situazione di
pericolo che costituisce il presupposto della loro adozione,
e quindi le misure stesse possono essere provvisorie o
definitive a seconda del tipo di rischio che intendono
fronteggiare, nel senso che occorre avere riguardo alle
specifiche circostanze di fatto del caso concreto e allo
scopo pratico perseguito attraverso il provvedimento
sindacale.
La motivazione del ricorso allo strumento straordinario ben
può evincersi dalla pluralità di elementi acquisiti al
procedimento, se oggettivamente capaci di rivelare in sé le
ragioni di urgenza che legittimano l'intervento eccezionale
dell'Autorità sindacale.
Peraltro, la scelta dell'amministrazione di provvedere a
porre rimedio a tale situazione con l'emanazione di
un’ordinanza contingibile ed urgente a tutela dell'igiene e
della sanità pubblica, nonché della sicurezza dei cittadini,
in quanto concerne il merito dell'azione amministrativa
sfugge al sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, non risultando manifestamente inficiata da
illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, oltre che da
travisamento dei fatti.
Infine l'attualità della minaccia per l’incolumità pubblica
e l'igiene esclude rilevanza al fatto che la situazione di
pericolo fosse nota da tempo. Del resto la giurisprudenza ha
precisato più volte che presupposto per l'adozione
dell'ordinanza contingibile è la sussistenza e l'attualità
del pericolo, cioè del rischio concreto di un danno grave e
imminente, a nulla rilevando neppure che la situazione di
pericolo fosse, come parrebbe nel caso di specie, nota da
tempo.
... per l'annullamento quanto al ricorso principale:
- delle Ordinanze sindacali contingibili ed urgenti -in
materia di incolumità pubblica- n. 92 del 14/07/2011, nn. 78
e 88 del 06/07/2011, recanti ordine di lasciare libero da
persone e cose i prefabbricati in Via Di Vittorio, ai fini
della rimozione delle lastre di cemento-amianto poste a
coperture dei prefabbricati stessi, nonché della nota
sindacale prot. n. 9846/11 del 06/06/2011;
...In ordine alla possibilità da parte del Comune di
ricorrere allo strumento dell'ordinanza contingibile e
urgente per eliminare definitivamente la situazione di
pericolo accertata, il Collegio rileva che nella fattispecie
in esame gli effetti pregiudizievoli per la salute pubblica
derivanti dal pericolo di dispersione di fibre di amianto
palesano una situazione di concreta ed immediata minaccia
per la sanità e l'incolumità pubbliche, indice della
necessità di interventi solleciti e non più dilazionabili.
A tal riguardo il Collegio condivide l'orientamento secondo
cui le ordinanze contingibili e urgenti non debbono per
forza avere sempre il carattere della provvisorietà, dato
che il loro connotato essenziale è la necessaria idoneità
delle relative misure ad eliminare la situazione di pericolo
che costituisce il presupposto della loro adozione, e quindi
le misure stesse possono essere provvisorie o definitive a
seconda del tipo di rischio che intendono fronteggiare, nel
senso che occorre avere riguardo alle specifiche circostanze
di fatto del caso concreto e allo scopo pratico perseguito
attraverso il provvedimento sindacale (cfr. TAR Veneto, III,
07.07.2010 n. 2887).
La motivazione del ricorso allo strumento straordinario ben
può evincersi dalla pluralità di elementi acquisiti al
procedimento, se oggettivamente capaci di rivelare in sé le
ragioni di urgenza che legittimano l'intervento eccezionale
dell'Autorità sindacale.
Peraltro, la scelta dell'amministrazione di provvedere a
porre rimedio a tale situazione con l'emanazione di
un’ordinanza contingibile ed urgente a tutela dell'igiene e
della sanità pubblica, nonché della sicurezza dei cittadini,
in quanto concerne il merito dell'azione amministrativa
sfugge al sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, non risultando manifestamente inficiata da
illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, oltre che da
travisamento dei fatti (cfr. Consiglio Stato,V, 28.09.2009,
n. 5807).
Infine l'attualità della minaccia per l’incolumità pubblica
e l'igiene esclude rilevanza al fatto che la situazione di
pericolo fosse nota da tempo. Del resto la giurisprudenza ha
precisato più volte che presupposto per l'adozione
dell'ordinanza contingibile è la sussistenza e l'attualità
del pericolo, cioè del rischio concreto di un danno grave e
imminente, a nulla rilevando neppure che la situazione di
pericolo fosse, come parrebbe nel caso di specie, nota da
tempo (cfr. Consiglio di Stato, V, 28.03.2008, n. 1322) (TAR
Basilicata,
sentenza 05.12.2012 n. 543 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gare: le cause di esclusione sono
tassative.
Nelle gare pubbliche le cause di
esclusione, incidendo sull'autonomia privata delle imprese e
limitando la libertà di concorrenza nonché il principio di
massima partecipazione, sono tassative e non possono essere
interpretate analogicamente.
Ai sensi dell'art. 46, c. 1-bis, codice dei contratti,
modificato dall'art. 4, c. II, lett. d), d.l. 13.05.2011 n.
70, nelle gare pubbliche le cause di esclusione, incidendo
sull'autonomia privata delle imprese e limitando la libertà
di concorrenza nonché il principio di massima
partecipazione, sono tassative e non possono essere
interpretate analogicamente e, qualora manchi una chiara
prescrizione che imponga in modo esplicito l'obbligo
dell'esclusione, vale il principio della più ampia
partecipazione alla gara allo scopo di garantire il migliore
risultato per l'Amministrazione stessa.
Inoltre, l'art. 46, c. 1-bis, del codice dei contratti, ha
previsto la tassatività delle cause di esclusione,
disponendo che la stazione appaltante può escludere i
candidati o i concorrenti solo in caso di mancato
adempimento alle prescrizioni previste dal codice e dal
regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché
nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla
provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di
altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità
del plico contenente l'offerta o la domanda di
partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura
dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze
concrete, che sia stato violato il principio di segretezza
delle offerte; ma i bandi e le lettere di invito non possono
contenere ulteriori prescrizioni a pena di nullità delle
clausole escludenti invocate dalla ricorrente incidentale in
questa occasione (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza 04.12.2012 n. 2904 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PATRIMONIO: Illegittimo
impedire l’ingresso dei cani nei parchi.
Sono illegittime le ordinanze urgenti
che impongano il divieto di ingresso dei cani nei parchi. E’
illegittima una ordinanza contingibile ed urgente con la
quale un Ente locale, per la tutela igienico sanitaria e/o
la prevenzione di pericoli per la pubblica incolumità,
disponga il divieto assoluto di introdurre cani in alcune
aree verdi del territorio comunale, nel caso in cui difetti
una situazione di effettiva eccezionalità ed imprevedibilità
tale da far temere emergenze igienico sanitarie o pericoli
per la pubblica incolumità.
Lo ha stabilito il TAR Sardegna, Sez. I, con la
sentenza 30.11.2012 n. 1080.
E’ infatti noto, spiegano i giudici amministrativi isolani,
che il potere di emanare ordinanze di cui all’art. 50, comma
5, d.lgs. 267 del 2000 (TUEL), peraltro riservato al
Sindaco, permette anche l'imposizione di obblighi di fare o
di non fare a carico dei destinatari; tuttavia, il potere
ivi previsto presuppone, da un lato, una situazione di
pericolo effettivo, da esternare con congrua motivazione, e,
dall'altro, una situazione eccezionale e imprevedibile, cui
non sia possibile far fronte con i mezzi previsti in via
ordinaria dall'ordinamento.
L'ordinanza non può, invece, essere utilizzata per
soddisfare esigenze che siano prevedibili ed ordinarie
(commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 09.04.2013 |
ã |
IN EVIDENZA |
APPALTI: G.U.
08.04.2013 n. 82 "Disposizioni urgenti per il
pagamento dei debiti scaduti della pubblica
amministrazione, per il riequilibrio finanziario
degli enti territoriali, nonché in materia di
versamento di tributi degli enti locali"
(D.L.
08.04.2013 n. 35). |
APPALTI:
P.a., il pagamento è di rigore.
A risponderne sarà il
dirigente.
Le novità del decreto legge che sblocca i debiti delle
pubbliche amministrazioni.
Pagamento speedy delle fatture verso la p.a., a qualunque
costo. Anche quello, per l'ente pubblico, di rischiare di
sbagliare.
È il funzionario pubblico che autorizza la spesa
a dover rendere conto e rimborsare l'ente, se a posteriori
si scopre qualcosa che non va.
Il decreto legge sul pagamento dei crediti maturati verso la
pubblica amministrazione fino al 31.12.2012 (D.L.
08.04.2013 n. 35), esaminato
dal consiglio dei ministri, rende effettiva la possibilità
di evitare ritardi dei pagamenti da parte degli enti
pubblici.
Lo strumento usato è quello di depotenziare il possibile
veto interno al pagamento da parte degli organi preposti al
controllo degli atti.
Stiamo parlando delle modifiche che riguardano i pagamenti
delle cosiddette transazioni commerciali e cioè i contratti,
comunque denominati, tra imprese e pubbliche
amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o
prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi
contro il pagamento di un prezzo.
Il decreto legislativo 231/2002 prevede brevi termini di
pagamento (di regola trenta giorni) oltre i quali scatta
l'applicazione di pesanti interessi di mora.
Nelle transazioni commerciali in cui il debitore è una
pubblica amministrazione il decreto 231/2002 prevede che le
parti possono pattuire, purché in modo espresso, un termine
per il pagamento superiore ai trenta giorni, quando sia
giustificato dalla natura o dall'oggetto del contratto o
dalle circostanze esistenti al momento della sua
conclusione. In ogni caso i termini non possono essere
superiori a sessanta giorni e la clausola relativa al
termine deve essere provata per iscritto.
Il problema è sempre stato fare in modo che queste
disposizioni non rimangano lettera morta. Vediamo le novità
del decreto legge in esame.
Innanzi tutto è istituita una procedura per rispettare i
termini di pagamento: gli atti di pagamento emessi a titolo
di corrispettivo nelle transazioni commerciali devono
pervenire all'ufficio di controllo almeno 15 giorni prima
della data di scadenza del termine.
Le fasi interne di lavorazione delle fatture sono cadenzate
in maniera che non subiscano lungaggini per questioni
burocratiche.
L'ufficio di controllo deve espletare i riscontri di
competenza, ma dà comunque corso al pagamento, entro il
termine di scadenza previsto dal decreto legislativo
231/2002: questo sia in caso di esito positivo, sia in caso
di formulazione di osservazioni o richieste di integrazioni
e chiarimenti.
La necessità di approfondimenti istruttori non blocca il
pagamento.
A questo punto se il dirigente responsabile non risponde
alle osservazioni, oppure i chiarimenti forniti non sono
accettabili, l'ufficio di controllo è tenuto a segnalare
alla procura regionale della Corte dei conti eventuali
ipotesi di danno erariale derivanti dal pagamento.
Quindi bisogna rispettare i termini di pagamento e se il
pagamento non era dovuto scatta la responsabilità erariale
del dirigente responsabile. La responsabilità individuale
sarà uno stimolo efficace per evitare che si commettano
irregolarità amministrative a monte, confidando di poter
bloccare poi, a valle, i pagamenti. Il decreto legge in
esame ribalta le cose: il pagamento si fa, salvo casi
eccezionali, e il dirigente pubblico è chiamato a rispondere
delle spese indebite.
Per evitare, tuttavia, clamorosi autogol il decreto legge
sul pagamento dei debiti maturati al 31/12 mantiene fermi i
divieti di pagamento previsti dal decreto 123/2011: per
esempio spese fuori bilancio. Ma anche atti di spesa
pervenuti oltre il termine perentorio di ricevibilità del 31
dicembre dell'esercizio finanziario cui si riferisce la
spesa oppure casi di imputazione della spesa sia errata
rispetto al capitolo di bilancio o all'esercizio
finanziario, o alla competenza piuttosto che ai residui, di
violazione delle disposizioni che prevedono specifici limiti
a talune categorie di spesa.
In questi casi il divieto giustifica il mancato pagamento
nei termini.
Responsabilità individuale. Il decreto legge sul pagamento
dei debiti fino al 2012 mette alla sbarra i funzionari
pubblici anche nel caso di mancato rispetto delle
disposizioni da esso previste. Se dalla negligenza deriva
una condanna dell'ente pubblico al pagamento di somme per
risarcimento danni o per interessi moratori, il funzionario
pubblico dovrà rimborsare l'amministrazione per tutte le
somme pagate, senza sconti. La corte dei conti, infatti, non
potrà esercitare, per espresso divieto, il potere di
riduzione dell'addebito.
Con riferimento ai crediti maturati fino al 31.12.2012
sono da segnalare altre due novità. Innanzi tutto le somme
destinate al loro pagamento sono insequestrabili e
impignorabili. Quindi si attiva un particolare scudo
protettivo.
In secondo luogo si individuano misure di semplificazione e
agevolative della cessione del credito.
Gli atti di cessione dei crediti certi, liquidi ed esigibili
maturati nei confronti delle pubbliche amministrazioni alla
data del 31.12.2012 per somministrazioni, forniture e
appalti sono esenti da imposte, tasse e diritti di qualsiasi
tipo.
Inoltre l'autenticazione delle sottoscrizioni degli atti di
cessione dei crediti nei confronti delle pubbliche
amministrazioni potrà essere effettuata anche dall'ufficiale
rogante dell'amministrazione debitrice (ad esempio il
segretario comunale); in tale ipotesi la cessione si intende
accettata ai sensi dell'articolo 1264 del codice civile. Nel
caso in cui l'autenticazione delle sottoscrizioni sia,
invece, effettuata da un notaio gli onorari sono comunque
ridotti alla metà.
La notificazione degli atti di cessione, anche se
precedenti all'entrata in vigore del decreto, potrà
essere effettuata direttamente dal creditore anche a
mezzo di piego raccomandato con avviso di
ricevimento (e non necessariamente con notifica
dell'ufficiale giudiziario) (articolo
ItaliaOggi Sette dell'08.04.2013). |
dite
la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
APPALTI SERVIZI - INCARICHI PROFESSIONALI: R.
Lasca,
I prodotti degli “Incarichi esterni” e degli “Appalti”
e relativi contratti: due fattispecie sicuramente distinte
oggi per le PP.AA. italiane? - La Corte dei Conti della
Lombardia prova a distinguere con la delibera collaborativa
n. 51/2013: ma qualcosa non torna …. in punto di diritto!
Vediamo esattamente cosa (08.04.2013). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI -
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI -
URBANISTICA:
E. Michetti,
Le nuove norme in materia di obblighi di pubblicità,
trasparenza e diffusione di informazioni della P.A.: in G.U.
il decreto sul riordino della disciplina (08.04.2013
- tratto da www.gazzettaamministrativa.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Imposta di bollo - segnalazione certificata
inizio attività e altri atti previsti per l’esercizio di
attività soggette alle visite e ai controlli di prevenzione
incendi - Richiesta parere (Agenzia delle Entrate,
risoluzione 08.04.2013 n. 24/E).
---------------
A. R. Zannella,
Comunicazione di inizio attività. “Scia” o “Dia”, il bollo
non c’è.
La segnalazione certificata, che oggi viene presentata in
sostituzione della denuncia, non sconta il tributo,
trattandosi non di un’istanza, ma di un semplice avviso
(link a www.fiscooggi.it). |
SINDACATI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Che fine ha fatto l'indennità di vacanza
contrattuale nel pubblico impiego?
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 08.04.2013). |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA PRIVATA: Rete ecologica Natura 2000.
Domanda
Gli impianti eolici in siti appartenenti alla rete ecologica
Natura 2000 sono soggetti a vincoli europei?
Risposta
La Corte di giustizia delle comunità europee, sezione prima,
con la sentenza del 21.07.2011 (causa C-2/10) ha
stabilito, in tema di location, sia in terra ferma, sia
nelle distese marine, che la direttiva del 21.05.1992,
92/43/Cee, relativa alla conservazione degli habitat
naturali e seminaturali e della flora e della fauna
selvatiche, che la direttiva del consiglio del 02.04.1979, 79/409/Cee, concernente la conservazione degli uccelli
selvatici, che la direttiva del parlamento europeo e del
consiglio del 27.09.2001, 2001/77/Cee, sulla
promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti
energetiche rinnovabili nel mercato interno
dell'elettricità, che la direttiva del parlamento europeo e
del consiglio del 23.04.2009, 2009/28/Ce, sulla
promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili,
recante modifica e successiva abrogazione delle direttive
2001/77/Cee e 2003/30/Ce devono essere interpretate nel
senso che esse non ostano a una normativa che vieta
l'installazione di aerogeneratori non finalizzati
all'autoconsumo su siti appartenenti alla rete ecologica
Natura 2000, senza alcuna previa valutazione dell'incidenza
ambientale del progetto sul sito specificamente interessato,
a condizione che i principi di non discriminazione e di
proporzionalità siano rispettati.
Pertanto, la Corte di giustizia delle comunità europee, con
la succitata sentenza, puntualizza che, nell'installazione
di impianti eolici, deve essere tenuto bene presente il
principio di diritto generale di inaccessibilità a divieti
assoluti. Quindi, per la corte, le location di energie
rinnovabili trovano un accoglimento migliore se esse sono
corredate da studi comparativi sulle ripercussioni
ambientali, alla luce delle aggiornate conoscenze
tecno-scientifiche (articolo ItaliaOggi Sette
dell'08.04.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Campionamento acque reflue.
Domanda
Il campionamento delle acque reflue può avvenire attraverso
un semplice esame visivo?
Risposta
La Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza
del 03.04.2012, numero 12471, ha affermato che ai fini
dell'affermazione della responsabilità di cui all'articolo
137 del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, il
campionamento delle acque reflue non può avvenire soltanto
attraverso l'esame visivo, ma deve essere utilizzato il
metodo di analisi.
Al riguardo, l'allegato 5 alla parte III
del suddetto decreto legislativo 03.04.2006, numero 152,
dispone che le determinazioni analitiche ai fini del
controllo i conformità degli scarichi di acque reflue
industriali devono, di norma, essere riferite a un campione
medio prelevato nell'arco delle tre ore. È facoltà
dell'Autorità preposta al controllo, di effettuare il
campionamento su tempi diversi al fine di ottenere il
campione più adatto a rappresentare lo scarico, qualora lo
giustifichino particolari esigenze, quali quelle derivanti
dalle prescrizioni contenute nell'autorizzazione dello
scarico, dalle caratteristiche del ciclo tecnologico, dal
tipo di scarico, dal tipo di accertamento (accertamento di
routine, accertamento di emergenza ecc.).
L'esercizio di
detta facoltà deve essere motivato nel verbale di
campionamento. Le determinazioni analitiche devono essere
riferite, di norma, ai fini del controllo di conformità
degli scarichi, a un campione medio prelevato nell'arco di
tre ore. Fornendo adeguata motivazione, l'Autorità preposta,
può effettuare il campionamento in tempi diversi. Da ciò si
evince che la regola è il campionamento medio, su indicato,
mentre quello istantaneo è l'eccezione.
La Corte di
cassazione, con la succitata sentenza ha puntualizzato che
non può ravvisarsi alcuna nullità nel caso in cui non sia
stato utilizzato il metodo ordinario di campionamento,
dovendosi piuttosto verificare se il metodo in concreto
adottato abbia prodotto risultati fallaci o comunque
inattendibili. Si richiama, in materia, pure la sentenza del
21.04.20111, numero 16054, della Corte di cassazione,
sezione III penale (articolo
ItaliaOggi Sette dell'08.04.2013). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Appalti.
Per i giudici contabili il bonus va assegnato solamente per
le opere pubbliche. Manutenzioni ed economie senza incentivo
ai progetti.
LA SOMMA URGENZA/ Da valutare caso per caso l'erogazione del
compenso straordinario negli interventi decisi in emergenza.
Per le manutenzioni ordinarie, per i
lavori in economia e per le progettazioni diverse dalle
opere pubbliche non spetta l'incentivo per la realizzazione
di opere pubbliche, mentre nelle cosiddette «somme urgenze»
occorre fare una valutazione caso per caso.
Sono queste le indicazioni di maggiore rilievo contenute nel
parere 19.03.2013 n. 15 della sezione regionale
di controllo della Corte dei Conti della Toscana.
In questo modo si spingono gli enti ad applicare in modo
restrittivo l'incentivazione prevista dall'articolo 92 del
Codice dei contratti (Dlgs n. 163/2006) ai dipendenti
pubblici, pari al 2% dell'importo dell'opera.
Queste indicazioni vengono dopo i chiarimenti che varie
sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti hanno
fornito sul divieto di erogare questo compenso nel caso di
interventi sul verde, di redazione di piani urbanistici
effettuata all'esterno dell'ente e di strumenti urbanistici
non collegati alla realizzazione di lavori pubblici. Ora,
con il parere della magistratura contabile toscana arriva a
compimento il processo di drastica delimitazione dei casi in
cui l'incentivo può essere erogato.
Il parere parte dal richiamo al dettato normativo; esso fa «riferimento
esclusivamente ai lavori pubblici, e l'articolo 92, comma 1,
presuppone l'attività di progettazione nelle varie fasi,
expressis verbis come finalizzata alla costruzione
dell'opera pubblica progettata. A fortiori, lo stesso comma
6 dell'articolo 92 prevede che l'incentivo alla
progettazione venga ripartito tra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto».
In altri termini, il dato normativo subordina il compenso
alla realizzazione di opere pubbliche. Quindi occorre
escludere «i lavori di manutenzione ordinaria, peraltro
finanziati con risorse di parte corrente del bilancio. Lo
stesso può concludersi in riferimento ai lavori in economia,
siano essi connessi o meno ad eventi imprevedibili».
Cioè non siamo in presenza in nessuna di queste due
fattispecie di opere pubbliche.
Le conclusioni sono più differenziate per i lavori di somma
urgenza. In questo caso «appare dirimente, alla luce
delle interpretazioni proposte, valutare la natura del
lavoro eseguito che dovrà presentare i caratteri dell'opera
pubblica o del lavoro finalizzato alla realizzazione di
un'opera di pubblico interesse per poter rientrare»
nell'incentivazione.
Infine, viene chiarito che «l'attività di redazione del
piano di gestione di una Zona di Protezione Speciale, non
rientra in quelle oggetto di incentivo». Anche in questo
caso alla base della esclusione vi è la considerazione che
il dettato legislativo prevede l'incentivo solamente nel
caso di realizzazione di lavori pubblici e non può essere
estesa allo svolgimento di altre attività
(articolo Il
Sole 24 Ore
dell'08.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale.
La Corte dei conti fissa lo stop agli aumenti già nell'anno
di sforamento.
Patto, blocco immediato per il Fondo accessorio. La
certificazione avviene però solo nell'aprile successivo.
Il mancato rispetto del patto di
stabilità e delle norme sul contenimento delle spese di
personale, vietano l'incremento del fondo del salario
accessorio già nell'anno in corso.
L'ormai unanime e consolidato orientamento della Corte dei
conti è stato recentemente riassunto dalla Sezione regionale
della Toscana nel
parere 19.03.2013 n. 13.
Il fondo di parte variabile della contrattazione decentrata
può essere incrementato di anno in anno. La riforma Brunetta
ha, però, introdotto precise condizioni per legittimare
questo comportamento. Il contenuto dell'articolo 40, comma
3-quinquies, del Dlgs 165/2001 è chiaro: l'ente deve
rispettare il patto di stabilità e la riduzione delle spese
di personale.
La norma, però, non ha precisato l'anno a cui fare
riferimento, per la verifica dei vincoli. Le
interpretazioni, in maniera costante, hanno ritenuto che si
debba analizzare sia l'anno precedente (dato certo) che
l'anno in corso. E se questo, a livello di principio non fa
una piega, dal punto di vista operativo crea problemi
rilevanti.
Ipotizziamo che un ente costituisca, nei primi mesi del
2013, il fondo delle risorse decentrate prevedendo anche
incrementi di parte variabile, ad esempio, ai sensi
dell'articolo 15, commi 2 e 5, del Ccnl 01.04.1999. Prima
avrà accertato di aver rispettato il patto e il contenimento
della spesa di personale nel 2012 e anche per il 2013, a
livello previsionale. Sulla base degli importi stanziati nel
fondo avviene la contrattazione integrativa e si
stabiliscono i criteri per l'erogazione dei compensi
correlati a quegli incrementi che devono essere
assolutamente finalizzati al raggiungimento di specifici
obiettivi.
Dopo i vari passaggi di verifica, da parte anche dell'organo
di revisione, si giunge alla stipula del contratto e i
dipendenti svolgono le attività lavorative pattuite.
Secondo la Corte dei conti della Toscana, qualora l'ente non
rispettasse il patto di stabilità (o le spese di personale)
nel 2013, non potrebbe procedere ad erogare le somme
accessorie ai dipendenti. Ed è proprio qui che il sistema si
inceppa. Infatti, i lavoratori -non senza ragione-
potrebbero pretendere l'erogazione delle somme loro dovute,
proprio perché trattasi di attività specifiche ed
effettivamente realizzate, con misurazioni e indicatori
trasparenti.
Tra l'altro, la certificazione ufficiale del rispetto dei
vincoli potrebbe verificarsi, nei fatti, solo con il
rendiconto, da approvarsi entro il 30.04.2014.
Se questa è l'interpretazione a cui si può giungere, viene
da chiedersi quale ente deciderà di integrare il fondo di
parte variabile, visto che, comunque, ci sarà sempre il
rischio che queste somme non potranno essere erogate.
Soprattutto, questo rischio induce gli enti a svolgere la
contrattazione integrativa sempre più avanti nel corso
dell'esercizio finanziario. Operazione che, però, è sempre
stata censurata da parte degli ispettori e dalla Corte dei
conti stessa.
Un circolo vizioso da cui è difficile uscire. Parametri
incerti e certificazioni non fanno altro che alimentare
confusione e accrescere il rischio di contenzioso.
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L'impatto
01|LO STRUMENTO
Il fondo di parte variabile per la contrattazione
integrativa previsto dal Ccnl del 1999 può essere
incrementato di anno in anno e ancorato al raggiungimento di
obiettivi specifici
02| LE CONDIZIONI
La riforma Brunetta ha vincolato l'incremento al rispetto
del patto di stabilità e al raggiungimento di determinati
obiettivi di riduzione dell'organico
03| L'INTERPRETAZIONE
La Corte dei conti della Toscana, in linea con precedenti
orientamenti, ha ritenuto che i vincoli vadano osservati sia
per l'anno precedente che per quello in corso. Ma il
principio è di difficile applicazione operativa e rischia di
spostare troppo avanti la contrattazione integrativa
(articolo Il Sole 24 Ore
dell'08.04.2013). |
NEWS |
ENTI
LOCALI: Volontari
senza compensi. Per realtà diverse dalle associazioni la
regola risulta attenuata.
Dal punto di vista legislativo, il non profit è il prodotto,
anche abbastanza confuso, di norme che regolano in modo
assai differente le svariate tipologie di enti. ...
(articolo
Il Sole 24 Ore dell'08.04.2013 - tratto da
www.fiscooggi.it). |
TRIBUTI:
Verifiche, l'anticipo costa caro.
È nullo l'accertamento emesso prima dei 60 giorni.
Rassegna giurisprudenziale: il termine va sempre concesso (o
quasi). Ecco le eccezioni.
Alla fine di ogni attività di verifica fiscale al
contribuente deve essere concesso il termine di 60 giorni
per le opportune memorie e repliche. La violazione di tale
principio di civiltà giuridica, previsto nell'articolo 12,
comma 7, dello statuto del contribuente, comporta la nullità
dell'avviso di accertamento.
Il suddetto termine e le garanzie a esso connesse possono,
invece, non essere concesse quando l'attività di verifica si
estrinsechi nell'esame di una dichiarazione fiscale
presentata dallo stesso contribuente; oppure quando
l'accertamento sia scattato per effetto di segnalazioni,
rapporti o comunicazioni pervenute presso gli uffici
accertatori anche da altri organi dell'amministrazione;
oppure a seguito di semplici richieste di esibizioni
documentali, questionari, inviti e quant'altro.
L'esame delle ultimissime sentenze, sia di legittimità sia
di merito, sull'annosa questione relativa alla concessione
del termine di 60 giorni prima dell'emanazione dell'atto di
accertamento evidenzia come il quadro di riferimento si stia
facendo sempre più chiaro.
In linea generale si può affermare che tale diritto deve
sempre essere concesso quando la verifica fiscale preveda
accessi presso la sede del contribuente e/o acquisizione di
documenti contabili, libri, registri ecc., fatti ovviamente
salvi i particolari e motivati casi di urgenza previsti
dalla stessa disposizione normativa.
Al contrario, in presenza di mere attività di controllo e
liquidazione delle dichiarazioni fiscali o di verifiche che
traggono spunto da altri indizi e segnalazioni quali, per
esempio i controlli incrociati, tale termine non dovrà
essere concesso e l'ufficio potrà procedere direttamente
all'emissione dell'avviso di accertamento senza concedere
alcun termine per repliche o memorie al contribuente.
La questione è di assoluto rilievo. L'omessa concessione del
termine dei sessanta giorni comporta, infatti, la nullità
dell'avviso di accertamento travolgendo a priori l'intera
attività di verifica posta in essere dagli uffici.
In attesa che sullo specifico tema si pronuncino le sezioni
unite della Cassazione appositamente investite, è utile
esaminare, almeno in sintesi, il contenuto delle più recenti
pronunce della giurisprudenza tributaria sulla questione (si
veda tabella in pagina).
Cassazione, sentenza 16999/2012. Nel caso di specie i
giudici di legittimità hanno accolto le istanze del
contribuente, ribaltando il giudicato della regionale,
dichiarando nullo l'accertamento e la decisione del giudice
dell'appello per «non aver rilevato l'illegittimità
dell'avviso impugnato, ancorché notificato prima dello
scadere del termine di sessanta giorni dalla data di
consegna del processo verbale di constatazione».
La circostanza che il contribuente, prima dello spirare dei
60 giorni dalla consegna del pvc e prima della notifica
dell'accertamento avesse prodotto delle memorie di parte non
rileva in alcun modo né si può pensare che con un tale atto
si sia potuto interrompere o derogare, al termine di cui
all'articolo 12, comma 7, dello statuto del contribuente.
Deve peraltro considerarsi, si legge in sentenza, che la
Corte costituzionale con l'ordinanza n. 244/2009 e la stessa
Corte di cassazione con la sentenza n. 22320/2010, hanno
puntualizzato che la mancata osservanza della disposizione
contenuta nel comma 7 dell'articolo 12 dello statuto del
contribuente «implica la sanzione della nullità dell'avviso
di accertamento emesso in violazione del termine dilatorio e
in assenza di motivazione sull'urgenza che ne ha determinato
l'adozione». Sanzione della nullità che scatta in
applicazione delle seguenti disposizioni normative:
l'articolo 7, comma 1, dello statuto del contribuente;
articoli 3 e 21-septies della legge n. 241/1990 (cosiddetta
trasparenza amministrativa); articolo 42, commi 2 e 3, del
dpr 600/1973 per le imposte dirette e articolo 56, comma 5,
del dpr 633/1972 per l'imposta sul valore aggiunto.
Ctr Toscana, sentenza 19/2013. Del tutto simile alle
conclusioni della sentenza dei giudici di legittimità ora
esaminata anche il dispositivo dei giudici della regionale
toscana contenuto nella sentenza n. 19 del 18 gennaio
scorso. Il caso riguardava un accertamento da studi di
settore sulla base del quale l'ufficio aveva eseguito
un'attività di controllo preceduta dalla richiesta di
documentazione contabile relativa all'anno d'imposta 2003,
alla quale era seguito un vero e proprio accesso presso i
locali della società contribuente al preciso fine di
reperire ulteriori documenti contabili.
L'avviso di accertamento veniva emesso dall'ufficio prima
della scadenza del termine di 60 giorni decorrente dal
rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle
operazioni di verifica, senza peraltro dare menzione nello
stesso della particolare e motivata urgenza alla base di
tale mancato rispetto.
Preso atto di tutto ciò la regionale, considerando tale
eccezione come preliminare e prevalente anche sul merito del
ricorso stesso, ha deciso che «nell'avviso di accertamento
in oggetto manca l'obbligatoria motivazione da parte
dell'ufficio della particolare urgenza di anticipare
l'emissione dell'avviso di accertamento con la conseguente
invalidità dello stesso».
Ctr Campania, sentenza 243/2012. Se esistano validi motivi
per derogare al termine dei 60 giorni, quali il fondato
pericolo per la riscossione del credito erariale, questi
devono comunque essere esplicitati nella motivazione
dell'atto di accertamento altrimenti lo stesso non potrà che
essere dichiarato nullo.
È quanto deciso dai giudici della regionale della Campania,
nonostante l'accertamento fosse stato emesso nei confronti
di una società che non aveva presentato la dichiarazione dei
redditi e per la quale la guardia di finanza aveva accertato
un reddito d'impresa di oltre 200 mila euro.
Inutile la difesa dell'ufficio che aveva controdedotto
«evidenziando che esistevano i motivi di urgenza previsti
dal comma 7 dell'articolo 12 della legge 212/2000, in quanto
sussistevano fondate ragioni di pericolo per la riscossione
del credito ritenuto che la società, in liquidazione dal
2006, poteva in qualsiasi momento procedere alla cessazione
dell'attività».
La carenza motivazionale e il mancato rispetto della
disposizione contenuta nello statuto del contribuente ha
prevalso anche sulle postume argomentazioni dell'ufficio
circa l'esistenza di validi motivi per derogare il termine.
Ctr Liguria, sentenza 97/2012. Qualunque atto e non soltanto
il pvc di chiusura delle operazioni di verifica, deve essere
assoggettato al termine dei 60 giorni previsto dallo statuto
del contribuente.
Quando l'ufficio opera in contraddittorio con il
contribuente, deve redigere un verbale di chiusura e
concedere il termine per le memorie e repliche al
contribuente prima di procedere con l'emissione
dell'accertamento.
Vana la linea difensiva dell'amministrazione finanziaria che
sosteneva di aver eseguito soltanto un accesso per acquisire
documentazione e per rilevare la correttezza dei dati
rilevanti ai fini dell'applicazione degli studi di settore (articolo
ItaliaOggi Sette dell'08.04.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
VARI: Scatola nera a prova di privacy.
L'automobilista può dire stop in qualsiasi momento.
Le prescrizioni contenute nel regolamento Ivass in
consultazione fino al 30 aprile.
L'automobilista può staccare la scatola nera dell'auto in
qualsiasi momento.
È uno degli accorgimenti per la tutela
della privacy, che il garante ha inserito nel regolamento
sulla disciplina la raccolta, la gestione e l'utilizzo dei
dati trattati dalle cosiddette «scatole nere» (articolo 32,
comma 1-bis, del dl 1/2012). Le scatole nere sono
dispositivi elettronici che registrano l'attività dei
veicoli sui quali sono installati.
Per la piena operatività della scatola nera sono previsti
tre provvedimenti attuativi:
- un decreto che individua le caratteristiche tecniche (si
veda ItaliaOggi del 06.02.2013);
- un regolamento Ivass, sulle modalità di raccolta (è il
documento qui in esame);
- infine un decreto ministeriale sugli standard tecnologici
comuni hardware e software, ai quali le imprese di
assicurazione dovranno adeguarsi entro due anni.
Con la scatola nera si possono avere riscontri certi sui
sinistri ed evitare frodi da incidenti inesistenti.
Da qui un vantaggio per le compagnie. Ma anche per i
consumatori, che se accettando le scatole nere, possono
fruire di tariffe scontate.
Un problema è, però, quello della privacy, visto che la
scatola raccoglie molti dati personali.
Per arginare i pericoli il regolamento in itinere ha
previsto una serie di garanzie. Lo schema di provvedimento
predisposto di concerto dall'Ivass, dal ministero dello
sviluppo economico e dal Garante della privacy è in
consultazione pubblica fino al 30 aprile 2013, per
raccogliere suggerimenti e proposte. Vediamo i contenuti più
rilevanti dello schema.
La scatola nera. I costi dei meccanismi elettronici sono a
carico delle imprese di assicurazione e la riduzione di
premio va riconosciuta all'atto della stipulazione del
contratto o in occasione delle scadenze successive. Le
scatole nere possono servire per trattare i singoli
sinistri.
Inoltre i dati raccolti (ad esempio tipo di strade percorse,
chilometri percorsi, le ore e i giorni di utilizzo del
veicolo) possono consentire di offrire coperture
personalizzate.
Le scatole nere, dal punto di vista tecnologico, possono
essere in grado di offrire ulteriori funzioni, finalizzate
alla prestazione di servizi aggiuntivi rispetto al contratto
di assicurazione Rc auto, legati ad esempio al furto del
veicolo o alla prestazione di assistenza sul posto in caso
di incidente. Inoltre, la prestazione di servizi
assicurativi aggiuntivi non può costituire condizione per
l'accesso al contratto di assicurazione Rc auto con scatola
nera.
Dati. Le scatole nere raccolgono molti dati tra cui le
percorrenze del veicolo e a quelli utilizzabili ai fini
della ricostruzione della dinamica di un sinistro. Questi
ultimi dati consentono la localizzazione del veicolo al
momento dell'incidente e l'ubicazione del punto d'urto: sarà
possibile valutare con maggiore attendibilità i danni
connessi ai sinistri. Peraltro i dati possono essere
conosciuti solo in caso di sinistro.
Stop alla registrazione. Su richiesta del garante della
privacy è stato precisato che deve essere garantita al
richiedente, in forma gratuita e mediante una funzione
semplice, la possibilità di interrompere immediatamente il
trattamento dei dati relativi all'ubicazione, anche
attraverso modalità telefoniche o telematiche.
Privacy. Per la tutela della riservatezza il regolamento
prevede che i meccanismi elettronici vengano configurati
riducendo al minimo la rilevazione dei dati personali e
utilizzando tecniche di cifratura adeguate a tutela delle
informazioni. I dati personali trattati dalle imprese e dai
soggetti terzi dovranno essere esatti, aggiornati e
completi, nonché pertinenti e non eccedenti rispetto alle
finalità che ne hanno giustificato la raccolta. Sempre a
garanzia della privacy sono previsti: l'obbligo di
informativa, anche a mezzo di apposite vetrofanie apposte
sul veicolo, sulle caratteristiche dei trattamenti svolti;
l'obbligo di adozione delle misure minime di sicurezza
indicate dagli articoli 33 e seguenti e dall'allegato B del
Codice della privacy.
La compagnia deve anche effettuare la notifica al Garante
del trattamento dei dati che indicano la posizione
geografica di persone od oggetti.
Il regolamento prevede che debba essere stabilito il periodo
massimo di conservazione dei dati. In particolare il Garante
prevede che per le finalità tariffarie i dati non possano
essere conservati oltre il periodo strettamente necessario
alla determinazione delle tariffe e, comunque, non oltre un
termine massimo (da definire sulla base delle osservazioni
che saranno formulate in pubblica consultazione) e, in caso
di sinistro, non oltre due anni. I dati rilevati dalle
scatole nere, ove memorizzati all'interno dei dispositivi,
devono essere cancellati subito dopo la loro trasmissione
agli eventuali soggetti terzi.
Preventivi. Lo schema di regolamento prescrive che le
imprese debbano fornire preventivi personalizzati in
relazione a prodotti con installazione di scatola nera
attraverso i propri siti internet. Deve essere alimentato
inoltre il servizio di preventivazione online (Tuopreventivatore)
fornito da Ivass e MiSE. Così il consumatore potrà misurare
il risparmio connesso alla stipulazione di polizze che
prevedono l'installazione della scatola nera e nello stesso
tempo di confrontare i prodotti di diverse imprese.
Portabilità. Lo schema di regolamento disciplina
l'interoperabilità dei dispositivi in caso di sottoscrizione
di un contratto Rc auto con un'impresa diversa da quella che
li ha installati (articolo ItaliaOggi
Sette dell'08.04.2013). |
TRIBUTI: La
giurisprudenza. Interpretazioni diverse sulla domanda di
variazione. Per i fabbricati rurali rebus della
retroattività.
LE ULTIME PRONUNCE/ A Mantova agevolazioni riconosciute dopo
la semplice richiesta, a Modena serve la classificazione
catastale.
Le domande di variazione catastale per ottenere la ruralità
del fabbricato, presentate in base al Dl 70/2011 e al Dm
26.07.2012, hanno effetto retroattivo.
È questa la conclusione a cui è pervenuta la Ctp di Mantova
con la sentenza del 10 gennaio scorso, annullando gli avvisi
di accertamento Ici relativi alle annualità 2006 e 2007.
La controversia riguardava alcuni fabbricati in categoria
C/2, C/6 e D/8, che per il contribuente non potevano essere
assoggettati all'imposta in quanto da considerarsi rurali ai
sensi dell'articolo 9 del Dl 557/1993, a prescindere dal
loro inquadramento catastale. Nel 2011 era stata peraltro
presentata domanda per il riconoscimento di ruralità.
Il Comune chiedeva il rigetto del ricorso in virtù del
costante insegnamento della Cassazione sulla ruralità dei
fabbricati vincolata alle risultanze catastali (categorie
A/6 e D/10). Tuttavia la commissione tributaria ha ritenuto
che la presentazione della domanda e l'inserimento negli
atti catastali dell'annotazione consentono di riconoscere la
ruralità a decorrere dal quinto anno antecedente alla
domanda, come previsto dal Dm del 2012.
La decisione della Ctp di Mantova ripropone la querelle
relativa alla valenza retroattiva delle domande per il
riconoscimento della ruralità, tema sul quale la
giurisprudenza si mostra oscillante.
A favore della retroattività si è tra l'altro schierata la
Ctr di Bologna con la sentenza 65/2012, mentre sul fronte
opposto si segnala la Ctr di Milano con la sentenza 77/2012.
Più recentemente si è espressa la Ctp di Modena con la
sentenza 75/2013 (si veda Il Sole 24 Ore del 31 marzo) che è
andata al cuore del problema sottolineando che il Dl 70/2011
–con il quale veniva recepito l'orientamento della
Cassazione sull'accatastamento in D/10 per i fabbricati
strumentali– è stato abrogato dal Dl 201/2011 ed è rimasto
in vigore fino al 31.12.2011: di conseguenza l'esenzione Ici
spetta solo ai fabbricati che risultano classati in
categoria rurale.
Dopo la sentenza 10/2013 della Ctp di Mantova, che fa leva
sul Dm del 2012, la questione assume contorni sempre più
confusi e resta il rebus retroattività. Sul punto si ritiene
che il Dm 26.07.2012 abbia travalicato la fonte legislativa
primaria (Dl 201/2011) che non prevede in alcun modo il
riconoscimento retroattivo della ruralità, né lo prevedeva
il Dl 70/2011.
La questione è risolvibile soltanto con un'espressa
previsione normativa primaria che attribuisca effetto
retroattivo alla variazione catastale. In assenza, è
applicabile il principio contenuto nell'articolo 11 delle
Preleggi secondo cui la legge non può avere effetto
retroattivo
(articolo Il
Sole 24 Ore
dell'08.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Il termine per impugnare il permesso di costruire
da parte del proprietario confinante decorra di regola dalla
data di ultimazione dei lavori, o comunque dal momento in
cui questi manifestino in modo chiaro e univoco le loro
caratteristiche essenziali, con la sola eccezione del caso
in cui il ricorrente contesti in radice la stessa
possibilità di edificazione.
Per questo, è jus receptum in giurisprudenza che il termine per
impugnare il permesso di costruire da parte del proprietario
confinante decorra di regola dalla data di ultimazione dei
lavori, o comunque dal momento in cui questi manifestino in
modo chiaro e univoco le loro caratteristiche essenziali,
con la sola eccezione del caso –che nella specie non
ricorre– in cui il ricorrente contesti in radice la stessa
possibilità di edificazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.11.2012, nr. 5657; id., 30.07.2012, nr. 4287; id.,
28.01.2011, nr. 678; id., 23.07.2009, nr. 4616) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.04.2013 n. 1904 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sui giudizi afferenti prove di
esame o di concorso, il sindacato di legittimità del giudice
amministrativo è limitato al riscontro del vizio di eccesso
di potere per illogicità, con riferimento ad ipotesi di
erroneità o irragionevolezza riscontrabile ictu oculi dalla
sola lettura degli atti. Pertanto, solo in siffatte ipotesi
è ammissibile il sindacato del giudice in subiecta materia,
senza che si verifichi uno sconfinamento nel merito
amministrativo e, quindi, una non ammessa sostituzione di
una valutazione propria del giudice a quella rientrante
nelle competenze proprie della Commissione di concorso.
Giova richiamare al riguardo che, in base a un consolidato
orientamento che il Collegio condivide (non rinvenendosi
ragioni per discostarsene), sui giudizi afferenti prove di
esame o di concorso, il sindacato di legittimità del giudice
amministrativo è limitato al riscontro del vizio di eccesso
di potere per illogicità, con riferimento ad ipotesi di
erroneità o irragionevolezza riscontrabile ictu oculi dalla
sola lettura degli atti. Pertanto, solo in siffatte ipotesi
è ammissibile il sindacato del giudice in subiecta materia,
senza che si verifichi uno sconfinamento nel merito
amministrativo e, quindi, una non ammessa sostituzione di
una valutazione propria del giudice a quella rientrante
nelle competenze proprie della Commissione di concorso (in
tal senso –ex plurimis -: Cons. Stato, IV, 16.04.2012,
n. 2196; id., III, 13.07.2011, n. 4229; id., VI, 23.12.2010, n. 9339; id., VI,
27.08.2010, n. 5988) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.04.2013 n. 1883 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Deve ritenersi legittima
la variante di piano regolatore che, al fine di tutelare una
parte del territorio comunale particolarmente rilevante per
il suo pregio ambientale, storico o artistico, dispone
restrizioni edificatorie e particolari salvaguardie della
zona agricola, la cui funzione non è solo quella di
valorizzare l’attività agricola vera e propria, ma anche
quella di garantire ai cittadini l’equilibrio delle
condizioni di vivibilità, assicurando loro quella quota di
valori naturalistici necessaria a compensare gli effetti
dell’espansione dell'aggregato urbano.
Come, peraltro, condivisibilmente statuito da questo Consiglio di Stato
in materia di pianificazione urbanistica, deve ritenersi
legittima la variante di piano regolatore che, al fine di
tutelare una parte del territorio comunale particolarmente
rilevante per il suo pregio ambientale, storico o artistico,
dispone restrizioni edificatorie e particolari salvaguardie
della zona agricola, la cui funzione non è solo quella di
valorizzare l’attività agricola vera e propria, ma anche
quella di garantire ai cittadini l’equilibrio delle
condizioni di vivibilità, assicurando loro quella quota di
valori naturalistici necessaria a compensare gli effetti
dell’espansione dell'aggregato urbano (v., sul punto, per
tutte, C.d.S., Sez. IV, 13.10.2010, n. 7478, in una
fattispecie connotata dall’apposizione di un termine alle
previsioni di una variante di piano regolatore in attesa
dell’elaborazione di una futura variante generale, ritenuta
legittima sulla base del condivisibile rilievo che la
previsione di tale limite temporale costituiva una
ragionevole misura cautelativa rientrante nei poteri di
buona amministrazione e, per di più, introduceva una
disciplina più favorevole ai privati, poiché, in mancanza di
una tempestiva adozione della variante generale, le
previsioni temporanee sarebbero state destinate a cadere) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.04.2013 n. 1882 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In sede di rilascio di
concessione edilizia in sanatoria deve tenersi conto dei
vincoli esistenti al momento dell’adozione del
provvedimento, a prescindere dall’epoca di introduzione del
vincolo stesso e, quindi, della sua vigenza al momento della
realizzazione del manufatto.
Le concessioni edilizie in sanatoria, alla data di istituzione del parco
non erano ancora state emesse e, una volta istituito il
parco stesso, il rilascio del titolo edilizio non poteva
avvenire senza il preventivo nulla osta dell’Ente Parco
Nazionale delle Cinque Terre.
Nemmeno rileva la circostanza
che le opere fossero state realizzate antecedentemente a
tale istituzione (avvenuta, come detto, con d.P.R. 06.10.1999), atteso il consolidato orientamento (cfr., per
tutte, Cons. Stato, VI, 23.02.2011, n. 1127 e 15.06.2009, n.
3806) secondo cui in sede di rilascio di concessione
edilizia in sanatoria deve tenersi conto dei vincoli
esistenti al momento dell’adozione del provvedimento, a
prescindere dall’epoca di introduzione del vincolo stesso e,
quindi, della sua vigenza al momento della realizzazione del
manufatto (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.04.2013 n. 1874 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
a) l’autorità delegata preposta alla tutela del
vincolo deve esercitare il proprio potere motivando
adeguatamente sulla compatibilità con il vincolo
paesaggistico dell’opera specificamente assentita, in
relazione a tutte le circostanze rilevanti nel caso di
specie, sussistendo, in caso contrario, illegittimità per
carenza di motivazione o di istruttoria;
b) il potere di annullamento della Soprintendenza non
consente il riesame nel merito delle valutazioni compiute
dalla Regione, o dall’ente subdelegato, ma si esprime in un
sindacato di legittimità, esteso a tutte le ipotesi
riconducibili all'eccesso di potere, anche per difetto di
motivazione o di istruttoria e dunque riguardante anche la
compiuta presa in considerazione delle circostanze concrete
e rilevanti per il giudizio di compatibilità;
c) l’autorità statale, con un tale potere di cogestione del
vincolo, dato dalla legge ad estrema difesa del vincolo
stesso, se ravvisa nell’atto oggetto del suo riesame un
vizio di difetto di motivazione o di istruttoria, nel
proprio provvedimento può motivare sulla non compatibilità
degli interventi progettati rispetto ai valori paesaggistici
compendiati nel vincolo.
Nei singoli casi è quindi anzitutto necessario verificare se
alla base dell’annullamento dell’autorizzazione esaminata da
parte della Soprintendenza competente si riscontri
l’incompiutezza o l’inadeguatezza della valutazione di
compatibilità paesaggistica resa dalla Regione o dall’ente
locale delegato; ciò che si verifica quando le
caratteristiche dell’intervento non vi sono individuate,
raffrontate e giustificate con i valori riconosciuti e
protetti dal vincolo e la compatibilità paesaggistica è
quindi soltanto asserita, senza che sia esposta l’analisi
delle ragioni che la motivano.
Sui limiti dell’esame da parte della Soprintendenza
dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione
(o da un ente subdelegato), si richiama la giurisprudenza
costante di questo Consiglio di Stato, per la quale:
a)
l’autorità delegata preposta alla tutela del vincolo deve
esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla
compatibilità con il vincolo paesaggistico dell’opera
specificamente assentita, in relazione a tutte le
circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in
caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o
di istruttoria;
b) il potere di annullamento della
Soprintendenza non consente il riesame nel merito delle
valutazioni compiute dalla Regione, o dall’ente subdelegato,
ma si esprime in un sindacato di legittimità, esteso a tutte
le ipotesi riconducibili all'eccesso di potere, anche per
difetto di motivazione o di istruttoria e dunque riguardante
anche la compiuta presa in considerazione delle circostanze
concrete e rilevanti per il giudizio di compatibilità;
c)
l’autorità statale, con un tale potere di cogestione del
vincolo, dato dalla legge ad estrema difesa del vincolo
stesso (Corte cost., 27.06.1986, n. 151; 18.10.1996, n. 341; 25.10.2000, n. 437), se ravvisa nell’atto
oggetto del suo riesame un vizio di difetto di motivazione o
di istruttoria, nel proprio provvedimento può motivare sulla
non compatibilità degli interventi progettati rispetto ai
valori paesaggistici compendiati nel vincolo (Cons. Stato,
Ad. plen., 14.12.2001, n. 9; VI, 11.06.2012, n.
3401; 22.06.2011, n. 3767; 26.07.2010, n. 4861; 22.03.2007, n. 1362).
Nei singoli casi è quindi anzitutto necessario verificare se
alla base dell’annullamento dell’autorizzazione esaminata da
parte della Soprintendenza competente si riscontri
l’incompiutezza o l’inadeguatezza della valutazione di
compatibilità paesaggistica resa dalla Regione o dall’ente
locale delegato; ciò che si verifica quando le
caratteristiche dell’intervento non vi sono individuate,
raffrontate e giustificate con i valori riconosciuti e
protetti dal vincolo e la compatibilità paesaggistica è
quindi soltanto asserita, senza che sia esposta l’analisi
delle ragioni che la motivano (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.03.2013 n. 1843 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI: Derivati.
Contratti annullabili se ci sono stati meno concorrenti.
Swap, serve una gara a cinque.
IL PARAMETRO/ Per il Tar Piemonte il requisito è essenziale
perché l'ente deve sempre tendere a un concreto vantaggio
economico.
I contratti derivati comportano spese che impegnano i
bilanci per gli esercizi successivi. Spetta esclusivamente
al consiglio comunale la competenza ad autorizzarli. Se la
decisione è stata assunta dalla Giunta, la delibera può
essere annullata (anche nove anni dopo la sua adozione)
privando di effetti ex tunc pure i contratti stipulati.
Lo afferma, in termini molto netti, la
sentenza 22.03.2013 n. 343 del TAR Piemonte, Sez.
I (si veda Il Sole 24 Ore del 5 aprile).
La pronuncia contiene dei chiarimenti assai importanti. Se
vengono in questione elementi del procedimento prodromico
alla stipula (la incompetenza dell'organo, il mancato
esperimento di una selezione della controparte),
l'annullamento è sempre possibile e la conseguenza sarà la
caducazione dei contratti. Se invece si tratta della
violazione di obblighi informativi, dello squilibrio delle
prestazioni contrattuali o di malafede, l'amministrazione
non può utilizzare l'auotutela, ma deve agire davanti al
giudice ordinario.
I contratti derivati, per quanto "servizi esclusi",
devono comunque essere aggiudicati dopo una procedura
comparativa almeno tra cinque concorrenti, perché l'ente
pubblico deve sempre tendere al conseguimento delle migliori
condizioni economiche. In mancanza, l'aggiudicazione può
essere annullata.
In ogni caso, se l'annullamento viene deciso dopo nove anni
dalla stipula, si tratta comunque di un «termine
ragionevole» perché sono in gioco gravi illegittimità
procedimentali. Su questo il collegio si spinge a ritenere
che non merita alcuna tutela il legittimo affidamento posto
dalle banche, se queste hanno a loro volta omesso obblighi
informativi e agito in conflitto di interesse verso l'ente.
A prescindere dai derivati, la sentenza costituisce un
prezioso punto di riferimento giurisprudenziale perché
ribadisce la tesi della caducazione automatica dei contratti
in caso di autotutela validamente esercitata, inserendosi
nel solco delle recenti posizioni del Consiglio di Stato.
In tal senso, la sentenza fissa un criterio di
ragionevolezza che sposta molto in avanti (nove anni
appunto) il termine per l'autotutela. Da questo punto di
vista, la pronuncia mette in secondo piano l'affidamento
posto dai privati sulla persistenza degli effetti
dell'azione amministrativa (oggetto del successivo riesame),
perché nega completamente le aspettative della banca ad un
indennizzo
(articolo Il
Sole 24 Ore
dell'08.04.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
AGGIORNAMENTO ALL'08.04.2013 |
ã |
IN EVIDENZA |
La proroga del
termine di ultimazione lavori non si può concedere
nel caso della D.I.A. !! |
EDILIZIA PRIVATA:
Si deve escludere che l’istituto
della proroga dei termini di ultimazione dei lavori,
prevista per il permesso di costruire dall’art. 15
del DPR 380/2001, possa trovare applicazione anche
alla denuncia di inizio attività (DIA).
Si deve escludere che l’istituto della proroga dei
termini di ultimazione dei lavori, prevista per il
permesso di costruire dall’art. 15 del DPR 380/2001,
possa trovare applicazione –come vorrebbe invece la
parte istante– anche alla denuncia di inizio
attività (DIA).
L’art. 23, comma 2, del DPR 380/2001 (Testo Unico
dell’edilizia), stabilisce, in caso di omessa
ultimazione dei lavori di cui alla DIA, che <<La
realizzazione della parte non ultimata
dell’intervento è subordinata a nuova denuncia>>.
Inoltre, l’art. 42, comma 6, della legge della
Regione Lombardia n. 12/2005 sul governo del
territorio, prevede espressamente che i lavori di
cui alla DIA debbano essere ultimati entro tre anni
dall’inizio dei lavori, altrimenti: <<La
realizzazione della parte di intervento non ultimata
nel predetto termine è subordinata a nuova denuncia>>.
Tale ultima norma è interpretata, anche dalla
dottrina, nel senso che non è ammissibile una
formale proroga dei termini di ultimazione dei
lavori oggetto di DIA, essendo solo consentita la
presentazione di altra denuncia di inizio attività.
Del resto, visto che alla DIA deve riconoscersi
natura di atto del privato, con il quale
quest’ultimo sotto la propria responsabilità si
assume l’onere di eseguire determinate opere in un
tempo definito (cfr. Consiglio di Stato, Adunanza
Plenaria n. 15/2011), non appare illogico o
irragionevole che, in caso di mancata ultimazione
dei lavori, debba presentarsi una nuova denuncia di
inizio attività.
Ciò premesso e tenuto conto che il Comune di Como ha
dato applicazione ad una precisa norma di legge
(appunto, i citati art. 23 ed art. 42), senza alcuno
spazio per altre e differenti valutazioni, non
meritano accoglimento neppure le censure relative
alla presunta violazione dell’art. 10-bis della
legge 241/1990 e delle norme sul c.d. giusto
procedimento.
E’ fatta ovviamente salva la facoltà
per l’esponente di presentare apposita DIA per il
completamento dei lavori, da esaminarsi da parte del
Comune di Como (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.03.2013 n. 619 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Le PP.AA. devono parlarsi mediante e-mail.
Indaffarati come siamo, ogni giorno, leggiamo troppo di
fretta la Gazzetta Ufficiale e, magari, non analizziamo a
fondo alcune norme che sembrano avere, di primo acchito,
poca importanza ma così non è.
Una di queste, di recente introduzione, riguarda la
modalità di interlocuzione tra le varie PP.AA. e ciò che
stride è che l'atteggiamento di forte ritrosia, nel
conformarsi al nuovo modus operandi dettato dal
legislatore, perviene proprio da enti che ci potrebbero/dovrebbero, in
un qualche modo, anche bacchettare: Corte dei Conti, Procura della
Repubblica, ecc.
Venendo al dunque,
il D.Lgs. 07.03.2005 n. 82 (Codice dell'amministrazione
digitale) all'art. 47 così recita: "Art. 47.
Trasmissione dei documenti attraverso la posta elettronica
tra le pubbliche amministrazioni.
1.
Le comunicazioni di documenti tra le pubbliche
amministrazioni avvengono mediante l'utilizzo della posta
elettronica o in cooperazione applicativa; esse sono valide
ai fini del procedimento amministrativo una volta che ne sia
verificata la provenienza.
1-bis.
L'inosservanza della disposizione di cui al comma 1, ferma
restando l'eventuale responsabilità per danno erariale,
comporta responsabilità dirigenziale e responsabilità
disciplinare (comma introdotto
dall'art. 6, comma 1, lettera a), legge 17.12.2012 n. 221)
2.
Ai fini della verifica della provenienza le comunicazioni
sono valide se:
a) sono sottoscritte con firma digitale o altro tipo di firma
elettronica qualificata;
b) ovvero sono dotate di segnatura di protocollo di cui
all'articolo 55 del d.P.R. 28.12.2000, n. 445;
c) ovvero è comunque possibile accertarne altrimenti la
provenienza, secondo quanto previsto dalla normativa vigente
o dalle regole tecniche di cui all'articolo 71;
d) ovvero trasmesse attraverso sistemi di posta elettronica
certificata di cui al d.P.R. 11.02.2005, n. 68.
3.
Le pubbliche amministrazioni e gli altri soggetti di cui
all'articolo 2, comma 2, provvedono ad istituire e
pubblicare nell'Indice PA almeno una casella di posta
elettronica certificata per ciascun registro di protocollo.
La pubbliche amministrazioni utilizzano per le comunicazioni
tra l'amministrazione ed i propri dipendenti la posta
elettronica o altri strumenti informatici di comunicazione
nel rispetto delle norme in materia di protezione dei dati
personali e previa informativa agli interessati in merito al
grado di riservatezza degli strumenti utilizzati.".
Ebbene, troppo spesso -ancora
oggi- tra le PP.AA. si interloquisce con lettera normale,
raccomandata a.r., telefax ... Quindi, chi sottoscrive
l'atto da inviare ad altra P.A. veda di memorizzare quanto
dispone il sopra menzionato comma 1-bis e agisca di
conseguenza se non vuol rimetterci col proprio portafoglio
(e non solo) ... e se l'interlocutore (sempre una P.A.)
pretende di comportarsi come nella vecchia 1^ Repubblica,
disconoscendo le nuove tecnologie informatiche, mandatelo a
quel paese ... (prima, però, ricordategli che nel qual caso
sarete costretti ad informare il suo Superiore gerarchico
...).
08.04.2013 - LA SEGRETERIA PTPL |
UTILITA' |
ENTI LOCALI: Piccoli
Comuni e Gestioni Associate - Documentazione.
Pubblichiamo una rassegna della documentazione relativa alla
costituzione delle Gestioni Associate Obbligatorie
A seguito dell'introduzione nel nostro ordinamento di
importanti Leggi e provvedimenti che hanno interessato i
Piccoli Comuni e le forme associative, pubblichiamo una
rassegna della normativa e dei materiali inerenti a queste
tematiche.
- della Legge n. 135/2012 e, in particolare, dell'art. 19 in
merito all'individuazione delle funzioni fondamentali dei
Comuni e sulle modalitàdi esercizio associato delle funzioni
e dei servizi comunali, pubblichiamo una prima nota di
lettura sulle numerose novità introdotte per i Piccoli
Comuni e le forme associative delle Unioni e delle
Convenzioni
(03.04.2013 - link a www.anci.lombardia.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 15 dell'08.04.2013, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in
acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 31.03.2013, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 03.04.2013 n. 35). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
05.04.2013 n. 80, suppl. ord. n. 26, "Adozione della nota
metodologica e del fabbisogno standard per ciascun Comune e
Provincia, relativi alle funzioni di polizia locale
(Comuni), e alle funzioni nel campo dello sviluppo economico
- servizi del mercato del lavoro (Province), ai sensi
dell’art. 6 del decreto legislativo n. 216/2010" (D.P.C.M.
21.12.2012). |
APPALTI -
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI -
URBANISTICA:
G.U. 05.04.2013 n. 80 "Riordino della disciplina
riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e
diffusione di informazioni da parte delle pubbliche
amministrazioni"
(D.Lgs.
14.03.2013 n. 33).
---------------
Sull'argomento, si legga un primo commento dell'Avv.
Lorenzo Spallino:
D.lgs. 33/2013: gli obblighi di pubblicazione on-line in
materia urbanistica ed edilizia (07.04.2013 -
link a http://studiospallino.blogspot.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: indirizzi di prevenzione incendi per le aree
mercadali, fiere commerciali e manifestazioni varie a
carattere temporaneo, svolte lungo le vie cittadine
(Ministero dell'Interno, Comando Provinciale dei Vigili del
Fuoco di Reggio Emilia,
lettera-circolare 26.03.2013 n. 3350 di prot.). |
SINDACATI |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Il foglio dei lavoratori della Funzione
Pubblica (CGIL-FP
di Bergamo,
marzo 2013). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: prosecuzione del servizio di un dipendente per
mancato raggiungimento del minimo contributo
(nota
04.04.2013 n. 15888 di prot.). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Savatteri,
La cessione di cubatura alla luce delle ultime pronunce del
Consiglio di Stato e delle recenti norme in materia di
trascrizione
(Urbanistica e appalti n. 4/2013). |
APPALTI: S.
Usai,
La nomina della commissione aggiudicatrice nel cottimo
fiduciario (Urbanistica e appalti n. 4/2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI -
URBANISTICA:
L. Spallino,
D.lgs. 33/2013: gli obblighi di pubblicazione on-line in
materia urbanistica ed edilizia (07.04.2013 - link a
http://studiospallino.blogspot.it).
(link a www. |
APPALTI SERVIZI: D.
Argenio,
Gli appalti riservati ex art. 52 D.LGS. 163/2006 e la
definizione dei c.d. "laboratori protetti"
(26.11.2010 - link a www.dirittoelegge.it). |
APPALTI: D.
Argenio, Il responsabile unico del procedimento nel codice
dei contratti pubblici:
parte 1^ -
parte 2^ -
parte 3^ (01-18.04.2010
- link a www.dirittoelegge.it). |
APPALTI: C.
Bibi,
Holding e avvalimento infragruppo
(13.04.2010 - link a www.dirittoelegge.it). |
LAVORI PUBBLICI:
D. Argenio,
Attestazioni di qualificazione delle SOA e poteri
sanzionatori dell’Autorità di vigilanza sui contratti
pubblici (art. 40 d.lgs. 163/2006)
(07.01.2010 - link a www.dirittoelegge.it). |
APPALTI: D.
Argenio,
L’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici: vecchi e
nuovi compiti dopo il Codice De Lise
(21.12.2009 - link a www.dirittoelegge.it). |
APPALTI SERVIZI: F.
Del Deo,
Affidamento di servizi ed associazioni di volontariato
(20.11.2009 - link a www.dirittoelegge.it). |
APPALTI SERVIZI: D.
Argenio, Servizi sociali e codice De Lise:
Gli appalti di servizi dell’allegato II B esclusi dal D.Lgs.
163/2006
(26.10.2009 - link a www.dirittoelegge.it). |
APPALTI: D.
Argenio,
Il subappalto nel nuovo codice dei contratti
(01.10.2009 - link a www.dirittoelegge.it). |
APPALTI: D.
Argenio,
I lavori in economia del D.Lgs. 163/2006: amministrazione
diretta e cottimo fiduciario
(01.10.2009 - link a www.dirittoelegge.it). |
APPALTI: D.
Argenio e F.
Del Deo,
I lavori sotto soglia comunitaria nel codice dei contratti
pubblici
(01.10.2009 - link a www.dirittoelegge.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: D.
Argenio,
Gli interessi partecipativi, oppositivi e pretensivi e loro
tutela giurisdizionale
(10.11.2008 - link a www.dirittoelegge.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: D.
Argenio,
I controlli amministrativi nel testo unico degli enti locali
(07.11.2008 - link a www.dirittoelegge.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: D.
Argenio,
Gli interessi collettivi nella legge 241 del 1990
(legittimazione procedimentale, legittimazione ad accedere e
legittimazione processuale amministrativa)
(07.11.2008 - link a www.dirittoelegge.it). |
ESPROPRIAZIONE: D.
Argenio,
Espropriazione per pubblica utilità: procedura per decreto e
procedure per atto di acquisizione coattiva sanante
(07.11.2008 - link a www.dirittoelegge.it). |
APPALTI: F.
Decli,
Esclusione automatica dalle gare d'appalto per anomalia
dell'offerta. Due sentenze rilevanti
(14.05.2008 - link a www.dirittoelegge.it). |
CORTE DEI CONTI |
EDILIZIA PRIVATA:
Conclusivamente l’Amministrazione chiede:
a) se le valutazioni da compiersi da parte dell’ Agenzia
delle Entrate – Ufficio del Territorio per l’applicazione
delle sanzioni previste dall’art. 37, comma 3, del d.P.R.
380/2001, siano o meno a carattere oneroso;
b) nel caso tali stime siano giudicate a carattere
oneroso, se il Comune possa attivare procedure alternative
per non aggravare il bilancio e che consentano di:
1) prendere a riferimento il valore stabilito in sede di
accatastamento;
2) stabilire previamente una tabella di casistiche con cui si
possano collegare gli aumenti di valore all’importo della
sanzione, da concertare e da approvare da parte del Comune
con l’Agenzia delle Entrate – Ufficio del Territorio,
evitando l’inoltro di singole richieste.
Ritiene il Collegio che l’espressione
del parere in questa sede consultiva non possa coinvolgere
l’operato di altre Amministrazioni, né precostituire
aspettative anche di mero fatto, ovvero regolare pretese, né
tantomeno dirimere divergenze di posizioni tra soggetti
pubblici diversi.
Il procedimento per l’applicazione delle sanzioni, che forma
oggetto della richiesta di parere, costituisce inoltre
esplicazione di poteri discrezionali da parte
dell’Amministrazione, poteri rispetto ai quali la Corte dei
conti non ha la possibilità di pronunciarsi compiutamente in
questa sede consultiva, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della
legge 131/2003.
Nei termini sopra esposti, il parere risulta pertanto
inammissibile sotto il profilo oggettivo.
---------------
Il Sindaco del Comune di Roccafluvione (prov. di Ascoli
Piceno) ha formulato una richiesta di parere inerente al
carattere oneroso della valutazione, da compiersi da parte
dell’Agenzia del Territorio, in vista dell’applicazione di
sanzioni pecuniarie commisurate all’aumento di valore in
caso di opere edilizie realizzate in assenza di
dichiarazione di inizio attività, ma comunque sussistendo la
conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed
edilizia.
Con la predetta richiesta, l’Amministrazione richiedente ha
riferito e precisato:
- che l’art. 37 del d.P.R. 380/2001 (testo unico edilizia)
dispone che le sanzioni pecuniarie per opere edilizie
realizzate in assenza di dichiarazione di inizio attività
sono stabilite dal responsabile del procedimento in
relazione all’incremento di valore dell’immobile come
valutato dall’Agenzia delle Entrate – Ufficio del
Territorio;
- che l’ Agenzia delle Entrate – Ufficio del Territorio ha
fatto presente che tale adempimento può essere svolto a
titolo oneroso e previa sottoscrizione di accordo di
collaborazione;
- che, secondo l’Amministrazione, sussisterebbero dubbi sul
carattere oneroso delle operazioni di stima, in quanto tale
adempimento sono svolte da un soggetto pubblico (l’ Agenzia
delle Entrate – Ufficio del Territorio) e sono dirette
all’esercizio di una funzione istituzionale di un altro
soggetto pubblico (il Comune);
- che l’irrogazione della sanzione non è un servizio a
domanda del Comune, ma corrisponde all’assolvimento di
un’attività istituzionale doverosa;
- che i costi previsti per le operazione di stima superano
l’importo minimo della sanzione (euro 516, come casistica
più frequente), con il risultato che l’applicazione della
sanzione risulterebbe per il Comune foriera di una spesa
superiore all’entrata, sia pure nel contesto di un’attività
di vigilanza disposta dalla normativa statale primaria;
- che gli accordi di collaborazione sono previsti dall’art.
38 del d.P.R. 380/2001, ove si richiamano gli articoli 32,
comma 2, e 34, comma 2, ma non il 37, comma 4;
- che l’art. 17 della legge 241/1990 regola il procedimento
di emanazione di valutazioni tecniche, nonché le conseguenza
del decorso dei termini per l’acquisizione delle valutazioni
stesse.
Conclusivamente l’Amministrazione chiede:
a) se le valutazioni da compiersi da parte dell’ Agenzia
delle Entrate – Ufficio del Territorio per l’applicazione
delle sanzioni previste dall’art. 37, comma 3, del d.P.R.
380/2001, siano o meno a carattere oneroso;
b) nel caso tali stime siano giudicate a carattere
oneroso, se il Comune possa attivare procedure alternative
per non aggravare il bilancio e che consentano di:
1) prendere a riferimento il valore stabilito in sede di
accatastamento;
2) stabilire previamente una tabella di casistiche con cui si
possano collegare gli aumenti di valore all’importo della
sanzione, da concertare e da approvare da parte del Comune
con l’ Agenzia delle Entrate – Ufficio del Territorio,
evitando l’inoltro di singole richieste.
...
La Sezione è
chiamata a esprimere un parere in ordine al carattere
oneroso o meno delle operazioni di stima compiute
dall’Agenzia delle Entrate – ufficio del Territorio, nel
procedimento per l’applicazione delle sanzioni previste
dall’art. 37, comma 4, del d.P.R. 380/2001, con specifico
riferimento al conseguente aggravio che ne deriverebbe
all’Amministrazione comunale richiedente.
L’art. 37, comma 4, del d.P.R. 380/2001 dispone quanto
segue: “Ove l'intervento realizzato risulti conforme alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento
della realizzazione dell'intervento, sia al momento della
presentazione della domanda, il responsabile dell'abuso o il
proprietario dell'immobile possono ottenere la sanatoria
dell'intervento versando la somma, non superiore a 5164 euro
e non inferiore a 516 euro, stabilita dal responsabile del
procedimento in relazione all'aumento di valore
dell'immobile valutato dall'agenzia del territorio”.
Ciò premesso, osserva il Collegio che il comma 4 del citato
art. 37 prevede una fase di accertamento di conformità delle
opere edilizie compiute in assenza di D.I.A., opere che
comunque debbono risultare rispettose della disciplina
urbanistica ed edilizia vigente al momento della
realizzazione dell’intervento.
La sanzione irrogabile dal responsabile del procedimento, ai
sensi dell’art. 37, quarto comma, può variare da un minimo
di 516 ad un massimo di 5.164 euro, in funzione
dell’incremento di valore del bene immobile, sulla base di
una stima dell’Agenzia del Territorio (ora Agenzia delle
Entrate – Ufficio del Territorio, per effetto
dell’incorporazione ai sensi dell’art. 23-quater del
decreto-legge n. 95/2012).
L’incremento di valore, oggetto della stima, non equivale
pertanto all’importo della sanzione, ma costituisce il
parametro per determinare la sanzione stessa.
Il responsabile del procedimento ha il compito di stabilire
l’importo della sanzione tra il minimo e il massimo
edittale.
Per giungere alla determinazione dell’importo della
sanzione, la pubblica amministrazione procedente ha obbligo
di agire con imparzialità e di rispettare il criterio di
buon andamento dell’azione amministrativa, come stabilito
dall’art. 97 della Costituzione.
L’importo della sanzione, pertanto, avrà tendenzialmente
carattere proporzionale rispetto all’entità dell’incremento
di valore del bene immobile per effetto delle opere
realizzate.
Appare rispondente al predetto criterio di proporzionalità
applicare la sanzione nella misura minima in caso di aumento
di valore di entità nulla o molto esigua, mentre ad un
incremento di valore molto alto potrà corrispondere una
sanzione nella misura massima consentita; i casi intermedi
verranno trattati in modo corrispettivo.
Per l’applicazione della sanzione, l’Amministrazione procede
nell’esercizio dei propri poteri discrezionali, sia pure nel
rispetto dei criteri di ragionevolezza, proporzionalità e
parità di trattamento.
Ritiene il Collegio che l’espressione del
parere in questa sede consultiva non possa coinvolgere
l’operato di altre Amministrazioni, né precostituire
aspettative anche di mero fatto, ovvero regolare pretese, né
tantomeno dirimere divergenze di posizioni tra soggetti
pubblici diversi.
Il procedimento per l’applicazione delle sanzioni, che forma
oggetto della richiesta di parere, costituisce inoltre
esplicazione di poteri discrezionali da parte
dell’Amministrazione, poteri rispetto ai quali la Corte dei
conti non ha la possibilità di pronunciarsi compiutamente in
questa sede consultiva, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della
legge 131/2003.
Nei termini sopra esposti, il parere risulta pertanto
inammissibile sotto il profilo oggettivo.
Restano conseguentemente assorbite le altre questioni
proposte
(Corte dei Conti, Sez. controllo Marche,
parere 25.03.2013 n. 20). |
APPALTI SERVIZI:
Il Comune istante chiede, partitamente, di
conoscere il motivato avviso della Sezione in ordine:
• al se ed in che misura sia possibile per le
acquisizioni di lavori, servizi e forniture in economia
procedere in forma tradizionale facendo applicazione delle
previsioni del Regolamento per le gestioni in economia
adottato dall’Ente giusta la previsione di cui all’art. 125
del D.lgs. 163/2006 prescindendo, dunque, dal ricorso al
mercato elettronico non sussistendo un preciso obbligo;
• al se ed in che misura al Comune di Ussita, in quanto
Ente con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, possa
ritenersi inapplicabile, giusta la previsione di cui al già
richiamato art. 26, comma 3, Legge 488/1999, la disposizione
di cui all’art. 1, comma 1, D.L. 95/2012 ed il conseguente
regime di responsabilità disciplinare ed amministrativa.
Tanto premesso in fatto si osserva.
Ritiene, invero, la Sezione che, le pur
indubbie specificità delle acquisizioni in economia
–soggette ad un peculiare statuto per ciò che attiene ambito
oggettivo e sia per ciò che attiene i presupposti
legittimanti– non valgano a superare le conclusioni già rese
circa la latitudine applicativa dell’obbligo di ricorso al
mercato elettronico.
Sotto tale profilo giova, peraltro, evidenziare come i
principi di semplificazione e celerità, tipici delle
procedure in economia, non subiscano un vulnus, ma
ben si concilino con le finalità sottese agli strumenti di
e-procurement (su cui amplius 169/PAR/2012 Sezione
Marche) e con quelle di razionalizzazione e di contenimento
perseguite dal legislatore con i Decreti Spending review
1 e 2.
Di qui,
a parere del Collegio, la necessità di
una rivisitazione delle procedure tradizionali -e degli
eventuali strumenti regolamentari già in essere– alla
stregua della normativa sopravvenuta e del pressoché
generalizzato obbligo di ricorso al mercato elettronico per
le acquisizioni di beni e servizi sotto soglia, pur laddove
ricorrano le condizioni per la procedura c.d. in economia.
Di converso deve, peraltro, confermarsi che siffatto obbligo
sia esigibile esclusivamente per beni e categorie
merceologiche presenti sul mercato elettronico e
perfettamente confacenti alle esigenze funzionali dell’Ente
mentre procedure tradizionali ed autonome possono ritenersi
consentite –ancorché in via residuale- laddove il bene e/o
servizio non possa essere acquisito mediante i richiamati
sistemi di e-procurement ovvero laddove, pur disponibile, si
appalesi inidoneo rispetto alle necessità della
amministrazione procedente
(cfr. deliberazione 169/PAR/2012 anche con riguardo
all’obbligo di motivazione).
Ciò posto, venendo alla ulteriore questione prospettata
dall’Ente richiedente con riguardo al connesso profilo delle
responsabilità, ritiene il Collegio che,
atteso il tenore letterale del disposto di cui all’art. 1,
comma 1, D.L. 95/2012, il dato
demografico (Comuni con popolazione sino a 1.000 abitanti o
sino a 5.000 se montani) rilevi,
atteso il richiamo all’art. 26, comma 3, L. 488/1999,
solo con riferimento alla prima ipotesi evocata
dalla norma sanzionatoria e non già con riferimento alla
seconda ipotesi ed alla pretesa violazione degli obblighi di
approvvigionarsi attraverso gli strumenti messi a
disposizione di Consip Spa.
---------------
Il Comune di Ussita con nota a firma del suo Sindaco ha
formulato, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. 131/2003,
una articolata richiesta di parere in ordine alla corretta
interpretazione della novità normativa recata dal D.L. n. 52
del 07.05.2012 –convertito in L. n. 94 del 06.07.2012– in
tema di acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla
soglia comunitaria con specifico riguardo alla fattispecie
degli acquisti c.d. in economia.
Richiamate, in particolare,
• le motivazioni poste a fondamento della deliberazione n.
169 del 29.11.2012 resa da questa Sezione in ordine alla
portata cogente del novellato art. 1, comma 450, della L.
296/2006 (L.F. 2007) a mente del quale “fermo restando gli
obblighi di cui all’art. 449 della L. 296/2006, le altre
amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 d.lgs. 165/2001
per gli acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla
soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al
mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad
altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo
art. 328 (del d.p.r. 327/2010);
• la ricostruzione invalsa presso alcuni Commentatori –cui
l’Ente istante pare, peraltro, aderire– secondo la quale
l’obbligatorietà del ricorso al mercato elettronico non
potrebbe configurarsi rispetto agli affidamenti c.d. in
economia rinvenendo gli stessi il loro referente normativo
nell’art. 335 del d.p.r. 327/2010 cui l’art. 7 della L.
94/2012 non opera alcun rinvio;
• il disposto di cui all’art. 26, comma 3, della Legge
488/1999 che, in tema di acquisti centralizzati, esclude i
Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti e per i Comuni
montani con popolazione fino a 5.000 abitanti dalla platea
dei soggetti incisi dalla norma,
il Comune istante chiede, partitamente, di
conoscere il motivato avviso della Sezione in ordine:
• al se ed in che misura sia possibile per le
acquisizioni di lavori, servizi e forniture in economia
procedere in forma tradizionale facendo applicazione delle
previsioni del Regolamento per le gestioni in economia
adottato dall’Ente giusta la previsione di cui all’art. 125
del D.lgs. 163/2006 prescindendo, dunque, dal ricorso al
mercato elettronico non sussistendo un preciso obbligo;
• al se ed in che misura al Comune di Ussita, in quanto
Ente con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, possa
ritenersi inapplicabile, giusta la previsione di cui al già
richiamato art. 26, comma 3, Legge 488/1999, la disposizione
di cui all’art. 1, comma 1, D.L. 95/2012 ed il conseguente
regime di responsabilità disciplinare ed amministrativa.
...
L’esame delle
questioni prospettate dall’Ente istante non può che prendere
le mosse dal precedente parere reso dalla Sezione e dalle
considerazioni svolte in ordine alla obbligatorietà per gli
Enti locali di far ricorso -ai fini degli acquisti c.d.
sotto soglia– al mercato elettronico previsto e disciplinato
all’art. 328 d.p.r. 327/2010.
A tal riguardo giova, anzitutto, ribadire che vertendosi in
tema di normativa vincolistica –asseritamente preordinata
alla razionalizzazione ed al contenimento di uno specifico
segmento di spesa– l’interpretazione della stessa deve
essere condotta secondo rigorosi criteri ermeneutici con
preclusione di inammissibili interventi additivi.
In questa prospettiva nell’evidenziare, ancora una volta, un
indubbio problema di coordinamento della pluralità di norme
–anche di diverso rango in ragione delle diverse fonti– che
concorrono alla disciplina della specifica materia e,
dunque, la opportunità di un intervento, se del caso
normativo, che riconduca le stesse ad unità, deve rilevarsi
come, valorizzando un’interpretazione letterale, non appaia
configurabile un regime differenziato per le acquisizioni in
economia ma come, anche per queste, debba farsi ricorso al
mercato elettronico.
Nessun argomento, invero, appare desumersi né dal tenore
letterale della disposizione né in via interpretativa in
ordine alla intenzione del legislatore –pur intervenuto, di
recente, sull’art. 1, comma 450, L.F. 2007 (cfr. art. 1,
comma 149, lett. a – lett. b)– di introdurre, a fronte del
predetto obbligo, una disciplina peculiare e, dunque,
derogatoria per le acquisizioni in economia.
Sotto tale profilo, peraltro, la tesi prospettata dall’Ente
richiedente non appare persuasiva laddove annette efficacia
dirimente alla circostanza che il Regolamento di esecuzione
ed attuazione del codice dei contratti dedichi alle
acquisizioni di servizi e forniture sottosoglia ed in
economia –pur accomunate sotto il medesimo titolo V– due
distinti capi (rispettivamente il primo ed il secondo)
ovvero al fatto che l’art. 7, comma 2, del D.L. 52/2012
faccia rinvio al mercato elettronico della p.a. e ad altri
mercati istituiti ai sensi del medesimo art. 328 e non già
all’art. 335 del d.p.r. 207/2010 che facultizza le stazioni
appaltanti all’utilizzo del mercato elettronico per
effettuare acquisti in economia.
Detti argomenti non si appalesano, invero, di particolare
significatività per temperare la portata cogente del
novellato art. 1, comma 450, L.F. 2007.
A parere del Collegio, il richiamo al citato art. 328 del
Regolamento di attuazione rinvenibile in disposizioni
relative alle acquisizioni di servizi in economia (cfr. art.
332 – 335 – 336) in uno alla previsione di cui al comma 4,
lett. b), dello stesso art. 328 a mente del quale “avvalendosi
del mercato elettronico le stazioni appaltanti possono
effettuare acquisti di beni e servizi sotto soglia ……b) in
applicazione delle procedure di acquisto in economia di cui
al capo II”, militano, di contro per una ricostruzione
unitaria dei due istituti – conformemente, peraltro, alle
disposizioni del Codice dei contratti pubblici (cfr. artt.
121-125 sub Titolo II Contratti sotto soglia comunitaria).
Ritiene, invero, la Sezione che, le pur indubbie specificità
delle acquisizioni in economia –soggette ad un peculiare
statuto per ciò che attiene ambito oggettivo e sia per ciò
che attiene i presupposti legittimanti– non valgano a
superare le conclusioni già rese circa la latitudine
applicativa dell’obbligo di ricorso al mercato elettronico.
Sotto tale profilo giova, peraltro, evidenziare come i
principi di semplificazione e celerità, tipici delle
procedure in economia, non subiscano un vulnus, ma
ben si concilino con le finalità sottese agli strumenti di
e-procurement (su cui amplius 169/PAR/2012 Sezione
Marche) e con quelle di razionalizzazione e di contenimento
perseguite dal legislatore con i Decreti Spending review
1 e 2.
Di qui,
a parere del Collegio, la necessità di una
rivisitazione delle procedure tradizionali -e degli
eventuali strumenti regolamentari già in essere– alla
stregua della normativa sopravvenuta e del pressoché
generalizzato obbligo di ricorso al mercato elettronico per
le acquisizioni di beni e servizi sotto soglia, pur laddove
ricorrano le condizioni per la procedura c.d. in economia.
Di converso deve, peraltro, confermarsi che
siffatto obbligo sia esigibile esclusivamente per beni e
categorie merceologiche presenti sul mercato elettronico e
perfettamente confacenti alle esigenze funzionali dell’Ente
mentre procedure tradizionali ed autonome possono ritenersi
consentite –ancorché in via residuale- laddove il bene e/o
servizio non possa essere acquisito mediante i richiamati
sistemi di e-procurement ovvero laddove, pur disponibile, si
appalesi inidoneo rispetto alle necessità della
amministrazione procedente
(cfr. deliberazione 169/PAR/2012 anche con riguardo
all’obbligo di motivazione)
Ciò posto, venendo alla ulteriore questione prospettata
dall’Ente richiedente con riguardo al connesso profilo delle
responsabilità, ritiene il Collegio che,
atteso il tenore letterale del disposto di cui all’art. 1,
comma 1, D.L. 95/2012, il dato demografico
(Comuni con popolazione sino a 1.000 abitanti o sino a 5.000
se montani) rilevi,
atteso il richiamo all’art. 26, comma 3, L. 488/1999,
solo con riferimento alla prima ipotesi
evocata dalla norma sanzionatoria e non già con riferimento
alla seconda ipotesi ed alla pretesa violazione degli
obblighi di approvvigionarsi attraverso gli strumenti messi
a disposizione di Consip Spa
(Corte dei Conti, Sez. controllo Marche,
parere 25.03.2013 n. 17). |
CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI: La condanna dell'assessore si estende al segretario
Rientra tra i doveri di servizio del segretario comunale
fornire pareri in materia di regolarità delle deliberazioni
adottate, sussistendo la colpa grave per violazione dei
doveri di servizio, in quanto con un minimo di diligenza si
sarebbe evidenziata la natura illegittima e dannosa della
deliberazione stessa.
Il principio è contenuto nella
sentenza 01.02.2013 n. 41
della Corte dei Conti, Sez. II giur. centrale d'appello.
In particolare, l'atto non rispettava il termine massimo per
il conferimento di mansioni superiori, che secondo
l'articolo 52 del dlgs n. 165/2001, può essere disposto nel
caso di vacanza di posto in organico, per non più di sei
mesi, prorogabili a dodici, nel caso in cui fossero state
avviate le procedure per la copertura del posto vacante. La
norma non prevede, inoltre, alcuna proroga ulteriore, né per
problemi nell'espletamento del concorso, né per altre cause
giustificative.
La Corte dei conti evidenzia che tali norme erano
espressamente richiamate nell'atto oggetto del ricorso in
appello e pertanto si presume note alla giunta comunale, che
procedeva nonostante tutto a conferire le mansioni superiori
a un dipendente al quale erano già state conferite per oltre
24 mesi.
Sussiste, pertanto, la colpa grave degli assessori che hanno
votato la deliberazione, in quanto con un minimo di
diligenza avrebbero potuto evidenziare la natura dannosa e
illegittima dell'atto adottato. La condanna si estende anche
al segretario comunale che la Corte presume conoscesse la
normativa, sia per dovere d'ufficio, che per esperienza e
per preparazione professionale derivante dalla categoria di
appartenenza; nonostante ciò non fornì alcun parere sulla
regolarità della deliberazione e verbalizzò la seduta senza
osservazione alcuna. Il tutto in violazione dei suoi
obblighi di assistenza giuridico-amministrativa (istruttoria
e consultiva) agli organi di vertice dell'ente, in sede di
adozione delle deliberazioni.
A fronte di un'evidente illegittimità, continua la Corte dei
conti, la giunta decise di confermare le mansioni superiori
senza il parere burocratico del segretario, senza effettuare
tutti gli approfondimenti del caso, che sarebbero stati
necessari
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI:
Norme applicabili in materia di durata della verifica di
conformità.
Ai sensi dell'articolo 4, comma 6, del
d.lgs. 231/2002 la verifica di conformità della prestazione
ha una durata di 30 giorni; le parti possono concordare,
prevedendolo espressamente e indicandolo nella
documentazione di gara, un termine maggiore -purché non
gravemente iniquo per il creditore ai sensi del successivo
art. 7- che non può comunque essere superiore a quello
indicato dal regolamento del codice dei contratti.
Il Comune rappresenta che i termini di durata della verifica
di conformità delle prestazioni oggetto dei contratti,
previsti rispettivamente dall'articolo 4, comma 6, d.lgs.
231/2002 e dagli articoli 313, 316, 325 del DPR 207/2010,
paiono tra loro incompatibili.
L'Ente chiede, quindi, di conoscere come si debba procedere
per individuare correttamente i suddetti termini di durata.
Si formulano al riguardo le seguenti considerazioni.
Il comma 6 dell'articolo 4 del d.lgs. 231/2002 (Attuazione
della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i
ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali), come
sostituito dall'articolo 1, del d.lgs. n. 192/2012 recita:
'Quando è prevista una procedura diretta ad accertare la
conformità della merce o dei servizi al contratto essa non
può avere una durata superiore a trenta giorni dalla data
della consegna della merce o della prestazione del servizio,
salvo che sia diversamente ed espressamente concordato dalle
parti e previsto nella documentazione di gara e purché ciò
non sia gravemente iniquo per il creditore ai sensi
dell'articolo 7. L'accordo deve essere provato per
iscritto'. La citata norma è inserita in un provvedimento
legislativo la cui finalità specifica è quella di rendere
individuabile con certezza il momento entro il quale deve
essere effettuato il pagamento, trascorso il quale
opereranno le sanzioni previste per i ritardi di pagamento.
D'altro canto, i termini per il controllo volto ad accertare
la conformità delle prestazioni oggetto del contratto
risultano disciplinati dal d.lgs. 163/2006 (Codice dei
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in
attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE) e dal
relativo Regolamento di attuazione ed esecuzione (DPR
207/2010).
Il d.lgs. 163/2006 stabilisce all'art. 120, comma 1, che 'Per
i contratti relativi a servizi e forniture il regolamento
determina le modalità di verifica della conformità delle
prestazioni eseguite a quelle pattuite, con criteri
semplificati per quelli di importo inferiore alla soglia
comunitaria.'.
A sua volta, il Regolamento prevede, con riguardo ai servizi
e forniture, due distinte discipline di controllo della
conformità, entrambe contenute nel Titolo IV, Parte IV e
precisamente:
- la verifica di conformità di cui agli articoli 312 e
seguenti;
- l'attestazione di regolare esecuzione di cui all'articolo
325.
La durata della verifica di conformità è disciplinata, in
particolare, dagli articoli 313 (il quale prevede che la
verifica di conformità debba iniziare entro 20 giorni
dall'ultimazione della prestazione) e 316 (il quale prevede
che la verifica debba essere conclusa entro il termine
stabilito dal contratto e comunque non oltre 60 giorni
dall'ultimazione dell'esecuzione delle prestazioni
contrattuali).
L'attestazione di regolare esecuzione [1]
deve, invece, essere emessa entro 45 giorni dall'ultimazione
dell'esecuzione, così come previsto dal citato articolo 325.
Le citate disposizioni, dunque, si occupano di individuare i
termini massimi entro i quali deve essere contenuta la
singola fase del procedimento di acquisizione di beni e
servizi e, precisamente, la fase del controllo della
prestazione ricevuta.
Con riferimento in generale alla contabilità ed al pagamento
delle prestazioni relative a forniture e servizi, l'articolo
307, comma 2, del DPR 207/2010, operando un richiamo al
d.lgs. 231/2002, statuisce espressamente che: '[...] Nel
caso di ritardato pagamento resta fermo quanto previsto dal
decreto legislativo 09.10.2002, n. 231.'.
L'articolo 4, comma 6, del d.lgs. 231/2002, nell'indicare un
termine massimo di 30 giorni per la durata della verifica di
conformità, lascia comunque all'accordo delle parti la
possibilità di indicare per iscritto un diverso termine,
purché previsto nella documentazione di gara e non
gravemente iniquo per il creditore.
L'articolo 11, comma 2, del medesimo decreto legislativo
prevede che: 'Sono fatte salve le vigenti disposizioni
del codice civile e delle leggi speciali che contengono una
disciplina più favorevole per il creditore'. Tale norma
consente quindi di individuare nelle summenzionate norme del
regolamento i limiti massimi entro i quali le parti possono
negoziare un termine differente rispetto a quello posto
dall'art. 4, comma 6, del d.lgs. 231/2002 per le verifiche
di conformità della prestazione. Infatti, qualora le parti
concordassero un termine superiore anche a quello previsto
dal regolamento, opererebbe la clausola di maggior favore
per il creditore, di cui al citato art. 11, comma 2,
riconducendo il predetto termine a quello previsto dal
regolamento in argomento.
Le disposizioni dettate dal codice dei contratti e dal
relativo regolamento nella materia in argomento, vanno
interpretate alla luce delle disposizioni di cui al d.lgs.
231/2002, come modificato dal d.lgs. 192/2012, ritenendo
prevalenti queste ultime, laddove le parti non abbiano
espressamente pattuito un diverso termine, comunque non
superiore a quello previsto dal regolamento.
A conferma di un tanto, con riferimento ad analoghe
questioni afferenti ai lavori pubblici e concernenti i
termini per l'emissione dei certificati di pagamento e per
l'emissione del certificato di collaudo, si è espresso il
Ministero dello Sviluppo Economico con la nota prot. 1293
del 23.01.2013 [2]
nella quale, premettendo che le disposizioni dettate dal
codice dei contratti pubblici e dal regolamento di
attuazione già vigenti per il settore dei lavori pubblici,
relative ai termini di pagamento delle rate di acconto e di
saldo nonché alla misura degli interessi da corrispondere in
caso di ritardato pagamento, devono essere interpretate e
chiarite alla luce delle disposizioni del decreto
legislativo 09.11.2012, n. 192, ritenendosi prevalenti
queste ultime sulle disposizioni di settore confliggenti,
tenendo conto anche dell'espressa clausola di salvezza di
cui all'art. 11, comma 2, d.lgs. 231/2002, ha chiarito che:
'- il termine di quarantacinque giorni previsto dall'art.
143, co. 1, primo periodo, del regolamento per l'emissione
del certificato di pagamento dalla maturazione del SAL,
risulta non compatibile con la previsione del comma 6
dell'articolo 4 del d.lgs. n. 231/2002, che fissa in trenta
giorni il termine per la verifica preordinata al pagamento;
detto termine deve pertanto essere inteso come ridotto a
trenta giorni, ove non sia previsto nella documentazione di
gara -e pattuito espressamente nel contratto- un termine
maggiore, ma comunque, in virtù del già richiamato art. 11,
co. 2, d.lgs. n. 231 del 2002 che fa «salve le vigenti
disposizioni del codice civile e delle leggi speciali che
contengono una disciplina più favorevole per il creditore»
non superiore ai quarantacinque giorni;
- (omissis);
- il termine di sei mesi, elevabile fino ad un anno, di cui
all'art. 141, co. 1, del codice dei contratti pubblici
previsto per l'emissione del certificato di collaudo, nonché
il termine di tre mesi di cui all'art. 141, co. 3, del
medesimo codice, previsto per l'emissione del certificato di
regolare esecuzione, risultano ancora applicabili, laddove
siano espressamente concordati dalle parti e previsti nella
documentazione di gara ai sensi dell'art. 4, co. 6 del
d.lgs.231/2002'.
Il medesimo percorso interpretativo potrebbe, pertanto,
ritenersi corretto anche con riferimento all'odierno quesito
con le seguenti conclusioni: la verifica di conformità della
prestazione ha una durata di 30 giorni; le parti possono
concordare, prevedendolo espressamente e indicandolo nella
documentazione di gara, un termine superiore -purché non
gravemente iniquo per il creditore [3]-
che non può comunque essere superiore a quello indicato dal
regolamento del codice dei contratti.
---------------
[1] Ai sensi dell'articolo 325, comma 1, del DPR 207/2010
'Qualora la stazione appaltante per le prestazioni
contrattuali di importo inferiore alle soglie di cui
all'articolo 28, comma 1, lettere a) e b), del codice, non
ritenga necessario conferire l'incarico di verifica di
conformità, si dà luogo ad una attestazione di regolare
esecuzione emessa dal direttore dell'esecuzione e confermata
dal responsabile del procedimento.'.
[2] Nella nota viene chiarito che la nuova disciplina dei
ritardati pagamenti introdotta in attuazione della normativa
comunitaria 7/2011/UE si applica ai contratti pubblici
relativi a tutti i settori produttivi, inclusi i lavori,
stipulati a decorrere dal 01.01.2013, ai sensi dell'art. 3,
co. 1, del d.lgs n. 192 del 2012.
[3] Ai sensi del successivo articolo 7
(26.03.2013
- link a www.regione.fvg.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Incentivi per la progettazione e la realizzazione di lavori
pubblici.
Stante quanto affermato dalla Corte dei
conti - Sezione di controllo della Regione Friuli Venezia
Giulia, con deliberazioni n. FVG/335/2010/PAR e n. FVG/336/2010/PAR
del 06.12.2010, sembra doversi ritenere che le somme
accantonate ai sensi dell'art. 11, comma 1, della L.R.
14/2002, prima di essere ripartite tra il personale
dipendente ivi individuato, debbano essere decurtate della
quota di spesa che l'Amministrazione sostiene a titolo di
IRAP.
Il Comune, dopo aver rappresentato:
1) di aver adottato, nel novembre 2000, il 'Regolamento
per la costituzione del fondo incentivante ex art. 18 della
L. 109/1994' -che non è mai stato modificato- il cui
art. 1, comma 4, prevede che «Il suddetto fondo è da
considerarsi comprensivo dei compensi spettanti ai
lavoratori dipendenti per l'attività svolta, le imposte e
tasse corrispondenti e le quote di contributi a carico degli
stessi nonché le quote di contributi previdenziali,
assicurativi ed assistenziali a carico dell'Ente.»;
2) che l'art. 11, comma 1, secondo periodo, della legge
regionale 31.05.2002, n. 14, dispone che «La percentuale
effettiva, nel limite massimo dell'1,5 per cento, al netto
dei relativi oneri previdenziali e assicurativi posti a
carico dell'amministrazione aggiudicatrice, da ripartirsi
esclusivamente tra i dipendenti, e le relative modalità di
erogazione sono stabilite dal regolamento in rapporto
all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare.»;
3) che l'art. 92, comma 5, primo periodo
[1], del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, stabilisce che la somma da
ripartire ai fini di cui trattasi è «comprensiva anche
degli oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione»;
4) che la Corte dei conti - Sezioni riunite in sede di
controllo, con deliberazione 07.06.2010, n. 33, ha affermato
che l'imposta regionale sulle attività produttive (IRAP)
costituisce onere a carico dell'Amministrazione, il quale
deve, comunque, trovare copertura nell'ambito della somma
incentiva in argomento,
chiede di conoscere se il pagamento delle spettanze al
personale debba essere effettuato al netto o al lordo dei
contributi previdenziali ed assistenziali a carico
dell'Ente, nonché dell'IRAP.
Anzitutto, si rende necessario rammentare che, considerate
anche le valutazioni espresse, per i profili di competenza,
dal Servizio finanza locale, questo Ufficio ha già avuto
modo di esprimersi, in numerosi pareri [2],
su questioni concernenti l'applicazione dell'istituto degli
incentivi per la progettazione e la realizzazione di lavori
pubblici, che il legislatore del Friuli Venezia Giulia -in
virtù della propria competenza legislativa primaria in tema
di lavori pubblici di interesse regionale e locale
[3], nel
cui contesto si colloca il predetto istituto- ha provveduto
a disciplinare compiutamente con l'art. 11 della L.R.
14/2002, il quale costituisce la sola fonte legislativa di
riferimento nel relativo ambito territoriale.
Un tanto premesso, occorre rilevare che la previsione
contenuta nell'art. 1, comma 4, del regolamento adottato
dall'Ente per le finalità incentive di cui trattasi, non
risultando conforme alla disposizione recata dall'art. 11,
comma 1, secondo periodo, della L.R. 14/2002, dovrebbe
essere disapplicata.
Inoltre, atteso che il regolamento comunale, risalente al
novembre 2000 [4],
secondo quanto riferito dall'Ente non è mai stato
modificato, l'adeguamento delle relative disposizioni alla
sopravvenuta (e, in parte, innovativa) legislazione
regionale consentirebbe anche di poter prevedere il riparto,
tra i dipendenti, dell'ulteriore somma incentiva di cui
all'art. 11, comma 1, ultimo periodo [5],
della L.R. 14/2002 [6],
atteso che la legittima attribuzione di tale beneficio
aggiuntivo risulta subordinata alla sua esplicita previsione
nell'ambito dello stesso regolamento locale.
Stabilito, quindi, che, stante l'espressa previsione di
legge, la quota percentuale effettiva da accantonare, per il
successivo riparto tra i dipendenti aventi titolo, deve
intendersi al netto degli oneri previdenziali ed
assicurativi di competenza dell'amministrazione, per quanto
concerne l'IRAP, stante l'assenza di un'analoga
disposizione, occorre fare riferimento all'orientamento
assunto dalla Corte dei conti.
Lo scrivente Servizio, già interpellato al riguardo, si è
espresso, in particolare, con parere 14.09.2010, n. 14909,
nel quale, evidenziate le peculiarità della disciplina
regionale rispetto a quella statale, ha rilevato la
difficoltà di stabilire come, in questa Regione, possa
trovare applicazione il principio, enunciato dalla Corte dei
conti - Sezioni riunite in sede di controllo, con
deliberazione n. 33/2010, secondo cui «l'onere fiscale
non può gravare sul lavoratore dipendente in relazione ai
compensi di natura retributiva», tenuto conto che, nel
contempo, la Corte ha sancito che:
- «ai fini della quantificazione dei fondi per
l'incentivazione [...] vanno accantonate, a fini di
copertura, rendendole indisponibili, le somme che gravano
sull'ente per oneri fiscali, nella specie, a titolo di Irap»;
- «mentre sul piano dell'obbligazione giuridica, rimane
chiarito che l'Irap grava sull'amministrazione [...], su un
piano strettamente contabile [...] l'amministrazione non
potrà che quantificare le disponibilità destinabili ad
avvocati e professionisti, accantonando le risorse
necessarie a fronteggiare l'onere Irap, come avviene anche
per il pagamento delle altre retribuzioni del personale
pubblico [...]»;
- «Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la
copertura degli oneri di personale (tra cui l'Irap) si
riflette, in sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la
progettazione [...] ripartibili nei confronti dei dipendenti
aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse
necessarie alla copertura dell'onere Irap gravante
sull'amministrazione».
In tale circostanza, preso atto dell'autorevolezza del
soggetto che ha elaborato la detta interpretazione e della
complessità delle conclusioni cui essa perviene e atteso che
queste muovono dal diverso regime statale dell'istituto
incentivo, si è ritenuto doveroso suggerire,
all'Amministrazione formulante il quesito, «la necessità
di acquisire, al riguardo, apposito parere della Sezione
regionale del Giudice contabile».
La Corte dei conti regionale è intervenuta, sulla questione,
con le deliberazioni [7]
n. FVG/335/2010/PAR e n. FVG/336/2010/PAR del 06.12.2010
[8].
Nella prima di dette deliberazioni, dopo aver ripercorso
l'analisi già svolta dalle Sezioni riunite ed aver
rammentato il principio e le conclusioni cui essa perviene,
la Corte del Friuli Venezia Giulia precisa che, ai fini
della valutazione dell'applicazione della questione di
massima in ambito regionale, essa è tenuta a conformarsi
all'orientamento generale adottato dalle stesse Sezioni
riunite [9].
Quindi il Giudice contabile regionale espone le proprie
osservazioni affermando che, «nonostante la differente
formulazione della norma da parte del legislatore regionale
(articolo 11 della legge regionale 31.05.2002, n. 14)
'rimane chiarito, sul piano dell'obbligazione giuridica, che
l'Irap grava sull'amministrazione'», mentre «Diverse
considerazioni devono svolgersi con riferimento
all'applicabilità dei principi richiamati dalle Sezioni
Riunite con riferimento alle modalità di quantificazione
delle disponibilità destinabili ai fondi per la
progettazione e della relativa copertura finanziaria.».
Di seguito, la Sezione regionale della Corte dei conti
individua, nell'ambito delle ulteriori disposizioni già
esaminate dalle Sezioni riunite, le norme applicabili in
questo contesto regionale, in quanto princìpi fondamentali
del coordinamento della finanza pubblica,ovvero princìpi di
copertura finanziaria degli oneri derivanti dalla
contrattazione collettiva e di contenimento della spesa del
personale.
Dopo aver sancito che «Il concorso degli enti locali alla
realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica, anche
mediante misure di contenimento delle spese del personale,
costituisce pertanto un principio cui deve far riferimento
il legislatore regionale anche laddove, come nella Regione
Friuli Venezia Giulia, sia stato istituito il 'Comparto
unico del pubblico impiego regionale e locale del
Friuli-Venezia Giulia'» e che «il principio di
contenimento e controllo della spesa per i dipendenti
pubblici entro 'limiti massimi globali' nonché la previsione
in bilancio dell'evidenziazione della 'spesa complessiva per
il personale, a preventivo e consuntivo' costituisce per le
Regioni a statuto speciale, ai sensi dell'articolo 2 della
legge 23.10.1992, n. 421, norma fondamentale di riforma
economico-sociale della Repubblica (art. 1, comma 3, d.lgs.
165/2001)», il Giudice contabile regionale precisa che «i
principi sui quali si basa l'iter argomentativo delle
Sezioni Riunite in sede di controllo trovano conferma non
solo nella specifica disciplina relativa alla contrattazione
collettiva del pubblico impiego vigente in ambito regionale,
ma anche nelle specifiche norme regionali di coordinamento
della finanza pubblica per gli enti locali del Friuli
Venezia Giulia».
Effettuata, poi, l'analisi delle norme regionali concernenti
specificatamente la spesa per il personale, la Sezione
regionale della Corte dei conti conclude la propria
articolata argomentazione affermando che:
- «Tutte le norme richiamate sono espressione dei
principi di previsione di copertura finanziaria degli oneri
di spesa (all'articolo 81, quarto comma, della Costituzione)
e del contenimento della spesa del personale entro limiti
massimi. L'applicazione di tali principi alla questione
oggetto dell'odierno quesito, comporta che 'le somme
indicate per fronteggiare in materia di pubblico impiego gli
oneri di spesa costituiscono disponibilità massime e,
pertanto, non superabili' e che sul bilancio regionale e
degli altri enti pubblici non potranno gravare ulteriori
oneri che non trovino adeguata copertura»;
- «l'iter argomentativo delle Sezioni Riunite può ben
applicarsi anche in ambito regionale. In particolare, anche
per gli enti locali del Friuli Venezia Giulia, valgono le
considerazioni espresse dalle medesime Sezioni circa la
necessità che le disponibilità di bilancio da destinare ai
'fondi' da ripartire tra il personale coinvolto nella
progettazione e realizzazione dell'opera ai sensi
dell'articolo 11 della legge regionale 14/2002 'non possono
che essere quantificate al netto delle somme destinate (o
destinabili) a coprire gli oneri che gravano
sull'amministrazione a titolo di Irap, poiché, diversamente,
una discorde interpretazione confliggerebbe non solo con il
chiaro disposto delle richiamate disposizioni, ma anche con
il principio di copertura degli oneri finanziari (art. 81,
quarto comma, Cost.). Infatti, se si considera che l'Irap
viene commisurata per le amministrazioni pubbliche alla
spesa per il personale, l'incremento della retribuzione
accessoria spettante, a qualsiasi titolo, determina anche
l'espansione dell'imposta che deve, comunque, trovare
copertura nell'ambito delle risorse quantificate e
disponibili, in linea con l'obiettivo del contenimento di
ogni effetto di incremento degli oneri di personale gravanti
sui bilanci degli enti pubblici'»;
- «In conclusione, 'Ai fini della quantificazione dei
fondi per l'incentivazione [...], vanno accantonate, a fini
di copertura, rendendole indisponibili, le somme che gravano
sull'ente per oneri fiscali, nella specie a titolo di Irap'»;
- «Pertanto, 'mentre sul piano dell'obbligazione
giuridica, rimane chiarito che l'Irap grava
sull'amministrazione (...) su un piano strettamente
contabile, tenuto conto delle modalità di copertura di
'tutti gli oneri', l'amministrazione non potrà che
quantificare le disponibilità destinabili al fondo per gli
incentivi, accantonando le risorse necessarie a fronteggiare
l'onere Irap, come avviene anche per il pagamento delle
altre retribuzioni del personale pubblico. Pertanto, le
disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di
personale (tra cui l'Irap) si riflettono, in sostanza, sulle
disponibilità dei fondi per la progettazione ripartibili nei
confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al
netto delle risorse necessarie alla copertura dell'onere
Irap gravante sull'amministrazione'».
Stante quanto affermato dal Giudice contabile, sembra
doversi ritenere che le somme accantonate ai sensi dell'art.
11, comma 1, della L.R. 14/2002, prima di essere ripartite
tra il personale dipendente ivi individuato, debbano essere
decurtate della quota di spesa che l'Amministrazione
sostiene a titolo di IRAP.
---------------
[1] «Una somma non superiore al due per cento
dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un
lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell'amministrazione, a valere
direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93,
comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con
le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione
decentrata e assunti in un regolamento adottato
dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e
gli incaricati della redazione del progetto, del piano della
sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché
tra i loro collaboratori.».
[2] I cui testi sono reperibili tramite il motore di ricerca
presente sul Portale delle autonomie locali, all'indirizzo
Internet http://autonomielocali.regione.fvg.it/
[3] V. art. 4, primo comma, n. 9, della legge costituzionale
31.01.1963, n. 1.
[4] Contenente, perciò, previsioni fondate sulla disciplina
statale vigente a quell'epoca.
[5] «Il regolamento dell'amministrazione può stabilire un
ulteriore incentivo nella misura massima dell'1 per cento,
qualora le attività di responsabile unico del procedimento,
le prestazioni relative alla progettazione, al coordinamento
della sicurezza in fase di progettazione e di esecuzione,
nonché alla direzione dei lavori siano tutte espletate dagli
uffici di cui all'articolo 9, comma 1, lettere a), b) e
c).».
[6] Che il legislatore statale non ha mai contemplato.
[7] Reperibili all'indirizzo Internet www.regione.fvg.it/corteconti/sezionecontrollo.htm.
[8] Tale deliberazione ribadisce le conclusioni cui giunge
il parere n. 335, rinviando ad esso, per relationem, quanto
al contenuto delle motivazioni.
[9] Ai sensi dell'art. 17, comma 31, del decreto-legge
01.07.2009, n. 78, convertito, con modificazioni,dalla legge
03.08.2009, n. 1023, il quale dispone che «Al fine di
garantire la coerenza nell'unitaria attività svolta dalla
Corte dei conti per le funzioni che ad essa spettano in
materia di coordinamento della finanza pubblica, anche in
relazione al federalismo fiscale, il Presidente della Corte
medesima può disporre che le sezioni riunite adottino
pronunce di orientamento generale sulle questioni risolte in
maniera difforme dalle sezioni regionali di controllo nonché
sui casi che presentano una questione di massima di
particolare rilevanza. Tutte le sezioni regionali di
controllo si conformano alle pronunce di orientamento
generale adottate dalle sezioni riunite.»
(25.03.2013
- link a www.regione.fvg.it). |
NEWS |
TRIBUTI: La
nuova super-Tares colpirà alla fine dell'anno.
L'ipotesi del Governo conferma la stangata di dicembre.
IL PROBLEMA/
I comuni dovranno fissare le date di versamento almeno 30
giorni prima della scadenza Doppie modalità di pagamento.
Un riavvio quasi immediato per i pagamenti del servizio
rifiuti, sotto forma di Tia o Tarsu a seconda delle regole
applicate nel Comune l'anno scorso; senza però far
scomparire la Tares, che va comunque pagata a conguaglio
entro l'anno e si porta dietro la «maggiorazione» da 30
centesimi al metro quadrato trasformata in sovrattassa
statale.
Le bozze del capitolo Tares circolate ieri, che potrebbero
trovare spazio nel decreto sui pagamenti in programma questa
mattina al Consiglio dei ministri o imboccare la via di un
provvedimento autonomo, confermano le attese della vigilia.
E ne confermano anche i problemi applicativi, a partire dal
maxiconguaglio di fine anno che contribuirà a spingere la
pressione fiscale nell'ultimo trimestre 2013 assai più in
alto dei livelli record appena registrati dall'Istat per gli
ultimi quattro mesi del 2012 (si veda la pagina a fianco).
Il provvedimento, almeno nelle bozze, prova a sposare le due
esigenze che si contrappongono sul ring della Tares. Le
aziende di igiene urbana e i Comuni non possono attendere
fino all'estate-autunno i primi incassi e con il calendario
Tares rischiano quindi di piombare in una crisi di liquidità
che mette a rischio pagamenti ai fornitori e stipendi; lo
Stato non intende rinunciare alla «copertura integrale» del
costo del servizio rifiuti attraverso il tributo e al
miliardo aggiuntivo della maggiorazione.
Per rispondere alla prima esigenza, si rimettono in campo i
Comuni, che secondo la nuova norma potrebbero decidere in
modo autonomo il calendario dei versamenti, avendo cura solo
di pubblicare la delibera 30 giorni prima della scadenza
della rata. Le prime rate, su cui l'autonomia degli enti
locali sembra piena, potranno essere pagate con gli stessi
strumenti utilizzati l'anno scorso, dai bollettini
precompilati ai Mav.
Tanta libertà si esaurirà però
all'ultima rata, «dovuta a titolo di Tares» come precisa la
bozza, che avrà le caratteristiche previste per il nuovo
tributo fin dal decreto «Salva-Italia» (Dl 201/2011,
articolo 14) che l'ha istituito: si potrà pagare solo con
F24 o bollettino postale ad hoc, e si dovrà garantire la
«copertura integrale» dei costi del servizio in base ai
piani finanziari che saranno predisposti nel corso
dell'anno. Da "buona" Tares, sarà accompagnata dalla
maggiorazione da 30 centesimi al metro quadrato da versare
direttamente allo Stato: contestualmente, l'Erario
"restituisce" ai Comuni il miliardo di euro che era stato
tagliato in vista dell'attribuzione ai sindaci di questa
sovrattassa.
Come si vede, il tentativo di compromesso fra due esigenze
contrapposte rischia di creare più di un problema,
soprattutto ai 40 milioni di italiani che abitano nei Comuni
dove nel 2012 si applicava la Tarsu. Solo la tariffa Tia,
applicata finora da 1.300 sindaci, già prevedeva la
copertura integrale dei costi attraverso l'applicazione del
«metodo normalizzato» per la determinazione del conto.
L'impatto effettivo dipenderà dalla struttura delle aliquote
di ogni Comune, ma in generale nel caso delle famiglie il
rischio aumenti sarà collegato al tasso effettivo di
copertura dei costi già raggiunto con i rincari della Tarsu
negli ultimi anni.
Per negozi e piccole imprese commerciali,
invece, parte l'applicazione del «metodo normalizzato» che
misura il conto sulla base della quantità di rifiuti
prodotti: rielaborando le stime diffuse nei giorni scorsi da
Confcommercio, nel caso di pagamenti in tre scaglioni si può
calcolare un'ultima rata pari a 10-20 volte le prime due a
seconda della tipologia di esercizio commerciale.
Nei Comuni che sono già passati alla tariffa, invece,
qualche problema potrebbe arrivare sul fronte procedurale,
perché le bozze citano per ora solo «i Comuni» come
autori degli invii delle bollette, mentre in molti casi
l'invio viene fatto dalle aziende, soprattutto nei casi
frequentissimi in cui il servizio è gestito dalla stessa
impresa per molti enti
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.04.2013). |
SEGRETARI COMUNALI: Unioni, segretari senza convenzioni.
Enti locali. Possono svolgere le
funzioni solo se autorizzati dal sindaco e fuori.
Il segretario comunale, ove autorizzato dal suo ente, può
svolgere al di fuori dell'orario di lavoro -ci chiede lumi
Giuseppe Cofano- l'incarico di segretario di una unione dei
comuni. Non è consentito il convenzionamento tra un comune
ed una unione per lo svolgimento della funzione di
segretario. Sono questi i pilastri fissati in via
interpretativa, in modo consolidato, per le segreterie delle
unioni dei comuni.
Queste ultime, pur essendo enti locali, non sono obbligate
ad avere un segretario iscritto allo specifico albo gestito
prima dalla specifica Agenzia ed adesso da una articolazione
del ministero dell'Interno. Le unioni dei comuni possono,
sulla base della propria regolamentazione, prevedere la
utilizzazione di segretari comunali ovvero di dirigenti e/o
responsabili degli enti aderenti. Molti statuti delle unioni
dettano il vincolo per la utilizzazione del segretario di
uno dei comuni come vertice amministrativo della gestione
associata.
Non essendo previsto dal legislatore che le unioni debbano
avere necessariamente un segretario iscritto allo specifico
albo, viene negata in modo consolidato la possibilità che
queste due amministrazioni possano stipulare una convenzione
di segreteria, sul modello di quanto espressamente
consentito dalla normativa contrattuale tra i comuni. Nella
stessa scia vanno le indicazioni prevalenti sul divieto del
comando parziale di un segretario da un comune ad una
unione.
Sulla base delle indicazioni dettate dalla ex Agenzia per la
gestione dell'albo dei segretari comunali e provinciali i
segretari possono essere autorizzati dagli enti a svolgere
l'incarico di segretari della unione. Si tratta di un
rapporto che si deve stabilire al di fuori del normale
orario di lavoro, sulla base delle previsioni di cui
all'articolo 52 del Dlgs n. 165/2001.
Peraltro la stessa Agenzia ha considerato utile il servizio
prestato dai segretari comunali presso le unioni ai fini
della maturazione della anzianità in enti aventi una
popolazione superiore a 10.000 abitanti al fine di
consentire ai segretari la partecipazione al corso
(denominato Sefa) per l'accesso alla fascia professionale
più elevata, che corrisponde a quella che nella vecchia
terminologia veniva denominata segreteria generale. Il che
costituisce una dimostrazione di come questa attività, per
quanto non direttamente connessa direttamente ai compiti
svolti istituzionalmente, è per molti aspetti da considerare
come parificata allo stesso. Secondo alcune interpretazioni,
che sono comunque sostanzialmente minoritarie, le unioni dei
comuni potrebbero avvalersi dei segretari anche sulla base
del comma 557 della legge n. 311/2004, cioè la norma che
consente a questi enti, alle comunità montane ed ai comuni
con popolazione inferiore a 5.000 abitanti di utilizzare,
previa autorizzazione, dipendenti di comuni che continuano
ad avere con lo stesso un rapporto di lavoro a tempo pieno.
Infine, nella gran parte delle realtà il trattamento
economico al segretario utilizzato dalla unione è
corrisposto da questo ente; il fatto che lo corrisponda il
comune determina verosimilmente una misura più ridotta dello
stesso
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Totalizzazione p.a..
A casa con 20 anni di contributi. La
funzione pubblica su chi è vicino alla pensione
La p.a. spierà nel cassetto previdenziale dei propri
dipendenti per capire se può collocarli a riposo. A quelli
vicini all'età di riposo (65 anni), infatti, verificherà se
sommando tutti gli anni di contributi in possesso del
lavoratore, questi raggiunga i 20 anni necessari alla
pensione di vecchiaia e, in tal caso, licenziarlo.
Lo precisa la
nota 04.04.2013 n. 15888 di prot. della Funzione pubblica.
Due questioni. La nota risponde a un quesito sulla
possibilità per una pa di proseguire il rapporto di lavoro
con un dipendente per fargli raggiungere il minimo
contributivo (20 anni) per la pensione. La questione,
secondo la funzione pubblica, va valutata alla luce della
situazione contributiva complessiva del dipendente. Due le
principali situazioni:
a) il dipendente non raggiunge i 20
anni per la pensione di vecchiaia considerando solo il
rapporto di lavoro con la pa presso cui presta servizio, ma
riesce a raggiungerli perché ha altre anzianità contributive
prevedenti (lavoro svolto presso altre pa, oppure come
dipendente o autonomo nel settore privato);
b) il dipendente
ha complessivamente un'anzianità contributiva che risulta
insufficiente ad arrivare al minimo di 20 anni per avere la
pensione di vecchiaia.
I chiarimenti.
Nel primo caso la p.a. deve verificare se con
tutte le anzianità contributive il lavoratore raggiunga o
meno il minimo di 20 anni. A tal fine, precisa la Funzione
pubblica, la p.a. deve consultare anche gli enti
previdenziali. Se la somma di tutte le anzianità
contributive, presso qualunque gestione (privati, pubblici,
privati ecc.), è pari o superiore a 20 anni, la p.a. deve
collocare a riposo il lavoratore al compimento dell'età
limite ordinamentale di permanenza in servizio (65 anni) se
egli matura prima del 31.12.2011 un qualsiasi diritto
a pensione oppure lo deve licenziare al raggiungimento del
nuovo requisito anagrafico previsto per la pensione di
vecchiaia dalla riforma Fornero. Al fine di verificare il
raggiungimento dei 20 anni, aggiunge la nota, la p.a. deve
considerare le possibilità di ricongiunzione, totalizzazione
e cumulo dei contributi (legge n. 228/2012).
Nel secondo
caso se il lavoratore è titolare di anzianità contributive
inferiore al minimo (presso tutte le gestioni), quindi
insufficiente a conseguire la pensione di vecchiaia, allora
la p.a. deve verificare se prolungando il rapporto di lavoro
oltre il requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia e
fino ai 70 anni il lavoratore raggiunga il requisito di
anzianità minima per il diritto alla pensione. Se ciò si
verifica, il dipendente va mantenuto in servizio; altrimenti
la p.a. deve collocarlo a riposo una volta che abbia
raggiunto l'età limite ordinamentale dei 65 anni (senza,
ovviamente, incremento della speranza di vita)
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2013
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
ENTI
LOCALI -
EDILIZIA PRIVATA: Fiere, al comune il piano incendi.
La prevenzione tocca all'ente locale.
Deve essere il comune competente alla gestione del mercato o
della fiera a predisporre il piano di sicurezza antincendio,
al fine di evitare che altri eventi luttuosi si ripetano.
Il
Comando provinciale dei Vigili del fuoco di Reggio Emilia ha
messo a punto una check list degli adempimenti necessari e
l'ha inviata a tutti i sindaci della provincia. Ma la
lettera-circolare 26.03.2013 n. 3350
di prot. fornisce «indirizzi di
prevenzione incendi per le aree mercatali, fiere commerciali
e manifestazioni varie a carattere temporaneo, svolte lungo
le vie cittadine» di rilevante interesse per tutti gli
enti locali.
Il grave incidente di Guastalla del marzo scorso causato
dallo scoppio di una bombola del gas ha posto in primo
piano, secondo il comandante provinciale, il problema della
sicurezza delle manifestazioni temporanee che non risultano
assoggettate ad alcun controllo o particolare autorizzazione
antincendio da parte degli organismi preposti alla
vigilanza.
Ciò non toglie, precisa la circolare, che in attesa di
specifiche linee guida che il ministero dell'interno
dovrebbe predisporre, al fine di evitare che accadimenti del
genere possano ripetersi, sia necessario adottare, fin da
subito, delle misure precauzionali. Più in particolare, il
Comando di Reggio Emilia ritiene che ogni veicolo attrezzato
con impianto di cottura gas debba essere dotato di un
estintore a polvere da 6 kg in regola con la revisione
semestrale di efficienza.
Peraltro, il titolare del veicolo attrezzato con impianto di
cottura gas, dovrebbe esibire le certificazioni di
conformità alle norme UNI CIG 7131/98, la certificazione di
collaudo decennale di bidoni del gpl e la fattura di ultimo
acquisto. Andrebbe richiesta anche la dimostrazione
dell'avvenuta revisione annuale dei diversi tipi di impianto
incorporati nel veicolo nonché la dichiarazione di
conformità alle norme Cei per gli impianti elettrici e di
terra provvisori eseguiti per l'occasione. Ma nessuna
sicurezza si raggiunge se non c'è formazione in materia.
Pertanto, secondo il Comando reggino, sarà necessario, tra
l'altro, che gli ambulanti partecipino ad un corso di almeno
quattro ore di formazione ed addestramento in materia di
prevenzione e lotta antincendio
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Dal viminale.
Antincendio. Nuove regole, ma da ieri.
Dal 4 aprile è entrata in vigore la nuova regola tecnica per
gli impianti di protezione attiva contro l'incendio
installati nelle attività soggette ai controlli di
prevenzione incendi.
È con il decreto del ministero
dell'interno 20.12.2012 (pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale n. 3 del 04.01.2013) che viene disciplinata la
progettazione, la costruzione, l'esercizio e la manutenzione
degli impianti antincendio installati nelle attività
soggette ai controlli di prevenzione incendi. Le nuove
regole valgono per gli impianti di nuova costruzione, ma
anche per quelli esistenti che hanno subito degli interventi
di modifica, e si riferiscono ai prodotti conformi alle
disposizioni comunitarie.
Sono invece esclusi gli impianti
installati nelle attività a rischio di incidente rilevante,
regolati dal dlgs 334/1999, negli edifici di interesse
storico artistico destinati a biblioteche, archivi, musei e
gallerie.
La nuova regola tecnica infine non si applica agli impianti
di distribuzione stradale di Gpl e gas naturale per
autotrazione, ai depositi di Gpl, di soluzioni idroalcoliche
e di gas di petrolio liquefatto
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI
PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggi in Gazzetta Ufficiale il decreto sulla pubblicità delle
informazioni degli enti.
P.a. con patrimoni trasparenti.
Via al diritto di accesso civico. Pubblici gli incarichi.
Istituzione del diritto di accesso civico; totale
trasparenza sulle situazioni patrimoniali di politici e
amministratori pubblici e sulle loro nomine; pubblici tutti
gli incarichi di consulenza affidati a terzi; prevista
l'adozione di un programma triennale per la trasparenza e la
nomina del responsabile della trasparenza in ogni
amministrazione.
Sono queste alcune delle novità contenute
nel decreto legislativo recante la disciplina degli obblighi
di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni
da parte delle p.a. (D.Lgs.
14.03.2013 n. 33), approvato in via definitiva dal
Consiglio dei ministri del 15.02.2013 e in
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale di oggi 05.04.2013.
Il provvedimento, modellato sul «Freedom of Information Act»
della legislazione statunitense, afferma il principio
generale dell'accessibilità immediata agli atti della
pubblica amministrazione a semplice richiesta del cittadino.
Si procede quindi all'introduzione de iure del diritto di
accesso civico consistente nella potestà attribuita a tutti
i cittadini di avere accesso e libera consultazione ai
documenti relativi all'attività della pubblica
amministrazione. Infatti si prevede che la richiesta di
accesso civico non sia sottoposta ad alcuna limitazione
quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente, che
non debba essere motivata, che sia gratuita e presentata al
«Responsabile della trasparenza», figura che ogni
amministrazione dovrà istituire.
La maggior parte degli obblighi previsti dal decreto e che
faranno capo alle amministrazioni pubbliche poggerà sulla
piattaforma internet e sulle reti telematiche in generale.
Su ogni sito istituzionale l'Amministrazione dovrà rendere
accessibile e facilmente consultabile una apposita sezione
ove devono essere pubblicati gli atti e le delibere per
almeno cinque anni o fino a che non perdono effetto) cui il
cittadino dovrà avere libero accesso. Non solo: al fine di
una maggiore chiarezza di lettura ogni provvedimento o atto
amministrativo dovrà contenere i link alle leggi di
riferimento. Si prevede poi che ogni Amministrazione adotti
un programma triennale per la trasparenza e l'integrità, da
aggiornare annualmente, finalizzato a garantire un adeguato
livello di trasparenza, legalità e «sviluppo della
cultura dell'integrità».
Per quel che riguarda i politici, il regolamento stabilisce
l'obbligo di pubblicità delle situazioni patrimoniali di
politici e parenti entro il secondo grado. Dovranno essere
rese pubbliche le nomine dei direttori generali delle Asl,
oltre che gli accreditamenti delle strutture cliniche.
Evidenza pubblica anche per la pubblicazione dei rendiconti
dei gruppi consiliari regionali e provinciali, nonché per
gli atti e le relazioni degli organi di controllo, da parte
delle regioni, delle province autonome e delle province,
evidenziando, in particolare, le risorse trasferite a
ciascun gruppo, con indicazione del titolo di trasferimento
e dell'impiego delle risorse utilizzate.
Trasparenza assoluta per gli incarichi dei dipendenti
pubblici: si prevede infatti che siano pubblicati sul sito
dell'amministrazione di appartenenza del dipendente l'elenco
di tutti gli incarichi autorizzati, con l'indicazione della
durata e del compenso spettante per ogni incarico, in
aggiunta alla pubblicazione del singolo incarico sul sito
dell'amministrazione conferente, diversa da quella di
appartenenza. Per i soggetti esterni all'amministrazione
rimane fermo l'elenco complessivo degli incarichi affidati
consultabile sulla banca dati del Dipartimento della
funzione pubblica. Da pubblicare anche i dati relativi
all'ammontare complessivo dei premi stanziati per la
performance dei dipendenti pubblici e l'ammontare dei premi
effettivamente distribuiti.
Inoltre le amministrazioni dovranno pubblicare i dati
relativi all'entità del premio mediamente conseguibile dal
personale, i dati relativi alla distribuzione del
trattamento accessorio, in forma aggregata. Previsto anche
l'obbligo di pubblicazione annuale di un indicatore dei
tempi medi di pagamento per l'acquisto di beni, servizi e
forniture, denominato «indicatore di tempestività dei
pagamenti
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI: Bandi e avvisi di gara sui giornali
Confermati gli obblighi di pubblicità legale dei bandi e
avvisi di gara; obbligo di pubblicare sui siti internet i
dati principali dei contratti stipulati dalle
Amministrazioni con le imprese.
È quanto prevede l'articolo
37 del decreto sulla trasparenza e sulla pubblicità
dell'azione amministrativa (D.Lgs.
14.03.2013 n. 33) che, con una formula
omnicomprensiva, richiama tutti gli obblighi di
pubblicazione, in materia di contratti pubblici, derivanti
dalla normativa nazionale.
Fra questi sono citati anche quelli che si sostanziano nella
pubblicazione sui quotidiani, locali e nazionali, per
estratto, di avvisi e bandi di gara. La disposizione,
quindi, conferma come sia del tutto vigente l'onere di
pubblicazione per estratto di bandi e avvisi di gara in capo
alle stazioni appaltanti che, peraltro, non sopportano più
tali oneri a partire dal primo gennaio 2013. Infatti,
saranno gli aggiudicatari di contratti pubblici a rifondere
le stazioni appaltanti di quanto sostenuto per la
pubblicazione, entro sessanta giorni dall'aggiudicazione del
contratto. Nello stesso decreto si prevede anche, per le
pubbliche amministrazioni, l'obbligo di pubblicare la
delibera a contrarre nell'ipotesi di procedura negoziata
senza pubblicazione del bando di gara.
Il decreto prevede poi l'obbligo per le pubbliche
amministrazioni di pubblicare tempestivamente sui propri
siti istituzionali l'oggetto del bando, l'elenco degli
offerenti, l'aggiudicatario, l'importo di aggiudicazione, i
tempi di completamento dell'opera, servizio o fornitura;
l'importo delle somme liquidate. Entro il 31 gennaio di ogni
anno, tali informazioni, relativamente all'anno precedente,
dovranno essere pubblicate in tabelle riassuntive rese
liberamente scaricabili in un formato digitale standard
aperto, per un maggior controllo sull'imparzialità degli
affidamenti, nonché una maggiore apertura degli appalti
pubblici alla concorrenza. Infine massima pubblicità anche
per i documenti di programmazione anche pluriennale delle
opere pubbliche
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Bilanci e Imu separati in casa.
Aliquote e preventivi, la tempistica non è coordinata.
I comuni dovranno fissare sostanzialmente al buio le misure
dell'imposta sugli immobili.
La tempistica per la fissazione delle aliquote dell'Imu non
è coordinata con quella del bilancio comunale.
L'art. 13, comma 13-bis, del dl 201/2011, infatti, prevede,
che, a decorrere dall'anno di imposta 2013, le deliberazioni
con cui i comuni approvano le aliquote e la detrazione Imu
acquistano efficacia dalla data di pubblicazione nel sito
informatico del Dipartimento delle finanze e che i relativi
effetti retroagiscono al 1° gennaio dell'anno di
pubblicazione, a condizione che quest'ultima avvenga entro
il 30 aprile.
A tale scopo, le deliberazioni devono essere inviate al
predetto Dipartimento, esclusivamente in via telematica,
entro il 23 aprile. Nei comuni che non rispettano questo
timing, si intendono prorogate le aliquote e la detrazione
relative all'anno precedente.
L'anticipazione di tali scadenze ha il fine di far conoscere
per tempo ai contribuenti le misure adottate dai singoli
comuni, in modo che entro il termine per il versamento
dell'acconto Imu (ossia il 16 giugno) ciascuno possa
calcolare compiutamente la propria imposta.
Essa, tuttavia, contrasta con la previsione di cui all'art.
1, comma 381, della legge 228/2012, che ha prorogato al 30
giugno il termine entro cui i comuni devono approvare il
preventivo 2013. Quest'ultimo, come noto, è anche, in base
alla disciplina generale, il termine entro cui i comuni
devono fissare le tariffe e le aliquote relative ai tributi
di loro competenza.
Per completare il quadro, va richiamato anche l'art. 1,
comma 444, della stessa legge 228/2012, il quale stabilisce
che, per ripristinare gli equilibri di bilancio, gli enti
locali possono modificare le aliquote e le tariffe entro il
30 settembre. Anche tale disposizione (come la precedente)
non si applica evidentemente all'Imu, considerata la
vigenza, per quest'ultima, della disciplina speciale sopra
richiamata.
In mancanza di modifiche legislative (che appaiono secondo
gli osservatori specializzati quanto mai opportune),
pertanto, i comuni dovranno fissare le aliquote Imu
sostanzialmente «al buio», prima di approvare il
bilancio di previsione o comunque in presenza di un
documento contabile ampiamente approssimativo, considerata
l'impossibilità di conoscere alcuni dati essenziali ai fini
della sua quadratura, primo fra tutti il riparto del nuovo
fondo di solidarietà comunale, che difficilmente sarà noto
prima del mese di maggio. Tutti gli aumenti decisi dopo il
23 aprile o non pubblicati entro il 30 aprile saranno
efficaci solo a partire dal prossimo anno
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Centrale unica di committenza, non solo acquisti.
Anche i contratti per lavori e servizi rientrano nel
perimetro di competenza.
Una centrale unica di committenza ad ampio raggio. Che
opera, ad esempio, con riferimento generale ai contratti di
interesse degli enti locali.
In attuazione della direttiva 2004/18/Ce del Parlamento
europeo e del Consiglio del 31.03.2004, relativa al
coordinamento delle procedure di aggiudicazione di appalti
pubblici, di lavori, di forniture e servizi, prendendo atto
dello sviluppo negli stati della comunità di nuove tecniche
di acquisto elettronico, che consentono un aumento della
concorrenza e dell'efficacia della commessa pubblica, la
legislazione italiana ha sperimentato l'utilizzo di
procedure di acquisto elettronico, nel rispetto delle norme
stabilite dalla direttiva medesima e dei principi di parità
di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza.
In questa direzione, il legislatore ha reso obbligatorio,
per gli acquisti di beni e servizi, al di sotto della soglia
di rilievo comunitario, nelle amministrazioni pubbliche, il
ricorso, al mercato elettronico ovvero ad altri mercati
elettronici ovvero al sistema telematico messo a
disposizione dalla centrale regionale di riferimento per lo
svolgimento delle relative procedure (legge 27.12.2006, n. 296, art. 1, comma 450, e successive modifiche e
integrazioni).
Già con il Piano straordinario contro le mafie, il Governo
assunse l'impegno di incentivare una maggiore diffusione
nelle amministrazioni pubbliche a promuovere l'istituzione,
almeno in ambito regionale, di una o più stazioni uniche
appaltanti (SUA), al fine di assicurare la trasparenza, la
regolarità e l'economicità della gestione dei contratti
pubblici e di prevenire il rischio di infiltrazioni mafiose
(art. 13 della legge 13.08.2010, n. 136). Inoltre, per i
comuni fino a 5.000 abitanti, il Codice dei contratti
pubblici (comma 3-bis, articolo 33, del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163) obbliga, a decorrere dal 01.04.2013, ad affidare mediante una centrale unica di
committenza, l'acquisizione di ogni lavoro, servizio e
fornitura, nell'ambito delle unioni dei comuni oppure
mediante la costituzione di un accordo consortile,
avvalendosi dei competenti uffici.
Resta ferma, la
possibilità, per gli stessi comuni di effettuare acquisti
attraverso gli strumenti elettronici gestiti da altre
centrali di committenza di riferimento, ivi comprese le
convenzioni di cui all'articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488 (mediante la CON.S.I.P. «Concessionaria Servizi
Informativi Pubblici») e il mercato elettronico della
pubblica amministrazione di cui all'articolo 328, del dpr 05.10.2010, n. 207.
Dall'esame della normativa richiamata emergono alcuni
interrogativi ai fini dell'effettiva applicazione.
La norma di cui al comma 3-bis dell'art. 33 del dlgs n.
163/2006 si riferisce a un accordo consortile e non a una
convenzione.
A questo punto gli operatori si domandano quale disciplina
sia applicabile? Quella dell'art. 31 del Testo unico enti
locali (decreto legislativo 18.08.2000, n. 267) che
disciplina i consorzi per la gestione associata di uno o più
servizi e l'esercizio associato di funzioni oppure quella
dell'art. 30 dello stesso Tuel, relativo alle convenzioni.
Ora posto che l'art. 2, comma 186, lett. e), della legge 23.12.2009, n. 191, ha soppresso i consorzi di funzioni,
si dovrà supporre che l'accordo debba riferirsi a servizi.
Tuttavia è possibile ritenere che il termine accordo
consortile sia indicato in modo atecnico, avendo la legge,
come riferimento lo strumento della convenzione, alternativo
alle unioni dei comuni, alla stessa stregua dell'esercizio
associato delle funzioni fondamentali dei comuni (articolo
14, commi 27 e 28 del decreto legge 31.05.2010, n. 78,
convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010,
n. 122 e successive modifiche ed integrazioni).
Se in un particolare ambito territoriale ottimale vi è un
solo comune avente popolazione inferiore a 5.000 abitanti
con quale altro comune deve sottoscrivere l'accordo? Come
dovrà gestire eventuali resistenze da parte di altri comuni
che non vi sono obbligati agli acquisti mediante centrale
unica di committenza? Si trova in una situazione di stallo
da cui se ne esce con molta difficoltà. In tale ipotesi, la
stessa legge riconosce una soluzione alternativa ovvero la
possibilità di effettuare i propri acquisti attraverso gli
strumenti elettronici gestiti da altre centrali di
committenza di riferimento, ivi comprese le convenzioni di
cui all'articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488
(mediante la CON.S.I.P. «Concessionaria Servizi Informativi
Pubblici») e il mercato elettronico della pubblica
amministrazione di cui all'articolo 328 del dpr 05.10.2010, n. 207 (MePA).
Con il termine acquisti cosa dovrà intendersi?
La conclusione di qualsiasi contratto pubblico sia esso
relativo a lavori, a servizi oppure a forniture, nelle forme
previste dal Codice dei contratti pubblici oppure ai soli
acquisti di beni?
Si dovrà propendere per una classificazione più complessiva
dei contratti pubblici e quindi anche per i contratti
relativi, a lavori e servizi, anche se il legislatore fa
riferimento solo agli acquisti.
L'obbligo di far ricorso al mercato elettronico della
pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici
ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla
centrale regionale di riferimento per lo svolgimento delle
relative procedure, sussiste solo per gli acquisti di beni e
servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo
comunitario o si estende anche agli acquisti sopra soglia?
L'Ente è tenuto comunque a costituire una centrale di
committenza in forma consortile o associata ovvero potrà
avvalersi dei servizi telematici di acquisti messi a
disposizione, tra l'altro dalla regione?
È pur vero che alcune Regioni, al fine di favorire, nelle
procedure contrattuali, i processi di semplificazione ed
efficienza delle pubbliche amministrazioni nonché i principi
di trasparenza e concorrenza, hanno promosso ed incentivato
la diffusione e l'utilizzo tra le amministrazioni dei
sistemi e degli strumenti telematici di acquisto, sotto e
sopra soglia comunitaria, che prevedono l'effettuazione
delle procedure di gara in modalità telematica e l'acquisto
sul mercato elettronico. Si tratta di sistemi telematici di
acquisti che non integrano i requisiti previsti alla
normativa nazionale sull'istituzione di una Centrale unica
di committenza, che per le ragioni sopra esposte debba
considerarsi una vera opportunità per tutte le
amministrazioni locali
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Parola alla giunta.
Trasparenza nell'anticorruzione. Si sciolgono tutti i dubbi sui soggetti competenti.
Chiarito che il termine per l'approvazione del piano
triennale anti corruzione è ordinatorio e, dunque, le
amministrazioni possono procedere anche oltre il 31.03.2013, resta ancora aperto, per gli enti locali, il tema
dell'individuazione di quale sia l'organo competente.
Le tesi che si confrontano sono due. Una prima, propende per
la competenza del consiglio. Tale tesi si fonda su due
argomentazioni. La prima è letterale: poiché la legge
190/2012 assegna la competenza ad adottare il piano
all'organo di indirizzo politico, si ritiene competente il
consiglio, che ai sensi dell'articolo 42 del dlgs 267/2000 è
appunto l'organo di indirizzo dell'ente locale. Una seconda
argomentazione si fonda sulla durata pluriennale del piano.
La seconda tesi, al contrario, considera competente la
giunta, per la circostanza che le attribuzioni del consiglio
comunale sono determinate in un elenco che deve
necessariamente essere tassativo ed assegnate espressamente.
La legge 190/2012, come ha chiarito la Civit a proposito
della nomina del responsabile della prevenzione della
corruzione, si riferisce in senso lato all'organo di
indirizzo politico, comprendendo tutti i possibili soggetti
che nelle varie amministrazioni assolvano a tali competenze.
La legge non si riferisce di certo al consiglio comunale e
provinciale, che, ai sensi del dlgs 267/2000 appunto svolge
solo le funzioni di indirizzo e controllo espressamente ad
esso riservate, ad esclusione di quelle attribuite al
sindaco. Le rimanenti spettano alla giunta, che, infatti, è
l'organo dotato di competenza generale e «residuale»: cioè
adotta tutti quei provvedimenti attinenti alla funzione di
indirizzo e controllo non espressamente assegnati dalla
legge al consiglio.
La pluriennalità del piano anticorruzione non è
argomentazione sufficiente ad escludere la competenza della
giunta, che adotta certamente molti altri provvedimenti di
valore pluriennale: ad esempio, il piano triennale delle
assunzioni, oppure le autorizzazioni alla stipulazione dei
contratti decentrati.
A dirimere, comunque, ogni dubbio, è, comunque, l'articolo
10 del decreto legislativo di riordino della trasparenza
(D.Lgs.
14.03.2013 n. 33 oggi in G.U.).
Il comma 2 dispone che il programma
triennale della trasparenza costituisce di norma una sezione
del piano di prevenzione della corruzione. Il comma 3,
precisa che gli obiettivi del programma della trasparenza
vanno formulati in collegamento con la programmazione
strategica e operativa, definita in via generale nel Piano
della performance.
La disposizione conferma che per comuni e
province il piano della performance non è obbligatorio. E si
conferma che il piano della trasparenza, parte integrante di
quello anticorruzione, dovendo essere integrato al Peg è
cosa della giunta, competente ad adottare appunto il Peg
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI: Sui pagamenti il nodo del Durc.
A rischio l'efficacia del decreto.
Lo sblocco dei pagamenti delle amministrazioni pubbliche
rischia di restare parecchio depotenziato, se non sarà
accompagnato da provvedimenti ulteriori.
L'efficacia del futuro decreto rischia di essere fortemente
limitata, in primo luogo, dall'incombente Moloch del Durc,
il documento unico di regolarità contributiva, che attesta
la regolarità dei versamenti assicurativi e contributivi
delle imprese.
È evidente che aziende che vantino ingenti crediti dalle
pubbliche amministrazioni rischiano seriamente di non
trovarsi in regola con i versamenti a Inps, Inail e Cassa
edile, proprio a causa della mancanza di flussi finanziari.
In assenza di una modifica alla disciplina del Durc, i
pagamenti potrebbero essere sbloccati, ma comunque non
destinabili alle aziende non in regola col documento, che
resta comunque un fondamentale presupposto per la
legittimità dei pagamenti stessi. Molte aziende, dunque,
potrebbero rimanere comunque senza soldi.
Allo stesso modo, i pagamenti sono subordinati alla verifica
della regolarità dei pagamenti di imposte e tasse, ai sensi
48-bis del dpr 602/1973, nel caso di somme superiori ai 10
mila euro. Anche in questo caso, vi potrebbero essere
aziende andate in carenza di liquidità anche a causa dei
ritardati pagamenti della pubblica amministrazione che
potrebbero ritrovarsi segnalate come non in regola con gli
adempimenti tributari e restare comunque a bocca asciutta.
La quantificazione del rischio di vanificare anche solo in
parte la manovra sui pagamenti appare connessa all'effettivo
avvio del processo, ma potrebbe trattarsi di una quantità
molto importante di operatori economici.
In ogni caso, senza una modifica al criterio del saldo misto
tra competenza e cassa del patto di stabilità (è l'obbligo
di mantenere un tetto alle erogazioni di cassa che blocca i
pagamenti), il vantaggio derivante dai pagamenti potrebbe
limitarsi, per le aziende, al recupero di propri crediti e
al rientro da eventuali esposizioni con le banche.
Un rilancio vero e proprio delle loro attività appare
difficile, perché restando in piedi il sistema dei saldi
vigente, le amministrazioni locali non possono materialmente
pianificare appalti nuovi che comportino esborsi di cassa
superiori a quanto consentito.
È ancora operante, infatti, l'articolo 9, comma 2, del dl
78/2009, convertito in legge 102/2009, ai sensi del quale
nelle amministrazioni «al fine di evitare ritardi nei
pagamenti e la formazione di debiti pregressi, il
funzionario che adotta provvedimenti che comportano impegni
di spesa ha l'obbligo di accertare preventivamente che il
programma dei conseguenti pagamenti sia compatibile con i
relativi stanziamenti di bilancio e con le regole di finanza
pubblica».
Le amministrazioni, dunque, debbono programmare
una «stretta» agli appalti, per rispettare proprio le regole
del patto di stabilità che limitano le erogazioni di cassa
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Vincoli cedevoli. Richiesta di convocazione con indicazioni
sommarie.
L'odg si può cambiare.
Piena sovranità all'assemblea consiliare
Quali sono i limiti del potere di verifica preventiva del
consiglio comunale in merito alla convocazione dell'organo
assembleare da parte di un quinto dei consiglieri, sensi
dell'art. 39, comma 2, del dlgs 267/2000, e
all'ammissibilità delle questioni da trattare? E' possibile
inserire nell'ordine del giorno della seduta ulteriori
argomenti rispetto a quelli richiesti? La richiesta di
convocazione deve necessariamente contenere una «proposta»,
al fine di consentire anche agli altri consiglieri di avere
piena cognizione di termini e finalità della discussione?
Se da un lato, il funzionamento dei consigli «_ nel quadro
dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal
regolamento» (art. 38 del dlgs n. 267/2000), dall'altro il
legislatore ha riconosciuto ai consiglieri il diritto di
iniziativa mediante la richiesta di convocazione del
consiglio, tutelato con la previsione di un potere
sostitutivo attribuito al Prefetto dall'art. 39 del dlgs n.
267/2000.
Nel caso in questione, il comune ha disciplinato
la materia in oggetto nel proprio regolamento che, con
riferimento al funzionamento del consiglio comunale, fermi
restando i poteri del presidente dello stesso come delineati
dalla prevalente giurisprudenza, attribuisce alla conferenza
dei capogruppo, presieduta dal Presidente del consiglio
comunale, il compito di predisporre l'ordine del giorno. La
citata disposizione regolamentare stabilisce, inoltre, che
l'ordine del giorno è vincolante «_ fatta salva la diversa
decisione adottata dal Consiglio comunale a maggioranza e su
richiesta anche di un solo consigliere».
Il legislatore,
infatti, ha attribuito al regolamento dell'ente sia la
determinazione delle modalità di convocazione del consiglio,
sia quelle per la formazione dell'ordine del giorno. Per
quanto riguarda la verifica dell'ammissibilità delle
questioni da trattare, una costante giurisprudenza ha
stabilito che «_ appartiene ai poteri “sovrani”
dell'assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato
argomento inserito nell'ordine del giorno non debba essere
discusso -questione pregiudiziale- ovvero se ne debba
rinviare la discussione – questione sospensiva – (Tar per la
Puglia, sezione di Lecce, sentenza 04.02.2004, n.
1022)».
Lo stesso giudice precisa che sono ammissibili «_
solo quelle questioni pregiudiziali che impediscono la
discussione dell'argomento_ per ragioni interne e proprie
della specifica procedura, con esclusione di questioni
strumentalmente dirette a porre nel nulla la funzione del
diritto di iniziativa _, ovvero _ di procedimenti
coinvolgenti l'attività assembleare che, in quanto definiti
per tempi e fasi da precise norme di legge non siano
suscettibili di essere derogate e, quindi, utilmente e
legittimamente richiamabili a base di una questione
pregiudiziale. Il che avviene quando, come nella
fattispecie, il procedimento, tipizzato con legge, ha la
funzione di tutela di interessi indisponibili ed estranei
alla sovranità dell'Assemblea che si realizzano proprio
attraverso il rispetto di fasi e modalità del procedimento
stesso_» (Tar Puglia ult.cit.).
In merito alla seconda
questione, bisogna fare riferimento a quanto stabilito nel
regolamento adottato dall'ente nell'ambito dell'autonomia
attribuita dal legislatore in materia di funzionamento dei
consigli. Nel caso specifico, il regolamento attribuisce
alla conferenza dei Capogruppo la formazione dell'ordine del
giorno: quest'ultimo dovrà necessariamente contenere gli
argomenti per i quali è stata richiesta la convocazione del
consiglio; in assenza di disposizioni contrarie, l'ordine
del giorno potrà altresì riguardare le ulteriori questioni
stabilite dalla conferenza dei capigruppo.
Infine, per
quanto concerne il contenuto della richiesta di convocazione
del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, ossia
se debba essere necessariamente formulata una «proposta_ al
fine di consentire anche agli altri consiglieri di aver
piena cognizione dei termini e finalità della discussione
anche ai fini volitivi e decisori_», l'art. 39, comma 2, del
dlgs n. 267/2000 utilizza la generica espressione «questioni
richieste». Secondo un generale indirizzo
giurisprudenziale, in tali ipotesi è sufficiente la sommaria
e sintetica indicazione degli affari da trattare, purché
sussista la presenza di quegli essenziali elementi
identificativi idonei ad evitare dubbi od incertezze sulle
questioni poste.
Per quanto riguarda la trattazione di proposte deliberative
a contenuto dispositivo, ovviamente, è richiesta la
iscrizione esplicita all'ordine del giorno. Spetta,
tuttavia, al consiglio comunale trovare soluzioni per le
singole questioni e valutare l'opportunità di indicare, con
apposita modifica regolamentare, una disciplina di maggiore
chiarezza e dettaglio nella materia trattata, al fine di
assicurare le garanzie previste dal legislatore alla
minoranza e l'ordinato svolgimento delle funzioni proprie
dell'assemblea consiliare
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2013). |
TRIBUTI: Sentenza della corte di cassazione.
Le unità collabenti scontano l'Ici e l'Imu.
Le unità collabenti, in particolari condizioni, sono tassate
ai fini Ici e Imu in base al valore dell'area fabbricabile
che sottintende l'immobile su cui insistono.
Una indiretta conferma di tale assunto potrebbe rinvenirsi
nella giurisprudenza attuale della Corte di Cassazione, con
la recentissima sentenza 01.03.2013 n. 5166.
Vale la pena di riassumere la questione su cui dibattiamo,
che riguarda in sintesi l'inquadramento ai fini dell'Imposta
comunale sugli immobili (cosiddetta Ici), dei fabbricati
iscritti, ai fini delle risultanze catastali, come categoria
F/2, cioè le cosiddette unità collabenti.
I profili che riguardano l'Imu (imposta municipale propria),
che come è noto, è succeduta all'Imposta comunale sugli
immobili, sono essenzialmente sovrapponibili, nel caso in
esame, all'abrogata imposta.
Analogo problema si pone per le unità in corso di
definizione (categoria F/4) che posso essere accomunate a
quelle collabenti, per la stretta analogia (stesso
inquadramento, assenza di rendita catastale ecc.) che
presentano queste tipologie di immobili.
Ricordiamo che tali fabbricati, essendo descritti come
«Unità collabenti (diroccate, in disuso, ruderi, non
utilizzate), sono prive di rendita catastale.
A tal riguardo tali immobili, per godere di eventuali
agevolazioni fiscali, devono essere effettivamente
corrispondenti a ciò che il contribuente dichiara nella
documentazione che è necessaria per richiedere tale
accatastamento come unità collabenti.
Essendo prive di rendita catastale, non è sufficiente
sostenere che esse per il solo fatto di non presentare la
rendita, non siano soggette all'Ici (o all'Imu) in quanto il
presupposto dell'imposta è quello dell'art. 2 del dlgs
504/1992, legge istitutiva dell'imposta Ici, la quale
prescrive che è soggetta all'imposta «l'unità immobiliare
iscritta o che deve essere iscritta nel catasto edilizio
urbano».
Ricordiamo che soggiace a tassazione ai fini dell'Ici l'area
fabbricabile (art. 1, comma 2, dlgs 504/1992), intendendosi
per questa, l'area utilizzabile in base agli strumenti
urbanistici generali o attuativi ovvero in base alle
possibilità effettive di edificazione (art. 2, comma 1, lett
b, del dlgs 504/1992).
In tal casi, la possibilità edificatoria è dimostrata dal
fatto che insistono su tale area immobili precedentemente
edificati, a prescindere dalle loro condizioni di
manutenzione o dello stato di conservazione: ciò vale quindi
anche gli immobili fatiscenti o per i ruderi.
Nelle fattispecie in esame, dato l'inserimento dei
fabbricati e delle aree in categoria «F», che è transitoria,
è obbligo del contribuente richiedere in capo a pochi mesi
un nuovo accatastamento più consono, tenuto conto anche
delle caratteristiche dei beni, e del fatto che la categoria
«F» concerne immobili su cui si sta effettuando interventi
di recupero o di manutenzione straordinaria.
Se invece su tali immobili di categoria «F» non sono in atto
questi interventi di recupero, la permanenza di tale
accatastamento nella categoria cennata non è permessa e
quindi è di fatto illegittima.
Si ricorda sommessamente, che l'Agenzia del Territorio, in
numerose sue circolari, anche recenti, ha ricordato che
l'assegnazione della categoria catastale «F» definite
«fittizie», ha natura transitoria, e non deve essere
utilizzata dai contribuenti per lungo tempo, per consentire
indebiti risparmi di imposta, data l'assenza di rendita
catastale per tali immobili.
In particolare la circolare dell'Agenzia del territorio n. 4
del 29/10/2009, ma ve ne sono altre meno recenti, come
quella del 21/02/2002 prot. n. 15232, ricordano come le
categorie «F» in argomento «dovessero rappresentare solo una
temporanea iscrizione negli atti catastali in attesa della
definitiva destinazione conferita al bene».
Una delle poche sentenze disponibili in materia (la n. 164
dell'08/11/2001) della Comm. trib. prov. di Arezzo,
respingeva il ricorso del ricorrente sulla base dello stesso
principio, qui massimato: «Ai fini Ici, un edificio in
rovina, dichiarato collabente dall'Ufficio tecnico erariale
non può essere qualificato come fabbricato inagibile, ma
bensì come area fabbricabile».
Una siffatta tesi sembra trovare conferma nella citata
sentenza della Corte di cassazione n. 5166/2013, nella
quale, occupandosi peraltro della tassazione ai fini delle
imposte dirette della plusvalenza da cessione, la
circostanza che il terreno, prima dell'atto di
compravendita, avesse già ottenuto la concessione edilizia
per il recupero di fabbricati ex rurali collabenti con opera
di demolizione nuova costruzione, fa si che la potenzialità
edificatoria la rendesse tassabile come area fabbricabile,
ai fini dell'imposta comunale sugli immobili.
In tali casi il Comune, è bene precisarlo, dovrebbe valutare
l'area fabbricabile avendo riguardo soprattutto anche della
prospettiva di un recupero e quantificandone le relative
attività e passività, cosicché la valutazione complessiva
sia aderente alla realtà e all'attualità del bene, anche
tenendo conto del riferimento al prezzo di mercato.
Va rilevato per completezza che la peculiarità del caso in
esame, riferito a tali unità collabenti, fa sì che il
problema sia marginalmente conosciuto soltanto agli enti
locali impositori e ai contribuenti che siano in possesso di
tali immobili
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2013). |
APPALTI: Solo chi ha avanzi d'amministrazione può agire subito.
La bozza del decreto: meno vincoli per le anticipazioni di
cassa, dirigenti lenti nel mirino.
Via libera immediato ai pagamenti solo per gli enti che
presentano avanzi di amministrazione. Meno vincoli per
l'accesso alle anticipazioni di cassa. Coinvolgimento della
Corte dei conti nell'irrogazione delle sanzioni ai
responsabili dei mancati pagamenti e della Cassa depositi e
prestiti nella gestione del fondo di liquidità a favore di
comuni e province.
Sono queste alcune delle novità contenute nella
bozza di
decreto per lo sblocco dei debiti della p.a. verso le
imprese, slittato ieri ma che sarà al massimo lunedì
all'esame del consiglio dei ministri e relativamente al
quale anche il Commissario Ue agli affari finanziari, Oli Rehn, ha richiesto approfondimenti.
Il nuovo testo, in effetti, presenta diverse novità,
ovviamente non ancora definitive, rispetto alle versione
circolate nei giorni scorsi (si veda ItaliaOggi di ieri).
Sostanzialmente confermato l'allentamento del Patto 2013 per
gli enti locali per un importo pari a 5 miliardi di euro per
onorare una quota dei debiti di parte capitale maturati al
31/12/2012.
Nell'immediato, essi potranno pagare fino al 35% dei
rispetti avanzi di amministrazione, parametro diverso da
quello dei residui passivi in precedenza previsto. Rimane
fermo che, in attesa del decreto che ripartirà l'intero
plafond, nessun ente potrà pagare più del 50% degli spazi
finanziari che intende comunicare al Mef. Dopo il riparto,
occorrerà garantirà pagamenti almeno per il 90% degli spazi
finanziari concessi. In mancanza, scatterà una sanzione
pecuniaria pari a due mensilità di retribuzione per i
responsabili dei servizi interessati. Analoga penalizzazione
è prevista in caso di mancata adesione alla procedura (deve
ritenersi a fronte della sussistenza di passività certe,
liquide ed esigibili). Saranno le sezioni giurisdizionali
della Corte dei conti ad accertare le responsabilità e ad
applicare le sanzioni.
Confermata anche l'istituzione di un apposito fondo da 2
miliardi per ciascuno dei prossimi due anni a favore degli
enti locali a corto di liquidità. Per le erogazioni del
2013, il tasso d'interesse sarà pari al rendimento di
mercato dei Btp a tre anni, rilevato alla data di entrata in
vigore del decreto, per quelle del 2014 sarà determinato con
apposito decreto del Mef. Ciascun ente locale dovrà
stipulare con la Cassa depositi e prestiti un contratto di
prestito e relativo piano di ammortamento, redatti secondo
un contratto tipo. I rapporti tra la Cassa e il Mef saranno
regolati mediante apposito atto aggiuntivo alla convenzione
quadro stipulata tra gli stessi.
Per gli enti che accederanno al fondo scatteranno pesanti
limitazioni, mutuate dal regime previsto per quelli che
hanno sforato il Patto: da un lato, il divieto di impegnare
spese correnti in misura superiore all'importo annuale
minimo dei corrispondenti impegni effettuati nell'ultimo
triennio, dall'altro quello di ricorrere all'indebitamento
per gli investimenti e di prestare garanzie per la
sottoscrizione di nuovi prestiti o mutui da parte di enti e
società controllati o partecipati. Rispetto al testo
iniziale, tuttavia, la durata di tali vincoli scende da 5 a
3 anni.
Nessun vincolo analogo, invece, è più previsto, al momento,
per le regioni che beneficeranno delle erogazioni
dell'analogo fondo che verrà costituito a loro favore per
far fronte ai debiti diversi da quelli sanitari e finanziari
e che avrà una dotazione di 3 miliardi per il 2013 e di 5
miliardi per il 2014. Esse dovranno comunque, oltre che
sottoscrivere un apposito contratto col Mef, definire idonee
e congrue misure, anche legislative, di copertura annuale
dell'anticipazione di liquidità, maggiorata degli interessi,
e presentare un piano di pagamento dei predetti debiti.
Le regioni potranno anche contare sui 14 miliardi (5
quest'anno, 9 il prossimo) finalizzati a favorire
l'accelerazione dei pagamenti dei debiti degli enti del Ssn.
Nel decreto dovrebbero trovare posto anche misure
procedurali per favorire i pagamenti delle p.a. Fra queste,
dopo lo stralcio della facoltà per le regioni di aumentare
l'addizionale Irpef e oltre all'obbligo per tutte le p.a. di
registrarsi (a penna di sanzioni) sulla piattaforma
elettronica per la gestione telematica del rilascio delle
certificazioni, potrebbe rientrare un po' a sorpresa anche
l'impignorabilità delle somme destinate ai risarcimenti
concessi ai sensi della legge Pinto detenute dalla tesoreria
centrale e dalle tesorerie provinciali dello stato.
Prevista, infine, la compressione dei tempi previsti dal
dlgs 123/2011 per il controllo preventivo di regolarità
amministrativa e contabile per adeguarli alla nuova
tempistica prevista dal dlgs 192/2012.
Province: ripartiti i tagli della spending review
L'art. 7 della bozza di decreto sullo sblocco dei debiti
verso la p.a. contiene anche alcune modifiche rilevanti al
dl 95/2012. In particolare, viene rivisto l'art. 16, comma
7, che ha previsto a carico delle province ulteriori tagli
per 1.200 milioni sul 2013 e sul 2014 e per 1.250 milioni a
partire dal 2015.
Per i primi due anni, il riparto di tali
riduzioni si stacca dal criterio proporzionale alle spese
per consumi intermedi rilevate dal Siope e viene operato
direttamente dal decreto. Dal 2015, invece, si tornerà a
tale meccanismo, salvo diverso accordo da raggiungere in
Conferenza unificata entro il 31 dicembre dell'anno
precedente
(articolo ItaliaOggi del 04.04.2013). |
ENTI LOCALI: Il viminale.
Per i giostrai serve il placet del comune.
L'intervento preventivo della commissione di vigilanza è
obbligatorio nel caso di allestimento di un «parco
divertimento». Ma anche nel caso di allestimenti di
spettacoli viaggianti che benché privi dei requisiti dei
«parchi di divertimento», siano comunque suscettibili di
esporre a rischi potenziali per la pubblica incolumità e per
l'igiene. A causa del numero di attrazioni e della entità
dell'afflusso di pubblico, creando così uno spazio
sufficientemente definito.
Questo è quanto contenuto nel parere 18.03.2013 del
Ministero dell'interno, con il quale viene chiarito quando è
necessario l'intervento della commissione di vigilanza in
occasione di manifestazioni all'aperto nella quale vengono
installate attrazioni dello spettacolo viaggiante.
Le caratteristiche del parco divertimento, ricordano i
tecnici, sono: l'unitarietà della gestione, collegata alla
titolarità della licenza, una chiara delimitazione dell'area
(mediante recinzione permanente ovvero transenne), la
presenza di entrate e di vie d'esodo, la presenza di servizi
comuni e di strutture a ciò organizzate
(articolo ItaliaOggi del 04.04.2013). |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: Comuni.
Trattenuti due mesi di stipendio ai responsabili dei servizi
finanziari. Sanzioni ai dirigenti se l'Ente non paga.
SBLOCCO PROPORZIONALE/ Ogni ente locale si vedrà fissare
entro il 15 maggio, con decreto dell'Economia, la cifra da
liberare, che dovrà essere spesa al 90%.
Il primo via libera ai pagamenti nei Comuni e nelle Province
imbocca la via tradizionale dello sblocco proporzionale
all'entità delle risorse incagliate, e classificate nei «residui
passivi» in conto capitale nei bilanci (faranno fede i
consuntivi del 2010). Ogni ente locale si vedrà fissare
entro il 15 maggio prossimo, con decreto dell'Economia, la
cifra da liberare, e dovrà mantenere l'impegno: la
responsabilità tocca prima di tutto ai responsabili dei
servizi finanziari che, se non riusciranno a pagare entro
l'anno almeno il 90% della somma liberata dal decreto, si
vedranno trattenere due mesi di stipendio netto (comprese le
indennità accessorie).
Ma il pacchetto enti locali contenuto nella bozza di decreto
che sarà oggi sul tavolo del consiglio dei ministri non si
limita a questo intervento, che sanzioni a parte, ricalca le
vecchie una tantum sui residui passivi che erano abituali in
tempi di finanza pubblica più rilassata.
L'ultimo comma dell'articolo 1 sospende per il 2013 un
intero articolo che era stato dedicato ai Comuni dal decreto
sulle «semplificazioni fiscali» di un anno fa (Dl
16/2012). Nell'articolo, che è il 4-ter, c'è prima di tutto
il «Patto di stabilità orizzontale», cioè un
meccanismo nato proprio per cercare di favorire un po' di
pagamenti in conto capitale: in pratica, secondo questo
sistema i sindaci che registrano un surplus rispetto al
Patto possono correre in aiuto dei colleghi in crisi,
liberando spazi finanziari che questi ultimi devono
utilizzare proprio per pagare i fornitori.
La "rarità" dei Comuni in surplus, insieme
all'esigenza di non sovrapporre troppe regole convergenti in
un panorama ormai affollatissimo, può aver giustificato la
sospensione del Patto orizzontale nel 2013. Nell'articolo "sospeso",
però, c'è anche altro, a partire dal ritocco che ha
innalzato dal 20 al 40% il turn-over negli enti locali. Se
la sospensione sarà confermata, gli spazi del turn-over
torneranno a dimezzarsi, scompariranno le regole di favore
per il calcolo delle assunzioni nella Polizia locale e nei
servizi socio-assistenziali, e per i Comuni sotto i mille
abitanti il parametro di riferimento tornerà a essere
l'archeologico 2004.
Una novità ulteriore è invece limitata alle sole Province,
che dalla bozza di decreto si vedono redistribuire i tagli
da spending review decisi con il decreto 95/2012
(articolo Il
Sole 24 Ore del 03.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI: Gli
obblighi sulla tracciabilità sufficienti per la tutela
erariale.
Stazioni appaltanti escluse dalla solidarietà tributaria.
TRA I REQUISITI/
Per far valere l'esenzione deve essere sottoscritto un
contratto disciplinato dal Codice degli appalti pubblici.
Le stazioni appaltanti (articolo 3, comma 33, del Dlgs
163/2006) sono escluse dalla solidarietà tributaria in tema
di appalti, poiché il legislatore ha ritenuto gli obblighi
già vigenti (quali quelli di tracciabilità dei pagamenti)
sufficienti a presidiare la tutela erariale. Occorre però
fare attenzione: come ogni esclusione in ambito tributario,
va interpretata molto rigidamente e non sono ammesse
analogie.
Il principio, espresso dall'articolo 35, comma 28-ter, del
Dl 223/2006, è che tutti i soggetti Ires (articoli 73 e 74
Tuir) sono normalmente soggetti alla solidarietà, anche
quando operano fuori dalla sfera commerciale («in ogni
caso»). L'articolo 3 fa rinvio all'articolo 32, dove viene
elencata una serie di soggetti, tra cui compaiono
amministrazioni aggiudicatrici, società con capitale
pubblico anche non maggioritario e soggetti privati.
Secondo
le «linee guida» Ance (gennaio 2013) andrebbe meglio
specificato il concetto di «altri soggetti aggiudicatori»:
si ritiene comunque che per far valere l'esonero dalla
responsabilità, oltre a presentare i requisiti disposti
dalla legge, l'appaltatore debba anche aver sottoscritto un
contratto disciplinato dal Codice degli appalti pubblici,
cioè (articolo 3) rientrante tra «i contratti di appalto o
di concessione aventi per oggetto l'acquisizione di servizi,
o di forniture, ovvero l'esecuzione di opere o lavori, posti
in essere dalle stazioni appaltanti, dagli enti
aggiudicatori, dai soggetti aggiudicatori», nell'ambito
delle prestazioni descritte dal Dlgs 163/2006. Se il
contratto non rientra in questa disciplina, il soggetto non
può far valere l'esonero "automatico" dalla responsabilità.
Oltre a nutrire dubbi sull'aspetto soggettivo, i lettori
manifestano numerose perplessità anche su quello oggettivo.
Gli obblighi della responsabilità solidale, infatti,
spingono a porre in rilevo le distinzioni tra il contratto
di appalto e quello di somministrazione, spesso utilizzati
impropriamente come sostitutivi. Secondo l'articolo 1655 del
Codice civile l'appalto è il contratto con cui una parte
assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con
gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di
un servizio verso un corrispettivo in danaro.
La
somministrazione (articolo 1559) è invece il contratto con
cui una parte si obbliga, verso corrispettivo di un prezzo,
a eseguire, a favore dell'altra, prestazioni periodiche o
continuative di cose. Ed è qui la discriminazione:
nonostante nel linguaggio comune si parli indifferentemente
di prestazioni di beni o di servizi, non si deve dimenticare
che la legge, regolando la somministrazione, cita solo il
termine «cose», sinonimo di beni e non di servizi.
La
terminologia usata dalle parti non inficia la validità del
contratto, ma per l'articolo 1362 del Codice civile nel
qualificare il contratto si deve indagare sulla comune
intenzione delle parti, e non limitarsi al senso letterale
delle parole, con la conseguenza che un contratto di
presunta somministrazione di servizi sarà considerato
appalto, con il vincolo della solidarietà.
Poiché se il
contratto «prevede la prestazione, a titolo oneroso, di
specifici servizi, non si è a fronte a un rapporto di
somministrazione, ma a un contratto d'opera o di appalto»
(Tribunale Bologna, sezione II, 08.08.2008). Il distinguo
sta nel fatto che la somministrazione è un contratto
traslativo, come la vendita, l'appalto invece è un contratto
per la prestazione di servizi, incentrato su un "facere",
che ha ad oggetto la prestazione non già di cose (come la
somministrazione) ma di un'opera o un servizio.
È però arduo distinguere tra i due quando il somministrante
è anche produttore delle cose: occorre allora «operare la
distinzione in base al criterio della prevalenza del lavoro,
che avvicina il contratto all'appalto, rispetto alla
materia, che l'avvicina invece alla somministrazione» (articolo
Il Sole 24 Ore del 03.04.2013). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA: La
giurisprudenza è ferma nel riconoscere i caratteri di
"rudere" in un manufatto "costituito da alcune rimanenze di
mura perimetrali" ovvero in un immobile in cui sia "presente
solo parte della muratura perimetrale, vi è assenza di
copertura e di strutture orizzontali".
Quanto agli interventi di ripristino di edifici diruti, la
giurisprudenza precisa la relativa nozione riportandola agli
organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali e privi di
copertura e, correttamente, nega che essi possano essere
classificati come restauro e risanamento conservativo.
Essa pone, inoltre, una condivisibile distinzione tra le
ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura
perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di
conservazione tale da consentire la sua fedele
ricostruzione, nel quale caso è possibile parlare di
demolizione e fedele ricostruzione, e dunque di
ristrutturazione (o risanamento); e le ipotesi in cui,
invece, manchino elementi sufficienti a testimoniare le
dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare,
configurandosi in quest'evenienza, invero, un intervento di
nuova costruzione, per l'assenza degli elementi strutturali
dell'edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente
"abitato" o "abitabile", esso possa essere comunque
individuato nei suoi connotati essenziali.
In ipotesi siffatte, si esclude che la ricostruzione di un
rudere possa essere ascritta ad ipotesi di ristrutturazione
edilizia e men che meno di risanamento conservativo,
integrando in sostanza un'attività di nuova costruzione,
attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le
dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare.
Si è già detto della condizione di estrema fatiscenza del
fabbricato diroccato, riscontrata in sede di sopralluogo e
avvalorata dalla documentazione fotografica versata in atti
(cfr. doc. 3, 8 e 9 fasc. resist.): il rudere si presenta
privo di copertura, di orizzontamenti e di strutture murarie
definite, oltre che in condizioni generali che non
consentono di definirne la consistenza originaria.
Orbene, la giurisprudenza è ferma nel riconoscere i
caratteri di "rudere" in un manufatto "costituito
da alcune rimanenze di mura perimetrali" (TAR Veneto,
Sez. II, 05.06.2008, n. 1667) ovvero in un immobile in cui
sia "presente solo parte della muratura perimetrale, vi è
assenza di copertura e di strutture orizzontali" (TAR
Salerno, Sez. II, 26.09.2007, n. 1927).
Quanto agli interventi di ripristino di edifici diruti, la
giurisprudenza precisa la relativa nozione riportandola agli
organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali e privi di
copertura (TAR Napoli, sezione IV, 14.12.2006 n. 10553) e,
correttamente, nega che essi possano essere classificati
come restauro e risanamento conservativo (TAR Napoli, sez.
VIII, 04.03.2010, n. 1286 e sez. VI, 09.11.2009 n. 7049; TAR
Latina, 15.07.2009, n. 700).
Essa pone, inoltre, una condivisibile distinzione tra le
ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura
perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di
conservazione tale da consentire la sua fedele
ricostruzione, nel quale caso è possibile parlare di
demolizione e fedele ricostruzione, e dunque di
ristrutturazione (o risanamento); e le ipotesi in cui,
invece, manchino elementi sufficienti a testimoniare le
dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare,
configurandosi in quest'evenienza, invero, un intervento di
nuova costruzione (TAR Napoli, Sez. VIII, 04.03.2010, n.
1286; TAR Veneto sez. II, 05.06.2008, n. 1667), per
l'assenza degli elementi strutturali dell'edificio, in modo
tale che, seppur non necessariamente "abitato" o "abitabile",
esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati
essenziali (Cons. St., sez. V, 10.02.2004, n. 475).
In ipotesi siffatte, si esclude che la ricostruzione di un
rudere possa essere ascritta ad ipotesi di ristrutturazione
edilizia e men che meno di risanamento conservativo,
integrando in sostanza un'attività di nuova costruzione,
attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le
dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare
(TAR Napoli, 09.11.2009 n. 7049; Cons. St., Sez. VI,
15.09.2006 n. 5375)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 04.04.2013 n. 410 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - VARI: Cassazione.
Il beneficio resta in piedi.
Il ritardo della Pa non brucia i bonus.
LA SALVAGUARDIA/
Riconosciuto il diritto allo sconto fiscale se la mancanza
dei certificati dipende dagli uffici.
Il cittadino non deve subire conseguenze dalle inefficienze
e ritardi degli uffici. Per questo ha diritto alle
agevolazioni fiscali se ha fatto tutto quello che era di sua
competenza. Sbaglia perciò l'Ufficio che revoca
l'agevolazione perché il contribuente, senza colpa, presenta
il certificato rilasciato in ritardo dall'ispettorato
provinciale dell'agricoltura.
Per la Corte di Cassazione,
sentenza 03.04.2013 n. 8052, la
responsabilità del ritardo nel rilascio del certificato non
può essere addebitata al contribuente e, perciò, deve essere
annullato l'atto di revoca del beneficio. E' bene raccontare
i fatti che hanno interessato un cittadino siciliano, quasi
30 anni fa, visto che la lite è arrivata in Cassazione, dopo
tre gradi di giudizio. Nel 1990 l'ufficio di Lentini emette
un atto con il quale nega i benefici dell'imposta di
registro spettanti per l'acquisto di terreni agricoli per la
piccola proprietà contadina.
La motivazione è che il
contribuente "perde" le agevolazioni fiscali, avendo
presentato il certificato attestante i requisiti oltre i
termini previsti. Il fatto curioso è che la lite, dopo quasi
30 anni, è arrivata alla Cassazione, anche perché dopo i due
primi gradi di giudizio, i giudici della soppressa
Commissione tributaria centrale, esaminando il ricorso con
molta superficialità, accolgono il ricorso dell'ufficio,
costringendo il contribuente a un quarto grado in Cassazione.
Nel ricorso presentato alla Suprema corte, il
contribuente segnala che, nel ritenere maturata la decadenza
dal diritto all'agevolazione, considerando irrilevanti i
motivi del ritardo nel rilascio del certificato «pur se
dovuto a cause burocratiche» e addebitandogli il mancato
assolvimento all'onere di accelerarne il rilascio, i giudici
della Commissione tributaria centrale sono incorsi in
violazioni di legge e in vizio di motivazione.
Per la Cassazione, i motivi sono fondati. La stessa
Cassazione aveva già condivisibilmente affermato che «in
tema di agevolazioni fiscali per l'acquisto di terreni
agricoli stabilite, a favore della piccola proprietà
contadina (...) ove il contribuente non adempia l'obbligo di
produrre all'ufficio il previsto certificato definitivo
entro il prescritto termine decadenziale, non perde il
diritto ai benefici qualora provi che il superamento del
termine è stato dovuto a colpa degli uffici competenti, che
abbiano indebitamente ritardato il rilascio della
documentazione, pur dovendo anche dimostrare di aver operato
con adeguata diligenza allo scopo di conseguire la
certificazione in tempo utile» (Cassazione, n. 14671/2005,
n. 9159/2010; n. 10406/2011).
Entrambi gli elementi emergono, in modo chiaro, visto che il
certificato, era stato rilasciato 20.01.1987 e chiesto il
30.12.1983, prima ancora della registrazione dell'atto,
intervenuta il 18.01.1984, restando così acquisito in
giudizio l'adempimento, da parte del contribuente, del
dovuto comportamento diligente per conseguire,
tempestivamente, il certificato, non potendo a lui
addossarsi l'onere di porre in essere ulteriori
sollecitazioni.
Insomma, al contribuente non restava che farsi il
certificato da solo, cosa non prevista dalla legge. Per
fortuna è intervenuta la Cassazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Cassazione. Demansionamento insufficiente.
Per il giudice il mobbing richiede l'intento vessatorio.
Il mobbing può essere accertato dal giudice del lavoro solo
se viene data la prova circa una serie di atti vessatori
compiuti ai danni di un lavoratore, collegati tra loro allo
scopo di arrecare un danno alla persona.
Questo concetto, già affermato in passato dalla
giurisprudenza del lavoro, è stato ribadito dalla Corte di
Cassazione, Sez. lavoro, con la
sentenza
02.04.2013 n. 7985.
I giudici di legittimità hanno respinto definitivamente la
causa promossa da un lavoratore, il quale riteneva di aver
subito dei danni per la dequalificazione professionale e il
mobbing attuati nei suoi confronti, ma non era stato in
grado di supportare queste richieste mediante l'allegazione
di fatti specifici e rilevanti rispetto alle proprie
richieste.
Piuttosto che supportare la propria azione con queste
domande, il lavoratore (tramite il proprio legale) aveva
proposto nel ricorso introduttivo una serie di capitoli di
prova che contenevano solo valutazioni, e in quanto tali non
potevano essere oggetto di testimonianza.
La Corte nella sentenza precisa anche che, ai fini della
ricorrenza del mobbing, non basta ipotizzare un semplice
svuotamento di mansioni, ma bisogna anche dimostrare che il
datore di lavoro ha realizzato un insieme di azioni
coordinate per emarginare il dipendente (articolo Il Sole 24 Ore del
03.04.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Gli alberi? Si può anche abbatterli.
Cds sulla tutela piante in aree industriali.
La legge posta a tutela del paesaggio non vieta
l'abbattimento di un centinaio di pini posti trent'anni fa a
dimora per mimetizzare uno stabilimento siderurgico. Ciò in
quanto il Codice dei beni culturali e del paesaggio non
tutela, in generale, la cosa in quanto tale, ma il valore
paesaggistico del quale essa è portatrice. In sostanza, non
sempre un insieme di alberi costituisce un bosco.
È quanto
ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 29.03.2013 n. 1851.
Via libera,
quindi, e senza ulteriori intoppi alla riconversione
dell'intera area di Bagnoli voluta da Comune, Provincia e
Regione, ma stoppata dalla Soprintendenza regionale e dal
Corpo forestale. La prima, esprimendo parere contrario al
rilascio della autorizzazione paesaggistica necessaria a
sanare le violazioni commesse a seguito del taglio dei pini,
il secondo, ponendo sotto sequestro l'intera area sul
presupposto che, trattandosi di un «bosco» era necessaria
anche una specifica autorizzazione regionale.
La nozione di
«bosco» richiamata dall'art. 142 del cosiddetto Codice
Urbani (dlgs 42/2004) è in principio normativa, ha chiarito
il Collegio, perché fa espresso rinvio alla definizione di
bosco stabilita dall'art. 2 dlgs 227/2001 che, peraltro,
demanda alle regioni di stabilirne eventualmente una
diversa. Ed è dalla corretta interpretazione di tali
disposizioni che, a giudizio del Collegio, il quale ha
capovolto la decisione del Giudice di primo grado, un
insieme di 268 piante, prevalentemente di pino domestico e
messe a dimora a filari paralleli, non corrisponde alla
nozione di «bosco»: né alla luce della legge regionale, né
alla luce della nozione generale stabilita dall'art. 2,
comma 6, del dlgs n. 227 del 2001, né alla luce, comunque,
del comune significato proprio della parola.
La decisione
della VI Sezione, in sostanza, è stata motivata dal fatto
che foreste e boschi sono presunti di notevole interesse e,
quindi, meritevoli di salvaguardia quando sono elementi
originariamente caratteristici del paesaggio, cioè del
territorio espressivo di identità. E per questa ragione ne
sono esclusi gli insiemi arborati, come nel caso in
questione, che non costituiscono elementi propri e
tendenzialmente stabili della forma del territori
(articolo ItaliaOggi del 04.04.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per riconoscere ai fini
dell’art. 142 del Codice dei beni culturali e del paesaggio
la presenza di un bosco occorre un terreno di una certa
estensione, coperto con una certa densità da “vegetazione
forestale arborea” e -tendenzialmente almeno- da arbusti,
sottobosco ed erbe. Questa copertura, per rispondere ai
detti caratteri, deve costituire un sistema vivente
complesso (non perciò caratterizzato da una monocoltura
artificiale), di apparenza non artefatta (come ad es. se a
filari).
Deve inoltre essere tendenzialmente permanente: perciò non
solo non destinato all’espianto o alla produzione agricola,
ma anche, in virtù del dato naturale, mediamente presumibile
come capace di autorigenerarsi perché dotato di risorse tali
da consentirne il rinnovamento spontaneo, caratteristica che
la norma regionale richiamata contiene nell’ampio concetto
di “densità piena”, dove la “pienezza” della massa boschiva
sta non solo a significare il livello di copertura del
suolo, ma anche ad evocare la naturale capacità di
rigenerazione o rinnovazione.
Il bosco è un complesso organismo vivente, nel quale le
nuove risorse sono in grado di sostituire spontaneamente
quelle in via di esaurimento. Non è quindi sufficiente la
presenza di piante, quand’anche numerose, ma non strutturate
fino a sviluppare un ecosistema in grado di autorigenerarsi.
---------------
Nel caso in esame, si è in presenza di una copertura arborea
artificiale con carattere quasi integrale di monocultura
(pino domestico), disposta per filari paralleli (cioè in
modo innaturale), priva di strato arbustivo ed erbaceo; e
nella quale lo stato fitosanitario degli elementi arborei è
del tutto scadente, con chioma rarefatta, con visibile
presenza di miceli di parassiti fungini.
Pertanto, deve escludersi che all’insediamento in questione
possa attagliarsi, ai fini paesaggistici che qui
interessano, la definizione di bosco, difettandone la
morfologia, la complessità e la vitalità endogena e
compiuta.
La mancanza del valore paesaggistico presunto dall’art. 142,
comma 1, lett. g), d.lgs. n. 42 del 2004 esclude quindi che
il terreno in questione -per di più ricadente in zona
definita nella strumentazione urbanistica comunale dapprima
come industriale e, successivamente, di riqualificazione
urbanistica compresa nella superficie fondiaria edificabile-
possa essere considerato tra quelli sottoposti a tutela
paesaggistica ex lege ai sensi dello stesso art. 142, e per
le cui trasformazioni il successivo art. 146 e l’art. 17
della detta legge regionale campana n. 11 del 1996 rendono
necessarie, rispettivamente, l’autorizzazione paesistica e
quella forestale.
Questa conclusione è corroborata dalla considerazione che
oggetto della tutela del Codice non è, in generale, la cosa
in quanto tale, ma il valore paesaggistico del quale essa è
portatrice.
Il tema da
decidere si concentra così sulla questione se sussistevano i
presupposti del (violato) obbligo di autorizzazione
paesaggistica: vale a dire se nella specie sussisteva il
vincolo paesaggistico ex lege dell’art. 142, comma 1,
lett. g), d.lgs. n. 42 del 2004, che riguarda “i
territori coperti da foreste e da boschi […] come definiti
dall'articolo 2, commi 2 e 6, del decreto legislativo
18.05.2001, n. 227”.
Si tratta dunque di verificare, alla luce degli espletati
accertamenti in fatto, se qui si era in presenza di un vero
e proprio “bosco”.
Premesso che si tratta di una nozione di ordine sostanziale,
per la cui operatività in concreto non è necessario un
previo atto amministrativo di ricognizione e perimetrazione,
va rilevato che la nozione di “bosco” richiamata ai
fini della tutela paesaggistica dall’art. 142 è in principio
normativa, perché fa espresso rinvio alla “definizione di
bosco” dell’art. 2 d.lgs. 18.05.2001, n. 227
(Orientamento e modernizzazione del settore forestale, a
norma dell’articolo 7 della legge 05.03.2001, n. 57), che
(comma 2) demanda alle regioni di stabilire la definizione
stessa e che (comma 6) nelle more, “ove non diversamente
già definito dalle regioni stesse”, prevede cosa si
debba considerare per “bosco”.
L’art. 14, comma 1, della ricordata legge regionale campana
n. 11 del 1996, che non appare in contrasto con questa
successiva legge statale e che comunque va, anche per
esigenze di omogeneità nazionale, a questa rapportata,
considera “boschi” “i terreni sui quali esista o
venga comunque a costituirsi, per via naturale o
artificiale, un popolamento di specie legnose forestali
arboree od arbustive a densità piena, a qualsiasi stadio di
sviluppo si trovino, dalle quali si possono trarre, come
principale utilità, prodotti comunemente ritenuti forestali,
anche se non legnosi, nonché benefici di natura ambientale
riferibili particolarmente alla protezione del suolo ed al
miglioramento della qualità della vita e, inoltre, attività
plurime di tipo zootecnico”.
Nella fattispecie in esame il terreno era coperto da un
insieme di 268 piante, prevalentemente di pino domestico,
messe a dimora a filari paralleli negli anni ’80 del secolo
scorso.
A giudizio del Collegio, questo insieme non corrisponde alla
nozione di “bosco”: né alla luce della detta
disposizione regionale, né alla luce della nozione generale
stabilita dall’art. 2, comma 6, del d.lgs. n. 227 del 2001,
né alla luce, comunque, del comune significato proprio della
parola.
Poiché qui si verte di tutela del paesaggio, è essenziale
considerare che il rinvio alla definizione normativa, che è
propria del distinto ordinamento del settore forestale, è
sottoposto all’insuperabile limite di ragionevolezza e di
proporzionalità rispetto alla finalità propria di questa
tutela (diversamente, l’apparato autorizzatorio e
sanzionatorio del paesaggio verrebbe incongruamente traslato
ad apparato autorizzatorio e sanzionatorio dell’interesse
forestale: così in particolare dicasi per gli interventi di
distruzione o di “modificazioni che rechino pregiudizio
ai valori paesaggistici oggetto di protezione” ai sensi
dell’art. 146). Come altri vincoli “morfologici” del
medesimo art. 142 d.lgs. n. 42 del 2004, questo vincolo per
categoria legale muove dalla considerazione che foreste e
boschi sono presunti di notevole interesse e meritevoli di
salvaguardia perché elementi originariamente caratteristici
del paesaggio, cioè del “territorio espressivo di
identità” (art. 131) (cfr. Cons. Stato, VI, 12.11.1990,
n. 951). Per questa ragione ne sono esclusi gli insiemi
arborati che non costituiscono elementi propri e
tendenzialmente stabili della forma del territorio,
quand’anche di imboschimento artificiale; ma che rispetto ad
essa costituiscono inserti artefatti o naturalmente precari.
Al tempo stesso, va considerato che “foreste e boschi”
sono a questi propositi evidentemente altro da “i
giardini e i parchi […] che si distinguono per la loro non
comune bellezza” e non tutelati come beni culturali
individui, di cui parla il precedente e contestuale art.
136, comma 1, lett. b), a proposito dei beni paesaggistici
che possono essere vincolati in via amministrativa (non vi
sarebbe ragione di un vincolo in via amministrativa se già
vi fosse il vincolo ex lege).
Perciò, in coerenza con queste distinzioni, per riconoscere
ai fini dell’art. 142 del Codice dei beni culturali e del
paesaggio la presenza di un bosco occorre un terreno di una
certa estensione, coperto con una certa densità da “vegetazione
forestale arborea” e -tendenzialmente almeno- da
arbusti, sottobosco ed erbe. Questa copertura, per
rispondere ai detti caratteri, deve costituire un sistema
vivente complesso (non perciò caratterizzato da una
monocoltura artificiale), di apparenza non artefatta (come
ad es. se a filari).
Deve inoltre essere tendenzialmente permanente: perciò non
solo non destinato all’espianto o alla produzione agricola,
ma anche, in virtù del dato naturale, mediamente presumibile
come capace di autorigenerarsi perché dotato di risorse tali
da consentirne il rinnovamento spontaneo, caratteristica che
la norma regionale richiamata contiene nell’ampio concetto
di “densità piena”, dove la “pienezza” della
massa boschiva sta non solo a significare il livello di
copertura del suolo, ma anche ad evocare la naturale
capacità di rigenerazione o rinnovazione. Il bosco è un
complesso organismo vivente, nel quale le nuove risorse sono
in grado di sostituire spontaneamente quelle in via di
esaurimento. Non è quindi sufficiente la presenza di piante,
quand’anche numerose, ma non strutturate fino a sviluppare
un ecosistema in grado di autorigenerarsi.
Nel caso in esame, i risultati della verificazione disposta
dal primo giudice evidenziano la presenza di una copertura
arborea artificiale con carattere quasi integrale di
monocultura (pino domestico), disposta per filari paralleli
(cioè in modo innaturale), priva di strato arbustivo ed
erbaceo; e nella quale lo stato fitosanitario degli elementi
arborei è del tutto scadente, con chioma rarefatta, con
visibile presenza di miceli di parassiti fungini.
In base a tale accertamento, secondo il Collegio deve
escludersi che all’insediamento in questione possa
attagliarsi, ai fini paesaggistici che qui interessano, la
definizione di bosco, difettandone la morfologia, la
complessità e la vitalità endogena e compiuta.
La mancanza del valore paesaggistico presunto dall’art. 142,
comma 1, lett. g), d.lgs. n. 42 del 2004 esclude quindi che
il terreno in questione -per di più ricadente in zona
definita nella strumentazione urbanistica comunale dapprima
come industriale e, successivamente, di riqualificazione
urbanistica compresa nella superficie fondiaria edificabile-
possa essere considerato tra quelli sottoposti a tutela
paesaggistica ex lege ai sensi dello stesso art. 142,
e per le cui trasformazioni il successivo art. 146 e l’art.
17 della detta legge regionale campana n. 11 del 1996
rendono necessarie, rispettivamente, l’autorizzazione
paesistica e quella forestale.
Questa conclusione è corroborata dalla considerazione che
oggetto della tutela del Codice non è, in generale, la cosa
in quanto tale, ma il valore paesaggistico del quale essa è
portatrice.
Le considerazioni che precedono, riferite al dato
sostanziale della tutela del paesaggio, consentono di
prescindere dall’indagine sul dato formale forestale, se
cioè questo insieme arboreo vada escluso da quella stretta
nozione di “bosco” in virtù dell’art. 15 (Colture ed
apprezzamenti non considerati boschi), commi 1 e 2, della
stessa l.r. Campania n. 11 del 1996, perché qualificabile
tra le “piantagioni arboree dei giardini e parchi urbani”:
distinzione che comunque riflette, ai fini paesaggistici,
quella esplicitata dal confronto dell’art. 142 comma 1,
lett. g), con il ricordato art. 136, comma 1, lett. b), del
Codice (Consiglio
di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 29.03.2013 n. 1851
- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Abbandonare il posto di lavoro per una pausa
caffè legittima il licenziamento.
Allontanarsi dal posto di lavoro per una
pausa caffè può legittimare il licenziamento del dipendente,
soprattutto se questa pausa determina rallentamenti
all'attività lavorativa.
Lo ha stabilito la
Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 28.03.2013 n. 7819,
che ha dato ragione al Credito Emiliano nella causa di
licenziamento di un impiegato di banca siciliano che il
27.11.1997 aveva abbandonato il suo posto per andare al bar,
incurante della presenza di ben quindici clienti in fila.
Varie le contestazioni avanzate dalla banca nei confronti
del dipendente, addetto alla cassa: oltre all'episodio del
bar, avvenuto senza «apposito permesso», il
dipendente, il giorno prima, cioè il 26.11.1997, si sarebbe
allontanato dal posto di lavoro senza procedere alla
chiusura della cassa. E sei giorni prima, aveva
sostanzialmente rifiutato un'operazione richiesta da un
cliente e prevista da un manuale portato a conoscenza di
tutti i dipendenti.
Nel contestare il licenziamento, l'uomo ha ricordato
anzitutto che rivestiva le funzioni di rappresentante
sindacale aziendale e che, avendo già promosso più di un
giudizio per la tutela dei suoi diritti, era di fatto finito
nel mirino della banca. A suo dire, in relazione alla
mancata effettuazione di un'operazione richiesta da un
cliente, non c'era la prova della consegna al lavoratore del
manuale operativo. E l'allontanamento dal posto di lavoro
del 26.11.1997 rientrava in una prassi aziendale che
consentiva di farlo senza chiedere permessi. L'aver
consumato un caffè al bar il giorno dopo, poi, «non
avrebbe sortito alcun effetto sui quindici clienti in
attesa, al massimo determinando un leggero ritardo nelle
operazioni: in ogni caso operavano altre casse».
La Cassazione, sul punto, è stata molto chiara: «La
giusta causa di licenziamento di un cassiere di banca,
affidatario di somme anche rilevanti, deve essere apprezzata
con riguardo non soltanto all'interesse patrimoniale della
datrice di lavoro ma anche, sia pure indirettamente, alla
potenziale lesione dell'interesse pubblico alla sana e
prudente gestione del credito. Né il rigoroso rispetto delle
regole di maneggio del denaro può essere sostituito da non
meglio specificate regole di buon senso, inidonee ad
assicurare la conservazione del denaro della banca e dei
clienti».
Per i giudici della sezione lavoro, poi, «il fatto di non
aver tenuto conto nella decisione impugnata che, al momento
dell'allontanamento di I. per la pausa caffè, operavano più
casse, non è decisivo perché la presenza di una pluralità di
casse, delle quali non è detto se tutte in funzione, non
esclude comunque che il venir meno di una cassa rallentava
le operazioni delle altre sulle quali venivano dirottati i
clienti in fila che comunque erano in numero cospicuo» (tratto
da e link a www.diritto24.ilsole24ore.com). |
APPALTI:
Appartiene alla giurisdizione del giudice
ordinario la controversia avente ad oggetto asseriti
inadempimenti degli obblighi contrattuali da parte della
ditta appaltatrice, verificatisi nel corso di esecuzione del
rapporto.
La controversia avente ad oggetto asseriti inadempimenti
degli obblighi contrattuali da parte della ditta
appaltatrice, verificatisi nel corso di esecuzione del
rapporto involge posizioni di diritto soggettivo ed
appartiene pertanto, secondo il generale criterio di
riparto, alla giurisdizione del giudice ordinario.
La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
comprende, infatti, solo le controversie relative alle
procedure per l'affidamento dei lavori o dei servizi
pubblici e non quelle conseguenti all'applicazione degli
obblighi contrattualmente assunti tra le parti a seguito
dell'affidamento stesso.
Le questioni nascenti dalla esecuzione di un contratto di
appalto, infatti, si collocano nella fase successiva a
quella della scelta del contraente e gli atti posti in
essere dalla p. a. in tale fase hanno natura negoziale ed
investono in via diretta ed immediata posizioni di diritto
soggettivo. La giurisdizione va pertanto declinata, ai sensi
dell'art. 11 c.p.a. in favore dell'A.G.O. (TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 28.03.2013 n. 1695 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: Benché
l'Ad. plen. n. 4 del 2011 (v. § 40.) ammette la possibilità,
per il ricorrente che ha partecipato legittimamente alla
gara, di far valere tanto un interesse “finale” al
conseguimento dell’appalto affidato al controinteressato,
quanto, in via alternativa (e normalmente subordinata)
l’interesse “strumentale” alla caducazione dell’intera gara
e alla sua riedizione sempre che sussistano, in concreto,
ragionevoli possibilità di ottenere l’utilità richiesta”, il
criterio dell’interesse strumentale va contemperato con le
peculiarità in fatto che caratterizzano la procedura per la
quale è causa, [con la conseguenza che] non si può
prescindere dalla verifica della c.d. prova di resistenza,
con riferimento alla posizione della parte ricorrente
rispetto alla procedura selettiva le cui operazioni sono
prospettate come illegittime, nel senso che è inammissibile,
per carenza di interesse, il ricorso contro un provvedimento
qualora, dall’esperimento della c.d. prova di resistenza, in
esito a una verifica a priori, risulti con certezza che il
ricorrente non avrebbe comunque ottenuto il bene della vita
perseguito nel caso di accoglimento del ricorso. Occorre
avere riguardo, cioè, alla possibilità concreta di vedere
soddisfatta la pretesa sostanziale fatta valere.
Sulla scorta dei riferiti presupposti non si può che
richiamare un condivisibile orientamento giurisprudenziale
secondo il quale, benché «Ad. plen. n. 4 del 2011 (v. §
40.) ammette la possibilità, per il ricorrente che ha
partecipato legittimamente alla gara, di far valere tanto un
interesse “finale” al conseguimento dell’appalto affidato al
controinteressato, quanto, in via alternativa (e normalmente
subordinata) l’interesse “strumentale” alla caducazione
dell’intera gara e alla sua riedizione sempre che
sussistano, in concreto, ragionevoli possibilità di ottenere
l’utilità richiesta”, il criterio dell’interesse strumentale
va contemperato con le peculiarità in fatto che
caratterizzano la procedura per la quale è causa, [con la
conseguenza che] non si può prescindere dalla verifica della
c.d. prova di resistenza, con riferimento alla posizione
della parte ricorrente rispetto alla procedura selettiva le
cui operazioni sono prospettate come illegittime, nel senso
che è inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso
contro un provvedimento qualora, dall’esperimento della c.d.
prova di resistenza, in esito a una verifica a priori,
risulti con certezza che il ricorrente non avrebbe comunque
ottenuto il bene della vita perseguito nel caso di
accoglimento del ricorso. Occorre avere riguardo, cioè, alla
possibilità concreta di vedere soddisfatta la pretesa
sostanziale fatta valere»
(Consiglio di Stato, V, 15.10.2012, n. 5276).
Nel caso di specie, in assenza della espressa deduzione di
un interesse strumentale alla ripetizione della gara e in
mancanza di una dimostrazione della utilità per la società
ricorrente dell’esito rappresentato dalla ripetizione della
gara, i ricorsi non possono che essere dichiarati
inammissibili (cfr. TAR Sicilia, Palermo, II, 26.06.2012, n.
1300) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 28.03.2013 n. 815 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Un Ente ecclesiastico (che
ha tra gli scopi statutari l’attività d’istruzione
scolastica, è un ente senza fini di lucro ed ha ottenuto il
riconoscimento di scuola paritaria) nel costruire una nuova
scuola deve versare il contributo di costruzione.
L’azione di
ripetizione degli oneri rientra nell’ambito del diritto
soggettivo all’esatta quantificazione del contributo
concessorio, e la controversia appartiene per legge alla
giurisdizione del GA ed è soggetta a termini di prescrizione
decennale.
---------------
Il contributo di costruzione rappresenta una
compartecipazione comunale all'incremento di valore della
proprietà immobiliare del costruttore a seguito della nuova
edificazione.
Mentre il contributo per gli oneri di urbanizzazione
ha funzione recuperatoria delle spese sostenute dalla
collettività comunale riguardo alla trasformazione del
territorio assentita al singolo, il contributo per costo
di costruzione, che è rapportato alle caratteristiche e
alla tipologia delle costruzioni e non è alternativo ad
altro valore di genere diverso, afferisce alla mera attività
costruttiva in sé valutata.
L'obbligazione contributiva per costo di costruzione,
dunque, è fondata sulla produzione di ricchezza connessa
all'utilizzazione edificatoria del territorio ed alle
potenzialità economiche che ne derivano e, pertanto, ha
natura essenzialmente paratributaria.
---------------
L'art. 9, lettera f), della legge n. 10/1977 subordina la
gratuità della concessione ad un requisito oggettivo
ed uno soggettivo: deve trattarsi di opere pubbliche
o di interesse pubblico da cui la collettività possa trarre
un utile ovvero la cui fruizione in via diretta o indiretta
soddisfi interessi generali.
I destinatari del beneficio sono dunque certamente in prima
battuta gli enti pubblici, per loro natura
"istituzionalmente competenti", alla cura dell’interesse
generale loro affidato, ma accanto a questi si rinvengono
nell’ordinamento anche altri soggetti che agiscono per la
cura dello stesso interesse generale.
Sul piano oggettivo è pacifico che l’opera in costruzione
abbia la destinazione a scuola paritaria (doc. 6 ricorso) e
che la legge n. 62/2000 ai sensi dell’art. 1, comma 3,
afferma che “le scuole paritarie svolgono un servizio
pubblico”.
Ulteriore elemento che corrobora l’elemento oggettivo è
costituito dalla delibera comunale (doc. 2) che dichiara
espressamente che l’opera in questione rientra nel nuovo
Polo educativo per Albenga, accertando così definitivamente
la destinazione a scuola dell’immobile.
Tuttavia, per riconoscere l’esonero dal contributo ai
sensi della disciplina sul pagamento degli oneri di
concessione occorre la contemporanea presenza anche del
requisito soggettivo, cioè deve trattarsi di opera eseguita
da un ente istituzionalmente competente.
La giurisprudenza è sempre stata molto attenta a distinguere
le ipotesi in cui l’attività attuata portasse ad un'utilità
pubblica alla collettività, da iniziative private che
avessero invece un più o meno diretto scopo di lucro, talora
mascherato da interesse generale.
Qualora, come nel caso di specie, la realizzazione
dell’opera d’interesse pubblico non avvenga da parte degli
enti istituzionalmente competenti, cioè da parte di soggetti
cui sia demandata in via istituzionale la realizzazione di
opere d’interesse generale, ma da parte di privati si è
distinta in giurisprudenza l’ipotesi dei concessionari
dell'ente pubblico, purché le opere fossero inerenti
all'esercizio del rapporto concessorio.
Nel caso di realizzazione da parte di privati, deve dunque
sussistere un ben preciso vincolo relazionale tra il
soggetto abilitato a operare nell'interesse pubblico e il
materiale esecutore della costruzione, e tale vincolo deve
contrassegnare fin dall'inizio (cioè, fin dalla richiesta
del titolo edilizio) la realizzazione dell'assentito
intervento edificatorio, al fine di ottenere l'esenzione dal
contributo di costruzione.
La correlazione indicata dalla norma tra gli elementi
dell'"ente istituzionalmente competente" e della
"realizzazione" dell’opera d’interesse generale non può
essere infatti dilatata al punto da esporre
l'amministrazione comunale a richieste di sgravio
contributivo, in conformità a utilizzazioni intervenute e
concordate in un secondo momento, frutto dell'attività
imprenditoriale o commerciale dell'impresa costruttrice e
comunque del tutto esulanti dagli specifici intenti
realizzativi iniziali, e questo seppur l'intervento edilizio
riguardi zone tendenzialmente destinate ad interventi
edificatori di interesse generale. Non si può, in
definitiva, recuperare ex post il legame tra soggetti
realizzatori e finalità pubbliche che, seppur con moduli
organizzatori non del tutto tipizzati, deve
contraddistinguere l'intervento edilizio ab initio.
Nel caso di specie tuttavia siamo di fronte ad un Ente
ecclesiastico che ha tra gli scopi statutari l’attività
d’istruzione scolastica; è un ente senza fini di lucro ed ha
ottenuto il riconoscimento di scuola paritaria.
Resta la vexata quaestio esistente tra scuola pubblica e
privata nell’ambito del perimetro circoscritto dall’art. 33
della Costituzione.
Se infatti è pacifico il diritto di istituzione di scuole ed
istituti d’istruzione privati, ciò deve avvenire senza oneri
a carico dello Stato, laddove l’esenzione dei contributi di
concessione costituirebbe un onere improprio per la
collettività che non beneficerebbe delle somme così non
incassate dal comune.
Inoltre la scuola privata, imponendo il pagamento di rette
per la frequenza non sarebbe accessibile a tutti e, quindi,
diversamente dalla scuola pubblica, avrebbe uno scopo di
lucro che impedirebbe di beneficiare dell’esonero dai
contributi, anche qualora, come nel caso di specie la
ricorrente dimostri la mancanza di un fine speculativo o
lucrativo nell’attività esercitata.
Secondo la giurisprudenza è indubbio che la disposizione
invocata (art. 9 L. 10/1977) deve ritenersi di stretta
interpretazione, in quanto introduce talune ipotesi di
deroga alla previsione generale la quale assoggetta a
contributo tutte le opere che comportino trasformazione del
territorio.
Secondo il TAR Veneto, l'opera, per conseguire il beneficio,
deve essere necessariamente realizzata da un Ente pubblico,
non spettando lo stesso per le opere eseguite da soggetti
privati, quale che sia la rilevanza sociale dell'attività
esercitata nella o con l'opera edilizia alla quale la
concessione si riferisce.
In ogni caso, ammettendo l'iniziativa di un privato, questo
deve agire per conto di un Ente pubblico, come nell'istituto
della concessione di opera pubblica o in altre analoghe
figure organizzatorie ove l'intervento è realizzato da
soggetti non animati dallo scopo di lucro o che accompagnano
tale obiettivo con un legame istituzionale con l'azione
dell'amministrazione per la cura degli interessi della
collettività.
---------------
Per enti istituzionalmente competenti alla realizzazione di
opere pubbliche o di interesse pubblico debbano intendersi
enti pubblici ovvero altri soggetti che realizzino l'opera
per conto di un ente pubblico come nel caso di
concessionario di opera pubblica o altre analoghe figure
organizzatorie (cfr. ad es. Cons. Stato sez. IV, 10.05.2005,
n. 2226; ed sez. V, 12.07.2005, n. 3774; e, casi questi, in
cui è stato escluso il diritto all'esenzione, anche sulla
base del rilievo che l'opera non era rivolta alla
collettività in senso generale, ma tendeva al
soddisfacimento di interessi privatistici o comunque alle
esigenze di un numero limitato di persone - v. sent. CdS V
n. 3774/2005 ovvero che l'opera era destinata a rimanere
nella piena disponibilità del privato esecutore, senza alcun
vincolo atto a preservare la funzione nel tempo).
... per l'annullamento del provvedimento di richiesta
pagamento contributi concessori per il ritiro del permesso
di costruire.
...
Il ricorso non è fondato.
Preliminarmente va confermato che l’azione di ripetizione
degli oneri rientra nell’ambito del diritto soggettivo
all’esatta quantificazione del contributo concessorio, e la
controversia appartiene per legge alla giurisdizione del GA
(Tar Campania Na II n. 4356/2011) ed è soggetta a termini di
prescrizione decennale (Tar Sicilia Pa II n. 1554/2011).
Nel caso di specie, comunque, il ricorso è tempestivo anche
relativamente ai termini di decadenza decorrenti dal
rilascio del titolo edilizio avvenuto il 07.04.2009.
La richiesta avanzata dalla parte riguarda l’esonero dal
pagamento richiesto e in parte già incassato dal comune del
contributo di costruzione, che rappresenta una
compartecipazione comunale all'incremento di valore della
proprietà immobiliare del costruttore a seguito della nuova
edificazione (cfr. TAR Abruzzo Pescara - 18/10/2010 n.
1142).
Mentre il contributo per gli oneri di urbanizzazione
ha funzione recuperatoria delle spese sostenute dalla
collettività comunale riguardo alla trasformazione del
territorio assentita al singolo, il contributo per costo
di costruzione, unica voce qui in discussione, che è
rapportato alle caratteristiche e alla tipologia delle
costruzioni e non è alternativo ad altro valore di genere
diverso, afferisce alla mera attività costruttiva in sé
valutata.
L'obbligazione contributiva per costo di costruzione,
dunque, è fondata sulla produzione di ricchezza connessa
all'utilizzazione edificatoria del territorio ed alle
potenzialità economiche che ne derivano e, pertanto, ha
natura essenzialmente paratributaria (TAR Campania Salerno,
sez. II - 11/06/2002 n. 459).
Tornando al merito della controversia, il Collegio è a
conoscenza della giurisprudenza che si è formata
sull'applicabilità in concreto della previsione di cui
all'art. 9 , lettera f) richiamato.
Ma proprio la necessità di verificare, di volta in volta,
l’esistenza delle condizioni stabilite dalla legge per
consentire l’esonero dal pagamento degli oneri convince il
Collegio della non fondatezza del ricorso nel caso di
specie.
L'art. 9, lettera f), della legge n. 10/1977 subordina
infatti la gratuità della concessione ad un requisito
oggettivo ed uno soggettivo: deve trattarsi di
opere pubbliche o di interesse pubblico da cui la
collettività possa trarre un utile ovvero la cui fruizione
in via diretta o indiretta soddisfi interessi generali.
I destinatari del beneficio sono dunque certamente in prima
battuta gli enti pubblici, per loro natura "istituzionalmente
competenti", alla cura dell’interesse generale loro
affidato, ma accanto a questi si rinvengono nell’ordinamento
anche altri soggetti che agiscono per la cura dello stesso
interesse generale.
Sul piano oggettivo è pacifico che l’opera in costruzione
abbia la destinazione a scuola paritaria (doc. 6 ricorso) e
che la legge n. 62/2000 ai sensi dell’art. 1, comma 3,
afferma che “le scuole paritarie svolgono un servizio
pubblico”.
Ulteriore elemento che corrobora l’elemento oggettivo è
costituito dalla delibera comunale (doc. 2) che dichiara
espressamente che l’opera in questione rientra nel nuovo
Polo educativo per Albenga, accertando così definitivamente
la destinazione a scuola dell’immobile.
Tuttavia, per riconoscere l’esonero dal contributo ai sensi
della disciplina sul pagamento degli oneri di concessione
occorre la contemporanea presenza anche del requisito
soggettivo, cioè deve trattarsi di opera eseguita da un ente
istituzionalmente competente.
La giurisprudenza, anche di questo Tribunale (Tar Liguria, I
sez. n. 3565 del 09.12.2009) è sempre stata molto attenta a
distinguere le ipotesi in cui l’attività attuata portasse ad
un'utilità pubblica alla collettività, da iniziative private
che avessero invece un più o meno diretto scopo di lucro,
talora mascherato da interesse generale.
Qualora, come nel caso di specie, la realizzazione
dell’opera d’interesse pubblico non avvenga da parte degli
enti istituzionalmente competenti, cioè da parte di soggetti
cui sia demandata in via istituzionale la realizzazione di
opere d’interesse generale, ma da parte di privati si è
distinta in giurisprudenza l’ipotesi dei concessionari
dell'ente pubblico, purché le opere fossero inerenti
all'esercizio del rapporto concessorio.
Nel caso di realizzazione da parte di privati, deve dunque
sussistere un ben preciso vincolo relazionale tra il
soggetto abilitato a operare nell'interesse pubblico e il
materiale esecutore della costruzione, e tale vincolo deve
contrassegnare fin dall'inizio (cioè, fin dalla richiesta
del titolo edilizio) la realizzazione dell'assentito
intervento edificatorio, al fine di ottenere l'esenzione dal
contributo di costruzione.
La correlazione indicata dalla norma tra gli elementi dell'"ente
istituzionalmente competente" e della "realizzazione"
dell’opera d’interesse generale non può essere infatti
dilatata al punto da esporre l'amministrazione comunale a
richieste di sgravio contributivo, in conformità a
utilizzazioni intervenute e concordate in un secondo
momento, frutto dell'attività imprenditoriale o commerciale
dell'impresa costruttrice e comunque del tutto esulanti
dagli specifici intenti realizzativi iniziali, e questo
seppur l'intervento edilizio riguardi zone tendenzialmente
destinate ad interventi edificatori di interesse generale.
Non si può, in definitiva, recuperare ex post il
legame tra soggetti realizzatori e finalità pubbliche che,
seppur con moduli organizzatori non del tutto tipizzati,
deve contraddistinguere l'intervento edilizio ab initio
(così Cons. di St., V, 02.12.2002, n. 6618).
Nel caso di specie tuttavia siamo di fronte ad un Ente
ecclesiastico che ha tra gli scopi statutari l’attività
d’istruzione scolastica; è un ente senza fini di lucro ed ha
ottenuto il riconoscimento di scuola paritaria.
Resta la vexata quaestio esistente tra scuola
pubblica e privata nell’ambito del perimetro circoscritto
dall’art. 33 della Costituzione.
Se infatti è pacifico il diritto di istituzione di scuole ed
istituti d’istruzione privati, ciò deve avvenire senza oneri
a carico dello Stato, laddove l’esenzione dei contributi di
concessione costituirebbe un onere improprio per la
collettività che non beneficerebbe delle somme così non
incassate dal comune.
Inoltre la scuola privata, imponendo il pagamento di rette
per la frequenza non sarebbe accessibile a tutti e, quindi,
diversamente dalla scuola pubblica, avrebbe uno scopo di
lucro che impedirebbe di beneficiare dell’esonero dai
contributi (Tar Piemonte I 10.03.2007 n. 1164), anche
qualora, come nel caso di specie la ricorrente dimostri la
mancanza di un fine speculativo o lucrativo nell’attività
esercitata.
Secondo la giurisprudenza è indubbio che la disposizione
invocata (art. 9 L. 10/1977) deve ritenersi di stretta
interpretazione, in quanto introduce talune ipotesi di
deroga alla previsione generale la quale assoggetta a
contributo tutte le opere che comportino trasformazione del
territorio (cfr. TAR Puglia Bari, sez. III - 11/06/2010 n.
2420).
Secondo il TAR Veneto, (sez. II - 16/06/2011 n. 1047),
l'opera, per conseguire il beneficio, deve essere
necessariamente realizzata da un Ente pubblico, non
spettando lo stesso per le opere eseguite da soggetti
privati, quale che sia la rilevanza sociale dell'attività
esercitata nella o con l'opera edilizia alla quale la
concessione si riferisce (Consiglio di Stato, sez. V -
15/12/2005 n. 7140; TAR Lombardia Milano, sez. II -
17.09.2009 n. 4672).
In ogni caso, ammettendo l'iniziativa di un privato, questo
deve agire per conto di un Ente pubblico, come nell'istituto
della concessione di opera pubblica o in altre analoghe
figure organizzatorie ove l'intervento è realizzato da
soggetti non animati dallo scopo di lucro o che accompagnano
tale obiettivo con un legame istituzionale con l'azione
dell'amministrazione per la cura degli interessi della
collettività (Consiglio di Stato, sez. IV - 10/05/2005 n.
2226).
Così circoscritta la vicenda, il Collegio è dell’avviso che
il contributo debba essere pagato dall’ente ricorrente.
La giurisprudenza -espressasi con riferimento all'art. 9, l.
n. 10/1977- ha affermato che per enti istituzionalmente
competenti alla realizzazione di opere pubbliche o di
interesse pubblico debbano intendersi enti pubblici ovvero
altri soggetti che realizzino l'opera per conto di un ente
pubblico come nel caso di concessionario di opera pubblica o
altre analoghe figure organizzatorie (cfr. ad es. Cons.
Stato sez. IV, 10.05.2005, n. 2226; ed sez. V, 12.07.2005,
n. 3774; e, casi questi, in cui è stato escluso il diritto
all'esenzione, anche sulla base del rilievo che l'opera non
era rivolta alla collettività in senso generale, ma tendeva
al soddisfacimento di interessi privatistici o comunque alle
esigenze di un numero limitato di persone - v. sent. CdS V
n. 3774/2005 ovvero che l'opera era destinata a rimanere
nella piena disponibilità del privato esecutore, senza alcun
vincolo atto a preservare la funzione nel tempo (CdS IV
11.01.2006, n. 51)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 28.03.2013 n. 552 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Contro
i monopoli. Tar Lombardia.
Illegittimo il bando per creare privative.
IL PRINCIPIO/
Le università non possono restringere il numero dei
fotografi nelle sedute di laurea - Pagamento lecito per le
postazioni.
Via libera a tutti i fotografi in occasione delle lauree
universitarie: lo impone il TAR Lombardia-Milano, Sez. I, con l'ordinanza 28.03.2013 n. 380, sospendendo un bando dell'università di
Pavia in nome del principio della libertà dei servizi
(decreto legislativo 59/2010).
Il caso esaminato riguarda fotografi professionisti, che
hanno contestato un bando dell'università la quale chiedeva
offerte a chi fosse interessato a riprendere circa 4mila
cerimonie di laurea ogni anno.
Per partecipare occorreva migliorare l'offerta base per
l'università, fissata in 12mila euro annuali, garantendo poi
agli utenti prezzi standard e filmati di durata non
inferiore a 10 minuti. Questa gara è stata sospesa dal Tar
perché l'università non può istituire una "privativa" (cioè
una presenza esclusiva con finalità commerciali) sostenendo
di voler agevolare il mercato. Per i giudici,
l'effetto-privativa, del tutto illegittimo, è «implicito
nella volontà di sostituire un regime di concorrenza "nel"
mercato con uno di concorrenza "per" il mercato».
La gara, secondo i giudici amministrativi, ha come risultato
un limite alla concorrenza, mentre l'attività di impresa
deve rimanere libera.
Nello stesso settore vi sono stati contrasti anche nel 2011:
secondo il Tar Firenze (sentenza 1406), l'università di Pisa
non può impedire la prestazione dei servizi, ma può solo
assegnare con gara un'area attrezzata (un tavolino con
sedie).
Quindi, vi è libertà di iniziativa per i fotografi, ed al
massimo la gara può garantire una sede comoda.
Queste pronunce, ferma restando la possibilità del fai da te
di familiari e conoscenti, garantiscono la libertà di
iniziativa (decreto legislativo 59/2010), con divieto di
restrizioni e di tariffe imposte.
Spetterà poi ai consumatori scegliere l'offerta migliore,
tenendo presente che la legge 4/2013 sulle professioni non
organizzate ammette la possibilità che i professionisti
introducano, su base volontaria, requisiti di qualità e
codici di comportamento.
Se utenti e fornitori si avvantaggiano attraverso scelte più
ampie, la concorrenza complica le scelte delle pubbliche
amministrazioni, perché le gare non possono generare
privative o monopoli.
Se il buon andamento delle sedute di laurea, in altri
termini, non basta alle università per limitare la presenza
di fotografi, allo stesso modo il ricorso alle gare non può
essere totalizzante (per tempi e modi), cioè assumere
dimensioni tali da danneggiare la concorrenza.
Questo principio di massima partecipazione va tenuto
presente sia nella scelta di un professionista che opera in
un settore riservato (con ordine professionale), sia per le
attività che hanno una base associazionistica volontaria,
sia infine per liberi operatori.
Le gare, sembra di capire, non possano generare privative o
monopoli, restringendo il mercato: rischio che appunto è
stato percepito dai giudici milanesi a favore dei fotografi
(articolo Il Sole 24 Ore del
03.04.2013 - tratto da www.cndcec.it). |
APPALTI:
Qualora il bando commini espressamente
l'esclusione obbligatoria in conseguenza di determinate
violazioni, la stazione appaltante è tenuta a dare precisa
ed incondizionata esecuzione a tale previsione.
Nelle gare pubbliche la presentazione delle offerte va
effettuata in scrupolosa osservanza del bando e della
lettera d'invito e la stazione appaltante non può
legittimamente disattendere le predette prescrizioni, non
avendo alcuna discrezionalità al riguardo; pertanto, qualora
il bando commini espressamente l'esclusione obbligatoria in
conseguenza di determinate violazioni, la stazione
appaltante è tenuta a dare precisa ed incondizionata
esecuzione a tale previsione, senza alcuna possibilità di
valutare la rilevanza dell'inadempimento, l'incidenza di
questo sulla regolarità della procedura selettiva e la
congruità della sanzione contemplata nella lex specialis,
alla cui osservanza l'Amministrazione si è autovincolata al
momento dell'adozione del bando.
Pertanto, nel caso di specie, a fronte della chiara
formulazione della prescrizione di gara, l'omissione delle
dichiarazioni tassativamente previste comportava, per il
concorrente privo dei requisiti di partecipazione richiesti,
l'esito inevitabile dell'esclusione dalla gara (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 27.03.2013 n. 1824 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sull'obbligo di custodia dei documenti di una
gara pubblica da parte della stazione appaltante.
---------------
Sulla funzione del giudizio di anomalia dell'offerta.
---------------
In presenza del generale obbligo di custodia dei documenti
di una gara pubblica da parte della stazione appaltante, è
da presumere che lo stesso sia stato assolto con l'adozione
delle ordinarie garanzie di conservazione degli atti
amministrativi, tali da assicurare la genuinità ed integrità
dei relativi plichi.
In tal caso, la generica doglianza, secondo cui le buste
contenenti le offerte non sarebbero state adeguatamente
custodite, è irrilevante allorché non sia stato addotto
alcun elemento concreto, quali in generale anomalie
nell'andamento della gara ovvero specifiche circostanze atte
a far ritenere che si possa essere verificata la sottrazione
o la sostituzione dei medesimi plichi, la manomissione delle
offerte o un altro fatto rilevante al fini della regolarità
della procedura.
---------------
I singoli prezzi sottoposti a verifica di anomalia non
devono essere considerati isolatamente ma alla luce della
loro incidenza sull'offerta globale; infatti, la funzione
del giudizio di anomalia dell'offerta è quella di garantire
un equilibrio tra la convenienza della P.A. ad affidare
l'appalto al prezzo più basso e l'esigenza di evitarne
l'esecuzione con un ribasso che si attesti al di là del
ragionevole limite dettato dalle leggi di mercato, giacché
il sub-procedimento di verifica dell'anomalia non tende a
selezionare l'offerta che è più conveniente per la stazione
appaltante; la ratio cui è preordinato l'indicato
meccanismo di controllo consiste, invece, nell'assicurare la
piena affidabilità della proposta contrattuale.
Di conseguenza un'offerta non può essere considerata anomala
solo perché determinate voci di prezzo si discostano da
quelle di mercato, ma occorre invece che gli scostamenti
rendano l'offerta nel suo complesso inaffidabile, e dunque
inidonea a garantire la serietà dell'esecuzione del
contratto.
Ciò implica la necessità di valutare l'incidenza di ciascuna
voce di cui si compone l'offerta sull'offerta globalmente
intesa al fine di valutare se il rispettivo carattere
anormalmente basso si traduca nell'inattendibilità e
mancanza di serietà dell'intera offerta o se i singoli
elementi di costo eventualmente affetti da anomalia possano
essere compensati da economie, ravvisabili negli altri
elementi e/o nella complessiva offerta, idonee a
controbilanciare le voci ritenute deficitarie (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 27.03.2013 n. 1815 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: In
caso di sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità
della norma di legge sulla quale si fonda il provvedimento
impugnato, va considerato illegittimo in via derivata l’atto
medesimo qualora l’interessato nel ricorso abbia posto in
rilievo la norma di che trattasi, ancorché non censurandola
specificamente sotto il profilo della poi dichiarata
incostituzionalità.
Infatti, va richiamato il costante orientamento della
giurisprudenza amministrativa secondo il quale, in caso di
sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità della norma
di legge sulla quale si fonda il provvedimento impugnato, va
considerato illegittimo in via derivata l’atto medesimo
qualora l’interessato nel ricorso abbia posto in rilievo la
norma di che trattasi, ancorché non censurandola
specificamente sotto il profilo della poi dichiarata
incostituzionalità (da ultimo C.d.S., sez. IV, 02/11/2010 n.
7735; idem 14.04.2010 n. 2102) (TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza 27.03.2013 n. 798 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
vetustà dell'opera non esclude il potere di controllo e il
potere sanzionatorio del comune in materia
urbanistico-edilizia, perché l'esercizio di tale potere non
è soggetto a prescrizione o decadenza.
Si consideri pure che l'affermazione secondo cui il
fondo era da decenni adibito a tale attività non esclude il
carattere abusivo dell'opera.
È, difatti, orientamento
consolidato di questo Tribunale che la vetustà dell'opera
non esclude il potere di controllo e il potere sanzionatorio
del comune in materia urbanistico-edilizia, perché
l'esercizio di tale potere non è soggetto a prescrizione o
decadenza (Tar Lombardia Milano, sez. II, 11.03.2010 n. 583)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 27.03.2013 n. 796 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: In
materia di concessione edilizia l'Amministrazione deve dar
conto all'interessato delle precise ragioni che rendano il
provvedimento autorizzatorio non rilasciabile, indicando le
norme dello strumento urbanistico che si presumono violate,
senza limitarsi ad una generica affermazione di contrasto
con il P.R.G..
In altri termini, il rigetto della domanda di concessione
edilizia deve essere sorretta da una motivazione che indichi
puntualmente le ragioni ostative al rilascio, affinché
l'interessato sia messo in grado di conoscere l'iter logico
seguito dall'Amministrazione: di guisa che deve considerarsi
illegittimo il diniego di concessione che non consenta
all'interessato di comprendere le reali motivazioni del
diniego oppostogli, né di far valere, eventualmente, le
proprie ragioni difensive innanzi al giudice amministrativo.
---------------
Nel caso di specie l'Amministrazione comunale ha negato la
concessione facendo un generico riferimento alla "mancanza
di una pubblica fognatura", omettendo, pertanto, quella
puntuale citazione delle norme violate che la giurisprudenza
amministrativa ritiene necessaria ed imprescindibile,
cosicché non risulta soddisfatta la condizione -in presenza
di cui soltanto può rifiutarsi il rilascio del titolo
concessorio- del contrasto delle difformità rilevate con la
disciplina edilizia ed urbanistica vigente.
In particolare, trattandosi di un intervento di adeguamento
igienico e tecnologico da eseguire su un edificio già
esistente, occorreva, ai fini della legittimità del diniego,
da un lato il richiamo a puntuali NTA ostative al rilascio
della concessione edilizia semplice su aree prive di
adeguato allacciamento alla rete dei servizi di fognatura e
dall’altro la valutazione, in esito a puntuali verifiche,
circa l’inidoneità del sistema fognario interno, indicato
nella relazione tecnica allegata alla domanda di concessione
edilizia.
Tanto premesso in punto di fatto, va considerato in
punto di diritto che appare fondata la censura di difetto di
motivazione sollevata da parte ricorrente.
Ed invero, secondo giurisprudenza consolidata, in materia di
concessione edilizia l'Amministrazione deve dar conto
all'interessato delle precise ragioni che rendano il
provvedimento autorizzatorio non rilasciabile, indicando le
norme dello strumento urbanistico che si presumono violate,
senza limitarsi ad una generica affermazione di contrasto
con il P.R.G.
In altri termini, il rigetto della domanda di concessione
edilizia deve essere sorretta da una motivazione che indichi
puntualmente le ragioni ostative al rilascio, affinché
l'interessato sia messo in grado di conoscere l'iter logico
seguito dall'Amministrazione: di guisa che deve considerarsi
illegittimo il diniego di concessione che non consenta
all'interessato di comprendere le reali motivazioni del
diniego oppostogli, né di far valere, eventualmente, le
proprie ragioni difensive innanzi al giudice amministrativo
(C.d.S., Sez. I, parere 23.10.1996, n. 1175/95; idem,
13.11.1996, n. 199/96; TRGA Trentino-Alto Adige,
18.02.2000, n. 32; TAR Veneto, 15.03.2000, n.
774., idem sez. II 23.02.2001 n. 432).
Orbene, nel caso di specie l'Amministrazione comunale ha
negato la concessione facendo un generico riferimento alla
"mancanza di una pubblica fognatura", omettendo, pertanto,
quella puntuale citazione delle norme violate che la
giurisprudenza amministrativa ritiene necessaria ed
imprescindibile, cosicché non risulta soddisfatta la
condizione -in presenza di cui soltanto può rifiutarsi il
rilascio del titolo concessorio- del contrasto delle
difformità rilevate con la disciplina edilizia ed
urbanistica vigente.
In particolare, trattandosi di un intervento di adeguamento
igienico e tecnologico da eseguire su un edificio già
esistente, occorreva, ai fini della legittimità del diniego,
da un lato il richiamo a puntuali NTA ostative al rilascio
della concessione edilizia semplice su aree prive di
adeguato allacciamento alla rete dei servizi di fognatura e
dall’altro la valutazione, in esito a puntuali verifiche,
circa l’inidoneità del sistema fognario interno, indicato
nella relazione tecnica allegata alla domanda di concessione
edilizia.
Per le considerazioni suesposte il ricorso va accolto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 27.03.2013 n. 794 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: E'
vero che le convenzioni urbanistiche stipulate tra i privati
e l'amministrazione, avendo natura contrattuale e
disciplinando il rapporto tra le parti con valore
vincolante, escludono la possibilità che l'Amministrazione o
il privato, che a tale regolamentazione dei reciproci
rapporti si sono assoggettati, possano legittimamente
avanzare la pretesa di modificarne unilateralmente il
contenuto; da cui, il corollario secondo cui, in virtù della
convenzione, il privato è obbligato ad eseguire puntualmente
tutte le prestazioni ivi assunte, a nulla rilevando che
queste possano eccedere originariamente o successivamente
gli oneri di urbanizzazione.
Pertanto, è vero che le convenzioni urbanistiche stipulate
tra i privati e l'amministrazione, avendo natura
contrattuale e disciplinando il rapporto tra le parti con
valore vincolante, escludono la possibilità che
l'Amministrazione o il privato, che a tale regolamentazione
dei reciproci rapporti si sono assoggettati, possano
legittimamente avanzare la pretesa di modificarne
unilateralmente il contenuto; da cui, il corollario secondo
cui, in virtù della convenzione, il privato è obbligato ad
eseguire puntualmente tutte le prestazioni ivi assunte, a
nulla rilevando che queste possano eccedere originariamente
o successivamente gli oneri di urbanizzazione (C.d.S., sez.
V, 10.01.2003, n. 33; C.d.S., Sez. V, 10.06.1998, n. 807;
Tar Lombardia, Milano, 10.05.2000, n. 3180; Tar Lombardia,
Milano 25.06.2001, n. 4523)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.03.2013 n. 780 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il
vincolo imposto sul terreno di proprietà della ricorrente
(senz’altro ormai decaduto, essendo trascorso il periodo di
validità quinquennale ex art. 9, comma 2, d.P.R. n. 327 del
2001) determinava inedificabilità del suolo, privando il
diritto di proprietà del suo sostanziale valore economico,
con la conseguenza che, alla sua scadenza, è sorto il dovere
dell’amministrazione di provvedere ad una nuova tipizzazione
del territorio.
Tuttavia, questo TAR non può riconoscere alla ricorrente la
soddisfazione della pretesa sostanziale, laddove l’attività
di pianificazione urbanistica comporta scelte di alta
discrezionalità da parte dell’amministrazione le quali non
possono essere assunte in sede giurisdizionale.
Di conseguenza, va ordinato al Comune di provvedere
all’istanza avanzata dalla ricorrente e di avviare, quindi,
il procedimento volto ad una nuova tipizzazione urbanistica
del terreno interessato, entro il termine perentorio di
giorni trenta dalla notificazione o, se anteriore, dalla
comunicazione della presente sentenza.
- considerato che, a seguito dell’istanza
presentata dalla ricorrente, il Comune è rimasto inerte,
venendosi così a configurare un’ipotesi di
silenzio-inadempimento;
-
che, sul punto, deve infatti riconoscersi che il vincolo
imposto sul terreno di proprietà della ricorrente
(senz’altro ormai decaduto, essendo trascorso il periodo di
validità quinquennale ex art. 9, comma 2, d.P.R. n. 327 del
2001) determinava inedificabilità del suolo, privando il
diritto di proprietà del suo sostanziale valore economico,
con la conseguenza che, alla sua scadenza, è sorto il dovere
dell’amministrazione di provvedere ad una nuova tipizzazione
del territorio (cfr., di recente, ex multis: TAR Campania,
Napoli, sez. VIII, n. 10204 del 2008; TAR Campania, Salerno,
sez. II, n. 1944 del 2008; TAR Sicilia, Catania, sez. I, n.
485 del 2007);
-
che, di conseguenza, a seguito dell’istanza inoltrata
dall’interessata, sussisteva il preciso dovere
dell’amministrazione di rispondere, avviando un
provvedimento volto ad una nuova configurazione urbanistica
dell’area;
-
che, pertanto, il ricorso in epigrafe è fondato, nel senso
che va dichiarato l’inadempimento dell’obbligo del Comune di
Santhià all’obbligo di provvedere;
-
che tuttavia, al tempo stesso, questo TAR non può
riconoscere alla ricorrente la soddisfazione della pretesa
sostanziale, l’attività di pianificazione urbanistica
comportando scelte di alta discrezionalità da parte
dell’amministrazione le quali non possono essere assunte in
sede giurisdizionale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 5307 del
2012);
-
che, di conseguenza, va ordinato al Comune di Santhià di
provvedere all’istanza avanzata dalla ricorrente e di
avviare, quindi, il procedimento volto ad una nuova
tipizzazione urbanistica del terreno interessato, entro il
termine perentorio di giorni trenta dalla notificazione o,
se anteriore, dalla comunicazione della presente sentenza;
-
che, in caso di ulteriore inadempimento
dell’amministrazione, si nomina sin d’ora il commissario ad acta
–che provvederà in luogo del Comune inadempiente– nella
persona del Direttore del Settore “Programmazione
strategica, Politiche territoriali ed Edilizia” della
Regione Piemonte, od un funzionario da questi delegato
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 27.03.2013 n. 400 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: In
caso di società costituita da due soli soci, ciascuno
detentore del 50 per cento del capitale sociale, l'obbligo
della dichiarazione di cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163 del
2006 grava su entrambi i soci, posto che ciascuno dei due
soci è in grado di esercitare un potere determinante sulle
scelte della società e che, di conseguenza, sarebbe elusivo
dello scopo della citata norma esentare dalle dichiarazioni
richieste l'uno dei due soci soltanto perché non titolare
della rappresentanza legale della stessa.
Scopo della norma è quello di assicurare che in capo a
soggetti suscettibili, in ragione della loro quota sociale,
di esercitare un determinante potere di direzione o comunque
di influenza sulle scelte strategiche e sulla gestione di
una società con scarso numero di soci, non pendano né i
procedimenti, né vi siano state condanne ovvero non
risultino le circostanze di cui alle lettere b), c) ed m-ter)
del citato art. 38.
E, come correttamente indicato dall'Autorità di Vigilanza
sui contratti pubblici nella determinazione n. 1 del 2012 e
nei pareri n. 58 e n. 70 del 2012, due soci al 50% già
“sono, ciascuno per suo conto, espressione di una
convergente potestà dominicale e direzionale della società”:
sicché ricadono nelle ragioni della previsione normativa;
ciò in quanto nella gestione della società ciascun socio
paritario, per quanto non sia di maggioranza assoluta, ha
comunque il potere di impedire l'approvazione di scelte che
non condivide, poiché l'altro socio non può imporle
autonomamente, con l'effetto di condizionare in modo
determinante la direzione della società sia in negativo,
impedendo scelte non concordate, che in positivo permettendo
soltanto quelle su cui consente.
Conferma se ne rinviene, per le società a responsabilità
limitata, dalla lettura dell'art. 2479-bis c.c., nel cui
terzo comma sono fissati i quorum costitutivi e deliberativi
dell'assemblea, in ogni caso non superiori alla "metà del
capitale sociale": ne consegue che il titolare di una tale
porzione del capitale sociale è già in grado di assumere
poteri strategici diretti e poteri di condizionamento
indiretto sulle scelte di gestione della società, e non
soltanto di carattere negativo.
Nel merito, giova premettere che –in tema di
dichiarazioni che le imprese devono rendere sui requisiti di
ordine generale, ai sensi dell’art. 38 del codice dei
contratti– il decreto-legge n. 70 del 2011, convertito in
legge n. 106 del 2011, allo scopo di garantire un più
efficace sistema di controllo sull’idoneità morale degli
operatori economici, ha reso più severa la relativa
disciplina, prevedendo (per quello che qui rileva) che le
società di capitali aventi meno di quattro soci sono tenute
a dichiarare, in sede di domanda di partecipazione alle
gare, l’inesistenza di condanne o di misure di prevenzione
nei confronti del proprio “socio di maggioranza”.
Il
problema interpretativo che ne è derivato è se quest’ultima
espressione possa ricomprendere anche il caso di
partecipazione paritaria al capitale sociale, con
particolare riferimento alla società composta da due soli
soci entrambi al 50% del capitale.
Si sono registrate, sul
punto, interpretazioni giurisprudenziali non univoche,
talune nel senso che entrambi i soci al 50% vanno
considerati, ai fini della norma, come se fossero “di
maggioranza” (cfr., ad es., TAR Sicilia, Catania, sez. I, n.
2705 del 2011; Cons. Stato, sez. V, n. 4654 del 2012), altre
nel senso opposto (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, n.
1624 del 2012). Da ultimo, è tornata sulla questione la
sezione VI del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 513
del 2013 (di riforma della citata decisione del TAR
Campania, n. 1624 del 2012), con la quale è stato tracciato
un significativo (e del tutto condivisibile) arresto sul
tema che occupa.
Ivi il Giudice di appello è giunto alla
conclusione che, in caso di società costituita da due soli
soci, ciascuno detentore del 50 per cento del capitale
sociale, l'obbligo della dichiarazione di cui all'art. 38
del d.lgs. n. 163 del 2006 grava su entrambi i soci, posto
che ciascuno dei due soci è in grado di esercitare un potere
determinante sulle scelte della società e che, di
conseguenza, sarebbe elusivo dello scopo della citata norma
esentare dalle dichiarazioni richieste l'uno dei due soci
soltanto perché non titolare della rappresentanza legale
della stessa.
Scopo della norma –si è infatti argomentato–
è quello di assicurare che in capo a soggetti suscettibili,
in ragione della loro quota sociale, di esercitare un
determinante potere di direzione o comunque di influenza
sulle scelte strategiche e sulla gestione di una società con
scarso numero di soci, non pendano né i procedimenti, né vi
siano state condanne ovvero non risultino le circostanze di
cui alle lettere b), c) ed m-ter) del citato art. 38.
E,
come correttamente indicato dall'Autorità di Vigilanza sui
contratti pubblici nella determinazione n. 1 del 2012 e nei
pareri n. 58 e n. 70 del 2012, due soci al 50% già “sono,
ciascuno per suo conto, espressione di una convergente
potestà dominicale e direzionale della società”: sicché
ricadono nelle ragioni della previsione normativa; ciò in
quanto nella gestione della società ciascun socio paritario,
per quanto non sia di maggioranza assoluta, ha comunque il
potere di impedire l'approvazione di scelte che non
condivide, poiché l'altro socio non può imporle
autonomamente, con l'effetto di condizionare in modo
determinante la direzione della società sia in negativo,
impedendo scelte non concordate, che in positivo permettendo
soltanto quelle su cui consente.
Conferma se ne rinviene,
per le società a responsabilità limitata (come l’odierna controinteressata), dalla lettura dell'art. 2479-bis c.c.,
nel cui terzo comma sono fissati i quorum costitutivi e
deliberativi dell'assemblea, in ogni caso non superiori alla
"metà del capitale sociale": ne consegue che il titolare di
una tale porzione del capitale sociale è già in grado di
assumere poteri strategici diretti e poteri di
condizionamento indiretto sulle scelte di gestione della
società, e non soltanto di carattere negativo (così Cons.
Stato, sez. VI, n. 513 del 2013, cit.).
Con riferimento alla fattispecie in esame, quindi, la
società controinteressata (composta da due soli soci,
ciascuno al 50% del capitale sociale) avrebbe dovuto rendere
le dichiarazioni di cui all’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006
con riferimento ad entrambi i soci, in quanto entrambi da
considerarsi “di maggioranza” ai sensi (e secondo la
ratio)
della richiamata disposizione.
Le dichiarazioni sono invece
state rese con riferimento ad uno solo dei sue soci “di
maggioranza” (quello che ne assumeva anche la carica di
amministratore), con ciò perpetrandosi una violazione di
legge ridondante in illegittimità della successiva
ammissione/partecipazione alla gara, per effetto della
mancata esclusione della società.
Né ciò appare in contrasto
con la previsione della tipizzazione delle cause di
esclusione, introdotta dal medesimo decreto-legge n. 70 del
2011, convertito in legge n. 106 del 2011, in quanto (come
ulteriormente precisato dalla ricordata decisione n. 513 del
2013 del Consiglio di Stato) si tratta di una causa di
esclusione da ritenere essenziale ai fini della salvaguardia
sostanziale delle garanzie di affidabilità dei contraenti
stabilite dall'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 e, perciò,
ragione di esclusione conseguente al “mancato adempimento
alle prescrizioni previste dal presente codice” (art. 46,
comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006).
Il motivo di
doglianza sollevato dalla ricorrente è, pertanto, fondato,
con conseguente annullamento del provvedimento di ammissione
in gara della ditta “Dedalo Costruzioni” s.r.l.
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 27.03.2013 n. 399 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Integra
la nozione di "volume tecnico", non computabile nella
volumetria della costruzione, l'opera edilizia priva di
alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto
destinata a contenere impianti serventi –quali quelli
connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore– di
una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali
dell'abitazione e che non possono essere ubicati nella
stessa.
Trattandosi, all’evidenza, di volume tecnico –così come argomentato dalla ricorrente– tale superficie va
espunta dal calcolo della sanzione, in aderenza ai principi
elaborati, in proposito, dalla giurisprudenza secondo la
quale integra la nozione di "volume tecnico", non
computabile nella volumetria della costruzione, l'opera
edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche
potenziale, in quanto destinata a contenere impianti
serventi –quali quelli connessi alla condotta idrica,
termica o all'ascensore– di una costruzione principale per
esigenze tecnico-funzionali dell'abitazione e che non
possono essere ubicati nella stessa (cfr., di recente: TAR
Umbria, n. 46 del 2013; Cassaz., sez. II civ., n. 20886 del
2012; Cons. Stato, sez. IV, n. 678 del 2011; Cons. Stato,
sez. V, n. 236 del 2009)
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 27.03.2013 n. 390 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Ai
fini di ritenere integrato un cambio di destinazione d’uso è
sufficiente che sia intervenuto un “completamento
funzionale”, nel senso che le opere, pur non perfette nelle
finiture, possano dirsi individuabili nei loro elementi
strutturali e con le caratteristiche idonee ad assolvere la
funzione cui sono destinate: in altri termini, l’immobile
deve risultare già fornito di opere indispensabili a rendere
effettivamente possibile un uso diverso da quello asserito,
in modo tale da risultare incompatibile con l'originaria
destinazione.
Proprio questa è la situazione che si è venuta a determinare
nel caso di specie, laddove nel vano de quo sono sicuramente
presenti opere funzionali ad una destinazione (lavanderia)
diversa da quella originaria (cantina).
Ai fini di ritenere integrato un cambio di
destinazione d’uso –secondo la giurisprudenza– è
sufficiente che sia intervenuto un “completamento
funzionale”, nel senso che le opere, pur non perfette nelle
finiture, possano dirsi individuabili nei loro elementi
strutturali e con le caratteristiche idonee ad assolvere la
funzione cui sono destinate: in altri termini, l’immobile
deve risultare già fornito di opere indispensabili a rendere
effettivamente possibile un uso diverso da quello asserito,
in modo tale da risultare incompatibile con l'originaria
destinazione (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. I-quater, n. 12734
del 2005; TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, n. 837 del 2007).
Proprio questa è la situazione che si è venuta a determinare
nel caso di specie, laddove nel vano de quo sono sicuramente
presenti opere funzionali ad una destinazione (lavanderia)
diversa da quella originaria (cantina)
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 27.03.2013 n. 389 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Gli
oneri di urbanizzazione sono considerati un corrispettivo di
diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico
del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle
opere di urbanizzazione in proporzione ai benefici che la
nuova costruzione ne ritrae, cosicché il tipo di uso offre
la giustificazione giuridica all’an debeatur, mentre le
modalità concrete dell’uso danno la ragione del quantum.
Ne deriva che il fatto da cui in concreto nasce l’obbligo di
corrispondere gli “oneri“ anzidetti è l’aumento del carico
urbanistico, derivi esso dalla realizzazione di interventi
edilizi o da mutamenti di destinazione d’uso (anche in
assenza di opere). La quota per oneri di urbanizzazione
compensa, in altri termini, l’aggravamento del carico
urbanistico della zona, indotto dal nuovo insediamento.
L’incremento del peso insediativo non consegue, infatti,
soltanto agli interventi di ristrutturazione generale e
globale di un edificio, ma anche alle ristrutturazioni meno
marcate, che comunque trasformino la realtà strutturale e la
fruibilità urbanistica dell’immobile. In tal caso la
necessità di sottoporre la concessione al pagamento dei
contributi è riferita all’oggettiva rivalutazione
dell’immobile ed è funzionale a sopportare il carico
socio-economico che la realizzazione comporta sotto il
profilo urbanistico.
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L’intervento in concreto realizzato, che ha consentito di
trasformare un fienile in un unità abitativa composta da
soggiorno con angolo cottura, due camere da letto, servizio
igienico e relativo disimpegno, al quale è possibile
accedere con una rampa scale esterna, comporta, invero,
aggravi di carico urbanistico identici a quelli derivanti da
nuove costruzioni.
... per l'annullamento della non debenza da parte del sig.
Battaglia delle somme (pari ad euro 11.774,78) che il Comune
di Avigliana ha richiesto con lettera prot. 7847/2005 del 01/04/2005 a titolo di integrazione del contributo di
urbanizzazione per il condono edilizio per cambio di
destinazione d'uso di parte di un immobile da fienile a
civile abitazione;
...
In via generale, osserva, invero, il Collegio che,
secondo la posizione interpretativa maggiormente affermata
in giurisprudenza, da cui non v’è motivo di discostarsi, gli
oneri di urbanizzazione sono considerati un corrispettivo di
diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico
del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle
opere di urbanizzazione in proporzione ai benefici che la
nuova costruzione ne ritrae, cosicché il tipo di uso offre
la giustificazione giuridica all’an debeatur, mentre le
modalità concrete dell’uso danno la ragione del quantum
(cfr. C.d.S., V, 21.04.2006, n. 2258; idem 27.02.1998, n. 201; idem 23.05.1997, n. 529).
Ne deriva che il fatto da cui in concreto nasce
l’obbligo di corrispondere gli “oneri“ anzidetti è l’aumento
del carico urbanistico, derivi esso dalla realizzazione di
interventi edilizi o da mutamenti di destinazione d’uso
(anche in assenza di opere). La quota per oneri di
urbanizzazione compensa, in altri termini, l’aggravamento
del carico urbanistico della zona, indotto dal nuovo
insediamento.
L’incremento del peso insediativo non consegue,
infatti, soltanto agli interventi di ristrutturazione
generale e globale di un edificio, ma anche alle
ristrutturazioni meno marcate, che comunque trasformino la
realtà strutturale e la fruibilità urbanistica dell’immobile
(cfr. TAR Emilia Romagna, Parma, 19.02.2008, n. 100). In tal
caso la necessità di sottoporre la concessione al pagamento
dei contributi è riferita all’oggettiva rivalutazione
dell’immobile ed è funzionale a sopportare il carico
socio-economico che la realizzazione comporta sotto il
profilo urbanistico (cfr. C.d.S., V, 03.03.2002, n. 1180).
Orbene, ciò precisato, non v’è dubbio che la
ristrutturazione in questione, seppur realizzata mediante
limitati interventi di carattere edilizio, abbia comportato
un effettivo aumento del carico urbanistico.
A tal proposito il Collegio non può, peraltro, che
condividere l’inquadramento operato dall’ente civico ai fini
della corresponsione degli oneri di urbanizzazione, dato che
l’intervento condonato, avendo portato alla creazione di un
organismo radicalmente diverso, dal punto di vista del
carico urbanistico, da quello preesistente e avendo, anzi,
dato origine ad un’unità immobiliare autonoma, pare
ragionevolmente riconducibile alla categoria n. 1 degli
interventi a carattere “residenziale” di cui alla D.G.C. n.
231/2004.
L’intervento in concreto realizzato, che ha consentito di
trasformare un fienile in un unità abitativa composta da
soggiorno con angolo cottura, due camere da letto, servizio
igienico e relativo disimpegno, al quale è possibile
accedere con una rampa scale esterna, comporta, invero,
aggravi di carico urbanistico identici a quelli derivanti da
nuove costruzioni (per un’ipotesi similare dal punto di
vista del “risultato” edilizio ottenuto vedasi TAR
Lombardia Brescia, 21.07.2009, n. 4455).
A nulla rileva, peraltro, che, ai fini del condono, le
opere realizzate siano state ascritte alla tipologia 3
(“Opere di ristrutturazione edilizia come definite
dall'articolo 3, comma 1, lettera d, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 realizzate in assenza o in difformità dal
titolo abilitativo edilizio”) dell’allegato 1 del d.l. 30.09.2003, n. 269, dato che da un’attenta lettura delle
disposizioni di tale decreto si evince che il legislatore
non ha assolutamente inteso prevedere una corrispondenza
diretta tra tipologia d’illecito commesso e misura degli
oneri di concessione, ma ha stabilito un criterio diverso,
che non può che essere applicato tenendo conto della
funzione tipica assolta dagli oneri di urbanizzazione.
La tabella D avente ad oggetto la “Misura
dell’anticipazione degli oneri di concessione” individua,
infatti, solo due categorie di interventi edilizi ovvero le
“Nuove costruzioni e ampliamenti” e le “Ristrutturazioni e
modifiche della destinazione d’uso”, diversamente da quanto
stabilisce, invece, la tabella C per la “misura
dell’oblazione”, che tiene conto della tipologia d’illecito
concretamente commesso.
Ad avviso del Collegio, è da ritenersi, dunque, rimessa
al prudente apprezzamento tecnico-discrezionale delle
singole Amministrazioni la valutazione in ordine alla
riconducibilità dell’intervento realizzato all’una o
all’altra delle due macro-categorie dianzi indicate ai fini
della corresponsione degli oneri di urbanizzazione, in
ragione dell’effettiva incidenza sul carico antropico
provocata dalle opere per cui è stato chiesto il condono.
La deliberazione giuntale n. 231/2004, con cui vengono
determinati gli importi degli oneri di urbanizzazione per le
opere del condono in questione, laddove fa riferimento al
concetto di unità immobiliare autonoma o potenzialmente
tale, pare, peraltro, pienamente rispondente alla
definizione di “nuova costruzione” fornita dall’art. 2 legge
regionale n. 33/2004 recante disposizioni regionali per
l’attuazione della sanatoria edilizia ove si legge, per
l’appunto, che “ai fini della presente legge si intende per
nuova costruzione il manufatto che risulti realizzato in
forma autonoma non connesso o pertinente ad altro manufatto
esistente”.
Contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, essa
non introduce alcuna nuova fattispecie di opere edilizie
rispetto a quelle ordinarie, con buona pace, dunque, del
rispetto di quanto al riguardo stabilito dall’art. 32, comma
10, del d.l. n. 269 del 2003 e dell’art. 5 della l.r. dianzi
citata e delle fattispecie residenziali ordinarie
contemplate dalla D.G.C. n. 59 dell’08.06.1995, laddove
la linea di discrimine viene, invero, individuata tra
interventi di nuova costruzione e interventi di
ristrutturazione ovvero attuati su volumi preesistenti.
Ne deriva che, tenuto conto del risultato complessivo
dell’intervento condonato (diversa strutturazione e
fruibilità dell’immobile) e del correlato aumento del peso
insediativo, l’Amministrazione ha legittimamente provveduto
a calcolare il quantum dovuto dal signor Battaglia
applicando la misura degli oneri stabilita per gli
interventi di nuova costruzione, nel cui ambito rientrano
quelli che, come quello realizzato, generano unità
immobiliari autonome
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 27.03.2013 n. 381 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Serra fotovoltaica senza più limiti.
Il Tar Lazio cancella i limiti di superficie.
Annullati i limiti di installazione di impianti fotovoltaici
sulle serre. Il rapporto del 50% tra la superficie delle
serre e i pannelli fotovoltaici non sono sufficienti a
garantire la coltivazione. Il fatto che il limite del 50%
debba essere rispettato in tutto il territorio nazionale non
tiene conto delle diverse condizioni di luminosità e di
calore delle regioni italiane.
Per garantire le coltivazioni sono necessari altri parametri
quali: il clima, la luminosità, la qualità del territorio e
le risorse idriche.
Questo è quanto previsto dal TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter,
con la
sentenza 26.03.2013 n. 3143.
I giudici
amministrativi della capitale hanno annullato la
disposizione normativa contenuta nell'articolo 14, 2 comma,
del dm 05.05.2011 (cd. quarto conto energia). La quale
stabilisce che dopo l'installazione dei pannelli
fotovoltaici sulle serre, per poter garantire la
coltivazione il rapporto tra la proiezione al suolo della
superficie dei pannelli e la superficie di copertura della
serra non deve superare il 50%.
Il Tar Lazio era stato
chiamato a pronunciarsi su un ricorso presentato da una
società contro i limiti fissati dall'articolo 14, 2 comma,
del dm del 2011. Dopo il ricorso, il Gse e il Mise,
sostenevano che la norma era indirizzata a contrastare l'uso
eccessivo dei moduli fotovoltaici per non rendere le serre
inadatte al loro scopo originario, cioè alla coltivazione.
Il Tar ha al contrario dato ragione alla società ricorrente.
Secondo i giudici amministrativi, infatti, i limiti posti
dal quarto conto energia oltre ad essere illogici e
contraddittori non sono sufficienti a garantire le
coltivazioni in serra. Per i motivi suindicati giudici hanno
annullato la disposizione specificando che solo il Mise può
far valere i limiti per alcune tipologie di serre
(articolo ItaliaOggi del 04.04.2013). |
ENTI LOCALI: Revisione=funzione.
Commercialisti punto di riferimento. Sentenza Tar Lazio
sulla nomina negli enti locali.
L'inclusione degli iscritti all'Albo dei dottori
commercialisti tra i soggetti dell'elenco dei revisori dei
conti presso gli enti locali è pienamente legittima. Ed è
una previsione che si pone «in una linea di continuità,
razionalità, logicità e ragionevolezza» rispetto a tutte le
norme nazionali e alle direttive comunitarie.
Con una
sentenza
26.03.2013 n. 3092 che non lascia spazio a dubbi e
interpretazioni, il TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, rinvia al mittente il
ricorso con cui l'Istituto nazionale dei revisori legali
aveva chiesto l'annullamento del decreto del ministero
dell'interno (n. 23 del 15.02.2012) il quale prevedeva
che a decorrere dal primo rinnovo dell'organo di revisione
successivo alla data di entrata in vigore dello stesso
decreto-legge, i revisori dei conti degli enti locali
fossero scelti per estrazione da un elenco nel quale possono
essere inseriti i soggetti iscritti nel registro dei
revisori legali nonché gli iscritti all'Ordine dei dottori
commercialisti e degli esperti contabili.
Ed era proprio
questo passaggio a non andare giù all'Istituto guidato da
Virgilio Baresi, che nel ricorso fa appello all'illeggittimità
comunitaria e costituzionale e punta il dito contro
«l'incompetenza» del ministero dell'interno che ha ampliato
«la cerchia di soggetti da abilitare all'esercizio della
professione di revisore legale anche attraverso una pretesa
equiparazione delle competenze previste dalle norme relative
all'abilitazione dei dottori commercialisti e quelle
disciplinanti l'esercizio della revisione legale».
Tutte
«censure» giudicate infondate dai giudici capitolini che
innanzitutto precisano l'inesistenza di alcun contrasto tra
le disposizioni contenute nel decreto in questione e la
normativa di rango primario (dl 138/2011) «perché entrambe
hanno previsto l'istituzione di un elenco di revisori
definendone, nello stesso tempo, i criteri». Ma non solo
perché il Tar aggiunge anche che la previsione di inserire
anche gli iscritti all'ordine dei commercialisti «si pone in
continuità con le specifiche disposizioni contenute in
materia di disciplina di revisione degli enti locali nel Tuel».
Infine analizzando la norma che disciplina
l'esercizio della funzione di revisione ricorda sì che
questa disciplina lo svolgimento delle funzioni di revisore
contabile presso i soggetti di diritto privato, gli enti di
interesse pubblico e anche presso enti locali, ma sottolinea
però che in questo ultimo caso, il legislatore delegato «ha
coerentemente stabilito una specifica e autonoma previsione
legislativa di rango primario la quale riferendosi a un
diverso settore d'applicazione è per questo soggetto a
regole specifiche, rispetto a quello disciplinato dal
decreto legislativo n. 39/2010».
Una sentenza «estremamente
significativa» per l'ex presidente del consiglio nazionale
dei dottori commercialisti e degli esperti contabili,
Claudio Siciliotti, perché, una volta per tutte, chiarisce «come
la revisione sia una delle funzioni della più ampia
professione di commercialista»
(articolo ItaliaOggi del 06.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI
LOCALI: Negli enti locali revisione anche ai commercialisti.
Il Tar Lazio sull'elenco per la
scelta.
Il Dm 15.02.2012 che ha regolato l'elenco dei
candidati per la revisione negli enti locali, includendo –a
domanda– sia i revisori legali sia gli iscritti all'Albo
dei dottori commercialisti, è conforme alla legge.
Lo ha
stabilito il TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, con la
sentenza
26.03.2013 n. 3092, respingendo il ricorso dell'Istituto
nazionale revisori legali.
Il Tar ha chiarito che il Dm 15.02.2012, in seguito alla legge 148/2011, si pone in
continuità con l'articolo 234 del Testo unico sugli enti
locali, laddove si prevede che il collegio dei revisori è
costituito da tre componenti, uno iscritto al «collegio dei
revisori contabili, con funzione di presidente, uno tra gli
iscritti all'Albo dei dottori commercialisti, l'altro tra
gli iscritti all'Albo dei ragionieri». Non vale l'obiezione
dell'Istituto nazionale revisori legali, secondo cui la
legge 148 e il Dm non hanno rispettato la direttiva
comunitaria in materia di revisione legale, attuata con
decreto legislativo 39/2010, che ha la prevalenza sulla
disciplina nazionale.
Il Tar esamina le attività del revisore nell'ente locale.
Tra le altre, pareri su: strumenti di programmazione
economico-finanziaria; bilancio; ricorso all'indebitamento;
riconoscimento di debiti fuori bilancio e transazioni;
regolamento di contabilità. «Appare evidente –scrive il Tar– che la funzione di revisore dei conti presso gli enti
locali, stante le attribuzioni (...) presenta proprie
peculiarità e specificità connesse soprattutto alla funzione
pubblica dei soggetti presso i quali la funzione medesima è
esercitata». Peraltro, il decreto legislativo 39/2010
riguarda –nota il Tar– lo svolgimento della revisione
legale presso soggetti di diritto privato, nonché enti di
interesse pubblico, ma non gli enti locali.
«Questa sentenza -commenta l'ex presidente del Consiglio
nazionale dei dottori commercialisti, Claudio Siciliotti-
chiarisce come la revisione sia una delle funzioni della più
ampia professione di commercialista. Proprio sulla necessità
di far definitiva chiarezza tra i concetti di professione e
funzione, il Consiglio nazionale da me presieduto aveva
condotto una lunga battaglia». Per il presidente
dell'Istituto nazionale revisori, Virgilio Baresi, invece,
la sentenza è irragionevole e si andrà al Consiglio di Stato
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI SERVIZI:
I valori del costo del lavoro risultanti dalle
tabelle ministeriali costituiscono un parametro di
valutazione della congruità dell'offerta.
---------------
Sulla rateizzazione dei debiti tributari.
I valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle
ministeriali non costituiscono un limite inderogabile, ma
semplicemente un parametro di valutazione della congruità
dell'offerta sotto tale profilo, ai sensi dell'art. 86 del
d.lvo 12.04.2006, nr. 163: di modo che l'eventuale
scostamento da tali parametri delle relative voci di costo
non legittima ex se un giudizio di anomalia, potendo
essere accettato quando risulti puntualmente (e
rigorosamente) giustificato.
La verifica di anomalia dell'offerta deve avere a oggetto la
congruità dell'offerta economica non con riferimento a
ciascuna singola voce di essa, ma nella sua interezza e
globalità, servendo le giustificazioni dell'impresa, e il
contraddittorio che su di esse s'instaura ai sensi del
citato art. 86, ad accertare l'effettiva sostenibilità e
affidabilità dell'offerta nel suo complesso
---------------
La presenza di provvedimenti del fisco di rateizzazione dei
debiti tributari, purché anteriore alla presentazione
dell'offerta, determina una sostanziale novazione
dell'obbligazione tributaria, in modo da escludere che possa
trattarsi di violazione "definitivamente accertata"
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.03.2013 n. 1633 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ENTI LOCALI: Tar
Piemonte. Sì all'autotutela.
Finanza comunale, illegittimo lo swap deciso dalla Giunta.
IL PRINCIPIO/
L'operazione che non sia passata dal Consiglio può essere
annullata anche se è stata sottoscritta da otto anni.
Il del TAR
Piemonte, Sez. I, con la
sentenza 22.03.2013 n. 343 riapre la strada agli annullamenti in
autotutela dei derivati da parte dei Comuni, strada che
invece era stata chiusa dagli ultimi interventi di Tar
Toscana e Consiglio di Stato.
I giudici piemontesi hanno dato ragione agli amministratori
di Omegna, 16mila abitanti nel Verbano Cusio Ossola, che nel
maggio 2012 avevano deciso di chiudere in via unilaterale in
autotutela due derivati sottoscritti nel 2004 e 2006 con
Unicredit.
A consentire la mossa al Comune, e a determinare quindi il
«no» opposto dai giudici amministrativi al ricordo da parte
della banca, è stata una questione procedurale. Il via
libera ai contratti era infatti stato dato dalla Giunta,
senza passare dal Consiglio comunale che in base al Testo
unico degli enti locali (Dlgs 267/2000: articolo 42, comma
2, lettera i), ha la competenza su tutti gli atti produttori
di «spese che impegnino i bilanci per gli esercizi
successivi».
Il "vizio" genetico della procedura ha permesso ai giudici
amministrativi di pronunciarsi sul punto, confermando invece
che la competenza sul merito dei contratti è del giudice
ordinario perché in quel caso gli atti di autotutela «pur
essendo rivestiti di forma pubblicistica, costituiscono
nella sostanza meri negozi giuridici unilaterali». In questo
modo il Tar Piemonte non entra in contrasto con le tante
sentenze toscane sulla competenza in materia di autotutela
sugli swap, e fonda la propria pronuncia solo
sull'illegittimità del procedimento amministrativo che ha
condotto alla firma dei due swap.
È vero, spiegano i giudici, che i derivati, con i quali è
stato ristrutturato un precedente debito con Cassa depositi
e prestiti, sono nati non per produrre spesa ma per
risparmiare; tuttavia «tuttavia la possibilità che gli swap
comportino spese per l'amministrazione che li stipula e che
tali spese gravino a carico degli esercizi successivi a
quello di sottoscrizione del contratto è un'eventualità
tutt'altro che remota, anzi appare del tutto connaturata
alla natura “aleatoria” del contratto», per cui la stipula
deve passare dal Consiglio.
Del tutto ignorata, invece, un'altra obiezione dei giudici
toscani, che nella sentenza 263/2013 (su cui si veda «Il
Sole 24 Ore» del 23 febbraio) avevano stabilito
l'intangibilità dei contratti più vecchi di tre anni (limite
fissato dall'articolo 1, comma 136, della legge 311/2004 per
l'autotutela nei rapporti con i privati).
Sul punto il Tar Piemonte è molto tranchant e, con un
richiamo implicito alla regola generale dell'autotutela
(articolo 21-nonies, comma 1, della legge 241/1990) spiega
che il termine entro cui il potere di annullamento d'ufficio
è stato esercitato (nove anni dal primo contratto e sei
dall'ultimo) non pare irragionevole»
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.04.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
URBANISTICA: Le
osservazioni dei privati agli strumenti urbanistici generali
costituiscono un mero apporto collaborativo, per cui deve
escludersi in caso di mancato accoglimento delle medesime un
onere di puntuale e specifica motivazione in capo
all’Amministrazione.
Inoltre, deve richiamarsi l’indirizzo giurisprudenziale,
largamente diffuso e ribadito di recente in importanti
arresti del Giudice Amministrativo d’appello, sull’ampia
discrezionalità di cui godono i Comuni nell’esercizio della
potestà di pianificazione urbanistica, nei confronti della
quale i privati possono godere di aspettative qualificate
soltanto in un numero limitato di casi, peraltro
insussistenti nella presente fattispecie.
La scelta comunale di non accoglimento delle
osservazioni sfugge però alle censure di difetto di
motivazione e di eccesso di potere svolte nel secondo mezzo.
Sul punto, occorre in primo luogo rilevare come le
osservazioni dei privati agli strumenti urbanistici generali
costituiscono un mero apporto collaborativo, per cui deve
escludersi in caso di mancato accoglimento delle medesime un
onere di puntuale e specifica motivazione in capo
all’Amministrazione (cfr. da ultimo, fra le tante, Consiglio
di Stato, sez. IV, 12.02.2013, n. 845, con la giurisprudenza
ivi richiamata e sez. VI, 20.06.2012, n. 3571).
Inoltre, deve richiamarsi l’indirizzo giurisprudenziale,
largamente diffuso e ribadito di recente in importanti
arresti del Giudice Amministrativo d’appello, sull’ampia
discrezionalità di cui godono i Comuni nell’esercizio della
potestà di pianificazione urbanistica, nei confronti della
quale i privati possono godere di aspettative qualificate
soltanto in un numero limitato di casi, peraltro
insussistenti nella presente fattispecie (cfr., fra le
tante, la fondamentale sentenza del Consiglio di Stato, sez.
IV, 10.05.2012, n. 2710, richiamata e confermata dalla
successiva sentenza della stessa Sezione IV, 28.11.2012, n.
6040; Consiglio di Stato, sez. IV, 28.12.2012, n. 6703 e
21.12.2012, n. 6656; oltre che, fra le decisioni di primo
grado, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.02.2013, n. 532 e
08.02.2012, n. 437, unitamente a TAR Basilicata, 16.12.2011,
n. 602)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
19.03.2013 n. 719 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Atti
di polizia accessibili
Una insegnante ha diritto di accedere anche ad un verbale
della Polizia di Stato per poter tutelare la sua posizione
giuridica.
Lo ha sancito il TAR Toscana, Sez. I, con la
sentenza
19.03.2013 n. 411.
Nel caso in esame una docente in servizio presso un istituto
tecnico di Lucca era stata coinvolta, in occasione degli
esami di riparazione, in un episodio che aveva dato luogo
all'intervento di personale della Polizia di Stato e che
successivamente era stato causa dell'applicazione di una
sanzione disciplinare nei suoi confronti.
La professoressa aveva così chiesto al Questore di Lucca, ai
sensi dell'art. 22 della legge n. 241/1990, il rilascio del
verbale redatto dagli agenti relativamente all'intervento e
la registrazione della telefonata richiedente l'intervento
o, in alternativa, la dichiarazione sul contenuto della
telefonata. Non avendo ottenuto riscontro favorevole sulla
base della disposizione di cui all'art. 3 del D.M. n.
415/1994, l'insegnante si era rivolta al Tribunale
amministrativo.
I giudici hanno accolto il ricorso. Secondo il collegio,
infatti, sussiste il presupposto per l'accesso dal momento
che la ricorrente è titolare di «un interesse diretto,
concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l'accesso».
Inoltre -precisa la sentenza- ai sensi
dell'art. 8, comma 5, lettera c), del decreto del Presidente
della Repubblica 27.06.1992, n. 352, le relazioni di
servizio sono sottratte all'accesso in relazione
all'esigenza di salvaguardare l'ordine pubblico e la
prevenzione e repressione della criminalità ma caso per
caso, per evitare i rischi di una sottrazione generalizzata (articolo
ItaliaOggi del 02.04.2013). |
APPALTI:
Sulla violazione dell'obbligo della
specificazione delle parti di servizio imputate alle singole
imprese del raggruppamento.
Nel caso in cui l'oggetto dell'appalto non si presenta come
un unico servizio omogeneo, da svolgere eseguendo un'unica
tipologia di prestazioni, ma si articola in servizi e
prestazioni distinte in relazione alle attività da svolgere,
alle forniture da eseguire, al personale ed ai mezzi da
impiegare nei servizi da rendere, come nel caso di specie,
le imprese che fanno parte del costituendo RTI devono
indicare, oltre alle quote di partecipazione, anche le parti
del servizio di cui ciascuna intende occuparsi.
La violazione dell'obbligo della specificazione delle "parti"
di servizio imputate alle singole imprese del
raggruppamento, sancito dall'art. 11, c. 2, l. n. 157 del
1995 (attuale art. 37, c. 4, d.lgs. n. 163 del 2006), non si
risolve in una violazione meramente formale, ma incide, in
modo sostanziale sulla serietà, affidabilità, determinatezza
e completezza, e dunque sugli elementi essenziali
dell'offerta, la cui mancanza, pena la violazione dei
principi della par condicio e della trasparenza, non è
suscettibile di regolarizzazione postuma.
Incide, inoltre, sui poteri di verifica della stazione
appaltante in relazione alla coerenza dei requisiti di
capacita degli operatori raggruppati con riguardo alla
natura della prestazione, in funzione della garanzia della
qualità delle prestazioni oggetto dell'appalto e sul un
corretto assetto concorrenziale, evitando l'elusione delle
norme di ammissione stabilite dai bandi e impedendo la
partecipazione fittizia di imprese, non chiamate (o chiamate
in modo inappropriato) ad effettuare le prestazioni oggetto
della gara (TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter,
sentenza 15.03.2013 n. 2705 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: Gare
d'appalto, sì al concordato
L'istanza di concordato preventivo non è ragione sufficiente
per l'esclusione da una gara di appalto. Questo a seguito
della reintroduzione, ad opera del decreto sviluppo del
2012, dell' istituto del concordato con continuità aziendale
previsto dall'art. 186-bis del rd 267/1942. In base al
dettato normativo, l'istanza di concordato preventivo, non è
da considerarsi ostativa alla partecipazione alle gare, ma
bensì come un'eccezione all'operatività della causa di
esclusione.
Così ha stabilito il TAR Friuli-Venezia Giulia, con la
sentenza
07.03.2013 n. 146.
La vicenda, che si è conclusa
con la dichiarazione di infondatezza del ricorso, ha avuto
come protagonista un'impresa partecipante ad una gara
d'appalto per l'assegnazione di un servizio in materia
ambientale. La ricorrente, che contestava l'assegnazione
della gara in questione alla prima classificata, sosteneva
che la stessa non potesse essere ritenuta la reale
assegnataria definitiva della gara.
L'impresa argomentava
sostenendo che la prima classificata, non avrebbe nemmeno
dovuto partecipare alla gara, a causa della situazione
fiscale e finanziaria tutt'altro che tranquilla. Il giorno
dopo la scadenza del termine per presentare le domande
infatti, aveva proposto istanza di concordato preventivo. La
ricorrente basava il proprio ragionamento sull'art. 38 del dlgs 163 del 2006.
In base a quanto previsto dalla norma
infatti «sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di
affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori,
forniture e servizi, né possono essere affidatari di
subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i
soggetti: a) che si trovano in stato di fallimento, di
liquidazione coatta, di concordato preventivo, salvo il caso
di cui all'articolo 186-bis del regio decreto 267/1942, o
nei cui riguardi sia in corso un procedimento per la
dichiarazione di una di tali situazioni» (si veda ItaliaOggi
del 7 marzo). Proprio in base all'analisi della norma, il
Tar ritiene di dover respingere il ricorso. Il Tribunale
friulano, argomenta su due punti fondamentali.
In prima
battuta viene posta in evidenza la questione temporale. In
base a quest'ultima infatti, risulta che l'istanza di
concordato preventivo era stata presentata a seguito della
presentazione di domanda di partecipazione alla gara
d'appalto, ragion per cui se i controlli fossero stati
effettuati precedentemente alla presentazione della
richiesta, sarebbero risultati del tutto in regola. In
secondo luogo, il Tribunale spiega come l'art. 38, così come
modificato dal decreto sviluppo 2012, nonostante preveda
effettivamente quanto sostenuto dalla ricorrente, sia stato
oggetto di un errore interpretativo. In base a quest'ultimo
infatti, l'istanza di concordato preventivo, non è da
considerarsi come un ostacolo alla partecipazione alle gare
d'appalto, ma anzi come un' eccezione all'operatività della
causa di esclusione.
«Del resto», conclude il Tar, «è lo
stesso art. 186-bis del rd 267/1942 a dettare le condizioni
per una legittima partecipazione alle gare d'appalto in
costanza di ammissione a tale tipologia di concordato
preventivo». I requisiti previsti dalla norma sono infatti:
una relazione di un professionista che attesta la conformità
al piano e la ragionevole capacità di adempimento del
contratto e la dichiarazione di altro operatore che dichiara
di farsi garantire del corretto svolgimento di quanto
previsto dal contratto di appalto.
---------------
La massima
L’istanza di concordato preventivo, non è da considerarsi
come un ostacolo alla partecipazione alle gare d’appalto, ma
anzi come un’eccezione all’operatività della causa di
esclusione (articolo
ItaliaOggi del 02.04.2013). |
AGGIORNAMENTO AL 02.04.2013 |
ã |
IN EVIDENZA
...
per tutti i comuni lombardi che, ancora oggi, non hanno il
P.G.T. |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
25 della L.R. 12/2005, come modificato da ultimo dalla L.R.
21/2012, non sembra imporre un’automatica decadenza dei
titoli edilizi ai sensi dell’art. 15, comma 4, del DPR
380/2001, quanto piuttosto una loro sospensione, in attesa
della definitiva approvazione del Piano di Governo del
Territorio (PGT).
... per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia:
- del provvedimento prot. 2647/13 del 14.01.2013;
- di ogni atto preordinato, conseguente e comunque connesso,
con particolare riguardo all'ordine di sospensione dei
lavori n. 396/13 del 21.01.2013, nonché ove occorra ai
verbali della Polizia Locale di Como del 01.01.2013 e
dell'11.01.2013;
...
Considerato che:
- dal momento del rilascio del permesso di costruire,
l’esponente non è rimasta inerte, provvedendo alla notifica
preliminare di inizio cantiere di cui all’art. 99 del D.Lgs.
81/2008, alla stipulazione del contratto d’appalto ed alla
progettazione (cfr. i documenti dal n. 10 al n. 18 della
ricorrente), sicché deve escludersi l’assenza di un idoneo
intento costruttivo in capo alla ricorrente, visto anche il
periodo di ferie natalizie successivo al rilascio del
titolo;
- l’art. 25 della legge regionale 12/2005, come modificato
da ultimo dalla legge regionale 21/2012, non sembra imporre
un’automatica decadenza dei titoli edilizi ai sensi
dell’art. 15, comma 4, del DPR 380/2001, quanto piuttosto
una loro sospensione, in attesa della definitiva
approvazione del Piano di Governo del Territorio (PGT);
- sono apprezzabili anche i profili del periculum in mora,
visto che si tratta dell’unico intervento edilizio della
società ricorrente, che sarebbe irrimediabilmente
pregiudicata dall’esecuzione del provvedimento (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
ordinanza 25.03.2013 n. 363 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
In merito alla suddetta ordinanza si legga un primo
commento dell'Avv. Lorenzo Spallino:
Collegato Ordinamentale 2013 e titoli edilizi rilasciati
ante 31.12.2012
(27.03.2013 - link a http://studiospallino.blogspot.it). |
dite
la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
PUBBLICO IMPIEGO: R.
Lasca,
DOPO IL PICCOLO* TSUNAMI ANTICORRUZIONE (*MA COL NUOVO
GOVERNO ARRIVERA’ IL GRANDE!) EX L. 190/2012 ALLA LUNGA
NEGLI EE.LL. ITALIANI (E NON SOLO EE.LL.), CON O SENZA
DIRIGENZA, CHI AVRA’ I REQUISITI PER SVOLGERE “FUNZIONI
DIRETTIVE” ? NESSUNO O QUASI ! - Che sia l’anticamera
del licenziamento di massa della burocrazia di vertice delle
PP.AA. italiane, ante adozione DPCM che dovevamo leggere
entro il 31.12.2012 ?? (25.03.2013). |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il fondo PERSEO ed i proventi delle multe
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 26.03.2013). |
ENTI LOCALI -
EDILIZIA PRIVATA:
La nullità del contratto individuale di lavoro
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 25.03.2013). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
Anagrafe delle prestazioni. Modifiche introdotte dalla legge
06.11.2012, n. 190 all'art. 53 del D.Lgs. 165/2001
(Ministero dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento della
Ragioneria Generale dello Stato,
circolare 29.03.2013 n. 16). |
TRIBUTI:
OGGETTO: Imposta municipale propria (IMU) di cui all’art.
13 del D.L. 06.12.2011, n. 201, convertito, con
modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214. Termine di
presentazione della dichiarazione IMU concernente i
fabbricati classificabili nel gruppo catastale D, non
iscritti in catasto, ovvero iscritti, ma senza attribuzione
di rendita, interamente posseduti da imprese e distintamente
contabilizzati. Quesito (Ministero
dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento delle Finanze,
risoluzione 28.03.2013 n. 6/DF). |
TRIBUTI:
OGGETTO: Imposta municipale propria (IMU) di cui all’art.
13 del D. L. 06.12.2011, n. 201, convertito, con
modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214. Modifiche
recate dall’art. 1, comma 380, della legge 24.12.2012, n.
228. Quesiti in materia di pubblicazione delle deliberazioni
concernenti le aliquote, di pagamento della prima rata
dell’imposta e di assegnazione della casa coniugale
(Ministero dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento delle
Finanze,
risoluzione 28.03.2013 n. 5/DF). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Ricorsi straordinari al Presidente della
Repubblica ai sensi degli artt. 8 e ss. del decreto del
Presidente della Repubblica 24.11.1971, n. 1199. Verifiche
di regolarità contributiva, ai sensi degli artt. 13, comma
6-bis e 6-bis.1, 247, 248 e 249 del decreto del Presidente
della Repubblica 30.05.2002, n. 115 (Ministero
dell'Interno, Dipartimento per gli Affari Interni e
Territoriali,
circolare 27.03.2013 n. 9/2013). |
INCARICHI PROGETTUALI: Oggetto:
Abolizione tariffe professionali e pareri congruità
(Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati,
nota 06.03.2013 n. 2377 di prot.). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
Prefettura di Treviso - Quesito del Consorzio Polizia
Municipale Piave - Guida veicoli ad uso speciale della
Polizia Locale
(Ministero dell'Interno,
nota 14.11.2012 n. 15918 di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia n. 13 del 26.03.2013 "Secondo
aggiornamento 2013 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)"
(deliberazione
G.R. 19.03.2013 n. 2579). |
ENTI LOCALI - VARI: G.U.
25.03.2013 n. 71 "Modalità attuative delle disposizioni
in materia di pubblicità dei prezzi praticati dai
distributori di carburanti per autotrazione, di cui
all’articolo 15, comma 5, del decreto legislativo
06.09.2005, n. 206, e di cui all’articolo 19 del
decreto-legge 24.01.2012, n. 1, convertito, con
modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27"
(Ministero dello Sviluppo Economico,
decreto 17.01.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G.U.
20.03.2013 n. 67 "Criteri generali di sicurezza relativi
alle procedure di revisione, integrazione e apposizione
della segnaletica stradale destinata alle attività
lavorative che si svolgono in presenza di traffico veicolare"
(Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
decreto 04.03.2013). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
F. Grilli,
Parere della Corte dei Conti Lombardia sui contratti
elettronici della pubblica amministrazione - La Corte
dei Conti della Lombardia con la deliberazione n. 97 del
18.03.2013 sembra sparigliare le carte
(26.03.2013 - link a www.leggioggi.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
S. Usai,
Illegittima la deliberazione con assunzione di impegno di
spesa priva del parere di regolarità contabile (Diritto
e Pratica Amministrativa n. 3/2013). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
C. Bortotello,
AUTORIZZAZIONI RICHIESTE PER ATTUARE LA
MOBILITÀ VOLONTARIA (tratto dalla newsletter di
www.publika.it n. 53 - marzo 2013). |
APPALTI:
G. Gavelli e G. Valcarenghi,
L’Agenzia delle entrate
«alleggerisce» la solidarietà fiscale per appalti e
subappalti (Corriere Tributario n. 12/2013 - tratto
da www.ispoa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
E. Moro,
Il frazionamento abusivo di una villa in due autonomi
appartamenti determina incommerciabilità dell’intero
fabbricato (Corte
di Cassazione, Sez. VI civile, 28.11.2012 n. 21204)
(18.03.2013 - link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Amendola,
Ecopiazzole: la cassazione fa il punto della situazione
attuale (link
a www.industrieambiente.it |
LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA:
P. Marzaro,
La semplificazione nei procedimenti di variante
degli strumenti di pianificazione territoriale e degli
strumenti urbanistici in sede di dismissione e alienazione
del patrimonio immobiliare; i Piani delle alienazioni e
valorizzazioni immobiliari e i programmi unitari di
valorizzazione (Rivista Giuridica di Urbanistica n.
4/2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
Fondazione De Iure Publico,
IL TRASFERIMENTO DEI DIRITTI EDIFICATORI DOPO LE MODIFICHE
ALL’ ART. 2643 DEL CODICE CIVILE (ART. 5, COMMA 3, L.N.
106/2011) - LA “VEXATA QUAESTIO” DELLA NATURA
GIURIDICA DI TALI DIRITTI (Geometra Orobico n. 4/2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
Fondazione De Iure Publico,
EDILIZIA, UNO SPORTELLO SEMPRE PIÙ "UNICO” (Geometra
Orobico n. 4/2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
Fondazione De Iure Publico,
IL TRASFERIMENTO DEI DIRITTI EDIFICATORI: PROFILI FISCALI
(Geometra Orobico n. 4/2012). |
EDILIZIA PRIVATA:
Fondazione De Iure Publico,
RECUPERO A FINI ABITATIVI DEI SOTTOTETTI: DISTANZE ED
EFFICIENZA ENERGETICA (Geometra Orobico n. 3/2012). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Fondazione De Iure Publico,
QUANTO AL DOVERE DI ASTENSIONE DEI CONSIGLIERI COMUNALI
(Art. 78, Comma 2, d.lgs. n. 267/2000–TUEL) NELLA VOTAZIONE
DEL PIANO DI GOVERNO DEL TERRITORIO (PGT) DI CUI ALLA L.R.
LOMBARDIA N. 12/2005 (Geometra Orobico n. 3/2012). |
UTILITA' |
SICUREZZA LAVORO: Come
redigere un POS (Piano Operativo di Sicurezza): dal CPT di
Firenze un modello versatile.
Il POS è il documeno in cui sono contenute tutte le misure
di prevenzione e protezione da adottare nelle attività di
cantiere al fine di salvaguardare la salute e l'incolumità
fisica dei lavoratori.
Il Testo Unico per la Sicurezza (D.Lgs. 81/2008) prevede
l'obbligo del datore di lavoro di un’impresa esecutrice di
redigere il POS (Piano Operativo di Sicurezza) con i
contenuti minimi previsti all’Allegato XV e l’onere per il
coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione di
verificare l’idoneità di questo documento.
In allegato all’articolo proponiamo uno schema di POS,
elaborato dal Comitato Paritetico Territoriale per la
sicurezza sul lavoro (CPT) di Firenze.
Il documento rappresenta uno strumento versatile a
disposizione di tutti gli operatori del settore (imprese,
committenti e coordinatori) improntato alla praticità,
all’efficacia e alla concretezza.
In esso vengono schematizzate sinteticamente tutte le
informazioni e le misure di sicurezza da inserire nel POS.
Il modello contiene le seguenti sezioni:
●
anagrafica dell’impresa (soggetti interessati, interventi
formativi ed informativi)
●
dati relativi al cantiere e ai lavori da eseguire
●
soggetti di riferimento per la sicurezza
●
indicazione delle lavorazioni affidate in subappalto
●
elenco delle lavorazioni
●
elenco dei ponteggi, dei ponti su ruote o altre opere
provvisionali, delle macchine o attrezzature che si
utilizzeranno in cantiere
●
elenco dei DPI (Dispositivi di protezione individuale)
forniti ai lavoratori
●
caratteristiche dell’impianto elettrico
●
elenco delle sostanze e prodotti pericolosi che saranno
utilizzati
●
scheda tipo della fase di lavorazione (descrizione,
individuazione dei rischi, modalità di gestione della fase
lavorativa e misure di prevenzione, D.P.I. necessari)
(28.03.2013 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazioni edilizie: Iva al 10% ecco quando si applica
(27.03.2013 - link a www.leggioggi.it). |
ENTI LOCALI -
VARI:
Rassegna della giurisprudenza penale
di legittimità - La giurisprudenza delle Sezioni Unite e le
principali linee di tendenza della Corte di cassazione -
anno 2012 (Corte di Cassazione, Ufficio del
Massimario, 17.01.2013). |
ENTI
LOCALI - VARI:
Rassegna della giurisprudenza di legittimità - Gli
orientamenti delle Sezioni Civili - anno 2012 (Corte di
Cassazione, Ufficio del Massimario,
volume I +
volume II -
07.01.2013). |
QUESITI & PARERI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Le convenzioni.
DOMANDA:
Il comma 2 dell’art. 6 del decreto sviluppo-bis ha
espressamente previsto che, a far data dal 01.01.2013,
gli accordi tra pubbliche amministrazioni (art. 15, comma 2l,
della legge 07.08.1990, n. 241 “(…) sono sottoscritti con
firma digitale, ai sensi dell'articolo 24 del decreto
legislativo 07.03.2005, n. 82, con firma elettronica
avanzata, ai sensi dell'articolo 1, comma 1, lettera q-bis),
del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, ovvero con
altra firma elettronica qualificata, pena la nullità degli
stessi".
Dagli elementi offerti dal diritto positivo sembra desumersi
che la disciplina degli accordi di cui all’articolo 15,
comma 1 della Legge 07.08.1990, n. 241 faccia riferimento
a moduli consensuali che costituiscono il quadro di
riferimento normativo generale per tutte le altre figure di
accordo specificamente disciplinate nell’ambito
dell’ordinamento degli enti locali.
In questa prospettiva si chiede conferma circa la necessità
di assoggettate le convenzioni ex art. 30 TUEL alle
previsioni del comma 2 dell’art. 6 del decreto sviluppo-bis.
RISPOSTA:
Il comma 2 dell’art. 6 del d.l. 179/2012 convertito dalla
legge 221/2012 ha inserito un secondo comma all'art. 15
della legge 241/1990 per cui a fare data dal 01.01.2013
gli accordi tra pubbliche amministrazioni per disciplinare
lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse
comune sono sottoscritti con firma digitale o con firma
elettronica avanzata, ai sensi del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, pena la nullità degli stessi. Oltre
all’art. 15 della legge 241/1990, nel nostro panorama
giuridico, sono presenti anche numerosi altri istituti di
diritto positivo, particolarmente nell’ordinamento degli
enti locali, che disciplinano gli accordi tra pubbliche
amministrazioni.
In dottrina si è molto discusso sui questi
diversi regimi e sulla loro interdipendenza anche al fine di
ricercare eventuali principi di carattere generale capaci di
ricostruire una figura che potesse integrare e completare la
disciplina giuridica definita positivamente per ciascuna
figura. Secondo la dottrina la disciplina prevista
dall’articolo 15 della legge 241/1990 definirebbe una
fattispecie di carattere generale suscettibile di
integrazioni e precisazioni da parte di normative specifiche
quali quelle relative a istituti presenti nella legislazione
degli enti locali.
Conseguentemente qualsiasi accordo tra
enti pubblici, stipulato nell’esercizio di poteri
pubblicistici, rientra all’interno del genus enucleato
all’art. 15 della L. 241/1990 ed è, perciò, sottoposto alla
stessa disciplina, fatte salve, ovviamente, le deroghe che
si possano desumere dalla peculiare normativa applicabile.
Sulla base di questo principio l’obbligo di sottoscrivere
gli accordi con firma digitale, pena la nullità degli
stessi, si estenderebbe a qualsiasi tipo di accordo tra enti
pubblici compresi agli accordi di programma previsti
dall’art. 34 del Tuel e soprattutto le convenzioni stipulate
tra enti locali per la gestione di servizi o per la
costituzione di consorzi, unioni di comuni, previste dagli
artt. 30, 31, 32 e 33 del Tuel.
Sicuramente questa
interpretazione trova anche la sua motivazione nel contesto
normativa di riferimento. L’art. 6 del d.l. 179/2012 è
compreso nella sezione del decreto definita ”Amministrazione
digitale e dati di tipo aperto” e la maggior parte delle
disposizioni del decreto 179/2012 sono rivolte a stimolare e
obbligare le pubbliche amministrazioni ad un maggior
utilizzo delle procedure informatiche e per un contenimento
della spesa pubblica e soprattutto per un recupero del
divario tecnologico con le altre nazioni.
Tuttavia la
formulazione letterale dell’art 6, 2° comma del d.l.
179/2012 e l’assenza di riferimenti specifici ad altri tipi
di accordi, convincono, al momento, per dare una
interpretazione più restrittiva alla disposizione normativa
ritenendo l’obbligo limitato ai soli accordi sottoscritti
esclusivamente ai sensi dell’art. 15 della legge 241/1990,
in attesa di chiarimenti specifici e di interpretazioni
giurisprudenziali.
E’ però auspicabile anzi doveroso che le
pubbliche amministrazioni ed in particolare gli enti locali,
senza costrizione, ma manifestando volontà di cambiamento e
spirito di innovazione, si attivino e fin da subito
sottoscrivano convenzioni, contratti e accordi
esclusivamente con firma digitale ai sensi del decreto
legislativo 07.03.2005, n. 82 (28.03.2013 - tratto
da www.ancirisponde.ancitel.it). |
APPALTI:
Partecipazione a pubblica gara: difformità del modulo
rispetto al bando, quali le conseguenze?
Domanda.
Nel caso in cui il partecipante ad una pubblica gara produca
alla stazione appaltante la documentazione amministrativa
prevista nel bando redigendola su appositi formulari
prestampati dalla stessa ed allegati al disciplinare di
gara, i quali risultino poi incompleti e irregolari, non per
errori del compilatore, ma per discrasie tra le previsioni
del bando ed i facsimile prestampati dall'Amministrazione
stessa, la stazione appaltante deve disporre l'esclusione
del concorrente per violazione della lex specialis e,
quindi, per garantire il rispetto della par condicio e la
stretta osservanza di esplicite prescrizioni di gara?
Risposta.
Il modulo, nel linguaggio corrente, è un foglio di carta
prestampato, talora predisposto per la lettura ottica, che
l'interessato distribuisce agli offerenti e che costoro
devono compilare. In tal modo -e tale sembra essere
l'utilità della eventuale prescrizione di un bando di gara
che ne prescriva l'impiego- si costringono gli aspiranti a
recarsi presso la committenza in un momento preciso -e non
prima- per ritirare il modulo prima di formulare l'offerta,
e si evitano possibili frodi.
In questi casi, la eventuale difformità del modulo rispetto
alle prescrizioni del bando non può che essere imputabile
alla stazione appaltante. Considerato che la predisposizione
di un modulo per la domanda di partecipazione ad una gara
d'appalto e la richiesta di compilare la domanda in modo
conforme a detto modello ingenerano nel partecipante, oltre
che un dovere, un affidamento, è onere della P.A. verificare
che il modello sia predisposto in modo conforme e coerente
con gli obblighi previsti dal bando, soprattutto quando le
dichiarazioni contenute nel modello sono richieste a pena di
esclusione (TAR Puglia-Lecce Sez. II, 08.06.2006, n. 3290).
Nell'ipotesi in cui il concorrente abbia compilato un modulo
di domanda e di dichiarazione allegate al bando ed al
disciplinare messi a disposizione della stazione appaltante,
nei quali non era assunto l'obbligo, esplicitamente previsto
nel bando, di costituire ATI in caso di aggiudicazione, ciò
non può comportare la sua esclusione. Infatti, se una
incongruenza vi è stata tra il bando ed il modulo questa non
può che essere imputata alla Pubblica Amministrazione in
base al principio di correttezza, buona fede, trasparenza e
certezza dei rapporti.
Ne deriva che, se l'Amministrazione avesse escluso la
concorrente sulla base di un proprio errore nella
predisposizione dei moduli, che la ditta ha dovuto
obbligatoriamente compilare, avrebbe posto in essere una
condotta illegittima e senz'altro censurabile. Sul punto la
Giurisprudenza Amministrativa ha chiarito che, in
applicazione dei principi di favor partecipationis e
di tutela dell'affidamento, non può procedersi
all'esclusione di un'impresa nel caso in cui questa abbia
compilato l'offerta in conformità al modulo all'uopo
approntato dalla stazione appaltante (Cons. Stato sez. VI,
10.11.2004, n. 7278).
D'altro canto si osserva che la lex specialis della
gara d'appalto risulta costituita, non solo, dalle espresse
previsioni contenute nel bando di gara, nella lettera
d'invito e nel capitolato, ma anche dal complesso normativo
presupposto e richiamato da questi ultimi, oltre che dalle
regole ermeneutiche che la stazione appaltante ha posto in
essere nel momento antecedente la valutazione delle offerte.
In sede di predisposizione del bando di gara, infatti,
l'amministrazione può motivatamente integrare o sostituire
le clausole contenute negli schemi di bandi-tipo nel caso di
lacune nello schema o difformità rispetto alla normativa
(TAR Puglia-Lecce, sez. II, 10.07.2007, n. 2716).
Differente è invece l'ipotesi in cui la stazione appaltante
predispone uno schema, ovvero un facsimile del contenuto
dell'offerta, che ogni concorrente deve ricopiare di sua
iniziativa, completandolo con i dati a lui richiesti.
In tal caso, è ovvio che fra lo schema e l'offerta non vi
sarà mai perfetta congruenza. Ne deriva che in caso di
difformità tra la domanda presentata dal concorrente e le
prescrizioni del bando può residuare, in concreto, una
responsabilità del privato laddove le prescrizioni del bando
fossero precise e puntuali e lo schema predisposto sia
piuttosto generico, lasciando ampi margini di compilazione
al partecipante.
Ancora diversa è l'ipotesi in cui il concorrente non si
attenga allo schema predisposto dalla stazione appaltante,
ma rediga una sua domanda di partecipazione, diversa dal
fac-simile, sebbene conforme alle prescrizioni di bando.
Il TAR Lombardia-Brescia Sez. I Sent., 16.11.2007, n. 1263
ha ritenuto illegittima l'esclusione dalla gara disposta
dalla stazione appaltante, perché la domanda di
partecipazione era stata redatta non utilizzando lo schema
allegato, ma su propria carta intestata che riproduceva il
contenuto dello schema, ad esclusione dell'indicazione
numerica dei punteggi attribuibili a ciascun elemento.
Un'interpretazione estensiva, che assimilasse i due concetti
di modulo e di schema, si risolverebbe nel restringere la
partecipazione alle gare, e quindi non è sostenibile in base
al principio generale di massima partecipazione.
Successivamente, questo principio di elaborazione
giurisprudenziale è stato mutuato dall'art. 74, comma 3, del
D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 -come modificato dall'art. 2 del
D.Lgs. 31.07.2007, n. 113 e successivamente dall'art. 2,
comma 1, lettera o), del D.Lgs. 11.09.2008, n. 152- che
stabilisce che "Salvo che l'offerta del prezzo sia
determinata mediante prezzi unitari, il mancato utilizzo di
moduli predisposti dalle stazioni appaltanti per la
presentazione delle offerte non costituisce causa di
esclusione" (26.03.2013 - tratto da
www.ipsoa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocato
e preventivo.
Domanda
Chiediamo conferma in seguito a dibattito nato tra colleghi
in studio: sussiste l'obbligo per l'avvocato di proporre
preventivo scritto al cliente?
Risposta
No, non esiste un obbligo generalizzato, ma solo laddove il
cliente ne faccia esplicita richiesta.
Come chiarito all'art. 13, comma 5 della legge 247/2012,
infatti, «il professionista è tenuto, nel rispetto del
principio di trasparenza, a rendere noto al cliente il
livello della complessità dell'incarico, fornendo tutte le
informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento
del conferimento alla conclusione dell'incarico; a richiesta
è altresì tenuto a comunicare in forma scritta a colui che
conferisce l'incarico professionale la prevedibile misura
del costo della prestazione, distinguendo fra oneri, spese,
anche forfetarie, e compenso professionale» (articolo ItaliaOggi Sette
del 25.03.2013). |
LAVORI PUBBLICI: Sponsor
e sponsee.
Domanda
Contributo in forma di servizi per il restauro di un
monumento, all'interno di un contratto con l'amministrazione
locale che riprodurrà il marchio dell'azienda specializzata
nella gestione del servizio: è inequivocabilmente
configurabile come sponsorizzazione?
Risposta
Sì, la fattispecie descritta pare configurarsi in modo
chiaro come sponsorizzazione.
Infatti, come chiarito all'articolo 120 del Codice dei beni
culturali e del paesaggio «è sponsorizzazione di beni
culturali ogni contributo, anche in beni o servizi, erogato
per la progettazione o l'attuazione di iniziative in ordine
alla tutela ovvero alla valorizzazione del patrimonio
culturale, con lo scopo di promuovere il nome, il marchio,
l'immagine, l'attività o il prodotto dell'attività del
soggetto erogante».
Perciò l'amministrazione locale citata
si configura come sponsee e l'azienda erogante il servizio,
in cambio dell'associazione del marchio all'iniziativa, come
sponsor (articolo ItaliaOggi Sette del
25.03.2013). |
CONDOMINIO: Sottotetto
esclusivo.
Domanda
In base a quali elementi, in caso di dissapori, è possibile
stabilire se un sottotetto di un edificio condominiale sia
bene comune o parte privata esclusiva?
Risposta
Quello proposto è un tema che spesso costituisce oggetto di
divergenze fra condomini e in ordine al quale si è pertanto
formata una significativa giurisprudenza anche a livello di
Corte di cassazione. In effetti, anche di recente la suprema
corte si è dovuta occupare di un contenzioso di questo tipo
e lo ha risolto (sent. 12840/2012) confermando le sentenze
dei primi due gradi di merito ma, soprattutto, ribadendo e
richiamando il consolidato orientamento formatosi presso di
essa. In pratica, il principio di diritto da seguire è che
l'appartenenza del sottotetto (e, nel caso da ultimo
esaminato, anche di una terrazza, entrambi condominiali) va
determinata in base al titolo di provenienza.
In mancanza o nel silenzio di questo, non essendo il
sottotetto compreso nel novero delle parti comuni
dell'edificio essenziali per la sua esistenza o necessarie
all'uso comune (art. 1117 c.c.) la presunzione di comunione
ai sensi del predetto articolo è applicabile solo nel caso
in cui il vano, per le sue caratteristiche strutturali e
funzionali, risulti oggettivamente destinato all'uso comune
o a un servizio di interesse condominiale. Nel caso, oggetto
della sentenza, ciò è stato escluso, considerato che dalle
verifiche compiute si era anche rilevato che l'appartamento
era collegato al sottotetto, non abitabile, da una scala
interna e che a quest'ultimo non si poteva accedere da altro
ingresso.
Pertanto, in casi come questo i giudici sono ormai soliti
valorizzare la funzione del sottotetto di mera camera
d'aria, volta a proteggere l'appartamento sottostante dal
caldo e dal freddo, escludendo la natura condominiale del
bene (articolo ItaliaOggi Sette
del 25.03.2013). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Gli incentivi per la progettazione.
Domanda
Il servizio istante sta approntando il
capitolato speciale di appalto per il servizio di raccolta e
spazzamento rifiuti solidi urbani nell’intero territorio
comunale.
Si vuole sapere se nel quadro economico del progetto è
possibile inserire gli incentivi ex art. 92 del decreto
legislativo n. 163/2006 e regolamento regionale in quanto un
comune di questa provincia ha incluso nel quadro di somme a
disposizione l’importo dell’incentivo.
Risposta
Come si evince dal tenore letterale delle stesse
disposizioni di cui all’art. 92 del Codice dei contratti
pubblici, il compenso incentivante ivi previsto non può che
riferirsi al settore della progettazione di opere o lavori
pubblici (comma 1) o alle ipotesi di attività di
pianificazione nei termini e modi ivi stabiliti (comma 2; si
veda l’applicazione di tale comma, da ultimo, il recente
parere della Corte dei conti n. 290/2012).
Trattandosi di norma eccezionale e quindi di stretta
applicazione, si ritiene che non possa trovare applicazione
estensiva in genere al settore degli appalti o concessione
di servizi, tra cui rientra sicuramente anche quello di
raccolta e spazzamento di rifiuti solidi urbani indicato nel
quesito.
Come ribadito infatti più volte in giurisprudenza (cfr.
sezione regionale di controllo per la Campania, parere
10.07.2008 n. 14) “le disposizioni di cui all’art. 92 del
Dlgs n. 163/2006 (che per la loro puntualità descrittiva non
sono suscettibili di interpretazione analogica) trovano
applicazione unicamente in materia di lavori pubblici, per i
casi in cui il comune agisca in veste di amministrazione
aggiudicatrice di un’opera o di un lavoro rientrante in una
delle ipotesi richiamate all’art. 3 del medesimo decreto”.
Anche con il parere n. 14/2008 la sezione regionale di
controllo per la Campania ha ribadito che: “Le
disposizioni di cui all’art. 92 del Dlgs n. 163/2006 (che
per la loro puntualità descrittiva non sono suscettibili di
interpretazione analogica) trovano applicazione unicamente
in materia di lavori pubblici, per i casi in cui il comune
agisca in veste di amministrazione aggiudicatrice di
un’opera o di un lavoro rientrante in una delle ipotesi
richiamate all’art. 3 del medesimo decreto”.
Anche la sezione regionale di controllo per la Toscana, con
il parere 18.10.2011 n. 213, ha specificato che lo stesso
comma 6 dell’art. 92 prevede che l’incentivo alla
progettazione venga ripartito “tra i dipendenti
dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”
e, dunque, è di palmare evidenza come il riferimento
normativo e la conseguente ‘voluntas legis’ sia
ascrivibile solo alla materia dei lavori pubblici,
presupponendosi una procedura ad evidenza pubblica
finalizzata alla realizzazione di un’opera di pubblico
interesse (Corte dei conti, sez. controllo Puglia, parere
16.01.2012 n. 1) (tratto da Guida al Pubblico Impiego n.
3/2013). |
APPALTI: Oggetto:
Quesiti sull'applicazione dell'art. 11, comma 13, del
decreto legislativo n. 163 del 2006 come modificato
dall'art. 6, comma 3, del D.L. 179 del 2012 sulle modalità
di stipulazione dei contratti pubblici
(Ministero per la Pubblica Amministrazione e la
Semplificazione,
nota 28.02.2013 n. 77 di prot.).
---------------
Il Capo dell'Ufficio Legislativo del Ministro risponde
all'ANCE in ordine ai seguenti cinque interrogativi:
1)
se la disposizione dell'art. 11, comma 13, del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, come modificato dall'art. 6,
comma 3, del decreto-legge n. 179 del 2012, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 221 del 2012, preveda come
obbligatorio il ricorso alle modalità elettroniche in caso
di utilizzo della forma amministrativa ovvero della
scrittura privata;
2) cosa si
deve intendere per "modalità elettroniche" e, in
particolare, se occorre ricorrere alla firma digitale;
3) se la
previsione di cui all'art. 11, comma 13, del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, come modificato dall'art. 6,
comma 3, del decreto-legge n. 179 del 2012, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 221 del 2012 implichi anche
l'utilizzo di modalità elettroniche per la registrazione e
conservazione dei contratti;
4) se in
mancanza di firma digitale da parte dell'aggiudicatario del
contratto, possa ricorrersi all'autenticazione della firma
mediante acquisizione digitale della sottoscrizione
autografa (scannerizzazione e attestazione del pubblico
ufficiale);
5) se sia
opportuno che la stazione appaltante porti a conoscenza dei
concorrenti la forma di sottoscrizione del contratto
prescelta e le modalità elettroniche previste. |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI: Spending
review. Corte dei conti. Fondi legittimi ai servizi
generali.
IL VINCOLO/ Il divieto di contributi si applica solo a
fondazioni e società che svolgono servizi diretti all'ente
di riferimento.
Il divieto per le pro loco, le fondazioni, le società
e le associazioni che forniscono servizi (anche gratuiti)
alla pubblica amministrazione, di ricevere contributi
pubblici, si applica solo se i servizi offerti sono rivolti
direttamente all'ente pubblico. Il blocco, al contrario, non
opera nei casi in cui le attività sono svolte direttamente a
favore dei cittadini.
La lettura più favorevole della norma della spending
review (articolo 4, comma 6, del Dl 95/2012), arriva
dalla Corte dei conti Sezione di controllo per la Lombardia,
parere 14.03.2013 n. 89,
in risposta al quesito di un Comune comasco.
Il divieto di cumulo fra prestazioni di servizi e contributi
a carico delle finanze pubbliche, entrato in vigore dal 1°
gennaio di quest'anno, sta facendo riorganizzare l'attività
degli uffici cultura e turismo, di Comuni e Province.
Alla luce dell'importante chiarimento offerto dai magistrati
contabili occorre esaminare le convenzioni concretamente
stipulate dalle associazioni, pro loco, fondazioni per
desumere la compatibilità con il divieto e, quindi, con la
possibilità di ricevere contributi pubblici. Il discrimine,
secondo i magistrati contabili lombardi, è individuato sulla
base del soggetto al quale è reso il servizio: il divieto
opera se il beneficiario è l'ente pubblico, mentre non si
estende quando i fruitori sono i cittadini (collettività
amministrata), seppure si rientri sempre nell'ambito delle
finalità istituzionali dell'ente locale.
Va ricordato che la norma, nel testo convertito, ha escluso
dal divieto sia alcuni settori di attività, sia alcune
tipologie di enti. Non si applica ai settori dei servizi
socio-assistenziali, dei beni e attività culturali,
dell'istruzione e della formazione, associazioni
rappresentative, di coordinamento e di supporto degli enti
territoriali e locali. Sono inoltre escluse: associazioni di
promozione sociale (legge 383/2000); enti di volontariato
(legge 266/1991); Ong (legge 49/1987); cooperative sociali
(legge 381/1991); associazioni sportive dilettantistiche
(legge 289/2002).
Certamente le pro loco iscritte come associazioni di
promozione sociale non subiscono alcuna limitazione da parte
di questa norma della spending review.
Un'altra novità è prevista a partire dal 01.01.2014 e
riguarda il divieto di affidamenti diretti di beni e
servizi. Con esclusione (oltre che delle società in house)
dei casi di affidamenti e acquisizioni in via diretta di
beni e servizi, per importi massimi di 200mila euro annui,
da associazioni di promozione sociale, dagli enti di
volontariato, dalle associazioni sportive dilettantistiche,
dalle organizzazioni non governative e dalle cooperative
sociali. Per l'affidamento di servizi per importi superiori
a tale cifra, le pubbliche amministrazioni saranno obbligate
ad affidare il servizio tramite bando di gara. Gli
affidamenti già in essere, infine, varranno fino alla
scadenza naturale e, comunque, fino al 31.12.2014
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.03.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Pagamenti
illegittimi per la Corte dei conti.
Catasto, per le città planimetrie gratis.
CODICE DELLA PA DIGITALE/
Il Territorio può chiedere compensi solo per «costi
eccezionali» connessi a servizi finalizzati a particolari
esigenze.
La Corte dei Conti dell'Emilia Romagna (parere
31.01.2013 n. 37)
ribadisce l'obbligo per le amministrazioni di rendere
accessibili i dati ogni volta che siano necessari per lo
svolgimento di compiti istituzionali di un'altra
amministrazione, senza oneri a carico di quest'ultima.
Alla Corte dei Conti si sono rivolti alcuni Comuni per avere
conferma della legittimità dei pagamenti pretesi
dall'agenzia del Territorio per la fornitura in formato
digitale delle planimetrie catastali e degli elaborati
planimetrici delle unità immobiliari urbane.
La richiesta delle planimetrie catastali era motivata con la
necessità di implementare i sistemi informativi comunali,
anche per i controlli urbanistici oltre che per i tributi
locali e per la partecipazione all'accertamento dei tributi
erariali.
La Corte ricorda che l'articolo 50 del Dlgs 82/2005 prevede
che qualunque dato trattato da una Pa, nel rispetto della
normativa sulla protezione dei dati personali, è reso
accessibile e fruibile alle altre amministrazioni, e che
l'articolo 59 precisa che nell'ambito dei dati territoriali
di interesse nazionale rientra la banca dati catastale
gestita dal Territorio (incorporata dal 01.12.2012
nell'agenzia delle Entrate). Le regole per l'utilizzo dei
dati catastali sono state definite con il decreto del
direttore del Territorio del 13.11.2007, nel quale si
precisa che sono a carico della Pa richiedente solo
«eventuali costi eccezionali» sostenuti dall'Agenzia per
realizzare ed erogare servizi specifici connessi a
particolari esigenze.
Il Territorio, per fornire ai Comuni le planimetrie
catastali, chiede la fornitura di un supporto magnetico e
circa 0,20 euro a planimetria. Questa pretesa è stata
ritenuta illegittima dalla Corte in quanto i costi
eccezionali non sono giustificati se connessi alle modalità
di erogazione dei dati e non alla peculiare natura del
servizio richiesto.
Il tema della fruibilità e della gratuità dei dati è stato
affrontato molteplici volte dal legislatore, e da ultimo
anche in fatto di Tares, laddove l'articolo 14 del Dl
201/2011 prevede al comma 37 che i Comuni possano richiedere
dati e notizie a uffici pubblici oppure a enti di gestione
di servizi pubblici in esenzione da spese e diritti.
Sarebbe però necessario affrontare in modo organico una
volta per tutte questo problema, e non solo con riferimento
alle banche dati gestite dalle Pubbliche amministrazioni ma
anche alle banche dati pubbliche gestite in modo
privatistico, quali il registro nazionale delle imprese,
gestito da Infocamere, e soprattutto l'archivio della
motorizzazione, gestito da Aci e Motorizzazione, il cui
accesso è pagato dai Comuni a caro prezzo (articolo Il Sole 24 Ore del
25.03.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Con riferimento a quegli enti che nel corso dell’anno 2009
non hanno sostenuto alcuna spesa a titolo di incarichi per
studi e consulenze questa Sezione ha avuto modo di osservare
che
<<la ratio sottesa alla legge statale in esame è quella
di rendere operante, a regime, una riduzione della spesa per
gli incarichi di consulenza e di studio; tuttavia, il
Legislatore non ha inteso vietare agli enti locali la
possibilità di conferire incarichi esterni quando ne
ricorrono i presupposti di legge.
In questo senso, verrebbe
disattesa la finalità perseguita dal legislatore per quegli
enti locali che nel corso dell’anno 2009 non hanno sostenuto
alcuna spesa a titolo di incarichi per studi e consulenze;
infatti, se si adottasse una interpretazione letterale, si
finirebbe per ritenere che la norma de qua fissa un divieto
assoluto alla stipula di questa tipologia di contratti.
Diversamente, interpretando la norma in chiave funzionale
–ovvero, valorizzando che la finalità della norma è quella
di ridurre l’incidenza che questa tipologia di spesa ha sui
bilanci degli enti locali e non quella di vietare agli enti
medesimi di conferire incarichi esterni quando vi sussistono
i presupposti di legge- si deve giungere alla conclusione
che la norma de qua, per quegli enti locali che nel corso
dell’anno 2009 non hanno sostenuto alcuna spesa a titolo di
incarichi per studi e consulenze, va applicata individuando
un diverso parametro di riferimento.
D’altra parte, se non
si adottasse questa interpretazione, la riduzione “lineare”
prevista dall’art. 6, comma 7, cit. finirebbe per premiare
gli enti meno virtuosi che, nel corso dell’anno 2009, hanno
sostenuto una spesa per consulenze rilevante; al contrario,
si tradurrebbe in un divieto assoluto per gli enti più
virtuosi che, quello stesso anno, hanno sostenuto una spesa
pari a zero>>.
---------------
Il Sindaco del Comune di Botticino ha posto alla Sezione
un quesito in ordine all’applicazione della disciplina in
materia di conferimento di incarichi di consulenza e, più in
particolare, sulla portata dell'articolo 6, comma 7, del
D.L. n. 78/2010 che prevede che le Pubbliche Amministrazioni
(tra cui rientrano anche i Comuni) possano, per l'anno in
corso, conferire incarichi di consulenza, nel limite del 20%
della spesa effettivamente sostenuta nell'anno 2009.
...
La richiesta di parere concerne l’esegesi dell’art. 6, comma
7, del d.l. n. 78/2010 (convertito nella l. n. 122/2010) che
recita: <<al fine di valorizzare le professionalità
interne alle amministrazioni a decorrere dall’anno 2011 la
spesa annua per studi ed incarichi di consulenza, inclusa
quella relativa a studi ed incarichi di consulenza conferiti
a pubblici dipendenti, sostenuta dalle pubbliche
amministrazioni di cui al comma 3 dell’art. 1 della legge
31.12.2009 n. 196, incluse le autorità indipendenti, escluse
le università, gli enti e le fondazioni di ricerca e gli
organismi equiparati nonché gli incarichi di studio e di
consulenza connessi ai processi di privatizzazione e alla
regolamentazione del settore finanziario, non può essere
superiore al 20 per cento di quella sostenuta nell’anno
2009. L’affidamento di incarichi in assenza dei presupposti
di cui al presente comma costituisce illecito disciplinare e
determina responsabilità erariale. Le disposizioni di cui al
presente comma non si applicano alle attività sanitarie
connesse con il reclutamento, l’avanzamento e l’impiego del
personale delle Forze Armate, delle Forze di polizia e del
Corpo nazionale dei vigili del fuoco>>.
Nella richiesta di parere il sindaco rappresenta che <<nell'anno
2009 la spesa sostenuta dal Comune di Botticino per il
conferimento di incarichi di consulenza fu di € 13.000,00;
il limite normativamente stabilito per l'anno in corso,
quindi, è di € 2.600,00; quanto sopra come comunicato dal
servizio Finanziario dell'Ente>>.
In particolare,
l’ente locale chiede se il limite di spesa
stabilito dalla norma innanzi richiamata, <<possa essere
motivatamente derogato, in quanto: si tratta di conferire un
parere ad un legale specializzato in materia di
contrattualistica e procedimenti in materia di coltivazione
di cave; l'incarico deve essere conferito per individuare la
corretta procedura finalizzata a conseguire il valore
economico maggiore a favore della Amministrazione Comunale
e, nel contempo, rispettare il ruolo di ente coinvolto nel
procedimento di formazione del piano di coltivazione; data
la specificità della materia, all'interno dell'Ente non vi
sono figure tecnico professionali in grado di effettuare
l'analisi e rilasciare il parere richiesto>>.
Prima di soffermarsi sulla questione ermeneutica prospettata
dall’ente locale istante, occorre tuttavia precisare che la
decisione se procedere o meno ad affidare un incarico di
consulenza legale per una problematica di particolare
difficoltà attiene al merito dell’azione amministrativa e
rientra, ovviamente, nella piena ed esclusiva
discrezionalità e responsabilità dell’ente che potrà
orientare la sua decisione in base alle conclusioni
contenute nel parere che segue.
L’art. 6, comma 7, del d.l. n. 78/2010, pone un chiaro
limite di spesa storicizzato alla frazione di un quinto di
quella sostenuta nel 2009, quale requisito per la
legittimità del conferimento dell’incarico di consulenza e
studio, con un espresso presidio sanzionatorio in termini di
responsabilità erariale e disciplinare. In sede di referto
sulla gestione, la Sezione ha già sottolineato, in merito a
questa norma, che
il superamento del vincolo di spesa e la violazione del
regime restrittivo si traduce in una violazione di legge,
costituendo vizio di validità del provvedimento
amministrativo, motivo per l’annullamento d’ufficio
dell’atto di affidamento sotto il profilo amministrativo,
illecito disciplinare e causa di responsabilità erariale
(delibera
13.12.2010 n. 1051 – indagine sul fenomeno degli
incarichi di consulenza e di collaborazione autonoma
affidati dagli enti locali della Lombardia nell’anno 2009).
In sede consultiva, questa Sezione ha poi precisato che <<come
emerge dal tenore letterale della norma, la portata della
disposizione limitativa concerne gli incarichi per studi e
consulenze, senza ricomprendere né quelli di ricerca né le
altre collaborazioni autonome>> (Lombardia/68/2011/PAR
del 07.02.2011).
Ad ogni modo, la richiesta di parere formulata dal sindaco
del Comune di Bottino ha ad oggetto un incarico di
consulenza legale per una problematica di particolare
difficoltà, per cui la fattispecie rientra nell’ambito
applicativo della norma in esame. Infatti, <<la
giurisprudenza contabile (sin dalla deliberazione SS.RR. in
sede di controllo n. 6 del 15.02.2005) ha fornito
un’articolata definizione degli istituti oggetto del limite
di spesa: per gli incarichi di studio il riferimento è
all’articolo 5 D.P.R. n. 338/1994 che richiede sempre la
consegna di una relazione scritta espositiva della soluzione
proposta al fine di orientare la successiva attività
dell’ente, mentre le consulenze si sostanziano nella
richiesta di parere ad un esperto esterno. Queste ultime
possono assumere un vario contenuto (ad es. soluzione di
questioni e problemi controversi, consulenze legali
stragiudiziali, tecniche, tributarie e contabili), sfociando
anche in valutazioni, espressioni di giudizi e supporti
specialistici>> (Lombardia/68/2011/PAR del 07.02.2011).
Con riferimento a quegli enti che nel corso dell’anno 2009
non hanno sostenuto alcuna spesa a titolo di incarichi per
studi e consulenze questa Sezione ha avuto modo di osservare
<<la ratio sottesa alla legge statale in esame è quella
di rendere operante, a regime, una riduzione della spesa per
gli incarichi di consulenza e di studio; tuttavia, il
Legislatore non ha inteso vietare agli enti locali la
possibilità di conferire incarichi esterni quando ne
ricorrono i presupposti di legge. In questo senso, verrebbe
disattesa la finalità perseguita dal legislatore per quegli
enti locali che nel corso dell’anno 2009 non hanno sostenuto
alcuna spesa a titolo di incarichi per studi e consulenze;
infatti, se si adottasse una interpretazione letterale, si
finirebbe per ritenere che la norma de qua fissa un divieto
assoluto alla stipula di questa tipologia di contratti.
Diversamente, interpretando la norma in chiave funzionale
–ovvero, valorizzando che la finalità della norma è quella
di ridurre l’incidenza che questa tipologia di spesa ha sui
bilanci degli enti locali e non quella di vietare agli enti
medesimi di conferire incarichi esterni quando vi sussistono
i presupposti di legge- si deve giungere alla conclusione
che la norma de qua, per quegli enti locali che nel corso
dell’anno 2009 non hanno sostenuto alcuna spesa a titolo di
incarichi per studi e consulenze, va applicata individuando
un diverso parametro di riferimento. D’altra parte, se non
si adottasse questa interpretazione, la riduzione “lineare”
prevista dall’art. 6, comma 7, cit. finirebbe per premiare
gli enti meno virtuosi che, nel corso dell’anno 2009, hanno
sostenuto una spesa per consulenze rilevante; al contrario,
si tradurrebbe in un divieto assoluto per gli enti più
virtuosi che, quello stesso anno, hanno sostenuto una spesa
pari a zero>> (Lombardia, parere n. 227/2011; in senso
contrario Sez. contr. Piemonte delibera n. 21/2012/SRCPIE/PAR
dell’08.03.2012).
Nel caso di specie, tuttavia, l’interpretazione in chiave
funzionale sin qui prospettata –ovvero, volta a limitare le
spese per incarichi di collaborazione esterna e non ad
eliminare detta voce di spesa dal bilancio degli enti
locali- non può trovare spazio. Infatti, nella richiesta di
parere il sindaco rappresenta che <<nell'anno 2009 la
spesa sostenuta dal Comune di Botticino per il conferimento
di incarichi di consulenza fu di € 13.000,00>>.
In conclusione, con riferimento alla fattispecie
rappresentata dal Comune di Botticino,
il parametro di
riferimento per poter applicare il limite di spesa fissato
dall’art. 6, comma 7, del d.l. n. 78/2010 è di facile
individuazione in quanto l’ente locale, nel corso dell’anno
del 2009, ha sostenuto spese per incarichi di studio e di
consulenza; conseguentemente trova applicazione il vincolo
di finanza pubblica nei termini posti dal legislatore,
ovvero secondo il parametro del 20 per cento della spesa
sostenuta nell’anno 2009
(Corte dei Conti, Sez. controllo
Lombardia,
parere 28.03.2012 n. 88). |
INCARICHI PROFESSIONALI: La
Sezione ha già sottolineato in merito a questa norma (ndr:
art. 6, comma 7, del d.l. n. 78/2010, convertito nella l. n.
122/2010) che
il superamento del vincolo di spesa e la violazione del
regime restrittivo si traduce in una violazione di legge,
costituendo vizio di validità del provvedimento
amministrativo, motivo per l’annullamento d’ufficio
dell’atto di affidamento sotto il profilo amministrativo,
illecito disciplinare e causa di responsabilità erariale.
Come emerge dal tenore letterale della norma,
la portata della disposizione limitativa concerne gli
incarichi per studi e consulenze, senza ricomprendere
né quelli di ricerca né le altre collaborazioni
autonome.
Laddove l’incarico conferito dalla Pubblica Amministrazione
al soggetto terzo si configuri stricto sensu quale
consulenza o studio, la Sezione non ritiene possibile
individuare in via interpretativa tipologie di esclusione
dal tetto di spesa ex art. 6, comma 7, d.l. 78/2010,
valorizzando ad esempio “l’autofinanziamento”
dell’attività, atteso il chiaro tenore precettivo della
disposizione e la puntuale individuazione legale dei casi di
esclusione.
Invece,
nel caso in cui l’incarico –rientrante nell’ampio genus
delle collaborazioni autonome- non sia sussumibile in
queste due specifiche prestazioni (studio o consulenza),
esso non rientra nel limite di spesa in oggetto: a questo
proposito, infatti, è preferibile valorizzare
un’interpretazione letterale delle attività rientranti nel “tetto
di spesa” in stretto raccordo con l’espresso presidio
sanzionatorio.
---------------
Con nota n. 33012 del 16.12.2010 (prot. c.c. n. 15 del
03.01.2011) il Sindaco del Comune di Garbagnate Milanese (MI)
formula a questa Sezione un quesito in ordine alla deroga al
limite degli incarichi per consulenza.
Nel dettaglio, la Civica Amministrazione chiede se sia
possibile derogare al limite di spese per consulenze
previsto dall’art. 6, comma 7, del d.l. n. 78/2010
convertito nella l. n. 122/2010, ammettendo quelle che
portano ad un incremento delle entrate migliorando il saldo
complessivo tra entrate e spese. Si ipotizza che un ente
debba conferire un incarico professionale con compenso in
percentuale sulle maggiori entrate o economie di spesa
superando, con il preventivo assenso dei revisori, il limite
di cui al d.l. n. 78/2010.
L’organo rappresentativo del Comune si interroga se sia
possibile assimilare tale fattispecie all’esclusione
dall’alveo delle spese per il personale degli incentivi per
il recupero dell’ICI, a fronte dell’autofinanziamento con
l’incremento delle entrate ed il conseguente miglioramento
del saldo complessivo tra entrate e uscite.
L’Amministrazione da ultimo osserva che, opinando in senso
negativo, le finanze comunali patirebbero un significativo
pregiudizio in quanto la limitazione di tali consulenze
comporterebbe la perdita di maggiori entrate o economie di
spesa anche di entità significativa.
...
La richiesta di parere concerne l’esegesi dell’art. 6, comma
7, del d.l. n. 78/2010 (convertito nella l. n. 122/2010) che
statuisce quanto segue: “al fine di valorizzare le
professionalità interne alle amministrazioni a decorrere
dall’anno 2011 la spesa annua per studi ed incarichi di
consulenza, inclusa quella relativa a studi ed incarichi di
consulenza conferiti a pubblici dipendenti, sostenuta dalle
pubbliche amministrazioni di cui al comma 3 dell’art. 1
della legge 31.12.2009 n. 196, incluse le autorità
indipendenti, escluse le università, gli enti e le
fondazioni di ricerca e gli organismi equiparati nonché gli
incarichi di studio e di consulenza connessi ai processi di
privatizzazione e alla regolamentazione del settore
finanziario, non può essere superiore al 20 per cento di
quella sostenuta nell’anno 2009. L’affidamento di incarichi
in assenza dei presupposti di cui al presente comma
costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità
erariale. Le disposizioni di cui al presente comma non si
applicano alle attività sanitarie connesse con il
reclutamento, l’avanzamento e l’impiego del personale delle
Forze Armate, delle Forze di polizia e del Corpo nazionale
dei vigili del fuoco”.
La disposizione pone un chiaro limite di spesa storicizzato
alla frazione di un quinto di quella sostenuta nel 2009,
quale requisito per la legittimità del conferimento
dell’incarico di consulenza e studio, con un espresso
presidio sanzionatorio in termini di responsabilità erariale
e disciplinare.
In sede di referto sulla gestione la Sezione ha già
sottolineato in merito a questa norma che
il superamento del vincolo di spesa e la violazione del
regime restrittivo si traduce in una violazione di legge,
costituendo vizio di validità del provvedimento
amministrativo, motivo per l’annullamento d’ufficio
dell’atto di affidamento sotto il profilo amministrativo,
illecito disciplinare e causa di responsabilità erariale (delibera
13.12.2010 n. 1051 – indagine sul fenomeno degli
incarichi di consulenza e di collaborazione autonoma
affidati dagli enti locali della Lombardia nell’anno 2009).
Come emerge dal tenore letterale della norma,
la portata della disposizione limitativa concerne gli
incarichi per studi e consulenze, senza ricomprendere
né quelli di ricerca né le altre collaborazioni
autonome.
Al fine di cogliere nel concreto i confini di tale summa
divisio tra attività ricomprese ed escluse dall’alveo
dell’art. 6, comma 7, d.l. n. 78/2010, il Collegio rammenta
che la giurisprudenza contabile (sin dalla deliberazione
SS.RR. in sede di controllo n. 6 del 15.02.2005) ha fornito
un’articolata definizione degli istituti oggetto del limite
di spesa: per gli incarichi di studio il riferimento
è all’articolo 5 D.P.R. n. 338/1994 che richiede sempre la
consegna di una relazione scritta espositiva della soluzione
proposta al fine di orientare la successiva attività
dell’ente, mentre le consulenze si sostanziano nella
richiesta di parere ad un esperto esterno. Queste ultime
possono assumere un vario contenuto (ad es. soluzione di
questioni e problemi controversi, consulenze legali
stragiudiziali, tecniche, tributarie e contabili), sfociando
anche in valutazioni, espressioni di giudizi e supporti
specialistici.
Premesse tali generali coordinate ermeneutiche,
laddove l’incarico conferito dalla Pubblica Amministrazione
al soggetto terzo si configuri stricto sensu quale
consulenza o studio, la Sezione non ritiene possibile
individuare in via interpretativa tipologie di esclusione
dal tetto di spesa ex art. 6, comma 7, d.l. 78/2010,
valorizzando ad esempio “l’autofinanziamento”
dell’attività, atteso il chiaro tenore precettivo della
disposizione e la puntuale individuazione legale dei casi di
esclusione.
Invece,
nel caso in cui l’incarico –rientrante nell’ampio genus
delle collaborazioni autonome- non sia sussumibile in
queste due specifiche prestazioni (studio o consulenza),
esso non rientra nel limite di spesa in oggetto: a questo
proposito, infatti, è preferibile valorizzare
un’interpretazione letterale delle attività rientranti nel “tetto
di spesa” in stretto raccordo con l’espresso presidio
sanzionatorio.
Allo stato –ferma la mancanza dei necessari elementi di
fatto per una compiuta cognizione della fattispecie– non
appare agevole inquadrare le attività indicate dal Comune
nell’alveo degli incarichi di consulenza e di studio ut
supra descritti. Nella fattispecie oggetto del quesito,
infatti, sembra venire in emersione una modalità di
provvista dell’apparato comunale per lo svolgimento di
attività nuove o diverse rispetto a quelle ordinarie svolte
dall’ente locale mediante i propri uffici tecnici ed
amministrativi: orbene, queste attività ulteriori non paiono
comunque esaurirsi nella consegna al Comune di una relazione
scritta o nella richiesta di parere o di giudizio ad un
esperto extraneus all’Amministrazione.
Per completezza, si precisa che il conferimento
dell’incarico di collaborazione finalizzato alla provvista
del predetto apparato, benché tale da comportare un saldo
finanziario positivo, deve rispettare puntualmente i
requisiti di legittimità ex art. 7, comma 6, del d.lgs. n.
165/2001 sui quali si è più volte soffermata la
giurisprudenza della Sezione (da ultimo, cfr. la citata
delibera 13.12.2010 n. 1051) (Corte dei Conti, Sez.
controllo Lombardia,
parere 07.02.2011 n. 68). |
NEWS |
TRIBUTI: Imu allo 0,2%, gettito allo stato.
I comuni non potranno più ridurre l'aliquota allo 0,1%. I
chiarimenti del dipartimento delle finanze sui fabbricati
rurali ad uso strumentale
Il gettito dell'Imu relativo ai fabbricati rurali ad uso
strumentale classificati nel gruppo catastale D è riservato
allo stato ad aliquota 0,2%, che i comuni non possono più
ridurre allo 0,1%. Per gli altri immobili ad uso produttivo,
il gettito Imu è riservato allo stato ad aliquota standard
dello 0,76%, che i comuni possono solo aumentare fino a 0,3
punti percentuali, ma non ridurre. I comuni devono
modificare le disposizioni regolamentari che stabiliscono
per detti immobili un'aliquota inferiore a quella standard.
Questi sono i principi che si ricavano dalla
risoluzione 28.03.2013 n. 6/DF della direzione legislazione
tributaria e federalismo fiscale del dipartimento delle
finanze del Mineconomia (si veda ItaliaOggi del 29.03.2013).
La questione è connessa al fatto che il comma 380 dell'art.
1 della legge n. 228/12 stabilisce che il gettito dell'Imu,
derivante dagli immobili ad uso produttivo classificati nel
gruppo catastale D, è calcolato ad aliquota standard dello
0,76%, prevista dal comma 6, primo periodo, dell'art. 13 del
dl n. 201/2011. Detta norma non fa alcuna menzione del gettito
relativo ai fabbricati rurali ad uso strumentale
classificati nel gruppo catastale D.
È stato chiarito che il gettito Imu che deriva da detti
immobili deve comunque essere attribuito allo stato sia pure
con l'aliquota dello 0,2%, prevista dall'art. 13, comma 8,
del dl n. 201. La soluzione offerta trova una sua
motivazione nella circostanza che per questi immobili il
legislatore dell'Imu ha creato un particolare regime
agevolato prevedendo espressamente l'aliquota ridotta allo
0,2%. Ciò comporta che le disposizioni del comma 380,
dell'art. 1 della legge n. 228/2012, non possono avere il
significato di calpestare tale sistema per così dire
«speciale» e legittimare l'applicazione per i fabbricati
rurali ad uso strumentale dell'aliquota standard dello
0,76%. Anche dal punto di vista logico tale argomentazione
non sembra avere alcun supporto, in quanto l'aliquota Imu
per tali immobili potrebbe paradossalmente passare dallo
0,1% al 1,06%, per effetto del possibile aumento di tre
punti percentuali.
Secondo i tecnici del ministero, l'unico effetto della norma
della legge di stabilità per il 2013 per i fabbricati rurali
ad uso strumentale all'attività agricola, classificati nel
gruppo catastale D, è quello di riservare allo stato il
gettito con l'aliquota dello 0,2%, che peraltro i comuni non
possono certo ridurre dello 0,1%, come consentiva loro il
comma 8 dell'art. 13 del dl n. 201/2011.
Le modifiche della legge di stabilità sono destinate a
condizionare la manovrabilità delle aliquote da parte dei
comuni che, per effetto della riserva allo stato del gettito
dell'Imu derivante dagli immobili ad uso produttivo
classificati nel gruppo D, ad aliquota dello 0,76%, potranno
intervenire solo aumentando detta aliquota sino a 0,3 punti
percentuali, assicurandosi tale maggior gettito, ma non
potranno, invece, ridurla. Ciò determina l'incompatibilità
delle nuove norme con le disposizioni dell'art. 13 del dl n.
201/2011 che:
• al comma 9, stabilisce che i comuni possono ridurre
l'aliquota di base fino allo 0,4% nel caso di immobili non
produttivi di reddito fondiario ai sensi dell'art. 43 Tuir,
di immobili posseduti dai soggetti passivi dell'Ires, o di
immobili locati;
• al comma 9-bis accorda ai comuni la possibilità di ridurre
l'aliquota di base fino allo 0,38% per i fabbricati
costruiti e destinati dall'impresa costruttrice alla
vendita, fintanto che permanga tale destinazione e non siano
in ogni caso locati, e comunque per un periodo non superiore
a tre anni dall'ultimazione dei lavori.
Tali innovazioni influenzano le disposizioni regolamentari
adottate dai comuni per il 2012, giacché le disposizioni che
stabiliscono un'aliquota inferiore a quella dello 0,76% con
riferimento agli immobili ad uso produttivo classificati nel
gruppo D non sono più applicabili per il 2013, per cui i
comuni devono approntare le necessarie modificazioni
(articolo ItaliaOggi del 30.03.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi.
Compensi comunicati in 15 giorni.
Dal 28 novembre scorso, i soggetti pubblici o privati che
erogano compensi ai dipendenti pubblici per incarichi devono
comunicare entro 15 giorni l'avvenuta erogazione e la
relativa somma all'amministrazione di appartenenza del
dipendente. E scatta l'illecito disciplinare per il
dirigente che non si sia preoccupato di effettuare tale
comunicazione.
È quanto ricorda la Ragioneria generale dello
stato nel testo della
circolare 29.03.2013 n. 16, con cui
fa chiarezza sulla portata applicativa delle disposizioni
contenute all'articolo 1, comma 42 della legge
anticorruzione che ha modificato il testo dall'articolo 53,
comma 11 del Testo unico sul pubblico impiego. Come noto, la
norma contenuta nella legge n. 190/2012, dispone che entro
15 giorni dall'erogazione del compenso, i soggetti pubblici
o privati sono tenuti a darne comunicazione
all'amministrazione di appartenenza.
Ne consegue, scrive il
documento firmato dal Ragioniere dello stato, Mario Canzio,
che dal 28.11.2012 (data di entrata in vigore della
predetta legge n. 190), i compensi erogati siano soggetti al
termine di comunicazione sopra evidenziato. Mentre, per
quanto riguarda i compensi erogati ai dipendenti pubblici in
data anteriore al 28/11/2012, resta invariato la scadenza
prevista del 30.04.2013 per l'inoltro delle
comunicazioni.
Sul versante delle modalità di comunicazione,
la stessa Rgs precisa che le informazioni sui compensi
dovranno avvenire tramite Posta elettronica certificata
(Pec), sottolineando come, per effetto delle disposizioni
contenute nel codice dell'amministrazione digitale, ogni
amministrazione pubblica, incluse le società interamente
partecipate da enti pubblici o a prevalenza di capitale
pubblico, è tenuta ad istituire e a pubblicare sul proprio
sito istituzionale almeno una casella Pec.
La circolare, poi, evidenzia che rimangono invariate le
modalità di inoltro delle comunicazioni dei compensi
relativi agli incarichi ricoperti da dirigenti di prima e
seconda fascia, che sono sottoposti al regime di
onnicomprensività del trattamento economico
(articolo ItaliaOggi del 30.03.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Consulenti esperti della pubblica amministrazione.
La valorizzazione del patrimonio architettonico dei comuni
passa dai professionisti. Al via l'elenco su base
provinciale.
Si chiama Vol (Valorizzazione online) ed è una opportunità
concreta per accedere ad un elenco provinciale di consulenti
esperti per valutare e valorizzare il patrimonio immobiliare
di piccoli e grandi comuni e, in generale, delle
amministrazioni pubbliche.
L'idea è quella di recuperare la
ricchezza contenuta in palazzi, edifici, caserme, scuole e
abitazioni dismesse, la cui mancata riqualificazione si
configura come uno dei veri grandi sprechi della cosa
pubblica. Grazie ad un progetto pilota, cui va dato merito
ai colleghi geometri di averne curato la fattibilità, ora i
periti industriali liberi professionisti possono formare ed
aggiornare le loro competenze per analizzare e censire il
patrimonio pubblico, per poi seguire la fattibilità e
l'esecuzione dei relativi progetti di riqualificazione.
In
sostanza, è un'occasione per intensificare l'affidamento di
incarichi direttamente dalle pubbliche amministrazioni
locali verso i liberi professionisti che si sono accreditati
come consulenti esperti.
Cosa fare?
Si tratta di abilitarsi alla piattaforma Vol accedendo a
www.abitantionline.it seguendo le indicazioni contenute nel
sito o, in alternativa, esplicitate in
www.eppi.it,
accedendo direttamente a una pagina guida online. La
piattaforma operativa è realizzata dalla Cassa depositi e
prestiti, in collaborazione con la Cassa geometri e
condivisa a livello istituzionale con la Fondazione
patrimonio comune dell'Anci, l'Associazione nazionale dei
comuni italiani.
L'Eppi, in sintonia con il Consiglio
nazionale, è intervenuto come socio promotore della
Fondazione patrimonio comune, che ha il fine di guidare e
assistere, in modalità interattiva, le amministrazioni
pubbliche appunto interessate a recuperare e valorizzare il
proprio patrimonio. Tale partecipazione diretta permette di
coinvolgere i periti industriali in questo progetto: tutti
coloro accreditati e in grado di utilizzare la procedura Vol
potranno richiedere l'iscrizione in un elenco provinciale
dal quale i comuni o le amministrazioni pubbliche potranno
agevolmente procacciarsi le professionalità necessarie al
loro specifico progetto esecutivo.
Accredito gratuito
Gli enti di previdenza che partecipano alla Fondazione
patrimonio comune non solo hanno promosso l'iniziativa ma
garantiscono che il rilascio dell'attestato sia gratuito, a
condizione però che la posizione dell'iscritto che intenda
formarsi sia regolare, altrimenti la partecipazione al Vol è
libera ma a pagamento (145 euro). Va anche detto, per
trasparenza, che la conoscenza della procedura è
obbligatoria solo per le consulenze con il comune, o più in
generale l'ente locale o amministrazione pubblica, che
intende valorizzare il proprio patrimonio con un intervento
economico della Cassa depositi e prestiti e un'assistenza
della Fondazione patrimonio comune.
Per tutti gli altri affidamenti o incarichi professionali
che il comune o la pubblica amministrazione riterrà di
conferire per attività professionali anche identiche, senza
però avvalersi degli importanti contributi stanziati dalla
Cassa depositi e prestiti, non servirà conoscere la
procedura Vol perché l'Ente locale potrà procedere in
maniera discrezionale
(articolo ItaliaOggi del 29.03.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Chiamata Imu per le imprese.
Capannoni, la dichiarazione 2012 entro il 2 aprile. Una
risoluzione delle Finanze sui beni su cui sono stati
computati costi aggiuntivi.
Il termine di presentazione della dichiarazione Imu relativa
ai fabbricati classificabili nel gruppo catastale D, non
iscritti in catasto, ovvero iscritti, ma senza attribuzione
di rendita, interamente posseduti da imprese e distintamente
contabilizzati per i quali sono stati computati costi
aggiuntivi a quelli di acquisizione, decorre dai 90 giorni
dalla data della chiusura del periodo di imposta relativo
alle imposte sui redditi.
Il periodo d'imposta è quello in cui il contribuente è in
possesso di tutti gli elementi necessari per la
determinazione della base imponibile. La dichiarazione
relativa all'Imu 2012 deve essere presentata entro il
prossimo 02.04.2013, sulla base dei coefficienti fissati
nel dm 05.04.2012. Quella relativa all'Imu per l'anno
2013 dovrà essere presentata entro 90 giorni dal 31.12.2013, e cioè entro il 31.03.2014.
Sono questi, in sintesi, i concetti che si deducono dalla
risoluzione 28.03.2013 n. 6/DF della Direzione
legislazione tributaria e federalismo fiscale del
Dipartimento delle finanze del Ministero dell'economia e
delle finanze, questa volta alle prese con la disciplina dei
fabbricati classificabili nel gruppo catastale D, non
iscritti in catasto, ovvero iscritti, ma senza attribuzione
di rendita, interamente posseduti da imprese e distintamente
contabilizzati.
Per detti immobili l'art. 5, comma 3, del dlgs n. 504 del
1992 stabilisce che fino all'anno nel quale i fabbricati
sono iscritti in catasto con attribuzione di rendita, il
valore è determinato alla data di inizio di ciascun anno
solare ovvero, se successiva, alla data di acquisizione ed è
costituito dall'ammontare, al lordo delle quote di
ammortamento, che risulta dalle scritture contabili,
applicando per ciascun anno di formazione dello stesso, i
coefficienti aggiornati ogni anno con decreto del Ministero
dell'economia e delle finanze, sulla base dei dati
risultanti all'Istat sull'andamento del costo di costruzione
di un capannone.
Tale valore ai fini Imu è, pertanto, formato dal costo
originario di acquisto/costruzione compreso il costo del
terreno, dalle spese incrementative, dalle rivalutazioni
economico/fiscali, eventualmente effettuate, dagli interessi
passivi capitalizzati e dai disavanzi di fusione, come
risultante dalle scritture contabili al 1° gennaio dell'anno
in riferimento al quale è dovuta l'Imu.
Il problema prospettato ai tecnici del Mef è l'esatto
termine che l'art. 13, comma 12-ter, del dl 06.12.2011,
n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214, stabilisce quale data «in cui il
possesso degli immobili ha avuto inizio o sono intervenute
variazioni rilevanti ai fini della determinazione
dell'imposta» dal quale far decorrere i 90 giorni per
presentare la dichiarazione Imu.
Già nelle istruzioni allegate al modello di dichiarazione
Imu, approvato con dm 30.10.2012, al paragrafo «1.5 -
Quando deve essere presentata la dichiarazione» è stato
precisato che per tale tipologia di immobili «per i quali
sono stati computati costi aggiuntivi a quelli di
acquisizione, la data da considerare, ai fini della
decorrenza dei 90 giorni è quella della chiusura del periodo
di imposta relativo alle imposte sui redditi».
Ora però ci si chiede se la chiusura del periodo di imposta,
a partire dal quale deve essere computato il termine di 90
giorni per la presentazione della dichiarazione, debba
identificarsi con:
• quello nel quale sono stati contabilizzati i costi
aggiuntivi che generano l'obbligo dichiarativo e, quindi, se
la dichiarazione deve essere presentata entro 90 giorni
dalla chiusura del periodo d'imposta nel quale sono stati
sostenuti i costi incrementativi;
• quello in cui l'incremento del valore dovuto ai costi
aggiuntivi ha efficacia ai fini del versamento dell'Imu,
ossia il periodo d'imposta di riferimento per la
determinazione del valore che costituisce la base imponibile
per il versamento della relativa imposta annuale.
Nella risoluzione viene chiarito che il periodo d'imposta
dalla chiusura del quale decorrono i 90 giorni non può che
essere quello in cui il contribuente è in possesso di tutti
gli elementi necessari per la determinazione della base
imponibile.
Nel primo caso, infatti, potrebbero mancare i coefficienti
per la determinazione del valore contabile dei fabbricati,
considerato che il decreto di aggiornamento di detti
coefficienti viene normalmente emanato successivamente alla
scadenza dei 90 giorni dalla chiusura del periodo d'imposta
nel quale sono stati sostenuti i costi incrementativi.
E così, ad esempio, se i costi incrementativi del valore
degli immobili sono stati sostenuti nel corso del 2012,
l'incremento del valore dell'immobile deve essere preso in
considerazione per il versamento dell'Imu relativo all'anno
2013, poiché è in questo anno che il contribuente viene a
conoscenza dei coefficienti di aggiornamento del valore
degli immobili. Ciò comporta che:
- la dichiarazione dell'Imu per l'anno 2013 dovrà essere
presentata entro 90 giorni dal 31.12.2013, ossia entro
il 31.03.2014;
- la dichiarazione relativa all'Imu 2012 deve essere
presentata entro il prossimo 02.04.2013, sulla base dei
coefficienti fissati nel dm 05/05/ 2012.
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Le detrazioni e le aliquote valide solo se su internet.
Dal 2013 l'efficacia delle deliberazioni di approvazione
delle aliquote e della detrazione dell'Imu, decorre dalla
data di pubblicazione nel sito informatico www.finanze.it a
condizione che la pubblicazione avvenga entro il 30 aprile
dell'anno a cui la delibera si riferisce. Il diritto di
abitazione che attribuisce la soggettività passiva Imu
all'ex coniuge prevale in tutte le ipotesi in cui
l'assegnazione della casa coniugale sia disposta con
provvedimento giudiziale, ma non nel caso in cui è oggetto
di un contratto di locazione.
Sono due chiarimenti offerti dalla
risoluzione 28.03.2013 n. 5/DF delle Finanze.
Essa ribadisce che in caso di mancata pubblicazione sul sito
delle Finanze entro il termine del 30 aprile, le aliquote e
la detrazione si intendono prorogate di anno in anno. Per
far sì che tale meccanismo funzioni perfettamente è
necessario che dette aliquote siano inviate dal comune al
Dipartimento entro il 23.04.2013. Pertanto il
contribuente, chiamato a versare la prima rata dell'Imu
entro il 17 giugno (visto che il 16 è domenica) deve
calcolarlo tenendo conto delle aliquote pubblicate, entro il
30.04.2013, sul sito www.finanze.it.
Se il comune
intende modificare per il 2013 le aliquote approvate per
l'anno 2012, deve inviare le nuove deliberazioni
esclusivamente inserendole nell'apposita sezione del Portale
del federalismo fiscale, entro il 23.04.2013. Se vuole
confermare le aliquote 2012 deve solo accertarsi che la
deliberazione 2012 sia stata pubblicata sul sito. In
assenza, il contribuente applicherà le aliquote di legge.
L'ulteriore caso che può verificarsi è che al 30.04.2013
non ci sia sul sito nessuna deliberazione del comune
relativa al 2013; se ciò accadrà il contribuente dovrà
verificare se risulta pubblicata la deliberazione relativa
al 2012 che, risulta valida anche per il 2013. Nell'ipotesi
in cui non risulti pubblicata sul sito neanche la
deliberazione per l'anno 2012, il contribuente non potrà far
altro che applicare le aliquote fissate dalla legge (si veda ItaliaOggi del 20/03/2013).
Casa coniugale
Per quanto riguarda l'applicazione dell'Imu alla ex casa
coniugale, per legge «l'assegnazione della casa coniugale
al coniuge, disposta a seguito di provvedimento di
separazione legale, annullamento, scioglimento o cessazione
degli effetti civili del matrimonio, si intende in ogni caso
effettuata a titolo di diritto di abitazione». Questo, «in
ogni caso», fa propendere per l'interpretazione in base
alla quale il diritto di abitazione deve prevalere in tutte
le ipotesi in cui l'assegnazione della casa coniugale al
coniuge sia disposta con provvedimento giudiziale.
Fa eccezione il caso in cui il legislatore ha disciplinato
espressamente la fattispecie, come è avvenuto con l'art. 6
della legge 27.07.1978, n. 392, il quale prevede che «in
caso di separazione giudiziale, di scioglimento del
matrimonio o di cessazione degli effetti civili dello
stesso, nel contratto di locazione succede al conduttore
l'altro coniuge, se il diritto di abitare nella casa
familiare sia stato attribuito dal giudice a quest'ultimo».
I tecnici del Ministero hanno precisato che in questa
ipotesi il legislatore ha previsto direttamente la
successione nel contratto di locazione da parte del coniuge
assegnatario, che, pertanto, utilizza l'immobile sulla base
di un titolo giuridico diverso da quello del diritto reale
di abitazione previsto, dall'art. 4, comma 12-quinquies del
dl n. 16 del 2012.
Tali valutazioni portano alla conclusione che quest'ultima
norma opera solo se l'immobile assegnato sia di proprietà,
interamente o pro-quota, del coniuge non assegnatario e in
quello in cui lo stesso immobile sia stato concesso in
comodato, ma non se esso sia oggetto di un contratto di
locazione
(articolo ItaliaOggi del 29.03.2013). |
APPALTI - ENTI LOCALI: Triplice scadenza in comune.
Spending review, centrale committenza, Patto 2012. Al 31
marzo si concentrano una serie di appuntamenti importanti
per gli enti.
Comunicazione agli Interni degli importi tagliati dalla
spending review e non utilizzati per l'estinzione o la
riduzione del debito. Invio al Mef della certificazione
relativa al Patto 2012. Avvio della centrale unica di
committenza. Tre scadenze importanti per i comuni che si
sovrappongono tutte nella stessa data: il 31 marzo 2013.
Il primo adempimento (previsto dall'art. 16, comma 6-bis,
del dl 95/2012) riguarda solo i municipi soggetti al Patto
dello scorso anno (sono esclusi, pertanto, quelli sotto i 5
mila abitanti).
Esso impone di comunicare alla Prefettura-Utg (che a sua
volta la inoltrerà al Viminale) la quota del taglio previsto
dal comma 6 del medesimo art. 16 (pari, complessivamente, a
500 milioni) eventualmente non utilizzata dagli enti per
ridurre il proprio «rosso» e che, quindi, verrà decurtata
sulle spettanze 2013. Al riguardo, si rammenta che si
possono considerare utilmente perfezionate le operazioni di
estinzione o di riduzione anticipata del debito per le quali
il relativo impegno di spesa sia stato effettuato entro il
31.12.2012 e il relativo mandato di pagamento risulti
emesso entro la medesima data del 31.12.2012, anche se
poi tale mandato risulti estinto dal tesoriere nei primi
giorni di gennaio 2013. Il Ministero dell'interno ha anche
precisato che saranno valide le comunicazioni effettuate
entro il 2 aprile, quale primo giorno seguente non festivo
successivo alla scadenza del termine.
Analoga precisazione, invece, non è arrivata rispetto al
secondo adempimento, ovvero la certificazione del Patto 2012
(regolata dall'art. 31, comma 20, della l 183/2011).
Pertanto, è opportuno che l'invio alla Ragioneria generale
dello Stato della raccomandata contenente il modello e i
relativi prospetti, debitamente sottoscritti dal
rappresentante legale, dal responsabile del servizio
finanziario e dai revisori, avvenga entro domani (farà fede
la data del timbro postale). Anche in tal caso, sono esclusi
i piccoli comuni.
Questi ultimi, invece, sono interessati dalla terza
scadenza, certamente la più complessa. Entro il 31 marzo,
infatti, essi devono rendere operative le centrali uniche di
committenza, accorpando gli uffici che gestiscono gli
appalti per la realizzazione di lavori pubblici e per
l'acquisizione di beni e servizi. Lo prevede l'art. 33,
comma 3-bis, del dlgs 163/2006, introdotto dall'art. 23,
comma 4, del dl 201/2011, la cui disciplina si applica alle
gare bandite successivamente al 31.03.2013.
Due le
modalità attuative: in via prioritaria, l'unione di comuni
ex art. 32 tuel, ovvero, in subordine, un accordo consortile
(da intendersi verosimilmente come convenzione ai sensi
dell'art. 30 Tuel). In mancanza, scatta l'obbligo di
rivolgersi alle centrali di committenza già esistenti o di
passare attraverso il mercato elettronico della p.a.
(articolo ItaliaOggi del 29.03.2013). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/
Un quorum arrotondato.
Ma vince l'autonomia normativa dell'ente. Il computo dei due
terzi dei consiglieri e il peso del voto del sindaco.
Quesito: Per l'approvazione delle modifiche dello statuto
comunale, il voto del sindaco deve essere computato ai fini
del quorum strutturale del consiglio comunale? Quale
criterio viene adottato qualora il computo dei due terzi dei
consiglieri, richiesto per l'approvazione delle norme
statutarie, assommi a una cifra decimale?
Sull'argomento in questione non si riscontrano univoci
orientamenti giurisprudenziali (cfr.
Tar Puglia sent. 1301/2004, Tar Lazio, sez. II-ter, sentenza
n. 497/2011 e Tar Lombardia sentenza n. 1604/2011); si
osserva che l'art. 6, comma 4, del Tuoel n. 267/2000 dispone
che «gli statuti sono deliberati dai rispettivi consigli con
il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati
le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche
alle modifiche statutarie».
La normativa in esame ha previsto un «procedimento
aggravato» per l'approvazione delle norme statutarie, nonché
delle relative modifiche, sia disponendo che, in caso di
mancata approvazione dei due terzi dell'assemblea si debba
ripetere la votazione entro 30 giorni, sia prescrivendo che
lo statuto sia approvato se ottiene per due volte -in
sedute successive- il voto favorevole della maggioranza
assoluta dei membri assegnati al collegio.
L'approvazione dello statuto, pertanto, attesa la natura di
atto normativo «fondamentale» sua propria, comporta che su
di esso converga il più elevato numero di consensi
attraverso un'ampia discussione e comparazione d'interessi
da parte della maggioranza e dell'opposizione consiliare.
Tale particolare esigenza ha determinato, conseguentemente,
la previsione di maggioranze speciali disponendo che i
quorum, rispettivamente della prima e delle altre votazioni,
siano ragguagliati ai due terzi o alla maggioranza assoluta
dei consiglieri assegnati.
Pertanto, l'iter deliberativo di approvazione dello statuto
e delle sue modifiche comporta che in sede di prima
votazione la delibera sia approvata con il voto favorevole
dei due terzi dei consiglieri assegnati ivi compreso il
sindaco, che è componente del consiglio comunale ai sensi
dell'art. 37 del citato Testo unico.
Si osserva, infatti, che nelle ipotesi in cui l'ordinamento
non ha inteso computare il sindaco, o il presidente della
provincia, nel quorum richiesto per la validità di una
seduta, lo ha indicato espressamente usando la formula
«senza computare a tal fine il sindaco ed il presidente
della provincia».
Ove il quorum non venga raggiunto, si apre un'ulteriore fase
procedimentale per la quale lo statuto è approvato «se
ottiene per due volte il voto favorevole dalla maggioranza
assoluta dei consiglieri assegnati».
Le due votazioni per le quali la legge richiede la
maggioranza assoluta, da tenersi entro trenta giorni,
termine che dalla lettura della norma appare ordinatorio,
possono anche non essere consecutive, ma intervallate da una
o più votazioni infruttuose.
Nell'ipotesi in cui lo statuto non sia approvato alla prima
votazione con il voto favorevole dei due terzi dei
consiglieri assegnati, è sempre necessario procedere alle
previste ulteriori due votazioni a «maggioranza assoluta»,
con la conseguenza che, complessivamente, le votazioni
assommeranno al numero di tre.
Secondo la linea interpretativa ritenuta preferibile,
qualora l'ente, nella propria autonomia normativa non abbia
fornito indicazioni in merito alla regola da applicarsi in
tutti i casi in cui il computo dei consiglieri necessario a
vari fini assommi ad una cifra decimale, può trovare
applicazione il criterio dell'arrotondamento aritmetico che
ha, di per sé, carattere oggettivo e risulta indicato in
varie norme di diritto positivo, come ad esempio, l'art. 47,
comma 1, del dlgs n. 267/2000.
Detto criterio implica, com'è noto, che in caso di cifra
decimale uguale o inferiore a 50, l'arrotondamento debba
essere effettuato per difetto, mentre nel caso in cui essa
sia superiore a 50 si procederà ad arrotondamento per
eccesso
(articolo ItaliaOggi del 29.03.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Anticorruzione avanti Piano.
Il termine del 31 marzo per il varo non è perentorio. Lo
chiarisce la Civit rispondendo ai quesiti di molte
amministrazioni pubbliche.
Più tempo per adottare i piani anticorruzione. Il termine
del 31.03.2013 non è da considerare perentorio.
Lo chiarisce la Commissione per la valutazione, la
trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche (Civit)
nella sua veste di Autorità nazionale anticorruzione, in
risposta a una serie di quesiti posti da molte
amministrazioni pubbliche.
Spiega la Civit che il termine del 31 marzo, entro il quale
gli organi di governo debbono approvare il piano triennale
di prevenzione della corruzione non è perentorio. Sono,
infatti, perentori esclusivamente i termini la cui
violazione comporti la decadenza dalla possibilità di
esercitare il potere o la funzione o l'obbligazione ad esso
connessi.
La Civit osserva che il termine del 31 marzo non può essere
considerato perentorio perché la sua violazione non comporta
alcuna perdita del potere/dovere delle amministrazioni di
adottare il piano anticorruzione.
Pertanto, le amministrazioni, ivi comprese regioni ed enti
locali, avranno maggior tempo a disposizione di quello
fissato dalla legge 190/2012, anche in considerazione,
spiega ancora la Civit, del fatto che non è stato ancora
adottato il piano nazionale anticorruzione, i cui contenuti
debbono essere una guida ed una direttiva per la redazione
dei piani di ciascuna singola amministrazione.
L'avviso espresso dalla Civit specifica che «per quanto
riguarda le amministrazioni centrali e gli enti nazionali,
il Piano triennale dovrà essere adottato entro il tempo
strettamente necessario e secondo le linee indicate nel
Piano nazionale anticorruzione, dopo l'approvazione dello
stesso da parte della Commissione». Ma nulla vieta che gli
enti si sforzino di adottare il piano ancora prima e di
adattarlo successivamente alla vigenza del piano nazionale.
Le indicazioni della Civit risultano particolarmente utili
non tanto per risolvere la questione sul valore, perentorio
o meno, del termine. La semplice lettura delle disposizioni
della legge 190/2012 era sufficiente per rendersi conto che
si trattava di un termine solo ordinatorio o sollecitatorio.
Piuttosto, laddove la Civit evidenzia la possibilità per gli
enti di attendere i contenuti del piano nazionale, chiarisce
indirettamente che in questa fase l'adozione dei piani oltre
i termini fissati dalla legge non può comportare alcuna
responsabilità.
Occorre ricordare che la Civit, quale
Autorità nazionale anti corruzione, dispone di poteri
ispettivi e sanzionatori nei riguardi delle amministrazioni.
Riconoscendo che in questo primo avvio del sistema
anticorruzione il termine del 31 marzo è solo ordinatorio,
la Civit sostanzialmente si priva della possibilità di
attivare procedure sanzionatorie
(articolo ItaliaOggi del 28.03.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Ricorsi straordinari da pagare.
Le prefetture dovranno vigilare sul contributo unificato. Il Dipartimento per gli affari interni sulla verifica del
versamento dell'imposta di bollo.
Sui ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica,
notificati dal 06.07.2011 in poi, le prefetture dovranno
preliminarmente verificare l'obbligo di pagamento del
contributo unificato, oggi fissato nella misura di 650 euro.
In caso negativo, gli uffici dovranno invitare la parte
ricorrente a provvedervi entro un mese e, qualora tale
obbligo fosse ulteriormente disatteso, a trasmettere il
carteggio all'ufficio dell'Agenzia delle entrate per la
successiva riscossione.
Per i ricorsi presentati entro la predetta data del
06.07.2011 e che tuttora restano in fase istruttoria, le
prefetture dovranno accertare il regolare assolvimento
dell'imposta di bollo.
È quanto ha precisato il Dipartimento per gli affari interni
e territoriali del ministero dell'interno, nel testo della
circolare 27.03.2013 n. 9/2013,
che sgombera il campo dagli ultimi dubbi in materia di
applicazione del contributo unificato anche sui ricorsi
straordinari al Presidente della Repubblica.
Un obbligo, questo, introdotto con le misure anticrisi
contenute all'articolo 37, comma 6, del dl 98/2011 e che di
recente, con l'articolo 1, comma 25, della legge di
stabilità per il 2013 è stato oggetto di revisione, almeno
nella parte in cui innalza la misura fissa del contributo da
600 a 650 euro.
La nota del Viminale interviene dopo che il ministero
dell'economia ha fornito risposta a vari quesiti applicativi
in materia, soprattutto sull'individuazione dell'ufficio
competente ad esigere il contributo e alle modalità di
versamento. Sulla scorta di queste indicazioni, pertanto, il
documento in esame prescrive che sui ricorsi notificati dopo
il 06.07.2011 presso le prefetture o presso gli uffici del
ministero, gli uffici competenti verifichino l'avvenuto
pagamento integrale del contributo unificato e, in caso
negativo, assegnino al ricorrente il termine di un mese per
provvedere all'obbligo. Scaduto infruttuosamente tale
termine, il carteggio dovrà essere trasmesso senza alcun
indugio al locale ufficio dell'Agenzia delle entrate,
competente per la fase della riscossione.
Della procedura vengono investiti anche gli enti locali. Nel
caso di ricorsi presentati presso tali enti, infatti, il
Viminale si preoccupa che tali enti dispongano la verifica
di cui sopra attraverso i propri uffici e, in caso di omesso
versamento, procedano nei riguardi degli interessati
informando contestualmente le prefetture sullo stato del
procedimento. Infine, precisa la circolare, per i ricorsi
antecedenti al 06.07.2011 ed ancora in fase istruttoria, gli
uffici preposti dovranno verificare il regolare assolvimento
delle disposizioni in materia di imposta di bollo, anche qui
investendo gli uffici tributari in caso di mancata
osservanza di tale obbligo.
Resta inteso che sarebbe opportuno che le stesse prefetture,
nell'emanazione di qualsiasi provvedimento suscettibile di
essere impugnato per via amministrativa, adottino una
formula da includere nel testo che informi i destinatari
sulle disposizioni che regolano la materia, anche con
riferimento al versamento del contributo unificato
(articolo ItaliaOggi del 28.03.2013). |
TRIBUTI:
La moschea è sempre esente dall'Ici
Per il riconoscimento delle agevolazioni fiscali agli
immobili adibiti al culto prevale la sostanza sulla forma.
Dunque, un immobile destinato a moschea non paga l'Ici anche
se è iscritto in catasto come opificio. Nonostante questa
destinazione sia solo parziale.
Lo ha stabilito la
commissione tributaria regionale di Milano, sezione XIII,
con la sentenza 28.12.2012 n. 176.
Per i giudici d'appello, prevale l'uso effettivo dei locali
sia sull'accatastamento sia sulla formale indicazione degli
scopi statutari di chi utilizza l'immobile. Infatti,
l'immobile in questione ancorché catastalmente classificato
come «D/1» (opificio) e non come «E/7» (fabbricato per
l'esercizio di culto), di fatto era utilizzato come luogo di
culto, in determinate fasce orarie della giornata, e luogo
di ritrovo degli iscritti a un'associazione.
Secondo la
commissione, queste attività «rappresentano una ulteriore
manifestazione dell'esercizio del culto della religione
islamica che detta precise regole di accoglienza e di
assistenza dei propri fedeli». Peraltro viene richiamata
nella sentenza una pronuncia del tribunale di Lecco, che
aveva riconosciuto l'edificio come luogo di culto utilizzato
dalla comunità di religione musulmana.
In effetti l'articolo 7, comma 1, lettera d), del decreto
legislativo 504/1992 riconosce l'esenzione ai fabbricati, e
loro pertinenze, destinati esclusivamente all'esercizio del
culto, purché compatibile con i principi contenuti negli
articoli 8 e 19 della Costituzione. Esercitare in privato il
culto è un diritto costituzionalmente garantito a tutti.
Del resto la Cassazione (sentenza 6316/2005), a proposito di
un fabbricato utilizzato dal vescovo, ha affermato che è
esente dall'Ici, anche se non si tratti di immobile avente
finalità dirette di culto, a condizione che venga destinato
allo svolgimento delle funzioni pastorali. Per i giudici di
legittimità, il primo scopo di un ordine religioso è la
formazione di comunità in cui si esercita la vita
associativa quale presupposto per la catechesi, l'elevazione
spirituale dei membri e la preghiera in comune.
Pertanto, la classificazione catastale di un fabbricato non
può condizionare il riconoscimento di un'agevolazione
fiscale. L'esenzione spetta agli enti non commerciali anche
se l'inquadramento catastale dell'immobile non sia coerente
con la loro attività istituzionale. La situazione di fatto
prevale rispetto all'accatastamento del bene, considerato
che per la normativa Ici quello che conta è la destinazione
concreta dell'immobile, a prescindere dal dato formale
(articolo ItaliaOggi del 27.03.2013). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Decreto sulla segnaletica nei cantieri.
Lavori in corso, sicurezza doc.
I lavoratori impegnati sulle strade dove scorre il traffico
veicolare devono essere specificamente formati alla
particolare mansione. Evidenti cautele dovranno poi essere
osservate dal datore di lavoro in condizioni meteorologiche
avverse.
Lo ha evidenziato il decreto interministeriale 04.03.2013 che fissa i criteri per l'apposizione della
segnaletica stradale destinata alle attività lavorative che
si svolgono in presenza di traffico veicolare.
Il comunicato
dell'avvenuta emanazione è stato pubblicato sulla G.U. n. 67
del 20.03.2013. In sostanza ai sensi del dlgs 81/2008,
gli enti proprietari delle strade e le imprese appaltatrici,
esecutrici o affidatarie, dovranno applicare nuovi criteri
minimi di sicurezza per chi lavora in presenza di traffico
veicolare.
Il provvedimento prevede che in caso di nebbia,
precipitazioni nevose o, comunque, condizioni che limitano
notevolmente la visibilità o le caratteristiche di aderenza
della pavimentazione, non si potranno eseguire operazioni
che comportano l'esposizione al traffico di operatori e di
mezzi. Qualora tali condizioni meteorologiche avverse
sopraggiungano, le attività dovranno essere immediatamente
sospese, rimuovendo ogni sbarramento e segnalamento, salvo
che si tratti di lavori di emergenza o indifferibili.
Per la
regolamentazione del senso unico alternato o comunque per le
fermate temporanee del traffico, i movieri dovranno essere
avvicendati con altri operatori con una cadenza non
superiore a 45 minuti. Sono imposte particolari misure di
sicurezza per gli spostamenti sulla carreggiata a piedi
oppure con i mezzi operativi.
Inoltre, il decreto prevede l'adozione di importanti cautele
per l'installazione e la rimozione del cantiere, per
l'entrata e l'uscita del personale dal cantiere e per la
gestione delle situazioni emergenza, come per esempio i
sinistri. I lavoratori adibiti all'installazione e alla
rimozione della segnaletica di cantieri stradali in presenza
di traffico o comunque addetti ad attività in presenza di
traffico dovranno frequentare uno specifico corso di
formazione e addestramento, con una prova di verifica
finale, e, ogni quattro anni, un corso di aggiornamento
(articolo ItaliaOggi del 26.03.2013). |
COMPETENZE GESTIONALI: Consiglio
di Stato. Indirizzi dalla Giunta.
Il dirigente può fissare gli organici.
È legittima la determinazione con cui il dirigente comunale,
previa individuazione dei profili professionali ritenuti
utili, ha rideterminato la dotazione organica dell'ente. La
Giunta ha dettato i principi in base ai quali intervenire
sulla dotazione organica, demandando al dirigente
l'attuazione. La determinazione pertanto non costituisce
autonomo esercizio di governo, ma è espressione del potere
gestionale di organizzazione del personale.
Questo il principio sancito dal Consiglio di Stato, con la
sentenza n. 96/2013 con cui è stato respinto il ricorso
presentato da un dipendente del Comune contro la determina
del dirigente.
I giudici amministrativi hanno chiarito che la Giunta,
avendo dettato i principi in base ai quali intervenire sulla
dotazione organica, ha legittimamente demandando al
dirigente competente per materia l'attuazione della concreta
struttura organizzativa.
La Giunta non ha quindi delegato propri poteri al dirigente,
ma ha invece correttamente demandato a quest'ultimo la
concretizzazione della propria impostazione di principio.
Secondo i giudici, con l'atto di indirizzo la Giunta avrebbe
rispettato l'articolo 48, comma 3, del Tuel, secondo cui «è
di competenza della giunta l'adozione dei regolamenti sul
l'ordinamento degli uffici e dei servizi, sulla base dei
principi stabiliti dal consiglio», e nella determina
l'articolo 107, in base al quale «spettano ai dirigenti gli
atti di organizzazione e gestione del personale». Secondo il
consiglio di stato, la Giunta può approvare solo i principi
in base ai quali intervenire. Per prassi, negli enti il
potere della Giunta sull'organizzazione del personale è
sempre stato esercitato con atti di contenuto
prevalentemente gestionale.
La dotazione organica, ad esempio, è approvata generalmente
con delibera di Giunta in cui sono definiti non solo i
profili professionali necessari, ma sono indicati anche i
contingenti quantitativi che costituiscono l'assetto
ottimale. L'interpretazione fornita dal Consiglio di stato
appare innovativa, anche se risulta in linea con il dettato
testuale del Tuel.
L'autonomo esercizio di governo, al più alto livello
amministrativo, del potere di organizzazione del personale
dovrebbe effettivamente essere attuato approvando atti di
indirizzo che definiscono i principi cui dovranno attenersi
i dirigenti nello svolgimento delle loro attività (articolo Il Sole 24 Ore del
25.03.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
APPALTI:
Patroni Griffi contraddice l'Autorità:
contratti elettronici anche per i cottimi fiduciari.
La stipula va fatta sempre con la nuova formula
telematica. No all'interpretazione dell'Autorità che
apriva all'uso della carta per le scritture private.
Il contratto
elettronico sarà obbligatorio sempre anche per le
scritture private. Il ministero della Funzione
pubblica ha da poco diffuso la
nota 28.02.2013 n. 77 di prot. con la quale
chiarisce alcuni dubbi sulla stipulazione dei
contratti in forma digitale, prevista dall'articolo
11, comma 13, del Codice appena modificato dal
decreto sviluppo-bis (Dl 179/2012). E, nello
sgombrare il campo dalle incertezze esistenti tra le
imprese, la circolare ne crea di nuove: il
documento, infatti, si distacca, in alcuni passaggi,
dalla
determinazione 13.02.2013 n. 1/2013
dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici,
che aveva affrontato il problema un mese fa.
La nota, a firma del capo dell'ufficio legislativo
del ministero e datata 28 febbraio, affronta
l'interpretazione della norma entrata in vigore a
partire dal primo gennaio 2013, che prevede la
stipulazione dei contratti di appalto, «a pena di
nullità, con atto pubblico notarile informatico,
ovvero, in modalità elettronica secondo le norme
vigenti per ciascuna stazione appaltante, in forma
pubblica amministrativa a cura dell'ufficiale
rogante dell'amministrazione aggiudicatrice o
mediante scrittura privata».
Secondo Palazzo Vidoni, i contratti elettronici
dovranno essere sottoscritti sempre in forma
elettronica, che diventa così «l'unica forma
scritta richiesta a pena di nullità per tutti i
contratti pubblici». Il documento informatico,
infatti, è prescritto «non solo per la validità
dei contratti rogati con atto pubblico notarile, ma
anche per quelli stipulati con atto pubblico
amministrativo o con scrittura privata».
Una differenza netta rispetto alla posizione
espressa dalla determinazione dell'Autorità, che
aveva sottolineato come, invece, esista ancora la
possibilità di «preferire la forma cartacea o
forme equipollenti ammesse dall'ordinamento» nel
caso di scrittura privata. Si crea, così, un piccolo
caso, dal momento che la sanzione per chi non
rispetta la legge è la nullità del contratto. Per
evitare problemi gravi, allora, bisognerà rispettare
l'interpretazione del ministero piuttosto che quella
dell'Avcp.
Sarà, comunque, possibile organizzarsi per tempo,
dal momento che la nota obbliga le pubbliche
amministrazioni a indicare esplicitamente nel bando
la disciplina applicabile al momento della
sottoscrizione del contratto da parte
dell'aggiudicatario. In questo modo l'impresa avrà
modo di verificare con anticipo il possesso dei
requisiti richiesti dal disciplinare di gara.
Una buona notizia, invece, arriva in materia di
firma digitale. Il decreto non ne parla
esplicitamente e, per questo, il ministero ritiene
che non esista un obbligo generale per le aziende di
dotarsi dello strumento. Sarà la Pa che sottoscrive
il contratto insieme all'impresa o, in alternativa,
il notaio a doversi assumere un onere extra, nel
caso in cui i privati non siano dotati di firma
digitale, attestando la veridicità della
sottoscrizione. Anche nel caso in cui ci sia una
semplice firma autografa scannerizzata.
La buona notizia, comunque, è solo parziale perché
nel caso di sottoscrizione tramite scrittura privata
non è prevista, per definizione, la presenza di una
pubblica amministrazione o di un notaio che possano
attestare la veridicità della firma. E, quindi, non
si potrà applicare la scappatoia indicata da Palazzo
Vidoni. Resta, allora, l'urgenza per tutte le
imprese di dotarsi al più presto di una firma
elettronica, sottolineata anche dall'Ance.
Soprattutto perché questo strumento servirà per
l'utilizzo del sistema Avcpass, obbligatorio per la
maggior parte degli appalti a partire dal prossimo
primo luglio
(articolo Edilizia e
Territorio del 21.03.2013 tratto da http://venetoius.it). |
APPALTI: Il
labirinto-trasparenza, guida a tutti i nuovi obblighi delle
amministrazioni.
Si moltiplicano i vincoli di pubblicità per le
amministrazioni alle prese con i lavori pubblici. In una
maxi-tabella la guida a cosa (e quando) pubblicare, atto per
atto.
All'insegna di
una sempre più penetrante attuazione del principio di
trasparenza aumentano in maniera esponenziale gli obblighi
di pubblicità cui sono tenuti gli enti committenti in
relazione all'affidamento e all'esecuzione dei contratti
pubblici. Agli adempimenti tradizionali previsti da tempo
dal Dlgs 163/2006, si aggiungono quelli introdotti dal
decreto legislativo sulla trasparenza (già approvato dal
Consiglio dei ministri e in attesa di pubblicazione sulla
Gazzetta Ufficiale) –emanato in attuazione della legge
190/2012– e, da ultimo, quelli imposti dal Dm 26.02.2013.
Ne deriva un quadro complesso,
riassunto in questa maxi-tabella, non pienamente
coordinato e con inevitabili sovrapposizioni. L'effetto
pratico è che, al di là della condivisibile esigenza di
incrementare il livello di trasparenza nel settore dei
contratti pubblici, si delinea è un percorso tutt'altro che
agevole per gli enti committenti. Aumentano i dati da
pubblicare, si moltiplicano le comunicazioni e le modalità
di pubblicazione e cresce il rischio di incorrere in
sanzioni per il mancato adempimento agli obblighi di
pubblicità.
In questo contesto, non si può realisticamente ignorare che,
a fronte dei benefici conseguenti all'innalzamento del
livello di trasparenza, vi è comunque un costo da
considerare in termini di appesantimento della macchina
amministrativa. L'esatto adempimento di tutti gli obblighi
di pubblicità comporta necessariamente un significativo
impiego di risorse, in termini di tempi e di costi. Volendo
cercare di seguire velocemente il percorso degli obblighi di
pubblicità, si comincia con la pubblicazione sul sito
informatico del Mit del programma triennale e dell'elenco
annuale delle opere pubbliche (articolo 128, Dlgs 163). Vi
sono poi gli usuali strumenti di pubblicità relativi alla
singola gara, che vanno dall'eventuale avviso di
preinformazione, al bando fino all'avviso sui risultati
della procedura di aggiudicazione (tutti previsti dal Dlgs
163).
I dati relativi all'affidamento e all'esecuzione di tutti i
contratti di importo superiore a 50.000 euro devono poi
essere trasmessi all'Osservatorio presso l'Autorità dei
contratti pubblici (articolo 7, comma 8, Dlgs 163). Mentre
dati analoghi relativi a ogni procedura di gara devono
essere contemporaneamente pubblicati sui siti web
istituzionali degli stessi enti appaltanti (articolo 1,
comma 32, legge 190/2012). Con una inevitabile
sovrapposizione, è poi previsto anche che, sempre in
relazione alle procedure di gara effettuate, un'altra serie
di dati –parzialmente coincidenti con quelli di cui sopra–
devono essere pubblicati, con aggiornamento semestrale,
nella sezione «amministrazione trasparente» dei
rispettivi siti istituzionali (articolo 23 Dlgs sulla
trasparenza).
I dati complessivi relativi a tutte le procedure di gara
vanno poi trasmessi, in forma di tabella riassuntiva,
all'Autorità dei contratti pubblici con cadenza annuale
(articolo 1, comma 32, legge 190/2012). Sempre nella sezione
«amministrazione trasparente» vanno poi inseriti i
dati delle opere pubbliche relativi alla programmazione (che
si sovrappongono a quelli contenuti nel programma
triennale), alla valutazione degli investimenti, ai tempi,
ai costi e agli indicatori di realizzazione (articolo 38,
Dlgs sulla trasparenza). Mentre una serie molto articolata
di dati, relativi a tutto il ciclo di realizzazione
dell'opera (dal finanziamento, all'affidamento dei lavori,
all'esecuzione) vanno trasmessi alla banca dati istituita
presso la Ragioneria generale dello Stato (ma quest'obbligo
di trasmissione non sussiste per i dati già trasmessi
all'Autorità dei contratti pubblici, che tuttavia non
coincidono integralmente con quelli destinati alla
Ragioneria) (Dm 26.02.2013).
Infine, sempre sui rispettivi siti istituzionali, ogni ente
deve pubblicare l'indicatore dei tempi di pagamento relativo
ad acquisti di beni, servizi e forniture (articolo 33 Dlgs
sulla trasparenza) (articolo
Edilizia e Territorio del 19.03.2013). |
GIURISPRUDENZA |
CONSIGLIERI COMUNALI: La
revoca dell'incarico di assessore comunale non richiede
comunicazione dell'avvio del procedimento poiché è
provvedimento rimesso all’autonomo apprezzamento del solo
Sindaco, che è responsabile dell’indirizzo
politico-amministrativo della sua Giunta e ne deve se mai
rispondere al Consiglio comunale, restando escluso che sulle
sue decisioni possa influire l’apporto partecipativo di
altri soggetti.
- che il primo motivo di ricorso è infondato. Come chiarito
da giurisprudenza anche recente, per tutte C.d.S. sez. V
05.12.2012 n. 6228, la revoca dell'incarico di assessore
comunale non richiede comunicazione dell'avvio del
procedimento poiché è provvedimento rimesso all’autonomo
apprezzamento del solo Sindaco, che è responsabile
dell’indirizzo politico-amministrativo della sua Giunta e ne
deve se mai rispondere al Consiglio comunale, restando
escluso che sulle sue decisioni possa influire l’apporto
partecipativo di altri soggetti
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 29.03.2013 n. 299 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La motivazione del provvedimento amministrativo è
finalizzata a consentire al cittadino la ricostruzione
dell'iter logico e giuridico attraverso cui
l'amministrazione si è determinata ad adottare un dato
provvedimento, controllando, quindi, il corretto esercizio
del potere a esso conferito dalla legge e facendo valere,
eventualmente nelle opportune sedi, le proprie ragioni.
Pertanto, la garanzia di adeguata tutela delle ragioni del
privato non viene meno per il fatto che nel provvedimento
amministrativo finale non risultino chiaramente e
compiutamente rese comprensibili le ragioni sottese alla
scelta fatta dalla pubblica amministrazione, allorché le
stesse possano essere agevolmente colte dalla lettura degli
atti afferenti alle varie fasi in cui si articola il
procedimento, e ciò in omaggio ad una visione non meramente
formale dell'obbligo di motivazione, ma coerente con i
principi di trasparenza e di lealtà desumibili dall'art. 97
cost..
Al contrario di quanto affermano gli appellanti,
il tema della motivazione dell’atto amministrativo è oramai
improntato, a livello giurisprudenziale e dottrinale, a una
valutazione funzionale degli obblighi spettanti alla
pubblica amministrazione.
Superando le impostazioni delle
teorie formali, la giurisprudenza afferma che la motivazione
del provvedimento amministrativo è finalizzata a consentire
al cittadino la ricostruzione dell'iter logico e giuridico
attraverso cui l'amministrazione si è determinata ad
adottare un dato provvedimento, controllando, quindi, il
corretto esercizio del potere a esso conferito dalla legge e
facendo valere, eventualmente nelle opportune sedi, le
proprie ragioni.
Pertanto, la garanzia di adeguata tutela
delle ragioni del privato non viene meno per il fatto che
nel provvedimento amministrativo finale non risultino
chiaramente e compiutamente rese comprensibili le ragioni
sottese alla scelta fatta dalla pubblica amministrazione,
allorché le stesse possano essere agevolmente colte dalla
lettura degli atti afferenti alle varie fasi in cui si
articola il procedimento, e ciò in omaggio ad una visione
non meramente formale dell'obbligo di motivazione, ma
coerente con i principi di trasparenza e di lealtà
desumibili dall'art. 97 cost. (da ultimo Consiglio di Stato IV,
30.05.2005, n. 2770; conformemente id., 14.02.2005 , n. 435;
id. V, 20.10.2004, n. 6814)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.03.2013 n. 1715 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il sopravvenire di una disciplina urbanistica, in
assenza di atti di assensi del Comune a istanze di mutamento
di destinazione, non può ex se mutare le destinazioni
formalizzate a catasto.
Infatti il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente
rilevante è solo quello tra categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico, posto che
nell'ambito delle stesse categorie catastali possono anche
aversi mutamenti di fatto, ma che, come tali, sono
irrilevanti sul piano urbanistico.
In un caso identico la giurisprudenza aveva espressamente
ricordato come l'abuso eventualmente commesso dal
proprietario -che destina a scopi commerciali una parte di
un immobile con destinazione industriale- non vale in alcun
caso ad imprimere allo stesso una destinazione formale
diversa da quella risultante cartolarmente.
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante
è dunque soltanto quello che interviene legittimamente tra
categorie funzionalmente autonome sotto il profilo
urbanistico, posto che il mutamento di fatto, da
“produttivo" ad attività di commercio all'ingrosso -o anche
al dettaglio- non configura come un mutamento di
destinazione d'uso giuridicamente ed urbanisticamente
rilevante.
Di fronte alla qualificazione catastale in cat.
D/1, irrilevante appare poi in ogni caso che la destinazione
“di fatto” sarebbe tra quelle ammissibili in zona BB dalle
sopravvenute previsioni urbanistiche, in quanto
riconducibile alla “funzione di servizi”, ed in particolare
tra quelle previste all’articolo 43. 4.7 lett. a) n.d.a. del
PUC “connettivo urbano”.
Il sopravvenire di una disciplina urbanistica, in assenza di
atti di assensi del Comune a istanze di mutamento di
destinazione, non può ex se mutare le destinazioni
formalizzate a catasto.
Infatti il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente
rilevante è solo quello tra categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico, posto che
nell'ambito delle stesse categorie catastali possono anche
aversi mutamenti di fatto (cfr. Consiglio Stato, sez. V 22.03.2010 n. 1650), ma che, come tali, sono irrilevanti sul
piano urbanistico.
In un caso identico la giurisprudenza aveva espressamente
ricordato come l'abuso eventualmente commesso dal
proprietario -che destina a scopi commerciali una parte di
un immobile con destinazione industriale- non vale in
alcun caso ad imprimere allo stesso una destinazione formale
diversa da quella risultante cartolarmente (cfr. Consiglio
Stato sez. V 11.06.2003 n. 3295).
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante
è dunque soltanto quello che interviene legittimamente tra
categorie funzionalmente autonome sotto il profilo
urbanistico, posto che il mutamento di fatto, da
“produttivo" ad attività di commercio all'ingrosso
-o
anche al dettaglio- non configura come un mutamento di
destinazione d'uso giuridicamente ed urbanisticamente
rilevante (cfr. Consiglio Stato sez. V 13.02.1993 n. 245)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.03.2013 n. 1712 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La nozione urbanistica di pertinenza è per sua
natura collegata non solo all’esigenza di un oggettivo nesso
funzionale e strumentale rispetto alla "cosa" principale ma
sopratutto al fatto che comunque deve trattarsi di un’opera
di dimensioni modeste e ridotte, altrimenti si rovescerebbe
lo stesso nesso di pertinenzialità.
Nel caso, la struttura stessa di un muro di cemento armato
per la realizzazione di un terrapieno artificiale alto
mediamente ben 12.50 mt. costituiva senza dubbio un
intervento che realizzava un “ampliamento volumetrico” di
consistenza tale da integrare una notevole trasformazione
del territorio, per cui sarebbe stato necessario il previo
rilascio di un permesso di costruire.
Né l’assunta esclusiva natura pertinenziale poteva
nullificare tale rilievo urbanistico. Al riguardo si
concorda totalmente con l’affermazione della difesa
dell’Amministrazione appellante per cui la nozione di
pertinenza urbanistica ha una sua peculiarità propria,
autonoma e distinta dalla nozione civilistica.
La pertinenza urbanistica deve avere non solo una propria
identità fisica ed una propria conformazione strutturale, ma
non deve essere suscettibile di avere una destinazione
autonoma e diversa e non deve possedere un autonomo valore
di mercato. Sulla scia di un antico e consolidato indirizzo
giurisprudenziale la considerazione delle dimensioni
dell’opera in questione deve far escludere che trattasse di
una mera pertinenza dato che:
- nel campo urbanistico, costituisce "pertinenza" quella per
la cui realizzazione è (ed era fin dall’art. 7 d.l. n.
9/1982, conv. in l. n. 92/1982), richiesto non già il
permesso di costruire, bensì la mera autorizzazione
edilizia;
- la pertinenza è per sua natura caratterizzata dalle
dimensioni ridotte e modeste del manufatto rispetto alla
cosa cui esso inerisce, per cui non può essere considerata
tale, e quindi soggiace a concessione edilizia, la
realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni che
modifica l'assetto del territorio e che occupa aree e volumi
diversi rispetto alla "res principalis", indipendentemente
dal vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa.
La nozione urbanistica di pertinenza
è, infatti, per sua natura collegata non solo all’esigenza
di un oggettivo nesso funzionale e strumentale rispetto alla
"cosa" principale ma sopratutto al fatto che comunque deve
trattarsi di un’opera di dimensioni modeste e ridotte,
altrimenti si rovescerebbe lo stesso nesso di pertinenzialità (cfr. Cons. Stato, sez. IV, sent. 15.01.2013 n. 211).
Nel caso, la struttura stessa di un muro di cemento armato
per la realizzazione di un terrapieno artificiale alto
mediamente ben 12.50 mt. costituiva senza dubbio un
intervento che realizzava un “ampliamento volumetrico” di
consistenza tale da integrare una notevole trasformazione
del territorio, per cui sarebbe stato necessario il previo
rilascio di un permesso di costruire (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 25.05.2011 n. 3134).
Né l’assunta esclusiva natura pertinenziale poteva
nullificare tale rilievo urbanistico. Al riguardo si
concorda totalmente con l’affermazione della difesa
dell’Amministrazione appellante per cui la nozione di
pertinenza urbanistica ha una sua peculiarità propria,
autonoma e distinta dalla nozione civilistica.
La pertinenza urbanistica deve avere non solo una propria
identità fisica ed una propria conformazione strutturale, ma
non deve essere suscettibile di avere una destinazione
autonoma e diversa e non deve possedere un autonomo valore
di mercato. Sulla scia di un antico e consolidato indirizzo
giurisprudenziale (Cfr. Cons. Stato, sez. IV sent. 02.02.2012 n. 615 Cons. Stato, sez. II, 12.05.1999 n.
729; sez. V, 23.03.2000 n. 1600; idem 31.03.2009 n.
1998) la considerazione delle dimensioni dell’opera in
questione deve far escludere che trattasse di una mera
pertinenza dato che:
- nel campo urbanistico, costituisce "pertinenza" quella
per la cui realizzazione è (ed era fin dall’art. 7 d.l. n.
9/1982, conv. in l. n. 92/1982), richiesto non già il
permesso di costruire, bensì la mera autorizzazione
edilizia;
- la pertinenza è per sua natura caratterizzata dalle
dimensioni ridotte e modeste del manufatto rispetto alla
cosa cui esso inerisce, per cui non può essere considerata
tale, e quindi soggiace a concessione edilizia, la
realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni che
modifica l'assetto del territorio e che occupa aree e volumi
diversi rispetto alla "res principalis",
indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei
riguardi di essa
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.03.2013 n. 1709 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le Norme tecniche di
attuazione sono atti a contenuto generale, recanti
prescrizioni a carattere normativo e programmatico, che
hanno la precipua funzione di essere destinate a regolare la
futura attività edilizia.
Proprio per la loro natura regolamentare esse non sono
derogabili né dai privati e nemmeno dallo stesso Comune che
sono tenuti a rispettarle ed a farle rispettare.
Le attività edilizie devono dunque necessariamente
rispettare le indicazioni tecniche delle NTA, le quali non
possono essere aggirate con artifici momentanei di natura
assolutamente transitoria (come è il caso “classico” del
temporaneo riempimento degli spazi al fine di escluderli dal
computo nella superficie utile lorda).
Deve al riguardo rilevarsi che le Norme
tecniche di attuazione sono atti a contenuto generale,
recanti prescrizioni a carattere normativo e programmatico,
che hanno la precipua funzione di essere destinate a
regolare la futura attività edilizia (cfr. Consiglio Stato
sez. V 06.03.2007 n. 1052).
Proprio per la loro natura regolamentare (cfr. Consiglio
Stato sez. VI 05.08.2005 n. 4159) esse non sono
derogabili né dai privati e nemmeno dallo stesso Comune che
sono tenuti a rispettarle ed a farle rispettare.
Le attività edilizie devono dunque necessariamente
rispettare le indicazioni tecniche delle NTA, le quali non
possono essere aggirate con artifici momentanei di natura
assolutamente transitoria (come è il caso “classico”
del temporaneo riempimento degli spazi al fine di escluderli
dal computo nella superficie utile lorda)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.03.2013 n. 1702 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - INCARICHI
PROFESSIONALI:
In caso di appello
proveniente da un organo di ente pubblico la leggibilità
della firma è del tutto irrilevante ai fini
dell’ammissibilità del gravame in quanto, fatti salvi i casi
di falso materiale, la certezza dell’attribuibilità del
gravame è specificamente garantita dall’apposizione dei
relativi timbri e dall’intestazione dell’ente.
In tali casi non può infatti sussistere alcuna incertezza
sulla persona fisica firmataria a cui fare riferimento per
l’imputazione degli effetti giuridici del gravame.
La mancata indicazione del nominativo e l'illeggibilità
della firma del Sindaco nella procura rilasciata dal Comune
al difensore, non determina affatto l’invalidità della
procura stessa, atteso che la persona fisica che riveste pro
tempore detta qualità è un dato di pubblico dominio,
accertabile senza alcuna difficoltà presso lo stesso ente.
---------------
A partire dall'art. 36, comma 1, l. 08.06.1990 n. 142,
recante il nuovo ordinamento delle autonomie locali, compete
esclusivamente al Sindaco il potere di conferire al
difensore del Comune la procura alle liti, senza alcuna
necessità di autorizzazione della Giunta municipale.
La titolarità esclusiva del potere di rappresentanza
processuale del Comune è dunque conferita direttamente dalla
legge all'organo monocratico.
Il sindaco, quale rappresentante legale dell'ente locale, ai
sensi dell'art. 50, comma 2, d.lgs. 18.08.2000 n. 267, è
dunque l'organo che lo rappresenta in giudizio ed ha il
potere di conferire la procura al difensore senza che
occorra alcuna deliberazione di autorizzazione alla lite da
parte della Giunta, fatto salvo il caso che lo Statuto la
richieda espressamente.
Contrariamente a quanto sostengono gli
appellati, in caso di appello proveniente da un organo di
ente pubblico la leggibilità della firma è del tutto
irrilevante ai fini dell’ammissibilità del gravame in
quanto, fatti salvi i casi di falso materiale, la certezza
dell’attribuibilità del gravame è specificamente garantita
dall’apposizione dei relativi timbri e dall’intestazione
dell’ente.
In tali casi non può infatti sussistere alcuna incertezza
sulla persona fisica firmataria a cui fare riferimento per
l’imputazione degli effetti giuridici del gravame (cfr.
Consiglio Stato sez. V 21.04.2009 n. 2402).
La mancata indicazione del nominativo e l'illeggibilità
della firma del Sindaco nella procura rilasciata dal Comune
al difensore, non determina affatto l’invalidità della
procura stessa, atteso che la persona fisica che riveste pro
tempore detta qualità è un dato di pubblico dominio,
accertabile senza alcuna difficoltà presso lo stesso ente.
--------------
Deve essere
rigettata anche l’eccezione concernente l’inammissibilità
dell’appello per mancata produzione dell’autorizzazione
della Giunta Municipale, prevista per evitare possibili
“abusi”.
A parte che, in materia di tutela dei propri interessi, è
comunque difficilmente comprensibile il riferimento agli
“abusi” di cui parlano gli appellati, si deve osservare che,
a partire dall'art. 36, comma 1, l. 08.06.1990 n. 142,
recante il nuovo ordinamento delle autonomie locali, compete
esclusivamente al Sindaco il potere di conferire al
difensore del Comune la procura alle liti, senza alcuna
necessità di autorizzazione della Giunta municipale.
La titolarità esclusiva del potere di rappresentanza
processuale del Comune è dunque conferita direttamente dalla
legge all'organo monocratico (cfr. Consiglio di Stato, Sez.
V 11.05.2012 n. 2730).
Il sindaco, quale rappresentante legale dell'ente locale, ai
sensi dell'art. 50, comma 2, d.lgs. 18.08.2000 n. 267, è
dunque l'organo che lo rappresenta in giudizio ed ha il
potere di conferire la procura al difensore senza che
occorra alcuna deliberazione di autorizzazione alla lite da
parte della Giunta, fatto salvo il caso che lo Statuto la
richieda espressamente.
Di qui l’ammissibilità dell’appello sotto tale profilo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.03.2013 n. 1700 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel caso di una strada vicinale, per questo come
tale giuridicamente equiparata alle strade comunali, non
possono esservi dubbi sulla sussistenza del rispetto delle
relative fasce stradali inedificabili.
Al riguardo
deve premettersi che, per l’art. 2, VI° co., lett. D), ultimo
periodo del d.lgs. n. 285/1992 Codice della Strada: “… Ai
fini del presente codice, le strade "vicinali" sono
assimilate alle strade comunali…”.
Nel caso in esame, l’estratto delle mappe catastali del PRG
(allegate all’appello sub 2) individua come “Strada Cavallara” il sedime della via che, intersecando la
Provinciale n. 18, ricollega le case sparse “Cason” e la
proprietà Schio alla medesima strada provinciale.
Tale ultimo particolare, da solo, esclude assolutamente la
natura meramente campestre o interpoderale del tracciato,
come indica anche il segno grafico identificativo, che è
quello di una “strada vicinale”.
E’ dunque evidente l’errore sui presupposti della decisione
del TAR, che ha qualificato come interpoderale Via Cason, ed
ha indebitamente escluso l’esigenza di rispettare le
relative fasce stradali.
Al contrario, dato che la strada in questione era vicinale,
e per questo come tale giuridicamente equiparata alle strade
comunali, non possono esservi dubbi sulla sussistenza nel
caso in esame di un vincolo di inedificabilità stradale.
In tali considerazioni, nelle quali restano assorbiti i
restanti profili di censura, l’appello deve essere accolto
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.03.2013 n. 1700 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della tempestività del ricorso in materia
di titoli edilizi rilasciati a terzi, occorre distinguere:
- nel caso di impugnazione del titolo edilizio "ordinario"
-salvo che non venga fornita la prova certa di una
conoscenza anticipata del provvedimento abilitativo- il
termine di decadenza decorre dal completamento dei lavori,
cioè dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la
reale portata dell'intervento in precedenza assentito;
- nel caso di impugnazione del titolo edilizio "in
sanatoria": il termine decorre invece solamente dalla data
in cui sia portato a conoscenza che, per una determinata
opera abusiva già esistente, è stata rilasciata la
concessione edilizia in sanatoria.
Ai fini della tempestività del ricorso in
materia di titoli edilizi rilasciati a terzi, occorre
distinguere:
- nel caso di impugnazione del titolo edilizio "ordinario"
-salvo che non venga fornita la prova certa di una
conoscenza anticipata del provvedimento abilitativo- il
termine di decadenza decorre dal completamento dei lavori,
cioè dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la
reale portata dell'intervento in precedenza assentito (cfr.
Cons. St., Ad. Plen., 29.07.2011 n. 15; Cons. St., sez. VI, 10.12.2010 n. 8705; Cons. St., sez. IV, 29.05.2009 n. 3358);
- nel caso di impugnazione del titolo edilizio "in
sanatoria": il termine decorre invece solamente dalla data
in cui sia portato a conoscenza che, per una determinata
opera abusiva già esistente, è stata rilasciata la
concessione edilizia in sanatoria (cfr. Consiglio Stato,
sez. IV 11.11.2010 n. 8017; Cons. St., sez. VI, 27.12.2007
n. 6674; Cons. St., sez. V, 21.12.2004 n. 8147)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.03.2013 n. 1699 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli "usi civici" sono
diritti reali millenari di natura collettiva, volti ad
assicurare un’utilità o comunque un beneficio ai singoli
appartenenti ad una collettività .
Essi sono disciplinati, in linea generale, dalla legge
16.06.1927, n. 1766 (mantenuta in vigore dall’allegato 1 del
comma 1 dell’art. 1, D.Lgs. 01.12.2009, n. 179,
limitatamente agli articoli da 1 a 34 e da 36 a 43) e del
relativo regolamento di cui al r.d. n. 332/1928.
Il legislatore, nel disciplinare la destinazione delle terre
sulle quali gravano usi civici all’art. 12, II° co. della L.
n. 1766 cit., ha sancito, in via di principio,
l’inalienabilità e l’impossibilità di mutamento di
destinazione, dei terreni convenientemente utilizzabili come
bosco o come pascolo permanente e -solo in via di eccezione-
salva la possibilità di richiedere l’autorizzazione (oggi di
competenza della Regione in luogo del Ministero) a derogare
dai predetti limiti.
Tale deroga all'utilizzazione del terreno, comportando
necessariamente limitazioni dei diritti d’uso civico per le
collettività cui appartengono, anche oggi ha carattere
tipicamente eccezionale e non può né deve risolversi nella
perdita dei benefici, anche solo di carattere ambientale per
la generalità degli abitanti, unicamente a vantaggio di
privati.
In tale direzione, se i beni di uso civico sono di norma
inalienabili, incommerciabili ed insuscettibili di
usucapione, esattamente il TAR ha fatto proprio l’univoco
orientamento della Corte di Cassazione, per cui essi sono
sostanzialmente riconducibili al regime giuridico della
demanialità.
In tale scia, le terre appartenenti ai diritti civici
risultano, di norma, incompatibili con l'attività
edificatoria per l’evidente ragione che “privatizzano” a
tempo indeterminato un bene, i cui diritti spettano invece
ad una collettività, sottraendo spesso definitivamente alla
pubblica utilità i benefici provenienti dalla terra, dai
boschi e dalle acque.
Come è noto, gli "usi civici" sono diritti reali
millenari di natura collettiva, volti ad assicurare
un’utilità o comunque un beneficio ai singoli appartenenti
ad una collettività .
Essi sono disciplinati, in linea generale, dalla legge 16.06.1927, n. 1766 (mantenuta in vigore dall’allegato 1
del comma 1 dell’art. 1, D.Lgs. 01.12.2009, n. 179,
limitatamente agli articoli da 1 a 34 e da 36 a 43) e del
relativo regolamento di cui al r.d. n. 332/1928.
Il legislatore, nel disciplinare la destinazione delle terre
sulle quali gravano usi civici all’art. 12, II° co. della L.
n. 1766 cit., ha sancito, in via di principio,
l’inalienabilità e l’impossibilità di mutamento di
destinazione, dei terreni convenientemente utilizzabili come
bosco o come pascolo permanente e -solo in via di
eccezione- salva la possibilità di richiedere
l’autorizzazione (oggi di competenza della Regione in luogo
del Ministero) a derogare dai predetti limiti.
Tale deroga all'utilizzazione del terreno, comportando
necessariamente limitazioni dei diritti d’uso civico per le
collettività cui appartengono, anche oggi ha carattere
tipicamente eccezionale e non può né deve risolversi nella
perdita dei benefici, anche solo di carattere ambientale per
la generalità degli abitanti, unicamente a vantaggio di
privati (cfr. Consiglio Stato sez. IV 25.09.2007 n.
4962; Consiglio Stato sez. VI 06.03.2003 n. 1247).
In tale direzione, se i beni di uso civico sono di norma
inalienabili, incommerciabili ed insuscettibili di
usucapione, esattamente il TAR ha fatto proprio l’univoco
orientamento della Corte di Cassazione, per cui essi sono
sostanzialmente riconducibili al regime giuridico della
demanialità (cfr. di recente Cass. Civ. III, 28.09.2011 n. 19792; Cass. Civ. III, 28.09.2011 n. 19792;
Cass. Civ., sez III, n. 1940/2004; idem Sez. V, n.
11993/2003).
In tale scia, le terre appartenenti ai diritti civici
risultano, di norma, incompatibili con l'attività
edificatoria (arg. Consiglio Stato sez. IV 19.12.2003
n. 8365) per l’evidente ragione che “privatizzano” a tempo
indeterminato un bene, i cui diritti spettano invece ad una
collettività, sottraendo spesso definitivamente alla
pubblica utilità i benefici provenienti dalla terra, dai
boschi e dalle acque.
La pur condivisibile finalità dell’incremento delle fonti di
energia rinnovabili non può portare il Collegio ad accettare
la qualificazione come “provvisorie” di strutture di
carattere oggettivamente permanente, quali sono quelle che
conseguono all’apposizione al suolo di cinque tralicci
d’acciaio (la cui altezza minima in genere è di oltre 60 mt.),
oltre alle relative opere accessorie (linee di adduzione,
cabine, strade di accesso ecc.).
Contrariamente a quanto mostrano di ritenere le società
appellanti, in sostanza le collettività –sia nel loro
insieme che in testa a ciascuno dei suoi componenti uti
singulus– vantano nei confronti dei relativi beni un
diritto collettivo di natura reale che si esercita in forma
“duale” con il Comune il quale, ente esponenziale dei
diritti della collettività, ordinariamente li amministra in
suo nome, mentre per iniziative di carattere straordinario è
sottoposto alla diretta ed indefettibile vigilanza della
Regione.
In tali casi la eccezionalità della deroga rispetto
all’ordinario regime di intangibilità di tali diritti si
impone proprio perché il “mutamento di destinazione”, nella
realtà delle cose, implica il venir meno della possibilità
stessa di usufruire dei frutti dei terreni di uso civico.
Del tutto inconsistente è quindi la tesi delle società
appellanti per cui l’amministrazione comunale sarebbe la
titolare unica dei diritti di disposizione, perché se così
fosse i diritti civici scolorirebbero addirittura alla
stregua dei meri beni del “patrimonio disponibile”.
Quando il mutamento di destinazione “in deroga” delle terre
sottoposte ad uso civico si risolve in un’attribuzione a
terzi di diritti spettanti alla collettività, l’iter per il
rilascio della relativa autorizzazione deve quindi essere
necessariamente ricondotto all’ambito proprio dei
procedimenti di concessione dei beni demaniali, in quanto ha
l’identico effetto di privare i componenti della
collettività (che ne sono i veri titolari) del beneficio,
per trasferirlo a soggetti privati che richiedono
l'utilizzazione imprenditoriale del terreno a fini di lucro
personale per un consistente lasso di tempo.
Infatti, se i diritti appartengono alla collettività e
questi sono solo amministrati dal Comune sotto il controllo
della Regione, è evidente che le relative dinamiche
procedimentali di gestione non solo debbano corrispondere al
predetto assetto istituzionale, ma soprattutto debbano
comunque avvenire nel rispetto dei cardini della pubblicità,
imparzialità, trasparenza e non discriminazione in quanto,
analogamente alle concessioni di beni demaniali, anche qui
il procedimento finisce per costituire un utilizzo privato
di beni della collettività che, nel favorire le possibilità
di lucro di un determinato imprenditore in danno degli
altri, altera le naturali dinamiche del mercato (arg. ex
Corte Conti 13.05.2005 n. 5).
La natura comunque “pubblica” dei diritti di uso civico
comporta,in linea generale, l’applicazione dei principi di
derivazione comunitaria, di concorrenza, parità di
trattamento, trasparenza, non discriminazione, e
proporzionalità, di cui all'articolo 1 della legge n. 241
del 1990 e s.m.i, i quali non solo si applicano direttamente
nel nostro ordinamento, ma debbono informare il
comportamento della P.A., anche quando, come nel caso di
concessioni di diritti su beni pubblici, non vi è una
specifica norma che preveda la procedura dell'evidenza
pubblica (cfr. Consiglio di Stato Sezione V, 19.06.2009,
n. 4035).
In coerenza di tale ultima considerazione e della ricordata
natura collettiva “duale” dei diritti reali, l’interpretazione costituzionalmente orientata ai cardini di
cui all’art. 97 Cost. impone che le procedure concernenti le
richieste di autorizzazione al mutamento di destinazione
debbano anche rispettare le regole di cui alla legge 07.08.1990, n. 241, e s.m.i. ed in particolare i principi
generali:
- del contraddittorio, di informazione e di partecipazione
pubblica: pertanto, prima di procedere a qualunque
iniziativa in materia di deroga ex art. 12 della L. n.
1766/1927, le amministrazioni comunali -la cui
rappresentanza è pur sempre in nome della loro collettività- devono dare massima notorietà a mezzo di pubblici avvisi
anche sul proprio sito internet, dell’esistenza
dell’iniziativa ed delle relative condizioni generali, al
fine di consentire la partecipazione e richieste di
chiarimenti, l’emersione del dissenso, il vaglio delle
eventuali obiezioni dei soggetti appartenenti alla comunità
che sono i reali titolari dei diritti civici;
- di trasparenza, pubblicità ed imparzialità: la procedura
ad evidenza pubblica non può che seguire il canone generale
di cui all’art. 12 della L. n. 241/1990 che è espressione
concreta dei cardini costituzionali di cui all’art. 97 della
Costituzione a presidio dei principi dell’imparzialità e
della trasparenza (cfr. Consiglio Stato sez. V 10.05.2005 n. 2345). La predetta norma (oltre ai casi “… di
sovvenzioni e sussidi, ecc., ..” ) disciplina, senza
distinzioni di sorta, tutte le concessioni concernenti
“…l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a
persone ed enti pubblici e privati” tra i quali rientrano
indubitabilmente anche le fattispecie di cui all’art. 12
della L. n. 1766/1927. Pertanto, l’autorizzazione alla
cessione ovvero al mutamento di destinazione di un bene
civico deve essere senz’altro “…subordinata alla
predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle
Amministrazioni procedenti dei criteri e delle modalità cui
le Amministrazioni devono attenersi” (come recita il cit.
art. 12).
E ciò a prescindere dal fatto che il procedimento de quo sia
stato iniziato, o meno, ad istanza di parte. Infatti anche
nell’ipotesi in cui il procedimento inizi non già per
volontà dell'amministrazione bensì sulla base di una
specifica richiesta di uno dei soggetti interessati
all'utilizzo del bene, le concessioni di beni civici non
sfuggono ai principi che impongono comunque l'espletamento
di un confronto concorrenziale per l’individuazione di tutti
i soggetti potenzialmente interessati e per il conseguimento
del massimo utile per l’universitas civium.
In definitiva, in materia di usi civici l’applicazione
dell’art. 12 della L. n. 1766 non può in nessun caso
prescindere dal previo esperimento della pubblicità e dalla
predeterminazione dei criteri di assegnazione che devono
essere resi previamente noti a garanzia della trasparenza e
dell’imparzialità dell'azione amministrativa e dalla
successiva puntuale verifica dell’applicazione degli stessi
nel provvedimento comunale di richiesta alla Regione di
assenso al mutamento di destinazione.
Sotto altro profilo poi, contrariamente a quanto affermano
le società appellanti, quando, come nel caso in esame, la
richiesta di mutamento di destinazione comporti una
rilevante e permanente alterazione dello stato dei luoghi
non è escluso che -a maggior garanzia dell’eventuale
ripristino dei luoghi e del rispetto delle regole per la
definizione dei rapporti giuridici successivi alla scadenza
del periodo tra affidatari e collettività- il beneficiario
dell’autorizzazione per lo sfruttamento “in deroga” ex art.
12 della L. n. 1766 di terreni gravati da usi civici possa
essere individuato attraverso l’esperimento di una procedura
di "project financing", ex art. 153, del d.lgs. 12/04/2006,
n. 163 e s.m.i. (“Codice dei contratti”).
In conseguenza delle affermazioni che precedono, dunque
pertanto, il Comune nel caso in esame:
- in primo luogo, avrebbe dovuto dare pubblica notizia (es.
con pubbliche affissioni, albo pretorio. siti informatici,
ecc. ecc.), dell’esistenza di una richiesta di deroga al
diritto civico delle società;
- in secondo luogo, era tenuto a procedere alla
pubblicazione dell’avviso diretto ad altri possibili
operatori professionali del settore contenenti i requisiti
ed elementi di ammissione (ovvero una sintesi delle proposte
di utilizzo e delle utilità promesse), i criteri di
valutazione delle eventuali richieste alternative, nonché le
modalità procedimentali per la valutazione delle diverse
ipotesi
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.03.2013 n. 1698 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In linea generale, la possibilità di ricorrere
avverso il rilascio di una concessione edilizia da parte di
'chiunque' è stata riconosciuta fin dall'art. 31, comma 9,
l. n. 1150 del 42 (come modificato dall'art. 10 L. n. 765
del 1967). Tale norma, se non configurava un nuovo tipo di
azione popolare, riconosceva la posizione di interesse a chi
comunque si trovi in una situazione di rapporto stabile con
la zona.
La legittimazione alla proposizione del ricorso per
l'annullamento di una concessione edilizia, discende
direttamente dalla c.d. “vicinitas”, cioè da una situazione
di stabile collegamento giuridico con l’area oggetto
dell'intervento costruttivo. Tale situazione di norma esime
sia dall’accertamento concreto dell’effettivo pregiudizio, e
sia dalla stretta dimostrazione dell’esistenza dei titoli di
legittimazione del soggetto che propone l'impugnazione.
Salvo il caso di una prova contraria, sempre concessa alla
controparte, della totale inesistenza di un interesse o di
una situazione di vicinitas, si è infatti sempre ritenuto
corretto riconoscere, a chi si affermi danneggiato, un
interesse tutelato a ché il provvedimento
dell'Amministrazione sia procedimentalmente e
sostanzialmente ossequioso delle norme vigenti in materia.
Ciò premesso, del tutto esattamente il TAR ha qui disatteso
l’eccezione di carenza di legittimazione, essendo a tale
riguardo sufficiente a radicare il suo preciso interesse
all’impugnazione il titolo giuridico di comodataria (anziché
di locataria) del capannone posto sul confine.
Nel caso in esame non vi sono dubbi in punto di fatto che la
ricorrente era realmente la “conduttrice” dell’immobile.
Tale nozione è stata manifestamente utilizzata dal TAR, nel
suo senso più ampio, di soggetto che aveva la legittima
disponibilità di una cosa, in base ad un titolo giuridico
negoziale (ma sul punto vedi anche amplius infra).
Il comodato, di cui all’art. 1803 c.c., è infatti il
contratto con cui una parte consegna all'altra un bene ”...
affinché se ne serva per un tempo o un uso determinato, con
l'obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta”, che
peraltro anche condizionatamente all’adempimento di un
modus; o di un onere, come ad es. la relativa manutenzione.
In ogni caso il comodato di un bene immobile in forza di un
titolo contrattuale attribuisce al destinatario la qualifica
di "detentore qualificato autonomo" nel suo esclusivo
interesse.
La sua natura come contratto tipico e la previsione di una
durata normalmente prestabilita, fa sì che il contratto di
comodato, non meno che la locazione, ben dunque possa
costituire un titolo sufficiente ad integrare una posizione
soggettiva giuridicamente diversificata come tale meritevole
di tutela.
In linea generale la possibilità di
ricorrere avverso il rilascio di una concessione edilizia da
parte di 'chiunque', era infatti stata riconosciuta fin
dall'art. 31, comma 9, l. n. 1150 del 42 (come modificato
dall'art. 10 L. n. 765 del 1967). Tale norma, se non
configurava un nuovo tipo di azione popolare, riconosceva la
posizione di interesse a chi comunque si trovi in una
situazione di rapporto stabile con la zona.
Come la giurisprudenza della Sezione ha sottolineato più
volte (cfr. da ultimo n. 361 del 22/01/2013) la
legittimazione alla proposizione del ricorso per
l'annullamento di una concessione edilizia, discende
direttamente dalla c.d. “vicinitas”, cioè da una situazione
di stabile collegamento giuridico con l’area oggetto
dell'intervento costruttivo. Tale situazione di norma esime
sia dall’accertamento concreto dell’effettivo pregiudizio, e
sia dalla stretta dimostrazione dell’esistenza dei titoli di
legittimazione del soggetto che propone l'impugnazione.
Salvo il caso di una prova contraria, sempre concessa alla
controparte, della totale inesistenza di un interesse o di
una situazione di vicinitas, si è infatti sempre ritenuto
corretto riconoscere, a chi si affermi danneggiato, un
interesse tutelato a ché il provvedimento
dell'Amministrazione sia procedimentalmente e
sostanzialmente ossequioso delle norme vigenti in materia
(cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 05.01.2011, n. 18).
Ciò premesso, del tutto esattamente il TAR ha qui disatteso
l’eccezione di carenza di legittimazione, essendo a tale
riguardo sufficiente a radicare il suo preciso interesse
all’impugnazione il titolo giuridico di comodataria (anziché
di locataria) del capannone posto sul confine.
Nel caso in esame non vi sono dubbi in punto di fatto che,
all’introduzione del ricorso di primo grado ed
all’attualità, la ricorrente Fadaf sas, –come esattamente
affermato dal TAR– era realmente la “conduttrice”
dell’immobile.
Tale nozione è stata manifestamente utilizzata dal TAR, nel
suo senso più ampio, di soggetto che aveva la legittima
disponibilità di una cosa, in base ad un titolo giuridico
negoziale (ma sul punto vedi anche amplius infra).
Il comodato, di cui all’art. 1803 c.c., è infatti il
contratto con cui una parte consegna all'altra un bene ”...
affinché se ne serva per un tempo o un uso determinato, con
l'obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta”, che
peraltro anche condizionatamente all’adempimento di un
modus; o di un onere, come ad es. la relativa manutenzione
(cfr. Cass. Civ. Sent. n. 485/2003); ovvero al pagamento di
una somma a titolo di mero rimborso delle spese (cfr. Cass.
Civ. Sent. n. 4976 del 1997; Cass. Civ. Sent. n. 3021 del
2001; Cass. Civ. Sent. n. 2091 del 1985).
In ogni caso il comodato di un bene immobile in forza di un
titolo contrattuale attribuisce al destinatario la qualifica
di "detentore qualificato autonomo" nel suo esclusivo
interesse.
La sua natura come contratto tipico e la previsione di una
durata normalmente prestabilita, fa sì che il contratto di
comodato, non meno che la locazione, ben dunque possa
costituire un titolo sufficiente ad integrare una posizione
soggettiva giuridicamente diversificata come tale meritevole
di tutela. Di qui la piena legittimazione della ricorrente
in primo grado Fadaf.
Tutti i motivi vanno dunque respinti
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.03.2013 n. 1693 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il fattore “tempo” non
può comportare alcuna aspettativa giuridicamente qualificata
in capo all’abusivista in quanto il comportamento illecito
dei privati è sempre sanzionabile, qualunque sia il tempo
trascorso e qualunque sia l'entità dell'infrazione.
Nel caso di un abuso edilizio la circostanza che un
manufatto sia risalente nel tempo è infatti giuridicamente
irrilevante dato che l'abuso edilizio costituisce un
illecito permanente. Per questo, in linea di principio, non
può mai parlarsi di né “usucapione” (e tantomeno) del
“diritto all’abuso”.
In conseguenza i terzi mantengono intatto il loro interesse
alla declaratoria dell’illiceità della costruzione senza che
abbia alcun rilievo il decorso del tempo dalla ultimazione
delle opere edilizie contestate.
Al pari di quanto previsto per l'impugnazione delle
concessioni edilizie, chiunque si trovi in una situazione di
stabile collegamento con la zona interessata dalla
costruzione oggetto di sanatoria, è infatti legittimato ad
impugnare le concessioni in sanatoria di cui all'art. 31, l.
n. 47 del 1985, ritenute illegittime a decorrere dal momento
della piena conoscenza del contenuto del condono. Il
sopravvenire della sanatoria del Comune che legittimava
l’abuso a seguito dell’istanza dell’interessato che ha
giuridico rilievo per i terzi.
In tal caso infatti l’interesse del terzo è sempre attuale
in quanto, contrariamente a quanto afferma l’appellante,
l’annullamento della concessione edilizia in sanatoria,
comporta automaticamente il conseguenziale ordine
demolizione delle opere abusive o in difetto l’acquisizione
che è, a sua volta, automatica conseguenza del mancato
rispetto dell’ordine di demolizione.
In primo luogo
si deve ricordare che il fattore “tempo” non può comportare
alcuna aspettativa giuridicamente qualificata in capo
all’abusivista in quanto il comportamento illecito dei
privati è sempre sanzionabile, qualunque sia il tempo
trascorso e qualunque sia l'entità dell'infrazione (cfr.
Consiglio di Stato sez. IV 04.05.2012 n. 2592).
Gli artt. 33 e 40, primo comma, della legge 28.02.1985
n. 47 dispongono che le sanzioni previste dal capo I erano
applicabili indistintamente a tutte le opere realizzate
anteriormente e non sanate, e realizzate senza il prescritto
titolo, anche prima dell'entrata in vigore della legge n. 10
del 1977.
Nel caso di un abuso edilizio la circostanza che un
manufatto sia risalente nel tempo è infatti giuridicamente
irrilevante dato che l'abuso edilizio costituisce un
illecito permanente (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 27.12. 2011 n. 6873). Per questo, in linea di principio,
non può mai parlarsi di né “usucapione” (e tantomeno) del
“diritto all’abuso”.
In conseguenza i terzi mantengono intatto il loro interesse
alla declaratoria dell’illiceità della costruzione senza che
abbia alcun rilievo il decorso del tempo dalla ultimazione
delle opere edilizie contestate. Al pari di quanto previsto
per l'impugnazione delle concessioni edilizie, chiunque si
trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona
interessata dalla costruzione oggetto di sanatoria, è
infatti legittimato ad impugnare le concessioni in sanatoria
di cui all'art. 31, l. n. 47 del 1985, ritenute illegittime
a decorrere dal momento della piena conoscenza del contenuto
del condono (cfr. Consiglio Stato sez. V 07.05.2008 n.
2086; Consiglio Stato sez. V 05.02.2007 n. 452). Il
sopravvenire della sanatoria del Comune che legittimava
l’abuso a seguito dell’istanza dell’interessato che ha
giuridico rilievo per i terzi.
In tal caso infatti l’interesse del terzo è sempre attuale
in quanto, contrariamente a quanto afferma l’appellante,
l’annullamento della concessione edilizia in sanatoria,
comporta automaticamente il conseguenziale ordine
demolizione delle opere abusive o in difetto l’acquisizione
che è, a sua volta, automatica conseguenza del mancato
rispetto dell’ordine di demolizione (cfr. Cons. giust. amm.
Sicilia sez. giurisd. 19.03.2002 n. 155; Consiglio Stato,
sez. V 12.12.2008 n. 6174 ed in precedenza Consiglio
Stato, sez. V 26.01.2000 n. 341)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.03.2013 n. 1693 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 167, comma 4, del Codice n. 42 del 2004
non consente di sanare le opere edilizie che abbiano
comportato l’aumento di volumi (anche tecnici), ma osserva
nel contempo che l’art. 167, proprio perché intende
valorizzare e salvaguardare le aree sottoposte al vincolo
paesaggistico, consente alla Soprintendenza di esaminare
favorevolmente l’istanza di sanatoria (ovviamente, ferme
restando tutte le altre valutazioni di sua competenza),
quando l’istanza preveda la demolizione di volumi, del tutto
legittimamente realizzati, per ‘compensare’ il mantenimento
di altri, realizzati senza titolo.
In altri termini, purché si mantenga il rispetto dei limiti
legittimamente assentibili in tema delle superfici e dei
volumi, ben può la Soprintendenza ritenere accoglibile
l’istanza di sanatoria, quando la demolizione di volumi
legittimamente assentiti consenta di ritenere che, nel suo
complesso, la volumetria legittimamente assentibile non sia
inferiore a quella da porre a base del provvedimento di
sanatoria.
Per ciò che riguarda l'utilizzazione della demolizione dei
manufatti esterni all’edificio al fine di compensare
l'aumento di volumetria ad abitazione civile di cui al
decimo e al dodicesimo motivo, osserva la Sezione che
dalla documentazione acquisita risulta con chiarezza una
circostanza senz’altro decisiva per la soluzione della
controversia.
Con i provvedimenti impugnati in primo grado, è stata
assentita la sanatoria degli incrementi di volume che hanno
riguardato l’edificio, poiché la relativa istanza ha chiesto
di tenere conto della volumetria del corpo di fabbrica
immediatamente adiacente, di cui è stata prevista la
demolizione (per ottenere la sanatoria) ed è stato poi
effettivamente demolito.
Stando così le cose, la Sezione ritiene di ribadire il
proprio orientamento (tra le altre, Sez. VI, 20.06.2012, n.
3578) per il quale l’art. 167, comma 4, del Codice n. 42 del
2004 non consente di sanare le opere edilizie che abbiano
comportato l’aumento di volumi (anche tecnici), ma osserva
nel contempo che l’art. 167, proprio perché intende
valorizzare e salvaguardare le aree sottoposte al vincolo
paesaggistico, consente alla Soprintendenza di esaminare
favorevolmente l’istanza di sanatoria (ovviamente, ferme
restando tutte le altre valutazioni di sua competenza),
quando l’istanza preveda la demolizione di volumi, del tutto
legittimamente realizzati, per ‘compensare’ il
mantenimento di altri, realizzati senza titolo.
In altri termini, purché si mantenga il rispetto dei limiti
legittimamente assentibili in tema delle superfici e dei
volumi, ben può la Soprintendenza ritenere accoglibile
l’istanza di sanatoria, quando la demolizione di volumi
legittimamente assentiti consenta di ritenere che, nel suo
complesso, la volumetria legittimamente assentibile non sia
inferiore a quella da porre a base del provvedimento di
sanatoria.
Ciò è quanto è avvenuto nella specie.
L’aumento di volumetria sul fabbricato destinato ad
abitazione, pari a 236,88 metri cubi, è risultato inferiore
al volume derivante dalla demolizione (effettivamente
disposta) degli annessi, pari a 277,02 metri cubi.
Invece, per quanto esposto in precedenza, non rilevano il
corpo scala ed il loggiato (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 26.03.2013 n. 1671 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In sede di previsioni di
zona di piano regolatore, la valutazione dell’idoneità delle
aree a soddisfare, con riferimento alle possibili
destinazioni, specifici interessi urbanistici, rientra nei
limiti dell’esercizio del potere discrezionale, rispetto al
quale, a meno che non siano riscontrabili errori di fatto o
abnormi illogicità, non è configurabile neppure il vizio di
eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla
comparazione con la destinazione impressa agli immobili
adiacenti.
Ed invero la valutazione da parte del Consiglio comunale in
sede di adozione di una variante al piano regolatore circa
l'idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle
possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici,
costituisce l'esercizio di un potere di scelta, a carattere
discrezionale, rispetto al quale non è ipotizzabile -in
relazione a zone contigue od affini che siano assoggettate a
regimi diversi- un'identità di posizioni soggettive ed
oggettive che costituisce il presupposto per poter
configurare il vizio di eccesso di potere per disparità di
trattamento.
Infatti “in sede di previsioni di zona di piano
regolatore, la valutazione dell’idoneità delle aree a
soddisfare, con riferimento alle possibili destinazioni,
specifici interessi urbanistici, rientra nei limiti
dell’esercizio del potere discrezionale, rispetto al quale,
a meno che non siano riscontrabili errori di fatto o abnormi
illogicità, non è configurabile neppure il vizio di eccesso
di potere per disparità di trattamento basata sulla
comparazione con la destinazione impressa agli immobili
adiacenti”. (Consiglio Stato, sez. IV, 21.04.2010, n.
2264; Consiglio Stato , sez. IV, 18.06.2009, n. 4024; in
senso analogo TAR Lombardia Milano, sez. II, 24.07.2003, n. 3654).
Ed invero “la valutazione da parte del Consiglio comunale in
sede di adozione di una variante al piano regolatore circa
l'idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle
possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici,
costituisce l'esercizio di un potere di scelta, a carattere
discrezionale, rispetto al quale non è ipotizzabile -in
relazione a zone contigue od affini che siano assoggettate a
regimi diversi- un'identità di posizioni soggettive ed
oggettive che costituisce il presupposto per poter
configurare il vizio di eccesso di potere per disparità di
trattamento” (TAR Piemonte Torino, sez. I, 19.11.2003,
n. 1602)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.03.2013 n. 1639 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’espansione della zona
cimiteriale costituisce solo una delle molteplici ragioni
del vincolo cimiteriale e il vincolo non può dirsi
interrotto per la presenza di una strada.
Invero, "la fascia di rispetto cimiteriale prevista
dall'art. 338 t.u. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265,
misurata a partire dal muro di cinta del cimitero,
costituisce un vincolo assoluto d'inedificabilità, tale da
imporsi anche a contrastanti previsioni di piano regolatore
generale, che non consente in alcun modo l'allocazione sia
di edifici che di opere incompatibili col vincolo medesimo,
in considerazione dei molteplici interessi pubblici che tale
fascia di rispetto intende tutelare e che sono da
individuarsi in esigenze di natura igienico-sanitaria, nella
salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati all'inumazione e alla sepoltura, nel mantenimento
di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
segue da ciò che non esiste ragione alcuna per ritenere tale
vincolo applicabile solo ai centri abitati e non ai
fabbricati sparsi, così come, ai fini dell'applicazione del
vincolo, appare ininfluente che, a distanza inferiore ai 200
metri, vi sia una strada, atteso che essa non interrompe la
continuità del vincolo”.
Infondata è,
parimenti, la censura contenuta nel terzo motivo di ricorso,
relativa all’asserita non configurabilità nell’ipotesi di
specie del vincolo di rispetto cimiteriale, in quanto parte
ricorrente non riferisce tale inesistenza all’inconfigurabilità
del criterio distanziale, posto ope legis a base di tale
vincolo, ma alla natura del cimitero –non connotato da
possibilità espansive– ed al fatto che nell’ipotesi di
specie vi sarebbe una strada comunale che interromperebbe la
continuità con l’area cimiteriale.
Entrambi i presupposti sono privi di fondamento, atteso
che l’espansione della zona cimiteriale costituisce solo una
delle molteplici ragioni del vincolo cimiteriale e che il
vincolo non può dirsi interrotto per la presenza di una
strada (cfr., in tal senso Consiglio di Stato sez. IV, 20.07.2011 n. 4403 secondo cui “La fascia di rispetto
cimiteriale prevista dall'art. 338 t.u. leggi sanitarie 27.07.1934 n. 1265, misurata a partire dal muro di cinta
del cimitero, costituisce un vincolo assoluto d'inedificabilità,
tale da imporsi anche a contrastanti previsioni di piano
regolatore generale, che non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici che di opere incompatibili col
vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi
pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare e che
sono da individuarsi in esigenze di natura
igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare
sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e
alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale; segue da ciò che non
esiste ragione alcuna per ritenere tale vincolo applicabile
solo ai centri abitati e non ai fabbricati sparsi, così
come, ai fini dell'applicazione del vincolo, appare
ininfluente che, a distanza inferiore ai 200 metri, vi sia
una strada, atteso che essa non interrompe la continuità del
vincolo”)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.03.2013 n. 1639 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Non sussiste alcun
obbligo per l'Amministrazione di pronunciarsi su un' istanza
volta a ottenere un provvedimento in via di autotutela, non
essendo coercibile dall'esterno l'attivazione del
procedimento di riesame della legittimità dell'atto
amministrativo mediante l'istituto del silenzio-rifiuto e lo
strumento di tutela offerto (oggi dall'art. 117 c. p. a.):
infatti, il potere di autotutela si esercita
discrezionalmente d'ufficio, essendo rimesso alla più ampia
valutazione di merito dell'Amministrazione, e non su istanza
di parte e, pertanto, sulle eventuali istanze di parte,
aventi valore di mera sollecitazione, non vi è alcun obbligo
giuridico di provvedere.
Lo stesso art. 21-nonies della legge n. 241/1990,
nell'affermare che il provvedimento amministrativo
illegittimo può essere annullato d'ufficio sussistendone le
ragioni di interesse pubblico rimette la scelta
sull'annullamento a un apprezzamento di natura preventiva
affidato alla P.A. e, pertanto, opinare diversamente, ossia
seguire la tesi secondo la quale, in presenza di un’istanza
diretta a sollecitare l'esercizio della potestà di
autotutela, l'Amministrazione sia obbligata a una pronuncia
esplicita vorrebbe dire neutralizzare la condizione di
inoppugnabilità del provvedimento amministrativo che non sia
stato contestato nei modi ed entro i termini di legge,
vanificando la garanzia di certezza dei rapporti giuridici e
avvilendo lo stesso principio di economicità dell'azione
amministrativa, che verrebbe posto nel nulla ove si
imponesse, a semplice richiesta dell'interessato, l'obbligo
di riesame di provvedimenti restati inoppugnati.
- il Collegio ritiene di dover ribadire
l’insussistenza, in capo all’amministrazione resistente, di
un obbligo giuridico di pronunciarsi in maniera esplicita su
un’istanza diretta essenzialmente a ottenere un
provvedimento in autotutela;
- il Collegio, in particolare, ritiene che non vi siano, nel
caso di specie, valide ragioni per discostarsi dal
consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui "non
sussiste alcun obbligo per l'Amministrazione di pronunciarsi
su un' istanza volta a ottenere un provvedimento in via di
autotutela, non essendo coercibile dall'esterno
l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità
dell'atto amministrativo mediante l'istituto del silenzio-rifiuto e lo strumento di tutela offerto (oggi dall'art.
117 c. p. a.): infatti, il potere di autotutela si esercita
discrezionalmente d'ufficio, essendo rimesso alla più ampia
valutazione di merito dell'Amministrazione, e non su istanza
di parte e, pertanto, sulle eventuali istanze di parte,
aventi valore di mera sollecitazione, non vi è alcun obbligo
giuridico di provvedere” (cfr. Consiglio Stato, VI, n.
4308/2010; Consiglio Stato, V, n. 6995/2011);
- che secondo quanto affermato dal Consiglio di Stato in una
recentissima sentenza, lo stesso art. 21-nonies della legge
n. 241/1990, nell'affermare che il provvedimento
amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio
sussistendone le ragioni di interesse pubblico rimette la
scelta sull'annullamento a un apprezzamento di natura
preventiva affidato alla P.A. e, pertanto, opinare
diversamente, ossia seguire la tesi secondo la quale, in
presenza di un’istanza diretta a sollecitare l'esercizio
della potestà di autotutela, l'Amministrazione sia obbligata
a una pronuncia esplicita vorrebbe dire neutralizzare la
condizione di inoppugnabilità del provvedimento
amministrativo che non sia stato contestato nei modi ed
entro i termini di legge, vanificando la garanzia di
certezza dei rapporti giuridici e avvilendo lo stesso
principio di economicità dell'azione amministrativa, che
verrebbe posto nel nulla ove si imponesse, a semplice
richiesta dell'interessato, l'obbligo di riesame di
provvedimenti restati inoppugnati (cfr. in termini Consiglio
Stato, IV, n. 355/2013)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.03.2013 n. 1638 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sebbene l'istanza di
condono sia relativa ad opere realizzate prima
dell'imposizione del vincolo paesaggistico deve ribadirsi
l'obbligatorietà dell'acquisizione del parere dell'autorità
preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, ai sensi
dell'articolo 32 della legge n. 47/1985.
Infatti, anche se il citato articolo 32 non precisa in quale
momento il vincolo debba essere stato imposto perché sorga
la necessità di acquisire il suddetto parere, in
applicazione del principio tempus regit actum, si ritiene
che debba essere applicata la normativa vigente al momento
del rilascio della concessione in sanatoria.
Peraltro, risulta dirimente sul punto la decisione
dell'Adunanza Plenaria n. 20 del 22.07.1999 che ha enunciato
il principio secondo cui "la disposizione dell'art. 32, L.
28.02.1985, n. 47, in tema di condono edilizio, nel
prevedere la necessità del parere dell'amministrazione
preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ai fini del
rilascio delle concessioni in sanatoria, non reca alcuna
deroga ai principi generali e pertanto essa deve
interpretarsi nel senso che l'obbligo di pronuncia
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in
relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve
essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere
dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto.
Ciò in quanto tale valutazione corrisponde all'esigenza di
vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei
manufatti realizzati abusivamente."
Il Collegio ritiene che, in base alla
documentazione allegata e alle motivazioni espresse dalla
Commissione Tutela dei beni Ambientali, è evidente che il
Comune resistente non potesse che denegare il condono
richiesto dal ricorrente poiché, secondo la consolidata e
condivisibile giurisprudenza, sebbene l'istanza di condono
sia relativa ad opere realizzate prima dell'imposizione del
vincolo paesaggistico deve ribadirsi l'obbligatorietà
dell'acquisizione del parere dell'autorità preposta alla
tutela del vincolo paesaggistico, ai sensi dell'articolo 32
della legge n. 47/1985 (cfr. Consiglio Stato, IV, 30.06.2010,
n. 417; TAR Lazio, Roma; II-quater, 04.02.2011, n. 1044;
TAR Campania, Napoli, VII, 14.06.2010, n. 14166; TAR
Puglia, Bari, III, 03.12.2008, n. 2765).
Infatti, anche se il citato articolo 32 non precisa in
quale momento il vincolo debba essere stato imposto perché
sorga la necessità di acquisire il suddetto parere, in
applicazione del principio tempus regit actum, si ritiene
che debba essere applicata la normativa vigente al momento
del rilascio della concessione in sanatoria.
Peraltro, risulta dirimente sul punto la decisione
dell'Adunanza Plenaria n. 20 del 22.07.1999 che ha enunciato
il principio secondo cui "la disposizione dell'art. 32, L.
28.02.1985, n. 47, in tema di condono edilizio, nel
prevedere la necessità del parere dell'amministrazione
preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ai fini del
rilascio delle concessioni in sanatoria, non reca alcuna
deroga ai principi generali e pertanto essa deve
interpretarsi nel senso che l'obbligo di pronuncia
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in
relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve
essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere
dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto.
Ciò in quanto tale valutazione corrisponde all'esigenza di
vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei
manufatti realizzati abusivamente."
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.03.2013 n. 1635 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini dell’esenzione
del permesso di costruire, l’opera deve essere destinata “ad
un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici,
contingenti e limitati nel tempo, con conseguente e
sollecita eliminazione, non essendo sufficiente che si
tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o non
infisso al suolo”.
In primo luogo, non rileva dunque il carattere
stagionale del manufatto realizzato, atteso che esso non
implica la precarietà dell'opera, potendo essere la stessa
destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la
perpetuità della sua funzione; né rileva a tale riguardo la
circostanza che l’impiego del bene sia circoscritto ad una
sola parte dell'anno, ben potendo la stessa essere destinata
a soddisfare un bisogno non provvisorio ma regolarmente
ripetibile e dunque ciclico e continuativo.
In questa direzione non implica precarietà dell'opera e
richiede, pertanto, il permesso di costruire, il carattere
stagionale ossia l’utilizzo annualmente ricorrente della
struttura stessa, potendo quest'ultima essere destinata a
soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza
nel tempo della sua funzione.
La stagionalità, dunque, qualora sia al servizio di
un'attività perdurante nel tempo va qualificata costruzione
ai sensi del testo unico sull'edilizia.
In secondo luogo, il carattere di precarietà di una
costruzione non va desunto dalla possibile facile e rapida
amovibilità dell'opera, ovvero dal tipo più o meno fisso del
suo ancoraggio al suolo, ma dal fatto che la costruzione
appaia destinata a soddisfare una necessità contingente ad
essere poi prontamente rimossa
Quanto al motivo sub a) si rammenta che,
ai sensi dell’art. 6 del testo unico edilizia (DPR n. 380
del 2001), “sono eseguiti senza alcun titolo abilitativo: …
b) le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze
contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse
al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non
superiore a novanta giorni”.
La giurisprudenza ha avuto modo di affermare al riguardo
che, ai fini dell’esenzione del permesso di costruire,
l’opera deve essere destinata “ad un uso realmente precario
e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel
tempo, con conseguente e sollecita eliminazione, non essendo
sufficiente che si tratti eventualmente di un manufatto
smontabile e/o non infisso al suolo” (Cass. penale, sez. III,
21.06.2011, n. 34763).
In primo luogo, non rileva dunque il carattere stagionale
del manufatto realizzato, atteso che esso non implica la
precarietà dell'opera, potendo essere la stessa destinata a
soddisfare bisogni non provvisori attraverso la perpetuità
della sua funzione; né rileva a tale riguardo la circostanza
che l’impiego del bene sia circoscritto ad una sola parte
dell'anno, ben potendo la stessa essere destinata a
soddisfare un bisogno non provvisorio ma regolarmente
ripetibile e dunque ciclico e continuativo (TAR Puglia
Bari, sez. II, 31.08.2009, n. 2031; TAR Emilia
Romagna Bologna, sez. II, 14.01.2009, n. 19; TAR
Lombardia Brescia, sez. I, 22.09.2010, n. 3555).
In questa direzione non implica precarietà dell'opera e
richiede, pertanto, il permesso di costruire, il carattere
stagionale ossia l’utilizzo annualmente ricorrente della
struttura stessa, potendo quest'ultima essere destinata a
soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza
nel tempo della sua funzione (Cass. penale, sez. III, 21.06.2011, n. 34763; Cons. Stato, sez. IV, 22.12.2007, n. 6615).
La stagionalità, dunque, qualora sia al servizio di
un'attività perdurante nel tempo va qualificata costruzione
ai sensi del testo unico sull'edilizia (TAR Liguria, sez.
I, 27.01.2009, n. 119).
In secondo luogo, il carattere di precarietà di una
costruzione non va desunto dalla possibile facile e rapida
amovibilità dell'opera, ovvero dal tipo più o meno fisso del
suo ancoraggio al suolo, ma dal fatto che la costruzione
appaia destinata a soddisfare una necessità contingente ad
essere poi prontamente rimossa (TAR Puglia Bari, sez. II,
31.08.2009, n. 2031).
Per le ragioni sopra indicate il primo motivo di ricorso è
dunque infondato, dato che correttamente l’amministrazione
comunale ha ritenuto necessario al riguardo l’ottenimento
del permesso di costruire al fine di consentire la
realizzazione dell’opera di cui si controverte
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.03.2013 n. 1626 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In assenza di rilascio di
titolo edilizio in sanatoria per quanto realizzato in
precedenza, le ulteriori opere eseguite dopo la
presentazione dell’istanza di condono devono dirsi abusive e
in prosecuzione dell’illecita pregressa attività edilizia,
non essendo stato –peraltro– attivato il procedimento per il
completamento previsto dall’art. 35 L. 47/1985.
Va quindi ribadito che, in assenza
di rilascio di titolo edilizio in sanatoria per quanto
realizzato in precedenza, le ulteriori opere eseguite dopo
la presentazione dell’istanza di condono devono dirsi
abusive e in prosecuzione dell’illecita pregressa attività
edilizia, non essendo stato –peraltro– attivato il
procedimento per il completamento previsto dall’art. 35 L.
47/1985 (cfr. TAR Campania-Napoli n. 2635 del 05.06.2012;
TAR Campania-Napoli n. 184/2008; TAR Campania-Salerno
n. 1742/2006; TAR Campania-Napoli n. 2692/2006; TAR Sicilia-Palermo n. 1856/2007; TAR Campania-Napoli n.
1417/2005): per esse quindi, indipendentemente dalla loro
consistenza, sarebbe occorso il previo rilascio di un
permesso di costruire e di una autorizzazione paesaggistica
(trattandosi di zona assoggettata a vincolo d’insieme di tal
genere)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.03.2013 n. 1620 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il mero decorso del tempo
non può giustificare il mantenimento dell’opera, non essendo
suscettibile di decadenza il potere della P.A. in tema di
vigilanza sull’assetto del territorio, né, peraltro, è
configurabile un’aspettativa tutelabile del privato in tal
senso, quando non vi sia stata contezza degli organi
amministrativi dell’edificazione (in questo caso ulteriore)
realizzata.
In presenza di un intervento edilizio realizzato in assenza
del prescritto titolo abilitativo, l'ordine di demolizione
costituisce atto dovuto, mentre la possibilità di non
procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia
di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo
un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla
verifica dell'impossibilità del ripristino dello stato dei
luoghi.
Quanto, poi ai
rimanenti profili di censura proposti dal ricorrente, va
detto che:
- il mero decorso del tempo non può giustificare il
mantenimento dell’opera, non essendo suscettibile di
decadenza il potere della P.A. in tema di vigilanza
sull’assetto del territorio, né, peraltro, è configurabile
un’aspettativa tutelabile del privato in tal senso, quando
non vi sia stata contezza degli organi amministrativi
dell’edificazione (in questo caso ulteriore) realizzata;
- in presenza di un intervento edilizio realizzato in
assenza del prescritto titolo abilitativo, l'ordine di
demolizione costituisce atto dovuto, mentre la possibilità
di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando
ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo
un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla
verifica dell'impossibilità del ripristino dello stato dei
luoghi (cfr. TAR Campania-Napoli n. 1098 del 05.03.2012;
TAR Campania-Napoli n. 1542 del 03.04.2012; TAR Campania-Salerno n. 702 del 13.04.2011; TAR Campania-Napoli n. 2499 del
04.05.2010)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.03.2013 n. 1620 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
In tutti i casi in cui l'Amministrazione intende
emanare un atto di secondo grado (annullamento, revoca,
decadenza) incidente su posizioni giuridiche originate da un
precedente atto, è necessario l'avviso dell'avvio del
procedimento, sempre che non sussistano ragioni di urgenza
da esplicitare adeguatamente nella motivazione del
provvedimento, ovvero quando all'interessato sia stato
comunque consentito di evidenziare i fatti e gli argomenti a
suo favore.
... e ciò sulla considerazione che la giurisprudenza è
univoca nell’affermare che “In tutti i casi in cui
l'Amministrazione intende emanare un atto di secondo grado
(annullamento, revoca, decadenza) incidente su posizioni
giuridiche originate da un precedente atto, è necessario
l'avviso dell'avvio del procedimento, sempre che non
sussistano ragioni di urgenza da esplicitare adeguatamente
nella motivazione del provvedimento, ovvero quando
all'interessato sia stato comunque consentito di evidenziare
i fatti e gli argomenti a suo favore” (così Cons. di Stato
sez. VI, n. 6413 del 26.10.2006; Cons. di Stato sez. V, n.
7553 del 18.11.2004; TAR Palermo n. 1716 del 02.11.2009;
TAR Puglia-Bari n. 61 del 15.01.2009; TAR Sardegna n.
2117 del 26.11.2007; TAR Lazio-Roma n. 10123 del 09.10.2006)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.03.2013 n. 1618 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO DELL’ENERGIA – Istanze dirette
all’installazione di impianti fotovoltaici – Unicità del
progetto (ai fini della verifica di compatibilità
ambientale) – Elementi indiziari o sintomatici – Punto di
connessione.
L’amministrazione deve evitare comportamenti surrettizi dei
privati che, mediante una artificiosa parcellizzazione degli
interventi di propria iniziativa, risultino in concreto
preordinati ad eludere la applicazione di una normativa che
potrebbe rivelarsi più gravosa rispetto ad un’altra,
diversamente improntata a criteri di maggiore celerità
procedimentale.
In particolare, in presenza di più istanze dirette alla
installazione di impianti fotovoltaici, l’amministrazione
competente può legittimamente trarre la conclusione di
trovarsi al cospetto di un unico progetto, con la
conseguenza di assoggettare il medesimo a verifica di
compatibilità ambientale in caso di superamento delle soglie
di potenza previste dalla normativa di settore: il
collegamento funzionale tra le istanze può ben desumersi da
alcuni elementi indiziari o sintomatici dell’unicità
dell’operazione imprenditoriale, quali la unicità
dell’interlocutore che ha curato i rapporti con
l’amministrazione, la medesimezza della società alla quali
vanno imputati gli effetti giuridici della domanda di
autorizzazione e, per finire, la unicità del punto di
connessione.
E questo perché, pur potendosi considerare rilevante
l’obiettivo di incentivare la produzione di energia da fonti
rinnovabili, appare altrettanto meritevole di tutela
l’interesse ad una corretta valutazione dell’impatto
ambientale degli impianti di cui si discute, al fine di non
sacrificare oltre ogni ragionevole limite il bene ambientale
nel suo complesso (Tar Lecce, sez. I, 16.04.2010, n. 926;
17.09.2011, n. 1113; 16.07.2012, n. 1307) (TAR Puglia-Lecce,
Sez. I,
sentenza 21.03.2013 n. 620 - link a
www.ambientediritto.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Bolletta dell'acqua più leggera.
Ko la remunerazione del capitale investito nel servizio. Dal
Tar Toscana stop ai gestori dei servizi che hanno applicato
il prelievo del 7%.
Bolletta dell'acqua più leggera dopo il referendum. Stop
alla remunerazione del capitale investito nel servizio
grazie ai soldi dell'utente. Grazie all'abrogazione del
parametro dell'adeguatezza anche se non indicato nel quesito
della consultazione popolare. L'effetto? L'addio alla
cosiddetta «voce del 7%».
È quanto emerge dalla
sentenza
21.03.2013 n. 436, pubblicata dalla I Sez. del TAR Toscana.
Acqua dunque più leggera, almeno nella bolletta a carico
dell'utente, dopo il referendum del 12 e 13.06.2011.
La voce della remunerazione del capitale investito non può
essere ricompresa nella regolamentazione tariffaria generale
dell'erogazione del servizio. E ciò anche se il parametro
della «adeguatezza» di cui al decreto del primo agosto 1996
del ministero per i lavori pubblici non era espressamente
indicato nel quesito della consultazione popolare. Stop,
dunque, all'Ato e al gestore del servizio che hanno
continuato ad applicare la percentuale riconosciuta nella
misura del 7% dal metodo normalizzato approvato con il
decreto ministeriale.
Il Tar ha accolto il ricorso del forum locale dei Movimenti
per l'acqua. I giudici toscani si allineano al parere del
Consiglio di stato. Il referendum del 2011 ha abrogato
l'articolo 154, comma 1, del dlgs 152/06, che tra i criteri
di determinazione della tariffa del servizio idrico
integrato ricomprende quello (abrogato) della remunerazione
del capitale investito. Il decreto ministeriale previsto
dall'articolo 154 non è stato emanato e ha quindi continuato
ad avere applicazione, per via della norma transitoria di
cui all'articolo 170 del dlgs 152/2006, il decreto
ministeriale primo agosto 1996: quest'ultimo costituisce
attuazione della normativa all'epoca vigente (articolo 13
della legge 36/1994) e prevede come una delle componenti
della tariffa di riferimento la remunerazione del capitale
investito.
Secondo Palazzo Spada l'abrogazione incide anche sul
riferimento che allo stesso parametro era espresso nel
decreto ministeriale primo agosto 1996: il referendum
abrogativo, infatti, assume una valenza espansiva rispetto
alle disposizioni normative che, pur non essendo
espressamente coinvolte dal quesito oggetto della
consultazione popolare, sono incompatibili con la volontà
manifestata dagli elettori.
E dunque i giudici amministrativi toscani impongono lo stop
all'ambito territoriale ottimale e al gestore del servizio
laddove i provvedimenti non si sono adeguati all'esito del
voto popolare per le tariffe del triennio 2011-2013 (articolo ItaliaOggi del 26.03.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cessione di cubatura – Nozione – Effetti.
L’istituto del
cd. asservimento di terreno per scopi edificatori (o
cessione di cubatura) consiste in un accordo tra proprietari
di aree contigue, aventi la medesima destinazione
urbanistica, in forza del quale il proprietario di un'area "cede"
una quota di cubatura edificabile sul suo fondo per
permettere all'altro di disporre della minima estensione di
terreno richiesta per l'edificazione, ovvero di realizzare
una volumetria maggiore di quella consentita dalla
superficie del fondo di sua proprietà.
E' circostanza indubbia in proposito che gli effetti che ne
derivano hanno carattere definitivo ed irrevocabile,
integrano una qualità oggettiva dei terreni e producono una
minorazione permanente della loro utilizzazione da parte di
chiunque ne sia il proprietario.
Vincolo di asservimento – Costituzione –
Possibilità edificatorie – Volumetria residua.
Il "vincolo di asservimento" si costituisce per
effetto del rilascio del permesso di costruire cui esso è
orientato, senza oneri di forma pubblica o di trascrizione,
ed incide definitivamente sulla disciplina urbanistica ed
edilizia delle aree interessate (cfr. Cons. Stato sez. 5 n.
3637/2000; Cass. civ. n. 1352/96 e n. 9081/98; Cass. pen.
sez. 3 n. 21177/09), derivandone l'impossibilità di
assentire e di richiedere ulteriori ed eccedenti
realizzazioni di volumi costruttivi sul fondo asservito, per
la parte in cui esso è rimasto privo della potenzialità
edificatoria già utilizzata dal titolare del fondo in favore
del quale ha avuto luogo l'asservimento (così testualmente
Cass. penale da ultimo citata). Le possibilità edificatorie
sull'area asservita sono dunque definitivamente perdute, per
il semplice fatto che di esse si è già irreversibilmente
disposto.
In altri termini, qualora una porzione di suolo sia stata in
concreto utilizzata ai fini del computo della cubatura per
l'edificazione di un manufatto edilizio, essa non può essere
adoperata allo stesso scopo in futuro, neppure in caso di
ulteriore frazionamento ed alienazione dell'area residua,
altrimenti si consentirebbe al proprietario-frazionante che
avesse già sfruttato la potenzialità edificatoria dell'area
rimasta libera, di consentire ad un terzo, indebitamente,
attraverso l'alienazione dell'area, un'ulteriore
utilizzazione di quanto già da lui utilizzato.
La possibilità di ulteriore edificazione è però
configurabile quando la costruzione già realizzata non
esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente
al momento dell'ulteriore richiesta di permesso di costruire
(cfr. sul punto Cass. sez 4 n. 23230 del 22.04.2004)
(TRIBUNALE di Salerno,
sentenza 21.03.2013 n. 224 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Conseguimento di un permesso di costruire
illegittimo attraverso la rappresentazione di presupposti di
fatto insussistenti – Reato di truffa ai danni
dell’amministrazione comunale – Presupposto del pregiudizio
economico dell’ente pubblico territoriale.
Il conseguimento di un permesso di costruire illegittimo,
attraverso la rappresentazione artificiosa di presupposti di
fatto in realtà insussistenti, può senz'altro integrare il
reato di truffa ai darmi dell'amministrazione comunale,
sempre che però si evidenzi, in concreto, un pregiudizio
economico dell'ente pubblico territoriale, che non può
essere rappresentato dalla mera lesione di interessi
collettivi all'ordinato assetto urbanistico del territorio,
ma può consistere, ad esempio, nell'apprestamento di opere
di urbanizzazione eventualmente rese necessarie dal
permanere della costruzione abusiva, ovvero nel dispendio
dei mezzi occorrenti per il ripristino dello stato dei
luoghi o comunque per l'attività di autotutela necessaria a
rimuovere il provvedimento oggettivamente illegittimo e i
suoi effetti (cfr. Cass. sez. 2 n. 2529/97 e n. 7259/00)
(TRIBUNALE di Salerno,
sentenza 21.03.2013 n. 224 - link a
www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
danno da mobbing è una fattispecie che si fa risalire,
quanto alla natura giuridica, alla responsabilità datoriale,
di tipo contrattuale, prevista dall’art. 2087 del codice
civile che pone a carico del datore di lavoro l’onere di
adottare nell’esercizio di impresa tutte le misure
necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità
morale del prestatore di lavoro.
Il concetto di mobbing, sia in punto di fatto che in punto
di diritto, è alquanto indeterminato, ancorché quanto ad una
ragionevole sua definizione, possa considerarsi tale
quell’insieme di condotte vessatorie e persecutorie del
datore di lavoro o comunque emergenti nell’ambito lavorativo
concretizzanti la lesione della salute psico-fisica e
dell’integrità del dipendente e che postulano, ove
sussistenti, una adeguata tutela anche di tipo risarcitorio.
Attesa la indeterminatezza della nozione, la giurisprudenza
si è preoccupata di indicare una serie di elementi e/o
indizi caratterizzanti il fenomeno del mobbing dai quali far
emergere la concreta sussistenza di una condotta offensiva
nei sensi sopra esposti, come tradottasi con atti e
comportamenti negativamente incidenti sulla reputazione del
lavoratore, su i suoi rapporti umani con l’ambiente di
lavoro e sul contenuto stesso della prestazione lavorativa.
Così per aversi mobbing è richiesto l’azione offensiva posta
in essere a danno del lavoratore deve essere sistematica e
frequente posta in essere con una serie prolungata di atti e
avere le caratteristiche oggettive di persecuzione e
discriminazione o rivelare intenti meramente emulativi.
Di contro non si ravvisano gli estremi del mobbing
nell’accadimento di episodi che evidenziano screzi o
conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro e che per
loro stessa natura non sono caratterizzati da volontà
persecutoria essendo in particolare collegati a fenomeni di
rivalità, ambizione o antipatie reciproche che pure sono
frequenti nel mondo del lavoro.
Il danno da mobbing è una fattispecie che si fa risalire,
quanto alla natura giuridica, alla responsabilità datoriale,
di tipo contrattuale, prevista dall’art. 2087 del codice
civile che pone a carico del datore di lavoro l’onere di
adottare nell’esercizio di impresa tutte le misure
necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità
morale del prestatore di lavoro (cfr. Cassazione sezione
lavoro 25.05.2006 n. 1244).
Il concetto di mobbing, sia in punto di fatto che in punto
di diritto, è alquanto indeterminato ancorché, quanto ad una
ragionevole sua definizione, possa considerarsi tale
quell’insieme di condotte vessatorie e persecutorie del
datore di lavoro o comunque emergenti nell’ambito lavorativo
concretizzanti la lesione della salute psico-fisica e
dell’integrità del dipendente e che postulano, ove
sussistenti, una adeguata tutela anche di tipo risarcitorio
(in tal senso, Cass. Sezione Lavoro 26.03.2010 n. 1307).
Attesa la indeterminatezza della nozione, la giurisprudenza
si è preoccupata di indicare una serie di elementi e/o
indizi caratterizzanti il fenomeno del mobbing dai quali far
emergere la concreta sussistenza di una condotta offensiva
nei sensi sopra esposti, come tradottasi con atti e
comportamenti negativamente incidenti sulla reputazione del
lavoratore, su i suoi rapporti umani con l’ambiente di
lavoro e sul contenuto stesso della prestazione lavorativa.
Così per aversi mobbing è richiesto l’azione offensiva posta
in essere a danno del lavoratore deve essere sistematica e
frequente posta in essere con una serie prolungata di atti e
avere le caratteristiche oggettive di persecuzione e
discriminazione o rivelare intenti meramente emulativi
(Cass. Sezione lavoro n. 4774/2006; Trib. Roma 07.03.2008 n.
69).
Di contro non si ravvisano gli estremi del mobbing
nell’accadimento di episodi che evidenziano screzi o
conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro e che per
loro stessa natura non sono caratterizzati da volontà
persecutoria essendo in particolare collegati a fenomeni di
rivalità, ambizione o antipatie reciproche che pure sono
frequenti nel mondo del lavoro
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.03.2013 n.
1609 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Deve
ritenersi assolto l’obbligo della motivazione del
provvedimento anche quando questa sia esplicitata in maniera
succinta, a condizione che risulti idonea a disvelare l’iter
logico e procedimentale che consente di inquadrare la
fattispecie nell’ipotesi astratta considerata dalla legge.
In particolare, si ritiene che l’obbligo in argomento sia
assolto anche in presenza di una motivazione per relationem
purché:
a) sia possibile desumere le ragioni in base alle quali la
volontà dell’amministrazione si è determinata;
b) l’atto indicato al quale viene fatto riferimento sia reso
disponibile agli interessati;
c) non vi siano pareri richiamati che siano in contrasto con
altri pareri o determinazioni rese all’interno del medesimo
procedimento.
Come ha messo in evidenza la Sezione I di
questo Tribunale (cfr. sentenza 09/01/2013 n. 4), la
giurisprudenza (cfr. ex multis Cons. St. Sez. IV, 18.02.2010 n. 944) ha affermato che deve ritenersi
assolto l’obbligo della motivazione del provvedimento anche
quando questa sia esplicitata in maniera succinta, a
condizione che risulti idonea a disvelare l’iter logico e
procedimentale che consente di inquadrare la fattispecie
nell’ipotesi astratta considerata dalla legge.
In
particolare, si ritiene (cfr. Cons. giust. amm., 20.01.2003, n. 31; sez. VI, 24.10.1995, n. 1201; sez. IV,
07.03.1994, n. 204) che l’obbligo in argomento sia assolto
anche in presenza di una motivazione per relationem purché:
a) sia possibile desumere le ragioni in base alle quali la
volontà dell’amministrazione si è determinata;
b) l’atto indicato al quale viene fatto riferimento sia reso
disponibile agli interessati;
c) non vi siano pareri richiamati che siano in contrasto con
altri pareri o determinazioni rese all’interno del medesimo
procedimento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 19.03.2013 n. 274 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
parere dell’autorità preposta alla salvaguardia del vincolo
deve comunque recare l’indicazione delle ragioni assunte a
fondamento della ritenuta compatibilità o incompatibilità di
un dato intervento edilizio con le esigenze di tutela
paesistica sottese all’imposizione del vincolo stesso.
Ne discende che l’eventuale diniego deve essere assistito da
un apparato motivazionale che –sia pure in forma sintetica–
si soffermi sulla realtà dei fatti e sugli elementi
ambientali che sconsigliano di assentire un determinato
intervento: devono quindi emergere in concreto le ragioni
per le quali il manufatto, per le sue caratteristiche
architettoniche ed estetiche, viene giudicato
pregiudizievole dell’integrità del contesto paesaggistico in
cui si inserisce e, con essa, degli specifici interessi
pubblici alla cui tutela il vincolo è preordinato.
Osserva il
Collegio che la giurisprudenza –esprimendosi sulle zone
sottoposte a regime di tutela ambientale (ove viene inciso
un bene primario, direttamente tutelato dall’art. 9 della
Costituzione)– ha sottolineato che il parere dell’autorità
preposta alla salvaguardia del vincolo deve comunque recare
l’indicazione delle ragioni assunte a fondamento della
ritenuta compatibilità o incompatibilità di un dato
intervento edilizio con le esigenze di tutela paesistica
sottese all’imposizione del vincolo stesso.
Ne discende che
l’eventuale diniego deve essere assistito da un apparato
motivazionale che –sia pure in forma sintetica– si
soffermi sulla realtà dei fatti e sugli elementi ambientali
che sconsigliano di assentire un determinato intervento:
devono quindi emergere in concreto le ragioni per le quali
il manufatto, per le sue caratteristiche architettoniche ed
estetiche, viene giudicato pregiudizievole dell’integrità
del contesto paesaggistico in cui si inserisce e, con essa,
degli specifici interessi pubblici alla cui tutela il
vincolo è preordinato (TAR Toscana, sez. II – 14/03/2008
n. 295; TAR Liguria, sez. I – 22/12/2008 n. 2187; TAR
Lazio Roma, sez. II – 05/02/2009 n. 1212; sentenza Sezione
18/03/2011 n. 440).
Nella fattispecie né l’area interessata dall’opera né
l’edificio sul quale l’impianto è collocato soggiacciono ad
alcun vincolo di natura paesaggistica ovvero storica (salvi
i profili che saranno esaminati di seguito ai paragrafi 3.2
e 3.3), per cui in tale quadro fattuale si rendeva
necessario un maggior dettaglio valutativo che, sulla base
delle caratteristiche dei luoghi, desse conto
dell’impossibilità di mantenere il cartello nel contesto
urbano ed ambientale.
La formula utilizzata nel
provvedimento, in altri termini, non soddisfa certamente i
requisiti motivazionali minimi per supportare il diniego
essendo richiesta, in questo caso, un’esternazione più
puntuale, la quale contempli la reale consistenza del
manufatto e la specifica situazione dei luoghi nei quali
ricade, e specifichi per quale ragione quel particolare
fabbricato (tenuto conto delle sue caratteristiche
costruttive individuali) non può ospitare il cartello (si
veda anche la sentenza di questa Sezione 12/04/2011 n. 536)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 19.03.2013 n. 274 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
forza dell’art. 878 del codice civile “il muro di cinta e
ogni altro muro isolato che non abbia un'altezza superiore
ai tre metri non è considerato per il computo della distanza
indicata dall'articolo 873 cod. civ.”.
In linea generale tuttavia quando un intervento edilizio
determini (o faccia venir meno) un dislivello rispetto al
fondo interessato, si realizza una modifica del terreno
normalmente assimilata a una nuova costruzione, ed il muro
che delimita il terrapieno perde la qualificazione di muro
di cinta per assumere quella di muro di sostegno.
In tal senso la Corte di Cassazione ha affermato che “In
tema di muri di cinta tra fondi a dislivello, qualora
l'andamento altimetrico del piano di campagna
-originariamente livellato sul confine tra due fondi- sia
stato artificialmente modificato, deve ritenersi che il muro
di cinta abbia la funzione di contenere un terrapieno creato
"ex novo" dall'opera dell'uomo, e vada, per l'effetto,
equiparato a un muro di fabbrica, come tale assoggettato al
rispetto delle distanze legali tra costruzioni”.
In forza dell’art. 878 del codice civile
“il muro di cinta e ogni altro muro isolato che non abbia
un'altezza superiore ai tre metri non è considerato per il
computo della distanza indicata dall'articolo 873 cod. civ.”.
In linea generale tuttavia quando un intervento edilizio
determini (o faccia venir meno) un dislivello rispetto al
fondo interessato, si realizza una modifica del terreno
normalmente assimilata a una nuova costruzione, ed il muro
che delimita il terrapieno perde la qualificazione di muro
di cinta per assumere quella di muro di sostegno (cfr.
sentenza Sezione 24/08/2012 n. 1462).
In tal senso la Corte
di Cassazione (sez. II civile – 04/06/2010 n. 13628) ha
affermato che “In tema di muri di cinta tra fondi a
dislivello, qualora l'andamento altimetrico del piano di
campagna -originariamente livellato sul confine tra due
fondi- sia stato artificialmente modificato, deve ritenersi
che il muro di cinta abbia la funzione di contenere un
terrapieno creato "ex novo" dall'opera dell'uomo, e vada,
per l'effetto, equiparato a un muro di fabbrica, come tale
assoggettato al rispetto delle distanze legali tra
costruzioni”.
Nel caso di specie, tuttavia, parte ricorrente ha
argomentato in fatto (fornendo in proposito documentazione
probante) la preesistenza di un manufatto in muratura che
cingeva le proprietà laterali, il quale è stato ripristinato
come in origine, sistemando il terreno alla stessa quota di
quelli limitrofi; né in giudizio sono stati esibiti elementi
di prova in senso contrario, stante la mancata costituzione
dell’amministrazione e della controinteressata.
Il Collegio
deve quindi applicare l’art. 64 del codice del processo
amministrativo il quale statuisce che “Spetta alle parti
l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella
loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento
delle domande e delle eccezioni” (comma 1) e che “Salvi i
casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a
fondamento della decisione le prove proposte dalle parti
nonché i fatti non specificamente contestati dalle parti
costituite” (comma 2). In effetti, a fronte del ripristino
di un muro già esistente e posizionato in loco, deve
ritenersi che la modifica artificiale abbia ricondotto la
situazione dei luoghi allo stadio originario, recuperando il
muro stesso al suo andamento “storico” e naturale. In
presenza di tale peculiare condizione non è applicabile
l’orientamento giurisprudenziale di cui si è dato conto al
precedente paragrafo, e l’opera deve ritenersi ammissibile
in quanto rispondente alle condizioni introdotte dall’art.
878 del c.c.
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 19.03.2013 n. 273 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
I cambi di orientamento nella pianificazione urbanistica
rientrano in una sfera di ampia discrezionalità. La
reformatio in peius e parallelamente il diniego di
reformatio in melius non richiedono una motivazione
puntualmente riferita a ogni singola proprietà che subisca
il ridimensionamento delle facoltà edificatorie o veda
frustrata la propria vocazione residenziale.
Le scelte urbanistiche non possono però essere arbitrarie. È
sempre necessario che il disegno alla base della nuova
disciplina sia complessivamente ragionevole, e che i
sacrifici imposti ai proprietari siano proporzionati alle
finalità dichiarate e correttamente suddivisi secondo i
canoni della perequazione.
----------------
Il secondo profilo di danno parte dal presupposto,
corretto, che ogni reiterazione di vincoli espropriativi
(categoria a cui appartengono anche le destinazioni
urbanistiche in esame: attrezzature per il gioco e lo sport,
parcheggi, nuova viabilità) esige la previsione di un
indennizzo.
La regola, inizialmente formulata dalla giurisprudenza
costituzionale, è ora codificata nell’ordinamento interno
dall’art. 39, comma 1, del DPR 327/2001. Si tratta di un
principio coerente con la giurisprudenza della Corte europea
dei diritti dell'uomo, che tutela non solo la proprietà in
sé ma anche la certezza della situazione giuridica, messa in
pericolo dall’incombenza di poteri appropriativi e ablatori
utilizzabili dall’amministrazione in un ampio arco
temporale.
Le posizioni giuridiche che derivano dalla mancata
previsione dell’indennizzo (risarcimento del danno,
liquidazione dell’indennizzo) devono essere tenute distinte.
In astratto il danno potrebbe infatti coprire un’area più
ampia del semplice mancato indennizzo per reiterazione del
vincolo espropriativo. Questa situazione si verifica in
particolare quando i provvedimenti urbanistici contenenti il
vincolo reiterato siano illegittimi: in tale ipotesi non
solo deve essere corrisposto l’indennizzo ma devono essere
ristorate anche tutte le perdite ulteriori (ad esempio la
perdita di opportunità di vendita o di sfruttamento
economico del bene).
Anche quando la reiterazione del vincolo sia legittima (come
nel caso in esame) è possibile individuare un’area di danno
distinta dal mancato indennizzo. Bisogna però darne una
precisa rappresentazione in concreto. Quest’ultima potrebbe
consistere nell’affermazione di disagi e inconvenienti
prodottisi a cascata per la mancata previsione
dell’indennizzo, oppure nell’affermazione di una
responsabilità da atto lecito, ossia derivante dalle stesse
scelte urbanistiche (che per sé sono legittime: l’omessa
previsione dell’indennizzo è infatti illegittima ma non
rende illegittimo il piano urbanistico). Nello specifico
tuttavia non è stata fornita alcuna prova di perdite
patrimoniali appartenenti a queste tipologie. Si può quindi
ritenere che il solo danno ristorabile sia la mancata
previsione (e corresponsione) dell’indennizzo.
Questa voce risarcitoria, coincidendo con l’indennizzo,
fuoriesce però dalla giurisdizione amministrativa e non può
dunque essere trattata nella presente sentenza. In questa
sede la domanda della ricorrente deve piuttosto essere
convertita, applicando estensivamente l’art. 34, comma 3,
cpa, da azione di condanna ad azione di accertamento. Più
precisamente, viene accertato che la destinazione data al
terreno della ricorrente dalla variante del 2005 oggetto di
impugnazione costituiva reiterazione di un vincolo
espropriativo, alla quale dovevano conseguire
necessariamente la previsione e la corresponsione di un
indennizzo ai sensi dell’art. 39, comma 1, del DPR 327/2001.
Compiuto questo accertamento la giurisdizione amministrativa
incontra il suo confine e deve arrestarsi. Ogni ulteriore
azione con la quale la ricorrente intenda far valere (e
quantificare) il proprio diritto all'indennizzò dovrà essere
proposta davanti al giudice ordinario ai sensi dell’art. 39,
commi 2-4, del DPR 327/2001.
1. La società ricorrente Immobiliare Rino Roncelli srl (attualmente Riro srl) è proprietaria di un
terreno situato nel Comune di Capriate S. Gervasio in via
Colombo (mappali n. 2479 e 2482). La superficie dell’area è
pari a circa 7.200 mq.
2. Nel previgente PRG approvato nel 1985 il terreno era
classificato in parte come “Verde attrezzato – Attrezzature
sportive” e in parte come strada di progetto. Una volta
decaduto il vincolo espropriativo la ricorrente ha
ripetutamente ma inutilmente chiesto tra il 1997 e il 2004
la trasformazione del terreno in area edificabile.
3. Il Comune con deliberazioni consiliari n. 10 del 10.03.2005 e n. 34 del 30.07.2005 ha rispettivamente adottato
e approvato una variante generale al PRG. Il terreno della
ricorrente è stato classificato in parte come “Aree
attrezzate per il gioco e lo sport”, in parte come “Aree per
il parcheggio” e in parte come “Aree per nuove strade”. A
fronte della reiterazione del vincolo espropriativo non è
stato previsto alcun indennizzo.
4. Contro i suddetti provvedimenti la ricorrente ha
presentato impugnazione con atto notificato il 14.11.2005 e depositato il
05.12.2005. Le censure possono
essere sintetizzate come segue: (i) difetto di motivazione a
proposito della reiterazione del vincolo espropriativo; (ii)
disparità di trattamento rispetto al terreno vicino, che è
stato inserito in zona residenziale soggetta a piano di
lottizzazione (PL12) benché fosse stato ceduto gratuitamente
al Comune dalla stessa ricorrente con atto del 20.06.2002 quando era parimenti gravato da vincolo espropriativo
con destinazione a verde attrezzato; (iii) violazione
dell’art. 39 del DPR 08.06.2001 n. 327, in quanto non è
stato previsto alcun indennizzo per la reiterazione del
vincolo espropriativo. Oltre all’annullamento degli atti
impugnati è stata chiesta la condanna al risarcimento del
danno, la cui illustrazione è stata rinviata a una
successiva fase processuale.
5. Il Comune non si è costituito in giudizio.
6. Con memoria depositata il 16.11.2012 la ricorrente
ha comunicato che le proprie istanze sono state recepite dal
Comune, sia pure in ritardo, all’interno del PGT adottato
con deliberazione consiliare n. 24 del 21.10.2011 e
approvato con deliberazione consiliare n. 10 del 20.03.2012. Il terreno in questione è stato infatti inserito in un
ambito di trasformazione (ATR2) con destinazione
residenziale per una superficie territoriale pari a 5.646 mq
(v. doc. 11 della ricorrente).
7. Nonostante la modifica in senso favorevole la ricorrente
insiste nella domanda di risarcimento evidenziando il fatto
di aver subito per anni un vincolo espropriativo reiterato
senza alcun indennizzo.
8. Così riassunta la vicenda, si possono svolgere le
seguenti considerazioni:
(a) la domanda di risarcimento proposta dalla ricorrente ha
due profili. Da un lato si afferma che il danno deriverebbe
dall’illegittimo diniego della trasformazione in senso
residenziale del terreno in questione, dall’altro si
sostiene che la reiterazione del vincolo espropriativo
sarebbe essa stessa fonte di danno in quanto non bilanciata
da un indennizzo;
(b) il primo profilo di danno non può trovare accoglimento.
Per consolidata giurisprudenza (v. CS Sez. VI 20.06.2012
n. 3571) i cambi di orientamento nella pianificazione
urbanistica rientrano in una sfera di ampia discrezionalità.
La reformatio in peius e parallelamente il diniego di
reformatio in melius non richiedono una motivazione
puntualmente riferita a ogni singola proprietà che subisca
il ridimensionamento delle facoltà edificatorie o veda
frustrata la propria vocazione residenziale;
(c) le scelte urbanistiche non possono però essere
arbitrarie. È sempre necessario che il disegno alla base
della nuova disciplina sia complessivamente ragionevole, e
che i sacrifici imposti ai proprietari siano proporzionati
alle finalità dichiarate e correttamente suddivisi secondo i
canoni della perequazione;
(d) nello specifico la scelta operata dal Comune nel 2005 di
mantenere sul terreno della ricorrente una destinazione ad
attrezzature pubbliche non presenta, per quanto emerge dai
documenti a disposizione, aspetti di illogicità o
irragionevolezza. In particolare, il confronto con il
terreno vicino non è significativo, perché quest’ultimo
faceva parte già dal 1986 di una lottizzazione residenziale
(v. doc. 7 della ricorrente) e dunque risultava ormai
acquisito all’ambito edificato del territorio comunale. Di
conseguenza era ragionevole che il Comune, in conformità al
principio di graduale completamento degli spazi liberi,
distribuisse i nuovi diritti edificatori permettendo
l’edificazione anche sulla porzione di tale terreno che
inizialmente era destinata ad attrezzature pubbliche. La
conseguenza di questa impostazione, ossia la concentrazione
degli standard urbanistici sul terreno della ricorrente, era
parimenti ragionevole, in quanto le attrezzature pubbliche
risultavano in questo modo più distanti dagli edifici
esistenti e più vicine alla viabilità di progetto;
(e) d’altra parte lo stesso principio di graduale
completamento ha poi favorito la ricorrente nella
pianificazione successiva, in occasione del PGT, perché a
quel punto, esaurita l’edificazione sul terreno vicino, il
terreno della ricorrente era il candidato naturale a
ospitare i nuovi diritti edificatori individuati come
necessari dal Comune per lo sviluppo della collettività;
(f) nessun risarcimento può quindi essere attribuito alla
ricorrente per il ritardo con cui il Comune ha classificato
il terreno in questione come edificabile;
(g) il secondo profilo di danno parte dal presupposto,
corretto, che ogni reiterazione di vincoli espropriativi
(categoria a cui appartengono anche le destinazioni
urbanistiche in esame: attrezzature per il gioco e lo sport,
parcheggi, nuova viabilità) esige la previsione di un
indennizzo. La regola, inizialmente formulata dalla
giurisprudenza costituzionale (v. C.Cost. 20.05.1999 n.
179), è ora codificata nell’ordinamento interno dall’art. 39,
comma 1, del DPR 327/2001. Si tratta di un principio coerente
con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell'uomo, che tutela non solo la proprietà in sé ma anche
la certezza della situazione giuridica, messa in pericolo
dall’incombenza di poteri appropriativi e ablatori
utilizzabili dall’amministrazione in un ampio arco temporale
(v. CEDU Sez. I 15.07.2004, Scordino, punti 71, 94-99;
altri riferimenti in TAR Brescia Sez. I 24.06.2009 n.
1308);
(h) le posizioni giuridiche che derivano dalla mancata
previsione dell’indennizzo (risarcimento del danno,
liquidazione dell’indennizzo) devono essere tenute distinte.
In astratto il danno potrebbe infatti coprire un’area più
ampia del semplice mancato indennizzo per reiterazione del
vincolo espropriativo. Questa situazione si verifica in
particolare quando i provvedimenti urbanistici contenenti il
vincolo reiterato siano illegittimi: in tale ipotesi non
solo deve essere corrisposto l’indennizzo ma devono essere
ristorate anche tutte le perdite ulteriori (ad esempio la
perdita di opportunità di vendita o di sfruttamento
economico del bene);
(i) anche quando la reiterazione del vincolo sia legittima
(come nel caso in esame) è possibile individuare un’area di
danno distinta dal mancato indennizzo. Bisogna però darne
una precisa rappresentazione in concreto. Quest’ultima
potrebbe consistere nell’affermazione di disagi e
inconvenienti prodottisi a cascata per la mancata previsione
dell’indennizzo, oppure nell’affermazione di una
responsabilità da atto lecito, ossia derivante dalle stesse
scelte urbanistiche (che per sé sono legittime: l’omessa
previsione dell’indennizzo è infatti illegittima ma non
rende illegittimo il piano urbanistico – v. CS Ap 24.05.2007 n. 7). Nello specifico tuttavia non è stata fornita
alcuna prova di perdite patrimoniali appartenenti a queste
tipologie. Si può quindi ritenere che il solo danno
ristorabile sia la mancata previsione (e corresponsione)
dell’indennizzo;
(j) questa voce risarcitoria, coincidendo con l’indennizzo,
fuoriesce però dalla giurisdizione amministrativa e non può
dunque essere trattata nella presente sentenza. In questa
sede la domanda della ricorrente deve piuttosto essere
convertita, applicando estensivamente l’art. 34, comma 3, cpa,
da azione di condanna ad azione di accertamento. Più
precisamente, viene accertato che la destinazione data al
terreno della ricorrente dalla variante del 2005 oggetto di
impugnazione costituiva reiterazione di un vincolo
espropriativo, alla quale dovevano conseguire
necessariamente la previsione e la corresponsione di un
indennizzo ai sensi dell’art. 39, comma 1, del DPR 327/2001.
Compiuto questo accertamento la giurisdizione amministrativa
incontra il suo confine e deve arrestarsi. Ogni ulteriore
azione con la quale la ricorrente intenda far valere (e
quantificare) il proprio diritto all'indennizzò dovrà essere
proposta davanti al giudice ordinario ai sensi dell’art. 39,
commi 2-4, del DPR 327/2001 (v. CS Sez. IV 03.03.2009 n.
1214).
9. Il ricorso deve quindi essere parzialmente accolto
attraverso una pronuncia di accertamento con i limiti appena
descritti. La complessità di alcune questioni consente la
compensazione delle spese di giudizio
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 18.03.2013 n. 269 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
domanda di accesso agli atti:
1) deve avere un oggetto determinato o quanto meno
determinabile, e non può essere generica;
2) deve riferirsi a specifici documenti senza necessità di
un'attività di elaborazione di dati da parte del soggetto
destinatario della richiesta;
3) deve essere finalizzata alla tutela di uno specifico
interesse giuridico di cui il richiedente è portatore;
4) non può essere uno strumento di controllo generalizzato
dell'operato della p.a. ovvero del gestore di pubblico
servizio nei cui confronti l'accesso viene esercitato;
5) non può assumere il carattere di una indagine o un
controllo ispettivo, cui sono ordinariamente preposti organi
pubblici.
Invero, per consolidato orientamento
giurisprudenziale (cfr. TAR Bari, Sez. II, 02.05.2012 n.
872), la domanda di accesso agli atti deve avere un oggetto
determinato o quanto meno determinabile, e non può essere
generica; deve riferirsi a specifici documenti senza
necessità di un'attività di elaborazione di dati da parte
del soggetto destinatario della richiesta; deve essere
finalizzata alla tutela di uno specifico interesse giuridico
di cui il richiedente è portatore; non può essere uno
strumento di controllo generalizzato dell'operato della p.a.
ovvero del gestore di pubblico servizio nei cui confronti
l'accesso viene esercitato; non può assumere il carattere di
una indagine o un controllo ispettivo, cui sono
ordinariamente preposti organi pubblici
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 18.03.2013 n. 262 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
legittimazione ad agire delle associazioni ambientaliste
spetta non solo con riferimento alla tutela degli interessi
ambientali in senso stretto, ma anche con riferimento alla
tutela ambientale in senso lato.
Con riferimento ad Italia Nostra, va ricordato che il
Consiglio di Stato ha più volte affermato che, in base alle
proprie disposizioni statutarie, l'Associazione è certamente
legittimata ad agire in giudizio non solo per la tutela di
interessi ambientali in senso stretto, bensì anche per
quelli ambientali in senso lato, comprendenti proprio la
conservazione e valorizzazione dei beni culturali,
dell'ambiente in senso ampio, del paesaggio urbano, rurale e
naturale, dei monumenti e dei centri storici e della qualità
della vita, intesi tutti come beni e valori ideali idonei a
caratterizzare in modo originale, peculiare ed irripetibile
un certo ambito geografico e territoriale rispetto ad ogni
altro ambito geografico e territoriale e pertanto capaci di
assicurare ad ogni individuo che entra in contatto con tale
ambito una propria specifica utilità che non può essere
assicurata da un altro ambiente.
Sotto un profilo d’ordine generale, va rilevato (cfr. TAR
Brescia, Sez. 1, 27.02.2012 n. 274) che la legittimazione ad
agire delle associazioni ambientaliste spetta non solo con
riferimento alla tutela degli interessi ambientali in senso
stretto, ma anche con riferimento alla tutela ambientale in
senso lato.
Con riferimento ad Italia Nostra, va ricordato che il
Consiglio di Stato ha più volte affermato (cfr. Sez. IV
09.10.2002 n. 5365) che, in base alle proprie disposizioni
statutarie, l'Associazione è certamente legittimata ad agire
in giudizio non solo per la tutela di interessi ambientali
in senso stretto, bensì anche per quelli ambientali in senso
lato, comprendenti proprio la conservazione e valorizzazione
dei beni culturali, dell'ambiente in senso ampio, del
paesaggio urbano, rurale e naturale, dei monumenti e dei
centri storici e della qualità della vita, intesi tutti come
beni e valori ideali idonei a caratterizzare in modo
originale, peculiare ed irripetibile un certo ambito
geografico e territoriale rispetto ad ogni altro ambito
geografico e territoriale e pertanto capaci di assicurare ad
ogni individuo che entra in contatto con tale ambito una
propria specifica utilità che non può essere assicurata da
un altro ambiente
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 18.03.2013 n. 259 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Costituiscono
edifici diruti gli organismi edilizi dotati di sole mura
perimetrali e privi di copertura, escludendo che gli
interventi svolti sugli stessi possano essere classificati
come restauro e risanamento conservativo.
Inoltre, è stato chiarito che si deve distinguere tra le
ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura
perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di
conservazione tale da consentire la sua fedele
ricostruzione, nel quale caso è possibile parlare di
demolizione e fedele ricostruzione, e dunque di
ristrutturazione; e le ipotesi in cui, invece, manchino
elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le
caratteristiche dell'edificio da recuperare, configurandosi
in quest'evenienza, invero, un intervento di nuova
costruzione, per l'assenza degli elementi strutturali
dell'edificio, in modo tale che esso possa essere comunque
individuato nei suoi connotati essenziali.
Al riguardo va ricordato che la
giurisprudenza ha specificato che costituiscono edifici diruti gli organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali
e privi di copertura (cfr. TAR Campania, Sez. IV, 14.12.2006 n. 10553), escludendo che gli interventi
svolti sugli stessi possano essere classificati come
restauro e risanamento conservativo (cfr. TAR Campania,
Sez. VIII, 04.03.2010, n. 1286; idem, Sez. VI, 09.11.2009 n. 7049; TAR Latina, 15.07.2009, n. 700).
Inoltre, è stato chiarito che si deve distinguere tra le
ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura
perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di
conservazione tale da consentire la sua fedele
ricostruzione, nel quale caso è possibile parlare di
demolizione e fedele ricostruzione, e dunque di
ristrutturazione; e le ipotesi in cui, invece, manchino
elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le
caratteristiche dell'edificio da recuperare, configurandosi
in quest'evenienza, invero, un intervento di nuova
costruzione (cfr. TAR Veneto Venezia, sez. II, 05.06.2008,
n. 1667), per l'assenza degli elementi strutturali
dell'edificio, in modo tale che esso possa essere comunque
individuato nei suoi connotati essenziali (cfr. Consiglio di
Stato, sez. V, 10.02.2004, n. 475)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 18.03.2013 n. 258 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
definizione della “sagoma” di un edificio è la
“conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo
perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale,
ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi
comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli
sporti”.
La definizione della “sagoma” di un edificio accolta
dal primo giudice, quale “conformazione planovolumetrica
della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso
verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad
assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali
con gli aggetti e gli sporti”, è quella consolidata in
giurisprudenza, anche penale (cfr. Cass., III: 09.10.2008,
n. 38408; 06.02.2001, n. 9427), e da ultimo ripresa dalla
Corte costituzionale (sentenza 23.11.2011, n. 309) a
proposito della stessa l.r. Lombardia n. 12 del 2005.
A questi fini rileva la qualificazione dell’intervento che,
con la d.i.a. del 2010, è stato riferito agli articoli 63,
64 e 65 della legge regionale n. 12 del 2005, individuandosi
di conseguenza quale “ristrutturazione edilizia”
(art. 64, comma 2, con rinvio all’art. 27, comma 1, lett. d)
e perciò vincolata in linea di principio alla non
modificazione della sagoma dell’edificio, ai sensi della
normativa regionale e statale [(art. 3, comma 1, lett. d),
d.P.R. 06.06.2001, n. 380)]
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 15.03.2013 n. 1564 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Sull'istituto della convalida degli atti amministrativi
illegittimi.
La questione giuridica riguarda il
rapporto tra la norma di cui all'articolo 6 della legge 249
del 1968 che prevede la possibilità di convalida di atti
viziati di incompetenza, cui può provvedersi anche in
pendenza di una controversia in sede amministrativa o
giurisdizionale, con la norma di cui all'articolo 21-nonies
della legge 241 del 1990, che consente all'amministrazione
la convalida o ratifica di un precedente provvedimento,
ponendo peraltro il limite del tempo “ragionevole” per il
suo espletarsi.
La norma prevista dalla citata legge 241, introdotta con la
legge 15 del 2005, enuncia un principio di carattere
generale, evidenziando che ogni volta in cui
l'amministrazione rivede una propria decisione precedente,
eliminando alcuni vizi dell'atto originario, deve tener
conto del fattore temporale, in particolare del termine
ragionevole, per evitare di urtare contro interessi o
aspettative consolidate che si sono create proprio per il
trascorrere del tempo.
Ritiene questo collegio che tale previsione, come altre
analoghe della legge 241 del 1990, non fa altro che
codificare la rilevanza del fattore tempo che la
giurisprudenza aveva già più volte affermato in relazione al
comportamento della pubblica amministrazione. Tale principio
peraltro, per la sua generalità e per il suo riferimento
espresso ai canoni di buon andamento della pubblica
amministrazione di rilievo costituzionale, influenza anche
l'applicazione concreta dell'articolo 6 della legge 249 del
1968 riguardante la convalida degli atti viziati da
incompetenza.
In sostanza, le due norme vanno lette e interpretate
congiuntamente e implicano che il potere
dell'amministrazione di correggere eventuali suoi errori o
illegittimità, per un vizio di incompetenza o per altro
motivo, deve comunque essere accompagnato da una particolare
valutazione e motivazione ove il lasso di tempo intercorso
tra l'emanazione del primo provvedimento e quello successivo
di modifica risulti lungo in relazione alla fattispecie
concreta.
Quanto al vizio di incompetenza è necessario a questo punto
esaminare il provvedimento di convalida adottato dal comune
e impugnato con i motivi aggiunti.
La questione giuridica riguarda il rapporto tra la norma di
cui all'articolo 6 della legge 249 del 1968 che prevede la
possibilità di convalida di atti viziati di incompetenza,
cui può provvedersi anche in pendenza di una controversia in
sede amministrativa o giurisdizionale, con la norma di cui
all'articolo 21-nonies della legge 241 del 1990, che
consente all'amministrazione la convalida o ratifica di un
precedente provvedimento, ponendo peraltro il limite del
tempo “ragionevole” per il suo espletarsi.
La norma prevista dalla citata legge 241, introdotta con la
legge 15 del 2005, enuncia un principio di carattere
generale, evidenziando che ogni volta in cui
l'amministrazione rivede una propria decisione precedente,
eliminando alcuni vizi dell'atto originario, deve tener
conto del fattore temporale, in particolare del termine
ragionevole, per evitare di urtare contro interessi o
aspettative consolidate che si sono create proprio per il
trascorrere del tempo.
Ritiene questo collegio che tale previsione, come altre
analoghe della legge 241 del 1990, non fa altro che
codificare la rilevanza del fattore tempo che la
giurisprudenza aveva già più volte affermato in relazione al
comportamento della pubblica amministrazione. Tale principio
peraltro, per la sua generalità e per il suo riferimento
espresso ai canoni di buon andamento della pubblica
amministrazione di rilievo costituzionale, influenza anche
l'applicazione concreta dell'articolo 6 della legge 249 del
1968 riguardante la convalida degli atti viziati da
incompetenza.
In sostanza, le due norme vanno lette e interpretate
congiuntamente e implicano che il potere
dell'amministrazione di correggere eventuali suoi errori o
illegittimità, per un vizio di incompetenza o per altro
motivo, deve comunque essere accompagnato da una particolare
valutazione e motivazione ove il lasso di tempo intercorso
tra l'emanazione del primo provvedimento e quello successivo
di modifica risulti lungo in relazione alla fattispecie
concreta.
Nel caso in esame peraltro l'ordinanza di convalida
impugnata con i motivi aggiunti si fa carico sia della
giurisprudenza formatasi nel frattempo sulle competenze
della dirigenza amministrativa, sia del fatto che le
caratteristiche strutturali della strada sono rimaste
analoghe. Ciò nonostante il comune non ha tenuto in debito
conto il fattore temporale prima di procedere alla convalida
dell'atto precedente, per cui il vizio sollevato nei motivi
aggiunti deve anch’esso trovare accoglimento.
Infatti, l’altro aspetto trascurato dal Comune nell’atto di
convalida è la circostanza, già sopra cennata, che la strada
è stata in concreto e in via continuativa utilizzata per
accedere alla discarica, per cui appariva opportuno a
distanza di più di dieci anni verificare ex novo la
situazione e rideterminarsi nel merito dell’originaria
ordinanza.
La questione peraltro risulta superata dai vizi dell'atto
originario che si riverberano ovviamente sulla convalida che
va pertanto anch'essa annullata.
Per scrupolo di completezza va aggiunto che il fattore
temporale rileva anche per alcune considerazioni che questo
collegio non può fare a meno di evidenziare: la permanente
efficacia dell'ordinanza del Tar Veneto che ha consentito il
transito dei mezzi pesanti della strada in questione, per
più di 10 anni, non ha comportato né alcun intervento da
parte del comune per la manutenzione e rimessa in pristino
della strada che asseritamente era dissestata e il cui
intervento di sistemazione era considerato prioritario, né
ha provocato alcun noto aggravio o inconveniente per la
pubblica sicurezza della zona in questione.
Pur essendo vicende successive all'atto impugnato, tuttavia
esse evidenziano ancor più la sussistenza del vizio di
difetto di istruttoria e di motivazione del provvedimento
qui impugnato.
Per tutte le su indicate ragioni il ricorso e i motivi
aggiunti vanno accolti e gli atti impugnati, vale a dire
l'ordinanza del sindaco di Sacile del 26.04.2002 n. 43 e la
successiva ordinanza di convalida n. 132 del 24.09.2012
vanno annullate.
Le oscillazioni giurisprudenziali in materia e il fatto che
questo Tar si è pronunciato in senso opposto con la sentenza
105 del 2009 inducono il collegio a compensare le spese di
giudizio fra le parti in causa
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 13.03.2013 n. 150 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abitazioni abusive, ''carico urbanistico'' anche per l'uso
protratto sul territorio.
L'aggravamento del carico urbanistico può consistere negli effetti sul
territorio dell'utilizzazione abitativa dell'immobile
protrattasi nel tempo, poiché il ''carico urbanistico'' e'
l'effetto che viene prodotto dall'insediamento primario,
come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza
del numero delle persone insediate su di un determinato
territorio.
La Corte Suprema torna a pronunciarsi, con la sentenza in
esame, sulla disciplina edilizia, focalizzando in
particolare la propria attenzione sulla nozione di “carico
urbanistico” e sugli effetti che la stessa può avere in
termini di sequestrabilità di un immobile abusivamente
realizzato.
La Corte, dissentendo dall’impostazione giuridica assunta
dal Tribunale del riesame che aveva confermato l’ordinanza
del giudice per le indagini preliminari, il quale aveva
rigettato la richiesta di convalida del sequestro preventivo
effettuato dalla polizia giudiziaria, avente ad oggetto un
immobile asseritamente abusivo in uso all'indagata, in
relazione ai reati di cui agli artt. 44 del d.P.R. n. 380
del 2001 e 349 c.p., ha annullato l’ordinanza di rigetto
ritenendo erroneo il ragionamento giuridico del G.i.p., che
aveva fondato la propria decisione sull'erroneo presupposto
che l'aggravamento del carico urbanistico non possa
consistere negli effetti sul territorio dell'utilizzazione
abitativa dell'immobile protrattasi nel tempo.
Il fatto
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte
per occuparsi della questione, come sinteticamente
anticipato, trae origine dall’impugnazione contro
l’ordinanza del Tribunale del riesame che aveva confermato
l’ordinanza del G.i.p. di rigetto della richiesta di
convalida del sequestro preventivo eseguito d’iniziativa
dalla polizia giudiziaria per i reati di violazione di
sigilli e di costruzione edilizia abusiva. il Tribunale, in
particolare, aveva affermato che l'uso del manufatto per
esigenze abitative non incidesse apprezzabilmente sul carico
urbanistico, non essendo stata dimostrata, in concreto,
un'ulteriore lesione all'assetto del territorio e che,
comunque, il carico urbanistico non risultava «ulteriormente
compromesso rispetto al momento consumativo del reato e, ove
lo fosse, si tratterebbe di una situazione praticamente
consolidatasi nel tempo».
Il ricorso
Avverso l’ordinanza reiettiva proponeva ricorso per
cassazione il procuratore della repubblica, secondo cui,
invece, vi sarebbe stato, invece, un costante aggravio del
carico urbanistico, perché nella specie si tratta di
un'abitazione cui devono necessariamente correlarsi una
serie di insediamenti secondari e servizi, e a nulla
varrebbe richiamare il decorso del tempo, perché il
consolidamento della situazione negli anni certo non
alleggerisce le esigenze cautelari, le quali rimangono
inalterate; inoltre, ad abundantiam, l’ordinanza non
conterrebbe alcuna motivazione circa il periculum in mora
collegato al contestato reato di violazione di sigilli.
La decisione della Cassazione
La tesi ha convinto i giudici di legittimità che, del resto,
su conforme parere del Procuratore Generale d'udienza, hanno
annullato il provvedimento impugnato.
Per bene comprendere la soluzione della Cassazione, è utile
una riflessione sul punto centrale della questione,
correlato alla corretta interpretazione della nozione di
“carico urbanistico”.
A tal proposito, è importante ricordare che l'incidenza di
un immobile sul carico urbanistico va valutata secondo
indici concreti e può essere rappresentata dalla consistenza
dell'insediamento edilizio, dal numero di nuclei familiari
presenti, dall'incremento della domanda di strutture, opere
collettive e dotazione minima di spazi pubblici per
abitante, dalla necessità di salvaguardare l'ambiente e la
staticità dei luoghi e, infine, dalla possibilità che le
opere non ancora ultimate siano portate a compimento e le
unità non ancora abitate siano occupate.
Il giudice di merito deve, dunque, valutare attentamente e,
conseguentemente, motivare, la sussistenza del pericolo
derivante dalla libera disponibilità del bene pertinente al
reato, considerando, in particolare, la reale compromissione
degli interessi attinenti al territorio ed ogni altro dato
utile a stabilire in che misura il godimento e la
disponibilità attuale della cosa da parte dell'indagato o di
terzi possa implicare una effettiva ulteriore lesione del
bene giuridico protetto, ovvero se l'attuale disponibilità
del manufatto costituisca un elemento neutro sotto il
profilo della offensività.
Più precisamente, osserva la Cassazione, la nozione di
"carico urbanistico" deriva dall'osservazione che ogni
insediamento umano è costituito da un elemento cd. primario
(abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di
servizio (opere pubbliche in genere, uffici pubblici,
parchi, strade, fognature, elettrificazione, servizio
idrico, condutture di erogazione del gas) che deve essere
proporzionato all'insediamento primario, ossia al numero
degli abitanti insediati ed alle caratteristiche
dell'attività da costoro svolte.
Quindi, il carico urbanistico è l'effetto che viene prodotto
dall'insediamento primario come domanda di strutture ed
opere collettive, in dipendenza del numero delle persone
insediate su di un determinato territorio.
Si tratta di un concetto, non definito dalla vigente
legislazione, ma che è in concreto preso in considerazione
in vari istituti del diritto urbanistico, tra i quali:
a) gli standards urbanistici di cui al d.m. 02.04.1968,
n. 1444, che richiedono l'inclusione, nella formazione degli
strumenti urbanistici, di dotazioni minime di spazi pubblici
per abitante a seconda delle varie zone;
b) la sottoposizione a concessione e, quindi, a contributo
sia di urbanizzazione che sul costo di produzione, delle
superfici utili degli edifici, in quanto comportino la
costituzione di nuovi vani capaci di produrre nuovo
insediamento;
c) il parallelo esonero da contributo di quelle opere che
non comportano nuovo insediamento, come le opere di
urbanizzazione o le opere soggette ad autorizzazione. In
base alle predette precisazioni, dunque, per i Giudici di
Piazza Cavour l'ordinanza impugnata non fa corretta
applicazione di tali principi, perché si limita ad affermare
che non vi è aggravamento del carico urbanistico, perché non
vi è una compromissione ulteriore rispetto al momento
consumativo del reato e, ove vi fosse, «si tratterebbe di
una situazione praticamente consolidatasi da tempo».
Così argomentando, infatti, secondo la Cassazione, il
Tribunale non tiene conto del fatto che il carico
urbanistico è l'effetto che viene prodotto da una condotta
ulteriore rispetto alla semplice consumazione del reato e,
cioè, dall'insediamento primario come domanda di strutture e
opere collettive.
Lo stesso Tribunale basa, dunque, la sua decisione
sull'erroneo presupposto che l'aggravamento del carico
urbanistico non possa consistere negli effetti sul
territorio dell'utilizzazione abitativa dell'immobile
abusivo protrattasi nel tempo.
Ne discende, dunque, l’annullamento dell’ordinanza
impugnata, con rinvio al tribunale perché faccia corretta e
coerente applicazione dei principi relativi in materia di
“carico urbanistico”.
La soluzione non può che essere condivisa, rientrando del
resto le argomentazioni dei giudici di legittimità in un
orientamento ormai da tempo consolidato (v., in precedenza,
sulla nozione di “carico urbanistico” e sulla rilevanza in
termini di sequestrabilità: Cass. pen., Sez. III, 17.02.2012, n. 6599, S., in Ced Cass., n. 252016).
Ancora, nel senso che l'esigenza cautelare di evitare
l'aggravamento del carico urbanistico è incompatibile con
l'autorizzazione all'uso dell'immobile stesso, v. Cass. pen.,
Sez. III, 13.01.2009, n. 825, V., in Ced Cass., n.
242156) (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di
Cassazione penale,
sentenza 12.03.2013 n. 11544). |
TRIBUTI: Tarsu alberghi come le case. Se manca l'attività di ristorazione.
Per gli alberghi che all'interno della struttura non hanno
un'attività di ristorazione non sono giustificate tariffe
Tarsu più elevate rispetto alle civili abitazioni.
Lo ha
stabilito il TAR Puglia-Lecce (Sez. II), con la
sentenza
12.03.2013 n. 570.
Il Tar ha ritenuto illegittima la
delibera del comune di Brindisi che aveva fissato tariffe Tarsu maggiorate rispetto alle abitazioni. Quindi, ha
accolto il ricorso presentato dall'associazione albergatori
della provincia di Brindisi, poiché l'amministrazione
comunale non aveva operato la dovuta distinzione tra le
varie strutture ricettive.
Secondo il giudice
amministrativo, «può considerarsi giustificato un regime di
tassazione più elevato per gli alberghi con servizio di
ristorazione, in considerazione del fatto che l'esercizio di
un'attività di questo tipo (che, di regola, non è limitata
ai soli clienti dell'albergo) può determinare una produzione
quantitativamente e qualitativamente significativa di
rifiuti». Invece, un albergo che non eroga servizi di
ristorazione «manifesta una capacità di produrre rifiuti
pari o, addirittura, inferiore a quella delle abitazioni
private».
Questa pronuncia, però, non è in linea con il
principio più volte affermato dalla Cassazione (sentenze
8278/2008, 302/2010 e ordinanza 12859/2012), secondo cui i
comuni sono legittimati a fissare tariffe più alte per le
attività alberghiere perché potenzialmente producono più
rifiuti delle abitazioni. Sulla questione emerge da tempo un
evidente contrasto tra giudici di legittimità e di merito.
Alcune commissioni tributarie hanno escluso che le
amministrazioni comunali possano stabilire tariffe più
elevate rispetto alle civili abitazioni, poiché l'articolo
68 del decreto legislativo 507/1993, con una formulazione
piuttosto infelice, prevede che «in via di massima»
dovrebbero essere inquadrate nella stessa categoria degli
alberghi.
In realtà, ex lege, l'articolazione delle categorie e
delle eventuali sottocategorie deve essere fatta, ai fini
della determinazione comparativa delle tariffe, tenendo
conto dei gruppi di attività e dell'utilizzazione degli
immobili
(articolo ItaliaOggi del 29.03.2013). |
SICUREZZA
LAVORO: Lavoro.
Requisito in più rispetto a quelli del decreto 81/2008.
La delega sulla sicurezza deve precisare i compiti.
Perché la delega in materia di sicurezza sul lavoro sia
valida, è necessario che il delegante precisi i compiti
antinfortunistici attribuiti al delegato. Altrimenti
mancherebbe, nel documento, un elemento essenziale per
valutare l'adeguatezza delle risorse date dal delegante al
delegato.
È questo il principio stabilito dalla Corte di Cassazione,
Sez. IV
penale, che, con la
sentenza
11.03.2013 n. 11442, ha
aggiunto un requisito per la validità della delega di
funzioni oltre a quelli previsti dall'articolo 16 del
decreto legislativo 81/2008.
Il caso esaminato dai giudici riguarda un lavoratore che
viene colpito al volto da parti di un macchinario,
modificato dall'azienda utilizzatrice per esigenze
produttive. Il tribunale condanna il direttore di
stabilimento per il reato di lesioni personali colpose
(articolo 590 del Codice penale), considerandolo delegato
alla sicurezza e coordinatore del servizio di ingegneria
industriale, nell'ambito del quale si è verificato
l'infortunio. Il direttore ricorre in secondo grado,
sostenendo la responsabilità del capo del servizio
ingegneria industriale, da lui incaricato dell'osservanza
delle norme antinfortunistiche. Ma la Corte d'appello
conferma la condanna ritenendo il direttore incaricato, dal
Cda, della prevenzione riguardante le macchine e
coordinatore del servizio. I giudici, in particolare, negano
validità alla delega perché non idonea a trasferire le
funzioni del direttore e, comunque, non operativa, dato che
il presunto delegato è assente, da tempo, e non è stato
sostituito.
Il direttore, a questo punto, ricorre in Cassazione, che
però conferma la sentenza d'appello. Per farlo, i giudici
precisano che l'articolo 16 del decreto legislativo 81/2008
stabilisce che la delega di funzioni in materia di sicurezza
sul lavoro può essere conferita dal datore di lavoro o da
chi sia già stato da lui delegato, nel rispetto di una serie
di requisiti: il delegato deve possedere i requisiti di
professionalità ed esperienza richiesti dalla natura delle
funzioni delegate; la delega deve risultare da atto scritto
con data certa; la delega deve conferire i poteri di
organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla
funzione e l'autonomia di spesa necessaria; la delega deve
essere accettata dal delegato per iscritto e a essa deve
essere data adeguata e tempestiva pubblicità.
In questo quadro normativo la Cassazione, in primo luogo,
afferma che non è delega l'atto che si limiti a nominare un
responsabile di servizio o che concretizzi la normale
articolazione organizzativa aziendale. Inoltre, non basta
per la delega che il documento precisi che i compiti
aziendali delegati siano da svolgere «nel rispetto di tutte
le norme infortunistiche»: formula utile solo a evidenziare
la necessità di rispettare gli obblighi derivanti dalla
legge. La Corte sostiene, inoltre, che l'individuazione
specifica dei compiti antinfortunistici trasferiti, anche se
non richiesta dall'articolo 16, è requisito necessario della
delega, perché senza di esso manca un parametro per valutare
l'adeguatezza delle risorse messe a disposizione del
delegato.
I giudici, infine, prendono atto che il presunto delegato
fosse assente, già da tempo prima dell'avvenuto infortunio,
e chiariscono che ciò, comunque, escluderebbe l'operatività
della delega di funzioni (articolo Il Sole 24 Ore del
25.03.2013). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
nostro ordinamento, vigente il noto art. 19 della
Costituzione, conforme del resto all’art. 9 della
Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nessun soggetto
può ordinare ad altro di non pregare a casa propria.
Assume infatti il Comune che il locale per cui è causa,
legittimamente adibito a sede dell’associazione ricorrente,
sarebbe in fatto adibito ad altro uso, a sede dedicata di
culto islamico ovvero a moschea, uso per il quale, a
differenza che per la sede di una associazione, è richiesto
il permesso di costruire ai sensi dell’art. 52, comma 3-ter,
della l.r. Lombardia 12/2005, nella specie mancante.
In tal senso, deve allora osservarsi che il Comune ha
senz’altro il potere di sanzionare l’uso di un locale
difforme dalla destinazione, ma che nel caso di specie l’uso
difforme non può essere identificato con il mero fatto che
nel locale si svolga la preghiera. Infatti, come risulta
dalla giurisprudenza –in tal senso C.d.S., sez. IV,
28.01.2011, n. 683- e dalla prassi –in tal senso il parere
al Ministero dell’Interno espresso il 27.01.2011 dal
Comitato per l’Islam italiano- per ravvisare la presenza di
una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e
urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno intrinseco,
dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri,
l’altro estrinseco, dato dal dover accogliere “tutti coloro
che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali
o alle attività in essi svolte” e “consentire la pratica del
culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e
donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o
sciita, o nazionalità essi siano” (così il parere citato).
Allo stesso modo, si osserva, una chiesa consacrata nei
termini della religione cattolica può esistere anche
all’interno di una proprietà privata -come nel caso delle
cappelle gentilizie o di conventi, dove è ben possibile dir
regolarmente Messa- ma non assume rilievo urbanistico
edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei
fedeli.
Pertanto, l’uso incompatibile può verificarsi, e può essere
accertato dall’autorità, nel caso in cui l’accesso per la
libera attività di preghiera sia non riservato ai membri
dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in
quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico
urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di
costruire.
L’Amministrazione comunale, una volta preso
conoscenza dell’atto costitutivo e dello statuto
dell’Associazione islamica qui ricorrente, è pervenuta
dunque alla conclusione che l’utilizzo dei locali
richiederebbe, anche in assenza di lavori, il rilascio del
permesso di costruire.
Tale tesi non può essere condivisa.
La fattispecie all’esame è assai simile a quella definita
dal TAR Milano, Sez. 2° con la sentenza ex art. 60 c.p.a. n.
6415 del 23.09.2010, alle cui motivazioni si rinvia ex art.
74 c.p.a. (Per comodità del lettore si riporta il punto
centrale della sentenza: <<di per sé le opere oggetto
dell’istanza non rivelano, in alcun modo, la volontà
dell’associazione ricorrente di attuare una destinazione del
fabbricato ad “attrezzatura di interesse comune per servizi
religiosi”, ai sensi dell’art. 71, l. Regione Lombardia n.
12/2005, piuttosto che a propria sede.
Il fabbricato non può, difatti, essere qualificato, per
effetto di tali interventi, quale immobile destinato al
culto, all’abitazione dei ministri del culto o del personale
di servizio, ovvero ad attività di formazione religiosa.
La fattispecie non rientra neppure nell’ipotesi di cui
all’art. 71, c. 1, lett. c, della l. Regione Lombardia n.
12/2005: in essa sono, difatti, ricompresi “gli immobili
adibiti ad attività educative, culturali, sociali,
ricreative e di ristoro compresi gli immobili e le
attrezzature fisse destinate alle attività di oratorio e
similari che non abbiano fini di lucro” unicamente se tali
attività vengano svolte “nell’esercizio del ministero
pastorale”.
Il rifacimento di coperture di pavimentazione, il ripristino
di intonaci, la sistemazione di pilastri in cartongesso,
l’imbiancatura dei locali, la realizzazione di impianti
igienico–sanitari ed elettrici non palesano, di per sé, in
alcun modo, la volontà di realizzare un luogo di culto né di
esercitare nell’immobile un’attività connessa all’esercizio
del ministero pastorale, attività che, oltretutto, non
rientra tra quelle indicate nello statuto dell’associazione
“Centro Culturale Pace”;
- né quanto sostenuto dall’amministrazione circa l’essere il
Centro Culturale “emanazione di una confessione religiosa”
assume alcun rilievo, non potendo dedursi dalla natura e
dall’orientamento religioso del proprietario di un immobile
la volontà di imprimere ad esso una particolare destinazione
d’uso.
La stessa difesa dell’amministrazione comunale ammette che
l’immobile non è una moschea ma “un luogo di riunione ed
assistenza riservato alla comunità religiosa islamica”: il
fatto che i servizi prestati dall’associazione siano rivolti
ad una comunità appartenente ad una determinata confessione
religiosa, ma dichiaratamente erogati al solo scopo di
promuoverne l’integrazione e l’inserimento nella società,
non rivela affatto la volontà di destinare i locali in cui
essa ha la propria sede a luogo di culto o comunque ad
attività connesse all’esercizio del ministero pastorale,
come richiede l’art. 71 della l. Regione Lombardia n.
12/2005;
- parimenti, la circostanza che vi possa essere stato, in
passato, un uso di fatto dell’immobile anche quale luogo di
culto e di preghiera, non è indicativa di un intento di
modificare la funzione originaria dell’immobile, al fine di
adibirlo, in via permanente, ad una funzione diversa
rispetto a quella di sede del Centro Culturale;
- la volontà di attuare una particolare destinazione d'uso -nel caso di specie ad “attrezzatura di interesse comune per
servizi religiosi”- deve, invero, trovare una
corrispondenza nella natura e nella tipologia di opere
realizzate e non può essere inferita dall’uso di fatto che
possa, in precedenza, essere stato posto in essere (cfr. Tar
Lombardia, Milano, 17.09.2009, n. 4665), tanto più
quando l’istanza di sanatoria non faccia riferimento alcuno
ad una destinazione di tipo religioso.>>).
Va soggiunto che la Sezione, con la recente ordinanza
cautelare n. 483 del 31.10.2012, ha svolto le seguenti
ulteriori considerazioni: <<… nel nostro ordinamento,
vigente il noto art. 19 della Costituzione, conforme del
resto all’art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti
dell’Uomo, nessun soggetto può ordinare ad altro di non
pregare a casa propria (cfr. ricorso, p. 9 dal dodicesimo
rigo). Del resto, la difesa del Comune intimato è incentrata
su un presupposto diverso, che ben può essere quello che
storicamente ha ispirato l’azione dell’ente, ma all’evidenza
non può ricavarsi a fronte di un dispositivo del
provvedimento che dice altro.
Assume infatti il Comune che
il locale per cui è causa, legittimamente adibito a sede
dell’associazione ricorrente, sarebbe in fatto adibito ad
altro uso, a sede dedicata di culto islamico ovvero a
moschea, uso per il quale, a differenza che per la sede di
una associazione, è richiesto il permesso di costruire ai
sensi dell’art. 52, comma 3-ter, della l.r. Lombardia 12/2005,
nella specie mancante.
In tal senso, deve allora osservarsi
che il Comune ha senz’altro il potere di sanzionare l’uso di
un locale difforme dalla destinazione, ma che nel caso di
specie l’uso difforme non può essere identificato con il
mero fatto che nel locale si svolga la preghiera. Infatti,
come risulta dalla giurisprudenza –in tal senso C.d.S., sez. IV, 28.01.2011, n. 683- e dalla prassi –in tal senso il
parere al Ministero dell’Interno espresso il 27.01.2011
dal Comitato per l’Islam italiano- per ravvisare la presenza
di una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e
urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno intrinseco,
dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri,
l’altro estrinseco, dato dal dover accogliere “tutti coloro
che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali
o alle attività in essi svolte” e “consentire la pratica del
culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e
donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o
sciita, o nazionalità essi siano” (così il parere citato).
Allo stesso modo, si osserva, una chiesa consacrata nei
termini della religione cattolica può esistere anche
all’interno di una proprietà privata -come nel caso delle
cappelle gentilizie o di conventi, dove è ben possibile dir
regolarmente Messa- ma non assume rilievo urbanistico
edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei
fedeli. Pertanto, l’uso incompatibile può verificarsi, e può
essere accertato dall’autorità, nel caso in cui l’accesso
per la libera attività di preghiera sia non riservato ai
membri dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in
quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico
urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di
costruire;>>.
Le spese di giudizio, liquidate come da dispositivo, vanno
poste -alla stregua del principio victusvictori- a
carico della resistente Amministrazione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 08.03.2013 n. 242 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso di ufficio e reato urbanistico.
Il rilascio di un titolo abilitativo edilizio per la
realizzazione di un immobile la cui edificazione non è
consentita determina inequivocabilmente un vantaggio
patrimoniale ingiusto nei confronti del privato che lo
ottiene e che, in forza del titolo indebitamente conseguito,
costruisce un manufatto il quale, oltre ad incrementare il
valore dell'area ove insiste, ha un valore intrinseco e può
essere successivamente alienato, locato o destinato comunque
ad utilizzazioni economicamente vantaggiose (tratto da
www.lexambiente.it -
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.03.2013 n. 10248). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Beni Ambientali. La rimessione in pristino non estingue il
reato edilizio.
La rimessione in pristino delle aree o degli immobili
soggetti a vincoli paesaggistici, pur se accompagnata dalla
successiva demolizione del manufatto abusivo, non estingue
il reato edilizio ma, esclusivamente, la contravvenzione
paesaggistica prevista dall'art. 181, comma 1, D.Lgs.
22.01.2004 n. 42
(tratto da www.lexambiente.it -
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.03.2013 n. 10245). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Individuazione della natura precaria di un
manufatto.
La natura "precaria" di un manufatto ai fini dell'esenzione
dal permesso di costruire (già concessione edilizia), non
può essere desunta dalla temporaneità della destinazione
soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve
ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale di essa
ad un uso realmente precario e temporaneo, per fini
specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente
e sollecita eliminazione, non essendo sufficiente che si
tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o non
infisso al suolo.
Il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 6, comma 2,
lett. b), -dopo le modifiche introdotte dal D.L. 25.03.2010, n. 40, convertito con modificazioni nella L. 22.05.2010, n. 73- prevede che possono essere installate, senza
alcun titolo abilitativo ma previa comunicazione dell'inizio
dei lavori all'Amministrazione comunale (anche per via
telematica), le opere dirette a soddisfare obiettive
esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente
rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un
termine non superiore a 90 giorni. Non implica precarietà
dell'opera, però, il carattere stagionale di essa, potendo
essere la stessa destinata a soddisfare bisogni non
provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua
funzione (tratto da www.lexambiente.it
- Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.03.2013 n. 10235). |
APPALTI: Forma di partecipazione modificata strada facendo.
Il concorrente in una procedura di gara può modificare la
forma di partecipazione, rispetto a quanto indicato in fase
di prequalifica.
Il principio è affermato con la
sentenza
05.03.2013 n.
1328 del Consiglio di Stato, Sez. III.
Nella fattispecie oggetto dell'esame del giudice
amministrativo, in sede di prequalifica, il concorrente
richiedeva l'invito alla procedura con la forma del
costituendo raggruppamento di imprese, mentre al momento
della partecipazione cambiava sia forma, consorzio anziché
RTI, che composizione, in quanto risultava differente uno
dei tre partecipanti al consorzio.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto che la possibilità di
modifica non era vietata dal bando, in quanto il riferimento
alla forma giuridica era come da domanda di partecipazione,
riferendosi pertanto non alla fase di prequalifica ma
all'effettiva partecipazione alla gara.
Inoltre, a parte il riferimento del bando, è lo stesso
codice degli appalti che agli articoli 37 e 51 consente agli
operatori che concorrono alle procedure di gare, di
modificare la veste giuridica assunta inizialmente, fino
alla presentazione delle offerte.
Il Codice e la stessa normativa comunitaria sono
indifferenti alla veste giuridica con la quale gli operatori
concorrono alle procedure di gara e alle modifiche della
veste inizialmente assunta, almeno fino alla presentazione
delle offerte. In particolare, i commi 9 e 12 del citato
articolo 37 consentono espressamente che l'operatore
prequalificato modifichi il proprio profilo soggettivo, a
condizione che avvenga prima della presentazione
dell'offerta e che non sia preordinato a sopperire ad una
carenza di requisiti.
La lex specialis non potrebbe, infine, prevedere il
divieto di modifica della forma giuridica di partecipazione,
in quanto risulterebbe illegittima, con limiti alle capacità
concorrenziali e imprenditoriali, limitando la facoltà delle
imprese di scegliere e utilizzare gli strumenti aggregativi
ritenuti più idonei
(articolo ItaliaOggi del 29.03.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA: -
l’Amministrazione non ha alcun obbligo di compiere
accertamenti giuridici circa l’esistenza di particolari
rapporti interprivati tra autore dell’abuso e proprietari,
ma ha solo l’onere di individuare il proprietario catastale;
- i provvedimenti sanzionatori sono legittimamente adottati
nei confronti dei proprietari catastali degli immobili
abusivamente realizzati, dovendosi del tutto prescindersi
sia dalle modalità con cui l'abuso è stato realizzato e sia
dagli eventuali rapporti intercorrenti tra proprietari e
costruttori;
- l’ordine di demolizione di opere abusive è legittimamente
notificato al proprietario catastale dell’area il quale,
fino a prova contraria, è quanto meno corresponsabile
dell’abuso;
- la comunicazione all'ente che risulta catastalmente
proprietario del suolo ha infatti una mera funzione
conoscitiva, per rendere edotto l'ente delle vicende
relative al bene di cui esso ente è proprietario, ma in
nessun modo si può ritenere che tale comunicazione
costituisca un requisito di legittimità dell'ordine di
demolizione;
- ai sensi dell'art. 7, comma 3, l. n. 47/1985, è perciò
legittima l'ordinanza di demolizione e di acquisizione di
opere edilizie abusive effettuata nei soli confronti del
responsabile dell'abuso e non del proprietario
dell'immobile, in quanto anche sul piano letterale la norma
si riferisce esclusivamente all'uno, e non all'altro, per
l'evidente ragione di ancorare l'attività riparatoria in
primo luogo all'effettivo autore dell'illecito;
- l'ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio
comunale di un'opera abusiva si configura quale atto dovuto,
privo di discrezionalità, subordinato al solo accertamento
dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione e al
decorso del termine di legge, che ne costituiscono i
presupposti.
---------------
I soggetti responsabili dell’abuso -ai quali è stata
ritualmente notificata l’ordinanza di demolizione e di
acquisizione e che non hanno proceduto alla demolizione- in
ogni caso rispondono direttamente nei riguardi di chi
afferma essere il vero proprietario, per i danni conseguenti
alla perdita definitiva dei terreni interessati all’abuso.
Il provvedimento di accertamento dell'inottemperanza
all'ordine di demolizione e ripristino dello stato primitivo
dei luoghi e quello successivo di acquisizione gratuita
delle opere abusive e dell'area di sedime sono atti dovuti,
conseguenziali, connessi e conseguenti l'uno dell'altro per
cui deve ritenersi legittimo il provvedimento che contiene
sia la preliminare dichiarazione di diniego della
concessione edilizia in sanatoria e sia la conseguenziale
demolizione delle opere abusive a pena di acquisizione.
L’acquisizione è l’automatica conseguenza del mancato
dispetto dell’ordine di demolizione che si avvera decorso
infruttuosamente il termine assegnato per la demolizione.
In linea generale si deve ricordare che, in
materia, la giurisprudenza univoca e maggioritaria ha
costantemente affermato che:
- l’Amministrazione non ha alcun obbligo di compiere
accertamenti giuridici circa l’esistenza di particolari
rapporti interprivati tra autore dell’abuso e proprietari,
ma ha solo l’onere di individuare il proprietario catastale
(cfr. Consiglio Stato sez. V 31.03.2010 n. 1878);
- i provvedimenti sanzionatori sono legittimamente adottati
nei confronti dei proprietari catastali degli immobili
abusivamente realizzati, dovendosi del tutto prescindersi
sia dalle modalità con cui l'abuso è stato realizzato e sia
dagli eventuali rapporti intercorrenti tra proprietari e
costruttori (cfr. Consiglio Stato sez. V 03.02.1992 n.
87; Consiglio Stato sez. IV 24.12.2008 n. 6554);
- l’ordine di demolizione di opere abusive è legittimamente
notificato al proprietario catastale dell’area il quale,
fino a prova contraria, è quanto meno corresponsabile
dell’abuso (cfr. Consiglio Stato, sez. V 31.03.2010 n.
1878; Consiglio Stato, sez. VI 10.12.2010 n. 8705);
- la comunicazione all'ente che risulta catastalmente
proprietario del suolo ha infatti una mera funzione
conoscitiva, per rendere edotto l'ente delle vicende
relative al bene di cui esso ente è proprietario, ma in
nessun modo si può ritenere che tale comunicazione
costituisca un requisito di legittimità dell'ordine di
demolizione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV 12.04.2011
n. 2266);
- ai sensi dell'art. 7, comma 3, l. n. 47/1985, è perciò
legittima l'ordinanza di demolizione e di acquisizione di
opere edilizie abusive effettuata nei soli confronti del
responsabile dell'abuso e non del proprietario
dell'immobile, in quanto anche sul piano letterale la norma
si riferisce esclusivamente all'uno, e non all'altro, per
l'evidente ragione di ancorare l'attività riparatoria in
primo luogo all'effettivo autore dell'illecito (cfr.
Consiglio di Stato sez. V 27.04.2012 n. 2450);
- l'ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio
comunale di un'opera abusiva si configura quale atto dovuto,
privo di discrezionalità, subordinato al solo accertamento
dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione e al
decorso del termine di legge, che ne costituiscono i
presupposti (cfr. Consiglio di Stato sez. V 27.04.2012
n. 2450).
---------------
Al riguardo è anche
evidente che, in tale ipotesi, i soggetti responsabili
dell’abuso -ai quali è stata ritualmente notificata
l’ordinanza di demolizione e di acquisizione e che non hanno
proceduto alla demolizione- in ogni caso rispondono
direttamente nei riguardi di chi afferma essere il vero
proprietario, per i danni conseguenti alla perdita
definitiva dei terreni interessati all’abuso.
Né ha pregio ai fini dell’illegittimità dell’acquisizione,
la pretesa mancata riassegnazione di un nuovo termine a
demolire. Al contrario il provvedimento di accertamento
dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e ripristino
dello stato primitivo dei luoghi e quello successivo di
acquisizione gratuita delle opere abusive e dell'area di
sedime sono atti dovuti, conseguenziali, connessi e
conseguenti l'uno dell'altro (cfr. Consiglio di Stato sez.
IV 24.01.2012 n. 297) per cui deve ritenersi legittimo
il provvedimento che contiene sia la preliminare
dichiarazione di diniego della concessione edilizia in
sanatoria e sia la conseguenziale demolizione delle opere
abusive a pena di acquisizione (cfr. Cons. giust. amm. Sicilia
sez. giurisd. 19.03.2002 n. 155).
L’acquisizione è l’automatica conseguenza del mancato
dispetto dell’ordine di demolizione che si avvera decorso
infruttuosamente il termine assegnato per la demolizione
(cfr. recentemente Consiglio Stato, sez. V 12.12.2008 n.
6174 ed in precedenza Consiglio Stato, sez. V 26.01.2000 n.
341)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.02.2013 n. 1179 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA: Allevamento di modeste dimensioni come insediamento
civile e non produttivo.
5 vitelli, 1 vacca, 2 suini ed alcuni
animali di bassa corte integrano gli estremi di un
insediamento civile e non produttivo proprio in ragione
delle limitate quantità di rifiuti destinati, come
concimazione, alla coltivazione del fondo.
Illegittimamente l’Amministrazione ha, perciò, sanzionato
un’impresa agricola di natura modesta e familiare che non
può che produrre circostanziate quantità di rifiuti e che,
peraltro, esercita la specifica attività di coltivazione del
fondo ed utilizza totalmente e congruamente i rifiuti
medesimi come concimi nel successivo ciclo di coltivazione
secondo una prassi di concimazione biologica ben antica e
diffusa in un ciclo chiuso che non rileva ai fini della
legge antinquinamento per ovvie e conseguenziali ragioni.
Ipotesi diversa sarebbe, invece, quella del "ruscellamento",
vietato come del resto ogni forma di scorrimento di liquami
sul fondo in modo simile al deflusso di un ruscello con
esclusivo scopo di gettare od eliminare i reflui comunque in
maniera da non consentire un normale assorbimento da parte
del terreno, dando luogo a depositi, acquitrini o pozze di
materiale putrescente e che, dunque, non assolverebbe alla
funzione di rendere i campi prosperi o fecondi.
3. Nel merito
il Collegio ricorda che proprio questo Tribunale (III,
05.12.2007, n. 15770) ha affermato in passato che la
violazione delle norme poste a tutela dell'igiene e della
sanità pubblica, quando è constatata dalla ASL, è requisito
sufficiente per disporre la sospensione dell'attività di
somministrazione fino al ripristino delle condizioni
igienico sanitarie, senza che occorra anche la prova della
effettiva lesione del bene protetto; trattasi, infatti, di
norme che sono finalizzate ad evitare il verificarsi di un
pericolo di danno per la salute pubblica e l'igiene e,
pertanto, non occorre anche la prova della effettiva lesione
di questi beni, né può essere ammessa a discarico la prova
della mancanza della loro effettiva compromissione, essendo
sufficiente la sussistenza del concreto ed effettivo
pericolo che i beni protetti siano compromessi.
3.1 Nello specifico non sfugge al Tribunale che
costantemente (ex multis, Cass. pen., III,
09.07.2008, n. 38411; 26.10.2006, n. 39361) si è affermato
che, in tema di gestione dei rifiuti, al fine di escludere
l'applicabilità della normativa sui rifiuti in caso di
utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento
(nella specie, deiezioni di vitelli, vacca e suini), non è
necessaria l'attuazione della pratica in oggetto attraverso
scarico diretto tramite condotta, essendo la deroga
condizionata alla sola effettiva utilizzazione agronomica
degli effluenti, in qualunque modo questa avvenga, anche
tramite spandimento sul suolo successivo a stoccaggio in
vasche e trasporto a bordo di cisterne.
Lo scarico non autorizzato di liquami provenienti da
un'azienda di allevamento -normalmente qualificabile come
insediamento produttivo quando manchi il nesso funzionale
con l'attività agricola, ancorché sia effettuato in vasche
impermeabilizzate- costituisce reato anche in base alla
nuova normativa (art. 59 del D.L. n.152 del 1999), a nulla
rilevando in contrario l'esistenza di autorizzazione alla
pratica della “fertirrigazione” che si riferisce
soltanto alla successiva, eventuale fase di utilizzazione
dei suddetti liquami.
4. Ora, con specifico riguardo al caso in esame, il
Tribunale ritiene, come peraltro anticipato in fase
cautelare e con assorbimento degli ulteriori motivi di
ricorso, che il provvedimento impugnato sia illegittimo
nella misura in cui ha omesso di ricercare in concreto il
criterio distintivo tra insediamenti civili e produttivi in
base all'assimilabilità o meno dei rispettivi scarichi, per
tipo e qualità dei reflui, a quelli propri degli
insediamenti abitativi; infatti le imprese agricole sono da
considerare come insediamenti produttivi, a meno che non
abbiano, come appunto provato agli atti del ricorso,
limitate quantità di rifiuti destinati, come concimazione,
alla coltivazione del fondo, sì da attuare quella che ormai
si chiama concretamente la “fertirrigazione”. Con
detto termine si suole, infatti, intendere la distribuzione
uniforme e razionale di concimi organici o minerali sul
terreno, di regola con impianto irriguo a pioggia; detta
tecnica, se rigorosamente controllata, soddisfa una duplice
esigenza economica: la concimazione dei terreni interessati
che vengono resi prosperi e fecondi senza che si formino
pozze putrescenti, nonché il riciclo naturale dei liquami
degli allevamenti.
Ipotesi diversa è, invece, quella del "ruscellamento",
quando cioè i liquami scorrono su un fondo a modo simile al
deflusso di un ruscello e, comunque, in maniera tale da non
consentire un normale assorbimento da parte del terreno,
dando luogo a depositi, acquitrini o pozze di materiale
putrescente; mentre, infatti, come appunto nella fattispecie
in esame la fertirrigazione è consentita dalla legge (Cass.
Pen., III, 06.10.1994; 12.08.1993), il "ruscellamento"
-in quanto adempie allo scopo di getto o eliminazione di
reflui o deiezioni- è sottoposto alla disciplina penale
statuita dagli art. 21 e ss. della legge n. 319 del 1976,
sicché è necessaria l'autorizzazione ed occorre adempiere
alle prescrizioni della medesima.
4.1 Il Collegio ritiene in definitiva che 5 vitelli, 1
vacca, 2 suini ed alcuni animali di bassa corte integrano
gli estremi di un insediamento civile e non produttivo
proprio in ragione delle limitate quantità di rifiuti
destinati, come concimazione, alla coltivazione del fondo;
illegittimamente l’Amministrazione ha, perciò, sanzionato
un’impresa agricola di natura modesta e familiare che non
può che produrre circostanziate quantità di rifiuti e che,
peraltro, esercita la specifica attività di coltivazione del
fondo ed utilizza totalmente e congruamente i rifiuti
medesimi come concimi nel successivo ciclo di coltivazione
secondo una prassi di concimazione biologica ben antica e
diffusa in un ciclo chiuso che non rileva ai fini della
legge antinquinamento per ovvie e conseguenziali ragioni.
Ipotesi diversa sarebbe, invece, quella del "ruscellamento",
vietato come del resto ogni forma di scorrimento di liquami
sul fondo in modo simile al deflusso di un ruscello con
esclusivo scopo di gettare od eliminare i reflui comunque in
maniera da non consentire un normale assorbimento da parte
del terreno, dando luogo a depositi, acquitrini o pozze di
materiale putrescente e che, dunque, non assolverebbe alla
funzione –provata nella fattispecie in esame- di rendere i
campi prosperi o fecondi (TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 26.02.2013 n. 1133
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URBANISTICA:
Mutamento della destinazione urbanistica.
Non è ravvisabile un’aspettativa
qualificata rispetto al mutamento della destinazione
urbanistica pregressa della medesima area, mutamento
rispetto al quale l’Amministrazione ha ampia discrezionalità
e può modificare la destinazione stessa, anche in senso
peggiorativo rispetto agli interessi del proprietario.
Il Collegio anzitutto rammenta che le scelte di tipo
urbanistico sono connotate da una lata discrezionalità e che
è solo in presenza di aspettative qualificate che
l’amministrazione ha l’obbligo di motivare in modo specifico
la scelta di tipizzare un’area in maniera difforme da quanto
già previsto da uno strumento urbanistico in vigore.
Nella specie, l’ente locale non aveva inciso su una
posizione differenziata, oggetto di un’aspettativa
qualificata per l’impresa interessata o i suoi aventi causa,
in assenza di prova che la stradicciola in questione fossa
stata oggetto di una convenzione stipulata con il Comune di
Monopoli o da quest’ultimo formalmente autorizzata.
Il Collegio è consapevole del prevalente indirizzo
giurisprudenziale, secondo cui l’avvenuto rilascio di un
titolo edilizio, come pure situazioni analoghe, obbligano
alla motivazione specifica della variante perché la
disciplina nuova va a travolgere aspettative legittime,
qualificate da uno speciale atto dell’Amministrazione.
Al contempo, le scelte amministrative nell’adozione di
strumenti urbanistici sono frutto di apprezzamenti di merito
che esulano dal sindacato di legittimità, salvo non siano
inficiate da errori di fatto o da abnormità logiche, sicché
la destinazione data alle singole aree non necessita di
apposita motivazione oltre a quella evincibile dai criteri
generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti
nell’impostazione del piano, e basta a motivare il
riferimento al progetto di modificazione al p.r.g., salvo
che particolari situazioni non abbiano già creato
aspettative o affidamenti per soggetti le cui posizioni
siano meritevoli di specifiche considerazioni.
Nella pratica situazioni che esigono un’approfondita
motivazione degli strumenti urbanistici generali (o loro
varianti) sono generate ad es. dal superamento degli
standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968, in rapporto alle
previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona
di determinate aree; dalla lesione dell’affidamento
qualificato del privato, derivante da convenzioni di
lottizzazione, da accordi intercorsi fra il Comune e i
proprietari delle aree; da aspettative nascenti da giudicati
di annullamento di concessioni edilizie o di
silenzio-rifiuto su un’istanza di concessione, dalla
modificazione in zona agricola della destinazione di un’area
limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 133/2011, cit.; 09.12.2010,
n. 8682; 13.10.2010, n. 7492; 12.05.2010, n. 2843).
Non è ravvisabile però un’aspettativa qualificata rispetto
al mutamento della destinazione urbanistica pregressa della
medesima area, mutamento rispetto al quale l’Amministrazione
ha ampia discrezionalità e può modificare la destinazione
stessa, anche in senso peggiorativo rispetto agli interessi
del proprietario (cfr. Cons. Stato, IV, 29.12.2009, n.
9006).
Il mero rilascio di un titolo edilizio qui non appare,
dunque, idoneo a creare -a tal proposito- una ragione di
particolare motivazione: l’effetto abilitativo di quel
titolo segue, invero, la regola del tempo del suo rilascio
e, dunque, non è inciso da questa sopravvenienza
urbanistica, sicché non vi è uno speciale contrasto da
motivare, salve determinate condizioni, da verificare caso
per caso e che qui non ricorrono; pertanto, nel caso qui al
vaglio, quand’anche la stradicciola fosse stata in passato
regolarmente autorizzata dal punto di vista edilizio, ciò
non avrebbe automaticamente potuto creare alcuna aspettativa
qualificata e differenziata in capo dell’originaria
ricorrente (massima tratta da www.lexambiente.it
- Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 13.02.2013 n. 893
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Ordinanza di rimozione ed obbligo preavviso di
avvio procedimento.
A) “sussiste la violazione dell’art. 7,
l. n. 241 del 1990, per non avere i soggetti privati
interessati potuto partecipare al procedimento d’irrogazione
della sanzione loro inflitta, in assenza del preavviso di
avvio del procedimento, con correlativa impossibilità di
agire in contraddittorio con la P.A. contestante l’omessa
vigilanza sull’accumulo dei rifiuti, l’ordine della cui
rimozione può essere adottato esclusivamente in base agli
accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti
interessati, da chi sia preposto al controllo; rispetto a
tale contraddittorio la comunicazione dell’avvio del
procedimento si configura come un adempimento indispensabile
al fine della sua effettiva instaurazione”;
B) invero, “per il configurarsi di una responsabilità per
dolo o colpa del proprietario o di chi abbia, anche se in
via di mero fatto, la disponibilità della discussa area,
occorre che il suo coinvolgimento a titolo di dolo o colpa
risulti a seguito di un’adeguata istruttoria e con l’ausilio
del privato stesso, da convocarsi in contraddittorio (il
che, nella specie, non è avvenuto) per fornire elementi
utili di valutazione per l’accertamento delle reali
responsabilità, ex art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006 (già
art. 14, d.lgs. 05.02.1997 n. 22)”.
“La norma configura l’ordinanza di rimozione di rifiuti
abbandonati come ingiunzione di sgombero a carattere
sanzionatorio, esigente l’imputazione a carico dei soggetti
obbligati per dolo o colpa nel comportamento tenuto in
violazione dei divieti di legge, esclusa ogni forma di
responsabilità oggettiva per violazione di un generico
dovere di vigilanza”;
C) “l’obbligo di bonifica o di messa in sicurezza non può
essere, invece, addossato al proprietario incolpevole, ove
manchi ogni responsabilità del medesimo. La P.A. non può,
pertanto, imporre ai privati che non abbiano alcuna
responsabilità diretta sull’origine del fenomeno contestato,
ma che vengano individuati solo quali proprietari del bene,
lo svolgimento delle attività di recupero e di risanamento.
L’enunciato è conforme al principio “chi inquina paga”, cui
si ispira la normativa comunitaria (art. 174, ex art. 130/R,
trattato Ce), la quale impone al soggetto che fa correre un
rischio d’inquinamento di sostenere i costi della
prevenzione o della riparazione";
D) “la mancata chiusura del fondo da parte del relativo
proprietario non costituisce comportamento colposo idoneo
per imputargli la responsabilità di un indebito deposito di
rifiuti sul terreno, posto che, per principio generale, la
chiusura del fondo costituisce una mera facoltà del
proprietario e mai un obbligo”;
E) “nei casi d’inquinamento diffuso, ossia in quei casi in
cui non sia possibile o sia oltremodo difficoltoso accertare
la responsabilità dell’autore dell’inquinamento, la bonifica
resta a carico della P.A. e i relativi vantaggi dei privati
proprietari o detentori dei fondi bonificati, in termini di
aumento di valore del fondo, potranno costituire giusta
causa di recupero delle corrispondenti somme, nei limiti
ordinari delle azioni di arricchimento”.
I ricorrenti deducono l’omessa comunicazione di avvio del
procedimento volto all’irrogazione della sanzione
ripristinatoria nonché la violazione del principio del
contraddittorio e il difetto di istruttoria che avrebbero
inficiato l’intera procedura non essendo stato provato alcun
loro coinvolgimento, a titolo di dolo o di colpa,
nell’abbandono indiscriminato dei rifiuti.
Le censure sono fondate.
Dispone, infatti, per la parte d'interesse, l’art. 192 del
d.lgs. n. 152/2006 (già art. 14 del d.lgs. n. 22/1997),
rubricato “Divieto di abbandono”, del quale la parte
ricorrente lamenta la violazione: “3. Fatta salva
l’applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 255 e
256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto
a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo
smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei
luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di
diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali
tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in
base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i
soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il
Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine
necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il
quale procede all’esecuzione in danno dei soggetti obbligati
ed al recupero delle somme anticipate”.
Ora, secondo condiviso orientamento giurisprudenziale:
A)
“sussiste la violazione dell’art. 7, l. n. 241 del 1990,
per non avere i soggetti privati interessati potuto
partecipare al procedimento d’irrogazione della sanzione
loro inflitta, in assenza del preavviso di avvio del
procedimento, con correlativa impossibilità di agire in
contraddittorio con la P.A. contestante l’omessa vigilanza
sull’accumulo dei rifiuti, l’ordine della cui rimozione può
essere adottato esclusivamente in base agli accertamenti
effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati,
da chi sia preposto al controllo; rispetto a tale
contraddittorio la comunicazione dell’avvio del procedimento
si configura come un adempimento indispensabile al fine
della sua effettiva instaurazione” (TAR Emilia Romagna,
Parma, sez. I, 12.07.2011, n. 255);
B)
invero, “per il configurarsi di una responsabilità per
dolo o colpa del proprietario o di chi abbia, anche se in
via di mero fatto, la disponibilità della discussa area,
occorre che il suo coinvolgimento a titolo di dolo o colpa
risulti a seguito di un’adeguata istruttoria e con l’ausilio
del privato stesso, da convocarsi in contraddittorio (il
che, nella specie, non è avvenuto) per fornire elementi
utili di valutazione per l’accertamento delle reali
responsabilità, ex art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006 (già
art. 14, d.lgs. 05.02.1997 n. 22)”.
“La norma configura l’ordinanza di rimozione di rifiuti
abbandonati come ingiunzione di sgombero a carattere
sanzionatorio, esigente l’imputazione a carico dei soggetti
obbligati per dolo o colpa nel comportamento tenuto in
violazione dei divieti di legge, esclusa ogni forma di
responsabilità oggettiva per violazione di un generico
dovere di vigilanza” (TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I,
12.07.2011, n. 255; nello stesso senso, TAR Sardegna,
Cagliari, sez. I, 05.06.2012, n. 560; Consiglio Stato, sez.
V, 25.06.2010, n. 4073);
C)
“l’obbligo di bonifica o di messa in sicurezza non può
essere, invece, addossato al proprietario incolpevole, ove
manchi ogni responsabilità del medesimo. La P.A. non può,
pertanto, imporre ai privati che non abbiano alcuna
responsabilità diretta sull’origine del fenomeno contestato,
ma che vengano individuati solo quali proprietari del bene,
lo svolgimento delle attività di recupero e di risanamento.
L’enunciato è conforme al principio “chi inquina paga”, cui
si ispira la normativa comunitaria (art. 174, ex art. 130/R,
trattato Ce), la quale impone al soggetto che fa correre un
rischio d’inquinamento di sostenere i costi della
prevenzione o della riparazione" (TAR Toscana, Firenze,
sez. II, 03.03.2010, n. 594; TAR Puglia, Lecce, sez. I,
02.11.2011, n. 1901);
D)
“la mancata chiusura del fondo da parte del relativo
proprietario non costituisce comportamento colposo idoneo
per imputargli la responsabilità di un indebito deposito di
rifiuti sul terreno, posto che, per principio generale, la
chiusura del fondo costituisce una mera facoltà del
proprietario e mai un obbligo” (TAR Sardegna, Cagliari,
sez. I, 05.06.2012, n. 560);
E)
“nei casi d’inquinamento diffuso, ossia in quei casi in
cui non sia possibile o sia oltremodo difficoltoso accertare
la responsabilità dell’autore dell’inquinamento, la bonifica
resta a carico della P.A. e i relativi vantaggi dei privati
proprietari o detentori dei fondi bonificati, in termini di
aumento di valore del fondo, potranno costituire giusta
causa di recupero delle corrispondenti somme, nei limiti
ordinari delle azioni di arricchimento” (TAR Friuli
Venezia Giulia, Trieste, sez. I, 17.12.2009, n. 837;
Consiglio di Stato, sez. VI, 18.04.2011, n. 2376) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 13.02.2013 n. 301
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ATTI AMMINISTRATIVI:
PA, si all'azione di adempimento: ma a quali condizioni?
L'azione di condanna pubblicistica (o di adempimento) è
subordinata a precisi limiti imposti dal legislatore, ed in
particolare all'indagine in ordine alla consumazione del
potere discrezionale dell'amministrazione o, comunque, il
carattere vincolato del provvedimento richiesto. In assenza
di presupposti, al ricorrente vittorioso non rimane che
accontentarsi della tutela meramente caducatoria.
Lo ha stabilito il TAR Sardegna, Sez. I, con la
sentenza
13.02.2013 n. 123.
La pronuncia prende le mosse da un ricorso presentato da una
società avverso il diniego espresso dall'amministrazione in
risposta ad una richiesta di regolarizzazione di un accesso
stradale in favore della istante.
Secondo la tesi della ricorrente, infatti, l'Anas, nel
pronunciarsi negativamente sull'istanza rivoltale, non
avrebbe condotto in maniera corretta l'istruttoria, ed
avrebbe altresì disatteso alcune norme poste a presidio
della regolarità del procedimento, concernenti il rispetto
dei termini ed altri istituti partecipativi.
Per questi motivi, la società ha chiesto, anzitutto,
l'annullamento del provvedimento impugnato e di tutti gli
atti susseguenti; si poi sommata la richiesta di condanna
dell'amministrazione all'emanazione del provvedimento di
regolarizzazione anelato (questo il vero epicentro della
pronuncia in esame) unitamente alla pretesa di veder
risarcire il pregiudizio patito a causa dell'irregolarità
della condotta serbata dalla resistente.
Il giudice amministrativo, nell'accogliere in parte qua il
ricorso presentato dalla società, ha annullato il
provvedimento impugnato senza tuttavia assecondare la
richiesta di condanna pubblicistica nei confronti della
convenuta.
La sentenza merita apprezzamento perché si colloca tra i
primi pronunciamenti che si soffermano sulla tanto discussa
“azione di adempimento” che solo di recente ha trovato
definitivo riconoscimento con il secondo correttivo al
codice del processo amministrativo (decreto legislativo
160/2012).
A detta del Tar Sardegna, infatti, non vi sarebbero stati,
nel caso di specie, i presupposti per accordare il rimedio
invocato posto che l'attività dell'amministrazione
conservava un considerevole margine di discrezionalità non
trascurabile.
Nel pervenire a siffatta conclusione, il giudice sardo ha
ripercorso le tappe che hanno interessato l'ormai non più
atipica azione di condanna pubblicistica, senza peraltro
trascurare l'intervento della Adunanza Plenaria in materia
(sentenza n. 3/2011), che seppur postumo al decreto
legislativo 104/2010, già aveva tracciato le coordinate per
il riconoscimento all'interno dell'ordinamento giuridico
italiano dell'azione, diversamente ben nota, già da diverso
tempo, al sistema tedesco.
Segnatamente, nella pronuncia in esame, si è fatto richiamo
al testo vigente dell'articolo 31, comma 3, del codice del
processo amministrativo, ai sensi del quale il giudice “può
pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in
giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o
quando risulta che non residuano ulteriori margini di
esercizio della discrezionalità e non sono necessari
adempimenti istruttori che debbano essere compiuti
dall’amministrazione”.
Come evidente, dalla norma citata si ricavano tre distinti
precetti: con il primo si ammette esplicitamente l'esperibilità
dell'azione di condanna al rilascio del provvedimento, di
talché si ammette rectius si riconosce a livello normativo
che il titolare di un interesse pretensivo possa chiedere
espressamente al giudice amministrativo, oltre che il
tradizionale annullamento, la declaratoria di condanna
dell'amministrazione ad un facere pubblicistico (quale è
appunto l'emanazione del provvedimento anelato); con il
secondo precetto il legislatore circoscrive l'azione di
condanna pubblicistica con un primo limite di carattere
processuale: l'azione in esame, invero, non è esperibile in
forma autonoma, ma solo congiuntamente all'azione di
annullamento ovvero all'azione avverso il silenzio; il terzo
precetto, infine, impone un limite di natura sostanziale,
certamente il più rilevante, atteso il principio da cui trae
fondamento, ossia quella della separazione dei poteri:
richiamando i presupposti previsti all'art. 31 c.p.a. per
l'azione avverso il silenzio, il legislatore ammette la
condanna pubblicistica in danno dell'amministrazione nei
limiti in cui quest'ultima abbia consumato il suo potere
discrezionale –puro o tecnico che sia- o il provvedimento
richiesto abbia natura vincolata.
Ebbene, ricapitolati limiti e condizioni di ammissibilità
dell'azione, il giudice amministrativo ha ritenuto che, nel
caso di specie, non vi fosse alcuna delle condizioni
indicate dalla norma processuale, considerato che
l’eventuale autorizzazione in deroga o la decisione di
rilasciare l’autorizzazione subordinandola alla
realizzazione delle opere necessarie per garantire la
sicurezza della circolazione stradale, presupponevano
altrettanti profili di valutazione discrezionale riservati
alla stessa amministrazione competente, in nessun modo
trascurabili (commento tratto da www.ispoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva e annullamento d'ufficio
di una concessione in sanatoria.
Dato che la lottizzazione, a differenza dall’abuso singolo,
è infatti tale da implicare ex sé un negativo impatto
urbanistico, l'annullamento d'ufficio di una concessione in
sanatoria illegittima non necessita di un'espressa e
specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo
questo nell'interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica.
L’insuscettibilità legale di una lottizzazione materiale
spontanea di essere oggetto della sanatoria è dunque una
delle tipiche ipotesi nelle quali il richiamo all’interesse
pubblico alla tutela della pianificazione ed al ripristino
della legalità, è di per sé sufficiente per rendere
legittimo l'esercizio del potere di autotutela.
In linea generale, tenendo conto dei valori espressi
dall'art. 97 cost., l'esercizio dei poteri amministrativi di
annullamento in autotutela di precedenti statuizioni
illegittime non ha affatto natura eccezionale, in quanto la
p.a. ha il potere - dovere di emanare l'atto di
annullamento, anche al solo fine di evitare che si
consolidino situazioni di fatto illegalmente costituitesi,
qualora siano veri e propri esempi di diseducazione civile
(arg. ex Consiglio Stato sez. V 24.02.1996 n. 232).
Quindi se non sussiste alcun obbligo assoluto per l'Autorità
emanante di procedere in via di autotutela all'annullamento
d'ufficio di un provvedimento da essa adottato, ciò non
toglie che l’esercizio di tale facoltà sia rimessa alla
discrezionale considerazione del merito degli interessi
pubblici in gioco (arg. ex Consiglio Stato Sez. IV
04.03.2011 n. 1414; Consiglio di Stato sez. IV 10.08.2011 n.
4770).
Proprio in relazione all'ampiezza delle valutazioni
discrezionali affidate all'organo è stato osservato che è
legittimo il comportamento dell’Amministrazione che, seppure
tardivamente, emendi la propria precedente condotta,
conformando la propria azione al rispetto concreto della
legge. Ciò perché l'art. 21-nonies L. 07.08.1990 n. 241 non
fissa un termine ultimo oltre il quale l'esercizio
dell'attività di autotutela risulti illegittima, lasciando
all’Amministrazione la valutazione della ragionevolezza in
ordine alla tempistica della vicenda (cfr. Consiglio di
Stato sez. VI 27.02.2012 n. 1081). Ciò a maggior ragione
qualora (come nel caso in esame) il tempo trascorso dalla
prima concessione di sanatoria sia stato utilizzato per
ampliare e consolidare la lottizzazione abusiva.
L’art. 30 del D.P.R. 380/2001 (e in precedenza all’art. 18
L. 47/1985) costruisce la lottizzazione abusiva come un
illecito permanente ed insanabile, al fine manifesto:
- di garantire un’ordinata pianificazione urbanistica,
- di salvaguardare il corretto sviluppo degli insediamenti
abitativi e dei correlativi standard compatibili con la
finanza pubblica e con il vivere civile;
- di assicurare un effettivo controllo da parte del Comune
titolare della funzione di pianificazione al fine di (cfr.
Consiglio di Stato sez. IV 07.06.2012 n. 3381).
Ciò premesso, alla luce di tutti gli atti di causa e della
stessa cartografia versata in atti dal Comune, devono
condividersi pienamente le conclusioni del TAR circa la
sussistenza dei requisiti procedimentali, codificati
nell'art. 21-nonies L. 07.08.1990 n. 241, per l’esercizio
del potere di annullamento dei titoli edilizi in questione
Le concessione in sanatoria appaiono infatti il frutto di
indebite influenze estranee sull’attività amministrativa del
Comune: come emerge dai rapporti della Polizia Municipale la
quale aveva rilevato come il tecnico cui era stata affidata
dal Comune l’istruttoria delle pratiche di sanatoria era lo
stesso che, in precedenza, era stato incaricato della
redazione dei collaudi, delle perizie giurate, degli
accatastamenti ecc…; il quale aveva addirittura firmato
alcune concessioni in sanatoria, quale responsabile dell’U.T.C.
(cfr. pag. 5 rapporto n. 94 del 24.06.2002).
Non vi sono pertanto dubbi sulla nell'insanabile
illegittimità originaria dei titoli in questione per la
sussistenza di una lottizzazione abusiva (dettagliatamente
documentata nelle relazioni della Polizia Municipale del
24.06.2002 e del 6.07.2004).
Gli abusi progressivamente realizzati sui suoli di proprietà
concernevamo infatti: “1) corpo di fabbrica E realizzato
nel 1978 in difformità alla CE con una maggiore superficie
di mq. 109,21;
2) corpi di fabbrica A-B-C-D-F, realizzati tra dicembre 1985
e marzo 1986, per cui sono state rilasciate le impugnate
concessioni in sanatoria rispettivamente: n. 327 del
06.08.1992 per condono edilizio relativo ai capannoni D e F;
n. 1755 per i capannoni A-B-C ;
3) il capannone G realizzato senza concessione appena
ricevuto il parere, peraltro sottoposto a condizione, della
CEC;
4) i capannoni R ed il capannone S, per i quali fu
rilasciata concessione in sanatoria n. 208 del 24.01.2000;
5) i fabbricati e le strutture indicate con le lettere T, H,
I, L, M, N edificati nel 1995.".
In conseguenza della precedente condotta illecita del loro
dante causa, protrattasi lungamente nel tempo, non può
pertanto configurarsi alcuna legittima aspettativa a favore
dei relativi responsabili e dei loro aventi causa.
Le costruzioni abusive -o come qui sanate in virtù di titoli
non conformi alla vigente normativa urbanistico-edilizia-
costituiscono un illecito di tipo permanente a fronte del
quale non vale la buona fede del privato dovendosi ritenersi
che sia "in re ipsa" la sussistenza del pubblico
interesse al ripristino dello stato della legalità violata
(cfr. Consiglio di Stato sez. IV 23.02.2012 n. 1041).
Dato che la lottizzazione, a differenza dall’abuso singolo,
è infatti tale da implicare ex sé un negativo impatto
urbanistico, l'annullamento d'ufficio di una concessione in
sanatoria illegittima non necessita di un'espressa e
specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo
questo nell'interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica (Consiglio di Stato sez. IV
30.07.2012 n. 4300).
Nel caso in esame quindi le motivazioni degli atti di
auto-annullamento dei provvedimenti in sanatoria erano state
fondatamente affidate al rilievo per cui l’intervento
abusivo, complessivamente considerato, costituiva una
fattispecie dichiaratamente qualificata come insanabile
dalla normativa statale ed era stata oggetto di una
specifiche condanne penali.
L'esercizio del potere di autotutela da parte
dell'Amministrazione era dunque assistito da un interesse
pubblico ed attuale direttamente connesso alla necessità
eliminare l’incidenza negativa sulla zona circostante, della
illegittima trasformazione del territorio derivante da una
lottizzazione abusiva composta da ben 15 edificazioni
artigianali, oltre al piazzale pavimentato di oltre 8000 mt.,
ai reti ed ai muri di cinta, alla strada ecc..
L’insuscettibilità legale di una lottizzazione materiale
spontanea di essere oggetto della sanatoria è dunque una
delle tipiche ipotesi nelle quali il richiamo all’ interesse
pubblico alla tutela della pianificazione ed al ripristino
della legalità, è di per sé sufficiente per rendere
legittimo l'esercizio del potere di autotutela (arg. ex
Consiglio Stato sez. VI 30.07.2003 n. 4391);
Anche perché contrariamente a quanto vorrebbero i
ricorrenti, il legislatore dell'art. 21-nonies, L.
07.08.1990 n. 241, non ha ritenuto di dover recepire il
paradigma di creazione giurisprudenziale relativo
all’insufficienza del solo richiamo al ripristino della
legalità violata per l’esercizio del potere di
autoannullamento. Si deve perciò escludere che il principio
che, nelle situazioni ordinarie, pure costituisce
espressione di civiltà giuridica, possa essere applicarsi in
aree caratterizzati da situazioni di generalizzato e diffuso
disprezzo della legalità, e che per tale via possano essere
considerati prevalenti gli “interessi illegittimi”
dei privati, interessati al mantenimento di consistenti
situazioni di vasto abusivismo, rispetto all’interesse
pubblico generale dello Stato e dei suoi cittadini al
corretto sviluppo del territorio.
In definitiva, correttamente la sentenza impugnata ha
concluso per la legittimità della rimozione dei
provvedimenti di sanatoria illegittimamente concessi
(massima tratta da www.lexambiente.it
- Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 12.02.2013 n. 834
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L'obbligo di comunicazione dell'avvio del
procedimento amministrativo ex art. 7, l. 07.08.1990 n. 241
è strumentale alle esigenze di conoscenza effettiva e,
conseguentemente, di partecipazione all'azione
amministrativa da parte del soggetto nella cui sfera
giuridica l'atto conclusivo è destinato ad incidere, in modo
che egli sia in grado di influire sul contenuto del
provvedimento.
Le norme sulla partecipazione del privato al procedimento
amministrativo non vanno applicate meccanicamente e
formalmente. Pertanto quando l'interessato sia venuto a
conoscenza dell'apertura di un procedimento con effetti
lesivi nei suoi confronti, si deve dare prevalenza ai
principi di economicità e speditezza dell'azione
amministrativa. Quello che rileva procedimentalmente è che
la comunicazione di avvio di cui all’art. 7, L. 07.08.1990
n. 241 vi sia stata concretamente effettuata al
destinatario.
L'obbligo di
comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ex
art. 7, l. 07.08.1990 n. 241 è strumentale alle esigenze di
conoscenza effettiva e, conseguentemente, di partecipazione
all'azione amministrativa da parte del soggetto nella cui
sfera giuridica l'atto conclusivo è destinato ad incidere,
in modo che egli sia in grado di influire sul contenuto del
provvedimento.
Come la Sezione ha più volte avuto modi di sottolineare, le
norme sulla partecipazione del privato al procedimento
amministrativo non vanno applicate meccanicamente e
formalmente. Pertanto quando l'interessato sia venuto a
conoscenza dell'apertura di un procedimento con effetti
lesivi nei suoi confronti, si deve dare prevalenza ai
principi di economicità e speditezza dell'azione
amministrativa. Quello che rileva procedimentalmente è che
la comunicazione di avvio di cui all’art. 7, L. 07.08.1990
n. 241 vi sia stata concretamente effettuata al destinatario
(cfr. Consiglio di Stato sez. IV 16.03.2012 n. 1497;
Consiglio di Stato sez. IV 18.04.2012 n. 2286; Consiglio di
Stato sez. IV 17.09.2012 n. 4925, Consiglio di Stato sez. IV
15.12.2011 n. 6618; ecc.)
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.02.2013 n. 834
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URBANISTICA: Illegittimo di un Piano di lottizzazione per
insediamento turistico-rurale con realizzazione di 46
palazzine in area agricola.
E’ illegittimo un Piano di lottizzazione di un insediamento
turistico-rurale (e dei conseguenti permessi di costruire),
che contempla la realizzazione di 46 palazzine di 4 unità
immobiliari ciascuna, per complessivi 44.850 mc. e 448
abitanti potenziali, oltre al ulteriori 5200 mc. relativi ad
un punto di ristoro; il tutto in piena campagna, nell’ambito
di un territorio deputato (almeno sino al rilascio dei
permessi di costruire) alla coltura dell’ulivo.
Ciò che caratterizza la zona “E” non è tanto la immediata,
presente (e futura) destinazione all’uso agricolo, quanto,
in negativo, l’esclusione di destinazione ad utilizzazioni
edificatorie, quali, in particolare, i “nuovi complessi
insediativi”, che trovano la loro localizzazione nell’ambito
della “zona C”, ovvero i “nuovi insediamenti per impianti
industriali o ad essi assimilati”, che trovano la loro
collocazione nell’ambito della”zona F”.
Si intende, affermare che, se è vero che la “zona E” non
caratterizza di per sé aree destinate necessariamente e
direttamente all’uso agricolo, e che essa consente anche
utilizzazioni edificatorie (come peraltro testimonia la
previsione di un sia pur minimo indice di densità
fondiaria), ciò che comunque non può ritenersi possibile in
zona E è la utilizzazione delle aree della stessa in modo
tale da “invadere” quello che è il contenuto tipizzante di
altre destinazione di zona.
Come è noto, ai sensi dell’art. 7 della l.
17.08.1942 n. 1150, il Comune disciplina, con il Piano
regolatore generale, l’assetto urbanistico dell’intero
territorio comunale, in particolare prevedendo “la
divisione in zone del territorio comunale con la
precisazione delle zone destinate all'espansione
dell'aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei
caratteri da osservare in ciascuna zona”.
Le previsioni del Piano, come questo Consiglio di Stato ha
già avuto modo di affermare (da ultimo, sez. IV, 09.07.2011
n. 4134), “servono a conformare l’edificazione futura e
non anche le costruzioni esistenti al momento dell’entrata
in vigore del Piano o di una sua variante” (Cons. Stato,
sez. IV, 18.06.2009 n. 4009), ciò facendo con prescrizioni
tendenzialmente a tempo indeterminato, in quanto
conformative delle destinazioni dei suoli (Cons. Stato, sez.
II, 18.06.2008 n. 982).
L’art. 41-quinquies, comma 8, della l. n. 1150/1942 prevede
che “in tutti i Comuni, ai fini della formazione di nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti,
debbono essere osservati limiti inderogabili di densità
edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché
rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti
residenziali e produttivi e spazi pubblici, o riservati alle
attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”; e
ciò (comma 9) “per zone territoriali omogenee”.
A tali fini, l’art. 2 D.M. 02.04.1968 n. 1444, prevede: “Sono
considerate zone territoriali omogenee, ai sensi e per gli
effetti dell'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765:
A) le parti del territorio interessate da agglomerati urbani
che rivestano carattere storico, artistico o di particolare
pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree
circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per
tali caratteristiche, degli agglomerati stessi;
B) le parti del territorio totalmente o parzialmente
edificate, diverse dalle zone A): si considerano
parzialmente edificate le zone in cui la superficie coperta
degli edifici esistenti non sia inferiore al 12,5% (un
ottavo) della superficie fondiaria della zona e nelle quali
la densità territoriale sia superiore ad 1,5 mc/mq.
C) le parti del territorio destinate a nuovi complessi
insediativi, che risultino inedificate o nelle quali
l'edificazione preesistente non raggiunga i limiti di
superficie e densità di cui alla precedente lettera B);
D) le parti del territorio destinate a nuovi insediamenti
per impianti industriali o ad essi assimilati;
E) le parti del territorio destinate ad usi agricoli,
escluse quelle in cui - fermo restando il carattere agricolo
delle stesse - il frazionamento delle proprietà richieda
insediamenti da considerare come zone C);
F) le parti del territorio destinate ad attrezzature ed
impianti di interesse generale”.
Il successivo art. 7 del D.M:, prevede, in particolare, che
nelle zone E, la massima densità fondiaria prescritta è pari
a mc. 0,03 per mq.
Orbene, con particolare riguardo alla zona E, questo
Consiglio di Stato deve senza dubbio ribadire che essa, pur
individuata dal D.M. n. 1444 cit. come “destinata ad usi
agricoli”, non deve essere immediatamente ed
esclusivamente destinata a tali usi; e ciò in quanto –pur
senza giungere a ritenerla “residuale” rispetto alle
altre– tale zona può essere considerata più in generale come
identificativa di una parte del territorio non destinata ad
edificazioni intense per indici di utilizzazione o
particolari per tipo di destinazione.
Inoltre, essa, comunque, non è tale da escludere forme
limitate di edificazione, che si caratterizzino per la loro
inerenza all’uso agricolo del suolo o che, per il loro
minimo impatto, si presentano non invasive del territorio e
comunque tali da proporsi –quale diretta conseguenza del
forte divario tra superficie coperta e scoperta– come
strumentali al fondo non edificato o “verde”.
Come la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha già
avuto modo di affermare (Cons. Stato, sez. IV, 15.06.2004 n.
4466) “la destinazione a verde agricolo di un'area
stabilita dallo strumento urbanistico generale non implica
necessariamente che l'area soddisfi in modo diretto ed
immediato gli interessi agricoli, potendo giustificarsi con
le esigenze dell'ordinato governo del territorio, quale la
necessità di impedire un'ulteriore edificazione o un
congestionamento delle aree, mantenendo un equilibrato
rapporto tra aree libere ed edificate o industriali (cfr.
fra le recenti IV Sez. 21.06.2001 n. 3341)”.
In tal senso, si è già affermato che la destinazione di aree
a zona E ben può essere utilizzata per esigenze di
salvaguardia del paesaggio e del’ambiente, e ciò anche
derogando alle denominazioni di cui al D.M. n. 1444/1968
(Cons. Stato, sez. IV, 06.07.2009 n. 4308).
Ciò che caratterizza, dunque, la zona “E” non è tanto la
immediata, presente (e futura) destinazione all’uso
agricolo, quanto, in negativo, l’esclusione di destinazione
ad utilizzazioni edificatorie, quali, in particolare, i “nuovi
complessi insediativi”, che trovano la loro
localizzazione nell’ambito della “zona C”, ovvero i “nuovi
insediamenti per impianti industriali o ad essi assimilati”,
che trovano la loro collocazione nell’ambito della”zona F”.
E che la “zona E” si caratterizza quale zona in
assenza di possibilità edificatorie (salvo i minimi
interventi consentiti dall’indice di densità fondiaria), si
evince anche da quanto affermato dalla giurisprudenza in
tema di cd, ”zone bianche”, quelle zone cioè dove le
previsioni vincolistiche degli strumenti di edificazione
primaria siano decadute ex lege per decorso del
tempo, ovvero per annullamento in sede giurisdizionale,
attesa la riconducibilità delle medesime agli indici di
densità fondiaria delle zone E.
Pur in presenza, dunque, di aperture giurisprudenziali, tali
da escludere sia una applicazione rigida della cd. “zonizzazione”,
di cui al D.M. n. 1444/1968, sia la stessa denominazione
delle zone prescritta dal D.M., ciò che resta ferma è, per
un verso, la necessità di disciplinare le destinazioni del
territorio comunale per il tramite della pianificazione; per
altro verso, il “discrimine” della identificazione
delle zone del territorio comunale in relazione alla loro
suscettività ad essere utilizzate o meno per la futura
edificazione.
Si intende, in definitiva, affermare che, se è vero che la “zona
E” non caratterizza di per sé aree destinate
necessariamente e direttamente all’uso agricolo, e che essa
consente anche utilizzazioni edificatorie (come peraltro
testimonia la previsione di un sia pur minimo indice di
densità fondiaria), ciò che comunque non può ritenersi
possibile in zona E è la utilizzazione delle aree della
stessa in modo tale da “invadere” quello che è il
contenuto tipizzante di altre destinazione di zona.
E ciò sia in quanto ogni possibile interpretazione del “contenuto”
della destinazione di zona, come normativamente disposto,
incontra il proprio limite nel contenuto di altra
destinazione di zona; sia in quanto –con specifico riguardo
alle zone E- è la stessa norma che consente, in via di
eccezione e a precise condizioni (quali il frazionamento
della proprietà), di individuare, nell’ambito della più
ampia zona E, “insediamenti ... come zone C”, (in tal
modo completando e delimitando il contenuto precettivo della
norma anche con la previsione della sua eccezione).
Quanto affermato, comporta che, una volta che uno strumento
di pianificazione (piano regolatore o variante al medesimo)
abbia definito la destinazione di aree quali “zona E”,
ogni plausibile interpretazione delle possibilità di
utilizzazione di tali aree incontra un limite sia logico sia
normativo, costituito dalla impossibilità, in dette zone, di
realizzare insediamenti che, per natura, standard e proprie
particolari caratteristiche, siano riconducibili a quelli
che costituiscono il contenuto tipico di altre forme di
zonizzazione
(massima tratta da www.lexambiente.it
- Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 12.02.2013 n. 830
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
L’interesse ad agire, in relazione a
provvedimenti che consentono l’edificazione, non si fonda
solo sul rapporto di vicinanza dell’immobile del ricorrente
(e della persona del ricorrente medesimo) con il luogo in
cui deve essere effettuata l’edificazione.
Tale aspetto, come è stato già condivisibilmente osservato,
inerisce alla legittimazione ad agire che si fonda, oltre
che sul titolo del soggetto, anche sulla relazione
intercorrente tra la cosa oggetto del diritto (o, più in
generale, della posizione giuridica) e il provvedimento che
produce effetti pregiudizievoli per il patrimonio giuridico
del ricorrente.
La sussistenza dell’interesse ad agire, richiede una lesione
effettiva della posizione giuridica del ricorrente, della
quale occorre che vi sia prova in giudizio.
L’interesse ad
agire, in relazione a provvedimenti che consentono
l’edificazione, non si fonda solo sul rapporto di vicinanza
dell’immobile del ricorrente (e della persona del ricorrente
medesimo) con il luogo in cui deve essere effettuata
l’edificazione.
Tale aspetto, come è stato già condivisibilmente osservato
(Cons. Stato, sez. IV, 29.12.2010 n. 9537), inerisce alla
legittimazione ad agire che si fonda, oltre che sul titolo
del soggetto, anche sulla relazione intercorrente tra la
cosa oggetto del diritto (o, più in generale, della
posizione giuridica) e il provvedimento che produce effetti
pregiudizievoli per il patrimonio giuridico del ricorrente.
La sussistenza dell’interesse ad agire, richiede una lesione
effettiva della posizione giuridica del ricorrente, della
quale occorre che vi sia prova in giudizio
(massima tratta da www.lexambiente.it
- Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 12.02.2013 n. 830
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AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Bonifica dei siti di interesse nazionale e
imposizione di misure di messa in sicurezza d'emergenza.
Le norme vigenti in materia non
consentono all’Amministrazione procedente di imporre ai
privati che non abbiano alcuna responsabilità, né diretta,
né indiretta sull'origine del fenomeno contestato, ma che
vengano individuati solo quali proprietari o gestori o
addirittura in ragione della mera collocazione geografica
del bene, l'obbligo di bonifica di rimozione e di
smaltimento dei rifiuti e, in generale, della riduzione al
pristino stato dei luoghi che è posto unicamente in capo al
responsabile dell'inquinamento, che le autorità
amministrative hanno l'onere di ricercare ed individuare.
Ai fini della responsabilità in questione è perciò
necessario che sussista e sia provato, attraverso
l'esperimento di adeguata istruttoria, l'esistenza di un
nesso di causalità fra l'azione o l'omissione e il
superamento -o pericolo concreto ed attuale di superamento-
dei limiti di contaminazione, senza che possa venire in
rilievo una sorta di responsabilità oggettiva facente capo
al proprietario o al possessore dell'immobile meramente in
ragione di tale qualità.
Alla luce delle superiori considerazioni, appare evidente
che, nel sistema sanzionatorio ambientale, il proprietario
del sito inquinato è senza dubbio soggetto diverso dal
responsabile dell'inquinamento. Mentre su quest'ultimo
gravano, oltre altri tipi di responsabilità da illecito,
tutti gli obblighi di intervento, di bonifica e lato sensu
ripristinatori, previsti dal Codice dell'ambiente (in
particolare, dagli artt. 242 ss.), il proprietario
dell'immobile, pur incolpevole, non è immune da ogni
coinvolgimento nella procedura relativa ai siti contaminati
e dalle conseguenze della constatata contaminazione dovendo
egli, infatti, attuare le misure di prevenzione di cui
all'art. 242 nonché potendo sempre attivare volontariamente
gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di
ripristino ambientale.
Più in particolare, ciò significa che il proprietario, ove
non sia responsabile della violazione, non ha l'obbligo di
provvedere direttamente alla bonifica, ma solo l'onere di
farlo se intende evitare le conseguenze derivanti dai
vincoli che gravano sull'area sub specie di onere reale e di
privilegio speciale immobiliare.
----------------
Fermo restando che non sussiste in capo
al proprietario di un'area inquinata non responsabile
dell'inquinamento l'obbligo di porre in essere interventi di
messa in sicurezza d'emergenza, ma solo la facoltà di
eseguirli per mantenere l'area interessata libera dall'onere
reale che incombe sull'area de qua ai sensi dell'art. 253
del d.lgs. n. 152/2006, la Sezione ha già avuto modo di
affermare in proposito che nel caso della bonifica dei siti
di interesse nazionale, l'imposizione di misure di messa in
sicurezza d'emergenza ulteriori rispetto a quelle già
adottate, deve essere adeguatamente motivata con riferimento
all'urgenza, al pericolo per la salute e all'inadeguatezza
delle misure preesistenti, al fine di garantire il rispetto
del principio di trasparenza e del contraddittorio con i
destinatari delle prescrizioni.
Fondato si palesa anche il quinto motivo con i quali
Carbocarrara lamenta la contraddittorietà tra gli esiti
dell’istruttoria e le conclusioni raggiunte dalle Conferenze
di servizi, poi fatte proprie dal Direttore generale per la
qualità della vita del Ministero dell’ambiente con il
decreto qui avversato, in merito alla responsabilità della
medesima nell’aver causato la contaminazione rilevata con
conseguente violazione degli artt. 239 e segg. del d.lgs. n.
152/2006 e dell’art. 17 d.lgs. n. 22/1997, nonché del d.m.
n. 471/1999.
In proposito occorre premettere che la giurisprudenza
assolutamente prevalente è nel senso che le norme appena
citate non consentono all’Amministrazione procedente di
imporre ai privati che non abbiano alcuna responsabilità, né
diretta, né indiretta sull'origine del fenomeno contestato,
ma che vengano individuati solo quali proprietari o gestori
o addirittura in ragione della mera collocazione geografica
del bene, l'obbligo di bonifica di rimozione e di
smaltimento dei rifiuti e, in generale, della riduzione al
pristino stato dei luoghi che è posto unicamente in capo al
responsabile dell'inquinamento, che le autorità
amministrative hanno l'onere di ricercare ed individuare. Ai
fini della responsabilità in questione è perciò necessario
che sussista e sia provato, attraverso l'esperimento di
adeguata istruttoria, l'esistenza di un nesso di causalità
fra l'azione o l'omissione e il superamento -o pericolo
concreto ed attuale di superamento- dei limiti di
contaminazione, senza che possa venire in rilievo una sorta
di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o
al possessore dell'immobile meramente in ragione di tale
qualità (cfr. Cons. Stato sez. VI 18.04.2011, n. 2376; id.,
Sez. V, 19.03.2009, n. 1612; TAR Campania, Napoli, sez. V,
01.03.2012, n. 1073; TAR Toscana, sez. II, 03.03.2010, n.
594; id. 01.04.2011, n. 565).
Alla luce delle superiori considerazioni, appare evidente
che, nel sistema sanzionatorio ambientale, il proprietario
del sito inquinato è senza dubbio soggetto diverso dal
responsabile dell'inquinamento. Mentre su quest'ultimo
gravano, oltre altri tipi di responsabilità da illecito,
tutti gli obblighi di intervento, di bonifica e lato
sensu ripristinatori, previsti dal Codice dell'ambiente
(in particolare, dagli artt. 242 ss.), il proprietario
dell'immobile, pur incolpevole, non è immune da ogni
coinvolgimento nella procedura relativa ai siti contaminati
e dalle conseguenze della constatata contaminazione dovendo
egli, infatti, attuare le misure di prevenzione di cui
all'art. 242 nonché potendo sempre attivare volontariamente
gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di
ripristino ambientale.
Più in particolare, ciò significa che il proprietario, ove
non sia responsabile della violazione, non ha l'obbligo di
provvedere direttamente alla bonifica, ma solo l'onere di
farlo se intende evitare le conseguenze derivanti dai
vincoli che gravano sull'area sub specie di onere reale e di
privilegio speciale immobiliare (ex multis, Cons.
Stato sez. V, 05.09.2005, n. 4525)
---------------
L’art. 240, co. 1,
lett. i), definisce le misure di prevenzione come “le
iniziative per contrastare un evento, un atto o un'omissione
che ha creato una minaccia imminente per la salute o per
l'ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile
che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o
ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o
minimizzare il realizzarsi di tale minaccia” e ciò
quando venga accertato il superamento delle “concentrazioni
soglia di rischio (CSR)” che la lettera c) dello stesso
comma indica come “i livelli di contaminazione delle
matrici ambientali, da determinare caso per caso con
l'applicazione della procedura di analisi di rischio sito
specifica secondo i principi illustrati nell'Allegato 1 alla
parte quarta del presente decreto e sulla base dei risultati
del piano di caratterizzazione, il cui superamento richiede
la messa in sicurezza e la bonifica.”.
Analoghi presupposti sono individuati nell'art. 2, d.m.
25.10.1999 n. 471 secondo cui la misura straordinaria della
messa in sicurezza d’emergenza, è quella relativa ad «ogni
intervento necessario ed urgente per rimuovere le fonti
inquinanti, contenere la diffusione degli inquinanti e
impedire il contatto con le fonti inquinanti presenti nel
sito, in attesa degli interventi di bonifica e ripristino
ambientale o degli interventi di messa in sicurezza
permanente».
Fermo restando che non sussiste in capo al proprietario di
un'area inquinata non responsabile dell'inquinamento
l'obbligo di porre in essere interventi di messa in
sicurezza d'emergenza, ma solo la facoltà di eseguirli per
mantenere l'area interessata libera dall'onere reale che
incombe sull'area de qua ai sensi dell'art. 253 del d.lgs.
n. 152/2006, la Sezione ha già avuto modo di affermare in
proposito che nel caso della bonifica dei siti di interesse
nazionale, l'imposizione di misure di messa in sicurezza
d'emergenza ulteriori rispetto a quelle già adottate, deve
essere adeguatamente motivata con riferimento all'urgenza,
al pericolo per la salute e all'inadeguatezza delle misure
preesistenti, al fine di garantire il rispetto del principio
di trasparenza e del contraddittorio con i destinatari delle
prescrizioni (TAR Toscana, sez. II, 22.12.2010, n. 6798; id.
26.07.2010, n. 3140)
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 07.02.2013 n. 216
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EDILIZIA
PRIVATA: Ambiente in genere. Illegittimità autorizzazione impianto
produzione di calcestruzzo in ampliamento di un impianto di
recupero rifiuti inerti senza preventiva VIA.
E’ illegittima l’approvazione del progetto ed autorizzazione
alla realizzazione di un impianto per la produzione di
calcestruzzo con materiali inerti e rifiuti non pericolosi
in ampliamento di un impianto di recupero rifiuti inerti
senza preventiva VIA.
Quand’anche il progetto per la
produzione di calcestruzzo dovesse essere qualificato come
ampliamento di quello esistente di frantumazione, si
dovrebbe comunque definire il medesimo come comportante una
variante sostanziale al progetto originario in quanto tale
assoggettabile alla medesima disciplina applicabile ai nuovi
impianti ai sensi dell’art. 208, comma 19, del Dlgs. n. 152
del 2006, per il quale le procedure di autorizzazione di
nuovi impianti si applicano anche per la realizzazione di
varianti sostanziali a seguito delle quali gli impianti non
sono più conformi all'autorizzazione rilasciata.
L’art. 16, comma 2, della legge regionale n. 11 del 2010, ha
previsto che nelle more dell’approvazione del piano
regionale di gestione dei rifiuti speciali, “non possono
essere rilasciati provvedimenti di approvazione dei progetti
di impianti di smaltimento o recupero di rifiuti speciali,
pericolosi e non pericolosi, né concesse autorizzazioni
all’esercizio di nuovi impianti di smaltimento o recupero di
rifiuti speciali, pericolosi e non pericolosi, in assenza di
una deliberazione del consiglio provinciale competente per
il territorio, previo parere dell’Osservatorio rifiuti
dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente del
Veneto, che accerti l’indispensabilità degli impianti stessi
ai fini dello smaltimento o recupero, in ragione
dell’osservanza del principio di prossimità tra luogo di
produzione e luogo di smaltimento prescritto dall’articolo
11, commi 1 e 2, della legge regionale 21.01.2000, n. 3 e
dall’articolo 199, comma 3, lettera d), del decreto
legislativo 03.04.2006, n. 152”.
Nel caso in esame la Provincia di Verona si è rivolta
all’Osservatorio rifiuti dell’Arpav e questo con parere n.
01377407211 del 16.11.2010, ha affermato che il progetto
presentato non è soggetto alle limitazioni dettate dalla
predetta norma, in quanto va qualificato come mero
ampliamento di impianti esistenti in termini di
potenzialità, superficie o modifiche gestionali, e quindi
come rientrante nelle esenzioni previste dalla deliberazione
della Giunta regionale n. 1210 del 23.03.2010, recante
disposizioni attuative della legge regionale.
La Provincia di Verona, la Società controinteressata e l’Arpav
nelle proprie difese sostengono la tesi enunciata in tale
parere, affermando che nel caso di specie l’impianto per la
produzione di calcestruzzo deve considerarsi ampliamento
dell’impianto di frantumazione, e che questo deve
considerarsi già esistente in quanto già autorizzato, ai
fini della non applicabilità dei vincoli previsti dall’art.
16 della legge regionale n. 11 del 2010, come previsto dalla
sopra menzionata deliberazione della Giunta regionale.
Questa tesi non può essere condivisa perché si basa su di
una non corretta interpretazione delle norme.
Dalla cronistoria delle procedure autorizzative intercorse
emerge che:
- la dante causa dell’odierna controinteressata Ecoblu Srl,
la ditta Cava Mirabei Srl, è stata autorizzata con
determinazione n. 270/04 del 16.01.2004 alla realizzazione
di un impianto per l’attività di recupero di materiali
inerti e rifiuti tramite frantumazione, non realizzato, e la
cui scadenza del termine di realizzazione è stata più volte
prorogata, da ultimo fino al 26.06.2011, dal provvedimento
impugnato;
- il progetto originario che ha dato luogo alla
determinazione n. 270/04 del 16.01.2004 prevedeva,
unitamente alla realizzazione dell’impianto di
frantumazione, anche la realizzazione di un impianto di
betonaggio per la produzione di calcestruzzo e di una
tettoia per ricovero mezzi, ma la parte di progetto relativa
a tale impianto non è stata approvata in quanto ritenuta
afferente ad un insediamento produttivo non attinente al
recupero dei rifiuti, e pertanto di competenza del Comune e
non della Provincia (nel progetto era previsto l’utilizzo di
rifiuti provenienti da scavi e demolizioni; cocciame da
estrazioni e lavorazioni di pietre naturali per
l’ottenimento di inerti a granulometria stabilizzata
utilizzabili per la realizzazione di sottofondi di capannoni
e la costruzione di opere stradali, come risulta dal parere
n. 113 di cui al verbale n. 18 del 13.10.2003 della
commissione tecnica provinciale per l’ambiente della
Provincia di Verona allegato al doc. 17 del ricorso);
- successivamente, in data 11.05.2004, la ditta ha
presentato domanda di approvazione di un diverso progetto
per un impianto per la produzione di calcestruzzo con
materiali inerti e rifiuti provenienti da centrali
termoelettriche ed altri rifiuti compatibili;
- l’istanza per ottenere l’autorizzazione di tale progetto è
stata respinta con determinazione prot. n. 65504 del 25
giugno 2008 del dirigente del settore ecologia della
Provincia di Verona, facendo riferimento a ragioni di tutela
paesaggistica;
- il Tar Veneto, Sez. II, con sentenza 14.11.2008, n. 3567,
ha annullato il diniego di autorizzazione accogliendo la
censura di difetto di motivazione;
- in esecuzione di tale sentenza, il dirigente del settore
ambiente della Provincia di Verona con nota prot. n. 24271
del 05.03.2009, ha inviato una comunicazione di avvio del
procedimento per il riesame del progetto, e successivamente
ha sospeso i termini per la conclusione del procedimento, in
quanto vi era la necessità di verificare l’assoggettabilità
del progetto alla valutazione di impatto ambientale;
- in data 30.11.2009, la ditta ha presentato domanda di
verifica di assoggettabilità del progetto a valutazione di
impatto ambientale;
- il dirigente del settore ambiente della Provincia di
Verona con determinazione n. 2355/10 del 4 maggio 2010, ha
escluso dalla procedura di valutazione di impatto ambientale
il progetto denominato “impianto di recupero di materiali
inerti tramite frantumazione, mediante l’inserimento di un
impianto per la produzione di calcestruzzo con materiali e
rifiuti inerti”;
- tale provvedimento reca tuttavia la prescrizione che,
prima dell’approvazione del progetto, deve essere presentato
uno studio con la valutazione degli effetti cumulativi con
le altre attività di gestione dei rifiuti presenti sulle
aree limitrofe;
- il 19.10.2010 la Provincia di Verona ha chiesto
all’Osservatorio rifiuti dell’Arpav il parere prescritto
dall’art. 16 della legge regionale n. 11 del 2010;
- l’Arpav ha affermato che il progetto non soggiace alle
limitazioni previste dall’art. 16 delle legge regionale n.
11 del 2010, e pertanto può essere autorizzato senza
l’acquisizione del parere del consiglio provinciale circa
l’indispensabilità dello stesso ai fini dello smaltimento o
recupero dei rifiuti, in ragione dell’osservanza del
principio di prossimità tra luogo di produzione e luogo di
smaltimento.
Da quanto esposto risulta quindi che il progetto ricade tra
quelli assoggettati alla disciplina dell’art. 16 della legge
regionale n. 11 del 2010, perché si tratta di un progetto
relativo ad un nuovo impianto.
In fatto emerge che in passato non è stata mai approvata
l’autorizzazione di un impianto per la produzione del
calcestruzzo con materiali inerti e rifiuti (la produzione
del calcestruzzo mediante l’utilizzo di rifiuti rende
ininfluente, ai fini della definizione della controversia,
la preesistenza di un impianto di betonaggio molto
risalente), in quanto la richiesta di approvazione del
progetto relativo ad un impianto di questo tipo presentata
nel 2003, era stata respinta, e che l’impianto di recupero
di inerti mediante frantumazione autorizzato con la
determinazione n. 270/04 del 16 gennaio 2004, che si
pretenderebbe oggetto di ampliamento, non è stato ancora
realizzato, in quanto il termine di scadenza
dell’autorizzazione è stato ripetutamente prorogato.
Ne discende, contrariamente a quanto afferma l’Arpav nel
proprio parere, la non applicabilità al progetto relativo
all’impianto per la produzione di calcestruzzo con inerti e
rifiuti, della disciplina sulle esenzioni previste dalla
deliberazione della Giunta regionale n. 1210 del 23.03.2010,
recante disposizioni attuative dell’art. 16 della legge
regionale n. 11 del 2010.
Questa infatti, che ha valenza interpretativa della legge
regionale, precisa le casistiche che non devono ritenersi
soggette all’applicazione dell’art. 16 della legge regionale
n. 11 del 2010, e tra queste menziona le domande relative
alla “realizzazione di interventi di ampliamento di
impianti esistenti autorizzati allo smaltimento o recupero
di rifiuti speciali, pericolosi e non, in termini di
potenzialità, superficie o modifiche gestionali”.
Nel caso in esame il progetto per la produzione di
calcestruzzo con materiali inerti e rifiuti non può essere
definito come mero ampliamento in termini di potenzialità,
superficie o modifiche gestionali del progetto di
realizzazione di un impianto di recupero di inerti mediante
frantumazione, in primo luogo perché non può parlarsi di
ampliamento tra impianti tra loro diversi, strutturalmente e
funzionalmente autonomi, che sono solo collegati tra loro,
in secondo luogo perché l’impianto di frantumazione,
quand’anche fosse da qualificare, secondo la prospettazione
delle parti resistenti e della controinteressata, come
ampliato dall’impianto di produzione del calcestruzzo, non
potrebbe neppure essere definito come già “esistente”,
atteso che, benché autorizzato, non è stato ancora
realizzato e l’espressione impianti “esistenti ed
autorizzati” utilizzata dalla citata deliberazione della
Giunta regionale non costituisce un’endiadi.
Infatti laddove il legislatore ha definito cosa debba
intendersi per “impianto esistente”, ha inteso fare
riferimento non solo all’impianto che abbia ottenuto tutte
le autorizzazioni necessarie, ma che sia anche entrato in
funzione (in tali termini l’art. 5, comma 1, lett.
i-quinquies del Dlgs. n. 152 del 2006 dispone che si
definisce impianto esistente “un impianto che, al
10.11.1999, aveva ottenuto tutte le autorizzazioni
ambientali necessarie all'esercizio, o il provvedimento
positivo di compatibilità ambientale, o per il quale a tale
data erano state presentate richieste complete per tutte le
autorizzazioni ambientali necessarie per il suo esercizio, a
condizione che esso sia entrato in funzione entro il
10.11.2000”).
Una tale conclusione è coerente, sotto un profilo
sistematico, con la logica sottesa alla norma regionale,
posto che l’art. 16 della legge regionale n. 11 del 2010, si
prefigge di non compromettere il raggiungimento degli
obiettivi della pianificazione, nelle more del
perfezionamento dell’iter di approvazione del piano
regionale di gestione dei rifiuti speciali.
Solo per completezza va anche soggiunto che, quand’anche il
progetto per la produzione di calcestruzzo dovesse essere
qualificato come ampliamento di quello di frantumazione, si
dovrebbe comunque definire il medesimo come comportante una
variante sostanziale al progetto originario in quanto tale
assoggettabile alla medesima disciplina applicabile ai nuovi
impianti ai sensi dell’art. 208, comma 19, del Dlgs. n. 152
del 2006, per il quale le procedure di autorizzazione di
nuovi impianti si applicano anche per la realizzazione di
varianti sostanziali a seguito delle quali gli impianti non
sono più conformi all'autorizzazione rilasciata.
Da quanto premesso, discende che il progetto ricade tra
quelli assoggettati alla disciplina dell’art. 16 della legge
regionale n. 11 del 2010, e che non può quindi essere
autorizzato senza una deliberazione del consiglio
provinciale competente per territorio che, previo parere
dell’Osservatorio rifiuti dell’Agenzia regionale per la
protezione dell’ambiente del Veneto, accerti
l’indispensabilità degli impianti stessi ai fini dello
smaltimento o recupero, in ragione dell’osservanza del
principio di prossimità tra luogo di produzione e luogo di
smaltimento (massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR
Veneto, Sez. III,
sentenza 05.02.2013 n. 137
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Attività di parziale demolizione dell’edificio
abusivo.
L’attività di parziale demolizione
dell’edificio, eseguita nel rispetto dell’ingiunzione
emanata dall’ausiliario del Giudice dell’ottemperanza,
nonché quella successiva e conseguente di ricostruzione
delle pareti, non rendono l’edificio il prodotto di una
nuova attività edificatoria, ma costituiscono riduzione in
pristino delle parti, considerate abusive, realizzate in
violazione delle distanze, di un edificio già completato
seppur in forza di un titolo annullato.
L’attività di parziale demolizione dell’edificio, eseguita
nel rispetto dell’ingiunzione emanata dall’ausiliario del
Giudice dell’ottemperanza, nonché quella successiva e
conseguente di ricostruzione delle pareti, non rendono
l’edificio il prodotto di una nuova attività edificatoria,
ma costituiscono riduzione in pristino delle parti,
considerate abusive, realizzate in violazione delle
distanze, di un edificio già completato seppur in forza di
un titolo annullato (massima tratta da www.lexambiente.it
- Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 04.02.2013 n. 659
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Obblighi per lottizzazione edilizia già attuata.
In relazione alle lottizzazioni e
sopravvenute modifiche degli strumenti urbanistici generali,
la giurisprudenza di questo consesso ha stabilito che la
scadenza d'una convenzione di lottizzazione edilizia già
attuata non fa venir meno gli obblighi da essa scaturenti,
con riguardo al mantenimento anche per il futuro della
sistemazione edilizia prevista per l'area lottizzata.
Il giudice di appello, espressamente soffermandosi sulla
questione centrale della causa (ossia la questione
riproposta, ma in senso contrario, con il rimedio
straordinario della revocazione) ha affermato il principio
di diritto secondo cui, a differenza delle norme di piano
regolatore generale, che hanno carattere programmatorio,
quelle dei piani di lottizzazione, una volta questi
eseguiti, acquistano un carattere di stabilità e, rilevano
strutturalmente a tempo tendenzialmente indeterminato,
proprio al fine di regolare, in via definitiva e con
efficacia erga omnes, l’assetto urbanistico ed
edilizio della porzione di territorio interessata
dall’intervento considerato.
Difatti, proprio in relazione alle lottizzazioni e
sopravvenute modifiche degli strumenti urbanistici generali,
la giurisprudenza di questo consesso ha stabilito che la
scadenza d'una convenzione di lottizzazione edilizia già
attuata non fa venir meno gli obblighi da essa scaturenti,
con riguardo al mantenimento anche per il futuro della
sistemazione edilizia prevista per l'area lottizzata (così
tra tante, Consiglio Stato sez. V, 20.03.2000, n. 1509)
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.02.2013 n. 650
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA: Monetizzazione degli standard urbanistici.
La monetizzazione degli standard urbanistici non può essere
considerata alla stregua di una vicenda di carattere
unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei
rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà
l’opera, e ciò perché, da un lato, così facendo si legittima
la paradossale situazione di separare i commoda (sotto forma
di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il
peggioramento della qualità di vita degli appellanti) e
dall’altro, si nega tutela giuridica agli interessi
concretamente lesi degli abitanti dell’area.
La Sezione si è già espressa in sede cautelare
sull’ammissibilità delle doglianze in tema di procedura di
monetizzazione degli standard, con una linea argomentativa
cui non ritiene di fare torto. Nell’ordinanza cautelare n.
144 del 17.01.2012, la Sezione: “- considerato che può
ritenersi sussistente la legittimazione delle parti
appellanti a sindacare i meccanismi di determinazione degli
standard urbanistici relativi all’intervento da realizzare,
atteso che la loro monetizzazione, a fronte di un immediato
vantaggio economico in favore del Comune, comporta la
sottrazione di utilità ai residenti ed influisce quindi
sulla fruibilità dell’area in questione;
- considerato che non appaiono evidenti le ragioni per cui
il Comune, nella ponderazione tra gli opposti interessi
tesi, da un lato, al mantenimento nell’area degli standard
e, dall’altro, alla loro monetizzazione per poi successiva
dislocazione in zona diversa, ha optato per la soluzione più
lesiva delle parti appellanti;” ha accolto l’istanza
cautelare degli attuali appellanti.
Le linee portanti della citata argomentazione vanno
ribadite, anche in questa sede, in tema di scrutinio
pregiudiziale sull’ammissibilità di tali doglianze. Infatti,
non ci si può esimere dall’osservare come i criteri per la
determinazione dei soggetti parti del processo
amministrativo si fondino su elementi di carattere
sostanziale in funzione di una subita lesione di un
interesse giuridico qualificato ad opera dell’azione
amministrativa. In quest’ambito, le classificazioni degli
interessi lesi, e le parallele categorie descrittive in uso
nella giurisprudenza (quali quella della vicinitas,
sicuramente preponderante in ambito edilizio e molto evocata
dalla parti appellate), lungi dal rappresentare un elemento
di chiusura dei fatti di legittimazione, ne rappresentano
una utile esemplificazione che non esclude, ma anzi fonda,
la possibile espansione della tutela processuale in favore
di altri soggetti i quali, in concreto, riescano a
giustificare l’esistenza di una loro posizione differenziata
e lesa (ed in giurisprudenza, si trovano esempi di una
considerazione complessa del concetto di vicinitas,
inteso come giudizio in cui si tiene conto della natura e
delle dimensioni dell'opera realizzata, della sua
destinazione, delle sue implicazioni urbanistiche ed anche
delle conseguenze prodotte dal nuovo insediamento sulla
qualità della vita di coloro che per residenza, attività
lavorativa e simili, sono in durevole rapporto con la zona
in cui sorge la nuova opera, Consiglio di Stato, sez. IV,
29.11.2012 n. 6081; id., 31.05.2007, n. 2849).
Proprio sulla scorta di tale valutazione in concreto, la
Sezione non ha condiviso l’assunto del TAR (che aveva visto
il tema della monetizzazione come una vicenda patrimoniale
tra Comune e titolare del permesso di costruire) e ha al
contrario ritenuto che la modificazione peggiorativa della
qualità urbana ben possa fondare un interesse diretto al
sindacato sulle scelte urbanistiche del Comune, applicando i
criteri, e non gli schemi preconcetti, valevoli in generale
per ogni provvedimento amministrativo nel campo specifico in
esame. A un esame più attento, la monetizzazione degli
standard urbanistici non può essere considerata alla stregua
di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e
rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e
il privato che realizzerà l’opera, e ciò perché, da un lato,
così facendo si legittima la paradossale situazione di
separare i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per
il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità
di vita degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela
giuridica agli interessi concretamente lesi degli abitanti
dell’area (massima tratta da www.lexambiente.it
- Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 04.02.2013 n. 644
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: I
generali princìpi di conservazione dell’atto e di
strumentalità delle forme inducano a generalizzare la
portata dell’istituto dell’illegittimità non invalidante di
cui all’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241 del 1990 e ciò
anche per evitare che la prevalenza di considerazioni
procedimentali porti l’amministrazione alla scelta
(antieconomica e contrastante con il principio di
efficienza) di dover riavviare un procedimento i cui esiti
siano ab initio scontati.
Ed invero, la disposizione ora richiamata, introducendo
nell’ordinamento la categoria dei vizi c.d. non invalidanti,
non determina la degradazione del vizio di legittimità in
mera irregolarità, né costituisce una fattispecie esimente,
ma prevede semplicemente un’ipotesi di non annullabilità
dell’atto a causa di valutazioni attinenti al suo contenuto,
effettuate ex post dal giudice e concernenti il fatto che
risulta accertato inequivocabilmente che il ricorrente non
potrebbe ricevere alcuna utilità dall’accoglimento del
ricorso.
Sul punto appare ampiamente condivisibile il più recente
orientamento giurisprudenziale, cristallizzato nella recente
sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.02.2012 n.
1081, laddove si afferma, tra l’altro, che “…i generali
princìpi di conservazione dell’atto e di strumentalità delle
forme inducano a generalizzare la portata dell’istituto
dell’illegittimità non invalidante di cui all’art.
21-octies, comma 2, l. n. 241 del 1990" (in tal senso
vedi: Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2795; V, 19.06.2009,
n. 4031; 14.04.2008, n. 1588), "e ciò anche per evitare
che la prevalenza di considerazioni procedimentali porti
l’amministrazione alla scelta (antieconomica e contrastante
con il principio di efficienza) di dover riavviare un
procedimento i cui esiti siano ab initio scontati”.
Ed invero, la disposizione ora richiamata, introducendo
nell’ordinamento la categoria dei vizi c.d. non invalidanti,
non determina la degradazione del vizio di legittimità in
mera irregolarità, né costituisce una fattispecie esimente,
ma prevede semplicemente un’ipotesi di non annullabilità
dell’atto a causa di valutazioni attinenti al suo contenuto,
effettuate ex post dal giudice e concernenti il fatto
che risulta accertato inequivocabilmente che il ricorrente
non potrebbe ricevere alcuna utilità dall’accoglimento del
ricorso
(TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 30.01.2013 n. 75 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'adeguamento
degli oneri di urbanizzazione non comporta che i Comuni
possono ritenersi autorizzati ad applicare gli stessi
retroattivamente alle concessioni edilizie già rilasciate ed
assoggettate agli oneri a quel tempo vigenti, fatti salvi i
casi di espresse riserve al riguardo.
Le delibere comunali che dispongono l'adeguamento degli
oneri di urbanizzazione, cioè, possono trovare applicazione
esclusivamente per le concessioni rilasciate a far tempo
dalla loro adozione, e non anche per quelle rilasciate in
epoca anteriore.
In applicazione di siffatto principio l'aggiornamento degli
oneri di urbanizzazione disposto con atto successivo e con
effetto retroattivo sarebbe legittimo solo nelle fattispecie
nelle quali nella concessione edilizia fosse stata inserita
una espressa clausola "salvo conguaglio".
La ricorrente si
duole anche del fatto che la modifica delle tabelle
parametriche sia stata applicata anche in relazione a
concessioni edilizie rilasciate prima della sua
approvazione, con violazione del principio della
irretroattività degli effetti degli atti amministrativi.
In realtà, come giustamente rileva la difesa
dell’amministrazione, la giurisprudenza amministrativa ha
più volte affermato che l'adeguamento degli oneri di
urbanizzazione non comporta che i Comuni possono ritenersi
autorizzati ad applicare gli stessi retroattivamente alle
concessioni edilizie già rilasciate ed assoggettate agli
oneri a quel tempo vigenti, fatti salvi i casi di espresse
riserve al riguardo (cfr: C.G.A., sez. giurisdizionale, n.
186 del 21.03.2007).
Le delibere comunali che dispongono l'adeguamento degli
oneri di urbanizzazione, cioè, possono trovare applicazione
esclusivamente per le concessioni rilasciate a far tempo
dalla loro adozione, e non anche per quelle rilasciate in
epoca anteriore (TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 17.11.2009
n. 1798).
In applicazione di siffatto principio –al quale il Collegio
ritiene di dovere aderire- l'aggiornamento degli oneri di
urbanizzazione disposto con atto successivo e con effetto
retroattivo sarebbe legittimo solo nelle fattispecie nelle
quali nella concessione edilizia fosse stata inserita una
espressa clausola "salvo conguaglio"
(TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 30.01.2013 n. 75 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Qualificazione opere interne di completamento
funzionale.
Non possono qualificarsi come opere
interne di completamento funzionale quelle che si traducono
nella creazione di un quid novi rispetto alla consistenza
strutturale e funzionale del manufatto già realizzato, volto
alla suddivisione strutturale e funzionale di una singola
unità immobiliare per ricavarne nuovi vani da affittare a
terzi, con conseguente aumento del precedente carico
urbanistico.
L’appellata sentenza si fonda, altresì, su una corretta
applicazione della disciplina legislativa
urbanistico-edilizia vigente all’epoca di realizzazione
delle opere e di adozione dell’ordinanza repressiva, a
ragione escludendo che le opere in questione possano
qualificarsi alla stregua di opere interne sottratte al
regime concessorio/autorizzatorio.
Invero, l’art. 26 l. n. 47 del 1985, nel sottoporre gli
interventi edilizi minori, costituite dalle “(…) opere
interne alle costruzioni che non siano in contrasto con gli
strumenti urbanistici adottati o approvati e con i
regolamenti edilizi vigenti, non comportino modifiche della
sagoma, della costruzione, dei prospetti né aumento delle
superfici utili e del numero delle unità immobiliari, non
modifichino la destinazione d’uso delle costruzioni e delle
singole unità immobiliari, e non rechino pregiudizio alla
statica dell'immobile (…)” (v., così, testualmente, il
citato articolo di legge), al regime della relazione tecnica
di asseverazione da presentare al Comune contestualmente
all’inizio dei lavori, ne ha escluso espressamente gli
interventi che, tra l’altro, comportino un aumento del
numero delle unità immobiliari.
È, poi, sopravvenuto l’art. 4 l. 24.12.1993, n. 493 (come
sostituito dall’art. 2, comma 60, l. 23.12.1996, n. 662)
che, senza modifica espressa del citato art. 26, ha reso
realizzabili con la denuncia d’inizio attività le “(…)
opere interne di singole unità immobiliari che non
comportino modifiche alla sagoma e dei prospetti e non
rechino pregiudizio alla statica dell’immobile (…)”.
Quanto al rapporto tra le due norme, deve condividersi la
ricostruzione operata dal Tar, secondo cui l’art. 2, comma
60, l. n. 662 del 1996 si è limitato ad attrarre l’attività
edilizia libera di cui all’art. 26 l. n. 47 del 1985 alla
sfera applicativa della dichiarazione d’inizio attività, ma
non ne ha implicitamente ampliato i contenuti tipologici a
discapito della sfera applicativa della concessione
edilizia, dovendosi, in particolare, escludere che fossero
rimasti sottratti al regime concessorio gli interventi di
ristrutturazione comportanti il frazionamento di una singola
unità immobiliare in una pluralità di distinte unità.
Infatti, a siffatti tipi di opere è correlato un aumento del
carico urbanistico, tant’è che –come puntualmente osservato
nell’appellata sentenza– il legislatore, successivamente, ha
ribadito l’assoggettamento al permesso di costruire degli
interventi di ristrutturazione edilizia che comportino un
aumento delle unità immobiliari (art. 10, comma 1, lett. c),
d.P.R. n. 380 del 2001) contestualmente prevedendo, in via
espressa, per tali opere il regime abilitativo alternativo
della c.d. super d.i.a., gravata dall’obbligo di pagamento
del contributo di costruzione proprio del permesso di
costruire (art. 22, comma 3, lett. a), d.P.R. n. 380 del
2001).
Sul piano dell’interpretazione letterale dell’art. 4 l. n.
493 del 1993 (come sostituito dall’art. 2, comma 60, l. n.
662 del 1996), il riferimento alle “singole unità
immobiliari”, nel cui ambito sono consentite “opere
interne” assentibili mediante d.i.a., contrariamente a
quanto sostenuto dall’odierna appellante, suffraga
ulteriormente la sopra condivisa ricostruzione del quadro
normativo applicabile ratione temporis alla
fattispecie sub iudice, risultandovi invero stabilito
il limite morfologico-strutturale costituito dalla
circoscrizione dell’intervento all’interno della singola
unità immobiliare, ontologicamente superato in caso di
interventi tesi a ricavarne nuove unità immobiliari.
Non possono, infatti, qualificarsi come opere interne di
completamento funzionale quelle che si traducono nella
creazione di un quid novi rispetto alla consistenza
strutturale e funzionale del manufatto già realizzato, quale
quello in esame, volto alla suddivisione strutturale e
funzionale di una singola unità immobiliare per ricavarne
nuovi vani da affittare a terzi, con conseguente aumento del
precedente carico urbanistico (v. sul punto, in fattispecie
analoga, C.d.S., Sez. V, 05.03.2001, n. 1244).
Per le esposte ragioni, s’impone la conferma dell’appellata
sentenza, affermativa della legittimità dell’impugnata
ordinanza repressivo-ripristinatoria delle opere contestate,
costituite dalla suddivisione strutturale e funzionale di
una singola unità immobiliare in una pluralità di distinti
locali commerciali (massima tratta da www.lexambiente.it
- Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 29.01.2013 n. 545
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Beni culturali. Parere negativo della competente
Soprintendenza in merito alla realizzazione di ascensore in
un palazzo semivincolato
Il quadro normativo di riferimento, in materia di soggetti
portatori di minorazioni fisiche -in particolare,
costituito dalle leggi 09.01.1989 n. 13 e 05.02.1992 n. 104, ha sicuramente elevato il livello di tutela di
tali soggetti, non più relegato ad un ristretto ambito
soggettivo ed individuale, ma ormai considerato come
interesse primario dell'intera collettività, da soddisfare
con interventi mirati a rimuovere situazioni preclusive
dello sviluppo della persona e dello svolgimento di una
normale vita di relazione: donde le previsioni per il
superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche
negli edifici privati, dettate in via generale dalla legge
n. 13 del 1989 e nelle relative n.t.a. di cui al d.m.
14.06.1989 n. 236, fissanti criteri da osservarsi sia in
sede di progettazione e costruzione di nuovi edifici sia di
ristrutturazione generale di quelli esistenti, onde
garantire idonee condizioni di accesso e di fruizione da
parte dei soggetti handicappati, anche nei casi d'immobile
dichiarato di particolare interesse ex legge n. 1089/1939.
In tali ipotesi, tuttavia, l’art. 4, commi 4 e 5, legge n.
13/1989, fa salvi i casi di serio pregiudizio del bene
tutelato”, fermo restando che “il diniego deve essere
motivato con la specificazione della natura e della serietà
del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al
complesso in cui l'opera si colloca e con riferimento a
tutte le alternative eventualmente prospettate
dall'interessato”.
Il quadro normativo di riferimento, in materia di soggetti
portatori di minorazioni fisiche -in particolare, costituito
dalle leggi 09.01.1989 n. 13 e 05.02.1992 n. 104- ha
sicuramente elevato il livello di tutela di tali soggetti,
non più relegato ad un ristretto ambito soggettivo ed
individuale, ma ormai considerato come interesse primario
dell'intera collettività, da soddisfare con interventi
mirati a rimuovere situazioni preclusive dello sviluppo
della persona e dello svolgimento di una normale vita di
relazione: donde le previsioni per il superamento e
l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici
privati -dettate in via generale dalla legge n. 13 del 1989
e nelle relative n.t.a. di cui al d.m. 14.06.1989 n. 236-
fissanti criteri da osservarsi sia in sede di progettazione
e costruzione di nuovi edifici sia di ristrutturazione
generale di quelli esistenti, onde garantire idonee
condizioni di accesso e di fruizione da parte dei soggetti
handicappati, anche nei casi d'immobile dichiarato di
particolare interesse ex legge n. 1089/1939.
In tali ipotesi, tuttavia, l’art. 4, commi 4 e 5, legge n.
13/1989, fa salvi i casi di serio pregiudizio del bene
tutelato”, fermo restando che “il diniego deve essere
motivato con la specificazione della natura e della serietà
del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al
complesso in cui l'opera si colloca e con riferimento a
tutte le alternative eventualmente prospettate
dall'interessato” (massima tratta da www.lexambiente.it
- Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 29.01.2013 n. 543
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Beni Culturali. Duplice funzione della dichiarazione di
notevole interesse pubblico ex d.lgs 42/2004.
Alla luce delle modificazioni apportate
al Codice dei beni culturali e del paesaggio d.lgs.
22.01.2004 n. 42, dal d.lgs. n. 63 del 2008, emerge che la
dichiarazione di notevole interesse pubblico ha assunto una
funzione duplice poiché, accanto a quella risalente di
qualificazione e di conformazione giuridica del bene, ha
oggi anche quella di predeterminare gli usi e le
trasformazioni consentite, come disposto dall’articolo 140,
comma 2, in cui è previsto che con la dichiarazione venga
anche dettata “la specifica disciplina” d’uso dei beni, così
come è previsto nell’articolo 138, comma 1, ultimo periodo,
che la proposta di dichiarazione debba contenere “proposte
per le prescrizioni d’uso” dei beni stessi; ciò al fine
prioritario della “conservazione dei valori espressi”, ma
non per questo con effetto preclusivo della ponderata
valutazione di possibili e regolate trasformazioni, ferma la
prevalenza delle ragioni della tutela del paesaggio.
I)
La “…tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni
culturali…” è affidata in primo luogo alla competenza
esclusiva dello Stato, mentre è attribuita alla legislazione
concorrente (art. 117, comma 3, Cost.) la “valorizzazione
dei beni ambientali”.
L’art. 117, Cost., in realtà, non menziona direttamente tra
le materie nominate “il paesaggio”, per cui la
predetta disposizione deve essere coordinata con l’art. 9,
Cost. che, con una delle disposizioni fondamentali, assegna
la “tutela del paesaggio alla Repubblica, e quindi,
quando siano in gioco interessi nazionali, allo Stato: il
paesaggio non dev’essere limitato al significato di bellezza
naturale ma va inteso come complesso dei valori inerenti al
territorio” (cfr. Corte cost., sent. 07.11.1994 n. 379),
mentre il termine “paesaggio” indica essenzialmente
l’ambiente complessivamente considerato come bene “primario”
ed “assoluto” (arg. ex Corte cost., sentt. 05.05.2006
nn. 182 e 183), necessitante di una tutela unitaria e
supportata pure da competenze regionali, nell’ambito degli
standard stabiliti dallo Stato (arg. ex Corte cost., sent.
22.07.2004 n. 259) in quanto, mediante l’imposizione dei
vincoli paesistici, si garantisce la tutela del paesaggio ed
anche dell’ambiente (cfr. Cons. Stato, sezione VI, sent.
22.03.2005 n. 1186).
In effetti, sul territorio gravano più interessi pubblici
(non contrastanti, proprio per effetto della previsione
della pianificazione paesistica, ma destinati a trovare un
equo contemperamento), quali quelli concernenti:
- la conservazione ambientale e paesaggistica, la cui cura,
secondo le recenti modificazioni al codice, è stata di nuovo
riservata in via esclusiva allo Stato;
- il governo, l’uso e la valorizzazione dei beni ambientali,
intesi essenzialmente come fruizione e sfruttamento del
territorio medesimo, affidati alla competenza concorrente
dello Stato e delle regioni, fatta salva l’autonoma potestà
tuttora riconosciuta a queste ultime d’individuare, con lo
specifico procedimento previsto dall’art. 138 comma 1, “beni
paesaggistici” ovvero aree aventi le caratteristiche di
notevole interesse pubblico (cfr. Corte cost., sent.
30.05.2008 n. 180).
Di regola, dunque, la ripartizione delle competenze in
materia di paesaggio è stabilita dall’art. 132 del codice
(sostituito dall'articolo 2, comma 1, lettera b), del d.lgs.
n. 63/2008), in conformità ai princìpi costituzionali e con
riguardo all'applicazione della Convenzione europea sul
paesaggio: l’oggetto della tutela del paesaggio non è il
concetto astratto di "bellezze naturali", ma
l'insieme delle cose, beni materiali o loro composizioni che
presentano “valore paesistico”; pertanto, la tutela
ambientale e paesaggistica, gravando su un bene complesso ed
unitario, dev’essere considerata un valore primario ed
assoluto, che precede e comunque costituisce un limite alla
tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla
competenza concorrente delle regioni, in materia di governo
del territorio e di valorizzazione dei beni culturali e
ambientali.
II)
Il codice, all’art. 131, d.lgs. n. 41/2004, e s.m.i.,
prevede in linea generale che: “1. Per paesaggio si
intende il territorio espressivo di identità, il cui
carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e
dalle loro interrelazioni.
2. Il presente codice tutela il paesaggio relativamente a
quegli aspetti e caratteri che costituiscono
rappresentazione materiale e visibile dell'identità
nazionale, in quanto espressione di valori culturali.
3. Salva la potestà esclusiva dello Stato di tutela del
paesaggio quale limite all'esercizio delle attribuzioni
delle regioni (e delle province autonome di Trento e di
Bolzano: cfr. Corte cost., sent. 29.07.2009 n. 226) sul
territorio, le norme del presente codice definiscono i
princìpi e la disciplina di tutela dei beni paesaggistici.”
Si tratta, in sintesi, di una “riappropriazione” di
potere rispetto all’originaria impronta del codice, che
lasciava ampio spazio alle regioni sia nell’autonoma
individuazione dei “beni paesaggistici” sia nella
gestione di quella parte del paesaggio da recuperare o
sviluppare attraverso i piani paesistici estesi a tutto il
territorio regionale.
Il potere esclusivo d’intervento dello Stato è specificato
proprio nell’articolo 138, comma 3 (nel testo introdotto
dall'articolo 2, comma 1, lettera h), d.lgs. 26.03.2008, n.
63) del codice, per cui “È fatto salvo il potere del
Ministero, su proposta motivata del soprintendente, previo
parere della regione interessata, che deve essere
motivatamente espresso entro e non oltre trenta giorni dalla
richiesta, di dichiarare il notevole interesse pubblico
degli immobili e delle aree di cui all'articolo 136.”.
Non si tratta né di una potestà concorrente né sussidiaria
né suppletiva, ma di uno speciale ed autonomo potere dovere
d’intervento, caratterizzato da un procedimento in parte
differenziato da quello previsto nei primi due commi, che
l’ordinamento giuridico ha istituito, attivabile nei casi in
cui, in base a valutazioni anche di discrezionalità tecnica,
possa essere concretamente a rischio l’interesse
costituzionalmente affidato allo Stato: il tutto, in
aggiunta al potere sostitutivo in materia di pianificazione
paesaggistica disciplinato dagli artt. 156, comma 3, e 143,
comma 2, così ribadendosi la coesistenza di un duplice e
distinto potere attribuito all’amministrazione centrale, uno
in via diretta ed in base ai princìpi costituzionali e
l’altro funzionale alla valorizzazione del paesaggio in via
sostitutiva (norma di “chiusura” del sistema), per
porre una garanzia di tutela effettiva del paesaggio come
valore costituzionale.
Come ricordato anche dalla relazione allo schema di decreto
legislativo, con la novella (previo parere della conferenza
unificata Stato-regioni) è stato riconosciuto e disciplinato
“… il potere dello Stato di proporre vincoli
paesaggistici, indipendentemente dal concomitante esercizio
della medesima attività da parte delle regioni, in
conformità, peraltro, a quanto già da tempo stabilito in
materia dalla Corte costituzionale con la sentenza
14-24.07.1998 n. 334 …”, per cui il potere è
legittimamente esercitato quando la tutela del bene
paesistico prevalga, per scelta del costituente, sulla
realizzazione di altri interessi economici.
Ove, nell’ambito del distinto procedimento di pianificazione
paesistica e nell’esercizio dei poteri che in tali ipotesi
ed in tali fasi la legge attribuisce al Ministero (intese,
osservazioni), sorga una divergenza di valutazioni sulla
conservazione di oggettivi valori ìnsiti in specifiche aree,
la preminenza del valore “paesaggio” implica che
debba esser “…fatto salvo il potere del Ministero …”
(così la norma) di cui all’art. 138, comma 3, codice,
d’imporre, previo parere della regione, autonomi vincoli, se
necessario, in rapporto al possibile pregiudizio dei valori
paesaggistici del territorio; donde il riconoscimento del
notevole interesse pubblico di una porzione dell’ “agro
romano”, con un legittimo esercizio dello speciale
potere d’intervento, in aggiunta alle ordinarie competenze
di tutela e valorizzazione che la legge riconosce alla
regione.
Per questo l'ampia estensione delle aree vincolate appare
assolutamente irrilevante, in quanto una volta riconosciuta
l’esistenza dei presupposti per sottoporre a tutela una
parte significativa della campagna romana, proprio in quanto
avente le caratteristiche del richiamo “identitario”,
il vincolo sull'“agro romano” non avrebbe potuto che
corrispondere alle dimensioni del territorio con consimili
caratteristiche, nell’area tra la Laurentina e l’Ardeatina
(malgrado la presenza di zone degradate), senza alcuna
violazione del principio di leale collaborazione (con
richiamo all’accordo del 1999), in quanto il limite di
garanzia del bene, ritenuto idoneo e sufficiente dalla
regione in sede di pianificazione e soprattutto di
modificazione dei p.t.p. vigenti, con la condivisione delle
scelte edificatorie del comune, non era stato ritenuto
sufficiente a garantire il ragionevole mantenimento dei
valori intrinseci del bene dal titolare dell’autonomo e
prevalente potere di tutela.
...
VII)
La dichiarazione di notevole interesse pubblico riguardante
un’area “vasta” (qualificazione già contemplata nella
legge n. 1497 del 1939) non costituisce perciò di per sé
espressione di una funzione di pianificazione; il
provvedimento, infatti, adottato nell’esercizio di un
diverso ed autonomo potere, non attiene a tale funzione né
la acquisisce per il mero fatto dell’integrazione nel piano,
unico atto cui la funzione è invece attribuita anche allo
scopo, ulteriore rispetto alle determinazioni singole, di
coordinare in un quadro complessivo l’interazione tra i
vincoli di diverso tipo gravanti sul territorio qualificato
come paesaggio.
Né rileva, a sostegno dell’asserita valenza pianificatoria
della dichiarazione ministeriale di notevole interesse
pubblico, che con questa siano definite prescrizioni d’uso,
altresì, definite nell’appello come improprie, poiché in
funzione non della conservazione ma della valorizzazione
degli immobili e delle aree di riferimento, ciò che sarebbe
in contrasto con la vigente formulazione degli articoli 138
e 140 del codice, dal cui testo, ai sensi del d.lgs. n. 63
del 2008, la funzione della valorizzazione era stata
espunta, restando perciò connessa la dichiarazione di
notevole interesse pubblico alla sola finalità della
conservazione.
Non può condividersi il presupposto di tale tesi, per cui la
funzione di tutela, cui è propria la conservazione dei beni,
comporterebbe la sola salvaguardia statica degli stessi con
il divieto assoluto e pregiudiziale di ogni possibile
trasformazione compatibile con il limite dei valori
tutelati, considerato che nelle “disposizioni generali”
del codice, comprensive dei beni paesaggistici nella nozione
di “patrimonio culturale” (art. 2), è previsto che la tutela
si esplichi anche con “provvedimenti vòlti a conformare e
regolare diritti e comportamenti inerenti al patrimonio
culturale” (art. 3, comma 2), diretti quindi a garantire
la conservazione dei beni anche attraverso il loro uso
regolato.
In questo quadro, proprio alla luce delle modificazioni
apportate al codice dal d.lgs. n. 63 del 2008, emerge che la
dichiarazione di notevole interesse pubblico ha assunto una
funzione duplice poiché, accanto a quella risalente di
qualificazione e di conformazione giuridica del bene, ha
oggi anche quella di predeterminare gli usi e le
trasformazioni consentite, come disposto dall’articolo 140,
comma 2, in cui è previsto che con la dichiarazione venga
anche dettata “la specifica disciplina” d’uso dei
beni, così come è previsto nell’articolo 138, comma 1,
ultimo periodo, che la proposta di dichiarazione debba
contenere “proposte per le prescrizioni d’uso” dei
beni stessi; ciò al fine prioritario della “conservazione
dei valori espressi”, ma non per questo con effetto
preclusivo della ponderata valutazione di possibili e
regolate trasformazioni, ferma la prevalenza delle ragioni
della tutela del paesaggio.
...
XI)
La giurisprudenza costituzionale, sulla base dell’art. 9,
Cost. ha qualificato il paesaggio come valore “primario e
assoluto”, con la conseguente affermazione della
prevalenza dell’impronta unitaria della tutela paesaggistica
sulle determinazioni urbanistiche, pur nella necessaria
considerazione della compresenza d’interessi pubblici
intestati alle due funzioni (Corte cost., sentt. n. 367 del
2007, n. 180 e n. 437 del 2008 e n. 309 del 2011), come a
sua volta sancito dall’art. 145 del codice, per il cui comma
3 le previsioni dei piani paesaggistici, nei quali
s’integrano i provvedimenti ministeriali di cui si tratta, “non
sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti
nazionali o regionali di sviluppo economico, sono cogenti
per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città
metropolitane e delle province, sono immediatamente
prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente
contenute negli strumenti urbanistici…”.
L’iniziativa economica privata, altresì costituzionalmente
tutelata, non può essere immotivatamente compressa ma, in
quanto attuata nel contesto e per mezzo della strumentazione
urbanistica, va correlata al rapporto di questa con i
sovraordinati valori della tutela del paesaggio, fermo
restando che anche la pianificazione paesaggistica -tenuto
conto dei livelli di tutela da prevedere- può non risultare
orientata al solo effetto dell’inibizione assoluta di ogni
edificabilità, poiché il piano presuppone ed analizza “lo
sviluppo sostenibile delle aree interessate” e la
presenza di “dinamiche di trasformazione del territorio”,
con prescrizioni e previsioni atte “alla individuazione
delle linee di sviluppo urbanistico ed edilizio”, purché
compatibili “con i diversi valori paesaggistici
riconosciuti e tutelati” (art. 143, comma 1, lettere h)
ed f); art. 135, comma 1, lett. d)
(massima tratta da www.lexambiente.it
- Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 29.01.2013 n. 534
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Legittimità diniego di concessione in sanatoria
pur immobile in regola con la normativa igienico-sanitaria.
La licenza di pubblico intrattenimento presuppone un
giudizio che investe i profili igienico-sanitari e di
agibilità dei locali, e non anche le valutazioni di tipo
urbanistico e ambientale-paesaggistico sottese ad un’istanza
di concessione edilizia in sanatoria, a cui non è estraneo
un giudizio di carattere estetico.
In altri termini, è
perfettamente possibile che un immobile, pur in regola con
la normativa igienico-sanitaria in ragione della quale ne è
autorizzabile l’adibizione a sala di pubblico
intrattenimento, risulti al tempo stesso di “infima qualità”
sotto il profilo del suo impatto col contesto urbanistico e
paesaggistico in cui s’inserisce.
Ed invero, con riguardo alla licenza di pubblico spettacolo,
risulta anzitutto fondata l’eccezione di inammissibilità ai
sensi dell’art. 104, comma 2, cod. proc. amm., in quanto
tale atto, pur richiamato in numerosi atti del giudizio a
quo, non risulta essere stato versato negli atti di causa,
essendo prodotto solo in occasione del presente giudizio di
revocazione.
Anche in disparte ciò, l’omessa considerazione del documento
risulta del tutto irrilevante ai fini delle valutazioni
giudiziali sui dinieghi di sanatoria e di autorizzazione
paesaggistica: infatti, è evidente che la licenza di
pubblico intrattenimento presuppone un giudizio che investe
i profili igienico-sanitari e di agibilità dei locali, e non
anche le valutazioni di tipo urbanistico e
ambientale-paesaggistico sottese ad un’istanza di
concessione edilizia in sanatoria, a cui non è estraneo un
giudizio di carattere estetico.
In altri termini, è perfettamente possibile che un immobile,
pur in regola con la normativa igienico-sanitaria in ragione
della quale ne è autorizzabile l’adibizione a sala di
pubblico intrattenimento, risulti al tempo stesso di “infima
qualità” sotto il profilo del suo impatto col contesto
urbanistico e paesaggistico in cui s’inserisce (massima tratta da www.lexambiente.it
- Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 25.01.2013 n. 486
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Necessità VIA per insediamento turistico-residenziale con procedura semplificata ex DPR
n. 447/1998 in area agricola con ulivi secolari.
E’ legittima la richiesta della valutazione di compatibilità
ambientale (VIA) per insediamento turistico-residenziale con
richiesta di procedura semplificata ex DPR n. 447/1998, visto
che il progetto comporta variazione alle destinazioni del PRG e l’area interessata ad ospitare l’insediamento
produttivo ricade in parte in zona agricola contrassegnata
dalla presenza di una moltitudine di ulivi secolari se non
millenari che tipizza i luoghi nella loro specificità sì da
farne un “unicum” di bellezza e di patrimonio naturale,
rendendo necessariamente del tutto non compatibile con un
tale assetto ambientale del territorio un intervento
edilizio che comporta tra l’altro, proprio in riferimento
alla superficie ulivetata l’espianto e successivo reimpianto
in altro loco di numerose piante di ulivo, con chiaro
pericolo di alterazione dello stato dei luoghi.
L’istituto della VIA è finalizzato alla tutela preventiva
dell’ambiente inteso nella sua più ampia accezione, con
riferimento alle sue varie componenti : il paesaggio, le
risorse naturali, le condizioni di vivibilità degli
abitanti, gli aspetti culturali, alla luce del valore
primario ed assoluto riconosciuto dalla Costituzione al
paesaggio e all’ambiente.
Con riferimento al primo aspetto parte appellante lamenta il
fatto che l’Amministrazione regionale avrebbe
immotivatamente sconfessato l’istruttoria concordata tra
proponente e Regione stessa, tenuto in non cale, in sede di
istruttoria della pratica, gli apporti documentali della
Società Pettolecchia nonché obliterato in pratica la regola
del contraddittorio che pure avrebbe dovuto informare la
valutazione dello studio di impatto ambientale (S.I.A.),
inoltrato dall’appellante.
Orbene, la lettura della parte narrativa del parere di cui
alla determina dirigenziale n. 87/2005 consente agevolmente
di rilevare che la Regione nell’istruire la richiesta di
compatibilità ambientale ha sufficientemente interloquito
con Pettolecchia, dato altresì contezza delle integrazioni
documentali fatte pervenire dalla predetta Società e preso
altresì atto di procedere ad una definizione concordata dei
contenuti del S.I.A ai sensi dell’art. 9 della legge
regionale n. 11/2001.
Da come si è svolto l’iter procedurale, non è dato evincere
insomma che la determinazione di carattere negativo sia
stata assunta, per così dire, “ex abrupto”, mentre
risulta documentato che è stata assicurata alla richiedente
ampia possibilità di contraddittorio e di partecipazione.
E’ altresì evidente che naturalmente sia pure in un rapporto
di interlocuzione e contraddittorio rimane integro il potere
della P.A. in subiecta materia di non essere
obbligata a seguire il soggetto proponente nelle valutazione
e risultanze da questo indicate: un tanto ci introduce nel
campo più strettamente di “merito“ della procedura in
parola,avuto riguardo cioè a quei profili sostanzialistici
(infondatamente ritenuti violati dall’appellante) della
quaestio iuris che impongono qui di richiamare sia pure
in termini di estrema sintesi i principi che governano la
procedura della V.I.A. onde rilevarne natura giuridica del
procedimento e ratio applicativa.
L’istituto in parola è finalizzato alla tutela preventiva
dell’ambiente inteso nella sua più ampia accezione, con
riferimento alle sue varie componenti: il paesaggio, le
risorse naturali, le condizioni di vivibilità degli
abitanti, gli aspetti culturali e al riguardo il Collegio
ritiene di condividere pienamente quanto affermato dalla
giurisprudenza costituzionale ed amministrativa in ordine
alla natura sostanzialmente insindacabile delle scelte
effettuate, giustificandola alla luce del valore primario ed
assoluto riconosciuto dalla Costituzione al paesaggio e
all’ambiente (in tali sensi, Cons. Stato, Sez. V, 12.06.2009
n. 3770; Corte Costituzionale 07.11.2007 n. 367).
Inoltre, è stato altresì sottolineato che l’ambiente rileva
non solo come paesaggio ma anche come assetto del territorio
comprensivo degli aspetti naturalistici, e, in particolare,
di quelli relativi alla protezione oltreché della fauna
anche delle specie vegetazionali (Cons. Stato, Sez. IV,
05.07.2010 n. 4246).
Insomma, nella disciplina della V.I.A. è insita la valenza
del principio fondamentale per cui detta procedura è
preordinata alla salvaguardia dell’habitat nel quale l’uomo
vive e ciò non può non assurgere a valore primario ed
assoluto in quanto espressivo della personalità umana (Cons.
Stato, Sez. VI, 18.03.2008 n. 1109),
E’ stato parimenti affermato che nel rendere il giudizio di
impatto ambientale l’amministrazione esercita una amplissima
discrezionalità tecnica censurabile solo per macroscopici
vizi logici, per errori di fatto o per travisamento dei
presupposti (Cons. Stato, Sez. VI, 19.02.2008 n. 561; idem,
30.01.2004 n. 316), vizi nella specie non rinvenibili
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 24.01.2013 n. 468 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Illegittimità variante al PRG che riduce
distanza dagli allevamenti di tipo intensivo.
E’ Illegittima la Variante Generale al PRG, che introduce la
localizzazione di nuove zone omogenee residenziali ad una
distanza inferiore a quella prevista dalla vigente fascia di
rispetto dagli allevamenti di tipo intensivo presenti sul
territorio e la previsione di “attività da trasferirsi o da
dismettersi”.
Anche se le scelte urbanistiche in ordine alla
zonizzazione del territorio sono rimesse al potere di tipo
squisitamente discrezionale dell’Amministrazione comunale,
la verifica e la scelta della destinazione edificatoria,
pure riservate al potere discrezionale, devono raccordarsi
con la più generale disciplina urbanistica e rivelarsi
altresì satisfattive dell’interesse pubblico al corretto ed
armonico utilizzo del territorio , nel contemperamento delle
varie esigenze della popolazione che su tale ambito insiste
ed opera.
Il Collegio ritiene qui di richiamare, in primo luogo, i
condivisibili orientamenti interpretativi più volte
affermati in subjecta materia da questa stessa
Sezione, così riassumibili:
a) le scelte urbanistiche in ordine alla zonizzazione del
territorio sono rimesse al potere di tipo squisitamente
discrezionale dell’Amministrazione comunale ( Cons. Stato
Sez. IV 07.06.2012 n. 3365);
b) la verifica e la scelta della destinazione edificatoria,
pure riservate al potere discrezionale, devono raccordarsi
con la più generale disciplina urbanistica e rivelarsi
altresì satisfattive dell’interesse pubblico al corretto ed
armonico utilizzo del territorio, nel contemperamento delle
varie esigenze della popolazione che su tale ambito insiste
ed opera (Cons. Stato Sez. IV 25.09.2012 n. 5088) .
E’ poi opinione consolidata del giudice amministrativo che
le scelte espresse nello strumento urbanistico generale,
siccome caratterizzate da ampia discrezionalità, non
necessitano di altra motivazione, al di là del richiamo ai
criteri tecnico-urbanistici seguiti nell’impostazione del
piano e rinvenibili nella relazione d’accompagnamento al PRG
( Cons. Stato Sez. IV 09.10.2010 n. 8628; idem 18.01.2011 n.
352; 08.06.2011 n. 3497 ).
Quest’ultima regola è pur sempre temperata dal principio per
cui la discrezionalità delle scelte urbanistiche relative
alla classificazione delle aree deve essere supportata da
una motivazione sufficiente, logica e ragionevole, proprio
per evitare che la discrezionalità possa trasmodare
nell’arbitrio (Cons. Stato Sez. IV 06.07.2009) (tratto da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 24.01.2013 n. 431 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Legittimità diniego di concessione edilizia per
edificio rurale e vincolo di inedificabilità.
La circostanza che il vincolo non sia stato trascritto e che
non sia stato istituito il registro fondiario con i dati
catastali dei terreni vincolati, non può essere utilmente
allegata, in termini d’ignoranza della situazione
giuridico-fattuale, dall’interessata, che ha partecipato ad
un rogito notarile dal quale risultava con chiarezza
l’unicità dell’originario compendio immobiliare e la
preesistenza dell’edificio, a nulla rilevando l’assunto che
esso fosse più o meno abitabile, e che è stato oggetto di
successiva ristrutturazione in base a titolo edilizio che
l’interessata non ha impugnato, pur non potendo né dovendo
ignorare che la conservazione del manufatto, ancorché
ristrutturato, assumeva valenza ostativa, per l’effetto
d’asservimento dell’intera superficie fondiaria, ivi
compreso il suolo da essa acquistato, al medesimo edificio,
all’edificazione sul proprio suolo.
Orbene, la semplice lettura della suddetta determinazione
dirigenziale consente di rilevare che il diniego del
rilascio del permesso di costruire si fonda su una rinnovata
valutazione che non soltanto richiama i rilievi già svolti
nel diniego originario (l’essere il suolo della Viviani
parte del più vasto compendio immobiliare originario sul
quale insisteva, sui mappali n. 359, 360, 361 del foglio 2,
preesistente fabbricato che esprimeva l’intera volumetria
assentibile in relazione alla superficie del compendio, col
conseguente asservimento della medesima all’edificio e il
connesso vincolo di non edificabilità di cui all’art. 8
della legge regionale 05.03.1985, n. 24), sebbene anche
sulla considerazione dell’art. 95, comma 2, del Regolamento
edilizio comunale (che ricomprende nella superficie
fondiaria asservita ai fabbricati esistenti alla data di
entrata in vigore del P.R.G. approvato con deliberazione
della Giunta Regionale n. 4864 del 21.09.1982 tutte le aree
scoperte di proprietà della stessa ditta contigua e quella
su cui insiste il fabbricato), nonché sulla considerazione
dei principi espressi appunto dalla sentenza della V Sezione
n. 749 del 10.02.2000 (che sulla scorta di precedenti
pronunce ha ribadito che “…un’area edificabile, già
interamente considerata in occasione del rilascio di una
concessione edilizia, agli effetti della volumetria
realizzabile, non può essere più tenuta in considerazione
come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio
di una seconda concessione nella perdurante esistenza del
primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende
inerenti alla proprietà dei terreni…(ossia che)… quando la
volumetria edificabile per la intera area originaria sia
stata utilizzata, a nulla vale perciò il suo successivo
frazionamento”).
In altri termini l’Amministrazione comunale ha emanato nuovo
diniego, non meramente confermativo di quello espresso con
la determinazione dirigenziale n. 27428 del 21.12.2009
(impugnato col ricorso in primo grado n. 656/2000, respinto
con la sentenza n. 1863 del 25.06.2008) e di quello
successivo n. 32343 del 12.12.2001 (impugnato col ricorso in
primo grado n. 491/2001, dichiarato inammissibile con la
sentenza n. 1864 del 25.06.2008 in quanto considerato invece
atto di mera conferma del precedente).
Ne consegue che dall’eventuale accoglimento degli appelli
l’interessata non potrebbe conseguire alcuna utilità, poiché
rimarrebbe comunque fermo il nuovo diniego che non risulta
essere stato impugnato.
Ad abundantiam, deve osservarsi che, ancorché con
motivazione assai più che sintetica, il giudice
amministrativo veneto, nelle due sentenze impugnate ha dato
conto, rispettivamente, della legittimità dell’originario
diniego e della natura meramente confermativa, con
conseguente inammissibilità dell’impugnazione, della
successiva nota dirigenziale.
La sig.ra Anna Viviani è intervenuta alla stipula di un
unico rogito notarile (n. 66086 di repertorio, n. 7776 di
raccolta) in data 24.07.1995, nel quale i proprietari
originari dell’unico compendio immobiliare signori Angelo
Menegotti e Silvana Righetti hanno proceduto al
frazionamento e alla contestuale vendita del compendio in
vari “lotti”, uno dei quali, corrispondente ai
mappali n. 359, 360 e 361 del foglio 2) all’Impresa De Carli
Aleandro di De Carli Gabriella S.a.s., sul quale insisteva,
appunto, un fabbricato con terreno circostante, avendo
l’interessata acquistato il terreno agricolo corrispondente
al mappale n. 362 di foglio 2, e i signori Paolo Pietropaolo,
Giovanni Scaramellini e Gianluigi Bottura, pro quota, un
capannone con porzione di fabbricato rurale e area di
pertinenza, corrispondente ai mappali 355, 356, 357, 358,
363, 364, 365. 366 e 367 di foglio 2.
Con specifico riferimento ai fabbricati rurali, poi, le
parti venditrici hanno dichiarato e attestato che le
relative opere di costruzione “…sono state iniziate in
epoca anteriore al 01.09.1967”.
Orbene, l’art. 8, comma 2, della legge regionale 05.03.1985,
n. 24 dispone, in modo testuale, che: “Le abitazioni
esistenti in zona agricola alla data di entrata in vigore
della presente legge estendono sul terreno dello stesso
proprietario un vincolo di «non edificazione» fino a
concorrenza della superficie fondiaria necessaria alla loro
edificazione, ai sensi dell’art. 3, fatte salve le facoltà
previste dall’art. 5”.
L’asservimento così imposto ex lege dell’intera
superficie fondiaria al fabbricato esistente preclude
l’ulteriore edificazione, ossia esclude che la suddetta
superficie sia suscettibile di esprimere ulteriore
volumetria.
La circostanza che il vincolo non sia stato trascritto, ai
sensi del successivo comma 3, e che non sia stato istituito
il registro fondiario con i dati catastali dei terreni
vincolati, previsto dal comma 4, non può essere utilmente
allegata, in termini d’ignoranza della situazione
giuridico-fattuale, dall’interessata, che ha partecipato ad
un rogito notarile dal quale risultava con chiarezza
l’unicità dell’originario compendio immobiliare e la
preesistenza dell’edificio, a nulla rilevando l’assunto che
esso fosse più o meno abitabile, e che è stato oggetto di
successiva ristrutturazione in base a titolo edilizio che
l’interessata non ha impugnato, pur non potendo né dovendo
ignorare che la conservazione del manufatto, ancorché
ristrutturato, assumeva valenza ostativa, per l’effetto
d’asservimento dell’intera superficie fondiaria, ivi
compreso il suolo da essa acquistato, al medesimo edificio,
all’edificazione sul proprio suolo (massima tratta da
www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.01.2013 n. 415
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EDILIZIA
PRIVATA: Nozione di sagoma ex d.P.R. 380/2001.
In base alla normativa statale di principio d.P.R. 380/2001,
un intervento di demolizione e ricostruzione che non
rispetti la sagoma dell'edificio preesistente, intesa
quest'ultima come la conformazione planivolumetrica della
costruzione e il suo perimetro considerato in senso
verticale e orizzontale, configura un intervento di nuova
costruzione e non di ristrutturazione edilizia.
La nozione
di sagoma di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 “Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia” definisce
gli "interventi di ristrutturazione edilizia", come “gli
interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che possono portare
ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti.
Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le
sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica”) comprende l’intera conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro
considerato in senso verticale e orizzontale e, con
sequenzialmente, anche il rispetto della pregressa area di
sedime.
La questione centrale da esaminare nella fattispecie in
scrutinio è la riconducibilità dell’intervento proposto
nell’area nozionale degli interventi sull’esistente, e in
particolare della ristrutturazione edilizia, atteso che
l’intervento edilizio de qua, in disparte le considerazioni
sui profili volumetrici, viene realizzato mediante la
demolizione degli edifici preesistenti e la loro
collocazione in una area di sedime diversa, oppure al
contrario in quella di opera di nuova costruzione.
Proprio il tema della rilevanza del concetto di sedime
appare, in effetti, oggetto di discussione nell’ambito della
nozione di ristrutturazione edilizia.
La circolare 07.08.2003 n. 4174 del Ministero delle
infrastrutture e dei trasporti, intitolata “Decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, come
modificato ed integrato dal decreto legislativo 27.12.2002,
n. 301. Chiarimenti interpretativi in ordine alla inclusione
dell'intervento di demolizione e ricostruzione nella
categoria della ristrutturazione edilizia”, esaminata la
definizione di ristrutturazione edilizia ed evidenziato che
questa non richiama più il concetto di “area di sedime”,
afferma espressamente: “non si ritiene che l'esclusione
di tale riferimento possa consentire la ricostruzione
dell'edificio in altro sito, ovvero posizionarlo all'interno
dello stesso lotto in maniera del tutto discrezionale. La
prima ipotesi è esclusa dal fatto che, comunque, si tratta
di un intervento incluso nelle categorie del recupero, per
cui una localizzazione in altro ambito risulterebbe
palesemente in contrasto con tale obiettivo; quanto alla
seconda ipotesi si ritiene che debbono considerarsi
ammissibili, in sede di ristrutturazione edilizia, solo
modifiche di collocazione rispetto alla precedente area di
sedime, sempreché rientrino nelle varianti non essenziali,
ed a questo fine il riferimento è nelle definizioni
stabilite dalle leggi regionali in attuazione dell'art. 32
del Testo unico. Resta in ogni caso possibile, nel diverso
posizionamento dell'edificio, adeguarsi alle disposizioni
contenute nella strumentazione urbanistica vigente per
quanto attiene allineamenti, distanze e distacchi”.
Rispetto a questa posizione ministeriale, di parziale
apertura almeno alle dislocazioni interne al lotto, si
riscontrano invece posizioni della giurisprudenza orientate
in senso opposto (Consiglio di Stato, sez. VI, 16.12.2008 n.
6214; Consiglio di Stato, sez. V, 15.04.2004 n. 2142, per
l’espressa affermazione che la ristrutturazione edilizia
individua un intervento dove non si assista ad alcun
incremento per i volumi, le sagome e le superfici, salvo una
diversa distribuzione di quelle assentite, né una maggiore o
diversa occupazione delle aree di sedime), evidenziando come
lo spostamento della collocazione del manufatto costituisce
una nuova costruzione e non un intervento sull’esistente.
La lettura in senso restrittivo della nozione di
ristrutturazione urbanistica, così sostenuta, ha ricevuto
poi un avallo autorevolissimo dalla giurisprudenza
costituzionale, dove si legge (Corte Costituzionale,
23.11.2011 n. 309) in maniera assolutamente lineare e
condivisibile che “in base alla normativa statale di
principio, quindi, un intervento di demolizione e
ricostruzione che non rispetti la sagoma dell'edificio
preesistente -intesa quest'ultima come la conformazione
planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro
considerato in senso verticale e orizzontale- configura un
intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione
edilizia”.
Pertanto, la nozione di sagoma di cui all’art. 3, comma 1,
lett. d), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 “Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia” (che definisce gli "interventi di
ristrutturazione edilizia", come “gli interventi
rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un
insieme sistematico di opere che possono portare ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le
sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica”) comprende l’intera conformazione
planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro
considerato in senso verticale e orizzontale e, con
sequenzialmente, anche il rispetto della pregressa area di
sedime.
Inoltre, proprio il riferimento alla conformazione
planovolumetrica e alla prevalenza delle definizioni di cui
al testo unico dell’edilizia, elementi contenuti nella
pronuncia della Corte costituzionale sopra citata, consente
di ritenere superate le voci difformi alla lettura
restrittiva qui proposta (tra tutte, Consiglio di Stato,
sez. V, 27.04.2006 n. 2364, in merito alla prevalenza della
normativa tecnica di p.r.g. che consentiva la sostituzione
dell'organismo con altro in parte o in tutto diverso dal
precedente, anche dal punto di vista del sedime).
Non può quindi condividersi la ricostruzione fatta dalla
parte appellata che vede lo spostamento dell’area di sedime
come fatto di minor rilievo dal punto di vista edilizio e
qualificabile come profilo legittimo della ristrutturazione
edilizia. Al contrario, il manufatto qui in esame è da
considerarsi edificio di nuova costruzione, e come tale
soggetto a una disciplina diversa, ben più restrittiva
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez, IV,
sentenza 22.01.2013 n. 365
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EDILIZIA
PRIVATA: Legittimità diniego concessione edilizia
per adeguamento industria insalubre in difformità NTA del
PRG.
E’ legittimo il diniego del Comune alla richiesta di
concessione edilizia per l'adeguamento dell'impianto
industriale di preparazione di conglomerati cementiti, in
difformità delle N.T.A. del P.R.G. vigente in quanto
l'attività svolta dall'impianto rientra nell'elenco delle
industrie insalubri di cui all'art. 216 T.U. delle Leggi
sanitarie.
Infatti, l’art. 216 del T.U. delle Leggi
sanitarie (D.M. 05.09.1994 e succ. modif.) nel consentire la
permanenza delle industrie insalubri nei centri abitati a
certe condizioni e accorgimenti tecnici, non ha autorizzato
il Comune a disporre una deroga al disposto della norma,
tale da porre nel nulla il precetto che vuole lontane dagli
abitati le lavorazioni insalubri.
Al contrario, ha inserito
una prescrizione che si armonizza con le norme dello
strumento urbanistico e ha proprio il fine di allontanare
quelle lavorazioni a tutela della qualità della vita dei
residenti. Si tratta quindi di un ulteriore strumento di
governo del territorio che conferisce all’ente locale,
nell’ambito del generale potere pianificatorio, un’ampia
potestà di valutazione della tollerabilità o meno di quelle
attività, tanto ampia da comprendere anche l’interdizione
dall’esercizio delle attività stesse.
Del tutto pacificamente, la giurisprudenza evidenzia come
l’art. 216 t.u.l.s., nel consentire la permanenza delle
industrie insalubri nei centri abitati a certe condizioni e
accorgimenti tecnici, non ha autorizzato il Comune a
disporre una deroga al disposto della norma, tale da porre
nel nulla il precetto che vuole lontane dagli abitati le
lavorazioni insalubri. Al contrario, ha inserito una
prescrizione che si armonizza con le norme dello strumento
urbanistico e ha proprio il fine di allontanare quelle
lavorazioni a tutela della qualità della vita dei residenti.
Si tratta quindi di un ulteriore strumento di governo del
territorio che conferisce all’ente locale, nell’ambito del
generale potere pianificatorio, un’ampia potestà di
valutazione della tollerabilità o meno di quelle attività,
tanto ampia da comprendere anche l’interdizione
dall’esercizio delle attività stesse.
Non vi è quindi spazio per una lettura della norma nel senso
voluto dall’appellante, atteso che il citato 29 N.T.A. (dal
contenuto schiettamente urbanistico e non impugnato in
questa sede) non consente al comune il rilascio della
richiesta concessione edilizia nella zona ove si svolge
l’attività.
Per tali ragioni, le censure proposte dall’appellante, in
merito alla circostanza per cui l’impianto da realizzare non
sarebbe inquinante per l’alta tecnologia che lo
contraddistinguerebbe, sono del tutto inconferenti perché in
quella zona in nessun caso avrebbe potuto essere localizzato
secondo le N.T.A. all’epoca vigenti (massima tratta da
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Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.01.2013 n. 364 -
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EDILIZIA
PRIVATA:
E’ illegittimo il permesso di costruire che non
rispetti le distanze minime tra gli edifici previste
dall'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444.
In
tema di distanze tra edifici la disposizione di cui all'art.
9, comma 1 n. 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, essendo volta non
alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla
salvaguardia d'imprescindibili esigenze igienico-sanitarie,
e quindi tassativa e inderogabile, non solo impone al
proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui
di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da
quello, senza alcuna deroga neppure per il caso in cui la
nuova costruzione sia destinata a essere mantenuta a una
quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a
distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni
dell'art. 907, comma 3, c.c., ma vincola anche i Comuni in
sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici,
con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in
contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va
annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque
disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la
clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, atteso
che l'art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, per la sua natura di
norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie
contenute nelle norme tecniche di attuazione.
---------------
In tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre
non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del
fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di
finitura od accessoria di limitata entità, come le mensole,
le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, invece,
rientrano nel concetto civilistico di costruzioni, le parti
dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d.
aggettanti) che, se pur non corrispondono a volumi abitativi
coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la
consistenza del fabbricato.
Lo stesso può dirsi per le opere di contenimento, quali
indubbiamente si configurano quelle di cui al caso di specie
che, comunque progettate in relazione alla situazione dei
luoghi ed alla soluzione esteticamente ritenuta più
confacente dal committente, hanno una struttura che deve
essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad
assolvere alla funzione di contenimento ed una funzione, che
non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente
abbellire la proprietà, ma essenzialmente di sostenere il
terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso.
Opere tali da dovere essere riguardate, sotto il profilo
edilizio, come opere dotate di una propria specificità ed
autonomia, in una accezione che comprende tutte le
caratteristiche proprie dei fabbricati, donde l'obbligo di
rispetto di tutti gli indici costruttivi prescritti dallo
strumento urbanistico e, in particolare, delle distanze dal
confine privato.
---------------
Ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali di
origine codicistica o prescritte dagli strumenti urbanistici
in funzione integrativa della disciplina privatistica, la
nozione di costruzione non si identifica con quella di
edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non
completamente interrato che abbia i caratteri della
solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche
mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un
corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato,
indipendentemente dal livello di posa e di elevazione
dell'opera.
Ai fini del rispetto delle distanze fra costruzioni, non
rileva il materiale utilizzato per la fabbrica,
richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera,
comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro
od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non
transitoriamente.
Ne consegue la permanente vigenza dell’insegnamento della
Corte di legittimità secondo il quale “costituisce
costruzione, agli effetti della disciplina del c.c. sulle
distanze legali, ogni manufatto che, per struttura e
destinazione, ha carattere di stabilità e permanenza (Nella
specie il manufatto, con finestra, era coperto da tettoia
formata da travi con soprastanti lamiere, ed era destinato a
fienile, magazzino e pollaio)”.
Analoga nozione estensiva del concetto di “fabbricato” è
stata dettata dalla Corte di Cassazione ai fini dell'art.
907 c.c., diretto a preservare l'esercizio delle vedute da
ogni eventuale ostacolo con carattere di stabilità, “in
quanto la nozione di costruzione è comprensiva non solo dei
manufatti in calce e mattoni, ma di qualsiasi opera che,
indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è
stata realizzata, determini un ostacolo del genere (nella
specie, il giudice del merito aveva ritenuto che costituisse
costruzione nel senso anzidetto una veranda che ostacolava
la veduta dal balcone e dalla finestra sovrastanti, anche se
ottenuta mediante la posa in opera, su correntini infissi
nel muro, di lastre di fibrocemento facilmente asportabili,
in quanto bullonate a tali correntini. La C.S.,
nell'enunciare il precisato principio di diritto, ha
confermato tale decisione)”.
---------------
In ordine alla illegittimità di una costruzione inferiore
alla distanza minima di m 10,00 prescritta dall’art. 9 del
decreto ministeriale 02.04.1968 n. 1444, in ordine alla
cogenza ed inderogabilità di tale disposizione ed in ordine
alla doverosità dell’esercizio dell’autotutela laddove la
stessa venga violata, la giurisprudenza è assolutamente
concorde. Si è detto in proposito, infatti, che “laddove si
afferma il carattere inderogabile della prescrizione di cui
all'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 (distanza minima
assoluta di m. 10 relativa alle pareti finestrate), e
cogente per tutti gli strumenti urbanistici e regolamenti
edilizi di fonte comunale, si impone l'applicazione della
relativa disciplina anche nelle ipotesi in cui una sola
delle due pareti frontistanti sia finestrata, posto che
l'interesse pubblico presidiato dalla norma è quello della
salubrità dell'edificato, da non confondersi con l'interesse
privato del frontista a mantenere la riservatezza o la
prospettiva”.
Simmetricamente a tale approdo, la giurisprudenza di
legittimità penale ha affermato di recente che “è
illegittimo il permesso di costruire rilasciato per
l'edificazione di un fabbricato che non rispetti le distanze
minime tra gli edifici, previste dall'art. 9 del D.M.
02.04.1968, n. 1444, le cui previsioni non sono derogabili
da parte degli strumenti urbanistici. In tema di distanze
tra costruzioni, il D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, comma
2, essendo stato emanato su delega della legge 17.08.1942,
n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto
dalla legge 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di
legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di
limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i
fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per
inserzione automatica; ne consegue che, in caso di dolosa
violazione della disciplina in tema di distanze legali da
parte del pubblico ufficiale preposto al rilascio del titolo
abilitativo edilizio, questi risponde del delitto di abuso
d'ufficio ai sensi dell'art. 323 c.p.".
In sostanza, lo si ribadisce, può convenirsi con il
principio per cui “la prescrizione di cui all'art. 9 d.m.
02.04.1968, n. 1444, relativa alla distanza minima di 10
metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì
alla salvaguardia di imprescindibili esigenze
igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed
inderogabile”.
La decisione di questa Quarta Sezione del Consiglio di Stato
in ultimo richiamata, ha affermato poi, in punto di
conseguenza applicativa del principio, il condivisibile
principio per cui “in tema di distanze tra costruzioni,
applicabile anche alle sopraelevazioni, l'adozione da parte
dei Comuni di strumenti urbanistici contenenti disposizioni
illegittime perché contrastanti con la norma di superiore
livello dell'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 -che fissa
in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti- comporta
l'obbligo per il giudice di applicare, in sostituzione delle
disposizioni illegittime, quelle dello stesso strumento
urbanistico, nella formulazione derivata, però, dalla
inserzione in esso della regola sulla distanza fissata nel
decreto ministeriale”.
La facoltà di costruire sul confine (peraltro neppure
ricorrente nel caso di specie, come si è dimostrato dianzi)
non comporta certo che si possa omettere di rispettare la
successiva disposizione delle n.t.a. laddove la distanza tra
edifici, per effetto della costruzione sul confine, venga ad
essere inferiore al minimo inderogabile stabilito ex lege.
Tale conseguenza pretesa da parte appellante non si evince
dalla combinata lettura delle due prescrizioni; e, laddove
ciò si riscontrasse effettivamente (ma così non è), il dato
interpretativo non potrebbe che importare la disapplicazione
della disposizione, siccome collidente con la disciplina
nazionale inderogabile (ex multis: “in tema di
distanze tra edifici la disposizione di cui all'art. 9,
comma 1 n. 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, essendo volta non
alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla
salvaguardia d'imprescindibili esigenze igienico-sanitarie,
e quindi tassativa e inderogabile, non solo impone al
proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui
di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da
quello, senza alcuna deroga neppure per il caso in cui la
nuova costruzione sia destinata a essere mantenuta a una
quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a
distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni
dell'art. 907, comma 3, c.c., ma vincola anche i Comuni in
sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici,
con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in
contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va
annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque
disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la
clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, atteso
che l'art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, per la sua natura di
norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie
contenute nelle norme tecniche di attuazione” -TAR
Puglia Lecce Sez. III, 28.09.2012, n. 1624-).
Anche la lettura “combinata” delle due disposizioni
comunali suggerita da parte appellante deve essere pertanto
disattesa.
In ultimo, rammenta il Collegio che, per condivisa
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “in tema di
distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a
tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che
abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od
accessoria di limitata entità, come le mensole, le lesene, i
cornicioni, le grondaie e simili, invece, rientrano nel
concetto civilistico di costruzioni, le parti dell'edificio,
quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. aggettanti)
che, se pur non corrispondono a volumi abitativi coperti,
sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del
fabbricato. Lo stesso può dirsi per le opere di
contenimento, quali indubbiamente si configurano quelle di
cui al caso di specie che, comunque progettate in relazione
alla situazione dei luoghi ed alla soluzione esteticamente
ritenuta più confacente dal committente, hanno una struttura
che deve essere idonea per consistenza e modalità
costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento ed
una funzione, che non è quella di delimitare, proteggere ed
eventualmente abbellire la proprietà, ma essenzialmente di
sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi
dello stesso. Opere tali da dovere essere riguardate, sotto
il profilo edilizio, come opere dotate di una propria
specificità ed autonomia, in una accezione che comprende
tutte le caratteristiche proprie dei fabbricati, donde
l'obbligo di rispetto di tutti gli indici costruttivi
prescritti dallo strumento urbanistico e, in particolare,
delle distanze dal confine privato” (Consiglio Stato,
sez. IV, 30.06.2005, n. 3539).
In modo pressoché simmetrico, la giurisprudenza civile di
legittimità ha ancora di recente condivisibilmente affermato
che “ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze
legali di origine codicistica o prescritte dagli strumenti
urbanistici in funzione integrativa della disciplina
privatistica, la nozione di costruzione non si identifica
con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto
non completamente interrato che abbia i caratteri della
solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche
mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un
corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato,
indipendentemente dal livello di posa e di elevazione
dell'opera” (Cassazione civile, sez. II, 17.06.2011, n.
13389).
La giurisprudenza civile di merito, altrettanto
condivisibilmente, ad avviso del Collegio, ha poi fatto
presente che ai fini del rispetto delle distanze fra
costruzioni, non rileva il materiale utilizzato per la
fabbrica, richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera,
comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro
od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non
transitoriamente.
Ne consegue la permanente vigenza dell’insegnamento della
Corte di legittimità secondo il quale “costituisce
costruzione, agli effetti della disciplina del c.c. sulle
distanze legali, ogni manufatto che, per struttura e
destinazione, ha carattere di stabilità e permanenza (Nella
specie il manufatto, con finestra, era coperto da tettoia
formata da travi con soprastanti lamiere, ed era destinato a
fienile, magazzino e pollaio)” (Cassazione civile, sez.
II, 24.05.1997, n. 4639).
Per completezza si evidenzia che analoga nozione estensiva
del concetto di “fabbricato” è stata dettata dalla
Corte di Cassazione ai fini dell'art. 907 c.c., diretto a
preservare l'esercizio delle vedute da ogni eventuale
ostacolo con carattere di stabilità, “in quanto la
nozione di costruzione è comprensiva non solo dei manufatti
in calce e mattoni, ma di qualsiasi opera che,
indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è
stata realizzata, determini un ostacolo del genere. (nella
specie, il giudice del merito aveva ritenuto che costituisse
costruzione nel senso anzidetto una veranda che ostacolava
la veduta dal balcone e dalla finestra sovrastanti, anche se
ottenuta mediante la posa in opera, su correntini infissi
nel muro, di lastre di fibrocemento facilmente asportabili,
in quanto bullonate a tali correntini. La C.S.,
nell'enunciare il precisato principio di diritto, ha
confermato tale decisione)” (Cassazione civile , sez. II,
21.10.1980, n. 5652).
Già alla stregua
della sistematica esposizione che precede, appare evidente
che appare destituito di fondamento il primo caposaldo
dell’impianto dell’appello volto a contestare la
sussumibilità nella nozione di “costruzione”
rilevante in punto di omesso rispetto delle distanze legali
dell’immobile per cui è causa.
E’ appena il caso di rammentare, conclusivamente, che in
ordine alla illegittimità di una costruzione inferiore alla
distanza minima di m 10,00 prescritta dall’art. 9 del
decreto ministeriale 02.04.1968 n. 1444, in ordine alla
cogenza ed inderogabilità di tale disposizione ed in ordine
alla doverosità dell’esercizio dell’autotutela laddove la
stessa venga violata, la giurisprudenza è assolutamente
concorde. Si è detto in proposito, infatti, che “laddove
si afferma il carattere inderogabile della prescrizione di
cui all'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 (distanza minima
assoluta di m. 10 relativa alle pareti finestrate), e
cogente per tutti gli strumenti urbanistici e regolamenti
edilizi di fonte comunale, si impone l'applicazione della
relativa disciplina anche nelle ipotesi in cui una sola
delle due pareti frontistanti sia finestrata, posto che
l'interesse pubblico presidiato dalla norma è quello della
salubrità dell'edificato, da non confondersi con l'interesse
privato del frontista a mantenere la riservatezza o la
prospettiva” (Cons. Stato Sez. IV, 09.10.2012, n. 5253).
Simmetricamente a tale approdo, la giurisprudenza di
legittimità penale ha affermato di recente che “è
illegittimo il permesso di costruire rilasciato per
l'edificazione di un fabbricato che non rispetti le distanze
minime tra gli edifici, previste dall'art. 9 del D.M.
02.04.1968, n. 1444, le cui previsioni non sono derogabili
da parte degli strumenti urbanistici. In tema di distanze
tra costruzioni, il D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, comma
2, essendo stato emanato su delega della legge 17.08.1942,
n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto
dalla legge 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di
legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di
limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i
fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per
inserzione automatica; ne consegue che, in caso di dolosa
violazione della disciplina in tema di distanze legali da
parte del pubblico ufficiale preposto al rilascio del titolo
abilitativo edilizio, questi risponde del delitto di abuso
d'ufficio ai sensi dell'art. 323 c.p." (Cass. pen. Sez.
III, 12.01.2012, n. 10431 -rv. 252247-).
In sostanza, lo si ribadisce, può convenirsi con il
principio per cui “la prescrizione di cui all'art. 9 d.m.
02.04.1968, n. 1444, relativa alla distanza minima di 10
metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì
alla salvaguardia di imprescindibili esigenze
igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile”
(Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011, n. 5759).
La decisione di questa Quarta Sezione del Consiglio di Stato
in ultimo richiamata, ha affermato poi, in punto di
conseguenza applicativa del principio, il condivisibile
principio per cui “in tema di distanze tra costruzioni,
applicabile anche alle sopraelevazioni, l'adozione da parte
dei Comuni di strumenti urbanistici contenenti disposizioni
illegittime perché contrastanti con la norma di superiore
livello dell'art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 -che fissa
in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti- comporta
l'obbligo per il giudice di applicare, in sostituzione delle
disposizioni illegittime, quelle dello stesso strumento
urbanistico, nella formulazione derivata, però, dalla
inserzione in esso della regola sulla distanza fissata nel
decreto ministeriale” (Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011,
n. 5759)
(Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 22.01.2013 n. 354
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Convenzioni di urbanizzazione, la p.a. non può
apportarvi modifiche unilaterali.
La giurisprudenza si è oramai orientata nell’affermare,
all’interno delle convenzioni di urbanizzazione, la
prevalenza del profilo della libera negoziazione. Infatti,
si è affermato che, sebbene sia innegabile che la
convenzione di lottizzazione, a causa dei profili di stampo
giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento
dichiaratamente contrattuale, rappresenti un istituto di
complessa ricostruzione, non può negarsi che in questo si
assista all’incontro di volontà delle parti contraenti
nell'esercizio dell'autonomia negoziale retta dal codice
civile.
La convenzione urbanistica stipulata fra la pubblica
amministrazione ed il privato, come è quella relativa ad un
piano di lottizzazione, si configura, ai sensi dell'art. 28
l. 17.08.1942 n. 1150 e dell'art. 7 l. 28.01.1977 n. 10, la
natura contrattuale del relativo rapporto instaurato, detta
convenzione ha pertanto valore vincolante per entrambe le
parti e la p.a. non può apportarvi modifiche unilaterali.
A tal proposito, sebbene possa dirsi ormai definitivamente
superato l’orientamento giurisprudenziale, fondato su
affermazioni di natura presuntiva, secondo il quale “l'operato
della pubblica amministrazione è diretto a perseguire
interessi di tipo generale ed è caratterizzato da
imparzialità e giustizia, non essendovi pertanto la
necessità di tutelare il contraente debole, la clausola
negoziale compromissoria inerente una disciplinare di
concessione non è disciplinata dall'art. 1341 c.c.” (TAR
Lombardia Milano Sez. III, 11.03.2003, n. 432), non può
certamente ravvisarsi la nozione di “contraente debole” in
una impresa che liberamente stipula con l’amministrazione
una convenzione di lottizzazione dalla quale ricava
consistenti benefici.
Quanto a quest’ultimo profilo, ed in via conclusiva, può
richiamarsi un breve passaggio motivazionale contenuto in
una recente decisione della Sezione (n. 2040/2011) che il
Collegio condivide pienamente e che ben si attaglia alla
fattispecie in esame, essendosi ivi precisato che “la
giurisprudenza si è oramai orientata nell’affermare,
all’interno delle convenzioni di urbanizzazione, la
prevalenza del profilo della libera negoziazione. Infatti,
si è affermato (Consiglio di Stato, sez. V, 10.01.2003, n.
33; Consiglio di Stato, sez. IV, 28.07.2005, n. 4015) che,
sebbene sia innegabile che la convenzione di lottizzazione,
a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si
accompagnano allo strumento dichiaratamente contrattuale,
rappresenti un istituto di complessa ricostruzione, non può
negarsi che in questo si assista all’incontro di volontà
delle parti contraenti nell'esercizio dell'autonomia
negoziale retta dal codice civile.
La detta ricostruzione assume particolare valenza quando,
come nel caso in specie, si assuma che alcuni dei contenuti
dell'accordo vengono imposti dalla pubblica amministrazione
in termini non modificabili dal privato, visto che, anche in
questo caso, ciò non esclude che la parte che abbia
sottoscritto la convenzione, conoscendone il contenuto,
abbia inteso aderirvi, restandone vincolata, salvo il
ricorso agli strumenti di tutela in caso di invalidità del
contratto.
Ne deriva che l’argomento sostenuto nel ricorso in primo
grado, ossia che le clausole convenute, in quanto aggiuntive
rispetto agli oneri di urbanizzazione, riferiti ad opere e
servizi menzionati dalla normativa, non siano consentite,
con conseguente nullità delle stesse, non può essere
sostenuto, trattandosi di determinazione pattizia rimessa
alla contrattazione tra i due diversi soggetti coinvolti.” (massima tratta da www.lexambiente.it
- Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 22.01.2013 n. 351
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: E’ legittima la clausola convenzionale che
subordina il rilascio del certificato di agibilità
dell'immobile alla presentazione dell'atto di vincolo a
prima casa.
La clausola convenzionale che subordina
il rilascio della certificato di agibilità dell'immobile
alla presentazione dell'atto di vincolo a prima casa, ha
solo l’effetto di modulare consensualmente i successivi
segmenti procedimentali, postergando la valutazione
dell’abitabilità all’individuazione del fruitore
dell’immobile, in modo da monitorare l’effettiva
realizzazione del fine sociale per il quale la costruzione
degli immobili è stata assentita, e non già di inserire
nella valutazione ai fini dell’abitabilità elementi
eterogenei rispetto a quelli previsti dal legislatore.
Né può trarsi dalla clausola un divieto di vendita o di
commercializzazione delle unità immobiliari, atteso che esse
sono state edificate proprio al fine di essere adibite a
prima casa, ossia di realizzare una funzione sociale
particolarmente meritevole che proprio la clausola tende ad
assicurare attraverso la previsione di una preliminare fase
di monitoraggio, che certamente non preclude la stipula di
contratti preliminari di vendita né di quelli definitivi.
Con il terzo motivo d'appello Immobilcommer afferma che la
clausola contenuta nello schema di atto d'obbligo che accede
alla convenzione di lottizzazione, e subordina il rilascio
della certificato di agibilità dell'immobile alla
presentazione dell'atto di vincolo a prima casa, sarebbe
nulla: per mancanza di una base di legge; per contrasto con
gli articoli 24 e seguenti del Testo unico edilizia; per
contrarietà all'ordine pubblico, ed in particolare, per
contrasto con gli articoli 41 e 42 della Costituzione; per
contrasto con l'articolo 1379 in quanto norma imperativa;
per illiceità del contenuto e della causa.
Il motivo non ha pregio. Com’anzi detto, la clausola
convenzionale ha solo l’effetto di modulare consensualmente
i successivi segmenti procedimentali, postergando la
valutazione dell’abitabilità all’individuazione del fruitore
dell’immobile, in modo da monitorare l’effettiva
realizzazione del fine sociale per il quale la costruzione
degli immobili è stata assentita, e non già di inserire
nella valutazione ai fini dell’abitabilità elementi
eterogenei rispetto a quelli previsti dal legislatore. Né
può trarsi dalla clausola un divieto di vendita o di
commercializzazione delle unità immobiliari, atteso che esse
sono state edificate proprio al fine di essere adibite a
prima casa, ossia di realizzare una funzione sociale
particolarmente meritevole che proprio la clausola tende ad
assicurare attraverso la previsione di una preliminare fase
di monitoraggio, che certamente non preclude la stipula di
contratti preliminari di vendita né di quelli definitivi.
Privo di fondamento è anche il motivo avente ad oggetto il
mancato riconoscimento da parte del TAR di un difetto
assoluto di attribuzione nella imposizione della
prescrizione de qua, all’atto del rilascio del permesso di
costruire.
Si è già detto che il permesso di costruire costituisce
l’epilogo provvedimentale di una vicenda che ha una matrice
consensuale, nell’ambito della quale le parti hanno
disciplinato l’iter procedimentale post-ponendo, a fini
cautelativi, il rilascio della certificazione di abitabilità
alla verifica amministrativa dei requisiti in capo
all’acquirente. Se, come sopra chiarito, la convenzione di
lottizzazione e le obbligazioni da essa sorgenti hanno
effetti anche nei confronti degli aventi causa, non v’è
dubbio che l’amministrazione aveva il potere di inserire la
prescrizione nei confronti di chiunque chiedesse il permesso
di costruire edifici nell’ambito della lottizzazione.
Potrebbe in astratto porsi una problema di legittimità, ma
non certo di nullità ex art. 21-septies l. 241/1990 (tratto da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.01.2013 n. 324 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Legittimità ordinanza rimozione per
struttura balneare con utilizzazione temporanea non rimossa.
L’ordinanza di demolizione è legittima nel caso cui la
concessione rilasciata autorizzava la realizzazione di una
struttura balneare con una “utilizzazione temporanea”
limitata al periodo estivo e non si provveduto alla
rimozione annuale, e pertanto si è creata una struttura con
una utilizzazione non più temporanea, ma permanente, dunque
abusiva. Infatti, il concetto di “utilizzazione” diversa non
presuppone, che vengano realizzate opere edilizie in sé
difformi dal titolo abilitativo.
E’ invece sufficiente,
infatti, che venga posta in essere una attività, anche
omissiva dell’adempimento di un dovere di controazione, che
per sua propria conseguenza determini un mutamento di fatto
nella utilizzazione assentita per un tempo limitato. Per il
tempo che non è assentito dal titolo, infatti, l’opera
diviene, grazie a questa omissione di rimozione, in tutto e
per tutto da equiparare ad un manufatto sine titulo e come
va tale va in punto di sanzioni considerata.
L’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede che vanno
considerati interventi eseguiti in totale difformità dal
permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione
di un organismo edilizio integralmente diverso «per
caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di
utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso».
Il concetto di “utilizzazione” diversa non
presuppone, come erroneamente assunto dalle appellanti, che
vengano realizzate opere edilizie in sé difformi dal titolo
abilitativo. E’ invece sufficiente, infatti, che venga posta
in essere una attività, anche omissiva dell’adempimento di
un dovere di controazione, che per sua propria conseguenza
determini un mutamento di fatto nella utilizzazione
assentita per un tempo limitato. Per il tempo che non è
assentito dal titolo, infatti, l’opera diviene, grazie a
questa omissione di rimozione, in tutto e per tutto da
equiparare ad un manufatto sine titulo e come va tale
va in punto di sanzioni considerata.
Nel caso in esame, la concessione rilasciata autorizzava la
realizzazione di una struttura balneare con una “utilizzazione
temporanea” limitata al periodo estivo.
Costituisce dato non contestato che invece le appellanti,
non provvedendo alla rimozione annuale, abbiamo creato una
struttura con una utilizzazione non più temporanea, ma
permanente: dunque abusiva.
L’ordinanza di demolizione è, pertanto, pienamente
legittima, con conseguente non rilevanza della questione
subordinata, relativa all’avvenuta traslazione della
struttura stessa (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 21.01.2013 n. 313
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Legittimità diniego condono per opere in
violazione delle distanze dai confini catastali e dalla
strada.
E’ legittimo il diniego alle richieste di condono per opere
abusive consistenti in: tettoia sorretta da sei colonne in
mattoni con destinazione cucina aperta; annesso con
struttura portante in mattoni e copertura in cemento;
fabbricato di tre piani; muro in cemento armato con
recinzione; altro muro in cemento armato con recinzione,
realizzate in violazione delle distanze dai confini
catastali, dalla strada, all’altezza, alla distanza dalla
strada.
Infatti, la mancata utilizzazione di una strada
pubblica, tuttora esistente giuridicamente sulla base della
sua iscrizione nell’elenco delle strade vicinali di uso
pubblico, non può costituire di per sé circostanza dirimente
per escludere l’obbligo per il costruttore di rispettare il
limite di distanza dal ciglio stradale, poiché, ai fini
della condonabiltà dell’abuso non viene in rilievo il
problema della minaccia alla sicurezza del traffico, ma
soltanto il profilo della conformità urbanistica dell’opera
alle norme vigenti.
In tema di distanze legali, integra la nozione di volume
tecnico, non computabile nella volumetria della costruzione,
soltanto quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia
funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a
contenere impianti serventi di una costruzione principale
per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima.
Con riferimento alla nozione di "costruzione", rilevante ai
fini dell'osservanza delle norme in materia di distanze
legali stabilite dall'articolo 873 del c.c. o da norme
regolamentari integrative, si è stabilito che tale
"concetto" comprende qualsiasi opera non completamente
interrata avente i caratteri della solidità e
immobilizzazione rispetto al suolo.
In ordine ai motivi di appello proposti relativamente al
ricorso di primo grado n. 24 del 2008 va osservato che:
l’istanza era presentata come avente ad oggetto “unità
abitativa composta di un piano interrato ad uso fondo, un
piano terra e primo ad uso abitazione”; si tratta della
parte dell’edificio frontale rispetto alla strada vicinale.
Il diniego è stato motivato perché trattasi di nuova
costruzione, difforme dagli strumenti urbanistici vigenti al
02.10.2003; in violazione della distanza dalla strada,
inferiore al minimo consentito, e con altezza in gronda
superiore al consentito.
Con i motivi di appello si sostiene che la violazione della
strada non sussisterebbe, perché tale strada sarebbe
inutilizzata e perché non sussiste la minaccia alla
sicurezza del traffico; inoltre si fa illegittimamente
riferimento, da parte della sentenza, al limite di 15 metri,
mentre la nuova variante adottata ha abbassato il limite a
dieci metri e dovrebbe aversi riferimento alle norme vigenti
al momento dell’esame della domanda di condono.
I rilievi sono tutti infondati.
Infatti, quanto alla strada, la mancata utilizzazione di una
strada pubblica, tuttora esistente giuridicamente sulla base
della sua iscrizione nell’elenco delle strade vicinali di
uso pubblico, non può costituire di per sé circostanza
dirimente per escludere l’obbligo per il costruttore di
rispettare il limite di distanza dal ciglio stradale,
poiché, ai fini della condonabiltà dell’abuso non viene in
rilievo il problema della minaccia alla sicurezza del
traffico, ma soltanto il profilo della conformità
urbanistica dell’opera alle norme vigenti.
D’altronde, le norme invocate dalla parte appellante non
pretendono che la violazione sia accompagnata dalla minaccia
di sicurezza al traffico; ma anzi, al contrario, richiedono
che gli stessi interventi, devono comunque non essere posti
in violazione delle norme, sulle strade, al che si aggiunge
la specifica che in ogni caso “sempre che le opere stesse”
non debbono costituire “minaccia alla sicurezza del
traffico”; tale requisito è un quid pluris che deve
sussistere ai fini del condono (l’assenza di minaccia…) e
non già una ulteriore condizione al fine di poter ravvisare
la violazione ai fini del diniego, come pretende l’appello
(si legga in tal senso l’art. 32 l. 47 del 1985, comma 1,
lett. c) “... ( non debbono essere)…in contrasto con le norme
del decreto ministeriale 10.04.1968, n. 1404, pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale n. 96 del 13.04.1968, e con
agli articoli 16, 17 e 18 della legge 13.06.1991, n.190,
e successive modificazioni, sempre che le opere stesse non
costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico…”.
E’ parimenti infondata la pretesa di doversi fare
riferimento alle nuove più permissive norme soltanto
adottate, perché si deve avere riguardo alle norme vigenti
alla data del 02.10.2003, come più volte già
sottolineato, e ciò è sufficiente; inoltre, come noto, non è
approvata e vigente sotto tutti gli effetti (e certo non ai
considerati effetti della conformità o difformità ai fini
delle distanze) la variante solo adottata e successivamente
approvata.
E’ del tutto infondata anche la pretesa dell’appellante
volta a far constare l’illegittimità del motivo di diniego
relativo all’altezza dell’edificio, che andrebbe commisurata
dal piano di campagna e non dalle fondamenta, che verrebbero
ricoperte a seguito di interventi futuri da realizzare. E’
evidente che non può valutarsi la conformità se non con
riguardo alla situazione esistente, non potendo valere né
successivi interventi, né tantomeno promesse di interventi,
inidonei come tali a concretare una conformità smentita dai
fatti e anzi ammessa dalla stessa parte.
---------------
Anche con riguardo ai motivi di appello relativi al
ricorso n. 25 del 2008 (riguardante il locale tecnico), si
richiamano le ragioni già esposte della loro infondatezza
sulla distanza dai confini, sulla distanza dalla strada,
sulla esigenza o meno anche di minaccia per la sicurezza del
traffico.
Sono infondati, in aggiunta, i motivi con cui si sostiene
che la distanza andava calcolata in modo ortogonale e non
radiale, anche in applicazione delle norme sopravvenute più
favorevoli del nuovo regolamento edilizio.
Infatti, nella specie, come rilevato pure dal primo giudice,
si tratta di una struttura edilizia vera e propria, avente
la sua autonomia, di oltre quattro metri per tre e circa due
metri e trenta di altezza, realizzata in laterizio di
mattoni, tetto in latero-cemento ricoperto di coppi e
pertanto soggetto alle norme sulle distanze tra fabbricati;
inoltre il regolamento comunale vigente alla data del 2
ottobre prevedeva che si dovesse fare riferimento al metodo
di misurazione radiale e non a quello ortogonale.
In tema di distanze legali, integra la nozione di volume
tecnico, non computabile nella volumetria della costruzione,
soltanto quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia
funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a
contenere impianti serventi di una costruzione principale
per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima
(così da ultimo, Cassazione civile sez. II, 03.02.2011
n. 2566).
Secondo tale giurisprudenza, in vero, ai fini del calcolo
delle distanze legali, integra la nozione di volume tecnico,
non computabile nella volumetria della costruzione, solo
quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale,
anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti
serventi di una costruzione principale per esigenze
tecnico-funzionali della costruzione medesima: in sostanza,
si tratta di impianti necessari per l'utilizzo
dell'abitazione che non possono essere ubicati all'interno
di questa, come quelli connessi alla condotta idrica,
termica o all'ascensore ecc., mentre va escluso che possa
parlarsi di volumi tecnici in relazione a quelle parti del
fabbricato che ne costituiscono parte integrante.
---------------
Con riguardo ai motivi di appello esposti, relativi al
ricorso di primo grado r.g.n. 26 del 2008, avente ad oggetto
il diniego di condono sulla tettoia-gazebo aperto, vale
quanto sopra esposto per:
a) distanze dalla strada;
b)
strada esistente anche se di fatto non del tutto utilizzata;
c) minaccia della sicurezza al traffico;
d) nuove norme
della variante soltanto adottata e non ancora approvata al
momento di riferimento della conformità o difformità e cioè
al 02.10.2003.
Inoltre, con riguardo alla limitata rilevanza
dell’intervento, tanto che per esso dovrebbe considerarsi la
distanza tra pareti finestrate e non dalla strada o da altro
fabbricato, va osservato che, al contrario, si ritiene
costituire a tal fine "costruzione" anche un manufatto che,
seppure privo di pareti, realizzi una determinata
volumetria, sicché -al fine di verificare l'osservanza o
meno delle distanze legali- la misura deve esser effettuata
assumendo come punto di riferimento la linea esterna della
parete ideale posta a chiusura dello spazio esistente tra le
strutture portanti più avanzate del manufatto stesso (nella
specie, tettoia) (Cassazione civile sez. II, 14.03.2011,
n. 5934).
Con riferimento alla nozione di "costruzione", rilevante ai
fini dell'osservanza delle norme in materia di distanze
legali stabilite dall'articolo 873 del c.c. o da norme
regolamentari integrative, si è stabilito che tale
"concetto" comprende qualsiasi opera non completamente
interrata avente i caratteri della solidità e
immobilizzazione rispetto al suolo (Cass. 18.02.2011,
n. 4008; Cass. 01.07.1996, n. 5956).
Nella specie, basti considerare che, in fatto, si tratta di
struttura edilizia di dimensioni notevoli (quasi 90 metri
quadrati e la circostanza non viene smentita, né
contestata), realizzata in muratura, con pilastri che
misurano 50 cm per 50, copertura in cemento, telaio in ferro
e manto in coppi, con un lato interamente tamponato.
Il concetto di costruzione cui fanno riferimento gli art.
873 e 907 c.c. ai fini del rispetto della distanza minima
comprende qualsiasi manufatto avente caratteristiche di
consistenza e di stabilità e in tal senso non può essere
negata tale caratteristica alla tettoia in parola (massima tratta da www.lexambiente.it
- Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 15.01.2013 n. 223
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Legittimità diniego stipula convenzione per
concessione edilizia in area a rischio esondazione.
E’ legittimo il rigetto dell’Amministrazione comunale
dell’istanza alla stipula della convenzione per il rilascio
della concessione edilizia, sul rilievo che l’area destinata
ad ospitare i realizzandi fabbricati è caratterizzata da
rischio esondazione e tale circostanza di fatto e di diritto
è stata ritenuta causa sufficientemente giustificativa della
decisione di negare l’accoglimento dell’istanza ad
aedificandum.
Il rilievo mosso dall’Amministrazione, è
riconducibile all’inserimento dei terreni in causa, nella
mappa dei rischi di esondazione elaborata nell’ambito dei
piani e programmi di prevenzione e previsioni dei rischi
redatti dagli Uffici regionali della protezione civile
costituente a sua volta “normativa” cui la disciplina urbanistico-edilizia
dei Comuni deve uniformarsi in ragione del carattere
prescrittivo e cogente di tali previsioni.
Il rilievo mosso dall’Amministrazione, in virtù del quale il
dirigente preposto al settore ha ritenuto di soprassedere
alla stipula della convenzione per il rilascio della
concessione edilizia è riconducibile all’inserimento dei
terreni de quibus nella mappa dei rischi di
esondazione elaborata nell’ambito dei piani e programmi di
prevenzione e previsioni dei rischi redatti dagli Uffici
regionali della protezione civile costituente a sua volta “normativa”
cui la disciplina urbanistico-edilizia dei Comuni deve
uniformarsi in ragione del carattere prescrittivo e cogente
di tali previsioni
Sussiste, invero, un preciso obbligo, ai sensi dalla
legislazione regionale all’uopo dettata, per le
Amministrazioni comunali, quindi anche per il Comune di
Senigallia, di conformarsi a detti programmi in ragione
della natura e del contenuto da essi recato che non può non
sovrintendere, per gli aspetti di tutela, all’azione
amministrativa di gestione del territorio
Al di là di tale formale onere di conformazione, non v’è chi
non veda la pregnante incidenza delle previsioni recate dai
piani di prevenzione della protezione civile regionale
sull’attività tecnico-amministrativa di gestione
dell’attività edilizia intesa come trasformazione del
territorio, in cui devono convergere tutti gli aspetti
inerenti la cura dello stesso, in primis quelli
riguardanti la sicurezza dei fabbricati (oltreché delle
persone), con conseguente , puntuale osservanza delle
svariate discipline dettate in ordine agli aspetti tecnici
che vengono in rilievo (quello sismico, quello del regime
idrogeologico e così via) e che concorrono tutti ad
assicurare una concreta conservazione del territorio
oltreché una corretta fruizione dei servizi e delle utilità
a questo connesse.
Di qui, allora, il legittimo e prudente atteggiamento del
dirigente comunale del settore che in via precauzionale ,
una volta rilevata la situazione di rischio da esondazione
ha soprasseduto alla stipula della convenzione preventiva al
rilascio della chiesta concessione: un atteggiamento
legittimo ed opportunamente giustificato se è vero che ad
appena un mese di distanza dalla determinazione comunale di
carattere negativo qui in contestazione la Regione Marche
con delibera n. 300 del 29.02.2000 ha definito la porzione
di territorio qui in rilievo area a rischio idraulico molto
elevato, con conseguente applicazione delle misure di
salvaguardia.
Se così è, il quadro normativo di riferimento risulta essere
stato correttamente interpretato e applicato in relazione ad
elementi di fatto incontrovertibilmente accertati -
l’inserimento dei terreni interessati all’intervento de quo
nella mappa dei rischi da esondazione - lì dove tale
fisiologica situazione non solo sconsigliava, ma imponeva il
blocco di una nuova edificazione, anche al solo giustificato
scopo , di tipo precauzionale, di evitare che nuovi
interventi potessero aggravare lo stato dei luoghi in
riferimento ai profili di tutela idrogeologica dei terreni.
In definitiva la non autorizzabilità del progettato
intervento edilizio opposta dall’Amministrazione con l’atto
de quo costituisce una valutazione tecnica resa
coerentemente alla rilevata presenza di dati di fatto e di
diritto emersi in sede di istruttoria univocamente diretti
ad impedire i “pericoli” di una possibile
compromissione del regime idrogeologico del sito, il che
manda esente il provvedimento stesso dai vizi dedotti (cfr.
Cons. Stato Sez. V 31.10.2012 n. 5553) (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.01.2013 n. 221
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Beni Ambientali. Legittimità diniego parco eolico per
incompatibilità con il vincolo paesistico.
E’ legittimo il diniego per incompatibilità con il vincolo
paesistico, di autorizzazione alla realizzazione di un parco
eolico, all’esito di un procedimento svoltosi prima in
conferenza di servizi e poi, ai sensi del combinato disposto
dell’art. 12 d.lgs. 387/2003, e dell’art. 14-quater, comma
3, della l. 241/1990, con la deliberazione del Consiglio dei
ministri.
Infatti, da un punto di vista paesaggistico
l’impatto del parco eolico, pur a seguito della riduzione a
diciannove del numero degli aerogeneratori, sia comunque
notevole e che, anche avuto riguardo alla necessità di
realizzare, per ogni generatore, un plinto in calcestruzzo
armato emergente fuori terra per una superficie di sedici
metri quadrati e una piazzola antistante, le opere risultano
visibili e di impatto panoramico negativo.
Inoltre la
Soprintendenza, prima di concludere che le opere in progetto
comprometterebbero in modo irreversibile un’ampia area
omogenea ed integra sotto il profilo paesaggistico, valuta
la negativa incidenza delle consistenti opere
infrastrutturali, quali soprattutto le strade necessarie al
passaggio dei mezzi pesanti e la sottostazione Enel con
cabina di trasformazione, che a sua volta necessita di
un’ampia area in piano a servizio, la cui realizzazione si
rivela ulteriormente sacrificativa dell’assetto morfologico
dei luoghi.
In secondo luogo, l’assunto recepito dalla gravata sentenza
appare erroneo per erronea interpretazione delle Norme di
attuazione del detto Piano paesistico regionale.
Di queste, la prescrizione dell’art. 13 (Aree di montagna),
comma 9, riguarda un vincolo di inedificabilità (“Nelle
aree di montagna sono vietati interventi di nuova
edificazione o sistemazione del terreno ricadenti in un
intorno di 50 m per lato dai sistemi di vette e crinali
montani e pedemontani individuato nella Tavola P4, fatti
salvi gli interventi strettamente necessari per la difesa
del suolo e la protezione civile”) che da parte della
società interessata si assume non riferibile agli interventi
per la produzione e la distribuzione di energia.
Rileva qui il Collegio che la questione se la previsione di
una tale inedificabilità assoluta –che in sé è in linea con
la possibilità che un piano paesaggistico possa introdurre
ulteriori vincoli paesaggistici, detti del “terzo genere”
(art. 134, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 42 del 2004; cfr.
Cons. Stato, VI, 03.03.2011, n. 1366) rispetto a quelli
amministrativi e legali- sia in sé ostativa anche agli
impianti eolici appare nel caso presente corretta posto che
la sua ratio (tutela del paesaggio) facilmente
conduce, per la finalità della norma, all’assimilazione di
questi impianti alle costruzioni vere e proprie, dato che si
verte di impatto visivo e non essendo quello delle torri
eoliche inferiore a quello ordinario dei manufatti. È
comunque qui il caso di rilevare che questa assimilazione,
poi, per sua natura esclude ogni discriminazione rispetto ad
altri manufatti: il che toglie qualsiasi assimilabilità con
i divieti generalizzati di soli impianti eolici
indebitamente altrove previsti a livello regionale, quali
evocati dalle ultime memorie dell’impresa.
Ma anche indipendentemente da ogni considerazione del genere
sulla ricomprensione delle torri eoliche e relative opere in
quei concetti di “nuova edificazione o di sistemazione
del terreno”, sta nella specie di fatto che, prima
ancora, appare risolutivo il precedente comma 8, lett. b),
che prescrive che questi impianti debbano in ogni caso “garantire
il rispetto dei fattori caratterizzanti la componente
montagna quali crinali e vette di elevato valore scenico e
panoramico”.
Va qui considerato, diversamente dalla valutazione del primo
giudice, che questa è una prescrizione non speciale, né
senz’altro legittimante detti impianti (tale cioè per cui
questi, se non espressamente vietati, sarebbero comunque da
ammettere e indipendentemente dall’esito negativo di un
giudizio di compatibilità paesaggistica). Una tale
interpretazione, invero, negherebbe alla radice gli effetti
del vincolo e in ultimo lo stesso giudizio di compatibilità
in concreto, senza che ciò sia consentito dalla legge.
Del resto, al giurisprudenza di questo Consiglio di Stato
già da tempo ha messo in luce che “il piano paesistico
[…] non può mai derogare, […] per categorie di opere, alla
necessità dell’autorizzazione, perché la valutazione di
compatibilità che presiede all’autorizzazione costituisce
l’effetto legale tipico del vincolo, ed escluderla
significherebbe derogare al vincolo stesso affrancandone
ambiti o interventi: cosa questa che solo la legge statale
può fare. [...] Pertanto […] il piano deve anzitutto […]
individuare, in negativo, gli interventi che, per la loro
inconciliabilità con il contesto, si pongono in posizione di
incompatibilità assoluta con i valori salvaguardati dal
vincolo: per questi il piano introduce un regime di
immodificabilità per determinate zone, o per categorie di
opere che sono reputate comunque incompatibili con i valori
protetti, e dunque non sono realizzabili: per queste […] il
giudizio di incompatibilità viene effettuato una volta per
tutte, sì che poi non può esservi più nemmeno luogo
all’autorizzazione. […] Invece, per le restanti zone, come
per le restanti opere, dove –non essendovi ragione di
introdurre questa presunzione di incompatibilità– la
compatibilità continua a dover essere valutata in concreto,
rimane necessario –per l’effetto proprio del vincolo– il
giudizio tecnico-discrezionale rispetto alla conservazione
dei valori espressi da quelle località, da compiersi con la
singola autorizzazione […]” (Cons. Stato, II, n. 548/98
del 20.05.1998).
Piuttosto va considerato che –come non è vietato a un piano
paesaggistico– la previsione in questione è patentemente
riassuntiva, e dunque giuridicamente ripetitiva, del
concetto di valutazione concreta di compatibilità
paesaggistica. A questa solo aggiunge alcune ipotesi di
presunzione di incompatibilità (es. quando c’è contrasto con
“la programmazione settoriale di livello provinciale o
regionale, ove vigente, o con gli indirizzi approvati dalla
Giunta regionale”).
Il relativo apprezzamento di incompatibilità, qui fatto
dalla Soprintendenza e dalla Regione, rientra
nell’insindacabile discrezionalità tecnica di quelle
amministrazioni. Questo apprezzamento (che per le ragioni
sostanziali che qui si ripetono non comporta affatto il
dovere di “un bilanciamento tra l’interesse paesaggistico
e gli altri interessi concorrenti”) risulta non
irragionevolmente o incongruamente svolto da entrambe,
Soprintendenza e Regione Piemonte. Di quell’apprezzamento,
in sede di giudizio di rispettiva competenza di base, hanno
fatto corretto uso le due amministrazioni, anche perché non
è comunque irragionevole considerare che l’inedificabilità
assoluta che, per difesa del paesaggio, colpisce a norma di
Piano paesaggistico gli edifici, non sia comunque un
parametro incongruo per apprezzare in concreto negativamente
l’impatto sul medesimo paesaggio di torri eoliche, la cui
visibilità non è certo minore di quella di veri e propri
manufatti edili.
Del resto, dagli atti negativi di base impugnati vengono
anche additate ragioni sostanziali di impatto sul paesaggio.
Già nel parere negativo del 03.12.2007 la Soprintendenza per
i beni architettonici e per il paesaggio del Piemonte, dopo
aver esaminato l’intervento programmato nella sua effettiva
consistenza (anche in relazione alle connesse opere
infrastrutturali), rileva che “i generatori eolici per le
loro dimensioni, quantità e posizione risultano parzialmente
visibili anche dal castello di Casotto e dalla Correria,
beni di particolare interesse storico, artistico e
architettonico, tutelati ai sensi della parte II del d.lgs
n. 42 del 2004, su cui la Regione Piemonte in collaborazione
con la Soprintendenza scrivente ha elaborato di recente un
progetto di restauro e recupero funzionale”.
In altra parte dello stesso parere si osserva come da un
punto di vista paesaggistico l’impatto del parco eolico, pur
a seguito della riduzione a diciannove del numero degli
aerogeneratori, sia comunque notevole e che, anche avuto
riguardo alla necessità di realizzare, per ogni generatore,
un plinto in calcestruzzo armato emergente fuori terra per
una superficie di sedici metri quadrati e una piazzola
antistante, le opere risultano visibili e di impatto
panoramico negativo anche dalla vetta del Bric Mindino.
Inoltre la Soprintendenza, prima di concludere che le opere
in progetto comprometterebbero in modo irreversibile
un’ampia area omogenea ed integra sotto il profilo
paesaggistico, valuta la negativa incidenza delle
consistenti opere infrastrutturali, quali soprattutto le
strade necessarie al passaggio dei mezzi pesanti e la
sottostazione enel con cabina di trasformazione, che a sua
volta necessita di un’ampia area in piano a servizio, la cui
realizzazione si rivela ulteriormente sacrificativa
dell’assetto morfologico dei luoghi (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 15.01.2013 n. 220
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Rifiuti. Avvalimento e servizio di raccolta differenziata e
trasporto dei rifiuti solidi urbani.
Nel caso di affidamento del servizio di raccolta
differenziata e trasporto dei rifiuti solidi urbani con
sistema porta a porta, l’avvalimento, così come configurato
dalla legge, deve essere reale e non formale, nel senso che
non può considerarsi sufficiente “prestare” la
certificazione posseduta assumendo impegni assolutamente
generici, giacché in questo modo verrebbe meno la stessa
essenza dell’istituto, finalizzato non già ad arricchire la
capacità tecnica ed economica del concorrente, bensì a
consentire a soggetti che ne siano sprovvisti di concorrere
alla gara ricorrendo ai requisiti di altri soggetti,
garantendo l’affidabilità dei lavori, dei servizi o delle
forniture appaltati.
- Vista la censura proposta in primo grado mediante ricorso
incidentale da Avr s.p.a. e riproposta con memoria in
appello, secondo la quale il contratto di avvalimento tra la
Diodoro Ecologia s.r.l. e l’ausiliaria C.i.p.e.f. sarebbe
inidoneo a garantire la stazione appaltante in ordine alla
serietà ed effettività della messa a disposizione delle
risorse oggetto di avvalimento, per cui, conseguentemente,
l’appellante Diodoro Ecologia sarebbe stata in ogni caso del
tutto priva del requisito dell’iscrizione alla categoria 10b
dell’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali inerente la
bonifica da amianto;
- Ritenuto che il contratto di avvalimento in parola si
limita a stabilire che “l’Ausiliaria…si obbliga nei
confronti dell’Impresa, come sopra rappresentata, nonché
della Stazione Appaltante Comune di Riano, a norma dell’art.
49 co. 2, lett. f), D.Lgs. 163/2006, a fornire il requisito
cui l’Impresa è carente, …nonché a mettere a disposizione i
mezzi e attrezzature necessarie, per tutta la durata
dell’appalto”, mentre gli impegni assunti
dall’Ausiliaria a favore dell’Impresa saranno
dettagliatamente regolati con separata scrittura privata, in
caso di aggiudicazione della procedura alla Diodoro Ecologia
s.r.l.;
- Ritenuto che il contratto in questione è in buona sostanza
una mera ripetizione del testo dell’art. 49, co. 2, D.Lgs.
n. 163/2006, il quale richiede l’allegazione all’offerta di
“una dichiarazione sottoscritta dall’impresa ausiliaria
con cui quest’ultima si obbliga verso il concorrente e verso
la stazione appaltante a mettere a disposizione per tutta la
durata dell’appalto le risorse necessarie di cui è carente
il concorrente” e del “contratto in virtù del quale
l’impresa ausiliaria si obbliga nei confronti del
concorrente a fornire i requisiti e a mettere a disposizione
le risorse necessarie per tutta la durata dell’appalto”;
- Considerato che l’avvalimento, così come configurato dalla
legge, deve essere reale e non formale, nel senso che non
può considerarsi sufficiente “prestare” la certificazione
posseduta (Cons. Stato, III, 18.04.2011, n. 2343) assumendo
impegni assolutamente generici, giacché in questo modo
verrebbe meno la stessa essenza dell’istituto, finalizzato
non già ad arricchire la capacità tecnica ed economica del
concorrente, bensì a consentire a soggetti che ne siano
sprovvisti di concorrere alla gara ricorrendo ai requisiti
di altri soggetti (C.d.S., sez. V, 03.12.2009, n. 7592),
garantendo l’affidabilità dei lavori, dei servizi o delle
forniture appaltati;
- Rilevato inoltre che la responsabilità solidale, che viene
assunta con il contratto di avvalimento da parte
dell’impresa ausiliaria nei confronti dell’amministrazione
appaltante relativamente ai lavori oggetto dell’appalto, e
che discende direttamente dalla legge e si giustifica
proprio per l’effettiva partecipazione dell’impresa
ausiliaria all’esecuzione dell’appalto (Cons. Stato, VI,
13.05.2010, n. 2956, secondo cui l’impresa ausiliaria
diventa titolare passivo di un’obbligazione accessoria
dipendente rispetto a quella principale del concorrente,
obbligazione che si perfeziona con l’aggiudicazione a favore
del concorrente ausiliato, di cui segue le sorti), non si
può rinvenire nel caso di specie, mancando del tutto
l’autentica messa a disposizione di risorse, mezzi o di
altro elemento necessario, rinviata ad un inammissibile
futuro contratto da stipularsi in caso di aggiudicazione
alla Diodoro Ecologia (per tutto Cons. Stato, V, 18.11.2011,
n. 6079) (massima tratta da www.lexambiente.it
- Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 10.01.2013 n. 90
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rumore. Legittimità ordinanza Sindaco sospensione attività
autolavaggio per inquinamento acustico.
E’ legittima l’ordinanza comunale di immediata sospensione
delle attività relative all’autolavaggio, che condiziona
inoltre, la ripresa dell’attività medesima alla
dimostrazione di aver eseguito, nei successivi 30 giorni
dalla notifica, adeguati interventi tecnici ed organizzativi
finalizzati a garantire il contenimento delle immissioni
rumorose, negli ambienti abitativi limitrofi ed ambiente
esterno, entro i limiti previsti dalla normativa vigente.
Infatti, dai rilievi effettuati dall’ARTA Abruzzo nel
periodo diurno di osservazione, è stato rilevato il
superamento del valore limite differenziale di livello
sonoro relativamente al rumore ambientale. Sul punto,
occorre considerare che (mentre i limiti assoluti
d'immissione hanno la finalità primaria di tutelare
dall'inquinamento acustico l'ambiente inteso in senso ampio)
i valori limite differenziali, facendo specifico riferimento
al rumore percepito dall'essere umano, mirano ancor più
specificamente alla salvaguardia della salute pubblica ex
articolo 32 della Carta Costituzionale.
Il ricorrente ha impugnato il provvedimento con il quale il
Sindaco del Comune di Scafa gli ha ordinato “l’immediata
sospensione delle attività relative all’autolavaggio sito in
via Tiburtina Valeria ss. 5 di Scafa (Pe)”,
condizionando la ripresa dell’attività medesima alla
dimostrazione di aver eseguito, nei successivi 30 giorni
dalla notifica del provvedimento stesso, “adeguati
interventi tecnici ed organizzativi finalizzati a garantire
il contenimento delle immissioni rumorose, negli ambienti
abitativi limitrofi ed ambiente esterno, entro i limiti
previsti dalla normativa vigente”.
Il provvedimento impugnato si basa su dei rilievi
fonometrici effettuati dal personale del dipartimento
provinciale dell’Arta Abruzzo, all’interno di un’abitazione
limitrofa all’impianto di autolavaggio del ricorrente,
considerato come sorgente disturbante.
Da tali rilievi è emerso, nel periodo diurno di
osservazione, il superamento del valore limite differenziale
di livello sonoro relativamente al rumore ambientale (cfr.
il provvedimento impugnato).
...
Il ricorso è infondato.
...
Il Collegio, pur dando atto dell’orientamento di parte della
giurisprudenza, favorevole alla prospettazione del
ricorrente in merito ai limiti differenziali (cfr. Tar
Parma, sentenza n. 385 del 2008), basato peraltro sul mero
dato letterale della norma regolamentare; ritiene tuttavia
maggiormente convincente l’altro orientamento (cfr. Tar
Lecce, sentenza n. 5639 del 2006), che si è formato pur
sempre in materia di ordinanze sindacali adottate ai sensi
dell'articolo 9 primo comma della legge quadro
sull'inquinamento acustico n. 447 del 1995 ("Qualora sia
richiesto da eccezionali ed urgenti necessità di tutela
della salute pubblica o dell'ambiente il Sindaco .... con
provvedimento motivato può ordinare il ricorso temporaneo a
speciali forme di contenimento o di abbattimento delle
emissioni sonore, inclusa l'inibitoria parziale o totale di
determinate attività").
Difatti, occorre considerare che (mentre i limiti assoluti
d'immissione hanno la finalità primaria di tutelare
dall'inquinamento acustico l'ambiente inteso in senso ampio)
i valori limite differenziali, facendo specifico riferimento
al rumore percepito dall'essere umano, mirano ancor più
specificamente alla salvaguardia della salute pubblica.
Coerentemente con tale ratio e premessa, già prima
dell'entrata in vigore della legge 26.10.1995 n. 447 e del
conseguente d.p.c.m. 14.11.1997, l'articolo 6 del d.p.c.m.
01.03.1991 prevedeva l'applicazione sia di limiti massimi in
assoluto (primo comma) sia di valori limite differenziali
per le zone non esclusivamente industriali (secondo comma).
Ne consegue che la disposizione transitoria dettata
dall'art. 8 del citato d.p.c.m. 14.11.1997 (che testualmente
si limita soltanto a prevedere l'applicazione -sino
all'avvenuta zonizzazione di cui all'art. 6 lettera "a"
della legge n. 447/1995- dei limiti assoluti di
accettabilità di immissione sonora previsti dal primo comma
dell'articolo 6 del predetto d.p.c.m. 01.03.1991) non può
essere correttamente interpretata (tenuto conto delle
finalità di forte tutela del bene salute complessivamente
perseguite dalla legge quadro sull'inquinamento acustico)
nel significato (contrastante con l'art. 32 della Carta
Costituzionale) di escludere del tutto, arbitrariamente,
l'operatività del criterio dei valori limite differenziali
d'immissione (pur contemplato dall'art. 4 del d.p.c.m.
14.11.1997 e, come detto, già fissato dal secondo comma
dell'art. 6 del d.p.c.m. 01.03.1991), nel territorio di quei
Comuni che non abbiano ancora provveduto all'approvazione
del c.d. piano di zonizzazione acustica (cfr. Tar Lecce,
sentenza n. 488 del 2006 e sentenza n. 5639 del 2006).
In sostanza, l'art. 8 del d.p.c.m. 14.11.1997 deve essere
disapplicato (sulla disapplicazione d’ufficio dei
regolamenti illegittimi, ad opera del giudice
amministrativo, cfr. ad esempio Consiglio di Stato, sentenza
n. 1169 del 2009; Tar Cagliari, sentenza n. 1093 del 2003),
per incostituzionalità, laddove -nel disporre che “In
attesa che i comuni provvedano agli adempimenti previsti
dall'art. 6, comma 1, lettera a), della legge 26.10.1995, n.
447 (15), si applicano i limiti di cui all'art. 6, comma 1,
del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri
01.03.1991”– limita il rinvio all’articolo 6 del d.p.r.
01.03.1991 al solo primo comma (massima tratta da www.lexambiente.it
- TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 10.01.2013 n. 6 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti Bonifica di siti inquinati, responsabilità del
proprietario dell’area.
L’adozione di provvedimenti per disporre
bonifiche di siti inquinati non può prescindere da un
accurato e preventivo accertamento degli estremi
dell’inquinamento e della collegata situazione di pericolo
nonché da una approfondita valutazione dell’inefficacia di
altre possibili misure alternative a quelle che si intende
disporre.
In una materia di particolare delicatezza come quella
ambientale la Pubblica Amministrazione è tenuta a valutare
in termini comparativi vantaggi e svantaggi delle diverse
soluzioni adottabili ed a fornire prova di detta
valutazione, anche in relazione al conseguente rapporto
costi benefici delle soluzioni prescelte.
Il d.lgs. n. 152/2006 stabilisce che l’obbligo di bonifica è
in capo al responsabile dell’inquinamento che le autorità
amministrative hanno l’onere di individuare e ricercare
(artt. 242 e 244); che il proprietario dell’area non
responsabile dell’inquinamento o altri soggetti interessati
hanno solo la facoltà di effettuare interventi di bonifica
(art. 245); che nel caso di mancata individuazione del
responsabile o di assenza di interventi volontari, le opere
di bonifica sono realizzate dalle Amministrazioni competenti
(art. 250) che, a fronte delle spese sostenute, si vedono
riconosciuto un privilegio speciale immobiliare sul fondo
(253).
Ne consegue che, laddove l’Amministrazione non provi che
l’inquinamento riscontrabile nel sito sia imputabile al
proprietario dell’area, a quest’ultimo non può essere
imposto alcun obbligo di adottare misure di bonifica in
un’ottica di recupero del sito. Deve, inoltre, aggiungersi
che la giurisprudenza ha sottolineato la necessità del
rigoroso accertamento del nesso di causalità fra il
comportamento del “responsabile” ed il fenomeno
dell’inquinamento, affermando che tale accertamento deve
essere fondato su una adeguata motivazione e su idonei
elementi istruttori nonché “su prove e non su mere
presunzioni”.
Il d.lgs. n. 152 del 2008 (Codice dell’Ambiente) stabilisce
che l’obbligo di bonifica è in capo al responsabile
dell’inquinamento che le autorità amministrative hanno
l’onere di individuare e ricercare (artt. 242 e 244); che il
proprietario dell’area non responsabile dell’inquinamento o
altri soggetti interessati hanno solo la facoltà di
effettuare interventi di bonifica (art. 245); che nel caso
di mancata individuazione del responsabile o di assenza di
interventi volontari, le opere di bonifica sono realizzate
dalle Amministrazioni competenti (art. 250) che, a fronte
delle spese sostenute, si vedono riconosciuto un privilegio
speciale immobiliare sul fondo (253).
Ne consegue che, contrariamente a quanto sostenuto
dall’appellante, laddove l’Amministrazione non provi che
l’inquinamento riscontrabile nel sito sia imputabile alle
società appellate, a queste ultime non può essere imposto
alcun obbligo di adottare misure di bonifica in un’ottica di
recupero del sito. (Cons. di Stato, Sez. VI, 18.04.2011, n.
2376).
A quanto appena rilevato deve, inoltre, aggiungersi che la
giurisprudenza ha sottolineato la necessità del rigoroso
accertamento del nesso di causalità fra il comportamento del
“responsabile” ed il fenomeno dell’inquinamento,
affermando che tale accertamento deve essere fondato su una
adeguata motivazione e su idonei elementi istruttori nonché
“su prove e non su mere presunzioni” (Cons. di Stato,
Sez. VI, 05.09.2005, n. 4525).
Infine, a conferma di quanto fin qui sostenuto occorre
rilevare che anche la giurisprudenza comunitaria si è
orientata nei termini che precedono, ritenendo, anche se per
fattispecie diversa, che l’addebito dei costi dello
smaltimento dei rifiuti a soggetti che non li hanno prodotti
sarebbe incompatibile con il principio “chi inquina paga”
(Corte di Giustizia, Grande Sezione, 24.06.2008, n. 188) (massima
tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.01.2013 n. 56 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
INTERVENTI EDILIZI ‘‘PERTINENZIALI’’ E LORO (IR)RILEVANZA
PENALE
Affinché un manufatto presenti il carattere della
pertinenza,
e` necessario che abbia una propria individualità,
che sia oggettivamente preordinato a soddisfare le esigenze
di un edificio principale legittimamente costruito,
che sia fornito di autonomo valore di mercato, che abbia
ridotte dimensioni, che sia insuscettibile di destinazione
autonoma e che non si ponga in contrasto con gli strumenti
urbanistici vigenti.
La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi, con la sentenza
in commento, sulla natura giuridica del manufatto
pertinenziale,
individuando i caratteri che ne consentono l’inquadramento
nella categoria degli interventi edilizi privi di rilevanza
penale.
La vicenda processuale trae origine da un
procedimento
penale per il reato di cui all’art. 44, lett. b), D.P.R. n.
380 del 2001, contestato all’imputato per avere questi, in
assenza
di concessione edilizia, senza permesso di costruire,
abusivamente realizzato con più azioni esecutive di uno
stesso disegno criminoso in un edificio di sua proprietà un
magazzino garage in muratura di circa mq 14,05 e al primo
piano due vani ulteriori rispettivamente di circa mq 12,78 e
mq 18,47, nonché un balcone di metri quadri 12,00 collegato
con il tetto del locale abusivo costruito al piano terra.
In
sede
di merito, l’imputato, previa riqualificazione del fatto nel
reato
di cui all’art. 44, lett. a), D.P.R. n. 380 del 2001, in
luogo
dell’art. 44, lett. b), effettuata sul presupposto di
realizzazione
di una pertinenza, era stato dichiarato colpevole e
condannato
alla sola pena dell’ammenda. Contro la sentenza di condanna
proponeva ricorso per cassazione la Procura Generale
della Repubblica presso la Corte d’appello, adducendo quale
unico motivo l’erronea qualificazione della contravvenzione
contestata, non sussistendo pertinenza bensì ampliamento
volumetrico del precedente fabbricato, che pertanto richiede
il rilascio di permesso.
La prospettazione accusatoria è stata accolta dalla Corte
di
Cassazione che ha, infatti, annullato con rinvio la sentenza
impugnata osservando che la dimensione e la conformazione
delle strutture costruite, tali da renderle parte integrante
dell’edificio e da aumentarne la volumetria, dimostravano
l’insussistenza dei presupposti per la loro qualificazione
come
pertinenza, e quindi la necessità del rilascio di permesso,
come correttamente prospettato nel ricorso.
La decisione
merita ampia e convinta condivisione, soprattutto tenuto
conto del fatto che la stessa si inserisce in un filone
giurisprudenziale
di legittimità collaudato (e consolidato), secondo
cui in materia edilizia, affinché un manufatto presenti il
carattere della pertinenza si richiede che abbia una propria
individualità, che sia oggettivamente preordinato a
soddisfare
le esigenze di un edificio principale legittimamente
edificato,
che sia sfornito di autonomo valore di mercato, che abbia
ridotte dimensioni, che sia insuscettibile di destinazione
autonoma e che non si ponga in contrasto con gli strumenti
urbanistici vigenti (v., da ultimo, in senso conforme: Cass.
pen., sez. III, 03.07.2012, n. 25669, in Ced Cass., n.
253064) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.01.2013 n. 519
- commento tratto da
Urbanistica e Appalti n. 3/2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
LE DIFFERENZE ‘‘ONTOLOGICHE’’ TRA IL CONDONO
E LA SANATORIA.
Gli istituti della sanatoria e del condono edilizio sono
tra loro differenti, in quanto la fattispecie penale
estintiva,
oggi contemplata dall’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001,
presuppone l’accertamento dell’inesistenza del danno
urbanistico a mezzo della verifica della doppia conformità
agli strumenti urbanistici vigenti, sia al momento del
rilascio della concessione in sanatoria sia al momento
della realizzazione dell’opera; diversamente, l’istituto
del condono prescinde dal rilascio del provvedimento
concessorio essendo autonomo e di natura transitoria, e
fondandosi sul limite temporale da un lato e,
sull’oblazione,
dall’altro.
La Corte Suprema coglie l’occasione, nell’esaminare la
questione
sottoposta alla sua attenzione, per delimitare il campo
di applicazione dell’istituto del condono edilizio e di
quello
della sanatoria edilizia, troppo spesso confusi nella
pratica
applicazione.
La vicenda processuale trae origine da una
sentenza di condanna per violazioni edilizie e antisismiche,
in particolare consistenti nell’aver realizzato una
costruzione
edilizia abusiva, costituita da una ristrutturazione in
totale difformità
di due manufatti a tre elevazioni fuori terra con la
struttura in cemento armato, trasformati in un’unica
struttura
abitativa estesa circa 75 mq. e alta m. 9, senza il
prescritto
permesso di costruire e, appunto in violazione delle norme
antisismiche, senza l’autorizzazione dell’Ufficio del Genio
Civile,
con mancato rispetto delle prescrizioni tecniche per le
zone sismiche e con omessa denuncia dell’inizio dei lavori.
Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per
Cassazione
la difesa del condannato, sostenendo che, avendo
egli presentato già prima della sentenza un’istanza di
sanatoria,
i reati si sarebbero estinti e si sarebbe dovuto pronunciare
sentenza di non doversi procedere.
La tesi è stata respinta dai giudici di legittimità che,
sul punto,
nel dichiarare inammissibile il ricorso per genericità,
hanno
correttamente osservato come il ricorrente invoca in una
confusa commistione sia la sanatoria edilizia L. n. 47 del
1985, ex art. 13 -oggi D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36-
sia il
condono di cui al D.L. n. 269 del 2003 convertito con
modifiche
in L. n. 326 del 2003. Questi, infatti, sosteneva che «in
base al disposto della L. n. 326 del 2003, artt. 36 e ss., e
L.
n. 47 del 1985, art. 38 il rilascio della concessione
edilizia ai
sensi dell’art. 13 da parte della p.a. ... comporta
l’estinzione
dei reati».
In realtà, precisano condivisibilmente gli
Ermellini,
trattasi di istituti differenti, in quanto la fattispecie
penale
estintiva di cui al capo primo della L. 28.02.1985, n.
47, e in particolare di cui all’art. 13, come è noto ora
riversato
nell’art. 36 del Testo Unico delle disposizioni legislative
e
regolamentari in materia edilizia, presuppone l’accertamento
dell’inesistenza del danno urbanistico a mezzo della
verifica
della doppia conformità agli strumenti urbanistici vigenti
sia
al momento del rilascio della concessione in sanatoria sia
al
momento della realizzazione dell’opera (v., sul punto: Cass.
pen., sez. III, 18.12.2003, n. 48499; Cass. pen., sez.
III, 18.03.2002, n. 11149) laddove l’istituto del condono
(previsto dal capo quarto della L. n. 47 del 1985, artt. 31
ss.,
e successivamente riproposto dalla L. n. 724 del 1994 e
seguenti
modifiche nonché infine dalla già richiamata normativa
del 2003, a sua volta soggetta successive modifiche di
proroga del termine) prescinde dal rilascio del
provvedimento
concessorio essendo autonomo e di natura transitoria, e
fondandosi sul limite temporale da un lato e sull’oblazione
dall’altro (cfr. Cass. pen., sez. III, 28.09.1988, n.
10307). Sanzione processuale conseguente all’ambiguità
evidente connotante tutto il motivo, privandolo di
specificita`
e chiarezza, è quella dell’inammissibilità per genericità
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.01.2013 n. 506
- commento tratto da Urbanistica e Appalti n. 3/2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Beni ambientali. Nulla osta negativo Ente Parco necessita di
preavviso di rigetto.
In caso nulla osta negativo dell’Ente Parco è necessaria la
comunicazione di motivi ostativi ex art. 10-bis della l.
241/1990 in quanto il parere di competenza dell’Ente
nell’economia del procedimento di condono non è un semplice
parere, atto cioè endoprocedimentale che consenta di
posticipare la comunicazione dei motivi ostativi alla fase
successiva che fa capo al solo comune, ma è al contrario un
vero e proprio nulla osta obbligatorio e vincolante,
analogamente al parere dell’amministrazione dei beni
culturali nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica.
La comunicazione ex art. 10-bis della l. 241/1990 consente
alla parte istante di rappresentare le proprie ragioni per
una inversione di senso del procedimento.
Il ricorso è fondato
e deve essere accolto in relazione alla censura dedotta con
il primo motivo con il quale si denuncia la violazione
dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990 il virtù del quale
“Nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del
procedimento o l'autorità competente, prima della formale
adozione di un provvedimento negativo, comunica
tempestivamente agli istanti i motivi che ostano
all'accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci
giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti
hanno il diritto di presentare per iscritto le loro
osservazioni, eventualmente corredate da documenti. La
comunicazione di cui al primo periodo interrompe i termini
per concludere il procedimento che iniziano nuovamente a
decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o,
in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al secondo
periodo. Dell'eventuale mancato accoglimento di tali
osservazioni è data ragione nella motivazione del
provvedimento finale. Le disposizioni di cui al presente
articolo non si applicano alle procedure concorsuali e ai
procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti
a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti
previdenziali. Non possono essere addotti tra i motivi che
ostano all'accoglimento della domanda inadempienze o ritardi
attribuibili all'amministrazione”.
Poiché nella fattispecie, per un verso, non risulta
contestata l’omissione della comunicazione di motivi
ostativi e, per l’altro, appare condivisibile la linea
difensiva svolta dalla ricorrente, che assume la necessità
della comunicazione omessa -in quanto il parere di
competenza dell’Ente Parco nell’economia del procedimento di
condono non è un semplice parere, atto cioè
endoprocedimentale che consenta di posticipare la
comunicazione dei motivi ostativi alla fase successiva che
fa capo al solo comune, ma è al contrario un vero e proprio
nulla osta obbligatorio e vincolante, analogamente al parere
dell’amministrazione dei beni culturali nel procedimento di
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, deve ritenersi
che omissione dei motivi ostativi al rilascio dell’assenso
del Parco (che avrebbe consentito alla parte istante di
rappresentare le proprie ragioni per una inversione di senso
del procedimento)- il ricorso sotto il profilo in esame deve
ritenersi fondato; e ciò di per sé è sufficiente per il suo
accoglimento con il conseguente annullamento del decreto
impugnato
(massima tratta da
www.lexambiente.it - TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 08.01.2013 n. 27 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: PERTINENZE ED AGEVOLE AMOVIBILITA`: NO AL CRITERIO
STRUTTURALE
Ai fini del riscontro del connotato della precarietà e
della
relativa esclusione della modifica dell’assetto del
territorio,
non sono rilevanti le caratteristiche costruttive, i
materiali impiegati e l’agevole rimovibilità, ma le
esigenze
temporanee alle quali l’opera eventualmente assolva.
Altra decisione della Corte sul tema della natura
pertinenziale
dell’intervento edilizio, stavolta, però, applicata con
riferimento
al regime di favore previsto dalla disciplina edilizia
fissata
dalla regione Sicilia.
La vicenda processuale vedeva
imputati
del reato edilizio e antisismico due soggetti ai quali
era stato addebitato di avere realizzato, in qualità di
committenti,
una trasformazione edilizia ed urbanistica in assenza di
concessione edilizia, con una sopraelevazione di un
manufatto,
mediante innalzamento dell’esistente parapetto in muratura
di un lastrico solare con blocchi di pomicemento e
realizzazione di muri perimetrali e copertura in lamierino
coibentato,
oltre a dodici pilastri, con violazione della disciplina
sulle opere in cemento armato.
Contro la sentenza di
condanna
proponeva ricorso per cassazione la difesa degli imputati,
sostenendo che i giudici di merito non avrebbero tenuto
conto del fatto che le opere realizzate rientravano in
quelle
soggette ad autorizzazione ai sensi della L.R. siciliana n.
37
del 1985, art. 5 e della L.R. n. 4 del 2003, art. 20,
ottenuta,
nel caso di specie, per il mantenimento della copertura del
lastrico solare con struttura precaria, oltre a lavori
interni: l’opera
andava quindi considerata precaria attesa l’agevole
amovibilità, indipendentemente dall’uso della stessa.
La tesi difensiva, pur suggestiva, non ha però superato il
rigoroso
vaglio dei giudici della Suprema Corte. Muovendo
dalla norma regionale invocata dai ricorrenti (L.R. Sicilia
16.04.2003, n. 4, art. 20), i giudici hanno osservato come
detta disposizione disciplina:
a) la chiusura di terrazze di
collegamento
e/o copertura di spazi interni con strutture precarie;
b) la realizzazione di verande, definite come «chiusure o
strutture precarie relative a qualunque superficie esistente
su balconi, terrazze e anche tra fabbricati»;
c) la
realizzazione
di altre strutture, comunque denominate (a titolo
esemplificativo si fa riferimento a tettoie, pensiline e
gazebo), che
vengono assimilate alle verande, a condizione che ricadano
su aree private, siano realizzate con strutture precarie e
siano
aperte da almeno un lato.
Secondo la predetta norma gli
interventi descritti non sono considerati aumento di
superficie
utile o di volume né modifica della sagoma della
costruzione
e sono da considerare strutture precarie tutte quelle
realizzate in modo tale da essere suscettibili di facile
rimozione.
Pertanto, nell’individuare alcune opere precarie non
soggette, in via di eccezione, a permesso di costruire la
legge
regionale fa riferimento ad un ‘‘criterio strutturale’’ (la
facile rimovibilità) piuttosto che al ‘‘criterio funzionale’’
(l’uso
temporaneo e provvisorio). Orbene, osservano gli Ermellini
come tali disposizioni non possono essere applicate al di
fuori dei casi espressamente previsti e vanno interpretate
in
modo restrittivo in ordine alla suscettibilità di facile
rimozione
(v., ad es.: Cass. pen., sez. III, 27.05.2009, n.
22054, in Ced Cass., n. 243710).
Nel caso di specie, dunque,
gli imputati avevano realizzato non già un’opera precaria,
ma un vero e proprio ampliamento di un manufatto
preesistente
mediante innalzamento, sicché, tenuto conto della
tipologia dell’intervento e dei materiali utilizzati, non
poteva
avere alcuna applicazione la richiamata disciplina regionale
relativa alla sufficienza dell’autorizzazione L.R. n. 4 del
2003,
ex art. 20 (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.01.2013 n. 180
- commento tratto da
Urbanistica e Appalti n. 3/2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Monetizzazione sostitutiva della cessione degli
standard.
Mentre il pagamento degli oneri di
urbanizzazione si risolve in un contributo per la
realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un
vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita
l’area interessata alla imminente trasformazione edilizia,
la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard
afferisce al reperimento delle aree necessarie alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria
all’interno della specifica zona di intervento e ciò vale ad
evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione
rispetto al contributo di concessione.
In proposito non può che richiamarsi il recente orientamento
della Sezione, formatosi proprio su fattispecie concernente
la monetizzazione prevista dal Comune di Putignano, che
giunge a conclusioni opposte sulla basi di un’analisi
articolata su due concorrenti profili:
a) natura e consistenza della prestazione pecuniaria
richiesta;
b) genesi e scaturigine della c.d. monetizzazione.
Secondo detto orientamento, quanto punto a), se da un lato è
pressoché irrilevante, ai fini in esame, la qualificazione
della monetizzazione come imposizione di tipo tributario o
come corrispettivo di diritto pubblico, dall’altro lato
assume, invece, significativo rilievo la considerazione che
la prestazione patrimoniale richiesta non vive in alcun modo
della natura e delle finalità proprie del contributo
concessorio costituito dagli oneri di urbanizzazione e dal
costo di costruzione che accompagna naturaliter
l’autorizzazione a costruire, la cui debenza o meno, quanto
al relativo accertamento, può essere fatta valere, in linea
generale, nei termini prescrizionali.
Invero, mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si
risolve in un contributo per la realizzazione delle opere
stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione
alla zona in cui è inserita l’area interessata alla
imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione
sostitutiva della cessione degli standard afferisce al
reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle
opere di urbanizzazione secondaria all’interno della
specifica zona di intervento; e ciò vale ad evidenziare la
diversità ontologica della monetizzazione rispetto al
contributo di concessione, di talché, sotto il versante
processuale, non si può utilizzare lo strumento dell’azione
di accertamento ammesso per contestare la legittimità del
contributo ex art. 3 o comunque la insussistenza di tale
obbligazione pecuniaria ancorché già assolta (cfr. Sez. IV,
16/02/2011, n. 1013) (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.12.2012 n. 6707 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rumore. Legittimità ordinanza contingibile e urgente in caso
di inquinamento acustico.
L’utilizzo del particolare potere di ordinanza contingibile
e urgente delineato dall’art. 9 della L. n. 447 del 1995
deve ritenersi “normalmente” consentito allorquando gli
appositi accertamenti tecnici effettuati dalle competenti
Agenzie Regionali di Protezione Ambientale rilevino la
presenza di un fenomeno di inquinamento acustico, tenuto
conto sia che quest’ultimo ontologicamente (per esplicita
previsione dell’art. 2 della stessa L. n. 447 del 1995)
rappresenta una minaccia per la salute pubblica, sia che la
legge quadro sull’inquinamento acustico non configura alcun
potere di intervento amministrativo ordinario che consenta
di ottenere il risultato dell’immediato abbattimento delle
emissioni sonore inquinanti.
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Non sussiste il vizio di incompetenza (ordinanza sindacale)
dedotto dalla società ricorrente, dal momento che la legge
non prevede un potere amministrativo “ordinario” –come tale
di competenza dirigenziale– che consenta di ottenere il
risultato dell’immediato abbattimento delle emissioni sonore
inquinanti. Pertanto, l’accertata presenza di un fenomeno di
inquinamento acustico, pur se non coinvolgente l’intera
collettività, appare sufficiente a concretare l’eccezionale
e urgente necessità di intervenire a tutela della salute
pubblica con l’efficace strumento previsto dall’art. 9 primo
comma della citata l. n. 447 del 1995.
L’utilizzo del particolare potere di ordinanza contingibile
e urgente delineato dall’art. 9 della L. 26.10.1995 n. 447
deve ritenersi “normalmente” consentito allorquando
gli appositi accertamenti tecnici effettuati dalle
competenti Agenzie Regionali di Protezione Ambientale
rilevino la presenza di un fenomeno di inquinamento
acustico, tenuto conto sia che quest’ultimo ontologicamente
(per esplicita previsione dell’art. 2 della stessa L. n. 447
del 1995) rappresenta una minaccia per la salute pubblica,
sia che la legge quadro sull’inquinamento acustico non
configura alcun potere di intervento amministrativo
ordinario che consenta di ottenere il risultato
dell’immediato abbattimento delle emissioni sonore
inquinanti (TAR Napoli, sez. V, 06.07.2001, n. 3556; TAR
Perugia sez. I, 22.10.2010, n. 492; TAR Firenze, sez. II,
16.06.2010, n. 1930).
Non sussiste il vizio di incompetenza dedotto dalla società
ricorrente, dal momento che la legge non prevede un potere
amministrativo “ordinario” –come tale di competenza
dirigenziale– che consenta di ottenere il risultato
dell’immediato abbattimento delle emissioni sonore
inquinanti. Pertanto, l’accertata presenza di un fenomeno di
inquinamento acustico, pur se non coinvolgente l’intera
collettività, appare sufficiente a concretare l’eccezionale
e urgente necessità di intervenire a tutela della salute
pubblica con l’efficace strumento previsto dall’art. 9 primo
comma della citata l. n. 447 del 1995 (TAR Brescia, sez. I,
30.08.2011, n. 1276; TAR Lecce, sez. I, 29.09.2011, n.
1663).
La mancata indicazione di un termine finale di efficacia del
provvedimento inibitorio è connaturata all’atto stesso,
destinato ad esaurire istantaneamente i propri effetti nel
momento stesso in cui l’intimato abbia realizzato gli
interventi di bonifica acustica prescritti dall’Autorità.
Neppure sussiste il vizio di difetto di istruttoria dedotto
dalla parte ricorrente, in quanto l’ordinanza n. 95/2007 si
è fondata sull’articolata relazione dell’ARPA n.
943/2007/AL-06 V.O2 e sugli esiti del relativo sopralluogo
del 12.09.2007.
Il richiamo espresso di tale relazione istruttoria
costituisce congrua motivazione (c.d. “per relationem”)
dell’atto impugnato, secondo quanto previsto dall’art. 3
della l. 241/90..
Infine, gli elementi di particolare urgenza (unitamente al
c.d. effetto “a sorpresa”, indispensabile per
l’efficacia dei controlli) che caratterizzano immanentemente
l’intero procedimento amministrativo diretto
all’abbattimento delle emissioni rumorose inquinanti, gli
conferiscono quella specialità che giustifica la deroga ai
principi generali in tela di partecipazione previsti dagli
artt. 7 e ss. L. 07.08.1990 n. 241 (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 21.12.2012 n. 1382
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Ristrutturazione “pesante” necessita nuovi
parcheggi.
Un intervento di ristrutturazione
“pesante”, comportante il frazionamento dell’originario
edificio in quattro nuove unità abitative e,
conseguentemente, un maggior carico urbanistico, il progetto
avrebbe potuto essere licenziato solo alla condizione che
fossero contestualmente realizzati i parcheggi di cui
all’art. 41-sexies L. 1150/1942, dovendo tale norma
applicarsi a tutti gli interventi che implicano un aumento
di carico urbanistico.
Il ricorso merita di essere accolto sulla assorbente
considerazione che il progetto assentito non prevede la
realizzazione di parcheggi ex art. 41-sexies L. 1150/1942.
Va preliminarmente rilevato che il Comune si é limitato a
contestare del tutto genericamente le allegazioni della
ricorrente, e ciò nell’ambito della comparsa di stile
depositata all’atto della costituzione in giudizio.
Conseguentemente il Collegio ritiene che quei fatti posti a
fondamento del ricorso i quali risultino supportati dalle
risultanze dei documenti prodotti dalla ricorrente possono
ritenersi dimostrati.
Ciò vale, in particolare, con riferimento alla censura
relativa ai parcheggi comuni di cui all’art. 41-sexies L.
1150/1942, della cui realizzazione non vi é traccia nel
capitolato delle opere oggetto della concessione edilizia
impugnata, che la ricorrente ha prodotto.
Ciò premesso, venendo in considerazione un intervento di
ristrutturazione “pesante”, comportante il
frazionamento dell’originario edificio in quattro nuove
unità abitative e, conseguentemente, un maggior carico
urbanistico, il progetto avrebbe potuto essere licenziato
solo alla condizione che fossero contestualmente realizzati
i parcheggi di cui all’art. 41-sexies L. 1150/1942, dovendo
tale norma applicarsi a tutti gli interventi che implicano
un aumento di carico urbanistico (tra le più recenti, si
veda TAR Liguria n. 592/2011) (massima tratta da www.lexambiente.it
- TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 21.12.2012 n. 1375 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La sostituzione edilizia costituisce una
modalità spinta della ristrutturazione edilizia.
La “sostituzione edilizia” costituisce,
già in se stessa, una modalità (segnatamente, la più spinta)
proprio della ristrutturazione edilizia, lo si evince sin
dalle norme che, a livello tanto nazionale quanto locale,
definiscono la seconda, ed ammettono che questa possa
atteggiarsi, al limite, anche in termini di demolizione e
successiva fedele ricostruzione di un fabbricato.
Dunque la conferma che la sostituzione edilizia, debba
intendersi pur sempre come una forma della ristrutturazione
edilizia, con la conseguente necessità di fare salve le
caratteristiche fondamentali della preesistenza.
D’altra parte, che la “sostituzione edilizia”
costituisca, già in se stessa, una modalità (segnatamente,
la più spinta) proprio della ristrutturazione edilizia, lo
si evince sin dalle norme che, a livello tanto nazionale
quanto locale, definiscono la seconda (art. 31 cit. lett.
d); art. 9, comma 2, del regolamento edilizio comunale), ed
ammettono che questa possa atteggiarsi, al limite, anche in
termini di demolizione e successiva –fedele- ricostruzione
di un fabbricato (in questo senso v. ad es., da ultimo,
C.d.S., IV, 10.08.2011, n. 4765).
Donde la conferma che la sostituzione edilizia, quale
disciplinata dall’art. 18 della variante, debba intendersi
pur sempre come una forma della ristrutturazione edilizia,
con la conseguente necessità di fare salve le
caratteristiche fondamentali della preesistenza (massima tratta da www.lexambiente.it
- Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 20.12.2012 n. 6592
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La modifica delle cabine di un stabilimento
balneare costituisce ristrutturazione edilizia.
La creazione di un sottotetto e la modifica di alcune
aperture delle cabine di una stabilimento balneare,
costituiscono nell’insieme, opera di ristrutturazione
edilizia con aumento di superficie utile, e non di
manutenzione straordinaria. Invero l’alterazione della
superficie utile e la modifica (trasformazione di porta in
oblò) delle aperture esterne esulano dalla definizione di
manutenzione straordinaria ex art. 3, comma 1, del d.p.r. n.
380/2001 e dall’attività edilizia libera prevista dall’art.
6, comma 2, lett. a, dello stesso d.p.r..
Al riguardo il Collegio ritiene di distinguere gli
interventi sulla casa di guardianaggio (rispetto ai quali il
motivo di ricorso è infondato) da quelli riguardanti le
cabine (per i quali la censura va accolta).
Nel primo caso rilevano la creazione di un sottotetto e la
modifica di alcune aperture, che nell’insieme costituiscono,
contrariamente a quanto ritenuto dalla deducente, opera di
ristrutturazione edilizia con aumento di superficie utile, e
non di manutenzione straordinaria (TAR Campania, Napoli, IV,
20.03.2012, n. 1374; TAR Sicilia, Catania, I, 02.07.2010, n.
2641; TAR Sicilia, Palermo, II, 24.05.2012, n. 1055). Invero
l’alterazione della superficie utile e la modifica
(trasformazione di porta in oblò) delle aperture esterne
esulano dalla definizione di manutenzione straordinaria ex
art. 3, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001 e dall’attività
edilizia libera prevista dall’art. 6, comma 2, lett. a,
dello stesso d.p.r..
Inoltre, ai sensi dell’art. 2, comma 2, della L.R. n. 5/2010
e del conseguente art. 62 del regolamento edilizio (comma 6)
invocato dalla deducente, gli interventi diretti al recupero
dei sottotetti sono classificati come ristrutturazione
edilizia.
Né può obiettarsi che il sottotetto è stato reso abitabile
in forza della normativa regionale (L.R. n. 5/2010), o
invocarsi l’effetto legittimante dell’art. 62 del
regolamento edilizio, il quale ammette il recupero abitativo
dei sottotetti negli edifici a destinazione residenziale.
Infatti la casa di guardianaggio, costituendo abitazione del
custode a servizio dello stabilimento balneare ed essendo
strettamente funzionale alla sorveglianza dello stabilimento
stesso, e non assolvendo quindi alla destinazione
residenziale in sé su cui invece si incentra la disciplina
eccezionale sul recupero dei sottotetti, costituisce
accessorio della struttura balneare.
Pertanto essa non può qualificarsi come parte integrante di
un complesso residenziale (massima
tratta da www.lexambiente.it - TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 20.12.2012 n. 2106 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Beni Ambientali. Incompatibilità ambientale di un parco
eolico in prossimità di SIC e in territorio con vincolo
paesistico.
E’ legittima la pronuncia di
compatibilità ambientale negativa per la realizzazione di un
parco eolico costituito da 16 aerogeneratori della potenza
unitaria di 2 MW, con una altezza massima della torre di 125
m. L'area interessata dall’intervento si inserisce in un
contesto più ampio di assoluto valore naturalistico
testimoniato dalla presenza di quattro siti di interesse
comunitario (SIC) istituiti soprattutto per la conservazione
di importanti popolazioni di specie di uccelli legati ad
ambienti aperti soprattutto di media ed alta montagna oggi
minacciate dalla scomparsa dell'habitat.
Lo stesso studio di impatto ambientale non può non ammettere
che la realizzazione delle pale eoliche determinerebbe una
frequenza non indifferente di abbattimento di specie rare e
assai protette, tra le quali spicca l’aquila, con la
conseguenza che vista la limitata consistenza di tale
popolazione nell'Appennino settentrionale è probabile che
anche una bassa mortalità aggiuntiva sia in grado di causare
significativi problemi di conservazione, e che non sono
prevedibili al riguardo misure di mitigazione efficaci.
Inoltre, anche sotto il profilo paesaggistico si evidenzia
che il vincolo apposto sull'area finirebbe con l'essere
compromesso dall'installazione delle pale eoliche avuto
riguardo, da un lato al carattere unitario del bene di cui
trattasi, altro all'imponenza delle strutture da realizzare
che non potrebbero non avere un impatto visivo incompatibile
con le caratteristiche dell'area e, in ogni caso, non
mitigabile attraverso operazioni di rimboschimento.
Quanto alla contraddittorietà tra il parere favorevole
espresso inizialmente dalla Soprintendenza rispetto allo
studio di impatto ambientale presentato dalla ricorrente è
quello negativo manifestato sulla documentazione
integrativa, non pare che tale vizio sia riscontrabile
atteso che l'organo statale ha potuto esprimere
compiutamente il proprio parere proprio alla luce delle
successive integrazioni depositate dall'interessata e tenuto
conto delle valutazioni espresse dalle altre amministrazioni
interessate.
In ordine gli altri aspetti contestati, va in primo luogo
rammentato che in materia l'amministrazione esprime un
apprezzamento discrezionale che non è sindacabile nel
giudizio di legittimità se non per la sua illogicità o per
il travisamento dei fatti che, tuttavia, nella fattispecie
non appaiono sussistere.
Infatti, nel corso del procedimento e sulla base della
stessa documentazione depositata dalla ricorrente, è emerso
in ordine al monitoraggio degli effetti dell'impianto
sull'avifauna che il sito "è caratterizzato la presenza
di un popolamento di rapaci diurni nidificanti abbastanza
diversificato, cui si aggiungono individui di aquila reale,
falco pellegrino e biancone" e che il sito "sembra
rivestire una certa importanza, in particolare nel periodo
autunnale, come area di caccia per l'aquila reale".
Inoltre l'area interessata si inserisce in un contesto più
ampio di assoluto valore naturalistico testimoniato dalla
presenza di quattro siti di interesse comunitario (SIC)
istituiti soprattutto per la conservazione di importanti
popolazioni di specie di uccelli legati ad ambienti aperti
soprattutto di media ed alta montagna oggi minacciate dalla
scomparsa dell'habitat.
Lo stesso studio di impatto ambientale presentato dalla
ricorrente non può non ammettere che la realizzazione delle
pale eoliche determinerebbe "una frequenza non
indifferente di abbattimento di specie rare e assai
protette, tra le quali spicca l’aquila" con la
conseguenza che, come si esprime in proposito il verbale
della conferenza di servizi, "attesa la limitata
consistenza di tale popolazione nell'Appennino
settentrionale è probabile che anche una limitata mortalità
aggiuntiva sia in grado di causare significativi problemi di
conservazione, e che non sono prevedibili al riguardo misure
di mitigazione efficaci".
Appare evidente dunque, che le problematiche affrontate
dalla conferenza di servizi conducono conclusioni che non
appaiono superabili.
D'altro canto, anche dal mero profilo paesaggistico,
l'istruttoria condotta affronta compiutamente le
problematiche connesse evidenziando che il vincolo
paesaggistico apposto sull'area finirebbe con l'essere
compromesso dall'installazione delle pale eoliche avuto
riguardo, da un lato al carattere unitario del bene di cui
trattasi, altro all'imponenza delle strutture da realizzare
che non potrebbero non avere un impatto visivo incompatibile
con le caratteristiche dell'area e, in ogni caso, non
mitigabile attraverso operazioni di rimboschimento (massima
tratta da www.lexambiente.it - TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 20.12.2012 n. 2027 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Peculato e uso del
telefono di ufficio.
Allorquando il pubblico ufficiale o
l'incaricato di pubblico servizio, disponendo, per ragione
dell'ufficio o del servizio, dell'utenza telefonica
intestata all'Amministrazione, la utilizza per effettuare
chiamate di interesse personale, il fatto lesivo si
sostanzia non nell'uso dell'apparecchio telefonico quale
oggetto fisico, bensì nell'appropriazione, che attraverso
tale uso si consegue, delle energie, entrate a far parte
della sfera di disponibilità della P.A., occorrenti per le
conversazioni telefoniche,
secondo cui è
configurabile il peculato ordinario, sempre che possa
riconoscersi un apprezzabile valore economico agli impulsi
utilizzati per ogni singola telefonata, ovvero anche per
l'insieme di più telefonate, quando queste siano talmente
ravvicinate nel tempo da poter essere considerate come
costituenti un'unica condotta.
All’udienza del 20.12.2012 nel proc. n. 47293/2011, ric. Vattani,
(per la quale non risulta ancora il deposito della
motivazione), le Sezioni Unite hanno affrontato la questione se
l’utilizzo per fini personali di utenza telefonica assegnata
per ragioni di ufficio integri o meno l’appropriazione
richiesta per la configurazione del delitto di peculato ex
art. 314, comma primo, cod. pen. ovvero una condotta
distrattiva o fraudolenta rispettivamente inquadrabile nel
delitto di abuso di ufficio o in quello di truffa aggravata
a danno dello Stato.
Relativamente all’uso del telefono d’ufficio per fini
privati, un primo e più remoto orientamento
giurisprudenziale ha ritenuto che integri il reato di
peculato d’uso ex art. 314, comma secondo, cod. pen. il
comportamento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un
pubblico servizio che utilizzi per uso personale il telefono
in dotazione all’ufficio affidato alla sua disponibilità; in
questi casi, si è osservato, vi sarebbe non
«un’appropriazione degli impulsi elettronici (gli
“scatti”)», ma un’interversione momentanea del possesso
dell’apparecchio seguita da una restituzione immediata (Sez.
6, n. 3009 del 28/01/1996, dep. 26/03/1996, Catalucci, Rv.
204786; Sez. 6, n. 7364 del 24/06/1997, dep. 25/07/1997,
Guida, Rv. 209746; Sez. 6, 07.11.2000, dep. 18.01.2001, Veronesi, n. 353, in Guida dir., 2001, n. 9, p. 68
(relativa ad una fattispecie concernente un numero
complessivo di 878 scatti telefonici per numerose
comunicazioni interurbane addebitate ad una U.S.L.
Siffatto esito decisorio è stato dalla S.C. maturato
delineando un percorso argomentativo incentrato
sull’inquadramento della fattispecie in esame nell’istituto
del possesso in nome altrui e del deposito o della custodia
a seconda delle funzioni o delle mansioni esplicate dal
pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio.
Secondo un diverso e prevalente orientamento
giurisprudenziale
si ritiene, invece, che la condotta in
esame integri gli estremi del peculato comune, sulla base
del rilievo che l’uso del telefono si connoterebbe non
propriamente nella fruizione dell’apparecchio telefonico in
quanto tale, quanto piuttosto nell’utilizzazione dell’utenza
telefonica.
In sostanza,
l’oggetto della condotta appropriativa sarebbe
rappresentato non già dall’apparecchio nella sua fisicità
materiale, bensì dall’energia occorrente per le
conversazioni, la quale, essendo dotata di valore economico,
ben può costituire l’oggetto materiale del delitto di
peculato, in virtù della sua equiparazione “ope legis” alla
cosa mobile.
Così individuata la «cosa mobile altrui», vi sarebbe da
parte dell’”intraneus” una «vera e definitiva appropriazione
degli impulsi elettronici» occorrenti per la trasmissione
della voce; in più, a supporto della tesi, si aggiunge che
gli impulsi elettronici non sono neppure restituibili dopo
l’uso e l’eventuale rimborso delle somme corrispondenti
all’importo delle telefonate vale solo come «ristoro del
danno cagionato», ma non può considerarsi come
«restituzione» della cosa mobile utilizzata.
Entro tale diversa prospettiva ermeneutica, pertanto,
la
natura degli impulsi elettronici occorrenti per la
trasmissione della voce consente di ravvisare nell'ipotesi
considerata una vera (definitiva) condotta di
appropriazione, posto che l'art. 624, comma secondo, cod. pen., dispone che "agli effetti della legge penale si
considera cosa mobile anche l'energia elettrica ed ogni
altra energia che abbia valore economico".
Ne discende che,
allorquando il pubblico ufficiale o
l'incaricato di pubblico servizio, disponendo, per ragione
dell'ufficio o del servizio, dell'utenza telefonica
intestata all'Amministrazione, la utilizza per effettuare
chiamate di interesse personale, il fatto lesivo si
sostanzia non nell'uso dell'apparecchio telefonico quale
oggetto fisico, bensì nell'appropriazione, che attraverso
tale uso si consegue, delle energie, entrate a far parte
della sfera di disponibilità della P.A., occorrenti per le
conversazioni telefoniche
(Sez. 6, n. 3879 del 23/10/2000,
dep. 15/12/2000, Di Maggio, Rv. 217710; Sez. 6, n. 9277 del
06/02/2001, dep. 05/03/2001, P.M. in proc. Menotti, Rv.
218435; Sez. 6, n. 3883 del 14/11/2001, dep. 01/02/2002,
Chirico, Rv. 221510; Sez. 6, n. 7347 del 14/01/2003, dep.
14/02/2003, P.M. in proc. Di Niro, Rv. 223528; Sez. 6, n.
10671 del 15/01/2003, dep. 07/03/2003, Santone, Rv. 223780;
Sez. 6, n. 7772 del 15/01/2003, dep. 17/02/2003, P.M. in
proc. Russo, Rv. 224270; Sez. 6, n. 25273 del 09/05/2006,
dep. 20/07/2006, Montana, Rv. 234838),
secondo cui è
configurabile il peculato ordinario, sempre che possa
riconoscersi un apprezzabile valore economico agli impulsi
utilizzati per ogni singola telefonata, ovvero anche per
l'insieme di più telefonate, quando queste siano talmente
ravvicinate nel tempo da poter essere considerate come
costituenti un'unica condotta; Sez. 6, n. 2963 del
04/10/2004, dep. 31/01/2005, Aiello, Rv. 231032; Sez. 6, n.
21335 del 26/02/2007, dep. 31/05/2007, Maggiore e altro, Rv.
236627, secondo cui
integra gli estremi del peculato, e non
del peculato d'uso, la condotta del soggetto incaricato di
pubblico servizio che utilizzi il telefono d'ufficio per
chiamate a linee telefoniche a contenuto erotico –nel caso
di specie, dell’importo, ritenuto abnorme, da lire 10 a 25
milioni- a nulla rilevando che egli abbia successivamente
rimborsato l'ente di appartenenza delle relative spese; Sez.
6, n. 26595 del 06/02/2009, dep. 26/06/2009, Torre, Rv.
244458, in relazione ad una
fattispecie di utilizzazione a
scopi privati dell'utenza telefonica di una Stazione dei
Carabinieri per un importo di euro 874,39, nel periodo
1/2-20/03/2003; Sez. 6, 29.04.2009, dep. 20.05.2009,
n. 21165, G.A., in Foro it., 2010, III, 156, in relazione ad
una
fattispecie in cui il ricorrente, segretario del reparto
di otorinolaringoiatria di un ospedale, aveva effettuato tra
l'aprile 2000 e il maggio 2002 numerose telefonate di
carattere privato, anche verso Paesi esteri come la Romania,
la Germania, l'Ucraina e la Jugoslavia, per un importo
complessivo di euro 2354,39, servendosi sistematicamente
dell'apparecchio non per pressanti esigenze di relazione, ma
per soddisfare la sua sfera ludica (frequenti contatti,
anche internazionali, con appassionati della caccia), per un
valore di energie sottratte pari alla somma di denaro su
indicata, ritenuta nel caso di specie oltre i limiti, anche
a frammentarla per i due anni della contestazione; Sez. 6,
04.11.2009, dep. 21.01.2010, n. 2525, in Guida dir.,
2010, n. 14, 79 ss., riguardo ad una
fattispecie in cui un
consigliere comunale, avendo, per ragioni di ufficio, la
disponibilità delle utenze telefoniche comunali, le
utilizzava indebitamente effettuando, nel periodo ricompreso
tra il 25.02.1998 e il 12.05.2000, telefonate personali
intercontinentali ad utenze esterne; Sez. 6, n. 256 del
20/12/2010, dep. 10/01/2011, Di Maria, Rv. 249201,
che, nel
ribadire tale orientamento, precisa che il valore economico
della “cosa” sottratta –nel caso di specie, numerose
telefonate private di modesta entità- se non ha rilievo per
la configurabilità delle meno gravi fattispecie di abuso
d’ufficio e peculato d’uso, acquista una decisiva importanza
ai fini della sussistenza dell’elemento materiale del reato
di peculato).
Al riguardo le Sezioni Unite hanno adottato la decisione per
cui detto utilizzo integra il peculato d’uso (v. inf.
provvisoria n. 36)
(tratto da RASSEGNA DELLA GIURISPRUDENZA PENALE DI
LEGITTIMITA’ - LA GIURISPRUDENZA DELLE SEZIONI UNITE E LE
PRINCIPALI LINEE DI TENDENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE -
Anno 2012 - CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - Ufficio del
Massimario - gennaio 2013) |
EDILIZIA
PRIVATA:
Tettoia in legno fissata al muro perimetrale
non può avere natura pertinenziale.
Le pertinenze che comportano un volume
fino al 20% del volume dell’edificio principale o che non
sono qualificate come nuove costruzioni dagli strumenti
urbanistici, possono essere eseguite con d.i.a..
Peraltro tale previsione deve essere coordinata con il d.m.
02.04.1968, n. 144, che al punto 7.1. vieta le nuove
costruzioni nei centri storici.
Si deve anche tener conto delle previsioni dei singoli
strumenti urbanistici, che non di rado vietano in modo
assoluto le nuove costruzioni nei centri storici, al fine di
evitare incrementi di volumetria.
Sicché, laddove nei centri storici sono vietate le nuove
costruzioni, ne discende anche, logicamente, il divieto di
pertinenze, che creino nuova volumetria.
---------------
Una tettoia in legno posta a confine del vicino e
imbullonata al muro perimetrale dell’abitazione, di ampie
dimensioni e stabilmente ancorata al muro perimetrale
dell’immobile, non può essere considerata di natura
pertinenziale, dando invece luogo ad una modificazione della
sagoma e del prospetto dell’edificio comportante il previo
rilascio di titolo abilitativo espresso.
Quindi, la
realizzazione di una tettoia di copertura di un terrazzo di
un’abitazione non può qualificarsi come manutenzione
straordinaria, né configurarsi come pertinenza, atteso che,
costituendo parte integrante dell’edificio, ne costituisce
ampliamento, con conseguente integrabilità, in difetto del
preventivo rilascio del permesso di costruire, del reato di
cui all’art. 44 d.P.R. n. 380/2001.
L’art. 3, comma 1,
lett. e.6), d.P.R. 06.06.2001, n. 380, include tra le nuove
costruzioni, soggette a permesso di costruire, “gli
interventi pertinenziali che le norme tecniche degli
strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al
pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino
come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino
la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume
dell'edificio principale”.
Se ne desume a contrario che le pertinenze che comportino un
volume fino al 20% del volume dell’edificio principale o che
non siano qualificate come nuove costruzioni dagli strumenti
urbanistici, possono essere eseguite con d.i.a..
Peraltro tale previsione deve essere coordinata con il d.m.
02.04.1968, n. 144, che al punto 7.1. vieta le nuove
costruzioni nei centri storici.
Si deve anche tener conto delle previsioni dei singoli
strumenti urbanistici, che non di rado vietano in modo
assoluto le nuove costruzioni nei centri storici, al fine di
evitare incrementi di volumetria.
Sicché, laddove nei centri storici sono vietate le nuove
costruzioni, ne discende anche, logicamente, il divieto di
pertinenze, che creino nuova volumetria.
---------------
Va inoltre considerato che l’opera in questione, consistente
in una tettoia che si poggia sui muri di edifici
preesistenti, non può essere considerata in senso proprio
pertinenza, in quanto fa corpo con la cosa principale a cui
aderisce, di cui modifica la sagoma e comporta ampliamento,
creando nuova volumetria.
Secondo la giurisprudenza di questo Consesso, una tettoia in
legno posta a confine del vicino e imbullonata al muro
perimetrale della sua abitazione, di ampie dimensioni e
stabilmente ancorata al muro perimetrale dell’immobile, non
può essere considerata di natura pertinenziale, dando invece
luogo ad una modificazione della sagoma e del prospetto
dell’edificio comportante il previo rilascio di titolo
abilitativo espresso [Cons. St., sez. IV, 29.04.2011, n.
2549; Id., sez. IV, 07.07.2008, n. 3379; Id., sez. II,
05.02.1997, n. 336/95; Id., sez. V, 29.01.1996, n. 103].
Anche per la giurisprudenza penale la realizzazione di una
tettoia di copertura di un terrazzo di un’abitazione non può
qualificarsi come manutenzione straordinaria, né
configurarsi come pertinenza, atteso che, costituendo parte
integrante dell’edificio, ne costituisce ampliamento, con
conseguente integrabilità, in difetto del preventivo
rilascio del permesso di costruire, del reato di cui
all’art. 44 d.P.R. n. 380/2001 [Cass. pen., sez. III,
08.06.2010, n. 27264; Id., 07.04.2006; Id., 11.10.2005].
Parimenti, secondo la Cassazione penale, non costituisce
pertinenza la tettoia costruita in aderenza ad un
preesistente edificio, trattandosi di manufatto che non ha
una propria autonomia individuale e funzionale, ma che,
entrato a far parte del preesistente fabbricato, di questo
costituisce opera accessoria [Cass. pen., sez. III,
30.06.1995].
La contraria giurisprudenza invocata da parte appellante,
che qualifica talora la tettoia come pertinenza [Cons. St.,
sez. V, 19.03.2009, n. 1615; Id., sez. II, 30.01.2008, n.
3491/2007; Tar Sicilia-Catania, 11.07.1990, n. 530; Tar
Lombardia–Milano, sez. II, 15.03.1988, n. 73], non è
rilevante nel presente giudizio (nemmeno al fine della
rimessione del contrasto all’esame dell’adunanza plenaria),
atteso l’assorbente profilo, al fine della decisione, che
nel caso di specie non sono consentiti incrementi di
volumetria nei centri storici mediante opere nuove
(Consiglio di
Stato Sez. VI,
sentenza 18.12.2012 n. 6493
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Distanza tra fabbricati e intercapedine
preesistente.
La preesistenza di un’intercapedine di circa 3,5 mt. fra il
manufatto cui è stato edificato in aderenza e il diverso
immobile ad uso abitativo appartenente ad altra persona non
esclude l’applicabilità delle disposizioni in materia di
distanze. Infatti, l’articolo 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444,
dispone la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate
di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi,
trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e
pertanto non è eludibile.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate
con carattere cogente in via generale ed astratta, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della disciplina in materia di equo contemperamento degli
opposti interessi.
Al riguardo giova premettere che non è contestato in atti
che fra la parete sul lato nord dell’edificio realizzato
dall’appellante e l’edificio frontista del vicino esistesse
una distanza inferiore ai 10 metri, così come non è
contestato che, nell’area in cui ricade l’intervento, trovi
applicazione la previsione di cui all’art. 15, pt. 1), lett.
c), del P.R.G., il quale (in sostanziale continuità con la
generale previsione di cui all’articolo 9 del d.m.
02.04.1968, n. 1444) stabilisce che fra i fabbricati non può
in alcun caso esistere una distanza inferiore a 10 metri.
Ebbene, questo essendo lo stato di fatto e di diritto
sotteso alla vicenda di causa, il Collegio ritiene che la
questione debba essere risolta facendo applicazione del
consolidato orientamento secondo cui l’articolo 9 del d.m.
02.04.1968 n. 1444, laddove dispone la distanza di dieci
metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad
impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate
con carattere cogente in via generale ed astratta, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della disciplina in materia di equo contemperamento degli
opposti interessi (in tal senso: Cons. Stato, IV,
02.11.2010, n. 7731; id., IV, 05.12.2005, n. 6909).
Ebbene, si ritiene che il principio giurisprudenziale in
questione non possa essere derogato neppure nelle ipotesi in
cui (come nel caso di specie) fra due edifici preesistenti
esista già un’intercapedine limitata in altezza (si tratta
dell’intercapedine fra il locale adibito a garage –di
altezza limitata– posto sul confine del vicino e l’immobile
ad uso abitativo dello stesso vicino). Ciò in quanto,
laddove (come nel caso in parola) il nuovo edificio superi
in altezza –e in modo notevole– la preesistente cui
aderisce, l’effetto è di determinare una nuova e diversa
intercapedine, riferita allo sviluppo verticale dei due
edifici e non soltanto al piano terreno.
Del resto, l’esistenza di pareti finestrate poste fra loro a
distanza minima costituisce di per sé un elemento idoneo a
realizzare un ambiente insalubre, atteso che l’assenza di
luce ed aereazione è idonea a cagionare un ambiente nel suo
complesso potenzialmente dannoso, anche a prescindere
dall’altezza dal piano di calpestio in cui tale situazione
si determina (massima tratta da www.lexambiente.it
- Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.12.2012 n. 6489 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA
PRIVATA:
Il provvedimento
di annullamento d’ufficio presuppone una congrua motivazione
in ordine all’interesse pubblico attuale e concreto a
sostegno dell'esercizio discrezionale dei poteri di
autotutela, con un'adeguata ponderazione comparativa, che
tenga anche conto dell’interesse dei destinatari di un atto
discrezionale al mantenimento delle posizioni, che su di
esso si sono consolidate e del conseguente affidamento
derivante dal comportamento seguito dall'Amministrazione.
La legittimità dell’esercizio del potere di annullamento
d’ufficio di un atto discrezionale, in via di principio,
postula che esso sia realizzato entro un termine ragionevole
dall’adozione dell’atto oggetto di autotutela.
Al riguardo il
Collegio non ritiene di revocare in dubbio il consolidato
orientamento giurisprudenziale (puntualmente richiamato
dall’appellante) secondo cui, in linea di principio, il
provvedimento di annullamento d’ufficio presuppone una
congrua motivazione in ordine all’interesse pubblico attuale
e concreto a sostegno dell'esercizio discrezionale dei
poteri di autotutela, con un'adeguata ponderazione
comparativa, che tenga anche conto dell’interesse dei
destinatari di un atto discrezionale al mantenimento delle
posizioni, che su di esso si sono consolidate e del
conseguente affidamento derivante dal comportamento seguito
dall'Amministrazione (in tal senso –ex plurimis -: Cons.
Stato, III, 20.06.2012, n. 3628; id., IV, 28.05.2012, n. 3154; id., VI, 15.05.2012, n. 2774).
Neppure si ritiene di revocare in dubbio l’altrettanto
consolidato orientamento (peraltro trasfuso in puntuale
disposizione normativa ad opera dell’articolo 14 della l. 11.02.2005, n. 11) secondo cui la legittimità
dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio di un
atto discrezionale, in via di principio, postula che esso
sia realizzato entro un termine ragionevole dall’adozione
dell’atto oggetto di autotutela (in tale senso –ex plurimis-: Cons. Stato, V, 07.04.2010, n. 1946; id., IV, 14.02.2006,
n. 564)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.12.2012 n. 6489 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Diritto di edificazione e saturazione della
volumetria assentibile.
Un’area edificatoria già utilizzata a
fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo
quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in relazione
all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere
su una parte del lotto catastalmente divisa e dovendosi
considerare irrilevanti i frazionamenti delle proprietà
private medio tempore intervenuti.
Si precisa al riguardo in linea di diritto che, in relazione
al periodo anteriore all’adozione del (primo) piano
regolatore generale nell’anno 1964, col quale per la prima
volta nel territorio comunale sono stati introdotti indici
di densità edilizia (territoriale e fondiaria), in assenza
di limiti di volumetria non è configurabile un’ipotesi di
asservimento in senso tecnico, ma appare astrattamente
configurabile esclusivamente un vincolo di c.d. asservimento
pertinenziale, connotata dalla destinazione dell’area non
edificata del lotto a servizio dell’edificio realizzato (v.
al riguardo, in fattispecie analoga, C.d.S., Ad. Plen.,
23.04.2009, n. 3). E non v’è dubbio che, in difetto di altri
elementi probatori, ai fini della ricognizione di un
eventuale asservimento di siffatta natura possano assumere
rilievo anche atti negoziali provenienti dagli stessi
privati, nella specie evincibili dall’estratto tavolare
acquisito al giudizio.
Ad ulteriormente suffragio dell’inferenza che conduce ad
escludere l’esistenza di un vincolo di c.d. asservimento
pertinenziale viene, altresì, in rilievo la dimensione delle
superfici delle due aree, superando quella corrispondente
alla p.ed. 3880 (asseritamente asservita, secondo la tesi
del Comune) la superficie dell’area corrispondente alla
p.ed. 2687, sicché –tenendo conto anche degli altri dati di
fatto sopra rilevati, in particolare della radicale
diversità di destinazione d’uso delle rispettive aree
(agricola e rispettivamente commerciale la prima,
residenziale la seconda), protrattasi per decenni– non si
vede come la p.ed. 2687 possa essere qualificata come fondo
principale ai fini del c.d. asserivmento pertinenziale.
Si aggiunga la sopra rilevata circostanza –enucleabile da un
esame globale e onnicomprensivo della documentazione
afferente al rilascio del titolo edilizio del 1955– che
l’area corrispondente alla p.ed. 2687 vi era stata
considerata quale lotto edificabile separato e a sé stante.
Il titolo edilizio all’epoca rilasciato ha, cioè,
interessato non già l’intera p.f. 2052/2, bensì la sola area
corrispondente alla menzionata p.ed. 2687, talché l’area
residua, corrispondente alla superficie dell’attuale p.ed.
3880, non costituisce “superficie pertinenziale”
dell’edificio preesistente per gli effetti di cui all’art.
36, comma 4-bis l. urb. prov., peraltro ratione temporis non
direttamente applicabile alla fattispecie sub iudice,
essendo il citato comma stato aggiunto dall’art. 8, comma 2,
l. prov. 02.07.2007, n. 3, e dunque in epoca successiva al
qui impugnato provvedimento di diniego (il citato comma
4-bis testualmente recita: “Gli edifici esistenti
vincolano le superfici pertinenziali, da dimostrare in base
alla densità edilizia vigente all’atto della presentazione
della domanda edilizia, a prescindere dalla data della loro
realizzazione, dal successivo frazionamento del compendio
immobiliare o dall’alienazione di parti dello stesso”).
La rilevata situazione di fatto e di diritto induce dunque a
considerare l’attuale p.ed. 3880 quale lotto edificabile
autonomo e a sé stante, ai fini dell’applicazione degli
indici di fabbricabilità, senza che si possa tener conto del
fabbricato eretto nel 1955 sulla area corrispondente
all’attuale p.ed. 2678, in quanto ab origine
insistente su diverso lotto edificabile.
La sopra esposta ricostruzione delle vicende relative
all’immobile di cui è causa smentisce l’assunto
dell’Amministrazione comunale, espresso nel parere della
commissione edilizia del 12.01.2005 recepito nell’impugnato
provvedimento di diniego, secondo cui, a fronte del
frazionamento dell’originaria p.f. 2052/2 avvenuto in epoca
connotata dall’assenza di uno strumento urbanistico che
fissasse la densità edilizia (nel duplice aspetto di densità
territoriale e di densità fondiaria), “(…) il fondo
conservato attraverso frazionamento come area pertinenziale
dell’edificio già concessionato non corrispondeva ad alcun
criterio relazionale tra cubatura realizzata e superficie di
pertinenza (…)”. Infatti, tale assunto presuppone un
vincolo pertinenziale (della parte residua della p.f.
2052/2, a servizio della neoformata p.ed. 2687), per le
esposte ragioni in realtà insussistente.
L’Amministrazione appellante, laddove (nella memoria del
27.08.2012) sostiene che “(…) il presupposto per
l’individuazione di una zona di completamento è che la
densità edilizia attribuita risulti sfruttata al 70% (…)
laddove nel computo si inserisce tutto l’esistente (anche
quello realizzato in epoca remota (…)”, sembra
confondere la densità territoriale (riferita, cioè, a
ciascuna zona omogenea, la quale definisce il complessivo
carico di edificazione che può gravare sulla zona intera)
con la densità fondiaria (riferita, invece, alla singola
area edificabile, la quale definisce il volume massimo
assentibile su di essa, espressa dal c.d. indice di
fabbricabilità), venendo nel caso di specie in rilievo solo
quest’ultimo concetto, tenuto conto del tenore del primo
motivo di diniego opposto all’istanza di concessione,
incentrato sul superamento della volumetria assentibile in
applicazione del vigente indice di fabbricabilità di 4 mc/mq
per le zone di completamento.
Dalle superiori considerazioni deriva, altresì, l’inconferenza,
con riguardo alla fattispecie concreta dedotta in giudizio,
dei precedenti di questo Consiglio di Stato (Cons. Stato,
III, parere 28.04.2009, n. 965/2009; Cons. Stato, IV,
29.01.2008, n. 255; V, 12.07.2004, n. 5039), affermativi del
principio che un’area edificatoria già utilizzata a fini
edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando
la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in relazione
all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere
su una parte del lotto catastalmente divisa e dovendosi
considerare irrilevanti i frazionamenti delle proprietà
private medio tempore intervenuti (massima tratta da www.lexambiente.it
- Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 18.12.2012 n. 6475
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il potere ministeriale di annullamento del nulla
osta ambientale è circoscritto ai vizi di sola legittimità:
il potere di annullamento dell’Amministrazione statale non
comporta un riesame complessivo, e la Sovrintendenza non può
sovrapporre o sostituire il proprio apprezzamento di merito,
alle valutazioni discrezionali compiute in sede di rilascio
del nulla osta da parte dell'ente locale. Il riesame
dell’Amministrazione, infatti, è meramente estrinseco, ed è
diretto all’accertamento dell'assenza di vizi di legittimità
comprendenti quello di eccesso di potere nelle diverse forme
sintomatiche.
In altre parole, l’Amministrazione non può rinnovare il
giudizio tecnico discrezionale sulla compatibilità
paesaggistico-ambientale dell'intervento, che appartiene in
via esclusiva all'Autorità preposta alla tutela del vincolo.
Il potere esercitato dall’Amministrazione Statale
sull’autorizzazione paesaggistica rilasciata dall’autorità
regionale, va definita in termine di “cogestione dei valori
paesistici”, essendo l’autorità locale deputata alla
valutazione della compatibilità paesistica dell’intervento
ed il potere di intervento dell’Autorità Statale è limitato
al solo controllo di legittimità che può comportare
l’annullamento dell’atto per tutti i vizi di legittimità,
ivi compresi quelli relativi a tutte le figure di eccesso di
potere (per sviamento, insufficiente motivazione, difetto di
istruttoria, illogicità manifesta).
L’Amministrazione statale deve pertanto limitarsi a
verificare dall'esterno la coerenza, la logicità e la
completezza istruttoria dell'iter procedimentale seguito
dall'Amministrazione emanante, controllando se la
motivazione espressa nel rendere il giudizio positivo sia
sufficiente.
Nel contempo in considerazione della tendenziale
irreversibilità dell'alterazione dello stato dei luoghi,
un'adeguata gestione dei vincoli paesistici impone che
l'autorizzazione paesistica rilasciata dall’autorità
comunale sia congruamente motivata, esponendo le ragioni di
effettiva compatibilità degli abusi realizzati con gli
specifici valori paesistici dei luoghi, con la conseguenza
che il difetto di motivazione dell'autorizzazione giustifica
per ciò solo il suo annullamento in sede di controllo.
La giurisprudenza ha poi precisato che in sede di rilascio
della concessione edilizia in sanatoria, l’obbligo di
acquisire il parere da parte dell’autorità preposta alla
tutela del vincolo previsto dall’art. 32 della legge
28.02.1985 n. 47, sussiste anche per le opere realizzate
anteriormente all’imposizione del vincolo stesso. A tale
conclusione l’Adunanza Plenaria è pervenuta nella
considerazione che “in mancanza di indicazioni univoche
desumibili dal dato normativo” alla questione di cui sopra
non può che darsi una soluzione “alla stregua dei principi
generali in materia di azione amministrativa, tenuto conto
della valenza attribuita dall’ordinamento agli interessi
coinvolti nell’applicazione della disposizione legislativa
di cui si tratta” e, conseguentemente, “la Pubblica
Amministrazione, sulla quale incombe più pressante l’obbligo
di osservare la legge, deve necessariamente tener conto, nel
momento in cui provvede, della norma vigente e delle
qualificazioni giuridiche che essa impone”.
Ne consegue che, anche in caso di vincolo sopravvenuto,
l’Amministrazione è tenuta a valutare la compatibilità del
manufatto con le prescrizioni contenute nel provvedimento di
vincolo anche se non ancora esistenti al momento della
realizzazione dell’intervento abusivo.
Il giudizio di compatibilità, infatti, viene reso tenendo
conto dalla disciplina normativa vigente al momento della
pronuncia e non prendendo in considerazione la sola
disciplina esistente al momento della realizzazione
dell’abuso; la disposizione di portata generale di cui
all'art. 32, primo comma, della legge 47 del 1985 relativa
ai vincoli che appongono limiti all'edificazione, non reca,
infatti, alcuna deroga al principio di legalità che impone
l'esplicazione della funzione amministrativa secondo la
norma vigente al tempo in cui la funzione si esplica ("tempus
regit actum").
Pertanto nella considerazione che, in mancanza di una deroga
espressa, la compatibilità dell'intervento edilizio da
sanare deve essere effettuata con riguardo alla disciplina
urbanistica vigente al momento in cui il parere deve essere
reso, in quanto prima l'immobile non aveva giuridica
esistenza, l'art. 32, primo comma, della legge 47 del 1985
deve interpretarsi "nel senso che l'obbligo di pronuncia da
parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo
sussiste in relazione all’esistenza del vincolo al momento
in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a
prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo. E appare
altresì evidente che tale valutazione corrisponde alla
esigenza di vagliare l'attuale compatibilità, con il
vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente".
---------------
Ai fini del decorso del termine di 60 giorni per il riesame
di legittimità del nulla osta paesistico rilasciato
dall'Amministrazione delegata, è necessario che esso
pervenga corredato dagli elementi documentali utili al
controllo. Detto indirizzo trova, invero, conforto nella
lettera dell'art. 82 del d.P.R. 24.07.1977, n. 616 -come
integrato dall'art. 1 della legge 08.08.1985, n. 431, e poi
riprodotto all'art. 151, comma quarto, del d.lgs.
29.10.1999, n. 490- ove è stabilito che "le regioni danno
immediata comunicazione al Ministero per i Beni Culturali e
Ambientali delle autorizzazioni rilasciate e trasmettono
contestualmente la relativa documentazione".
La possibilità di disporre acquisizioni istruttorie è del
resto evenienza procedimentale peculiare ad ogni
procedimento di controllo interorganico, e si collega
all'esigenza che il controllo medesimo avvenga secondo
criteri di serietà e di piena cognizione di ogni elemento
rilevante ai fin del giudizio di legittimità dell'atto.
Eventuali carenze di elementi documentali utili
all'esercizio del potere di verifica della legittimità
dell'atto autorizzatorio possono, quindi, dare ingresso ad
attività istruttoria con effetto interruttivo del termine
assegnato per il controllo in base al noto principio "contra
non valentem non agit prescriptio". Una volta pervenuta alla
Soprintendenza la documentazione integrativa indispensabile
per il riscontro di legittimità prenderà vigore "ex novo" il
termine perentorio per il riesame di secondo grado.
Le richieste istruttorie devono, tuttavia, fondarsi su
un’effettiva insufficienza del supporto documentale
necessario al riesame di legittimità del nulla osta
regionale. Esse devono essere finalizzate all'acquisizione
di elementi documentali afferenti al titolo autorizzatorio,
così da consentire una corretta, completa ed attenta
valutazione della tipologia dell'intervento assentito, in
raffronto alla disciplina di tutela dei valori paesaggistici
ed ambientali della zona e della stessa conformazione dei
luoghi oggetto di modifica.
---------------
È noto che la questione dell'obbligo di comunicazione
d'avvio nel procedimento di annullamento dell'autorizzazione
paesaggistica ha vissuto vicende alterne in quanto più volte
è cambiata la normativa di riferimento.
Fino all’entrata in vigore del D.M. 19.06.2002 n. 165, è
stato costantemente sostenuto in giurisprudenza l’obbligo
per l’Amministrazione statale di comunicare l’inizio del
procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, come
peraltro previsto anche dall’art. 4 del D.M. 13.06.1994 n.
495.
A seguito dell'entrata in vigore del regolamento approvato
con il D.M. 19.06.2002 n. 165 (il quale ha aggiunto il comma
1-bis dell'art. 4 del regolamento approvato con d.m.
13.06.1994 n. 495), il provvedimento ministeriale che
annulla il nulla osta paesaggistico per la realizzazione di
una costruzione edilizia in zona protetta non deve essere
preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento.
Successivamente, l'intera materia è stata ridisciplinata dal
Codice dei beni culturali, intervenuto con D.Lgs. 42/2004,
il cui art. 159, comma 2, stabilisce che “l'amministrazione
competente al rilascio dell'autorizzazione dà immediata
comunicazione alla soprintendenza delle autorizzazioni
rilasciate, trasmettendo la documentazione prodotta
dall'interessato nonché le risultanze degli accertamenti
eventualmente esperiti. La comunicazione è inviata
contestualmente agli interessati, per i quali costituisce
avviso di inizio di procedimento”.
Nell'interpretare tale ultima disposizione il Consiglio di
Stato ha ritenuto superata la disciplina del D.M. 165/2002
affermando che “alla stregua di siffatta scelta legislativa
deve, quindi, considerarsi abrogato, per incompatibilità con
una norma sopravvenuta di rango superiore, l'art. 4, comma
1-bis, del D.M 13.06.1994, n. 495, come modificato dal D.M.
165/2002”.
Pertanto, l’obbligo di comunicare l'avvio del procedimento,
previsto in relazione alla generalità degli atti
amministrativi dall'art. 7 della l. n. 241/1990, eliminato
dal D.M. 19.06.2002, n. 165, è stato ripristinato dalla
norma dianzi riportata attraverso la speciale forma della
comunicazione agli interessati della trasmissione alla
Soprintendenza dell'autorizzazione rilasciata da parte
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza
amministrativa, il potere ministeriale di annullamento del
nulla osta ambientale è circoscritto ai vizi di sola
legittimità: il potere di annullamento dell’Amministrazione
statale non comporta un riesame complessivo, e la
Sovrintendenza non può sovrapporre o sostituire il proprio
apprezzamento di merito, alle valutazioni discrezionali
compiute in sede di rilascio del nulla osta da parte
dell'ente locale. Il riesame dell’Amministrazione, infatti,
è meramente estrinseco, ed è diretto all’accertamento
dell'assenza di vizi di legittimità comprendenti quello di
eccesso di potere nelle diverse forme sintomatiche.
In altre parole, l’Amministrazione non può rinnovare il
giudizio tecnico discrezionale sulla compatibilità
paesaggistico-ambientale dell'intervento, che appartiene in
via esclusiva all'Autorità preposta alla tutela del vincolo
(cfr. ex multis, Tar Liguria, Sez. I, 13.02.2004, n.
160; idem, 02.04.2004, n. 329; Tar Lazio, Roma, Sez. II,
16.05.2005, n. 3840; Tar Campania, Napoli, Sez. II,
28.02.2006, n. 2486; Cons. Stato, Sez. VI, 29.10.2004, n.
7046; idem, 24.01.2006, n. 207, a cui va aggiunta anche la
pronuncia dell'Adunanza Plenaria del Cons. Stato dec.
14.12.2001, n. 9).
Come ha rilevato l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
con la decisione 14/12/2001 n. 9, il potere esercitato
dall’Amministrazione Statale sull’autorizzazione
paesaggistica rilasciata dall’autorità regionale, va
definita in termine di “cogestione dei valori paesistici”,
essendo l’autorità locale deputata alla valutazione della
compatibilità paesistica dell’intervento ed il potere di
intervento dell’Autorità Statale è limitato al solo
controllo di legittimità che può comportare l’annullamento
dell’atto per tutti i vizi di legittimità, ivi compresi
quelli relativi a tutte le figure di eccesso di potere (per
sviamento, insufficiente motivazione, difetto di
istruttoria, illogicità manifesta).
L’Amministrazione statale deve pertanto limitarsi a
verificare dall'esterno la coerenza, la logicità e la
completezza istruttoria dell'iter procedimentale seguito
dall'Amministrazione emanante, controllando se la
motivazione espressa nel rendere il giudizio positivo sia
sufficiente.
Nel contempo in considerazione della tendenziale
irreversibilità dell'alterazione dello stato dei luoghi,
un'adeguata gestione dei vincoli paesistici impone che
l'autorizzazione paesistica rilasciata dall’autorità
comunale sia congruamente motivata, esponendo le ragioni di
effettiva compatibilità degli abusi realizzati con gli
specifici valori paesistici dei luoghi, con la conseguenza
che il difetto di motivazione dell'autorizzazione giustifica
per ciò solo il suo annullamento in sede di controllo (Cons.
Stato., Sez. V n. 4552/2005; Sez. VI, 08.08.2000, n. 4345;
Sez. VI, 09.04.1998, n. 460; Sez. IV, 04.12.1998, n. 1734;
Sez. VI, 09.04.1998, n. 460; Sez. VI, 20.06.1997, n. 952;
Sez. VI, 30.12.1995, n. 1415; Sez. VI, 12.05.1994, n. 771).
La giurisprudenza ha poi precisato che (cfr. Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato n. 20 del 22.07.1999, e tra
le tante, Cons. St., VI, 09.09.2005 n. 4662; id., 16.03.2005
n. 1094; 16.02.2005 n. 492; id., 22.08.2003 n. 4765), in
sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria,
l’obbligo di acquisire il parere da parte dell’autorità
preposta alla tutela del vincolo previsto dall’art. 32 della
legge 28.02.1985 n. 47, sussiste anche per le opere
realizzate anteriormente all’imposizione del vincolo stesso.
A tale conclusione l’Adunanza Plenaria è pervenuta nella
considerazione che “in mancanza di indicazioni univoche
desumibili dal dato normativo” alla questione di cui
sopra non può che darsi una soluzione “alla stregua dei
principi generali in materia di azione amministrativa,
tenuto conto della valenza attribuita dall’ordinamento agli
interessi coinvolti nell’applicazione della disposizione
legislativa di cui si tratta” e, conseguentemente, “la
Pubblica Amministrazione, sulla quale incombe più pressante
l’obbligo di osservare la legge, deve necessariamente tener
conto, nel momento in cui provvede, della norma vigente e
delle qualificazioni giuridiche che essa impone”.
Ne consegue che, anche in caso di vincolo sopravvenuto,
l’Amministrazione è tenuta a valutare la compatibilità del
manufatto con le prescrizioni contenute nel provvedimento di
vincolo anche se non ancora esistenti al momento della
realizzazione dell’intervento abusivo.
Il giudizio di compatibilità, infatti, viene reso tenendo
conto dalla disciplina normativa vigente al momento della
pronuncia e non prendendo in considerazione la sola
disciplina esistente al momento della realizzazione
dell’abuso; la disposizione di portata generale di cui
all'art. 32, primo comma, della legge 47 del 1985 relativa
ai vincoli che appongono limiti all'edificazione, non reca,
infatti, alcuna deroga al principio di legalità che impone
l'esplicazione della funzione amministrativa secondo la
norma vigente al tempo in cui la funzione si esplica ("tempus
regit actum").
Pertanto nella considerazione che, in mancanza di una deroga
espressa, la compatibilità dell'intervento edilizio da
sanare deve essere effettuata con riguardo alla disciplina
urbanistica vigente al momento in cui il parere deve essere
reso, in quanto prima l'immobile non aveva giuridica
esistenza, l'art. 32, primo comma, della legge 47 del 1985
deve interpretarsi "nel senso che l'obbligo di pronuncia
da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo
sussiste in relazione all’esistenza del vincolo al momento
in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a
prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo. E appare
altresì evidente che tale valutazione corrisponde alla
esigenza di vagliare l'attuale compatibilità, con il
vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente" (cfr.
Cons. di Stato, Sez. V, 22.12.1994 n. 1574; TAR Lombardia,
Sez. Brescia 25/07/2005 n. 785).
---------------
Per costante
giurisprudenza “ai fini del decorso del termine di
sessanta giorni per il riesame di legittimità del nulla osta
paesistico rilasciato dall'Amministrazione delegata, è
necessario che esso pervenga corredato dagli elementi
documentali utili al controllo. Detto indirizzo trova,
invero, conforto nella lettera dell'art. 82 del d.P.R.
24.07.1977, n. 616 -come integrato dall'art. 1 della legge
08.08.1985, n. 431, e poi riprodotto all'art. 151, comma
quarto, del d.lgs. 29.10.1999, n. 490- ove è stabilito che
"le regioni danno immediata comunicazione al Ministero per i
Beni Culturali e Ambientali delle autorizzazioni rilasciate
e trasmettono contestualmente la relativa documentazione".
La possibilità di disporre acquisizioni istruttorie è del
resto evenienza procedimentale peculiare ad ogni
procedimento di controllo interorganico, e si collega
all'esigenza che il controllo medesimo avvenga secondo
criteri di serietà e di piena cognizione di ogni elemento
rilevante ai fin del giudizio di legittimità dell'atto.
Eventuali carenze di elementi documentali utili
all'esercizio del potere di verifica della legittimità
dell'atto autorizzatorio possono, quindi, dare ingresso ad
attività istruttoria con effetto interruttivo del termine
assegnato per il controllo in base al noto principio "contra
non valentem non agit prescriptio". Una volta pervenuta alla
Soprintendenza la documentazione integrativa indispensabile
per il riscontro di legittimità prenderà vigore "ex novo" il
termine perentorio per il riesame di secondo grado.
Le richieste istruttorie devono, tuttavia, fondarsi su
un’effettiva insufficienza del supporto documentale
necessario al riesame di legittimità del nulla osta
regionale. Esse devono essere finalizzate all'acquisizione
di elementi documentali afferenti al titolo autorizzatorio,
così da consentire una corretta, completa ed attenta
valutazione della tipologia dell'intervento assentito, in
raffronto alla disciplina di tutela dei valori paesaggistici
ed ambientali della zona e della stessa conformazione dei
luoghi oggetto di modifica" (Cons. Stato sez. VI,
03.03.2007, n. 1019).
---------------
È noto che la questione dell'obbligo di comunicazione
d'avvio nel procedimento di annullamento dell'autorizzazione
paesaggistica ha vissuto vicende alterne in quanto più volte
è cambiata la normativa di riferimento.
Fino all’entrata in vigore del D.M. 19.06.2002 n. 165, è
stato costantemente sostenuto in giurisprudenza l’obbligo
per l’Amministrazione statale di comunicare l’inizio del
procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, come
peraltro previsto anche dall’art. 4 del D.M. 13.06.1994 n.
495 (cfr., tra le tante, Cons. Stato, VI sez., 25.03.2004,
n. 1626; 20.01.2003, n. 203; 17.09.2002 n. 4709, 29.03.2002
n. 1790).
A seguito dell'entrata in vigore del regolamento approvato
con il D.M. 19.06.2002 n. 165 (il quale ha aggiunto il comma
1-bis dell'art. 4 del regolamento approvato con d.m.
13.06.1994 n. 495), il provvedimento ministeriale che
annulla il nulla osta paesaggistico per la realizzazione di
una costruzione edilizia in zona protetta non deve essere
preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento
(cfr., tra le tante, Cons. di Stato sez. VI 11.06.2012 n.
3401).
Successivamente, l'intera materia è stata ridisciplinata dal
Codice dei beni culturali, intervenuto con D.Lgs. 42/2004,
il cui art. 159, comma 2, stabilisce che “l'amministrazione
competente al rilascio dell'autorizzazione dà immediata
comunicazione alla soprintendenza delle autorizzazioni
rilasciate, trasmettendo la documentazione prodotta
dall'interessato nonché le risultanze degli accertamenti
eventualmente esperiti. La comunicazione è inviata
contestualmente agli interessati, per i quali costituisce
avviso di inizio di procedimento”.
Nell'interpretare tale ultima disposizione il Consiglio di
Stato ha ritenuto superata la disciplina del D.M. 165/2002
affermando che “alla stregua di siffatta scelta
legislativa deve, quindi, considerarsi abrogato, per
incompatibilità con una norma sopravvenuta di rango
superiore, l'art. 4, comma 1-bis, del D.M 13.06.1994, n.
495, come modificato dal D.M. 165/2002” (Cons. Stato,
sez. VI, sent. n. 30 del 07.01.2008; 24/01/2011 n. 477).
Pertanto, l’obbligo di comunicare l'avvio del procedimento,
previsto in relazione alla generalità degli atti
amministrativi dall'art. 7 della l. n. 241/1990, eliminato
dal D.M. 19.06.2002, n. 165, è stato ripristinato dalla
norma dianzi riportata attraverso la speciale forma della
comunicazione agli interessati della trasmissione alla
Soprintendenza dell'autorizzazione rilasciata da parte
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo (TAR Lazio,
Roma, sez. II, 01.02.2008, n. 888; TAR Campania, Salerno,
sez. II, 25.06.2009, n. 3316)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 14.12.2012 n. 10480 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006,
nella parte in cui elenca le dichiarazioni di sussistenza
dei requisiti morali e professionali richiesti ai fini della
partecipazione alle procedure di gara, assume come
destinatari tutti coloro che, in quanto titolari della
rappresentanza dell'impresa, siano in grado di trasmettere
al soggetto rappresentato la riprovazione dell'ordinamento
nei riguardi della loro personale condotta.
Pertanto, deve ritenersi sussistente l'obbligo di
dichiarazione non soltanto da parte di chi rivesta
formalmente la carica di amministratore, ma anche da parte
di colui che, in qualità di procuratore ad negotia, abbia
ottenuto il conferimento di poteri consistenti nella
rappresentanza dell'impresa e nel compimento di atti
decisionali.
Come questo Consiglio di Stato ha evidenziato (per tutte,
sez. VI, 18.01.2012, n. 178), l'art. 38 del d.lgs. n. 163
del 2006, nella parte in cui elenca le dichiarazioni di
sussistenza dei requisiti morali e professionali richiesti
ai fini della partecipazione alle procedure di gara, assume
come destinatari tutti coloro che, in quanto titolari della
rappresentanza dell'impresa, siano in grado di trasmettere
al soggetto rappresentato la riprovazione dell'ordinamento
nei riguardi della loro personale condotta.
Pertanto, deve ritenersi sussistente l'obbligo di
dichiarazione non soltanto da parte di chi rivesta
formalmente la carica di amministratore, ma anche da parte
di colui che, in qualità di procuratore ad negotia,
abbia ottenuto il conferimento di poteri consistenti nella
rappresentanza dell'impresa e nel compimento di atti
decisionali (sul punto, ex multis, Cons. Stato, V,
09.03.2010, n. 1373; VI, 24.11.2009, n. 7380; V, 26.01.2009
n. 375).
Tali conclusioni persuadono che, nel caso in esame,
l’obbligo imposto dall’art. 38, puntualmente richiamato
dagli atti di gara, debba essere riferito anche al signor
Luigi Bartalini che nel periodo rilevante era stato
procuratore speciale della Viras s.p.a., munito di poteri di
rappresentanza esterna di notevole ampiezza, che gli
consentivano di stipulare contratti di appalto relativi a
brokeraggio assicurativo e di rappresentare la società
presso gli enti, pubblici e privati, anche in sede di gare
per l’aggiudicazione del servizio di brokeraggio
assicurativo e quindi di impegnare la società nei rapporti
con soggetti terzi
(Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 12.12.2012
n. 6374 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Dopo l'entrata
in vigore delle disposizioni attuative della direttiva
2007/66/CE, ora riprese negli artt. 121 e 122 del Codice del
processo amministrativo, in caso di annullamento giudiziale
dell'aggiudicazione di una pubblica gara, spetta al giudice
amministrativo il potere di decidere discrezionalmente
(anche nei casi di violazioni gravi) se mantenere o meno
l'efficacia del contratto nel frattempo stipulato.
Tale sistema normativo, in base al quale l'inefficacia del
contratto non è conseguenza automatica dell'annullamento
dell'aggiudicazione, ma costituisce oggetto di una specifica
pronuncia giurisdizionale, si pone come innovazione rispetto
alla logica sequenza procedimentale che vede la privazione
degli effetti del contratto strettamente connessa
all’annullamento dell’aggiudicazione, e da questa
dipendente.
Come è stato più volte osservato, "in virtù della stretta
consequenzialità tra l'aggiudicazione della gara pubblica e
la stipula del relativo contratto, l'annullamento
giurisdizionale ovvero l'annullamento a seguito di
autotutela della procedura amministrativa comporta la
caducazione automatica degli effetti negoziali del contratto
successivamente stipulato, stante la preordinazione
funzionale tra tali atti".
La caducazione del contratto stipulato a seguito
dell’aggiudicazione poi annullata costituisce, quindi, in
via generale, la conseguenza necessitata dell’annullamento:
di tale conseguenza l’art. 122 del Codice del processo
amministrativo costituisce una deroga, imperniata sulle
esigenze di semplificazione e concentrazione delle tutele ai
fini della loro effettività.
Ne consegue che, stante l’avvenuto annullamento
dell’aggiudicazione disposta dalla stazione appaltante a
favore della società ..., odierna appellante, l’applicazione
che il primo giudice ha fatto dell’art. 122 del Codice ha
costituito una disposizione favorevole all’interesse
dell’appellante stessa, dal momento che ha salvato
l’efficacia del contratto da questa stipulato con l’Istat
per la parte già eseguita, mentre, in assenza della
ricordata disposizione normativa e della applicazione
fattane dal primo giudice, la sorte del contratto sarebbe
stata travolta dalla accertata illegittimità
dell’individuazione del contraente.
L’appellante Istat
chiede la riforma della sentenza impugnata anche nella parte
in cui ha dichiarato, ai sensi dell’art. 122 Cod. proc. amm.,
l’inefficacia del contratto stipulato con l’aggiudicataria,
per la parte non eseguita.
Al riguardo, il Collegio ricorda che dopo l'entrata in
vigore delle disposizioni attuative della direttiva
2007/66/CE, ora riprese negli artt. 121 e 122 del Codice del
processo amministrativo, in caso di annullamento giudiziale
dell'aggiudicazione di una pubblica gara, spetta al giudice
amministrativo il potere di decidere discrezionalmente
(anche nei casi di violazioni gravi) se mantenere o meno
l'efficacia del contratto nel frattempo stipulato.
Tale sistema normativo, in base al quale l'inefficacia del
contratto non è conseguenza automatica dell'annullamento
dell'aggiudicazione, ma costituisce oggetto di una specifica
pronuncia giurisdizionale, si pone come innovazione rispetto
alla logica sequenza procedimentale che vede la privazione
degli effetti del contratto strettamente connessa
all’annullamento dell’aggiudicazione, e da questa dipendente
(Cons. Stato, III, 19.12.2011, n. 6638).
Come è stato più volte osservato (Cons. Stato, V,
14.01.2011, n. 11; V, 20.10.2010, n. 7578; V, 07.09.2011, n.
5032), "in virtù della stretta consequenzialità tra
l'aggiudicazione della gara pubblica e la stipula del
relativo contratto, l'annullamento giurisdizionale ovvero
l'annullamento a seguito di autotutela della procedura
amministrativa comporta la caducazione automatica degli
effetti negoziali del contratto successivamente stipulato,
stante la preordinazione funzionale tra tali atti".
La caducazione del contratto stipulato a seguito
dell’aggiudicazione poi annullata costituisce, quindi, in
via generale, la conseguenza necessitata dell’annullamento:
di tale conseguenza l’art. 122 del Codice del processo
amministrativo costituisce una deroga, imperniata sulle
esigenze di semplificazione e concentrazione delle tutele ai
fini della loro effettività.
Ne consegue che, stante l’avvenuto annullamento
dell’aggiudicazione disposta dalla stazione appaltante a
favore della società Viras, odierna appellante,
l’applicazione che il primo giudice ha fatto dell’art. 122
del Codice ha costituito una disposizione favorevole
all’interesse dell’appellante stessa, dal momento che ha
salvato l’efficacia del contratto da questa stipulato con
l’Istat per la parte già eseguita, mentre, in assenza della
ricordata disposizione normativa e della applicazione
fattane dal primo giudice, la sorte del contratto sarebbe
stata travolta dalla accertata illegittimità
dell’individuazione del contraente
(Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 12.12.2012
n. 6374 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nel caso in cui la normativa di gara imponeva ai
concorrenti di
dichiarare tutti i precedenti penali (a prescindere financo
da eventuali
declaratorie di estinzione o di riabilitazione), la
dichiarazione difforme (in
quanto omissiva di un precedente penale peraltro
“specifico”) è da ritenere di
per sé inaffidabile, per la
sufficiente circostanza che non è conforme a quanto
prescritto dal disciplinare
di gara, questo indipendentemente dal contenuto dispositivo
dell'art. 38 del
Codice dei contratti pubblici e dalle interpretazioni
giurisprudenziali a
proposito della completezza o meno delle dichiarazioni
funzionali a
comprovare il possesso dei requisiti di ordine generale.
Nelle procedure di
evidenza pubblica la completezza delle dichiarazioni e la
loro stretta
conformità alle prescrizioni della lex specialis di gara è
già di per sé un valore
normativo e perciò vincolante, anche perché consente -secondo i principi di
buon andamento dell'amministrazione e di proporzionalità-
una celere
decisione sull'ammissione dei soggetti giuridici alla gara”.
La questione della
pretesa irrilevanza della dichiarazione relativa al
precedente penale di cui risultava gravato il direttore
tecnico, in quanto non espressamente richiesta dalla lex
specialis di gara, è mal posta dalla società appellante e
non appare meritevole di condivisione nei termini dalla
stessa prospettati.
Il disciplinare di gara (pag. 6/17) era inequivoco nel
richiedere ai concorrenti di prestare la massima attenzione
nella predisposizioni delle dichiarazioni ed in particolare
di quella di cui all’art. 38 del d.lgs. 163 del 2006. Vi si
precisava che i concorrenti avrebbero dovuto dichiarare
tutti i reati commessi anche se ritenuti non rilevanti o
incidenti sulla moralità professionale, con l’ulteriore
precisazione che la dichiarazione avrebbe dovuto
ricomprendere (tra l’altro) anche l’ipotesi dell’eventuale
estinzione del reato. A fronte di tale evidenza prescrittiva
al Collegio non pare possa porsi in dubbio, come invece
assume l’appellante, che la richiamata precisazione della
lex specialis non fosse direttamente rivolta ai
concorrenti ma agli stessi funzionari della stessa stazione
appaltante che, sulla base di quelle indicazioni, avrebbero
dovuto predisporre la modulistica da utilizzare da parte
degli operatori economici interessati alla gara. Una tale
interpretazione è palesemente contrastante con la portata
letterale della disposizione oltre che con la sua ratio,
consistente nel mettere i concorrenti sull’avviso circa
l’obbligatoria completezza delle loro dichiarazioni
sull’implicito e non irragionevole assunto secondo cui anche
un precedente penale relativo a reato estinto può essere
elemento valutativo della moralità professionale di un
candidato.
Peraltro, attesa la espressa e onnicomprensiva declaratoria
sui precedenti penali imposta dalla normativa di gara,
appare evidente che la questione giuridica che qui viene in
rilievo non investe il tema del cosiddetto falso innocuo, e
cioè della dichiarazione non veritiera resa però su un
requisito irrilevante ai fini partecipativi, dato che tale
questione suppone il riconoscimento di una limitata
discrezionalità del dichiarante nel rilasciare la
dichiarazione afferente i propri precedenti penali. Nel caso
di specie, al contrario, in cui la normativa di gara
imponeva ai concorrenti di dichiarare tutti i precedenti
penali (a prescindere financo da eventuali declaratorie di
estinzione o di riabilitazione), la dichiarazione difforme
(in quanto omissiva di un precedente penale peraltro “specifico”)
è da ritenere di per sé inaffidabile (Cons. Stato, V,
08.11.2012, n. 5693), per la sufficiente circostanza che non
è conforme a quanto prescritto dal disciplinare di gara,
questo indipendentemente dal contenuto dispositivo dell'art.
38 del Codice dei contratti pubblici e dalle interpretazioni
giurisprudenziali a proposito della completezza o meno delle
dichiarazioni funzionali a comprovare il possesso dei
requisiti di ordine generale.
Nelle procedure di evidenza pubblica la completezza delle
dichiarazioni e la loro stretta conformità alle prescrizioni
della lex specialis di gara è già di per sé un valore
normativo e perciò vincolante, anche perché consente
-secondo i principi di buon andamento dell'amministrazione e
di proporzionalità- una celere decisione sull'ammissione dei
soggetti giuridici alla gara
(massima tratta da www.mediaconsult.it - Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 10.12.2012 n. 6291 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il Consiglio di Stato, richiamando la disposizione di cui all’art. 6
della L. 241/1990, la
quale ammette la generale possibilità di regolarizzazione
delle dichiarazioni
lacunose o della documentazione incompleta (c.d. soccorso
istruttorio), ha
affermato l’applicazione della disposizione anche alle
procedure concorsuali
aventi ad oggetto l’affidamento di contratti pubblici.
Peraltro, con specifico
riferimento alla citata materia, il Collegio ha ribadito che
tale applicazione
incontra il limite della par condicio tra i concorrenti, per
effetto della quale,
non sarebbe possibile il ricorso al soccorso nei casi in cui
l’utilizzazione valga
a supplire l’inosservanza di adempimenti procedimentali
significativi: il limite,
quindi, sarebbe costituito dagli elementi essenziali della
domanda i quali
devono essere forniti autonomamente e direttamente dai
concorrenti.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto la legittima applicazione
del soccorso
istruttorio “qualora gli atti tempestivamente prodotti
contribuiscano a fornire
ragionevoli indizi circa il possesso del requisito di
partecipazione ad una
procedura...", non invece qualora le regolarizzazioni e/o le
integrazioni
documentali si traducano nella possibilità di una
sostituzione postuma di
irregolarità gravi e insanabili, con la finalità di
aggiramento delle prescrizioni
poste a base di gara e imposte a pena di esclusione.
Ed
ancora ha affermato il
Collegio: “Il dovere di soccorso istruttorio, in base al
quale le
Amministrazioni possono invitare i concorrenti a completare
o a fornire
chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati,
documenti e dichiarazioni
presentati, è quindi subordinato, oltre che al rispetto di
detti limiti, alla
esistenza in atti di dichiarazioni che siano state
effettivamente rese, ancorché
non in modo pienamente intellegibile o senza il rispetto dei
requisiti formali”.
Osserva la Sezione che ai sensi dell'art. 6 della L. n. 241
del 1990 è prevista la generale possibilità di chiedere la
regolarizzazione delle dichiarazioni lacunose e della
documentazione incompleta (c.d. soccorso istruttorio).
Anche se non è previsto un obbligo assoluto e incondizionato
in tal senso, dovendo comunque essere rispettati alcuni
limiti, quali quello della par condicio (che ne esclude
l'utilizzazione suppletiva nel caso dell'inosservanza di
adempimenti procedimentali significativi) ed il c.d. limite
degli elementi essenziali (nel senso che la regolarizzazione
non può essere riferita agli elementi essenziali della
domanda), detta norma va necessariamente applicata
dall'Amministrazione qualora gli atti tempestivamente
prodotti contribuiscano a fornire ragionevoli indizi circa
il possesso del requisito di partecipazione ad una procedura
come quella che occupa non espressamente documentato, come
nel caso di specie.
Il "dovere di soccorso istruttorio", in base al quale
le Amministrazioni possono invitare i concorrenti a
completare o a fornire chiarimenti in ordine al contenuto
dei certificati, documenti e dichiarazioni presentati, è
quindi subordinato, oltre che al rispetto di detti limiti,
alla esistenza in atti di dichiarazioni che siano state
effettivamente rese, ancorché non in modo pienamente
intellegibile o senza il rispetto dei requisiti formali.
Nel caso che occupa sono state presentate dal legale
rappresentante della Gamesa copie delle STMG formalmente
accettate (come risultante alla lettera L, delle istanze in
cui era precisato che le soluzioni prodotte erano state “esplicitamente
e definitivamente accettate”) e dichiarazioni relative
alla allegazione di copia della STMG “esplicitamente
accettata in via definitiva dal proponente” contenute
nella elencazione degli allegati alle domande.
La circostanza che i richiami alla intervenuta accettazione
fossero contenuti in una relazione tecnica sottoscritta (in
due casi) dal solo progettista e non anche dal legale
rappresentante della società e solo nella elencazione dei
documenti da allegare alla istanza, è inidonea, secondo il
Collegio, ad escludere la rilevanza di detti atti,
considerato che gli effetti delle dichiarazioni erano
comunque ascrivibili alla società e costituivano utili
indizi tali da imporre il ricorso al soccorso istruttorio.
Né può ritenersi che sarebbe stata così violata la par
condicio.
Il dovere di soccorso istruttorio previsto all’art. 6, lett.
b), l. n. 241 del 1990, e il generale favore per la
partecipazione, trovano infatti un limite insuperabile
nell’esigenza di garantire la "par condicio" dei
candidati. È, infatti, indubbio che il principio di "par
condicio" risulterebbe violato se le opportunità di
regolarizzazione, chiarimento o integrazione documentale si
traducessero in occasione di aggiustamento postumo di
irregolarità gravi e non sanabili, cioè in espediente per
eludere le conseguenze associate dalla legge o dal bando
all’inosservanza di prescrizioni tassative, imposte a pena
di esclusione.
Nel caso che occupa la irregolarità che ha portato alla
contestata declaratoria di improcedibilità non era
assolutamente grave o non sanabile, considerato che la
inderogabile necessità di allegare detto Modello 3/A già
dalla fase di ammissione alla procedura non era
esplicitamente affermata nel Disciplinare (che all’art. 9,
punto 3, stabiliva che “Sono considerati elementi
sostanziali della domanda di autorizzazione, e quindi non
integrabili successivamente dalla data di presentazione
della stessa: a) la soluzione tecnica minima generale (STMG)
esplicitamente accettata in via definitiva dal proponente”),
né imposta da altre fonti, sicché, in presenza degli indizi
cui sopra si è fatto cenno, avrebbe potuto essere
soddisfatta in sede di integrazione documentale ex art. 9,
comma 2, del Disciplinare
(massima tratta da www.mediaconsult.it - Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 05.12.2012 n. 6248 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il Giudice di prime cure ha accolto il ricorso
erroneamente affermando che
solo gli amministratori muniti dei poteri di rappresentanza
siano tenuti a rendere la
dichiarazione ex art. 38, comma 1, lettera c), del d.lgs.
n. 163/2006, che solo l’insussistenza
in concreto delle cause di esclusione può comportare la
esclusione dalla gara e che
comunque nel caso di specie la commissione di gara avrebbe
dovuto fare uso del potere di soccorso.
Detto art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, nella formulazione
introdotta dal d.l. n. 70/2011, si
riferisce a tutti i soggetti che siano in grado di influire
sulla onorabilità della persona
giuridica per conto della quale operano e non solo agli
amministratori muniti del potere di
rappresentanza, secondo il più ristretto significato
letterale, non essendo norma eccezionale
né derogante ai principi generali; pertanto l’onere della
dichiarazione de qua incombe su
tutti i soggetti che abbiano il potere di indirizzare
l’attività dell’impresa e di rappresentarla
all’esterno, come comprovato dalla circostanza che detto
articolo contempla anche il
direttore tecnico, il socio unico ed in alcuni casi il socio
di maggioranza.
Non poteva essere applicato al caso di specie il dovere di
soccorso, atteso che la domanda di
ammissione, secondo l’allegato A), avrebbe dovuto essere
integrata e sottoscritta a pena di
esclusione e che la carenza in tutto o in parte dei sopra
citati documenti comportava la
esclusione dalla gara, dovendo intendersi per carenza
parziale la mancata produzione di anche uno solo di essi.
Osserva la Sezione che costituisce principio consolidato in
giurisprudenza che
l’aggiudicazione provvisoria è un mero atto
endoprocedimentale, la cui autonoma
impugnabilità si riconnette a una mera facoltà, e non ad un
onere, del concorrente non
aggiudicatario ed è comunque condizionata, ai fini della sua
procedibilità, alla tempestiva
impugnazione, con motivi aggiunti, anche dell'aggiudicazione
definitiva che successivamente intervenga.
Infatti l'aggiudicazione definitiva non è un atto meramente
confermativo od esecutivo di
quella provvisoria, ma un provvedimento, che, anche quando
recepisca integralmente i
risultati dell'aggiudicazione provvisoria, postula una nuova
ed autonoma valutazione, pur facendo parte della medesima
sequenza procedimentale.
Osserva la Sezione che costituisce principio consolidato in
giurisprudenza che l’aggiudicazione provvisoria è un mero
atto endoprocedimentale, la cui autonoma impugnabilità si
riconnette a una mera facoltà, e non ad un onere, del
concorrente non aggiudicatario ed è comunque condizionata,
ai fini della sua procedibilità, alla tempestiva
impugnazione, con motivi aggiunti, anche dell'aggiudicazione
definitiva che successivamente intervenga (Consiglio di
Stato, ad. plen., 31.07.2012, n. 31; Consiglio di Stato,
sez. V, 31.01.2012).
Infatti l'aggiudicazione definitiva non è un atto meramente
confermativo od esecutivo di quella provvisoria, ma un
provvedimento, che, anche quando recepisca integralmente i
risultati dell'aggiudicazione provvisoria, postula una nuova
ed autonoma valutazione, pur facendo parte della medesima
sequenza procedimentale (Consiglio di Stato, sez. III,
07.05.2012, n. 2613).
L’art. 120, comma 5, del c.p.a., nel testo vigente all’epoca
dei fatti di causa, disponeva che: “Per l'impugnazione
degli atti di cui al presente articolo il ricorso e i motivi
aggiunti, anche avverso atti diversi da quelli già
impugnati, devono essere proposti nel termine di trenta
giorni, decorrente dalla ricezione della comunicazione di
cui all'art. 79 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, o, per i
bandi e gli avvisi con cui si indice una gara, autonomamente
lesivi, dalla pubblicazione di cui all'art. 66, c. 8, dello
stesso decreto; ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza
dell'atto”.
Nel caso che occupa è stato dedotto dalle appellanti e non
contestato nel presente giudizio che il termine per
l’impugnazione di detto provvedimento di aggiudicazione
definitiva, di cui la parte controinteressata era a
conoscenza sin dalla data del 12.5.2012, è inutilmente
trascorso senza che la SECO s.r.l. sia insorta in sede
giurisdizionale per ottenerne l’annullamento.
Deve quindi ritenersi, essendo idonea la comunicazione
stessa a determinare l'elemento della ««piena conoscenza»
di cui agli artt. 120 comma 5 e 41 c.p.a., che l’impugnativa
proposta avverso l'aggiudicazione provvisoria sia divenuta
improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse (massima
tratta da www.mediaconsult.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.12.2012 n. 6231 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Rivelazioni di segreto
di ufficio.
Il delitto di rivelazione di segreti d'ufficio riveste natura di reato di
pericolo effettivo e non meramente presunto, nel senso che
la rivelazione del segreto è punibile, non già in sé e per
sé, ma in quanto suscettibile di produrre nocumento a mezzo
della notizia da tenere segreta.
Il reato non sussiste, oltre che nella generale ipotesi
della notizia divenuta di dominio pubblico, qualora notizie
d'ufficio ancora segrete siano rivelate a persone
autorizzate a riceverle (e cioè che debbono necessariamente
esserne informate per la realizzazione dei fini
istituzionali connessi al segreto di cui si tratta) ovvero a
soggetti che, ancorché estranei ai meccanismi istituzionali
pubblici, le abbiano già conosciute, fermo restando per tali
ultime persone il limite della non conoscibilità
dell'evoluzione della notizia oltre i termini dell'apporto
da esse fornito.
La giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio
condivide e ribadisce, configura il delitto di cui all'art.
326 cod. pen. quale reato di pericolo effettivo (e non
meramente presunto) per gli interessi tutelati, nel senso
che la rivelazione del segreto è punibile, non già in sé e
per sé, ma in quanto suscettibile di produrre nocumento,
alla pubblica amministrazione o ad un terzo, a mezzo della
notizia da tenere segreta.
Ne consegue che il reato non sussiste, oltre che nella
generale ipotesi della notizia divenuta di dominio pubblico,
qualora notizie d'ufficio ancora segrete siano rivelate a
persone autorizzate a riceverle (e cioè che debbono
necessariamente esserne informate per la realizzazione dei
fini istituzionali connessi al segreto di cui si tratta)
ovvero a soggetti che, ancorché estranei ai meccanismi
istituzionali pubblici, le abbiano già conosciute, fermo
restando per tali ultime persone il limite della non
conoscibilità dell'evoluzione della notizia oltre i termini
dell'apporto da esse fornito (vedi Sez. 6, n. 9306 del
06/06/1994, Bandiera; Sez. 5, n. 30070 del 20/03/2009, C.).
Le ipotesi di non punibilità del reato di cui all'art. 326
cod. pen. per inoffensività del fatto risultano comunque
limitate a casi assai circoscritti, essendo stato
evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità che:
- il reato di rivelazione di segreti di ufficio si configura
anche quando il fatto coperto dal segreto sia già conosciuto
in un ambito limitato di persone e la condotta dell'agente
abbia avuto l'effetto di diffonderlo in un ambito più vasto
(Sez. 6: n. 929 del 05/12/1997, dep. 1998, Colandrea; Sez.
6, n. 35647 del 17/05/2004, Vietti);
- gli interessi tutelati dalla fattispecie incriminatrice in
oggetto si intendono lesi allorché la divulgazione della
notizia sia anche soltanto suscettibile di arrecare
pregiudizio alla pubblica amministrazione o ad un terzo
(Sez. 5, n. 46174 del 05/10/2004, Esposito; Sez. 1, n. 1265
del 29/11/2006, dep. 2007, Bria; Sez. 6, n. 5141 del
18/12/2007, dep. 2008, Cincavalli);
- quando è la legge a prevedere l'obbligo del segreto in
relazione ad un determinato atto o in relazione ad un
determinato fatto, il reato sussiste senza che possa sorgere
questione circa l'esistenza o la potenzialità del
pregiudizio richiesto, in quanto la fonte normativa ha già
effettuato la valutazione circa l'esistenza del pericolo,
ritenendola conseguente alla violazione dell'obbligo del
segreto (Sez. 6, n. 42726 dell'11/10/2005, De Carolis);
- integra il concorso nel delitto di rivelazione di segreti
d'ufficio la divulgazione da parte dell'extraneus del
contenuto di informative dl reato redatte da un ufficiale di
polizia giudiziaria, realizzandosi in tal modo una condotta
ulteriore rispetto a quella dell'originario propalatore
(Sez. 6, n. 42109 del 14/10/2009, Pezzuto)
(Corte di Cassazione, Sezz. Unite penali,
sentenza
07.02.2012 n. 4694 - link a www.penale.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Abuso di ufficio.
Ai fini della
configurabilità del reato di abuso d'ufficio, sussiste il
requisito della violazione di legge non solo quando la
condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con
le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche
quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione
di un interesse collidente con quello per il quale il potere
è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello
sviamento di potere, che integra la violazione di legge
poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema
normativo che ne legittima l'attribuzione.
Al riguardo, le Sezioni Unite hanno riaffermato che, ai fini
della violazione di legge, rileva che l'atto di ufficio non
sia stato posto in essere nel rispetto delle norme di legge
che regolano un'attività ovvero che attribuiscono al
pubblico ufficiale il “potere” di compierla.
Secondo la pronuncia “per qualsivoglia pubblica funzione
autoritativa, in tanto può parlarsi di esercizio legittimo
in quanto tale esercizio sia diretto a realizzare lo scopo
pubblico in funzione del quale è attribuita la potestà, che
del potere costituisce la condizione intrinseca di
legalità”.
Secondo la giurisprudenza nettamente prevalente di questa
Corte, si ha pertanto violazione di legge, rilevante a norma
dell'art. 323 cod. pen., non solo quando la condotta di un
qualsivoglia pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con
le norme che regolano l'esercizio del potere (profilo della
disciplina), ma anche quando difettino le condizioni
funzionali che legittimano lo stesso esercizio del potere
(profilo dell'attribuzione), cioè quando la condotta risulti
volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con
quello per il quale il potere è conferito.
Anche in questa ipotesi si realizza un vizio della funzione
legale, che è denominato sviamento di potere e che integra
violazione di legge perché sta a significare che la potestà
non è stata esercitata secondo lo schema normativo che
legittima l'attribuzione.
---------------
In tema di abuso di ufficio posta in essere da un giudice
dell’esecuzione le Sezioni Unite penali [sentenza
10.01.2012 n. 155, Rv. 251498, Rossi] hanno
affrontato una fattispecie relativa all'omessa riunione di
trentacinque procedure esecutive complessivamente identiche
quanto ai soggetti ed all'oggetto, in ciascuna delle quali
partecipavano in forma di intervento le medesime
trentacinque associazioni pignoranti, con conseguente
abnorme lievitazione delle spese processuali liquidate dal
giudice dell'esecuzione in favore delle associazioni
creditrici facenti capo al coimputato, che agiva in proprio,
quale difensore, e a nome delle predette associazioni di cui
era rappresentante e titolare.
È stato, così, affermato il principio per cui,
ai fini della
configurabilità del reato di abuso d'ufficio, sussiste il
requisito della violazione di legge non solo quando la
condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con
le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche
quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione
di un interesse collidente con quello per il quale il potere
è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello
sviamento di potere, che integra la violazione di legge poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema
normativo che ne legittima l'attribuzione.
Al riguardo, le Sezioni Unite hanno riaffermato che,
ai fini
della violazione di legge, rileva che l'atto di ufficio non
sia stato posto in essere nel rispetto delle norme di legge
che regolano un'attività ovvero che attribuiscono al
pubblico ufficiale il “potere” di compierla.
Secondo la pronuncia “per qualsivoglia pubblica funzione autoritativa, in tanto può parlarsi di esercizio legittimo
in quanto tale esercizio sia diretto a realizzare lo scopo
pubblico in funzione del quale è attribuita la potestà, che
del potere costituisce la condizione intrinseca di
legalità”.
Secondo la giurisprudenza nettamente prevalente di questa
Corte, si ha pertanto violazione di legge, rilevante a norma
dell'art. 323 cod. pen., non solo quando la condotta di un
qualsivoglia pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con
le norme che regolano l'esercizio del potere (profilo della
disciplina), ma anche quando difettino le condizioni
funzionali che legittimano lo stesso esercizio del potere
(profilo dell'attribuzione), cioè quando la condotta risulti
volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con
quello per il quale il potere è conferito.
Anche in questa ipotesi si realizza un vizio della funzione
legale, che è denominato sviamento di potere e che integra
violazione di legge perché sta a significare che la potestà
non è stata esercitata secondo lo schema normativo che
legittima l'attribuzione (in termini analoghi, tra le tante,
Sez. 6, n. 5820 del 09/02/1998, Mannucci, Rv. 211110; Sez.
6, n. 28389 del 19/05/2004, Vetrella, Rv. 229594; Sez. 6, n.
12196 dell'11/03/2005, Delle Monache, Rv. 231194; Sez. 6, n.
38965 del 18/10/2006, Fiori, Rv. 235277; Sez. 6, n. 41402
del 25/09/2009, D'Agostino, Rv. 245287; Sez. 5, n. 35501 del
16/06/2010, De Luca, Rv. 248496; Sez. 6, n. 35597 del
05/07/2011, Barbera)”.
Per le Sezioni Unite tali arresti “valgono allorché si
tratta di definire l'ambito dell'attività per legge doverosa
dei giudici. La peculiarità della categoria sta nel fatto
che per dettato costituzionale i giudici sono soggetti alla
legge ed esercitano una funzione, quella giurisdizionale,
che postula terzietà e imparzialità e si attua in un giusto
processo il cui primo requisito è d'essere regolato dalla
legge”.
Se si fa riferimento ai "doveri propri della pubblica
funzione esercitata", si parla dunque anzitutto e
inequivocabilmente di terzietà e di indifferenza rispetto
agli interessi e ai soggetti coinvolti nel processo e di
rispetto della legge, tassativa o ordinatoria che sia.
Neppure può indurre in errore, per il giudice, il
riferimento che sovente si fa alla discrezionalità per
indicare i suoi poteri di valutazione del merito. Se per
discrezionalità s'intende, come per la pubblica
amministrazione, la valutazione d'opportunità che attiene
alla fase di ponderazione degli interessi, l'attività del
giudice non ha di regola nulla di discrezionale. Il suo
agire in funzione di arbitro e regolatore di una pretesa di
parte non è connotato da libertà della scelta ma, come
detto, dal principio di legalità ed è in tali termini sempre
doveroso.
Altra cosa è la cosiddetta discrezionalità che coincide con
la valutazione di merito che compete al giudice effettuare
allorché si tratta di ricostruire la materialità del fatto
(sostanziale o processuale) in vista della qualificazione di
esso dal punto di vista della legge, cui in ogni caso
consegue il cosiddetto “potere-dovere” -ossia il dovere che
sorge da un potere (recte, da una potestà) a esercizio
necessario- della applicazione della norma al caso concreto
in essa sussumibile.
Diverso ancora è il giudizio secondo equità o la
commisurazione equitativa del quantum, che non riguardano le
situazioni in esame e che restano in ogni caso ancorati a
parametri previsti dalla legge nonché al rispetto del
principio di eguaglianza, comportante in primo luogo
rispetto della “par condicio civium”.
La sentenza ricorda che tra gli specifici doveri del giudice
rientrano quello di non ledere alcune parti procurando un
vantaggio ingiusto ad altre e quello di vigilare che le
parti si comportino con lealtà e probità, secondo quanto
previsto dall'art. 88 cod. proc. civ., in relazione ai
connessi poteri in tema di riduzione o condanna alle spese,
ai sensi quantomeno dell'art. 92 cod. proc. civ.
(tratto da RASSEGNA DELLA GIURISPRUDENZA PENALE DI
LEGITTIMITA’ - LA GIURISPRUDENZA DELLE SEZIONI UNITE E LE
PRINCIPALI LINEE DI TENDENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE -
Anno 2012 - CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - Ufficio del
Massimario - gennaio 2013) |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il mancato rispetto del termine di trenta giorni
previsto dal comma 3 dell’art. 2 della legge n. 241/1990 per
la conclusione dei procedimenti amministrativi non è idoneo
a determinare l’illegittimità del provvedimento "trattandosi
di termine acceleratorio per la definizione del procedimento
ed atteso che la legge non contiene alcuna prescrizione
circa la sua eventuale perentorietà, né circa la decadenza
della potestà amministrativa, né circa l’illegittimità del
provvedimento adottato".
- in giurisprudenza è stato chiarito che il mancato rispetto
del termine di trenta giorni previsto dal comma 3 dell’art.
2 della legge n. 241/1990 per la conclusione dei
procedimenti amministrativi non è idoneo a determinare
l’illegittimità del provvedimento "trattandosi di termine
acceleratorio per la definizione del procedimento ed atteso
che la legge non contiene alcuna prescrizione circa la sua
eventuale perentorietà, né circa la decadenza della potestà
amministrativa, né circa l’illegittimità del provvedimento
adottato" (Cons. Stato Sez. VI, 25.06.2008, n. 3215;
cfr. anche Sez. VI, 14.01.2009, n. 140) (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 01.12.2010 n. 8371 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
I termini del procedimento amministrativo devono
essere considerati ordinatori qualora non siano dichiarati
espressamente perentori dalla legge.
In particolare, il termine per la conclusione del
provvedimento previsto dall’art. 2 della l. n. 241 del 1990
è da ritenere sollecitatorio e non perentorio; onde la sua
mancata osservanza non può dare luogo alla illegittimità del
provvedimento finale, né esaurisce il potere
dell’Amministrazione di provvedere.
Sul punto giova richiamare l’autorevole interpretazione del
Giudice delle leggi secondo cui <<Questa Corte, attenendosi
peraltro alla chiara lettera della legge n. 241 del 1990, ha
già affermato che il termine di 30 giorni, stabilito in via
suppletiva e in una misura tale da sollecitare
l’amministrazione a provvedere, riguarda ogni tipo di
procedimento, sia ad iniziativa d’ufficio che di parte, “a
prescindere dall’efficacia ampliativa o restrittiva della
sfera giuridica dei destinatari dell’atto”.
Nella stessa sentenza ha altresì precisato che la mancata
osservanza del termine a provvedere non comporta la
decadenza dal potere, ma vale a connotare in termini di
illegittimità il comportamento della Pubblica
amministrazione, nei confronti del quale i soggetti
interessati alla conclusione del procedimento possono
insorgere utilizzando, per la tutela della propria
situazione soggettiva, tutti i rimedi che l’ordinamento
appresta in via generale in simili ipotesi (dal risarcimento
del danno all’esecuzione del giudicato che abbia accertato
l’inadempienza della pubblica amministrazione)>>.
Anche il secondo
motivo di gravame (con il quale si denuncia la violazione
del termine perentorio per la conclusione del procedimento
di autotutela) è infondato atteso che per costante
giurisprudenza (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. VI,
20.04.2006, n. 2195; Cons. Stato, sez. VI 19.02.2003, n.
939; Cons. Stato, sez. IV, 11.06.2002, n. 3256) i termini
del procedimento amministrativo (il cui avvio, nella
fattispecie, era stato debitamente comunicato) devono essere
considerati ordinatori qualora non siano dichiarati
espressamente perentori dalla legge.
In particolare, il termine per la conclusione del
provvedimento previsto dall’art. 2 della l. n. 241 del 1990
è da ritenere sollecitatorio e non perentorio; onde la sua
mancata osservanza non può dare luogo alla illegittimità del
provvedimento finale, né esaurisce il potere
dell’Amministrazione di provvedere.
Sul punto giova richiamare l’autorevole interpretazione del
Giudice delle leggi secondo cui <<Questa Corte,
attenendosi peraltro alla chiara lettera della legge n. 241
del 1990, ha già affermato che il termine di trenta giorni,
stabilito in via suppletiva e in una misura tale da
sollecitare l’amministrazione a provvedere, riguarda ogni
tipo di procedimento, sia ad iniziativa d’ufficio che di
parte, “a prescindere dall’efficacia ampliativa o
restrittiva della sfera giuridica dei destinatari dell’atto”
(sentenza n. 262 del 1997). Nella stessa sentenza ha altresì
precisato che la mancata osservanza del termine a provvedere
non comporta la decadenza dal potere, ma vale a connotare in
termini di illegittimità il comportamento della Pubblica
amministrazione, nei confronti del quale i soggetti
interessati alla conclusione del procedimento possono
insorgere utilizzando, per la tutela della propria
situazione soggettiva, tutti i rimedi che l’ordinamento
appresta in via generale in simili ipotesi (dal risarcimento
del danno all’esecuzione del giudicato che abbia accertato
l’inadempienza della pubblica amministrazione)>> (Corte
costituzionale, 17.07.2002, n. 355) (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 05.02.2009 n.
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ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
La giurisprudenza
prevalente ha individuato varie ipotesi nelle quali
l’interesse pubblico all’annullamento è, come suol dirsi, in
re ipsa e non richiede particolare motivazione, ivi
comprendendo in particolare tutte le ipotesi in cui
l’interesse sotteso all’attività di autotutela consiste
nell’evitare l’esborso di denaro pubblico senza titolo.
Inoltre, il recupero di somme indebitamente erogate dalla
Pubblica Amministrazione ai propri agenti ha carattere di
doverosità e costituisce esercizio, ai sensi dell’art. 2033
c.c., di un vero e proprio diritto soggettivo a contenuto
patrimoniale, non rinunziabile, in quanto correlato al
conseguimento di quelle finalità di pubblico interesse, cui
sono istituzionalmente destinate le somme indebitamente
erogate.
La motivazione del provvedimento di recupero di somme
indebitamente corrisposte deve ritenersi insita nell’acclaramento
della non spettanza degli emolumenti percepiti dall’agente,
senza che occorra una comparazione alcuna tra gli interessi
coinvolti (quello pubblico e quello del privato), non
vertendosi in ipotesi di interessi sacrificati, se non sotto
il limitato aspetto delle esigenze di vita del debitore
(cfr. anche Cons. Stato, Ad. Gen., parere 22.10.2007, n. 145
nell’adozione di atti di recupero di somme indebitamente
corrisposte, l’Amministrazione non è tenuta a fornire un
diffuso discorso giustificativo, essendo sufficiente che
vengano chiarite le ragioni per le quali il percipiente non
aveva diritto a quella determinata somma corrispostagli per
errore).
Anche il terzo
motivo di gravame (con il quale si denuncia l’omessa o
carente motivazione circa l’effusione del potere di
autotutela) è infondato atteso che la giurisprudenza
prevalente ha individuato varie ipotesi nelle quali
l’interesse pubblico all’annullamento è, come suol dirsi,
in re ipsa e non richiede particolare motivazione, ivi
comprendendo in particolare tutte le ipotesi in cui
l’interesse sotteso all’attività di autotutela consiste
nell’evitare l’esborso di denaro pubblico senza titolo
(Cons. Stato, sez. IV, 22.10.2004, n. 6956; Id., sez. V,
09.02.2001, n. 581).
Inoltre, come recentemente osservato (cfr. Cons. Stato, sez.
IV, 04.02.2008, n. 293) il recupero di somme indebitamente
erogate dalla Pubblica Amministrazione ai propri agenti ha
carattere di doverosità e costituisce esercizio, ai sensi
dell’art. 2033 c.c., di un vero e proprio diritto soggettivo
a contenuto patrimoniale, non rinunziabile, in quanto
correlato al conseguimento di quelle finalità di pubblico
interesse, cui sono istituzionalmente destinate le somme
indebitamente erogate.
La motivazione del provvedimento di recupero di somme
indebitamente corrisposte deve ritenersi insita nell’acclaramento
della non spettanza degli emolumenti percepiti dall’agente,
senza che occorra una comparazione alcuna tra gli interessi
coinvolti (quello pubblico e quello del privato), non
vertendosi in ipotesi di interessi sacrificati, se non sotto
il limitato aspetto delle esigenze di vita del debitore
(cfr. anche Cons. Stato, Ad. Gen., parere 22.10.2007, n. 145
nell’adozione di atti di recupero di somme indebitamente
corrisposte, l’Amministrazione non è tenuta a fornire un
diffuso discorso giustificativo, essendo sufficiente che
vengano chiarite le ragioni per le quali il percipiente non
aveva diritto a quella determinata somma corrispostagli per
errore) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.02.2009 n.
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ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
L'art. 30 del d.P.R. n. 347 del 1983 stabilisce
che i compensi incentivanti in favore degli impiegati siano
erogati sulla base della preventiva formulazione di
specifici programmi di attività delle singole unità
organiche e della successiva attività di valutazione del
risultato globale realizzato da ciascuna di esse, nonché
dell’apporto individuale di ogni impiegato al raggiungimento
del risultato stesso.
Non è legittimo, dunque, l’elargizione dell’erogazione in
modo indistinto e sulla base della sola presenza in servizio
del personale; ciò è, del resto, conforme alla ratio
dell’istituto dell’incentivazione, che -mirando a conseguire
l’efficienza dei servizi e ad elevare il livello di
produttività- mal tollererebbe una distribuzione “a pioggia”
di emolumenti.
Va osservato, altresì, che l’art. 8 del d.P.R. n. 333 del
1990 esclude expressis verbis la possibilità di erogazione
generalizzata dei compensi incentivanti collegata solo alla
presenza, ribadendo anzi la necessità di correlare la misura
degli incentivi ad una valutazione delle singole prestazioni
da effettuare (in mancanza di specifici parametri) tenendo
conto dei risultati conseguiti rispetto ai programmi ed ai
progetti-obiettivo predisposti.
Anche l’ultimo
motivo di ricorso non merita di essere accolto. Ed invero,
contrariamente a quanto osservato dagli appellanti, l'art.
30 del d.P.R. n. 347 del 1983 stabilisce che i compensi
incentivanti in favore degli impiegati siano erogati sulla
base della preventiva formulazione di specifici programmi di
attività delle singole unità organiche e della successiva
attività di valutazione del risultato globale realizzato da
ciascuna di esse, nonché dell’apporto individuale di ogni
impiegato al raggiungimento del risultato stesso; non è
legittimo, dunque, l’elargizione dell’erogazione in modo
indistinto e sulla base della sola presenza in servizio del
personale (Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 23.10.1998, n. 626);
ciò è, del resto, conforme alla ratio dell’istituto
dell’incentivazione, che -mirando a conseguire l’efficienza
dei servizi e ad elevare il livello di produttività- mal
tollererebbe una distribuzione “a pioggia” di
emolumenti.
Va osservato, altresì, che l’art. 8 del d.P.R. n. 333 del
1990 esclude expressis verbis la possibilità di
erogazione generalizzata dei compensi incentivanti collegata
solo alla presenza, ribadendo anzi la necessità di correlare
la misura degli incentivi ad una valutazione delle singole
prestazioni da effettuare (in mancanza di specifici
parametri) tenendo conto dei risultati conseguiti rispetto
ai programmi ed ai progetti-obiettivo predisposti (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 05.02.2009 n.
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INCARICHI PROFESSIONALI:
Il conferimento di un incarico professionale di
consulenza per gli aspetti geologici nell’ambito della
redazione di un piano strutturale (urbanistico) e di un
regolamento edilizio non rientra né nell’ambito della
disciplina degli appalti di lavori pubblici (trattandosi
invero di un’attività professionale –qualificata locatio
operis– riferibile ad una scelta eminentemente fiduciaria
del professionista), né in quella degli appalti di servizi
(non rinvenendosi i caratteri propri dell’appalto di
servizio ex art. 1655 C.C. e art. 3 del decreto legislativo
17.03.1995, n. 157, giacché l’appalto si distingue dal
contratto d’opera in quanto l’appaltatore deve essere una
media o grande impresa).
D’altra parte, anche se non è espressamente disciplinato il
conferimento di tali incarichi fiduciari, in base ai
principi di trasparenza e di buon andamento
l’amministrazione può stabilire le regole per
l’individuazione in concreto del soggetto più idoneo ed
adeguato (per professionalità, esperienze, conoscenze
tecniche) cui conferire il predetto incarico fiduciario,
regole alle quali essa stessa è poi ineluttabilmente
vincolata, proprio in ossequio ai principi fondamentali di
legalità, imparzialità e buon andamento fissati
dall’articolo 97 della Costituzione.
In tal caso, le prescrizioni contenute nel bando di gara e
nella lettera d'invito costituiscono la lex specialis della
gara e vincolano non solo i concorrenti, ma la stessa
amministrazione che non conserva, perciò, alcun margine di
discrezionalità nella loro concreta attuazione, né può
disapplicarle (neppure nel caso in cui talune delle regole
stesse risultino inopportune, salva la possibilità di far
luogo, nell'esercizio del potere di autotutela,
all'annullamento del bando).
Le preminenti esigenze di certezza, connesse allo
svolgimento delle procedure concorsuali di selezione dei
partecipanti, nonché la salvaguardia del valore della loro
par condicio, impongono, poi, di ritenere di stretta
interpretazione le clausole del bando di gara, per cui deve
essere preclusa qualsiasi esegesi delle stesse non
giustificata da un'obiettiva incertezza del loro significato
ovvero palesante significati non desumibili dalla loro
originaria formulazione; a tale principio si oppone quello
della sanabilità delle (sole) irregolarità formali, di
derivazione comunitaria e rilevante anche nell'ordinamento
interno, che consente di attenuare il rilievo delle
prescrizioni formali della procedura concorsuale, sempreché
esse non incidano sull'assetto sostanziale degli interessi
coinvolti nella procedura e non alterino le regole
riguardanti la par condicio dei concorrenti e purché
sussistano dubbi sulla esatta portata delle prescrizioni di
gara ovvero le stesse possano dar luogo a più
interpretazioni sugli adempimenti richiesti alle imprese.
Diversamente da quanto ritenuto dalla sentenza gravata, il
conferimento di un incarico professionale di consulenza per
gli aspetti geologici nell’ambito della redazione di un
piano strutturale (urbanistico) e di un regolamento edilizio
non rientra né nell’ambito della disciplina degli appalti di
lavori pubblici (trattandosi invero di un’attività
professionale –qualificata locatio operis– riferibile
ad una scelta eminentemente fiduciaria del professionista,
Cass. SS.UU. 19.10.1998, n. 10370; C.d.S., sez. IV,
27.11.2000, n. 6315; 28.08.2001, n. 4573; sez. VI,
04.09.2002, n. 4433), né in quella degli appalti di servizi
(non rinvenendosi i caratteri propri dell’appalto di
servizio ex art. 1655 C.C. e art. 3 del decreto legislativo
17.03.1995, n. 157, giacché l’appalto si distingue dal
contratto d’opera in quanto l’appaltatore deve essere una
media o grande impresa, C.d.S., sez. IV, 28.08.2001, n.
4573).
D’altra parte, anche se non è espressamente disciplinato il
conferimento di tali incarichi fiduciari, in base ai
principi di trasparenza e di buon andamento
l’amministrazione può stabilire le regole per
l’individuazione in concreto del soggetto più idoneo ed
adeguato (per professionalità, esperienze, conoscenze
tecniche) cui conferire il predetto incarico fiduciario,
regole alle quali essa stessa è poi ineluttabilmente
vincolata, proprio in ossequio ai principi fondamentali di
legalità, imparzialità e buon andamento fissati
dall’articolo 97 della Costituzione.
In tal caso, le prescrizioni contenute nel bando di gara e
nella lettera d'invito costituiscono la lex specialis
della gara e vincolano non solo i concorrenti, ma la stessa
amministrazione che non conserva, perciò, alcun margine di
discrezionalità nella loro concreta attuazione (ex
pluribus, C.d.S., sez. IV, 21.05.2004, n. 3297; sez. V,
10.01.2005, n. 32; 13.11.2002, n. 6300), né può
disapplicarle (neppure nel caso in cui talune delle regole
stesse risultino inopportune, salva la possibilità di far
luogo, nell'esercizio del potere di autotutela,
all'annullamento del bando, C.d.S., sez. V, 30.12.2004, n.
8292; sez. VI, 01.10.2003, n. 5712; 14.01.2002, n. 166).
Le preminenti esigenze di certezza, connesse allo
svolgimento delle procedure concorsuali di selezione dei
partecipanti, nonché la salvaguardia del valore della loro
par condicio, impongono, poi, di ritenere di stretta
interpretazione le clausole del bando di gara, per cui deve
essere preclusa qualsiasi esegesi delle stesse non
giustificata da un'obiettiva incertezza del loro significato
ovvero palesante significati non desumibili dalla loro
originaria formulazione (C.d.S., sez. V, 15.04.2004, n.
2162); a tale principio si oppone quello della sanabilità
delle (sole) irregolarità formali, di derivazione
comunitaria e rilevante anche nell'ordinamento interno, che
consente di attenuare il rilievo delle prescrizioni formali
della procedura concorsuale, sempreché esse non incidano
sull'assetto sostanziale degli interessi coinvolti nella
procedura e non alterino le regole riguardanti la par
condicio dei concorrenti (C.d.S., sez. V, 04.02.2004, n.
364) e purché sussistano dubbi sulla esatta portata delle
prescrizioni di gara (C.d.S., sez. V, 25.01.2003, n. 357)
ovvero le stesse possano dar luogo a più interpretazioni
sugli adempimenti richiesti alle imprese (C.d.S., sez, V,
02.03.1999, n. 223)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.01.2008 n. 263 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Mentre l’attività di
indirizzo, riservata agli organi elettivi o politici del
comune, può consistere anche nella fissazione delle linee
generali da seguire e degli scopi da perseguire con
l’attività di gestione, la scelta di un contraente
nell’ambito di una procedura di gara (ovvero la scelta di
professionisti forniti di titoli adeguati per la redazione
di strumenti di pianificazione del territorio) costituisce
una tipica attività di gestione, finalizzata al
raggiungimento degli scopi fissati dall’organo politico,
sicché rientra nell’ambito delle competenze dei dirigenti.
---------------
Una volta intervenuto l’annullamento del provvedimento di
aggiudicazione (a firma de politico anziché del dirigente),
per l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno
deve risultare effettivamente sussistente l’elemento
soggettivo quanto meno della colpa (riferibile all’apparato
dell’amministrazione), in base ai principi generali
applicabili anche quando si tratti della responsabilità
amministrativa per la lesione dell’interesse legittimo.
Nel caso di specie, non è revocabile in dubbio che
l’illegittimità dei provvedimenti impugnati è stata causata
dalla evidente violazione delle regole di imparzialità e
buon andamento dell’attività amministrativa (e delle
prescrizioni dell’originario avviso di gara), sicché
sussiste l’elemento psicologico della colpa.
La domanda risarcitoria risulta dunque fondata, atteso che,
come risulta dal verbale n. 3 del 31.03.2001, l’offerta
presentata dalla ... era stata considerata dalla commissione
la migliore dal punto di vista complessivo (tecnico ed
economico, secondo i criteri condivisi dalla stessa giunta).
Quanto alla concreta determinazione del danno risarcibile,
la Sezione ritiene di dover accogliere la richiesta
dell’appellante, fissando la misura del lucro cessante, in
mancanza di qualsiasi contestazione da parte
dell’amministrazione appellata ed in ragione della
peculiarità dell’affidamento e dell’importo indicato
nell’originario avviso, del 10% dell’offerta economica pari
a lire 75.831.182 e quindi in lire 7.583.118, pari ad euro
3.916,35.
Trattandosi di una somma di valore, tale importo deve essere
rivalutato all’attualità e sulla somma così rivalutata
spettano gli interessi legali a decorrere dalla data di
pubblicazione della presente decisione.
Ugualmente fondato è
il motivo di appello con il quale l’appellante ha lamentato
che i provvedimenti impugnati, in particolare le delibere di
Giunta Municipale con cui era stato originariamente affidato
e poi confermato l’incarico in questione alla Progeo Geologi
Associati, erano affetti dal vizio di incompetenza.
Diversamente da quanto statuito dai primi giudici, il
collegio ritiene che –mentre l’attività di indirizzo,
riservata agli organi elettivi o politici del comune, può
consistere anche nella fissazione delle linee generali da
seguire e degli scopi da perseguire con l’attività di
gestione- la scelta di un contraente nell’ambito di una
procedura di gara (ovvero la scelta di professionisti
forniti di titoli adeguati per la redazione di strumenti di
pianificazione del territorio) costituisce una tipica
attività di gestione, finalizzata al raggiungimento degli
scopi fissati dall’organo politico, sicché rientra
nell’ambito delle competenze dei dirigenti (C.d.S., sez. V,
09.09.2005, n. 4654; 21.11.2003, n. 7632).
Sotto tale profilo, risulta effettivamente sussistente il
dedotto vizio di incompetenza della delibera della Giunta
Municipale n. 180 dell’11.05.2001 e di quella successiva n.
411 del 16.11.2001, spettando al dirigente del Servizio
urbanistico di prendere atto delle conclusioni istruttorie
della commissione incaricata di valutare le offerte e di
individuare l’offerta più idonea ed adeguata per il
conferimento dell’incarico di consulenza geologica.
La delineata illegittimità dei provvedimenti di conferimento
dell’incarico di consulenza alla Progeo Geologi Associati
comporta che la Sezione deve esaminare la domanda
risarcitoria avanzata, sin dal primo grado, dall’appellante.
Al riguardo la Sezione rileva che, una volta intervenuto
l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione, per
l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno deve
risultare effettivamente sussistente l’elemento soggettivo
quanto meno della colpa (riferibile all’apparato
dell’amministrazione), in base ai principi generali
applicabili anche quando si tratti della responsabilità
amministrativa per la lesione dell’interesse legittimo.
Nel caso di specie, non potendo essere esaminato in questa
sede il rilievo del comportamento della aggiudicataria (in
assenza di una specifica domanda dell’appellante o
dell’amministrazione), non è revocabile in dubbio che
l’illegittimità dei provvedimenti impugnati è stata causata
dalla evidente violazione delle regole di imparzialità e
buon andamento dell’attività amministrativa (e delle
prescrizioni dell’originario avviso di gara), sicché
sussiste l’elemento psicologico della colpa.
La domanda risarcitoria risulta dunque fondata, atteso che,
come risulta dal verbale n. 3 del 31.03.2001, l’offerta
presentata dalla Geo Eco Progetti era stata considerata
dalla commissione la migliore dal punto di vista complessivo
(tecnico ed economico, secondo i criteri condivisi dalla
stessa giunta).
Quanto alla concreta determinazione del danno risarcibile,
la Sezione ritiene di dover accogliere la richiesta
dell’appellante, fissando la misura del lucro cessante, in
mancanza di qualsiasi contestazione da parte
dell’amministrazione appellata ed in ragione della
peculiarità dell’affidamento e dell’importo indicato
nell’originario avviso, del 10% dell’offerta economica pari
a lire 75.831.182 e quindi in lire 7.583.118, pari ad euro
3.916,35.
Trattandosi di una somma di valore, tale importo deve essere
rivalutato all’attualità e sulla somma così rivalutata
spettano gli interessi legali a decorrere dalla data di
pubblicazione della presente decisione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.01.2008 n. 263 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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