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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di FEBBRAIO 2013

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aggiornamento al 25.02.2013

aggiornamento al 18.02.2013

aggiornamento al 14.02.2013

aggiornamento al 11.02.2013

aggiornamento al 04.02.2013

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 25.02.2013

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QUESITI & PARERI

ANCHE IN LOMBARDIA SI DEVE COSTITUIRE IL S.U.E. !!

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Obbligo o meno di costituzione, anche in Lombardia, dello sportello unico per l’edilizia (S.U.E.) a far data dal 12.02.2013 (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio e Urbanistica, risposta e-mail del 21.02.2013).

     Nonostante la corposa modificazione/integrazione dell'art. 5 DPR n. 380/2011, ad opera del comma 2, lett. a), dell'art. 13 della L. 134/2012, avevamo speranza che in Lombardia l'obbligo di costituire il S.U.E. non sussistesse, poiché il suddetto art. 5 è stato formalmente disapplicato ad opera dell'art. 103, comma 1, della L.R. n. 12/2005. Purtroppo, così non è !!
     Quindi,
dal 12.02.2013 anche in Lombardia i comuni devono aver già costituito il S.U.E. ... Ed in sé e per sé, non è tanto l'ulteriore burocrazia che si aggiunge in capo al responsabile del procedimento amministrativo a spaventare quanto la questione dell'inoltro delle istanze edilizie in formato digitale (on-line mediante internet) poiché, in questo caso, occorrono risorse economiche (e di questi tempi è dura per tutti ...) per necessariamente attrezzarsi in maniera adeguata (software, hardware, PEC dedicata, ecc.).
     Comunque, volenti o nolenti,
già bisogna applicare la procedura istruttoria ex art. 5 del DPR n. 380/2001 poiché, altrimenti, è serio il rischio di vedersi inficiata la legittimità della procedura di rilascio del titolo abilitativo richiesto.
25.02.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

NOVITA' NEL SITO

Inserito il nuovo bottone dossier CANNE FUMARIE.

CONVEGNI

LAVORI PUBBLICI: Si segnala n. 1 convegno gratuito organizzato dalla PROVINCIA DI MILANO che si terrà giovedì 14.03.2013 sull'argomento "LA MANUTENZIONE STRADALE - Tradizione, innovazione e aspetti ambientali collegati all'uso del fresato d'asfalto".
Maggiori dettagli e la locandina possono essere letti cliccando qui.

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: VISITE SPECIALISTICHE E MALATTIA NEL PUBBLICO IMPIEGO (CGIL-FP di Bergamo, nota 16.02.2013).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Definiti gli standard formativi per gli installatori di impianti a fonti rinnovabili (ANCE Bergamo, circolare 22.02.2013 n. 49).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Oggetto: Elezioni politiche e regionali del 24–25.02.2013. Permessi elettorali per i lavoratori chiamati a svolgere funzioni presso i seggi (ANCE Bergamo, circolare 22.02.2013 n. 48).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: DURC. Trasmissione tramite PEC dei certificati emessi dall'INAIL e dall'INPS alle stazioni appaltanti e alle amministrazioni procedenti (INAIL di Bergamo, nota 18.02.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: acque di balneazione (D.Lgs. 30.05.2008, n. 116 "Attuazione della direttiva 2006/7/CE relativa alla gestione della qualità delle acque di balneazione e abrogazione della direttiva 76/160/CEE"). Elenco dei punti monitorati" (Regione Lombardia, Direzione Generale Sanità, Governo della Prevenzione e Tutela Sanitaria, nota 14.02.2013 n. 5590 di prot.).

UTILITA'

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Aggiornamento su censimento presenza amianto edifici territorio lombardo (ASL di Bergamo, 20.02.2013).

URBANISTICA: Lombardia, MONITORAGGIO DEI COMUNI CHE NON HANNO APPROVATO IL PGT ENTRO IL 31.12.2012 (link a www.territorio.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATAIl “Fisco sulla casa”, aggiornata la guida 'Annuario del contribuente' dell’Agenzia delle Entrate.
L’Agenzia delle Entrate ha aggiornato a febbraio 2013 la sezione Fisco sulla casa dell’Annuario del Contribuente, in virtù delle ultime disposizioni normative.
La guida al Fisco sulla Casa tratta i seguenti argomenti:
● la tassazione sugli immobili
● le imposte sulle compravendite
● le locazioni
● la successione e la donazione di immobili
● le detrazioni fiscali del 50 e del 55%
Di seguito riportiamo le novità della versione 2013.
In particolare, nel primo capitolo, dedicato alla “tassazione degli immobili”, sono stati aggiornati i seguenti argomenti:
● IVIE, l’imposta dovuta dalle persone fisiche che possiedono immobili all’estero (la nuova disciplina è stata riscritta dalla Legge di Stabilità 2013)
● IMU, l’imposta municipale propria
● IRPEF sugli immobili
Nel secondo capitolo, “Le imposte sulle compravendite”, sono stati riassunti e semplificati i chiarimenti contenuti in due importanti risoluzioni dell’Agenzia (Risoluzione n. 105/2011 e Risoluzione n. 112/2012) in tema di decadenza dalle agevolazioni previste per l’acquisto della “prima casa”.
Nel capitolo terzo, dedicato alle locazioni dei fabbricati, è stato integrato il paragrafo sul regime della cedolare secca (immobili interessati e opzione) e aggiornata la parte dedicata al regime ordinario di tassazione.
Nel quarto capitolo, infine, trova spazio l’ultima novità, quella contenuta nella risoluzione n. 11 del 13.02.2013, con la quale l’Agenzia ha precisato che non è più necessario allegare alla dichiarazione di successione gli estratti catastali degli immobili (21.02.2013 - tratto da www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 21.02.2013 n. 44 "Sesto elenco aggiornato dei siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica alpina in Italia" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 31.01.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 21.02.2013 n. 44 "Sesto elenco aggiornato dei siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica continentale in Italia" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 31.01.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 21.02.2013 n. 44 "Sesto elenco aggiornato dei siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica mediterranea in Italia" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 31.01.2013).

LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 dell'11.02.2013, "Approvazione dell’invito a presentare proposte per l’accesso ai finanziamenti a fondo perduto del fondo costituito presso Finlombarda s.p.a. e riservato ad interventi di rimozione di manufatti contenenti amianto dal patrimonio di edilizia residenziale pubblica dei comuni lombardi" (decreto D.U.O. 05.02.2013 n. 782).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: M. Bottone, IL DPR 139/2010 CHE VERRA' - A proposito dello ... schema di DPR concernente regolamento di modifica del DPR 09.07.2010 n. 139 recante procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità, a norma dell'art. 146, comma 9, del D.Lgs. 22.01.2004 n. 42 e successive modificazioni (22.02.2013).

EDILIZIA PRIVATA: D. Logozzo, Le ondivaghe pronunce in materia di volumi tecnici: il problema irrisolto delle canne fumarie (Urbanistica e appalti n. 2/2013).

ENTI LOCALI: D. F. G. Trebastoni, Identificazione degli enti pubblici, e relativa disciplina (link a www.giustizia-amministrativa.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Art. 4, comma 24, della l. n. 92 del 2012 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita) - congedo obbligatorio e congedo facoltativo del padre lavoratore - voucher alla madre lavoratrice - chiarimenti applicativi (nota 20.02.2013 n. 8629 di prot.).
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Niente congedo di paternità per gli statali
Niente congedo di paternità per i dipendenti pubblici. La chance prevista dalla legge Fornero, che dallo scorso 13 febbraio (data di pubblicazione in G.U. del decreto ministeriale di attuazione) consente ai neopapà di godere di un giorno di congedo obbligatorio e fino a due di congedo facoltativo (tutti pagati al 100% della retribuzione) fino al quinto mese di vita del figlio, resterà una prerogativa del settore privato. Almeno fino a quando il ministero della funzione pubblica non interverrà per adeguare i princìpi della riforma del lavoro (legge n. 92/2012) alla pubblica amministrazione.

Lo ha precisato lo stesso dipartimento guidato da Filippo Patroni Griffi rispondendo al comune di Reggio Emilia.
Nella nota 20.02.2013 n. 8629 di prot., palazzo Vidoni ha replicato alla richiesta di chiarimenti del comune inviata qualche giorno dopo l'adozione del decreto interministeriale Lavoro-Mef (avvenuta il 22.12.2012, anche se per la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale si è dovuto attendere il 13 febbraio).
La risposta del ministero della funzione pubblica è stata tranciante: le norme sul congedo di paternità (obbligatorio e facoltativo) non sono «direttamente applicabili» al pubblico impiego, «atteso che tale applicazione è subordinata all'approvazione di apposita normativa su iniziativa del ministro per la pubblica amministrazione e semplificazione». Con la conseguenza che fino a quando Patroni Griffi, o molto più probabilmente il suo successore, non interverrà a definire, sentite le organizzazioni sindacali, «gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche», nulla cambierà per gli statali. A cui continueranno ad applicarsi le norme sui congedi previste dal Testo unico sul pubblico impiego (dlgs n. 151/2001) e dai Contratti collettivi del comparto.
La materia dei congedi di paternità rientra così di diritto tra i temi che saranno oggetto di trattativa con i sindacati nei prossimi mesi. E affianca lo spinoso dossier della regolamentazione dei contratti a termine nella p.a. su cui il ministro ha inviato un atto di indirizzo all'Aran (si veda ItaliaOggi di ieri) per avviare un tavolo di confronto.
Cosa prevede il dm 22 dicembre. Il dm stabilisce che per usufruire dei congedi il padre deve comunicare per iscritto al datore di lavoro i giorni in cui intende fruirne, dando non meno di 15 giorni di anticipo, «ove possibile, in relazione all'evento nascita sulla base della data presunta del parto».
Il congedo obbligatorio di un giorno spetta al padre di diritto. Quello facoltativo (uno o due giorni) è invece subordinato alla dichiarazione della madre di non fruire del proprio congedo di maternità per un numero di giorni equivalenti a quelli chiesti dal padre. I congedi non potranno essere frazionati a ore (articolo ItaliaOggi del 21.02.2013).

PUBBLICO IMPIEGOCongedo dei padri in stand by nel pubblico. Bloccati i voucher alternativi alla maternità facoltativa.
Per il momento il congedo obbligatorio e quello facoltativo del lavoratore in occasione della nascita di un figlio non si applica ai dipendenti della pubblica amministrazione. Allo stesso modo le madri che non utilizzano il congedo parentale non possono partecipare all'assegnazione dei voucher con cui pagare la baby sitter o l'asilo.

A precisarlo è la nota 20.02.2013 n. 8629 di prot. del dipartimento della Funzione pubblica in risposta a un quesito presentato dal Comune di Reggio Emilia.
L'amministrazione comunale aveva chiesto chiarimenti in merito all'applicazione ai dipendenti pubblici di quanto previsto dal comma 24 dell'articolo 4 della legge 92/2012. Il dipartimento ha precisato che «la normativa in questione non è direttamente applicabile ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni» perché, come precisato dai commi 7 e 8 dell'articolo 1 della legge 92/2012, «tale applicazione è subordinata all'approvazione di apposita normativa su iniziativa del ministro per la Pubblica amministrazione e semplificazione».
Dunque, finché quanto previsto dalla legge 92 non sarà recepito formalmente dal ministero per la Pubblica amministrazione, i dipendenti del comparto pubblico non potranno usufruire delle misure introdotte a titolo sperimentale per il triennio 2013-2015. Si tratta di un giorno di congedo obbligatorio per il lavoratore che diventa padre da usufruire nei primi cinque mesi dalla nascita del figlio e di altri due giorni facoltativi a disposizione sempre nello stesso periodo. Tutte le astensioni dal lavoro saranno retribuite al 100% ma mentre quella obbligatoria non incide sul congedo obbligatorio della madre, le due facoltative, se usufruite, comportano una corrispondente riduzione dell'assenza della madre.
Per quest'ultima, inoltre, è stata prevista la possibilità di beneficiare di un contributo economico alternativo alla fruizione del congedo parentale, fino a 300 euro al mese per un massimo di sei mesi, con cui pagare l'asilo o la baby sitter. Per l'erogazione di questa misura, però, sarà necessario fare domanda all'Inps secondo le modalità e i tempi che verranno definiti da quest'ultima. L'istituto di previdenza provvederà a stilare una graduatoria sulla base dell'Isee, con priorità per i nuclei familiari con indicatore più basso.
Il decreto ministeriale attuativo del 22.12.2012 prevede che al bando possa partecipare chi ha già avuto un figlio e le donne con data presunta del parto entro quattro mesi dalla scadenza del bando. Quindi, poiché nel 2013 è previsto un solo bando, lo stesso probabilmente si dovrebbe chiudere non prima della fine di agosto, in modo da coprire tutto l'anno.
Poiché i padri devono-possono usufruire del congedo entro i cinque mesi di vita del figlio, e la misura si applica dal 01.01.2013, per non discriminare i dipendenti statali nei confronti dei privati, per i quali la misura è già operativa, la novità dovrebbe essere recepita dalla Pa al più tardi all'inizio di maggio (articolo Il Sole 24 Ore del 22.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

QUESITI & PARERI

ATTI AMMINISTRATIVI: Il protocollo informatico.
DOMANDA:
Il nostro comune riceve un numero sempre maggiore di istanze in formato elettronico (PEC). Attualmente tali istanze, congiuntamente agli allegati, si stampano e si appone sulla copia cartacea il numero di protocollo.
Nella considerazione che alcune PEC sono firmate digitalmente (quindi l’originale è il file ricevuto e non la copia cartacea stampata) si chiede come bisogna procedere per abbandonare tale procedura che prevede l’utilizzo del supporto cartaceo ed adottare una gestione esclusivamente informatica della Posta Elettronica Certificata nel rispetto:
- dell’obbligo di garantire la conservazione nel tempo dei documenti informatici trasmessi al comune;
- della vigente normativa riguardante il protocollo in ingresso dei comuni e dell’identificabilità del documento (in quanto non vi sarebbe più un supporto cartaceo che riporta gli estremi del protocollo attribuito).
RISPOSTA:
Il quesito posto verte in materia di gestione del protocollo informatico con riferimento alle comunicazioni pervenute agli indirizzi elettronici dell’Ente (in particolare, posta elettronica certificata). La prassi descritta nel quesito in esame può ritenersi corretta, almeno per un duplice ordine di ragioni:
a) da un lato, la stampa dei messaggi frustrerebbe le esigenze di dematerializzazione connesse all’utilizzo degli strumenti telematici nella PA (e dei risparmi che ne derivano);
b) dall’altro, comprometterebbe l’affidabilità e completezza di fascicoli ed archivi (la stampa della PEC costituisce solo una copia della comunicazione originale).
Appare dunque corretto affermare il principio per cui l’intera gestione delle comunicazioni che pervengono all’Ente in modalità telematica deve avvenire senza l’uso degli strumenti cartacei, in omaggio alle disposizioni dettate dal Codice dell’Amministrazione Digitale (D.Lgs. n. 82/2005) che ormai prescrivono l’obbligatorietà della gestione dei procedimenti amministrativi mediante le tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Con specifico riferimento al quesito, la protocollazione del documento informatico ricevuto via PEC deve essere assicurata dalle soluzioni di protocollo informatico che gli Enti sono tenuti ad usare dal 01.01.2004 e che devono ovviamente rispettose delle regole tecniche dettate dal Dpcm 31.10.2000 (le nuove regole tecniche, di futura emanazione, sono consultabili in bozza cliccando qui).
Naturalmente, non è possibile delineare un’unica modalità con cui rispettare le norme citate, in quanto le diverse soluzioni (acquisibili sul mercato o grazie al riuso) possono adottare soluzioni tecniche diverse. Di conseguenza, all’Ente è fatto obbligo di dotarsi degli strumenti tecnologici di protocollazione e gestione dei fascicoli informatici (art. 41) in relazione ai quali dovrà essere verificata –di volta in volta– la rispondenza alle prescrizioni normative (e ai loro aggiornamenti). Infatti, visto il valore ormai riconosciuto al protocollo e al documento informatico, l’uso di questi strumenti è l’unico che può assicurare una corretta gestione documentale e di identificare correttamente ciascun atto.
Dal punto di vista organizzativo, il Comune dovrà operare poi nella redazione del Manuale di Gestione (obbligatorio ai sensi dell’art. 5 Dpcm 31.10.2000) le scelte relative alla descrizione del flusso di lavorazione dei documenti ricevuti, spediti o interni, incluse le regole di registrazione per i documenti pervenuti secondo particolari modalità di trasmissione, tra i quali, in particolare, documenti.
In conclusione, deve ricordarsi che –ovviamente– i documenti, fascicoli e registri (incluso quello di protocollo) andranno sottoposti a conservazione secondo le regole contenute nella deliberazione CNIPA n. 11/2004 contenente le “Regole tecniche per la riproduzione e conservazione di documenti su supporto ottico idoneo a garantire la conformità dei documenti agli originali” (21.02.2013 - tratto da www.ancirisponde.ancitel.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Responsabilità funzionario Arpa.
Domanda
In tema di smaltimento illecito di rifiuti, esiste una responsabilità penale del funzionario Arpa per culpa in vigilando?
Risposta
La Corte di cassazione, con la sentenza del 15.12.2010, numero 3634, relativa a responsabilità omissiva impropria per mancato impedimento di condotte altrui penalmente illecite, ha affermato che l'Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente (Arpa) è un Ente di diritto pubblico, preposto all'esercizio delle funzioni e delle attività tecniche per la vigilanza e il controllo ambientale, delle attività di ricerca e di supporto tecnico-scientifico, nonché alle erogazioni di prestazioni analitiche di rilievo sia ambientale, sia sanitario.
Pertanto, il pubblico ufficiale Arpa, preposto alla vigilanza e al controllo ambientale, che venga a conoscenza dell'esistenza di rifiuti interrati e partecipi alle operazioni di rimozione, viene ad assumere, secondo la Suprema corte, una posizione di garanzia.
Ora, poiché tra i compiti posti in capo alle regioni e alle province vi è la predisposizione dei piani regionali di gestione dei rifiuti, con l'obbligo del controllo periodico su tutte le attività di gestione, intermediazione e commercio dei rifiuti medesimi, compreso l'accertamento delle violazioni, sussiste la responsabilità penale, sempre secondo la Suprema corte di cassazione, in capo al funzionario dell'Arpa, (ente di cui le regioni si avvalgono) se non ha eseguito o fatto eseguire il controllo o i controlli che aveva l'obbligo giuridico di eseguire, pur avendo avuto notizia dell'attività illecita posta in essere dal soggetto smaltitore dei rifiuti.
Nella fattispecie, per la Corte di cassazione, si applica la clausola espansiva generale di cui al secondo comma dell'articolo 40, codice penale, per stabilire l'astratta configurazione della responsabilità per i reati di cui all'articolo 256 del decreto legislativo numero 152, del 2006 (gestione non autorizzata di rifiuti e traffico illecito di rifiuti) in capo ai funzionari dell'Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente (Arpa) (articolo ItaliaOggi Sette del 18.02.2013).

APPALTI: Appalti e subappalti.
Domanda
Nel vigente sistema per gli appalti la responsabilità solidale tra appaltante e subappaltante deve intendersi estesa anche nei confronti del commissionario col proprio committente?
Risposta
L'attuale normativa prevede la responsabilità solidale dell'appaltatore e del committente per il versamento delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e dell'Iva dovuta dal subappaltatore e dall'appaltatore con riferimento alle prestazioni rese nell'ambito contrattuale (contratti d'appalto e subappalto di opere, forniture e servizi conclusi dagli operatori che li stipulano nell'ambito di attività aventi rilevanza Iva).
Per quel che concerne il contratto di commissione, stante il fatto che la stessa costituisce una fattispecie negoziale diversa dall'appalto, non è ritenibile possa trovarvi ingresso la responsabilità solidale di cui all'articolo 13-ter del dl n. 83 del 2012 (cosiddetto «decreto Crescita»), che ha modificato, a decorrere dal 12.08.2012, la disciplina in materia di responsabilità fiscale nell'ambito dei contratti d'appalto e subappalto di opere e servizi (articolo ItaliaOggi Sette del 18.02.2013).

CORTE DEI CONTI

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALIProposta shock della Corte conti Lombardia all'inaugurazione dell'anno giudiziario. Sfori il Patto? È danno erariale. Sanzioni non incisive. Corruzione sconcertante nella p.a..
Il mancato rispetto del patto di stabilità potrebbe presto costare ai comuni una condanna per danno erariale. Troppo poco incisive sono infatti le sanzioni oggi previste per il mancato rispetto degli obiettivi di bilancio (blocco delle assunzioni a qualsiasi titolo, comprese le co.co.co. e taglio al fondo di riequilibrio).
Al punto che gli enti inadempienti spesso continuano ad assumere come se niente fosse. Lo ha fatto per esempio il comune di Cremona che pur avendo sforato il Patto nel 2009 ha assunto 32 dipendenti, beccandosi una condanna per danno erariale di oltre un milione di euro.
Per questo, la Corte conti Lombardia, che da sempre si caratterizza per essere una delle più innovative sezioni regionali, ha deciso di porre un freno a un'interpretazione troppo permissiva delle norme contabili. L'obiettivo è fissare una regola aurea che stabilisca che «gli equilibri di bilancio sono un valore da tutelare» e rappresentano «limiti cogenti che non possono essere violati con leggerezza». Da qui ad arrivare a configurare un'ipotesi di danno erariale per mancato rispetto degli obiettivi il passo potrebbe essere breve.
La relazione 21.02.2013 tenuta dal procuratore regionale della Corte conti Lombardia, Antonio Caruso, nel corso dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, è un duro atto di accusa contro la mala gestione degli enti locali che nel 2012 hanno dato fondo a un vasto campionario di irregolarità in diversi settori: dagli appalti agli strumenti urbanistici, dai debiti fuori bilancio agli incarichi professionali e alle consulenze.
Un lungo elenco di cattiva amministrazione che si innesta in un contesto, quale quello lombardo, oggi più che mai interessato da «una serie sconcertante di fenomeni corruttivi e concussivi della pubblica amministrazione», rispetto alla quale Mani pulite sembra poca cosa. Di questo Caruso non ha dubbi: «La piaga della corruzione in Lombardia è ben più grave rispetto a 20 anni fa perché alimenta una mentalità sempre più incline a considerare lo spazio pubblico come preda degli interessi personali».
E la Corte conti si trova oberata di fascicoli: 7.325 sono le vertenze pendenti al 31/12/2012, in pratica mille a testa per ogni magistrato della procura. Mentre il complessivo ammontare del pregiudizio erariale che la Corte ha chiesto indietro ha raggiunto quota 11,6 milioni di euro. Un risultato ottenuto anche grazie al protocollo d'intesa sottoscritto con le procure penali di Milano, Como e Pavia (e presto anche con le altre procure lombarde) che consente un più rapido scambio dei fascicoli tra i tribunali e la Corte conti e quindi una quantificazione più veloce del danno erariale anche in corso di indagini.
È quanto potrebbe presto accadere per esempio al governatore lombardo uscente, Roberto Formigoni (che parlando a margine, nel corso dell'inaugurazione ha ribadito la propria estraneità ai fatti), coinvolto negli scandali su sanità e rimborsi. «I risultati arriveranno a maturazione in tempi brevissimi», ha assicurato Caruso.
L'esecuzione delle sentenze. Una nota dolente arriva invece dall'esecuzione delle sentenze di condanna, ossia dall'attività di recupero delle somme che i responsabili per danno erariale sono tenuti a versare all'amministrazione danneggiata. La p.a., infatti, continua a fare fatica nel recuperare quanto dovuto per mancanza di «idonei apparati organizzativi, professionalità e dotazioni organiche».
«Le amministrazioni», ha lamenta il procuratore regionale, «non sempre hanno capacità di stare in giudizio e di seguire le procedure esecutive e le eventuali fasi di opposizione delle stesse» e spesso sono costrette a fare ricorso ad avvocati esterni con ulteriori costi aggiuntivi. Nonostante queste indubbie difficoltà, nel quinquennio 2008-2012 la Corte conti Lombardia ha recuperato 17,2 milioni di euro, di cui 2,5 solo nel 2012.
Enti locali spreconi. Oltre alla corruzione dilagante, l'altro aspetto che preoccupa i giudici erariali è la ritrosia degli enti locali a ridurre lo spreco di risorse nonostante i tagli degli ultimi anni. Le consulenze e i finanziamenti a pioggia ai privati sono, secondo la procura, i rivoli in cui si perdono più facilmente i soldi pubblici. Mentre i settori in cui si registrano le maggiori irregolarità sono le politiche del personale, gli appalti e la gestione urbanistica.
Nel 2012 la Corte ha dovuto affrontare un ampio spettro di casi di mala amministrazione: affidamenti senza gara di servizi comunali (Segrate), consulenze senza oggetto e che non hanno prodotto nulla, a parte, ovviamente lo spreco di risorse pubbliche (Sesto San Giovanni), incarichi esterni pur in presenza di risorse umane interne (Gerenzano), progressioni verticali interamente riservate al personale dipendente, debiti fuori bilancio illegittimamente contabilizzati.
Ma è sul Patto, soprattutto, che secondo la Corte occorre operare una stretta. Perché gli enti che più o meno volontariamente non rispettano gli obiettivi contabili sono in continua crescita. Nel 2010 erano 48, nel 2011 sono saliti a 119 di cui 24 nella sola Lombardia (il 20% del totale). Numeri che sarebbero indici di gravi difficoltà economiche se fossero accompagnati da politiche di austerity a livello locale. Cosa che invece, accusa la procura contabile lombarda, non accade nei fatti perché i comuni «continuano a lamentarsi per i tagli, ma poi sprecano con leggerezza soldi pubblici» (articolo ItaliaOggi del 22.02.2013 - tratto da www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALIEnti territoriali. Rischio condanna per chi sfora il Patto di stabilità
LA PROSPETTIVA/ La Procura di Corte conti della Lombardia studia la possibilità di chiedere risarcimenti agli amministratori.
Gli amministratori locali che sforano il Patto di stabilità rischiano di essere chiamati a rispondere di danno erariale.

Su questa prospettiva sta lavorando la Procura della magistratura contabile in Lombardia, che ieri ha inaugurato a Milano l'anno giudiziario (si veda anche l'articolo a pagina 16 sull'allarme corruzione) e ha spiegato, nella relazione 21.02.2013, di aver messo sotto esame il quadro di diversi enti locali usciti dai binari di finanza pubblica: nella sola Lombardia, del resto, a mancare gli obiettivi di bilancio nel 2011 sono stati 22 Comuni, cioè il 17% degli enti che a livello nazionale hanno sforato il Patto. La questione non è comunque solo lombarda, perché un eventuale processo che si concludesse con una condanna al rimborso del danno erariale costituirebbe un precedente importante a livello nazionale.
Una maxi-condanna legata allo sforamento dei vincoli di finanza pubblica in realtà c'è già stata, ed è stata comminata dalla sezione giurisdizionale del Piemonte agli ex amministratori di Alessandria (sindaco, assessori e maggioranza in consiglio), chiamati in primo grado a restituire 7,6 milioni di euro (si veda Il Sole 24 Ore del 18 gennaio). La vicenda alessandrina, però, ha un peso specifico particolare, perché ad accendere le indagini (anche della Procura della Repubblica) sono stati gli «artifici contabili» che hanno nascosto lo sforamento effettivo dei vincoli del Patto, hanno ritardato l'applicazione delle sanzioni ordinarie e hanno finito per portare il Comune al "dissesto obbligato" da parte della stessa Corte dei conti.
Sui possibili risvolti giurisdizionali dello sforamento del Patto, come sempre accade per i lavori in itinere sui tavoli della Procura contabile, i magistrati sono abbottonatissimi, ma è ovvio che per produrre eventuali conseguenze penali il mancato rispetto del Patto di stabilità dovrà essere accompagnato da altri fattori. «Occorre valutare la situazione complessiva dell'ente –spiegavano ieri i magistrati– perché non bisogna sottovalutare che ci sono Comuni che lamentano l'impossibilità di rispettare i vincoli di finanza pubblica, ma allo stesso tempo continuano a sprecare risorse in consulenze o in altre spese inutili».
In quest'ottica, il mancato rispetto del Patto potrebbe rappresentare la spia-chiave per andare a spulciare i conti dell'amministrazione alla ricerca di eventuali danni erariali. Tra gli enti inadempienti in Lombardia, per esempio, c'è il caso del Comune di Adro (Brescia), che non è riuscito a centrare gli obiettivi di finanza pubblica ma ha trovato le risorse per "ornare" scuole e panchine con il Sole delle Alpi leghista (e per questo il sindaco è già stato chiamato a rispondere di danno erariale). A Cremona, invece, il Patto è stato sforato nel 2009, ma l'anno dopo il Comune ha comunque assunto 32 persone e ora si vede contestato un danno da 1,2 milioni.    (articolo Il Sole 24 Ore del 22.02.2013 - tratto da www.corteconti.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Non vi sono dubbi sull’impossibilità, da parte dell’ente locale, di liquidare l’incentivo alla progettazione nella misura del 2%, qualora non sia stato adeguato il regolamento interno, il quale continui a prevedere, quale misura massima del premio, lo 0,50%.
La Corte dei Conti, sezione di controllo Emilia-Romagna, con il parere 15.02.2013 n. 62, ritiene “… che non vi siano dubbi sull’impossibilità, da parte dell’ente locale, di liquidare l’incentivo alla progettazione nella misura del 2%, qualora non sia stato adeguato il regolamento interno, il quale continui a prevedere, quale misura massima del premio, lo 0,50%”.
Le motivazioni:
- la norma pone il 2% quale limite massimo e demanda alla fonte regolamentare la scelta della percentuale erogabile;
- l’ente non può liquidare compensi incentivanti in misura superiore a quella stabilita nel proprio regolamento;
- la modifica normativa non si sostituisce in alcun modo, in via automatica, alla fonte regolamentare;
- una decisione a posteriori di incremento della percentuale (attività oggetto di premio già svolte) non troverebbe alcuna giustificazione nella finalità di incentivazione del personale interno con maggiore economia di spesa, risulterebbe in deroga al principio di onnicomprensitivà della retribuzione e foriera di comportamenti illeciti produttivi di danno erariale (tratto da www.gianlucabertagna.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Rimborso spese viaggio agli amministratori.
La Corte dei Conti, sezione regionale Campania, con il parere 14.02.2013 n. 21, si occupa del rimborso spese spettante agli amministratori locali per missioni svolte con l'utilizzo del mezzo proprio.
La sezione, tratta la richiesta di parere ai soli fini dell'interpretazione del quadro normativo vigente che ricostruisce in modo puntuale (senza entrare nel merito delle specifiche ipotesi rappresentate dall'ente istante), coordina le disposizioni con quelle prescritte per i dipendenti (in particolare di qualifica dirigenziale) e, sinteticamente, esprime il proprio avviso come segue:
- "Tali considerazioni (quelle riferite ai dipendenti/dirigenti), in virtù del rinvio di cui al citato art. 2 del D.M. 04.08.2011, valgono anche per gli amministratori pubblici che per il rimborso delle spese di viaggio sono destinatari dei medesimi limiti previsti per i dirigenti degli enti locali. L'amministratore che intenda avvalersi del mezzo proprio, al fine di rendere più agevole il proprio spostamento, sarà abilitato a farlo, previa autorizzazione del Sindaco o del Presidente del consiglio comunale, ma con il limitato effetto di ottenere la copertura assicurativa dovuta in base alle vigenti disposizioni";
- "... le Sezioni Riunite della Corte dei conti con la recente Delibera n. 21 del 16.02.2011 depositata in data 05.04.2011, hanno riconosciuto: '... possibile il ricorso a regolamentazioni interne volte a disciplinare, per i soli casi in cui l'utilizzo del mezzo proprio risulti economicamente più conveniente per l'Amministrazione, forme di ristoro del dipendente dei costi dallo stesso sostenuti che, però, dovranno necessariamente tenere conto delle finalità di contenimento della spesa introdotte con la manovra estiva e degli oneri che in concreto avrebbe sostenuto l'Ente per le sole spese di trasporto in ipotesi di utilizzo dei mezzi pubblici...' ... Pertanto, osserva il Collegio che sussiste, nei limiti suindicati, un alveo operativo entro il quale riconoscere il rimborso delle spese di viaggio agli amministratori locali che fanno uso del mezzo proprio nell'espletamento del mandato istituzionale" (tratto da www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGOPassword decrittabile, paga danni il dipendente dell'Agenzia entrate.
Il dipendente dell'amministrazione finanziaria deve usare la massima cautela nell'utilizzo delle proprie credenziali di accesso al sistema informatico. Soprattutto se la sua funzione in seno all'ufficio è in grado di annullare o modificare gli importi delle somme già iscritte a ruolo. In caso di indebiti sgravi di cartelle di pagamento, infatti, se non è provato l'illecito utilizzo da parte di terzi delle chiavi di accesso, allo stesso dipendente deve essere ascritto il relativo danno causato all'Agenzia delle entrate.

Così la sezione giurisdizionale della Corte dei conti Siciliana (pres. Pagliaro, rel. Brancato) che, con la sentenza 04.02.2013 n. 494, ha condannato una dipendente dell'ufficio delle entrate di Acireale, poiché, con le sue chiavi di accesso al sistema, sono state impropriamente annullate cartelle di pagamento per oltre un milione di euro. Danno, poi, ridimensionato a poco più di 68 mila euro, in quanto con successive emissioni di cartelle, l'Erario ha potuto incassare la maggior parte di quanto dovuto.
Secondo il collegio della Corte siciliana, l'utilizzo di procedure informatiche, in grado di modificare la posizione debitoria dei contribuenti implica, per l'importanza e la delicatezza dei compiti gestionali e per le conseguenze sul piano erariale, l'adozione da parte di ciascun operatore, di misure idonee a escludere qualsiasi possibilità di utilizzo illecito delle procedure. È fondamentale l'osservanza della massima diligenza nella custodia delle credenziali di accesso al sistema informatico, in relazione alle prevedibili conseguenze che possono derivare dall'eventuale uso illecito delle stesse.
Ne è prova che la stessa Agenzia ha diramato specifiche istruzioni, sottolineando l'importanza di formare la propria password in modo tale da rendere difficile ogni tentativo per carpirla, raccomandando, tra l'altro, l'inserimento di un minimo di otto caratteri alfanumerici, da cambiare ogni due mesi. In ogni caso, la custodia e la scelta di una password «difficile da utilizzare impropriamente» è una fondamentale regola di comportamento, a cui ciascun soggetto abilitato ad effettuare gli sgravi deve rigorosamente attenersi, al fine di evitare l'intrusione nel sistema di soggetti non autorizzati (articolo ItaliaOggi del 22.02.2013 - tratto da www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Indennità amministratori locali.
La Corte dei Conti, sezione regionale Puglia, con il parere 01.02.2013 n. 19, in ordine al calcolo degli abbattimenti percentuali delle indennità degli amministratori locali, precisa quanto segue:
- il taglio del 10% previsto dall'art. 1, comma 54, della legge 266/2005 andava operato sulle somme riconosciute alla data del 30.09.2005 tenendo conto di eventuali decurtazione già facoltativamente disposte dall'ente (non, automaticamente, con riferimento agli importi fissati dal D.M. 119/2000) ;
- in caso di deliberazione di diminuzione (volontaria) inferiore al 10% le indennità dovevano essere ridotte fino a detta percentuale, mentre -per diminuzioni superiori o pari a questa- l'ente non doveva operare ulteriori tagli;
- l'indennità dimezzata spettante ai lavoratori dipendenti non collocatisi in aspettativa deve essere conteggiata su quella determinata per gli altri amministratori dopo aver applicato il taglio del 10%, secondo le modalità predette;
- qualora siano state erogate somme in misura superiore a quella dovuta, l'ente deve ripeterle, con contestuale costituzione in mora, dagli amministratori, per indebito oggettivo ex art. 2033 codice civile (tratto da www.publika.it).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTIContratti pubblici: arrivano i chiarimenti sulla modalità elettronica obbligatoria dal primo gennaio 2013.
Il Decreto Sviluppo-bis (D.L. 179/2012) ha modificato l’articolo 11, comma 13, del Codice dei Contratti, stabilendo che dal primo gennaio 2013 i contratti devono essere stipulati “con atto pubblico notarile informatico, ovvero, in modalità elettronica…”.
L’AVCP (Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici), con la determinazione 13.02.2013 n. 1, ha fornito chiarimenti a Stazioni Appaltanti e operatori economici che hanno lamentato difficoltà legate all’applicazione delle nuove disposizioni e ha specificato i casi in cui è obbligatorio utilizzare la modalità elettronica per la stipula dei contratti di lavori, servizi e forniture.
Secondo l'Autorità, le nuove disposizioni si applicano ai contratti pubblici regolati dall’art.3 del Codice dei Contratti; pertanto ne sono esclusi contratti di compravendita e locazione immobiliare stipulati dalle pubbliche amministrazioni.
Inoltre, per la scrittura privata è ancora consentita la forma cartacea.
In definitiva, la stipulazione del contratto può assumere, a seconda delle disposizioni applicabili di caso in caso, tre diverse forme:
atto pubblico notarile informatico, ai sensi della legge sull'ordinamento del notariato e degli archivi notarili;
forma pubblica amministrativa, con modalità elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione appaltante, a cura dell'Ufficiale rogante dell'amministrazione aggiudicatrice;
scrittura privata, per la quale resta ammissibile la forma cartacea e le forme equipollenti ammesse dall'ordinamento.
Infine, l’AVCP afferma che, come previsto anche dall’art. 25 del Codice dell'Amministrazione Digitale, la “modalità elettronica” può essere assolta anche attraverso la sola acquisizione digitale della firma autografa (commento tratto da www.acca.it).

APPALTII chiarimenti dell'Autorità. Contratti online secondo il codice.
L'USO DEL WEB/ Nessun obbligo per affitti e compravendite della Pa. Ai privati basterà l'acquisizione digitale dell'intestazione autografa.

L'obbligo di stipulare i contratti pubblici invia telematica vale solo per gli appalti disciplinati dal codice, dunque niente compravendite o affitti della Pa. Il vincolo non riguarda le scritture private che potranno sopravvivere in forma cartacea. Agli operatori privati non serve chiedere la firma elettronica: basta una semplice acquisizione digitale della sottoscrizione autografa, con attestazione sull'autenticità della firma da parte di un pubblico ufficiale.
Sono alcune delle precisazioni contenute nella determinazione 13.02.2013 n. 1, diffusa ieri dall'Autorità di Vigilanza, con l'obiettivo di chiarire le implicazioni derivanti dall'obbligo di stipulare i contratti pubblici in forma digitale previsto dal decreto sull'Agenda digitale (Dl 179/2012). Un vincolo imposto con una delle oltre 100 modifiche apportate dal Governo Monti al Codice degli appalti(Dlgs 163/2006) e in vigore dal primo gennaio 2013.
Come ammette la stessa Autorità in premessa, l'obbligo sta creando non pochi problemi alle stazioni appaltanti, «che lamentano la sussistenza di incertezze applicative», anche perché la sanzione è severa: l'inadempimento si paga con la nullità del contratto.
Con la determinazione l'Autorità prova a dare una bussola alle amministrazioni, «in attesa di un pur auspicabile chiarimento normativo», che è già stato annunciato e dovrebbe prendere la forma di una circolare congiunta Funzione Pubblica-Infrastrutture. Il primo passaggio è la definizione dei confini dell'obbligo di stipula in modalità elettronica. L'Autorità segna un limite netto tra i contratti disciplinati dal Codice (appalti o concessioni per acquisire servizi, forniture o eseguire lavori pubblici) e quelli che invece ne restano fuori, come i «contratti di compravendita o locazione immobiliare stipulati dalle amministrazioni».
Secondo punto: quando scattano le modalità elettroniche? Sicuramente quando si ricorre a un notaio per stipulare un atto notarile informatico. In questo caso non si dovrebbero incontrare difficoltà visto che i notai hanno investito per tempo in un sistema capace di supportare la firma e la conservazione dei contratti in modalità digitale. I problemi si incontrano nella seconda delle opzioni: la «forma pubblica amministrativa», vale a dire un contratto firmato alla presenza di un «Ufficiale rogante della stazione appaltante». Anche in questo caso c'è l'obbligo della stipula telematica. Esclusa, invece, l'eventualità che vadano siglate con modalità elettroniche le scritture private, quando ammesse dalle norme sugli appalti. In caso di cottimo fiduciario, ad esempio, è ancora possibile ricorrere alla carta.
L'ultima notazione riguarda l'acquisizione della firma delle parti. Secondo l'Autorità, l'obbligo deve essere inteso nel senso che «per la forma pubblica amministrativa, è ammesso il ricorso all'acquisizione digitale della sottoscrizione autografa, ferma restando l'attestazione da parte dell'Ufficiale rogante, dotato di firma digitale, che la firma dell'operatore è stata apposta in sua presenza, previo accertamento della sua identità personale» (articolo Il Sole 24 Ore del 20.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTIContratti pubblici, la carta resiste ancora.
Per la stipula dei contratti pubblici, anche dopo il primo gennaio 2013, è ancora ammessa la scrittura privata in forma cartacea e non c'è obbligo di stipula con «modalità elettronica», anche se le parti sono comunque libere di sottoscrivere il contratto con firma digitale; per la stipula con atto pubblico amministrativo è obbligatoria la sola «modalità elettronica» che può consistere anche nell'acquisizione digitale della sottoscrizione autografa ai sensi del codice dell'amministrazione digitale; sempre previsto l'atto pubblico notarile informatico, ai sensi della legge sull'ordinamento del notariato e degli archivi notarili.

È quanto chiarisce l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici con la determinazione 19.02.2013 n. 1 con la quale si danno indicazioni interpretative concernenti la forma dei contratti pubblici ai sensi dell'art. 11, comma 13, del codice.
Sulla norma è infatti intervenuto di recente l'articolo 6, comma 3, del dl 18.10.2012, n. 179, convertito con modificazioni dalla legge 17.12.2012, n. 221 (cosiddetto decreto sviluppo-bis) che, a partire dal primo gennaio 2013, dispone che «il contratto è stipulato, a pena di nullità, con atto pubblico notarile informatico, ovvero, in modalità elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione appaltante, in forma pubblica amministrativa a cura dell'ufficiale rogante dell'amministrazione aggiudicatrice o mediante scrittura privata».
La determina precisa in primis che la norma si applica a tutti i contratti previsti dall'art. 3 del codice («contratti aventi per oggetto l'esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti e la prestazione di servizi»), con esclusione dei contratti sottratti all'applicazione del codice stesso (per esempio, i contratti di compravendita o di locazione immobiliare stipulati dalle pubbliche amministrazioni. Per quel che riguarda, in secondo luogo, la forma elettronica, la determina specifica che «dall'esegesi letterale delle due disposizioni succedutesi nel tempo, detto obbligo appare circoscritto alla stipulazione in forma pubblica amministrativa, non essendovi una analoga specificazione con riguardo all'utilizzo della scrittura privata, nei casi in cui detto utilizzo è consentito».
Di ciò ne è prova l'impiego della congiunzione avversativa «o», prima dell'espressione «mediante scrittura privata», che per l'Authority presieduta da Sergio Santoro «non depone nel senso di poter ritenere estendibile l'inciso in modalità elettronica anche alla stipulazione per scrittura privata». Quindi la modalità elettronica costituisce «una modalità attuativa obbligatoria della forma pubblica amministrativa e non una forma alternativa alla stessa»: se la stipula dell'atto contrattuale avviene in forma amministrativa pubblica, la «forma elettronica» è l'unica modalità ammessa e la forma cartacea resta legittima soltanto in caso di scrittura privata.
Quando è ammessa la stipulazione per scrittura privata, l'Autorità chiarisce che è comunque facoltà delle parti sottoscrivere il contratto con firma digitale. Per «modalità elettronica» l'Autorità afferma che, anche in relazione a quanto prevede l'articolo 25 del codice dell'amministrazione digitale, l'espressione utilizzata dall'articolo 11, comma 13 del dlgs 163/2006, «può essere intesa anche nel senso che, per la forma pubblica amministrativa, è ammesso il ricorso all'acquisizione digitale della sottoscrizione autografa, ferma restando l'attestazione, da parte dell'ufficiale rogante, dotato di firma digitale, che la firma dell'operatore è stata apposta in sua presenza, previo accertamento della sua identità personale» (articolo ItaliaOggi del 20.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it)..

NEWS

CONDOMINIORiforma forense. Il Cnf cambia linea sull'incompatibilità. Per l'avvocato è compatibile amministrare il condominio.
L'avvocato potrà continuare serenamente ad amministrare condomini.

Con il parere 20.02.2013 espresso dalla Commissione consultiva del Consiglio nazionale forense è stata ribaltata la risposta alla faq. n. 32 (poi scomparsa dal sito) sulla riforma forense.
L'accurata disamina della questione, che prendeva le mosse dall'articolo 18 della legge 247/2012, esclude l'incompatibilità in tutte le ipotesi in cui venga svolta l'attività di amministratore di condominio: anzitutto quella in cui sia un lavoro dipendente, dato che non si può instaurare un rapporto di questo tipo tra amministratore e condominio. Poi quella dell'assunzione della qualità di socio o amministratore di una società commerciale: il condominio è assimilabile alla figura del consumatore e quindi l'amministratore non potrà mai assumere tale qualifica.
L'amministratore è un mandatario, afferma la Commissione, quindi questo basta a escludere l'incompatibilità indicata nell'articolo 18 della legge 247/2012 relativamente all'esercizio di attività commerciale svolta in nome proprio o altrui: «l'amministratore, non agendo in proprio, non esercita nemmeno attività di impresa commerciale in nome altrui se è vero che nemmeno i mandanti l'esercitano».
Rimane il caso più frequente, quello dell'esercizio di lavoro autonomo svolta continuativamente o professionalmente. Secondo la Commissione, proprio perché l'attività «si riduce, alla fine, all'esercizio di un mandato con rappresentanza conferito da persone fisiche, in nome e per conto delle quali egli agisce e l'esecuzione di mandati, consistenti nel compimento di attività giuridica per conto ed (eventualmente) in nome altrui è esattamente uno dei possibili modi di svolgimento dell'attività professionale forense sicché la circostanza che essa sia svolta con continuità non aggiunge né toglie nulla alla sua legittimità di fondo quale espressione, appunto, di esercizio della professione».
Assoluzione piena, quindi, per gli avvocati amministratori condominiali, dopo che la precedente faq. n. 32 aveva suscitato una levata di scudi (si veda Il Sole 24 Ore del 19 febbraio scorso).
La Commissione ha anche approfondito la questione esaminando la riforma del condominio (legge 220/2012, che entrerà in vigore il 18.06.2013), chiarendo che non «ha innovato la figura dell'amministratore perché se ne ha ampliato, sotto certi profili, poteri e responsabilità, non ha trasformato l'esercizio della relativa attività in professione vera e propria, o quanto meno in professione regolamentata» (articolo Il Sole 24 Ore del 23.02.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOConvenzioni, grana personale. Serve il consenso dei dipendenti trasferiti. Nell'unione no. Il problema si acuirà quando i comuni dovranno associare le funzioni più pesanti.
Nelle convezioni costituite dai piccoli comuni per l'esercizio associato delle funzioni fondamentali la ricollocazione del personale è resa problematica da una normativa lacunosa e contraddittoria, che rischia di generare contenziosi.
Come noto, i comuni con meno di 5 mila abitanti (soglia che scende a 3 mila per quelli appartenenti o appartenuti a comunità montane) sono obbligati, entro la fine del 2013, a gestire in forma associata tutte le proprie funzioni fondamentali (escluse solo quelle concernenti anagrafe, stato civile e servizi elettorali), conferendole ad unioni oppure stipulando apposite convenzioni.
È evidente che tale processo avrà un impatto significativo anche sulle risorse umane che finora hanno curato l'esercizio di tali funzioni da parte dei singoli comuni e che dovranno essere in gran parte ricollocate presso le nuove forme associative.
Per le unioni, ciò è espressamente previsto dall'art. 32, comma 5, del Tuel (novellato dall'art. 19 del dl 95/2012), ai sensi del quale «all'unione sono conferite dai comuni partecipanti le risorse umane e strumentali necessarie all'esercizio delle funzioni loro attribuite».
Analogamente dispone l'art. 16, comma 3, del dl 138/2011 (anch'esso novellato dal dl 95) per le unioni speciali riservate ai comuni sotto i 1000 abitanti e che possono essere istituite, in alternativa agli altri due modelli, per esercitare la totalità delle funzioni degli enti aderenti. Nel caso delle convenzioni, i comuni possono individuare un capofila cui delegare le funzioni oppure, ai sensi dell'art. 30, comma 4, del Tuel, prevedere la costituzione di uffici comuni, «che operano con personale distaccato dagli enti partecipanti».
Il trasferimento di personale dai comuni alle unioni rientra pacificamente nell'ambito di applicazione dell'art. 31 del dlgs 165/2001, che dispone, in caso di trasferimento o conferimento di attività, svolte da pubbliche amministrazioni, enti pubblici o loro aziende o strutture, ad altri soggetti, pubblici o privati, l'applicazione al personale che passa alle dipendenze di tali soggetti dell'art. 2112 del codice civile. Tale disposizione, a sua volta, prevede, in caso di trasferimento d'azienda o di ramo d'azienda, una speciale forma di cessione di contratto di lavoro, la quale non necessita, per il relativo perfezionamento, del consenso dei lavoratori interessati.
Per le convenzioni, al contrario, l'art. 14 del Ccnl del comparto regioni-enti locali (quadriennio 2002-2005) prevede, al comma 1, che gli enti locali possano utilizzare personale assegnato da altri enti. Ciò sulla base di apposita «convenzione» (da non confondersi con quella relativa a funzioni e servizi), previo assenso dell'ente di appartenenza e soprattutto «con il consenso dei lavoratori interessati». Tale istituto è alternativo al «distacco» previsto, come detto, nel caso di costituzione di uffici comuni. Entrambi, tuttavia, a differenza della «mobilità» ex art. 31 del dlgs 165, presuppongono che i lavoratori interessati assentano al trasferimento.
Da qui il problema che sta cominciando ad emergere in alcune realtà e che è destinato ad acuirsi nei prossimi mesi, allorché i comuni dovranno associare le funzioni più pesanti e quindi ridistribuire il personale ad esse addetto. Le naturali resistenze dei dipendenti pubblici al cambiamento rischiano di trovare facile sponda nei ricordati appigli normativi, pur in presenza di un preciso obbligo di legge (sanzionabile mediante esercizio del potere statale sostitutivo) in capo alle amministrazioni. Si tratta di un'evidente contraddizione (oltre che di un ulteriore elemento di debolezza delle convenzioni rispetto alle unioni; si veda ItaliaOggi del 14 dicembre), che meriterebbe di essere risolto a livello normativo o almeno con una chiarimento interpretativo ufficiale, al fine di disinnescare il rischio di contenziosi.
Ricordiamo, infine, che rimane ferma la possibilità per i comuni di avvalersi di dipendenti di altri enti ai sensi dell'art. 1, comma 557, della legge 311/2004. Tuttavia, l'applicazione di tale istituto (ovviamente più gradito ai dipendenti) alle gestioni associate trova un forte ostacolo nell'obbligo, sancito dalla legge e della giurisprudenza contabile (cfr Corte dei conti Piemonte, parere n. 287/2012), di garantire la progressiva riduzione delle spese di personale (articolo ItaliaOggi del 22.02.2013 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTIL'Antitrust può bacchettare gli enti sulla concorrenza.
Non c'è alcuna violazione dei principi costituzionali posti a presidio delle autonomie locali se all'Autorità antitrust viene riconosciuto il potere di intervenire su tutti gli atti amministrativi generali, i regolamenti e i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica, statale, regionale o locale, che ritenga emanati in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato.
Sulla nuova competenza attribuita all'Autorità garante della concorrenza e del mercato dall'art. 35 del decreto legge 06.12.2011, n. 201, si è pronunciata la Corte costituzionale con la sentenza 14.02.2013 n. 20, dichiarando l'inammissibilità delle questioni poste nel ricorso presentato dalla Regione Veneto.
Ciò in quanto nessuna lesione alla Carta costituzionale è collegata al fatto che all'Antitrust, in base alle sopraindicate disposizioni è stata assegnata la possibilità di intervenire, in una prima fase a carattere consultivo (parere motivato nel quale sono indicati gli specifici profili delle violazioni riscontrate), e in una seconda (eventuale) fase di impugnativa in sede giurisdizionale, qualora la pubblica amministrazione non si conformi al parere stesso Non si è in presenza, pertanto, ha osservato il Giudice delle leggi, di nessun nuovo e generalizzato controllo di legittimità, su iniziativa di un'autorità statale, analogo al controllo che era previsto dal previgente art. 125, primo comma, Cost., norma successivamente abrogata con la legge costituzionale n. 3 del 2001 che ha modificato il Titolo V della Cost..
Il parere del Garante, infatti, è finalizzato esclusivamente a contribuire ad una più completa tutela della concorrenza e del corretto funzionamento del mercato (art. 21, comma 1, della legge 287/1990) e, comunque, certamente non generalizzato, perché operante soltanto in ordine agli atti amministrativi «che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato».
La disposizione, quindi, che la Regione Veneto considerava limitativa delle proprie prerogative ed in contrasto con il principio della leale collaborazione, ha un perimetro ben individuato (quello, per l'appunto, della concorrenza), che è compreso in una materia appartenente alla competenza legislativa esclusiva dello stato (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.), concernente anche la potestà regolamentare, ai sensi dell'art. 117, sesto comma, primo periodo, Cost. (articolo ItaliaOggi del 22.02.2013).

APPALTI: Pubblicità legale a costo zero. Inserzioni sui giornali rimborsate da chi vince la gara.  È l'effetto combinato del decreto crescita bis e della legge anticorruzione (legge 190/2012).
Confermati tutti gli obblighi di pubblicità legale previsti dal Codice dei contratti pubblici, ivi compresa la pubblicità sui quotidiani che verrà rimborsata dagli aggiudicatari alle stazioni appaltanti ai sensi del decreto crescita-bis.
Le stazioni appaltanti dovranno mettere sui propri siti web i principali elementi caratterizzanti i contratti stipulati e inviarli all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici; da pubblicare anche le delibere per affidamenti a trattativa privata senza bando di gara (in particolare per lavori fino a 500 mila euro e per di servizi di ingegneria fra 40 mila e 100 mila euro).

È quanto si desume dalla lettura combinata delle norme della legge 190/2012 e del decreto legislativo approvato in via definitiva dal consiglio dei ministri del 19 febbraio scorso in materia di disciplina degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni da parte delle p.a.
Per quel che riguarda i contratti pubblici il provvedimento declina i principi di trasparenza e pubblicità come obbligo di pubblicazione delle informazioni sui siti istituzionali di ciascuna amministrazione pubblica in modo da rendere conoscibili ed accessibili gli elementi delle procedure di affidamento.
Il contenuto degli elementi da rendere pubblici non viene specificato dalla norma ma si deve ritenere che si tratti di quelli riguardanti la struttura proponente, l'oggetto del bando, l'elenco degli offerenti, l'aggiudicatario, l'importo di aggiudicazione, i tempi di completamento dell'opera, servizio o fornitura; l'importo delle somme liquidate citati al comma 32 dell'articolo 1 della legge 06.11.2012 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 13 novembre n. 265).
Questi elementi andranno poi ogni anno trasmessi all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici secondo appositi format.
Anche al fine di chiarire definitivamente ogni questione in ordine alla vigenza degli adempimenti che fanno capo alle stazioni appaltanti, l'articolo 37 del decreto delegato richiama, attraverso una formula omnicomprensiva, tutti gli obblighi di pubblicazione in materia di contratti pubblici derivanti dalla normativa nazionale, citando espressamente anche le norme che impongono alle stazioni appaltanti la pubblicazione sui quotidiani per estratto degli avvisi e bandi di gara, oltre a tutte le altre norme che prevedono la pubblicazione sulla gazzetta ufficiale, sui siti istituzionali e sui siti delle singole amministrazioni (avvisi di preinformazione, pubblicità dei sistemi di qualificazione nei cosiddetti settori speciali, ecc. previsti quindi agli articoli 63, 65, 66, 122, 124, 206 e 223 del Codice dei contratti pubblici).
Due di queste disposizioni (il comma 7 dell'articolo 66 e il comma 5 dell'articolo 122 del Codice) sono a loro volta espressamente citate dal comma 35 dell'articolo 34 del decreto-legge legge 179/2012 convertito nella legge 221/2012 per imputare, dal primo gennaio 2013, a carico dell'aggiudicatario del contratto, l'obbligo di rimborso alle stazioni appaltanti delle spese di pubblicazione per estratto sui quotidiani (locali e nazionali, a secondo dell'importo) degli avvisi e bandi di gara.
Il richiamo espresso di tutte le norme in materia di pubblicità previste dal Codice risulta del tutto coerente e conforme a quanto prevede il comma 31, dell'articolo 1 della legge 190/2012 che, da una parte, prevede la delega al ministro della funzione pubblica per l'emanazione di uno o più decreti cui siano definite, fra le altre, le informazioni rilevanti da pubblicare sui siti web, e «le relative modalità di pubblicazione» e dall'altro lato, prevede la disposizione «di salvezza» delle norme in materia di pubblicità contenute nel Codice dei contratti pubblici («Restano ferme le disposizioni in materia di pubblicità previste dal codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163»).
Il decreto legislativo delegato prevede anche un rilevante obbligo di pubblicità che riguarda la delibera a contrarre inerente i contratti affidati con procedura negoziata senza bando di gara.
Si tratta delle «trattative private» con invito ad almeno tre soggetti ammessa per lavori pubblici fino a 500 mila euro, ai sensi dell'articolo 122, comma 7-bis del dlgs 12.04.2006, n. 163 (nel prosieguo, Codice), come novellato dalla legge 22.12.2008, n. 201, e per i servizi di ingegneria e architettura compresi fra 40 mila e 100 mila euro, ma con invito ad almeno cinque soggetti. Infine va segnalato come l'articolo 38 del decreto stabilisca l'obbligo per le pubbliche amministrazioni di pubblicare anche, le informazioni relative ai tempi, a i costi unitari e agli indicatori di realizzazione delle opere pubbliche completate (articolo ItaliaOggi del 22.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIContributi pubblici, trasparenza nella scelta dei destinatari. Vanno adottati criteri e modalità per determinare l'entità dell'importo.
La legge anticorruzione e il decreto legislativo sulla trasparenza impongono l'evidenza pubblica per la concessione dei contributi.

Da sempre, in effetti, l'articolo 12 della legge 241/1990 spinge le amministrazioni pubbliche a selezionare i destinatari di contributi, sulla base di una procedura pubblica.
Infatti, tale norma prevede che «la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi e ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi».
Peraltro, nei provvedimenti di concessione deve essere evidenziata l'effettiva osservanza dei criteri e modalità di selezione adottati.
Nella pratica, tuttavia, le amministrazioni operano discostandosi molto dal sistema previsto dal legislatore. I criteri di selezione sono molto vaghi e generalmente si pubblicano solo le disponibilità finanziarie. Di fatto, i contributi vengono concessi a seguito di un'iniziativa del privato che chiede il sostegno finanziario ad una propria iniziativa. Peraltro, in generale la decisione è assunta dall'organo di governo (la giunta) che decide in modo totalmente discrezionale se concedere il sostegno e per quale ammontare.
L'articolo 26 del decreto sulla trasparenza, che sostituisce l'articolo 18 del dl 83/2012, convertito in legge 134/2012, rafforza le indicazioni della legge 241/1990; infatti, stabilisce che occorre pubblicare «la modalità seguita per l'individuazione del beneficiario».
Il riferimento a un confronto competitivo-selettivo non è esplicitato, ma emerge piuttosto chiaramente. Occorre dare conto, insomma di come si è giunti a scegliere una certa iniziativa da sostenere, tra una serie di altre.
Eventuali residui dubbi sulla possibilità che continui a considerarsi regolare un sistema di assegnazione dei contributi solo basato su una scelta discrezionale e non motivabile se non in relazione a valutazioni discrezionali (se non arbitrarie) sono risolti, comunque, dalla legge la legge 190/2012.
Ai sensi dell'articolo 1, commi 9, lettera a) e 16, lettera c), sono considerate attività a elevato rischio di corruzione la «concessione ed erogazione di sovvenzione, contributi, sussidi, ausili finanziari, nonché l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati». Inoltre, le amministrazioni sono chiamate ad approvare un piano obbligatorio di prevenzione della corruzione, che, tra gli altri compiti, deve «monitorare i rapporti tra l'amministrazione e i soggetti che con la stessa stipulano contratti o che sono interessati a procedimenti di autorizzazione, concessione o erogazione di vantaggi economici di qualunque genere, anche verificando eventuali relazioni di parentela o affinità sussistenti tra i titolari, gli amministratori, i soci e i dipendenti degli stessi soggetti e i dirigenti e i dipendenti dell'amministrazione».
Appare evidente, allora, alla luce delle nuove norme e dalla combinazione tra esse, che il legislatore intenda imporre che l'erogazione di contributi avvenga non solo, ovviamente, in violazione delle regole etiche e anticorruzione, ma anche mediante sistemi di scelta dei destinatari trasparenti ed ispirati a principi di evidenza pubblica, cioè con sistemi di selezione, rispetto ai quali il caso dell'assegnazione «discrezionale» risulti del tutto marginale.
Comunque, almeno criteri e modalità per determinare l'entità dell'importo da assegnare andrebbero adottati, così come difficilmente può continuare la prassi di non respingere con provvedimento formale e motivato le istanze per le quali non si ritiene di dare contributi (articolo ItaliaOggi del 22.02.2013).

LAVORI PUBBLICILombardia, 1 mln per bonificare edifici dall'amianto. Beneficiari i comuni.
Parte il sostegno per la bonifica ambientale negli edifici pubblici. È aperto lo sportello per l'erogazione di contributi a fondo perduto ai comuni lombardi per la bonifica del proprio patrimonio abitativo da manufatti contenenti amianto.
Il fondo di 1 milione di euro è gestito da Finlombarda spa. Possono presentare proposta di accesso al finanziamento a fondo perduto esclusivamente i comuni lombardi per interventi di rimozione dei materiali contenenti amianto presenti negli edifici destinati a edilizia residenziale pubblica. I contributi verranno concessi secondo la modalità «a sportello», vale a dire fino a esaurimento dello stanziamento assegnato.
Sono da considerarsi ammissibili i costi per spese tecniche di progettazione al massimo 8% del totale costi ammissibili, spese per l'allestimento del cantiere, ponteggi e sicurezza, limitatamente al periodo necessario per le operazioni di rimozione dei manufatti contenenti amianto, spese per rimozione, trasporto, conferimento e smaltimento dei materiali contenenti amianto presso gli impianti autorizzati. È ammessa la cumulabilità con eventuali altri contributi di provenienza regionale, nazionale ed europea previsti per la realizzazione degli interventi di riqualificazione energetica e produzione di energia da fonte solare.
Il finanziamento a fondo perduto è concesso a copertura dei costi ammissibili dell'intervento nella misura massima del 100%, fino ad un massimo di 150 mila euro Iva inclusa. I comuni possono presentare anche più di una domanda, fino a una richiesta massima di 300 mila euro (articolo ItaliaOggi del 22.02.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Incompatibilità limitate. Sindaco ok se parente ha incarico intellettuale. Il conflitto di interessi scatta solo per gli appalti di lavori e servizi.
Sussiste una causa di incompatibilità ai sensi dell'art. 61, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 267/2000, nel caso in cui il fratello del sindaco abbia ricevuto dal comune l'incarico di redigere un dizionario regionale in lingua minoritaria, considerando altresì che lo stesso, in qualità di geometra, ha ricevuto dall'ente locale alcuni incarichi di progettazione e direzione lavori espletati nella quasi totalità?

Ai sensi dell'art. 61, comma 1-bis, del Tuel, non può ricoprire la carica di sindaco chi ha ascendenti o discendenti ovvero parenti o affini fino al secondo grado che coprono il posto di appaltatore di lavori o di servizi comunali.
Il citato articolo, nel disciplinare la suddetta causa di incompatibilità fa esplicito riferimento soltanto agli appaltatori di lavori o servizi comunali senza alcun richiamo a incarichi che sono palesemente da ricondurre a contratto di prestazione d'opera intellettuale. Pertanto, non sembrano sussistere, nel caso in esame le condizioni che possano dar luogo ad ipotesi di incompatibilità nei confronti del sindaco.
Resta comunque fermo, in capo a tutti gli amministratori locali, il rispetto dei principi di cui all'art. 78, commi 1 e 2 del Tuel, laddove, nel disciplinare lo status di questi ultimi e i loro doveri, è sancito che il loro comportamento, «nell'esercizio delle funzioni, deve essere improntato all'imparzialità e al principio di buona amministrazione» e che «devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti i affini sino al quarto grado» (articolo ItaliaOggi del 22.02.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Commissione di indagine.
Il consiglio comunale può abrogare la deliberazione istitutiva di una commissione di indagine, ex art. 44, comma 2, del dlgs n. 267 del 2000, prima che siano scaduti i termini per la conclusione dei lavori a essa affidati con l'atto istitutivo?

La norma, rubricata «garanzia delle minoranze e controllo consiliare», al primo comma prevede l'istituzione facoltativa delle commissioni consiliari aventi funzioni di controllo e garanzia, attribuendo alle opposizioni, a tutela delle minoranze, la presidenza delle stesse, ed è indirizzata a rafforzare quanto già previsto dall'art. 6, comma 2, del testo unico, che demanda allo statuto dell'ente, tra l'altro, la specificazione delle forme di garanzia e partecipazione delle minoranze.
Il comma 2 del citato art. 44 del dlgs n. 267/2000 stabilisce che il consiglio possa istituire, al fine di garantire il controllo consiliare, commissioni di indagine sull'attività dell'amministrazione. Nel caso di specie, lo statuto del comune dispone che «con deliberazione a maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati, su proposta del presidente, del sindaco o di almeno un quarto dei consiglieri, il consiglio può istituire al proprio interno commissioni consiliari di indagine incaricate di effettuare accertamenti su fatti, atti, provvedimenti e comportamenti tenuti dai componenti gli organi istituzionali e dai responsabili di uffici e servizi, relativamente allo svolgimento dei propri compiti di ufficio».
Ai sensi della citata fonte statutaria è, inoltre, previsto che nel provvedimento istitutivo delle commissioni di indagine «viene precisato l'ambito dell'inchiesta, i tempi per concluderla e per riferire al Consiglio, nonché i poteri di cui dispone la commissione per l'espletamento dell'incarico».
Tali disposizioni sono ripetute, con identica formulazione, nel regolamento del funzionamento del consiglio comunale recante «commissioni consiliari di indagine». Non si rinvengono, nelle norme statutarie e regolamentari, disposizioni relative alle vicende successive all'istituzione della commissione di indagine, ovvero se una volta istituita essa debba necessariamente portare a conclusione l'incarico indicato dal consiglio o se sia possibile, come nel caso di specie, interromperne i lavori previa, ovviamente delibera adottata con la medesima maggioranza prevista dall'art. 44, comma 2, del dlgs n. 267/2000. Peraltro, la materia concernente le commissioni consiliari è interamente demandata allo statuto e al regolamento del consiglio, nell'ambito della propria autonomia funzionale ed organizzativa (art. 38, comma 3 dlgs n. 267/2000).
Ciò implica, pertanto, che soltanto il consiglio comunale, nella sua sovranità ed in quanto titolare della competenza a dettare le norme cui uniformarsi in tale materia, sia abilitato a fornire un'interpretazione autentica delle norme statutarie e regolamentari, pronunciandosi in merito a quanto richiesto (articolo ItaliaOggi del 22.02.2013).

APPALTITempi negoziabili sui pagamenti. Senza ordini o commesse il B2B può derogare ai 30 giorni.  Il dlgs che recepisce la direttiva Ue concede una via d’uscita con la indicazione in fattura.
Si deve ritenere sufficiente l’indicazione in fattura di un termine di pagamento dei beni o di prestazioni di servizi fissato oltre i 30 giorni, come prescritti dalla disciplina sui pagamenti nelle transazioni commerciali, in assenza di un ordine o di una commessa.
Con il decreto legislativo 09.11.2012 n. 192, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 15.11.2012 n. 267, il legislatore è intervenuto, in grande anticipo rispetto al termine fissato per il recepimento della Direttiva comunitaria n. 2011/7/Ue (31/03/2013) per modificare il precedente decreto legislativo n. 231/2002, introducendo tempi più certi e più brevi nella riscossione dei crediti di natura commerciale.
Le nuove disposizioni, che si aggiungono a quelle introdotte dall’art. 62, del decreto legge n. 1/2012 destinate ai soli prodotti agro-alimentari, sono molto meno rigorose, stante la mancata previsione di sanzioni in caso di ritardato pagamento, con la possibilità di derogare ai termini di pagamento fissati ex lege.
Com’è noto la disciplina si applica alle transazioni «concluse» a partire dal 01.01.2013, con la conseguenza che per le cessioni eseguite nel mese di dicembre 2012, ancorché fatturate nel 2013, in ossequio alla disciplina Iva, le nuove regole non si rendono applicabili, potendo mantenere i pagamenti nei termini già concordati tra le parti. Restano escluse le transazioni commerciali eseguite nell’ambito di procedure concorsuali o di ristrutturazione del debito e nelle ipotesi di risarcimento del danno, compresi i pagamenti effettuati a titolo di risarcimento assicurativo.
L’art. 4, del dlgs 231/2002, nella nuova versione, prevede l’applicazione degli interessi moratori al semplice decorso del termine di pagamento (cosiddetta «mora automatica») stabilito in 30 giorni (termini raddoppiati in presenza di imprese pubbliche o di enti riconosciuti che operano nell’ambito dell’assistenza sanitaria) dal ricevimento della fattura o della richiesta di pagamento, dal ricevimento dei beni o della prestazione di servizi, dall’accettazione della verifica (se prevista dalla legge o dal contratto) della conformità dei lavori eseguiti.
Risulta possibile, però, la definizione di un pagamento anche superiore a 60 giorni al rispetto di due condizioni: che il termine non sia «gravemente iniquo» e sia giustificato dalla natura o dall’oggetto del contratto e che la relativa previsione sia fornita «per iscritto». Da qui i problemi di natura operativa, posto che il regime non ha previsto particolari sanzioni ma solo l’obbligo (e non la facoltà) posta a carico del debitore inadempiente, di effettuare il pagamento degli interessi e di una indennità di 40 euro, a titolo di rimborso per l’attività di recupero del credito, giacché come detto è indecifrabile la situazione di iniquità e s’implementano gli adempimenti per le imprese, al fine di produrre la prova scritta (onere probatorio) del diverso termine di pagamento concordato tra le parti.
Si ricorda, innanzitutto, che in base all’articolo 1321 c.c. «il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere fra loro un rapporto giuridico patrimoniale», che lo stesso può essere sviluppato non necessariamente in forma scritta e che, nel commercio, spesso il compratore si reca spesso presso l’azienda, decide quali sono i beni di interesse, concorda il pagamento e se ne va via con ddt o fattura alla mano. Stante il fatto che per la deroga del pagamento oltre i 30 giorni si richiede che l’accordo sia «provato per iscritto», si rende necessario che il cedente (o prestatore) e il cessionario (o committente) si trovino d’accordo e, in assenza di un preventivo ordine di acquisto o di un contratto, si deve ritenere valida l’indicazione in fattura della modalità di pagamento (per esempio: bonifico bancario a 90 giorni fine mese) e il termine di scadenza relativo (31.05.2013).
È pur vero che, trattandosi di «accordo», si potrebbe eccepire la mancanza della manifestazione di volontà della controparte, ma quest’ultima non può non essere a conoscenza del termine derogato, ricevendo la fattura integrata di detti dati, potendo anche sottoscrivere e rispedire al cedente (prestatore) una copia del documento per l’accettazione; per gli edili operanti nell’ambito dei lavori pubblici è intervenuto recentemente il ministero dello sviluppo economico (nota n. 1293/2013). La situazione di «grave iniquità», sancita dal legislatore in presenza di clausole contrattuali che escludono il pagamento degli interessi (e, si ritiene, dell’indennità), si presta a un’ampia discrezionalità, poiché in certi settori i termini di pagamento commerciali sono, per prassi consolidata, notevolmente lunghi (in agricoltura si paga a fine campagna – 1 anno).
Infine, almeno due certezze: la prima concernente la messa in «mora automatica» del debitore al decorso del termine fissato e la seconda riguardante l’obbligo (non facoltà) di pagamento degli interessi moratori, legati al tasso della Bce maggiorato di otto punti e dell’importo forfetario (40 euro) (articolo ItaliaOggi del 22.02.2013).

EDILIZIA PRIVATAAce, la competenza non paga. La certificazione energetica sarà alla portata di tutti. Dura presa di posizione del Cnpi sul decreto del ministero dello sviluppo economico.
Certificatori per tutte le stagioni. Per tutte le tasche e per tutti i gusti. D'ora in poi infatti sarà sufficiente essere laureati o diplomati, e magari seguire un corso di formazione ad hoc, per diventare certificatori. Altro che iscrizione all'albo.
È solo uno dei diversi paradossi contenuti nella bozza di decreto che il ministero dello sviluppo economico ha messo a punto (dopo un attesa di oltre tre anni) sui requisiti professionali e i criteri di accreditamento dei certificatori energetici.
Insomma a breve a poter certificare il bollino verde di un immobile ci saranno, accanto alle tradizionali figure di periti industriali, per esempio, i laureati in fisica, in matematica, oppure in scienze della natura o in modellistico matematico-fisica per l'ingegneria.
Il provvedimento, approvato al consiglio dei ministri dello scorso 15 febbraio (in attuazione del decreto legislativo 19.08.2005 e successive modificazioni concernente attuazione della direttiva 2002/91 sul Rendimento energetico in edilizia), infatti, se da una parte restringe il campo d'azione solo a quei tecnici abilitati «all'esercizio della professione relativa alla progettazione di edifici e impianti asserviti agli edifici stessi», dall'altra, la estende a molti altri professionisti che di progettazione di edifici e impianti non hanno niente a che vedere. E quando nel primo caso, «il tecnico non sia competente in tutti i campi sopra citati» (cioè progettazione di edifici e impianti, ndr) dovrà operare in collaborazione con un altro tecnico abilitato «in modo che il gruppo costituito copra tutti gli ambiti professionali su cui sia richiesta la competenza». Poi, nella seconda parte della norma, si specifica che, «ai fini della sola certificazione energetica» i tecnici non solo dovranno essere laureati ma dovranno possedere un attestato di frequenza «relativo a specifici corsi di formazione per la certificazione energetica degli edifici con superamento di esami finali».
Dunque, ha spiegato Renato D'Agostin rappresentante della commissione termotecnica del Cnpi, «in base a una logica distorta, un regolamento ha deciso di togliere e di aggiungere competenze a suo piacimento, considerando la laurea e non la professione esercitata condizione necessaria per svolgere questa attività, scardinando nello stesso tempo, sistema ordinistico e logica delle classi di laurea». Il testo stabilisce poi che i tecnici debbano frequentare specifici corsi di formazione per la certificazione energetica e, per assicurare la loro indipendenza, i certificatori dovranno dichiarare l'assenza di conflitto di interessi con i progettisti, i costruttori e i produttori di materiali coinvolti nella costruzione o nella ristrutturazione dell'edificio certificato. L'Attestato (Ace) ha valenza di atto pubblico, con la responsabilità diretta del tecnico che lo firma.
«Dunque è evidente», continua ancora D'Agostin, «come il ministero si arroghi il diritto di stabilire quali sono i corsi di formazione necessari, privando gli ordini di una competenza propria. Il tutto, sostanzialmente inventando una nuova professione. Forse dimenticandosi che gli esperti in materia già ci sono e operano sul territorio con professionalità e competenza.
Se il provvedimento non dovesse fare la necessaria chiarezza, ci saranno quindi certificatori esperti, cioè professionisti, iscritti agli albi e accanto soggetti improvvisati che verranno abilitati dopo un semplice corso di formazione. La sperequazione che si realizzerà tra le due figure sarà enorme: il professionista che è iscritto agli albi, infatti, (a differenza di chi opera al di fuori del sistema ordinistico) è tenuto a osservare una disciplina deontologica, pena la sanzione, praticare la formazione e l'aggiornamento permanenti, pena la sanzione e a dotarsi di assicurazione per responsabilità professionale, pena la sanzione.
È quindi evidente che, mentre si pone in essere una sorta di concorrenza sleale tra due figure con caratteristiche sostanzialmente diverse.
Ma la cosa ancora più grave è il principio di fondo: hanno trasformato lo strumento per il risparmio energetico, cioè la certificazione legata alla diagnosi, in un obiettivo finale che diventa così un mero adempimento formale, burocratico e quindi commerciale, che nulla a che vedere con l'analisi del comportamento energetico dell'edificio. A questo punto sarebbe più fruttuoso fare una semplice fotocopia delle bollette degli ultimi anni. Perché la certificazione energetica imposta in questo modo non è altro che fumo negli occhi
» (articolo ItaliaOggi del 22.02.2013).

ENTI LOCALICONTROLLI/ È ufficiale: il sindaco «prevale» sul revisore.
Con puntualità, rispetto alla stagione dei bilanci, e chiarezza il ministero dell'Economia ha definito i casi in cui il revisore può essere revocato ricorrendo "giusta causa".
Si tratta, per la maggior parte, di ipotesi già contemplate nei Tribunali, anche se soggette a una lunga procedura. Infatti, per poter "cambiare" il revisore, oltre alla delibera dell'assemblea, occorre una dichiarazione da parte del revisore "uscente" di accettazione della revoca. Dal 7 marzo, però, non sarà più necessario ricorrere a tale procedura ma sarà sufficiente richiamare nella delibera assembleare l'ipotesi prevista di giusta causa. E la decisione non dovrà più passare dal Tribunale. La semplificazione consente, dunque, alle società di sostituire in modo celere il revisore.
Tra le ipotesi di giusta causa il legislatore ha individuato, ad esempio, il cambio dell'azionista di riferimento o del revisore di gruppo: l'incarico di revisione è pur sempre di tipo fiduciario, anche se il revisore deve essere, oltre che apparire, indipendente. Il legislatore, inoltre, facilita la revoca nel caso in cui la società entri a far parte di un gruppo: in questa ipotesi l'affidamento dell'incarico a un medesimo soggetto permette di conseguire sinergie e quindi economie di scala.
Altra norma da apprezzare è quella che chiarisce in modo definitivo la prevalenza della carica di sindaco sull'incarico di revisione. Se la funzione di revisione legale dei conti è esercitata dal collegio sindacale non si applicano le ipotesi di giusta causa individuate dal Dm 261/2012 ma occorre rifarsi al Codice civile: quindi il verificarsi della giusta causa dovrà essere sottoposta al vaglio del Tribunale.
Questa scelta era già stata indicata dal Consiglio nazionale dei commercialisti nel febbraio 2012: il collegio sindacale è un organo della società a cui è affidato il controllo di legalità mentre al revisore viene demandato il compito di verificare la correttezza del bilancio di esercizio. Pertanto ben si comprende la tutela che il legislatore offre al primo rispetto al secondo (articolo Il Sole 24 Ore del 22.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

VARINessun estraneo nella foto autovelox. Provvedimento del Garante privacy ribadisce le regole.
Nessun estraneo sulla foto dell'autovelox.
È quanto stabilito dal Garante con il provvedimento 13.12.2012 n. 408.
Il codice della privacy, infatti, vieta di riportare immagini di soggetti non coinvolti nella documentazione fotografica comprovante violazioni in materia di circolazione stradale. Nel caso specifico un automobilista ha ricevuto una multa per eccesso di velocità e ha chiesto le foto dell'infrazione. Quando le ha ricevute, ha notato che le stesse riproducevano un'altra auto, che viaggiava in corsia opposta, estranea alla contravvenzione, e che erano visibili, seppure usando una lente di ingrandimento, conducente e passeggeri nonché il numero di targa. E quindi potevano essere identificati.
Il comune si è giustificato richiamando la normativa sulla videosorveglianza e sulla rilevazione delle immagini con autovelox; contemporaneamente ha inviato nuove immagini oscurate e ha diffidato il trasgressore dall'utilizzare e divulgare le immagini precedentemente inviate.
Il Garante ha ritenuto illecita la condotta del comune. Il codice della privacy, infatti, vieta la trasmissione di documentazione fotografica nella quale sono visualizzabili anche soggetti non coinvolti nel procedimento amministrativo di accertamento di una violazione del codice della strada. Inoltre il «Provvedimento in materia di videosorveglianza» dell'08.04.2010 del Garante ha previsto che gli impianti elettronici di rilevamento devono circoscrivere la conservazione dei dati alfanumerici contenuti nelle targhe automobilistiche ai soli casi in cui risultino non rispettate le disposizioni in materia di circolazione stradale e che le risultanze fotografiche o le riprese video possono individuare unicamente gli elementi previsti dalla normativa di settore per la predisposizione del verbale di accertamento delle violazioni.
Lo stesso provvedimento ha specificato che deve essere mascherata, per quanto possibile, la porzione delle risultanze video/fotografiche riguardanti soggetti non coinvolti nell'accertamento amministrativo e, infine, che sulla documentazione video-fotografica, messa a disposizione del destinatario del verbale, dovranno essere opportunamente oscurati o resi comunque non riconoscibili i passeggeri presenti a bordo del veicolo. Lo stesso ministero dell'interno (nella Direttiva 300/A/10307/09/144/5/20/3 del 14.08.2009) ha previsto che non devono essere memorizzate immagini che permettono di identificare persone estranee (articolo ItaliaOggi del 21.02.2013).

EDILIZIA PRIVATASportelli unici, un avvio lento. La scadenza per i comuni era il 12 febbraio, ma le città sono in affanno. Enti locali. La criticità è soprattutto nella gestione di grandi flussi di informazione per il «front office» unico.
TECNOLOGIA CERCASI/ Senza sistemi online adeguati, i nuovi obblighi rischiano di mandare in tilt gli uffici trasformando la semplificazione in boomerang.
È ancora in gran parte scritta su un pezzo di carta la riforma dello Sportello unico edilizia introdotta dall'articolo 13 del decreto sviluppo dell'estate scorsa (Dl 83/2012), la cui attuazione da parte dei Comuni doveva scattare entro il 12 febbraio.
In prevalenza gli sportelli unici (Sue) sono operativi, ma ora, con le nuove disposizioni, sono in molti (tecnici comunali e professionisti) a temere un sovraccarico degli uffici, mentre la vera innovazione che sarebbe in grado di farli funzionare, le piattaforme informatiche per i permessi di costruire, è attiva in poche decine di Comuni.
Dall'inchiesta condotta da «Edilizia e Territorio» (www.ediliziaeterritorio.ilsole24ore.com) su 12 capoluoghi di provincia (Torino, Milano, Brescia, Verona, Padova, Bologna, Rimini, Ancona, Firenze, Roma, Bari, Napoli) emerge che senza i sistemi on-line, i nuovi obblighi del Sue rischiano di mandare in tilt gli uffici, trasformando così la semplificazione in un boomerang.
Due sono infatti le novità: lo sportello edilizia deve diventare l'unico «front office» per le pratiche edilizie, obbligando così i Comuni ad attivarlo e ad accorpare i vari uffici; e questo in gran parte dei Comuni è stato fatto. Ma soprattutto deve essere lo sportello stesso a raccogliere tutti i pareri, nulla osta o atti tecnici, interni o da enti terzi (Vigili del fuoco, Asl, genio vivile, Regione, Soprintendenze, ecc.) necessari ai fini del rilascio del permesso di costruire (ristrutturazioni edilizie, ampliamenti, nuove costruzioni).
In teoria è una notevole semplificazione, perché mentre prima il tecnico incaricato (geometra, architetto, ingegnere) doveva girare come una trottola a cercare atti e nulla osta, ora deve fare tutto il responsabile del Sue, e se entro i 90 giorni di legge (120 nei Comuni sopra 100mila abitanti) lo sportello non rilascia (o rigetta) il permesso di costruire, scatta il silenzio-assenso (Dl 70/2011).
Tuttavia responsabili dei Sue e professionisti sono d'accordo nel temere che gli uffici non riusciranno a reggere il sovraccarico, anche perché i tempi dipendono molto da enti terzi. E d'altra parte il silenzio-assenso, in vigore da un anno e mezzo, non viene praticamente mai utilizzato dal proponente privato, perché le banche senza permesso “esplicito” difficilmente finanziano.
Quale sarebbe allora la vera semplificazione? Tecnici comunali e professionisti sono d'accordo: la creazione di piattaforme informatiche on-line, da parte dei Comuni, per gestire l'invio di progetti e tutta la procedura, compresi atti e pareri di enti terzi (Asl, Soprintendenze, ecc.). «Se però gli enti terzi non aderiscono –spiegano ad esempio tecnici comunali di Bari– il privato presenta on-line al Sue, e poi noi dobbiamo stampare montagne di carte e portarle a destra e a manca».
Il Dl 70/2011 stabiliva già l'obbligo dei Comuni di attrezzarsi per l'invio telematico allo Sportello, e per l'invio a enti terzi, ma tutto (o quasi) è rimasto lettera morta. Tuttavia molti grandi Comuni, seppure in affanno, stanno sperimentando queste piattaforme on-line (tra questi Torino, Bologna, Padova, Verona, Bari), e contano di renderle operative entro l'anno.
«Saranno non più di alcune decine in tutta Italia –spiega Paolo Teti, Ad di Ancitel– i Comuni dotati di una piattaforma informatica completa per gestire le pratiche del Sue. I costi vanno da 1.000 l'euro l'anno per i micro-Comuni a decine di migliaia di euro l'anno per i grandi. Più le spese di formazione del personale. Ma oltre ai costi pesa la scarsa cultura informatica da parte dei Comuni».
«C'è anche un'inerzia da parte dei professionisti” – ammette Fausto Savoldi, presidente dell'Ordine dei Geometri. «Molti tecnici preferiscono andare allo sportello, parlare con i funzionari comunali. Noi cerchiamo di spingere per l'informatizzazione, che significherebbe da una parte semplificazione, e d'altra anche più standardizzazione e meno discrezionalità degli uffici» (articolo Il Sole 24 Ore del 20.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALICalamità. Mini enti, rimborsi inutili.
I comuni fra 1.001 e 5.000 abitanti che negli anni passati hanno effettuato interventi di ripristino conseguenti a calamità naturali finanziandoli con risorse proprie devono escludere dal saldo del Patto i rimborsi che lo stato o le regioni erogheranno nel corso del 2013.

Lo ha chiarito il Mef in risposta a un quesito posto da un comune piemontese che negli anni scorsi si era sobbarcato buona parte degli oneri necessari a fronteggiare le conseguenze sul proprio territorio dell'alluvione del 1994 e che ora attende di ricevere l'ultima tranche di contributi regionali.
Tali entrate, secondo via XX Settembre, non saranno valide ai fini del Patto. Quest'ultimo prevede bensì una deroga specifica per le entrate e le spese relative a calamità naturali, le quali, se di fonte statale, possono essere escluse. Spesso, tuttavia, le entrate tardano ad arrivare, costringendo i sindaci ad anticipare le spese di tasca propria.
In tali casi, vale la regola della simmetria, specificata anche dalla recente circolare n. 5/2013 (si veda ItaliaOggi del 12 febbraio): se hai detratto le spese, devi fare lo stesso con le entrate sopravvenute. Il meccanismo ha una sua logica per gli enti già soggetti al Patto, ma non per i comuni sotto i 5.000 abitanti, cui esso si applica solo da quest'anno. Pur non avendo detratto alcuna spesa, essi dovranno comunque escludere le entrate previste per questo o per i prossimi anni. Secondo il Mef, una diversa lettura comprometterebbe gli equilibri complessivi di finanza pubblica, assicurati dalla compensazione degli effetti negativi indotti dall'esclusione delle spese con quelli positivi connessi alla simmetrica esclusione delle entrate.
Si tratta di un'ulteriore tegola per i piccoli comuni, che in molti casi rischiano la paralisi gestionale. La soluzione indicata dal Mef è il Patto regionalizzato, il quale, tuttavia, rischia di non essere sufficiente ad affrontare tutte le criticità (articolo ItaliaOggi del 20.02.2013).

TRIBUTILe linee guida delle Finanze. Tares, sconti solo sulla parte fissa
Le agevolazioni Tares si applicano sulla parte fissa e su quella variabile della tariffa. Questa regola vale per le utenze domestiche e non domestiche. Le riduzioni tariffarie possono essere riconosciute anche alle occupazioni stagionali, purché la loro durata non superi i 183 giorni nel corso dello stesso anno solare. Per le attività commerciali e industriali è invece richiesto che l'uso stagionale degli immobili risulti da licenza rilasciata dall'autorità competente o da dichiarazione dell'interessato.

Lo ha chiarito il ministero delle finanze nelle linee guida al prototipo di regolamento Tares che possono adottare i comuni.
Secondo il ministero, contrariamente a quello che ritiene la dottrina, le riduzioni tariffarie, anche per le utenze domestiche, si applicano sia sulla parte fissa che sulla parte variabile della tariffa. Nelle linee guida, inoltre, viene precisato che per attività stagionale si intende quella di durata non superiore a 183 giorni nel corso dello stesso anno solare. Mentre, per le utenze non domestiche la natura stagionale dell'attività deve essere comprovata dalla licenza rilasciata dagli organi competenti o deve risultare «da dichiarazione rilasciata dal titolare a pubbliche autorità».
Le riduzioni tariffarie, per il ministero, vanno riconosciute «dalla data di effettiva sussistenza delle condizioni di fruizione se debitamente dichiarate e documentate nei termini di presentazione della dichiarazione iniziale o di variazione». Tuttavia, per i residenti nel comune, la riduzione deliberata per l'occupante unico dell'immobile spetta anche in mancanza di specifica dichiarazione.
In effetti, i comuni hanno il potere di concedere, con regolamento, riduzioni tariffarie per particolari situazioni espressamente individuate dalla legge. Il consiglio comunale, tra l'altro, può deliberare agevolazioni Tares, oltre quelle già previste, purché l'ente abbia le risorse economiche per finanziarle. I benefici fiscali concessi dal comune si applicano non solo alla tassa, ma anche alla maggiorazione dovuta dai contribuenti sui servizi indivisibili. L'articolo 14 del dl 201/2011 disciplina le agevolazioni tariffarie, riconoscendo al comune la facoltà di stabilire riduzioni del tributo dovuto in presenza di determinate situazioni in cui si presume che vi sia una minore capacità di produzione di rifiuti.
A queste riduzioni viene però fissato un tetto massimo. La riduzione della tariffa non può superare il limite del 30%. In particolare, questo beneficio può essere concesso per: abitazioni con unico occupante; abitazioni tenute a disposizione per uso stagionale o altro uso limitato e discontinuo; locali e aree scoperte adibiti a uso stagionale; abitazioni occupate da soggetti che risiedono o hanno la dimora, per più di 6 mesi all'anno, all'estero; fabbricati rurali a uso abitativo.
Tutte le agevolazioni, dunque, si applicano anche alla maggiorazione, destinata alla copertura dei servizi indivisibili prestati dall'amministrazione comunale. Questa previsione, però, non ha senso perché tra i due tributi che convivono all'interno della Tares non c'è alcun legame e i presupposti sono del tutto diversi. L'estensione alla maggiorazione può costituire un freno per i comuni nella scelta di deliberare eventuali agevolazioni. Considerato che il gettito della maggiorazione standard (0,30 euro al metro quadrato) comporta una corrispondente riduzione dei trasferimenti erariali. Quindi, minori risorse per gli enti (articolo ItaliaOggi del 19.02.2013).

APPALTIOneri a carico delle imprese. Da oggi trasparenza per la p.a..
Indicazioni chiare e puntuali circa gli oneri a carico delle imprese e mai più anarchia nella pubblica amministrazione (statale). E se l'obbligo della trasparenza non sarà rispettato, ne pagheranno le conseguenze i dirigenti di tasca propria, perché se ne terrà conto ai fini della loro valutazione.

Lo prevede il decreto del presidente del Consiglio dei ministri 252/2012 che, in G.U. lo scorso 4 febbraio, entra in vigore oggi, 19.02.2013.
Per raggiungere l'obiettivo di uniformare, a livello nazionale, l'elenco degli obblighi, lo Statuto delle imprese (legge 180/2011) ha previsto la pubblicazione online, nei siti istituzionali, di tutti gli «oneri informativi» che gravano sui cittadini e sulle imprese. E ciò al fine di prevenire l'introduzione o il mantenimento di oneri sproporzionati o non necessari rispetto alle esigenze di tutela degli interessi pubblici ma anche per rendere immediatamente conoscibili gli adempimenti prescritti dalle relative discipline, in modo da assicurare anche unitarietà nelle interpretazioni delle disposizioni adottate.
Le linee guida - In vista del termine del 31/3, che prevede la predisposizione di una relazione, il Dipartimento della funzione pubblica ha emanato le linee guida delle modalità che devono essere rispettate dai diversi dipartimenti. In particolare dovranno essere compilate delle specifiche schede all'interno delle quali saranno indicati oneri eliminati e introdotti, con il riferimento alla relativa disposizione contenuta in regolamenti o provvedimenti che, rispettivamente, regolano l'esercizio dei poteri autorizzatori o certificatori, nei confronti di cittadini e imprese; disciplinano l'accesso ai servizi pubblici da parte degli utenti e, infine, disciplinano la concessione di benefici, come quelli fiscali o monetari. In tale categoria, precisano le linee guida, rientrano le circolari e in genere gli atti di indirizzo, mentre rimangono esclusi i bandi per gli appalti pubblici.
L'onere informativo - In base alla definizione riconosciuta a livello internazionale, un onere informativo, (molto spesso si utilizza anche il termine «obbligo») si configura ogniqualvolta una norma impone di raccogliere, produrre, elaborare, trasmettere o conservare informazioni e documenti.
Perché scaturisca l'onere, in pratica, non è necessario l'invio delle informazioni alla p.a. Perché, a volte, come è il caso della tenuta dei registri, detto onere impone soltanto agli interessati di raccogliere notizie, dati, informazioni e documenti da conservare ed esibire su richiesta degli organi di controllo (articolo ItaliaOggi del 19.02.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Ricognizione di ItaliaOggi Sette: tra le carenze la mancata realizzazione del catasto Ace. Certificazione energetica, metà evade perché si controlla poco.
Pochi e per di più «col trucco», dal momento che non sono previste sanzioni per chi emette attestati di classificazione energetica (Ace) non veritieri. Che attribuiscono, cioè, agli edifici una classe energetica migliore di quella effettiva. In Piemonte, un certificato su quattro presenta elementi di irregolarità tali da invalidarlo, secondo i risultati, appena diffusi, relativi ai primi controlli effettuati: su 8.993 certificati, 2.214 sono risultati non conformi, pari al 25,4%, secondo il Cresme, Centro studi specializzato in edilizia diretto da Lorenzo Bellicini.
Se poi si va a vedere quanti annunci immobiliari rispettano l'obbligo di riportare la classe energetica si scopre che sono poco più della metà. Soltanto il 58,30% per la vendita di case (erano il 37% a gennaio 2012, quando la legge ne introdusse l'obbligatorietà). Percentuale aumentata anche per gli avvisi di locazione immobiliare: 41,70% a gennaio 2013, cresciuta rispetto al 35% dello stesso mese 2012, secondo i dati, che forniscono un quadro nazionale, forniti da Casa.it, portale immobiliare con 700 mila annunci e quasi 5,3 milioni di visitatori al mese (5.268.483, per l'esattezza) certificati da Nielsen SiteCensus a gennaio 2013. Amministrato da Daniele Mancini, anche general manager, Casa.it fa capo al gruppo Rea Ltd quotato a Sidney e controllato da News Corp di Rupert Murdoch. La notizia che soltanto poco più della metà degli annunci complessivi di vendita case in Italia riporti la classificazione energetica è confermata anche dall'indagine del portale Immobiliare.it (800 mila annunci disponibili ogni giorno) anche se con un leggero scostamento: «solo il 53% degli immobili in vendita è in regola», ha sostenuto l'a.d., Carlo Giordano, «peggio per gli affitti: certificato solo il 24% dell'offerta.
Eppure il 24% di chi cerca casa seleziona in base ai consumi». Ancora: «su oltre 60 mila annunci dei privati, considerati nell'indagine campione di Immobiliare.it, soltanto l'11% ha una certificazione valida. La percentuale sale al 46% se gli annunci di vendita sono gestiti dalle agenzie immobiliari indipendenti, e cresce ancora, fino al 58% se le immobiliari fanno parte di gruppi dotati di proprie agenzie interne di certificazione. In regola, invece, il 97% degli appartamenti venduti direttamente dai costruttori che sono tenuti a fornire l'Ace per legge già dal 2007. Se poi si va a vedere la classe di appartenenza energetica degli edifici si scopre che ancora oggi a fare la parte del leone è quella più scarsa, la classe G: 35.907 su 97.169 proposte immobiliari residenziali di Tecnocasa a febbraio 2013. Un fenomeno che si spiega bene se si pensa che fino a dicembre 2012 era possibile autocertificare l'appartenenza alla classe G. Pratica abolita da gennaio 2013 (si veda articolo a pagina 7).
Ancora pochi, per Tecnocasa, gli immobili residenziali di classe A, la migliore in senso di efficienza e risparmio energetico: 1.525 sul totale di 86.369 annunci di vendita, che diventano soltanto 29 su 10.800 proposte di alloggi in affitto. Il quadro si riflette anche per gli immobili industriali: la maggior parte, 2.024 sono in classe G, la più costosa in bolletta, sul totale di 8.344 annunci proposti da Tecnocasa a febbraio 2013. Sono 41 in classe A e 1.588 non dichiarano la classe di appartenenza, salvo mettersi in regola al momento della vendita. Del resto sono ancora scarsi i controlli che competono alle regioni chiamate anche a istituire il catasto energetico, ancora, per lo più disatteso. Un ruolo di apripista spetta alla Lombardia, regione più avanzata in materia di controlli e sanzioni, secondo l'Enea, l'agenzia nazionale per l'energia, che le riconosce anche un ruolo pioneristico in fatto di formazione e certificazione dei certificatori, attività condotte coinvolgendo ordini e collegi di professionisti e tecnici.
Inoltre, a complicare la situazione è la frammentazione regionale relativa a criteri e sistemi di classificazione (Casaclima in per lo più in Alto Adige, Leed valido sui mercati internazionali), nonostante la pubblicazione delle linee guida nazionali. E nonostante Bruxelles spinga per creare un sistema unico europeo di certificazione obbligatoria degli immobili. Anche i costi sono una Babele, differenti regione per regione. A denunciare le criticità del sistema che, nelle intenzioni del legislatore, offre al consumatore uno strumento nuovo, l'Ace appunto, importante per capire l'importo della bolletta elettrica, e al tempo stesso strumento di lotta agli sprechi quale driver per aumentare l'efficienza energetica in edilizia, è stato il Cresme.
L'analisi ha trovato conferma nel Rapporto 2012 sull'attuazione della certificazione energetica in Italia che l'Enea ha presentato a fine gennaio. Un focus che evidenzia, tra l'altro, come la certificazione energetica venga vissuta dai privati come un adempimento di legge oneroso che i più effettuano soltanto in caso di vendita. Non comprendendo, invece, come ha sottolineato l'Enea, che costituisce, invece, un'opportunità per migliorare l'efficienza energetica del patrimonio immobiliare privato e pubblico contribuendo, così al raggiungimento da parte delle p.a. degli obiettivi Ue di riduzione delle emissioni del 20% nel 2020 (articolo ItaliaOggi Sette del 18.02.2013).

APPALTI: La crisi non blocca il Durc. Unica condizione: prevedere l'assolvimento dei debiti. Ottiene il documento unico di regolarità contributiva anche l'impresa in concordato.
Sì al Durc anche se l'azienda è in crisi. Se l'impresa è in fase di concordato preventivo con continuità dell'attività lavorativa, infatti, può ottenere il documento unico di regolarità contributiva a patto che il piano concordatario preveda, entro dodici mesi, l'integrale assolvimento dei debiti previdenziali e assistenziali.
La regolarità contributiva.
Il Durc, che sta per documento unico di regolarità contributiva, è l'attestazione dell'assolvimento, da parte di un'impresa, di tutti gli obblighi legislativi e contrattuali nei confronti di Inps, Inail e cassa edile per i lavoratori dipendenti. Il Durc occorre in tutti gli appalti e subappalti di lavori pubblici (per la verifica dei requisiti per la partecipazione alle gare, per l'aggiudicazione alle gare, per l'aggiudicazione dell'appalto, per la stipula del contratto, per gli stati d'avanzamento lavori, per le liquidazioni finali); nei lavori privati soggetti al rilascio della concessione edilizia o alla Dia; nelle attestazioni Soa.
Nell'ambito dei lavori edili privati, il Durc non è autocertificabile e, pertanto, deve essere presentato all'amministrazione concedente prima dell'avvio dei lavori edili, oggetto di permesso di costruire o di denuncia d'inizio attività. Nell'ambito degli appalti pubblici, invece, limitatamente ai soli contratti di forniture e servizi fino a 20 mila euro, le imprese possono sostituire il Durc con una autodichiarazione (per la validità del documento nelle specifiche ipotesi, si veda la tabella in pagina).
Se l'azienda è in crisi. Il consiglio nazionale dell'ordine dei consulenti del lavoro ha avanzato istanza di interpello per conoscere il parere del ministero del lavoro in materia di requisiti necessari ai fini del rilascio del Durc nel caso di imprese in concordato preventivo con continuità dell'attività lavorativa (in base all'articolo 186-bis della legge Fallimentare (rd n. 267/1942).
In particolare, i consulenti hanno chiesto di sapere se sia possibile ottenere l'attestazione della regolarità contributiva nell'ipotesi in cui l'impresa sia sottoposta a una procedura di concordato preventivo, nella modalità di continuazione dell'attività aziendale, in virtù di un piano, omologato dal competente Tribunale, che prevede l'integrale soddisfazione delle situazioni debitorie previdenziali e assistenziali, sorte precedentemente al deposito della domanda di ammissione alla procedura medesima.
Sì al Durc «condizionato». Il ministero risponde affermativamente alla richiesta dei consulenti del lavoro (interpello n. 41/2012). Al fine di fornire la soluzione, muove dall'analisi della disciplina afferente all'istituto del concordato preventivo con continuazione dell'attività aziendale, di cui agli articoli 161 e seguenti della legge fallimentare, alla luce delle modifiche apportate dal decreto sviluppo (dl n. 83/2012 convertito dalla legge n. 134/2012).
Innanzitutto, dalla lettura di queste disposizioni, spiega il ministero, emerge che la procedura concorsuale (concordato preventivo con la continuazione dell'attività), da un lato, risulta finalizzata al risanamento di imprese che versano in uno stato di crisi «non strutturale»; dall'altro, presupponendo la prosecuzione dell'attività aziendale, si incentra necessariamente su di un piano, che viene validato da un professionista e omologato dal competente Tribunale, mediante il quale l'azienda «si accorda» con i creditori riguardo alle tempistiche e alle modalità di pagamento dei debiti, sorti precedentemente alla presentazione della domanda di concordato.
Nello specifico, aggiunge il ministero, l'articolo 186-bis della legge fallimentare dispone che il piano concordatario può prevedere una moratoria fino a un anno dall'omologazione del Tribunale per il pagamento dei crediti muniti di privilegio, pegno o ipoteca, tra i quali sono ricompresi dunque i contributi previdenziali e assistenziali. Si prevede inoltre che:
● i contratti in corso di esecuzione alla data del deposito del ricorso, tra i quali anche quelli stipulati con le pubbliche amministrazioni, non si risolvono per effetto dell'apertura della procedura;
● l'ammissione al concordato preventivo non impedisce la continuazione dei contratti pubblici sottoscritti, nella misura in cui il professionista designato ne abbia attestato la conformità al piano, unitamente alla ragionevole capacità di adempimento dell'azienda debitrice.
L'ammissione alla procedura comporta per la compagine aziendale interessata, pertanto, la sospensione ex lege delle situazioni debitorie sorte antecedentemente al deposito della relativa domanda e la conseguente preclusione delle azioni esecutive dei creditori. È proprio alla luce di tale disciplina, argomenta il ministero del lavoro, che la fattispecie prospettata dai consulenti del lavoro sembrerebbe rientrare nel campo di applicazione della disciplina del Durc (nello specifico nell'articolo 5 del dm 24.10.2007, recante l'elencazione dei requisiti utili ai fini del rilascio di un Durc ovvero delle condizioni in presenza delle quali l'Istituto previdenziale attesta la correntezza nei pagamenti e negli adempimenti contributivi). In particolare, sembrerebbe rientrare nella norma (comma 2, lettera b) del citato articolo 5) secondo il quale «la regolarità contributiva sussiste inoltre in caso di sospensione di pagamento a seguito di disposizioni legislative».
Peraltro, non ammettere la possibilità del rilascio del Durc contrasterebbe la ratio della procedura concorsuale la quale, come evidenzia il ministero, è finalizzata a garantire la prosecuzione dell'attività aziendale e alla salvaguardia dei livelli occupazionali; infatti, sarebbe disattesa qualora si riconoscesse un'incidenza negativa alle situazioni debitorie sorte antecedentemente all'apertura della procedura stessa. Ciò in quanto l'impresa sottoposta a concordato non avrebbe la possibilità di ottenere un Durc, se non alla chiusura del piano di risanamento, con conseguente e inevitabile pregiudizio per il superamento della crisi.
In conclusione, il ministero precisa che per l'azienda ammessa al concordato preventivo, ex articolo 186-bis della legge fallimentare è possibile ottenere il rilascio di un Durc nell'ipotesi in cui il piano, omologato dal Tribunale, contempli l'integrale assolvimento dei debiti previdenziali e assistenziali contratti prima dell'attivazione della procedura concorsuale. Tuttavia precisa che, in tal caso, la sospensione dei pagamenti che, ai sensi della normativa (articolo 5, comma 2, lettera b, del dm 24.10.2007) non osta al rilascio del Durc deve necessariamente riferirsi a quelle obbligazioni che sono state prese in considerazione o comunque rientrano nell'ambito del concordato.
Pertanto, gli enti previdenziali potranno attestare la regolarità contributiva soltanto qualora lo specifico piano di risanamento preveda la cosiddetta moratoria indicata dall'articolo 186-bis, comma 2, lettera c) della legge Fallimentare ed esclusivamente per un periodo non superiore a un anno dalla data dell'omologazione. Trascorso detto periodo, infatti, la sospensione cessa di avere effetto e l'impresa, in mancanza di soddisfazione dei crediti assicurativi, deve essere «attestata» come irregolare (articolo ItaliaOggi Sette del 18.02.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIARIFIUTI/ Riformulato l'elenco degli esempi illustrativi previsto dalla direttiva 94/62/Ce. Imballaggi, conta la funzione. Dalle grucce ai cd: dal 30/9 nuovo regime di raccolta.
Sarà sempre di più la funzione effettiva dei beni a determinarne la natura di imballaggi o meno. Così le spine di contenimento dei compact disc (meglio note come «spindle») saranno imballaggi se vendute insieme agli stessi (poiché finalizzate a manipolazione e consegna dei dischi) ma saranno semplici beni se vendute vuote (poiché destinate a contenere i supporti ottici durante il loro ciclo di vita).
Stessa sorte per le grucce degli indumenti ed i vasi da fiore, il cui inquadramento varierà in base all'essere ceduti per il semplice trasporto dei beni principali o in funzione del loro ricovero permanente.

A precisare il confine tra imballaggi e non imballaggi è la Commissione europea, che con la nuova direttiva 2013/2/Ue ha dettato il nuovo «elenco di esempi illustrativi» dei casi critici, elenco destinato a sostituire l'omonimo indice recato dall'allegato I alla direttiva madre in materia (la 94/62/Ce).
Le nuove regole. Le indicazioni dell'Ue (pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea dell'08.02.2013, n. L37) costituiscono una guida all'interpretazione armonizzata sul territorio comunitario della definizione di «imballaggio» recata dall'articolo 3 della citata direttiva 94/62/Ce, a tenore del quale sono tali «tutti i prodotti (_) adibiti a contenere e a proteggere determinate merci, (_) a consentire la loro manipolazione e la loro consegna dal produttore al consumatore o all'utilizzatore, e ad assicurare la loro presentazione» e rispondenti, inoltre, ai «criteri funzionali» dettati in prosieguo dalla stessa norma, ossia: la destinazione dei prodotti al contenimento temporaneo di un bene (e non, dunque, per tutto il ciclo di vita dello stesso); l'essere tali prodotti naturalmente separati dal bene che contengono; l'avere gli stessi prodotti funzione principale di presentazione di un bene nel punto vendita; il loro carattere «usa e getta»; il costituire parti integranti di altro prodotto rientrante nella definizione di imballaggio.
Ed è proprio al fine di chiarire ulteriormente la corretta applicazione di tali criteri funzionali che il nuovo catalogo recato dalla direttiva 2013/2/Ue presenta (riprendendo la scansione per tipologia prevista dalla direttiva 94/62/Ce) un più capillare elenco degli articoli (generici, destinati ad essere riempiti, usa e getta, accessori) che devono essere considerati imballaggi e di quelli che, invece, tali non sono.
Tra le «new entry», oltre ai prodotti già citati (spine per compact disc, grucce e vasi da fiore per vendita e trasporto), vi sono i pizzi per torte venduti insieme alle stesse, i macinapepe non ricaricabili, i sistemi di barriera sterili, le bottiglie di vetro per soluzioni iniettabili, le capsule per sistemi erogatori di bevande (come caffè, cioccolata e latte) che sono lasciate vuote dopo l'uso, le pellicole di plastica per indumenti lavati nelle lavanderie.
Tra i prodotti che resteranno invece fuori dal regime degli imballaggi (ma, è utile ricordarlo, non da quello generale sulla gestione dei rifiuti, una volta diventati tali) vi sono le cartucce per stampanti, le bustine solubili per detersivi, i lumini per tombe, le capsule per sistemi erogatori di caffè, sacchetti di alluminio per caffè e bustine di carta per caffè filtro che si gettano insieme al caffè usato, la carta da imballaggio (se venduta separatamente dal prodotto destinato a contenere), le posate monouso (laddove gli esempi illustrativi dell'originaria versione della direttiva 94/62/Ce citavano tra gli articoli esclusi la più generica categoria dei «cucchiaini di plastica»).
Le ricadute operative. Il nuovo elenco Ue degli «esempi illustrativi» dovrà dagli stati membri essere tradotto negli ordinamenti interni entro la deadline del 30.09.2013 imposta dalla stessa direttiva 2013/2/Ue.
Una volta recepite (in Italia attraverso la necessaria riformulazione del Titolo IV del dlgs 152/2006, c.d. «Codice ambientale», che reca già attuazione dell'originaria direttiva madre 94/62/Ce) le nuove norme comunitarie si intersecheranno naturalmente con il particolare sistema di gestione dei «rifiuti di imballaggio» (ossia degli imballaggi e dei materiali di imballaggio rientranti nella definizione di rifiuto (oggi recata dall'articolo 183 del dlgs 152/2006).
Tale sistema, previsto a monte dalla direttiva 94/62/Ce e poi tradotto sul piano nazionale sempre dallo stesso «Codice ambientale», pone a carico dei produttori dei particolari beni (quali fornitori, fabbricanti, trasformatori, importatori di imballaggi vuoti) e dei relativi utilizzatori (ossia commercianti, distributori, addetti al riempimento, utenti, importatori di imballaggi pieni) gli oneri organizzativi e finanziari della loro gestione una volta giunti a fine vita, e ciò al fine di garantirne riciclaggio o recupero (articolo ItaliaOggi Sette del 18.02.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa sforbiciata della PA. Per i dipendenti in esubero pensione anche con i criteri ante riforma (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTI: Raccolta rifiuti, rischio paralisi in tutta Italia. Le aziende incasseranno dopo luglio la prima rata della Tares: in molti casi non è esclusa l'interruzione del servizio.
EFFETTI COLLATERALI/ Le nuove regole fanno anche saltare milioni di Rid e addebiti automatici finora utilizzati dagli utenti delle multiutility.

Mentre le nuove regole sui pagamenti imporrebbero ai privati di onorare i propri debiti in 30 giorni e ai soggetti pubblici di pagare le fatture in 60, la disciplina Tares impone alle aziende che raccolgono e smaltiscono i rifiuti di effettuare gratis un servizio essenziale per almeno 8-9 mesi. Anche se in ritardo, gli obblighi di pagamento complicheranno la vita di milioni di utenti, che in questi anni hanno attivato i Rid automatici o pagato in un'unica bolletta i servizi diversi (per esempio rifiuti ed energia) offerti loro dalle multiutility. Le nuove regole prevedono infatti solo l'F24 o il bollettino postale, con incasso diretto al Comune, per cui milioni di versamenti automatici o multipli sono destinati a saltare.
Se la complicazione per gli utenti emergerà solo con l'estate, il corto-circuito degli incassi sta già determinando in queste settimane la paralisi amministrativa nella gestione ambientale delle città italiane, e nelle prossime settimane rischia di moltiplicare i casi dell'emergenza rifiuti.
L'origine è nella sequela di rinvii elettorali della prima rata Tares, il nuovo tributo che da quest'anno deve sostituire le tasse e tariffe sui rifiuti andate in pensione a fine 2012. Il decreto salva-Italia ha infatti abrogato le vecchie discipline a partire dallo scorso 1° gennaio, ma la Tares che dovrebbe intervenire al loro posto è stata rinviata prima ad aprile e poi a luglio da un Parlamento in scadenza desideroso di spostare le richieste tributarie ai cittadini lontano dalle elezioni politiche di febbraio e dalle amministrative di maggio. Per i bilanci degli utenti in realtà cambia poco. La cifra da pagare nel 2013 sarà in ogni caso superiore a quella versata nel 2012 per due ragioni: i costi di raccolta e smaltimento vanno coperti integralmente con il tributo -secondo un criterio che fino a ieri era stato raggiunto in modo universale nei soli Comuni a tariffa Tia, 1.300 su 8.100- e a questo si aggiunge una maggiorazione comunale (30 centesimi a metro quadro, elevabili a 40) per finanziare i «servizi indivisibili» come la manutenzione delle strade e l'illuminazione pubblica. Proprio la maggiorazione, che ha permesso allo Stato di tagliare preventivamente un miliardo di euro ai fondi dei Comuni scaricandone i costi sui cittadini, ha impedito di prorogare nel 2013 la tassa e la tariffa ambientale rimaste in vigore fino a dicembre.
La pioggia dei rinvii, quindi, non ha effetti pratici sui portafogli dei cittadini, ma tira una bordata praticamente mortale ai conti delle imprese, che in queste settimane stanno cominciando ad affrontare una crisi di liquidità difficilmente gestibile. I mezzi e gli impianti vanno fatti girare tutti i giorni, gli stipendi devono essere pagati tutti i mesi, ma l'intera macchina dovrebbe viaggiare "gratis" fino alla fine di luglio, o meglio fino a settembre-ottobre quando le prime bollette si tradurranno in incassi effettivi. Con il classico effetto a catena: l'assenza di liquidità si scaricherà sui fornitori, cioè le aziende in genere private che ai gestori dell'igiene urbana vendono i mezzi e le attrezzature. A questo anello della catena scattano gli interessi di mora dell'8,75% a carico dei debitori che non pagano entro i 30-60 giorni previsti dalla normativa (il Dlgs 192/2012) che ha tradotto in italiano la direttiva europea.
L'ultima proroga è stata approvata dal Parlamento contro il parere del Governo Monti, e nelle scorse settimane il sottosegretario all'Ambiente Tullio Fanelli ha ipotizzato il varo di un nuovo decreto governativo che anticipi la prima rata della Tares, ma solo il nuovo Parlamento uscito dalle urne potrebbe convertirlo. «In questi giorni –spiega Daniele Fortini, il presidente di Federambiente (l'Associazione italiana servizi pubblici ambientali)– abbiamo inviato una lettera al presidente del Consiglio e ai ministri dell'Ambiente e dello Sviluppo economico, e dai contatti avuti con i vertici ministeriali ci aspettiamo un incontro a breve. I tempi però sono strettissimi e l'urgenza dei problemi non ammette timidezze».
Ma come accennato i problemi della Tares non sono solo di calendario: la nuova disciplina che prevede solo pagamenti con F24 o bollettino postale costringerà a rivedere i meccanismi di versamento attuati in particolare da parecchie multiutility come per esempio Hera, perché farà saltare i versamenti automatici con Rid e quelli elettronici con i Mav. Una complicazione in più, che farà "apprezzare" anche agli utenti, oltre che alle aziende, tutta la tortuosità del nuovo tributo ambientale (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Spending review. Ancora in una fase preliminare la riduzione del personale degli enti locali
Taglio organici a rilento. Difficile la ricognizione degli addetti delle società controllate.
CORSA CONTRO IL TEMPO/ Per riorganizzarsi con procedure semplificate i ministeri hanno tempo fino alla fine del mese ma sono in ritardo.

Avviata la partita della riduzione delle dotazioni organiche delle amministrazioni centrali e degli enti pubblici –voluta dal decreto legge 95/2012 sulla spending review– si apre ora quella del personale degli enti locali.
La prima mossa è stata giocata martedì scorso, con l'insediamento del tavolo tecnico presso la conferenza Stato-città, tavolo intorno al quale si sono seduti i ministeri della Pubblica amministrazione, dell'Economia e dell'Interno, nonché i rappresentanti di Anci e Upi. L'obiettivo è l'individuazione dei parametri di virtuosità –da mettere a punto tenendo soprattutto conto del rapporto tra dipendenti e popolazione residente– sulla base dei quali procedere al taglio degli organici.
E se l'intervento sul personale di ministeri, enti pubblici non economici, enti parco, Inps ed enti di ricerca –effettuato con tre Dpcm messi a punto dalla Pubblica amministrazione a fine gennaio e ora al vaglio della Corte dei conti- ha portato all'individuazione di 7.416 eccedenze su un totale di 120mila dipendenti (tra personale dirigenziale e non), dalla partita degli enti locali si aspettano numeri ben più significativi, visto che si tratta di mettere a fuoco il fabbisogno di amministrazioni che danno lavoro a circa 600mila persone.
I tempi, tuttavia, si annunciano lunghi. Anche perché la predisposizione dei criteri di virtuosità si prospetta non semplice. A cominciare dal fatto che quei parametri dovranno prendere in considerazione anche i dipendenti delle società controllate dagli enti locali, una galassia di cui non si dispone di dati precisi. Altamente probabile, pertanto, che l'operazione del taglio degli organici non si concluderà nei tempi previsti per le amministrazioni centrali.
Queste ultime, infatti, dovranno ora mettere mano –sulla base delle eccedenze individuate con i decreti della Pubblica amministrazione– ai processi di riorganizzazione interna, con eventuale taglio di direzioni e accorpamento di uffici. Operazione che dovrà essere chiusa entro la fine di luglio, ma sulla quale al momento pesa la fase di transizione indotta dalla fine della legislatura, con prossimo cambio al vertice delle amministrazioni interessate dalla risistemazione. Il problema riguarda, in particolare, i ministeri, i quali perderanno l'occasione di procedere alla riorganizzazione utilizzando una procedura accelerata.
Il decreto legge 95 (articolo 2, comma 10-bis), infatti, ha previsto che i dicasteri possano riorganizzarsi con Dpcm, sui quali è necessario il controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti, ma non il parere del Consiglio di Stato, che diventa facoltativo. Procedura snella che, però, deve essere utilizzata entro la fine di febbraio. Al momento, però, solo i ministeri dell'Ambiente, Salute, Agricoltura, Istruzione e Giustizia hanno presentato alla Pubblica amministrazione proposte di riorganizzazione, che dovranno ora essere istruite. I tempi non solo sono strettissimi, ma c'è l'incognita su come si muoverà il nuovo Governo.
Diverso il discorso per gli enti pubblici, che potranno riorganizzarsi con regolamenti propri e per i quali, dunque, la scadenza di fine febbraio non ha valore.
Dalla partita è escluso Palazzo Chigi, che ha già ridotto le dotazioni organiche con un decreto di metà giugno 2012. Così come restano esclusi –per espressa previsione di legge– i comparti della scuola, della sicurezza, dei Vigili del fuoco, della giustizia. Diversa la situazione per il ministero dell'Economia e per le Agenzie fiscali, che dovevano ridurre le dotazioni organiche sulla base di altre disposizioni (articolo 23-quinquies del Dl 95) e vi hanno già provveduto. Così come ha fatto il ministero della Difesa, ponendo le basi per tagliare i militari da 190mila a 170mila (resta la riduzione degli organici civili, a cui provvede uno dei tre Dpcm ora alla Corte dei conti). Non restano, dunque, che gli enti locali (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVITrasparenza amministrativa. L'incisività delle nuove regole. Sull'accesso ai documenti l'Italia è un passo avanti.
Il primato della trasparenza. È un titolo di cui si potrà fregiare il nostro Paese se saranno tradotte in pratica le indicazioni contenute nel decreto approvato venerdì in via definitiva dal Consiglio dei ministri.
Si tratta delle regole che danno attuazione a una parte della legge anticorruzione (la 190/2012) e che obbligano le pubbliche amministrazioni –tutte: dal grande ministero al più piccolo comune– a pubblicare sui siti istituzionali tutta una serie di informazioni: la retribuzione e i redditi dei politici, gli stipendi e i curricula dei dirigenti e dei consulenti, i dati sulle dotazioni organiche e sul personale effettivamente in servizio, i premi di produttività distribuiti, l'elenco delle società controllate, i provvedimenti adottati, le sovvenzioni elargite, la lista dei controlli sulle imprese. E via di questo passo.
Un lungo elenco di comunicazioni che le amministrazioni sono tenute a dare ai cittadini in forma completa, aggiornata, facilmente consultabile (deve essere creata nell'home page una sezione chiamata "Amministrazione trasparente"), scaricabile, riutilizzabile.
Un bel salto in avanti dopo la breccia aperta dalla legge sul diritto di accesso (la 241 del 1990) nel velo di omissioni che spesso contraddistingue il comportamento degli uffici pubblici. E che ci pone un passo avanti rispetto a molti Paesi. Anche degli stessi Stati Uniti, il cui Freedom of information act, che garantisce l'accessibilità di ciascun cittadino ai documenti in possesso della Pa (esclusi, ovviamente, gli atti coperti da segreto), ha ispirato il nostro legislatore.
La trasparenza italiana, infatti, si dimostra, almeno sulla carta, più incisiva. Un buon metro di paragone è la conoscibilità delle informazioni relative a curricula, retribuzioni, incarichi di politici e dirigenti pubblici, che sono quelle su cui la resistenza degli uffici ha sempre avuto particolare vigore. Sotto un certo punto di vista anche comprensibile, perché, come ha rilevato il Garante della privacy in un recente parere dato al decreto, è più alto il rischio di rendere pubblici dati sensibili. Per esempio, nella dichiarazione dei redditi possono essere riportate agevolazioni legate a particolari condizioni di salute. È, però, sufficiente, «rendere non intellegibili –dice il decreto alla luce dei rilievi dell'Authority– i dati personali non pertinenti o, se sensibili e giudiziari, non indispensabili rispetto alle specifiche finalità di trasparenza della pubblicazione».
Ebbene, riguardo alla conoscibilità da parte dei cittadini di tali informazioni il nostro Paese si è spinto ben più in là di tanti altri. Anche di quelli –come Usa, Finlandia, Norvegia e Svezia– che pure pongono molta attenzione alla trasparenza (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Impugnazioni. Dai giudici di Roma le istruzioni agli avvocati sulla motivazione «pesante» richiesta dalla legge 134/2012
Appello, serve un ricorso blindato. L'atto deve indicare tutte le parti contestate della sentenza e proporre le modifiche.
IL REQUISITO AGGIUNTIVO/ Bisogna specificare le circostanze da cui deriva la violazione della legge e la loro rilevanza ai fini della decisione.

L'appello è inammissibile, in base al nuovo articolo 434 del Codice di procedura civile, se non specifica le parti del provvedimento impugnato da riesaminare, né indica le modifiche da effettuare nella sentenza di primo grado.
Lo sottolinea la sezione lavoro della Corte d'appello di Roma (presidente e relatore Torrice) in una sentenza del 15 gennaio.
I giudici applicano così le nuove regole sull'atto di appello introdotte dalla legge 134/2012, di conversione del decreto legge sullo sviluppo (Dl 83/2012). Secondo le nuove norme (che valgono sia per le cause civili, sia per quelle di lavoro), chi si rivolge al giudice di secondo grado non può più limitarsi a esporre i motivi dell'impugnazione, ma deve presentare un atto con una motivazione che, a pena di inammissibilità, contenga «l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado».
Questo significa –secondo il giudice di Roma– che il ricorso (o la citazione) in appello deve essere redatto «in modo più organico e strutturato rispetto al passato, quasi come una sentenza». In sostanza, non basta più riferirsi alle sole statuizioni del dispositivo. Bisogna considerare anche le singole parti della motivazione che non si condividono e che il primo giudice ha messo a fondamento della decisione. Per ciascuna di quelle parti, poi, occorre «suggerire le modifiche che dovrebbero essere apportate» alla sentenza impugnata. Le parti del provvedimento, dunque, sono non solo i «capi» in cui si articola la decisione vera e propria, ma «anche tutti i singoli segmenti» che assumono rilievo autonomo (cioè di causalità) rispetto alle statuizioni finali.
Ma non basta. Sempre a pena di inammissibilità, nella motivazione dell'appello è richiesta anche «l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata». Un requisito, questo, che, secondo la Corte romana, impone all'appellante di chiarire il rapporto di causa ed effetto che esiste tra l'ipotetica violazione della norma di diritto e l'esito della lite.
Nella sentenza si legge ancora che questa interpretazione della nuova normativa è l'unica idonea ad assicurare la garanzia della ragionevole durata del processo (articolo 111 della Costituzione), essendo assai più probabile che il giudice d'appello arrivi in tempi accettabili alla definizione del processo quanto più i motivi dell'impugnazione siano conformi allo schema imposto dal nuovo articolo 434 (e 342) del Codice di rito civile.
Questi principi sono stati affermati nell'ambito di una causa intentata da un lavoratore per il pagamento di differenze retributive. La sentenza del tribunale aveva accertato il livello attribuito da una società al lavoratore attraverso le attestazioni delle buste-paga, messe a confronto con le dichiarazioni dei testi.
Aveva poi effettuato un dettagliato conteggio delle retribuzioni dovute dalla società al lavoratore con riferimento ai minimi tabellari fissati per il suo livello, alle ore di lavoro effettive, ai permessi orari dichiarati ma non realmente fruiti.
Quindi, disattendendo ogni singola contestazione mossa dalla società ai calcoli delle differenze retributive richiesti dal lavoratore, aveva accolto il ricorso.
Il datore di lavoro condannato ha presentato un atto di appello nel quale trascriveva i contenuti della memoria di costituzione nel giudizio di primo grado.
Aveva descritto lo svolgimento del processo e aveva infine riproposto le stesse contestazioni già formulate contro i conteggi proposti dal lavoratore, limitandosi ad affermare che la decisione impugnata era destituita di fondamento perché non aveva tenuto conto di quanto dedotto dalla società a dimostrazione dell'erroneità dei conteggi.
Secondo la corte romana, l'appellante ha indicato le statuizioni che non condivide, ma «ha omesso di indicare le modifiche proposte con riferimento a ciascuna parte della sentenza». Dunque, non ha rispettato il nuovo articolo 434 del Codice di procedura civile (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2013).

TRIBUTIRifiuti. Nelle istruzioni dell'Economia la disciplina speciale prevale sulle regole del Dl Sviluppo-bis.
Il Comune decide la tariffa. Le linee guida sulla Tares «ignorano» la competenza degli Ato.

Dal 1° gennaio è entrata in vigore la Tares, ma sono ancora pochi i Comuni che hanno approvato il regolamento, e ancor di meno quelli che hanno approvato le tariffe, complici anche la proroga a giugno del termine di approvazione del bilancio di previsione e la scadenza a luglio della prima bolletta.
Un valido supporto per la predisposizione delle delibere comunali sono le «Linee guida» per l'applicazione della Tares diffuse dal ministero dell'Economia (si veda anche Il Sole 24 Ore dell'8 febbraio), nelle quali si analizzano anche due punti molto controversi: il soggetto competente ad approvare le tariffe e la definizione di «misurazione puntuale», nel caso di applicazione della tariffa corrispettivo.
Sul soggetto legittimato ad approvare le tariffe Tares si erano create alcune incertezze a causa dell'articolo 34 del Dl 179/2012, il quale prevede che anche nel settore dei rifiuti urbani, la «determinazione delle tariffe all'utenza per quanto di competenza» spetti unicamente agli enti di governo degli Ato.
Questa disposizione è però completamente ignorata dal ministero dell'Economia che valorizza invece esclusivamente la disciplina speciale contenuta nell'articolo 14 del Dl 201/2011, dove si individua come soggetto attivo d'imposta il Comune e si attribuisce al consiglio comunale la competenza ad approvare tariffe e regolamento per l'applicazione del tributo. D'altro canto, sarebbe stato difficile ipotizzare una scissione tra soggetto che approva le tariffe e soggetto che approva il regolamento, visto che le scelte regolamentari, come le riduzioni e le esenzioni, inevitabilmente si riflettono sulle tariffe.
Sulla tempistica, il ministero ribadisce che la delibera di approvazione delle tariffe costituisce un atto autonomo e precedente rispetto all'approvazione del bilancio, non risultando configurabile un'approvazione implicita delle tariffe con il varo del bilancio. Le affermazioni, condivisibili in punto di diritto, non considerano però che le tariffe devono essere approvate sulla base di un piano finanziario redatto dal gestore e approvato dall'Ato; se i due soggetti, in assenza di un termine fissato per legge, non redigono e non approvano il piano, il Comune è impossibilitato ad approvare le tariffe.
In questa situazione, dando atto dell'impossibilità di approvare le tariffe per assenza del piano finanziario, sarebbe legittimo approvare il bilancio preventivando un'entrata pari al costo presunto del servizio, rinviando a un secondo momento l'approvazione delle tariffe, fermo restando che queste dovranno comunque essere approvate entro il 30.06.2013. È evidente poi che in sede di approvazione delle tariffe, eventuali scostamenti tra entrate o costi inizialmente iscritti in bilancio andranno corretti con una delibera di variazione di bilancio.
Altra importante precisazione contenuta nelle linee guida riguarda la tariffa corrispettivo. Il Comune, se ha realizzato sistemi di misurazione puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico, può prevedere l'applicazione di una tariffa corrispettivo. Il ministero ha condivisibilmente ritenuto che l'aggettivo «puntuale» comporti il riferimento ai rifiuti «effettivamente prodotti -o meglio conferiti- dalla singola utenza». Eventuali altri criteri di misurazione medi o presuntivi non legittimano la tariffa corrispettivo (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTI: L'Imu dei rurali spetta ai sindaci
L'«INFORTUNIO»/ La riserva statale sostenuta dalle Finanze nelle risposte di Telefisco non trova giustificazioni nella normativa.

La riserva d'imposta statale dell'Imu, pari allo 0,2% sui fabbricati rurali di categoria D, non è prevista da nessuna norma di legge e pertanto non può essere applicata. Né allo scopo è sufficiente una risposta delle Finanze a un quesito di Telefisco (si veda Il Sole 24 Ore del 1° febbraio). Il dipartimento, per quanto autorevole, non è legibus solutus.
Il problema nasce dal comma 380 dell'articolo unico della legge di stabilità 2013 (legge 228/2012). In forza di tale norma, l'Imu è interamente attribuita ai Comuni, con la sola eccezione di una quota di imposta in favore dello Stato, calcolata in misura pari allo 0,76% sui soli fabbricati di categoria D. Per evitare di creare eccessivi cali di gettito nei Comuni ad alta intensità industriale o ricettiva, è inoltre previsto che le amministrazioni possano elevare dello 0,3% l'aliquota base, introitando l'intera eccedenza deliberata.
Si è posto il quesito se la riserva in esame fosse applicabile anche ai fabbricati rurali strumentali, classificati nella categoria D10, atteso che per questi la legge impone l'aliquota massima dello 0,2%. Stante la chiarezza della disposizione di legge, è tuttavia evidente che le soluzioni al quesito possono essere solo due: o la quota statale dello 0,76% si applica oppure non si applica. Non pare proprio che possa neppure prospettarsi una terza via, che individui una quota diversa da quella di legge.
Si è dell'avviso che la risposta corretta è quella di escludere i rurali strumentali dalla riserva statale, per una pluralità di ragioni. In primo luogo, l'aliquota massima di legge è in questo caso dello 0,2%, ed è evidente che una compartecipazione statale al gettito del tributo comunale non può mai risolversi in una surrettizia elevazione dell'aliquota legale.
La legge di stabilità individua la misura della riserva statale richiamando il comma 6 dell'articolo 13, D.L. n. 201/2011, mentre i rurali strumentali sono nel comma 8.
La risposta data dalle Finanze ai quesiti di Telefisco appare pertanto spiazzante e priva di supporto normativo. Secondo il Dipartimento delle politiche fiscali, infatti, per i fabbricati rurali di categoria D la riserva statale sussiste ma opera nei limiti dello 0,2%. La risposta sembra per di più adombrare la possibilità che il comune intervenga sull'aliquota, riducendola allo 0,1%. È però evidente che una delibera comunale non può mai avere effetto su di una quota statale.
Ne deriva che sugli immobili D rurali l'intero gettito deve essere attribuito ai comuni.
Quanto ai controlli sui fabbricati D, premesso che potrebbe dubitarsi dell'estensione della quota erariale anche al gettito da accertamento, è ovvio che essi spettino agli enti locali. L'interesse del Comune potrebbe consistere nell'acquisizione del gettito afferente alle sanzioni, posto che la riserva dello Stato riguarda unicamente l'imposta (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Dalla L. 28.01.1977 n. 10, la comunicazione del parere favorevole della Commissione edilizia -atto tipicamente endoprocedimentale del tutto privo di una propria autonomia funzionale e strutturale- non ha più né formalmente, né sostanzialmente valore provvedimentale di atto di assentimento della concessione edilizia richiesta.
Il parere della C.E. e gli atti endoprocedimentali non possono essere considerati equivalenti e non possono avere, anche implicitamente, un rilievo autorizzatorio in quanto solo il perfezionamento dell’iter normativo avrebbe consentito l’edificazione legittima.

In linea preliminare si osserva che, dalla L. 28.01.1977 n. 10, la comunicazione del parere favorevole della Commissione edilizia -atto tipicamente endoprocedimentale del tutto privo di una propria autonomia funzionale e strutturale- non ha più né formalmente, né sostanzialmente valore provvedimentale di atto di assentimento della concessione edilizia richiesta (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 10.05.2011 n. 2759; Consiglio di Stato sez. IV 07.02.2011 n. 813; Consiglio Stato sez. V 04.03.2008 n. 881).
Il parere della C.E. e gli atti endoprocedimentali non possono essere considerati equivalenti e non possono avere, anche implicitamente, un rilievo autorizzatorio in quanto solo il perfezionamento dell’iter normativo avrebbe consentito l’edificazione legittima.
In tale prospettiva anche l’eventuale inerzia del Comune è del tutto inconferente in quanto una costruzione eseguita senza che sia stato emesso il permesso è, in ogni caso, abusiva anche in presenza di un parere favorevole della C.E.C. .
Devono poi essere del tutto disattese le insinuazioni sul comportamento contraddittorio e sviatorio dell’amministrazione dato che l’intervento realizzato era solo l’ultimo di una lunga serie di abusi che avevano dato luogo ad un’estesa lottizzazione abusiva materiale. Al riguardo basti ricordare le considerazioni sulla complessiva vicenda di cui alle sentenze infra partes, decise in data odierna in senso sfavorevole agli appellanti, sulle sentenze del TAR che ritenevano legittimi i provvedimenti di annullamento in autotutela dei provvedimenti di sanatoria (es. rispettivamente sui ricorsi riuniti n. 7959/2008; n. 7960/ 2008; n. 7961/2008, n. 7962/2008; n. 7963/2008; n. 7967/ 2008; n. 7964/2008) e sulla lottizzazione (n. 7964/2008 ).
Né ha alcun rilievo l’asserita inattività dell’Amministrazione in quanto, in caso di inerzia dell’Amministrazione, si sarebbe semmai dovuto esperito il rimedio avverso l’inerzia della P.A., (cfr. Consiglio Stato sez. V 03.12.2010 n. 8404).
Non può ravvisarsi né alcuna violazione dell’art. 7 della legge n. 47/1985, né si rinviene un intento sviatorio o persecutorio da parte del Comune. L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività obbligatoria per legge della p.a. con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati (cfr. Consiglio di Stato Sez. V 06.06.2012 n. 3337) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.02.2013 n. 1111 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’accesso ai documenti amministrativi costituisce “principio generale dell’attività amministrativa, al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza”, pur richiedendosi per l’accesso un “interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”, con inammissibilità delle istanze di accesso “preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”, essendo tale controllo estraneo alle finalità, perseguite attraverso l’istituto di cui trattasi (artt. 22, commi 3, lettera b, e 24, comma 3 L. n. 241/1990 cit.).
A norma del già ricordato art. 24, comma 7 della legge n. 241/1991, infatti, “deve…essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”; nel caso di “documenti contenenti dati sensibili e giudiziari”, poi, la medesima norma precisa che l’accesso è consentito solo “nei limiti in cui sia strettamente indispensabile” (in esito ad un sostanziale bilanciamento di interessi, operato già a livello legislativo).
Il tenore letterale e la ratio della disposizione legislativa in questione impongono un’attenta valutazione –da effettuare caso per caso– circa la stretta funzionalità dell’accesso alla salvaguardia di posizioni soggettive protette, che si assumano lese, con ulteriore salvaguardia, attraverso i limiti così imposti, degli altri interessi coinvolti, talvolta rispondenti a principi di pari rango costituzionale rispetto al diritto di difesa.
In tale ottica solo una lettura rigorosa –che escluda la prevalenza acritica di esigenze difensive genericamente enunciate, ma riconosca tali esigenze come prevalenti, ove realmente funzionali al diritto di difesa– appare idonea a sottrarre la medesima norma a dubbi di costituzionalità, per irragionevole sacrificio di interessi protetti di rilevanza costituzionale e comunitaria (cfr. al riguardo, per il principio, Cons. St., Ad. Plen. 04.02.1997, n. 5; Cons. St., sez. VI, 24.03.1998, n. 498, 26.01.1999, n. 59, 20.04.2006, n. 2223; 27.10.2006, n. 6440, 13.12.2006, n. 7389; Cons. St., sez. V, 21.10.1998, n. 1529).
L’accesso ai documenti amministrativi, d’altra parte, costituisce “principio generale dell’attività amministrativa, al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza”, pur richiedendosi per l’accesso un “interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”, con inammissibilità delle istanze di accesso “preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”, essendo tale controllo estraneo alle finalità, perseguite attraverso l’istituto di cui trattasi (artt. 22, commi 3, lettera b, e 24, comma 3 L. n. 241/1990 cit.) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 22.02.2013 n. 1095 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Si intendono per volumi tecnici esclusi dal calcolo della volumetria ammissibile i locali completamente privi di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, i quali risultano esclusivamente destinati a contenere impianti serventi alla costruzione principale, che per esigenze di funzionalità non possono essere inglobati nel corpo della costruzione.
Rileva il Collegio che appare nella specie decisivo l’esame della “Relazione tecnica descrittiva” presentata dalla società ricorrente in sede di istanza per l’accertamento di conformità e di compatibilità paesaggistica, la quale dà compiuta descrizione dei 19 interventi realizzati senza titolo edilizio dalla società medesima.
Siamo in presenza di interventi di “ampliamento di ufficio esistente” “il tutto per una superficie utile di mq 14.34 e una volumetria di mc 38.22”; di “ampliamento di laboratorio” “per una superficie utile di mq 44.00 e una volumetria di mc 187.72”; nonché di realizzazione di tettoie, recinzioni, porticati, ampliamenti di capannoni, realizzazione di w.c. oltre che di locali per il ricovero di legname e altro.
Dunque non sussistono dubbi che nella specie siano stati realizzati interventi edilizi con realizzazione di nuove superficie utili e nuova volumetria, ciò risultando dalla stessa relazione tecnica promanante dalla società ricorrente. La tesi difensiva di parte ricorrente è tuttavia che nella specie si sarebbe in presenza di <volumi tecnici>, come tali esclusi dal calcolo della volumetria ammissibile. Ma la tesi non convince.
Si intendono per volumi tecnici esclusi dal calcolo della volumetria ammissibile i locali completamente privi di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, i quali risultano esclusivamente destinati a contenere impianti serventi alla costruzione principale, che per esigenze di funzionalità non possono essere inglobati nel corpo della costruzione (da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 08.01.2013, n. 32).
Nella specie non risulta affatto provato che gli interventi edilizi realizzati avessero quelle caratteristiche (essere destinati in via esclusiva a contenere impianti serventi non altrimenti collocabili nell’immobile) ed anzi la descrizione contenuta nella relazione tecnica allegata all’istanza amministrativa, cui sopra si è fatto riferimento, mostra chiaramente come nella fattispecie in esame si trattai palesemente di superficie realizzate con autonoma funzionalità e quindi estranee al concetto di <volume tecnico> (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.02.2013 n. 288 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALII giudici contabili possono sindacare sulle consulenze.
Danno erariale a carico dei manager pubblici che affidano incarichi a professionisti esterni a meno che non sussista «impossibilità oggettiva» di svolgere l'attività all'interno dell'ente. Quindi la Corte dei conti può sindacare sulla necessità dei consulenti esterni.

Lo hanno stabilito le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione che, con la sentenza 21.02.2013 n. 4283, hanno confermato la condanna per danno erariale a carico di alcuni amministratori pubblici che avevano conferito incarichi di assistenza legale nonostante l'attività potesse essere svolta all'interno.
Il Collegio esteso è stato quindi chiamato a decidere sui limiti della Corte dei conti in caso di scelte discrezionali della pubblica amministrazione. E, se per certi versi ha ribadito l'insindacabilità di tali scelte per altri ha ammesso l'ingerenza: sul punto –dice espressamente la Cassazione– il giudice contabile non vìola i limiti esterni della sua giurisdizione quando sottopone a giudizio di responsabilità chi ha conferito incarichi professionali senza determinazione specifica di contenuto, durata, criteri e compenso.
Insomma, ad avviso del Massimo consesso di piazza Cavour, che ha respinto integralmente il ricorso della difesa, non eccede la giurisdizione contabile non solo la verifica se l'amministratore abbia compiuto l'attività per il perseguimento di finalità istituzionali dell'ente, ma anche se nell'agire amministrativo ha rispettato dette norme e principi giuridici e dunque la Corte dei conti non viola il limite giuridico della «riserva di amministrazione» –da intendere come preferenza tra alternative, nell'ambito della ragionevolezza, per il soddisfacimento dell' interesse pubblico– sancito dall'art.1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994 n. 20, come modificato dall'art. 3 della legge 23.10.1993 n. 546.
Ferma restando, dicono le stesse norme, l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali nel controllare anche la giuridicità sostanziale, e cioè l'osservanza dei criteri di razionalità, nel senso di correttezza e adeguatezza dell'agire, logicità, e proporzionalità tra costi affrontati e obbiettivi conseguiti, costituenti al contempo indici di misura del potere amministrativo e confini del sindacato giurisdizionale, dell'esercizio del potere discrezionale.
La vicenda riguarda alcuni ex vertici della Unire che avevano affidato a legali esterni di seguire un contenzioso di fronte al Tar e poi al Consiglio di stato. La consulenza era costata all'ente oltre 200 mila euro. Per questo il procuratore presso la Corte dei conti ha contestato ai manager il danno erariale. La difesa ha sostenuto che il giudice contabile non può invadere la sfera discrezionale dell'ente. Ma la Cassazione non ha condiviso la tesi e ha respinto integralmente il ricorso.
Se da un lato Piazza Cavour ribadisce che non si può entrare nel merito delle decisioni degli enti pubblici dall'altro sostiene che se la consulenza poteva essere fatta da un interno si configura il danno erariale (articolo ItaliaOggi del 22.02.2013).

COMPETENZE PROGETTUALISentenza della Corte Ue. Ingegneri con le mani legate. Attività preclusa sugli immobili di interesse artistico.
Una normativa nazionale sull'esercizio di un'attività professionale non può aggiungere titoli diversi rispetto a quelli stabiliti da una direttiva comunitaria. E quindi, nel caso specifico italiano, le competenze degli ingegneri civili non possono essere estese alle attività che riguardano gli immobili di interesse artistico che restano prerogativa degli architetti.

A stabilirlo, la Corte di giustizia Europea che, con la sentenza 21.02.2013 n. C-111/12, V Sez., cerca di dirimere un annoso contenzioso che ha visto coinvolti il Consiglio nazionale degli ingegneri e quello degli architetti e ha portato a due pronunce contrastanti del Tar Veneto, ad altrettanti ricorsi davanti al Consiglio di stato e a un'ordinanza del 2004 della Corte di giustizia europea.
Il punto di partenza è che in Italia, la normativa contenuta nel regio decreto n. 2537 del 1925, stabilisce che gli ingegneri italiani non sono equiparati agli architetti, in materia di immobili di interesse artistico, in apparente contrasto con le regole comunitarie. La sentenza, però, su questo punto è chiara sottolineando come la direttiva 85/384 non si propone di disciplinare le condizioni di accesso alla professione né la natura delle attività svolte. Spetta quindi allo stato ospitante individuare le attività rientranti in tale settore, anche se, da tale competenza dello stato ospitante, «non può dedursi che la direttiva 85/384 gli consenta di subordinare l'esercizio delle attività su immobili di interesse artistico alla verifica delle qualifiche degli interessati in questo settore».
Se, dunque, si stabilisce il principio che lo stato membro ospitante non può imporre condizioni aggiuntive per l'esercizio delle attività rientranti nel settore della professione di architetto, così la Corte europea apre agli stranieri ingegneri che arrivano in Italia. Per questi, infatti, l'accesso alle attività riguardanti immobili di interesse artistico non può essere negato alle persone in possesso di un diploma di ingegneria civile o di un titolo analogo rilasciato in uno stato membro diverso dall'Italia. Ogni paese membro è tenuto, infatti, a riconoscere i diplomi di laurea rilasciati dagli altri paesi membri, in base alla direttiva.
E non è possibile, in questo caso, «subordinare l'esercizio delle attività su immobili di interesse artistico alla verifica delle qualifiche degli interessati». Agli ingegneri stranieri, in questo modo, viene riconosciuta una competenza più ampia rispetto al passato. L'unica limitazione consiste nel fatto che il loro diploma di laurea deve essere menzionato nell'elenco della direttiva. Una pronuncia che, però, crea una situazione contraddittoria perché di fatto agli ingegneri provenienti da altri paesi membri vengono, riconosciute prerogative delle quali gli ingegneri italiani non godono. Gli stranieri, quindi, potranno lavorare sugli immobili di interesse artistico, mentre ai professionisti italiani questa possibilità è ancora negata (articolo ItaliaOggi del 22.02.2013).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Attraverso l'istituto della revoca, ancor prima dell’emanazione dell’art. 21-quinquies della legge 241/1990, l’amministrazione esercitava il potere di ritiro dei propri provvedimenti per sopravvenuti motivi di pubblico interesse nonché per successivi mutamenti della situazione di fatto.
Con l'entrata in vigore dell'art. 21-quinquies della l. n. 241/1990, il legislatore ha accolto una nozione ampia di revoca del provvedimento amministrativo, prevedendo tre presupposti alternativi che ne legittimano l'adozione:
a) per sopravvenuti motivi di pubblico interesse;
b) per mutamento della situazione di fatto;
c) per nuova valutazione dell'interesse pubblico originario (c.d. jus poenitendi).
La revoca di provvedimenti amministrativi è, quindi, oggi consentita non solo in base a sopravvenienze, ma anche per una nuova valutazione dell'interesse pubblico originario.
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Costituisce ius receptum il principio secondo cui anche l’eventuale legittimità dell'atto di revoca dell'aggiudicazione di una gara, non elimina il profilo relativo alla valutazione del comportamento della P.A., con riguardo al rispetto dei canoni di buona fede e correttezza in senso oggettivo nelle trattative che conducono alla conclusione del contratto di appalto.
La responsabilità precontrattuale per la revoca della gara è infatti sempre configurabile, qualora il fine pubblico venga attuato attraverso un comportamento obbiettivamente lesivo dei doveri di lealtà, sicché, anche dalla revoca legittima degli atti di gara, può scaturire l'obbligo di risarcire il danno, nel caso di affidamento suscitato nell'impresa.
In particolare, l'accertamento della responsabilità precontrattuale della P.A. non è escluso dalla dichiarata legittimità del provvedimento di annullamento o di revoca assunto in via di autotutela, posto che la revoca dell'aggiudicazione pone al riparo l'interesse pubblico, ma non quello privato. Permane infatti il legittimo affidamento suscitato nel privato dagli atti della procedura di evidenza pubblica, poi rimossi dalla P.A., quando la ricorrente non poteva non confidare, con correttezza e buona fede, durante il procedimento di evidenza pubblica, sulla "possibilità" di diventare affidataria del contratto.
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Nelle gare di appalto il risarcimento danni derivanti da responsabilità precontrattuale riguarda il solo interesse negativo, ossia le spese inutilmente sostenute in previsione della conclusione del contratto e le perdite sofferte per non aver usufruito di ulteriori occasioni contrattuali, mentre non è risarcibile il mancato utile relativo alla specifica gara d'appalto revocata.
In linea con l'inquadramento di tale responsabilità nell'ambito della responsabilità aquiliana, la prova di tali danni spetta alla parte lesa.

Ciò posto, è necessario precisare che l’atto di ritiro del predetto Bando, impugnato con il presente ricorso, al di là del nomen juris deve intendersi quale “revoca” del medesimo atto.
Ed invero attraverso tale istituto, ancor prima dell’emanazione dell’art. 21-quinquies della legge 241/1990, l’amministrazione esercitava il potere di ritiro dei propri provvedimenti per sopravvenuti motivi di pubblico interesse nonché per successivi mutamenti della situazione di fatto.
Con l'entrata in vigore dell'art. 21-quinquies della l. n. 241/1990, il legislatore ha accolto una nozione ampia di revoca del provvedimento amministrativo, prevedendo tre presupposti alternativi che ne legittimano l'adozione:
a) per sopravvenuti motivi di pubblico interesse;
b) per mutamento della situazione di fatto;
c) per nuova valutazione dell'interesse pubblico originario (c.d. jus poenitendi).
La revoca di provvedimenti amministrativi è, quindi, oggi consentita non solo in base a sopravvenienze, ma anche per una nuova valutazione dell'interesse pubblico originario (TAR Puglia Lecce Sez. III, 25-01-2012, n. 139).
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Ed invero, costituisce ius receptum il principio secondo cui anche l’eventuale legittimità dell'atto di revoca dell'aggiudicazione di una gara, non elimina il profilo relativo alla valutazione del comportamento della P.A., con riguardo al rispetto dei canoni di buona fede e correttezza in senso oggettivo nelle trattative che conducono alla conclusione del contratto di appalto.
La responsabilità precontrattuale per la revoca della gara è infatti sempre configurabile, qualora il fine pubblico venga attuato attraverso un comportamento obbiettivamente lesivo dei doveri di lealtà, sicché, anche dalla revoca legittima degli atti di gara, può scaturire l'obbligo di risarcire il danno, nel caso di affidamento suscitato nell'impresa. In particolare, l'accertamento della responsabilità precontrattuale della P.A. non è escluso dalla dichiarata legittimità del provvedimento di annullamento o di revoca assunto in via di autotutela, posto che la revoca dell'aggiudicazione pone al riparo l'interesse pubblico, ma non quello privato. Permane infatti il legittimo affidamento suscitato nel privato dagli atti della procedura di evidenza pubblica, poi rimossi dalla P.A., quando la ricorrente non poteva non confidare, con correttezza e buona fede, durante il procedimento di evidenza pubblica, sulla "possibilità" di diventare affidataria del contratto (Cons. Stato Sez. IV, 07-02-2012, n. 662; TAR Puglia Bari Sez. I, 19-10-2011, n. 1552).
Orbene, se è vero che nel caso in esame, anche ad accedere alla tesi dell’amministrazione (cfr. punto 4 del verbale n. 101del 19.06.2009, pubblicato sull’albo scolastico, in cui si da atto che “al bando…..hanno risposto due ditte”), la ricorrente aveva quantomeno il 50% delle chances di aggiudicazione della gara, ciò non può ritenersi sufficiente per determinare l’accoglimento della relativa pretesa.
Ed invero, nelle gare di appalto –a cui la presente può assimilarsi- il risarcimento danni derivanti da responsabilità precontrattuale riguarda il solo interesse negativo, ossia le spese inutilmente sostenute in previsione della conclusione del contratto e le perdite sofferte per non aver usufruito di ulteriori occasioni contrattuali, mentre non è risarcibile il mancato utile relativo alla specifica gara d'appalto revocata. In linea con l'inquadramento di tale responsabilità nell'ambito della responsabilità aquiliana, la prova di tali danni spetta alla parte lesa (TAR Campania Napoli Sez. VIII, 03-10-2012, n. 4017; TAR Abruzzo L'Aquila Sez. I, 29-03-2012, n. 198; TAR Piemonte Torino Sez. I, 02-03-2012, n. 289; TAR Veneto Venezia Sez. II, 08-09-2011, n. 1372; Cass. civ. Sez. III, 29-07-2011, n. 16735). Orbene, nel caso in esame la ricorrente non ha dimostrato la perdita di ulteriori occasioni favorevoli, né l’ammontare effettivo delle spese sostenute per partecipare alla gara
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, sentenza 20.02.2013 n. 1874 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Con riguardo alla questione della disciplina urbanistica da far valere in occasione del riesame di un progetto edilizio, conseguente all’annullamento del diniego di concessione o alla declaratoria del silenzio-rifiuto serbato dall’Amministrazione, nella ricerca di un punto di giusto equilibrio tra due principi di eguale valore (da un lato, effettività della tutela giurisdizionale, dalla quale discende la regola che gli effetti della sentenza risalgono al momento della proposizione della domanda; dall’altro, preminenza dell’interesse pubblico sugli interessi privati, seppur meritevoli di tutela), l’Adunanza plenaria ha ritenuto che:
● restano inopponibili all’interessato le modificazioni della normativa di piano intervenute successivamente alla notificazione della sentenza di accoglimento del ricorso;
● quando la nuova normativa sia opponibile, deve riconoscersi al privato, che abbia ottenuto un giudicato favorevole, un interesse pretensivo a che l’Amministrazione valuti la possibilità di introdurre una variante che recuperi, in tutto o in parte, l’originaria previsione del piano abrogato, posta a suo tempo a base della domanda di concessione.
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Lo jus aedificandi, quale facoltà compresa nel diritto di proprietà dei suoli, rappresenta un interesse sottoposto a conformazione da parte della legge e della Pubblica amministrazione, in funzione dei molteplici interessi -pubblici e privati- diversi da quelli del proprietario del suolo, che sono coinvolti dall'edificazione privata, e che tale conformazione discende non solo dalla normativa di carattere urbanistico-edilizio, ma anche da altre normative settoriali.
Di conseguenza l’Amministrazione, nel nuovo esercizio del proprio potere, dovrà tenere conto degli eventuali vincoli e limiti diversi e ulteriori rispetto alla disciplina urbanistica in senso stretto che, in quanto siano applicabili anche se sopravvenuti (quali, in linea di massima, le prescrizioni sanitarie, anti-sismiche, i vincoli a tutela delle bellezze naturali e di beni di interesse storico e artistico), debbano essere valutati al momento in cui la domanda viene esaminata.

La sentenza impugnata, l’appello e la contrapposta difesa ruotano tutti attorno al tema della concreta applicazione dei principi enunciati dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 08.01.1986, n. 1, con riguardo alla questione della disciplina urbanistica da far valere in occasione del riesame di un progetto edilizio, conseguente all’annullamento del diniego di concessione o alla declaratoria del silenzio-rifiuto serbato dall’Amministrazione.
Nella ricerca di un punto di giusto equilibrio tra due principi di eguale valore (da un lato, effettività della tutela giurisdizionale, dalla quale discende la regola che gli effetti della sentenza risalgono al momento della proposizione della domanda; dall’altro, preminenza dell’interesse pubblico sugli interessi privati, seppur meritevoli di tutela), l’Adunanza plenaria ha ritenuto che:
● restano inopponibili all’interessato le modificazioni della normativa di piano intervenute successivamente alla notificazione della sentenza di accoglimento del ricorso;
● quando la nuova normativa sia opponibile, deve riconoscersi al privato, che abbia ottenuto un giudicato favorevole, un interesse pretensivo a che l’Amministrazione valuti la possibilità di introdurre una variante che recuperi, in tutto o in parte, l’originaria previsione del piano abrogato, posta a suo tempo a base della domanda di concessione.
L’insegnamento dell’Adunanza generale ha trovato, da allora in poi, puntuale applicazione (si vedano ad es. Cons. Stato, 30.06.2004, n. 4804; Id., sez. IV, 24.12.2008, n. 6535).
Nel caso di specie, la sentenza n. 3 del 1992 ha annullato il diniego per essere questo fondato su una disciplina urbanistica non ancora in vigore.
Il successivo provvedimento di diniego, impugnato in questa sede, rinvia al P.R.G. del 1994-1995, dunque a uno strumento di programmazione urbanistica entrato in vigore successivamente alla sentenza prima ricordata (il dato di fatto non è in discussione).
Su queste premesse, la circostanza su cui si fonda la difesa del Comune (cioè la mancata presentazione di un’istanza di variante) non è conclusiva, posto che, nel quadro concettuale elaborato dall’Adunanza plenaria, il nuovo Piano non era comunque opponibile al privato.
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Per completezza, va ricordato che lo jus aedificandi, quale facoltà compresa nel diritto di proprietà dei suoli, rappresenta un interesse sottoposto a conformazione da parte della legge e della Pubblica amministrazione, in funzione dei molteplici interessi -pubblici e privati- diversi da quelli del proprietario del suolo, che sono coinvolti dall'edificazione privata, e che tale conformazione discende non solo dalla normativa di carattere urbanistico-edilizio, ma anche da altre normative settoriali.
Di conseguenza –come già chiariva la più volte citata decisione dell’Adunanza plenaria n. 1 del 1986– l’Amministrazione, nel nuovo esercizio del proprio potere, dovrà tenere conto degli eventuali vincoli e limiti diversi e ulteriori rispetto alla disciplina urbanistica in senso stretto che, in quanto siano applicabili anche se sopravvenuti (quali, in linea di massima, le prescrizioni sanitarie, anti-sismiche, i vincoli a tutela delle bellezze naturali e di beni di interesse storico e artistico), debbano essere valutati al momento in cui la domanda viene esaminata
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.02.2013 n. 1007 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: La circostanza che il dipendente abbia effettuato prestazioni eccedenti l'orario d'obbligo non è da sola sufficiente a radicare il suo diritto alla retribuzione e l'obbligo dell'amministrazione di corrisponderla; ciò dal momento che, altrimenti, si determinerebbe l'equiparazione del lavoro straordinario autorizzato con quello per il quale non è intervenuto alcun provvedimento autorizzativo, compensando attività lavorative svolte in via di fatto, ma non rispondenti ad alcuna riconosciuta necessità, mentre invece la retribuibilità del lavoro straordinario è in via di principio condizionata all'esistenza di una formale autorizzazione allo svolgimento di prestazioni eccedenti l'ordinario orario di lavoro, la quale svolge una pluralità di funzioni, tutte riferibili alla concreta attuazione dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, cui, ai sensi dell'art. 97 cost., deve essere improntata l'azione della p.a.; solo in via eccezionale si consente l'espletamento di esso senza preventiva autorizzazione in caso di improcrastinabili esigenze di servizio, purché intervenga autorizzazione postuma a sanatoria.
E’ noto invero come, nell'ambito del rapporto di pubblico impiego, la circostanza che il dipendente abbia effettuato prestazioni eccedenti l'orario d'obbligo non sia da sola sufficiente a radicare il suo diritto alla retribuzione e l'obbligo dell'amministrazione di corrisponderla; ciò dal momento che, altrimenti, si determinerebbe l'equiparazione del lavoro straordinario autorizzato con quello per il quale non è intervenuto alcun provvedimento autorizzativo, compensando attività lavorative svolte in via di fatto, ma non rispondenti ad alcuna riconosciuta necessità, mentre invece la retribuibilità del lavoro straordinario è in via di principio condizionata all'esistenza di una formale autorizzazione allo svolgimento di prestazioni eccedenti l'ordinario orario di lavoro, la quale svolge una pluralità di funzioni, tutte riferibili alla concreta attuazione dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, cui, ai sensi dell'art. 97 cost., deve essere improntata l'azione della p.a.; solo in via eccezionale si consente l'espletamento di esso senza preventiva autorizzazione in caso di improcrastinabili esigenze di servizio, purché intervenga autorizzazione postuma a sanatoria (cfr., tra le più recenti, Cons. St., sez. VI, 09.12.2010, n. 8626) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 19.02.2013 n. 996 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACassazione. La lite non giustifica. L'ordinanza di demolizione va rispettata.
I comproprietari rischiano la condanna penale se disobbediscono al sindaco lasciando in rovina un edificio, anche se è in corso una lite ereditaria.
La Corte di Cassazione (sentenza 18.02.2013 n. 7908, I Sez. penale) ha così richiamato la piena responsabilità di chi non si cura dell'incolumità pubblica, nascondendosi dietro i dubbi sulle quote proprietarie.
La questione non è di poco conto: secondo l'accusa i due proprietari (padre e figlio) di un fabbricato abitativo in precarie condizioni statiche, non avevano ottemperato a un'ordinanza del sindaco del 2005, che imponeva loro di provvedere alla demolizione di una tettoia in legno precaria, alla demolizione e consolidamento di altre parti dell'edificio, alla transennatura e alla presentazione entro 30 giorni dell'asseverazione dei lavori effettuati.
Nella motivazione dell'ordinanza il sindaco, però, parlava di «igiene» e non di «incolumità» ed è su questo che i ricorrenti hanno puntato il ricorso in Cassazione, dopo la condanna subita nel 2009 dal Tribunale di Montevarchi a 150 euro di ammenda per la violazione dell'articolo 650 del Codice penale (inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità). L'altro motivo di ricorso era basato sul mancato riconoscimento dell'impossibilità per gli imputati di ottemperare all'ordinanza per la pendenza di un contenzioso sulla divisione del bene a seguito di successione.
La Cassazione ha respinto il ricorso, definendolo manifestamente infondato: la sostanziale legittimità dell'ordinanza deriva, infatti, dalla legge 142/1990, che prevede che il sindaco, adotti provvedimenti urgenti anche in materia di sanità e igiene per prevenire minacce all'incolumità. La violazione dell'ordinanza, che peraltro riguarda tutti i coeredi (per gli altri il processo è ancora sospeso) per la Cassazione è palese e non giova trincerarsi dietro la «pretesa impossibilità di adempiere per l'opposizione dei materiali possessori dell'immobile (...). Qualsivoglia materiale impedimento andava rimosso rivolgendosi al giudice civile (...).» (articolo Il Sole 24 Ore del 19.02.2013).

APPALTI: In materia di gare d'appalto, il dies a quo del termine di prescrizione quinquennale delle domande di risarcimento dei danni va individuato non nella data di conoscenza della avvenuta aggiudicazione, ma dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di annullamento che fa nascere in capo all'interessato il diritto di chiedere il ristoro del giudizio derivato dal provvedimento poi annullato.
Secondo la più recente giurisprudenza di questo Consiglio, che il Collegio condivide, "in materia di gare d'appalto, il dies a quo del termine di prescrizione quinquennale delle domande di risarcimento dei danni va individuato non nella data di conoscenza della avvenuta aggiudicazione, ma dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di annullamento che fa nascere in capo all'interessato il diritto di chiedere il ristoro del giudizio derivato dal provvedimento poi annullato" (Sez III, 12.04.2012 n. 2082; Sez. V, 02.09.2005, n. 4461) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.02.2013 n. 966 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’ammissibilità in via di principio dell’avvalimento interno non implica anche avvalimento implicito, nel senso che il ricorso all’avvalimento possa avvenire prescindendo dalle formalità previste dalla disciplina in materia (art. 49 del d. lgs. n. 163 del 2006).
Poiché l’avvalimento integra una mera facoltà, l’impresa che ha interesse ad avvalersi dell’istituto deve far constare con la necessaria chiarezza, all’atto di partecipazione alla singola gara, tale volontà con indicazione del soggetto sulla cui capacità intende fare affidamento, come pure specificando i requisiti che di siffatto affidamento formeranno oggetto e, soprattutto, dovrà rendere di tutto ciò necessariamente edotta l’amministrazione interessata al singolo appalto.
In definitiva, evidenti ragioni di certezza non consentono che l’istituto dell’avvalimento possa operare in mancanza di dichiarazione esplicita dell’ausiliata e dell’ausiliaria, non essendo possibile un avvalimento implicito o postumo.
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Il contratto di avvalimento, nell’ambito della disciplina dei contratti pubblici, essendo un accordo pattizio, assume rilievo nei confronti della stazione appaltante, ove l’ausiliata e l’ausiliaria rendano apposita e precisa dichiarazione di volersi avvalere dell’avvalimento e, quindi, l’una dei requisiti posseduti da altro soggetto, anche facente parte del medesimo raggruppamento e quest’ultimo soggetto dichiari di mettere a disposizione dell’ausiliata detti requisiti.

L’ammissibilità in via di principio dell’avvalimento interno non implica anche avvalimento implicito, nel senso che il ricorso all’avvalimento possa avvenire prescindendo dalle formalità previste dalla disciplina in materia (art. 49 del d. lgs. n. 163 del 2006).
E’ incontestato che SCT non ha dichiarato di volersi avvalere dei requisiti di Aimeri Ambiente, né è intercorso tra l’ausiliata e l’ausiliaria alcun accordo in tal senso.
Poiché l’avvalimento integra una mera facoltà, l’impresa che ha interesse ad avvalersi dell’istituto deve far constare con la necessaria chiarezza, all’atto di partecipazione alla singola gara, tale volontà con indicazione del soggetto sulla cui capacità intende fare affidamento, come pure specificando i requisiti che di siffatto affidamento formeranno oggetto e, soprattutto, dovrà rendere di tutto ciò necessariamente edotta l’amministrazione interessata al singolo appalto (Cons. Stato, V, 19.09.2011, n. 5279; III, 16.11.2011, n. 6048).
In definitiva, come rilevato dal TAR, evidenti ragioni di certezza non consentono che l’istituto dell’avvalimento possa operare in mancanza di dichiarazione esplicita dell’ausiliata e dell’ausiliaria, non essendo possibile un avvalimento implicito o postumo.
Assume l’appellante che l’avvalimento nel caso sarebbe desumibile dal contratto di costituzione del raggruppamento.
Invero, seppure è ammissibile in via di principio che un contratto contenga una pluralità di negoziazioni, qualora siano presenti gli elementi essenziali che contraddistinguono ciascun negozio, sta di fatto, che nel caso non risulta sia stato ancora sottoscritto il contratto di costituzione del raggruppamento, trattandosi di raggruppamento costituendo e, comunque, non risulta provata l’esistenza di siffatta negoziazione.
Comunque, il contratto di avvalimento, nell’ambito della disciplina dei contratti pubblici, essendo un accordo pattizio, assume rilievo nei confronti della stazione appaltante, ove l’ausiliata e l’ausiliaria rendano apposita e precisa dichiarazione di volersi avvalere dell’avvalimento e, quindi, l’una dei requisiti posseduti da altro soggetto, anche facente parte del medesimo raggruppamento e quest’ultimo soggetto dichiari di mettere a disposizione dell’ausiliata detti requisiti (Cons. Stato, sezione VI, 29.12.2010, n. 9577)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.02.2013 n. 965 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’impresa concorrente, che sia stata legittimamente esclusa dalla gara, non ha legittimazione né interesse a contestare l’ammissione di altra concorrente, posto che non è titolare di una posizione maggiormente qualificata di quella che si può riconoscere in capo ad un qualunque altro soggetto che non abbia partecipato alla gara.
L’impresa concorrente, che sia stata legittimamente esclusa dalla gara, non ha legittimazione né interesse a contestare l’ammissione di altra concorrente, posto che non è titolare di una posizione maggiormente qualificata di quella che si può riconoscere in capo ad un qualunque altro soggetto che non abbia partecipato alla gara (Cons. Stato, ad plen. 07.04.2011, n. 4; sez. VI, 21.09.2011, n. 5308; IV, 16.11.2011, n. 6053; sez. V, 28.11.2011, n. 6394) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.02.2013 n. 965 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In tema di azione avverso il silenzio, l’art. 31, co. 3, cod. proc. amm. dispone: “il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione”.
La norma, che cristallizza l’orientamento giurisprudenziale formatosi in materia sulla base della disciplina di cui all’art. 2 della legge 07.08.1990, n. 241, vieta perciò al giudice amministrativo di andare oltre la declaratoria di illegittimità dell’inerzia e l’ordine di provvedere; di conseguenza, resta precluso al medesimo giudice il potere di accertare direttamente la fondatezza della pretesa fatta valere dal richiedente, sostituendosi all’amministrazione stessa.
Le uniche deroghe a siffatta regola, in cui nell'ambito del giudizio sul silenzio il giudice potrà conoscere del merito sostanziale dell'istanza restata inevasa, sono stabilite nelle ipotesi di fondatezza o infondatezza manifesta derivante dal carattere strettamente vincolato e dovuto dell’atto da adottare, ovvero quando non residuino ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non siano necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione; in ogni altra ipotesi la potestà del giudice non può sovrapporsi alle valutazioni riservate a quest’ultima.

In tema di azione avverso il silenzio, l’art. 31, co. 3, cod. proc. amm. dispone: “il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione”.
Nei giudizi in parola la norma, che cristallizza l’orientamento giurisprudenziale formatosi in materia sulla base della disciplina di cui all’art. 2 della legge 07.08.1990, n. 241, vieta perciò al giudice amministrativo di andare oltre la declaratoria di illegittimità dell’inerzia e l’ordine di provvedere; di conseguenza, resta precluso al medesimo giudice il potere di accertare direttamente la fondatezza della pretesa fatta valere dal richiedente, sostituendosi all’amministrazione stessa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24.05.2010, n. 3270).
Le uniche deroghe a siffatta regola, in cui nell'ambito del giudizio sul silenzio il giudice potrà conoscere del merito sostanziale dell'istanza restata inevasa, sono stabilite nelle ipotesi di fondatezza o infondatezza manifesta derivante dal carattere strettamente vincolato e dovuto dell’atto da adottare, ovvero quando non residuino ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non siano necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione; in ogni altra ipotesi la potestà del giudice non può sovrapporsi alle valutazioni riservate a quest’ultima.
A fronte di un’attività adempitiva di sentenza passato in giudicato, ogni iniziativa sostitutiva dell’organo rimasto ulteriormente inerte spetta solo al commissario ad acta, da nominarsi in sede di giudizio di ottemperanza (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 18.02.2013 n. 953 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La disciplina nazionale relativa all’installazione di impianti di carburante e, in particolare, quella relativa agli obblighi di distanze minime (D.lgs. n. 32 del 1998 e legislazione regionale attuativa cui è rimessa ai sensi dell’art. 1, comma 2, del medesimo decreto, l’adozione di norme di indirizzo programmatico attraverso le quali sono introdotti gli obblighi di rispetto delle distanze minime) è stata sottoposta ad un severo scrutinio del giudice comunitario in relazione alle norme ed ai principi posti a tutela della libertà di stabilimento.
L’art. 43 CE (ora art. 49 TFUE), letto in combinato disposto con l’art. 48 CE (ora art. 54 TFUE), è stato interpretato nel senso che una normativa di diritto interno, come quella italiana, che prevede distanze minime obbligatorie fra gli impianti stradali di distribuzione di carburanti, costituisce una restrizione della libertà di stabilimento sancita dal trattato; una disciplina del genere, infatti, applicandosi unicamente ad impianti nuovi e non ad impianti già esistenti prima della sua entrata in vigore, pone condizioni all’accesso all’attività della distribuzione di carburanti e, favorendo gli operatori già presenti sul territorio italiano, è idonea a scoraggiare, se non ad impedire, l’accesso al mercato da parte di imprenditori comunitari.

Ed invero, secondo il recente insegnamento della Sezione che il Collegio pienamente condivide, la disciplina nazionale relativa all’installazione di impianti di carburante e, in particolare, quella relativa agli obblighi di distanze minime (D.lgs. n. 32 del 1998 e legislazione regionale attuativa cui è rimessa ai sensi dell’art. 1, comma 2, del medesimo decreto, l’adozione di norme di indirizzo programmatico attraverso le quali sono introdotti gli obblighi di rispetto delle distanze minime) è stata sottoposta ad un severo scrutinio del giudice comunitario in relazione alle norme ed ai principi posti a tutela della libertà di stabilimento (cfr. Corte Giustizia Unione Europea, 11.03.2010, n. 384/08, Attanasio Group).
L’art. 43 CE (ora art. 49 TFUE), letto in combinato disposto con l’art. 48 CE (ora art. 54 TFUE), è stato interpretato nel senso che una normativa di diritto interno, come quella italiana, che prevede distanze minime obbligatorie fra gli impianti stradali di distribuzione di carburanti, costituisce una restrizione della libertà di stabilimento sancita dal trattato; una disciplina del genere, infatti, applicandosi unicamente ad impianti nuovi e non ad impianti già esistenti prima della sua entrata in vigore, pone condizioni all’accesso all’attività della distribuzione di carburanti e, favorendo gli operatori già presenti sul territorio italiano, è idonea a scoraggiare, se non ad impedire, l’accesso al mercato da parte di imprenditori comunitari.
Né sono stati riconosciuti seriamente applicabili i motivi imperativi di interesse generale idonei a giustificare restrizioni alla concorrenza e ciò per diversi ordini di ragioni.
È stato, infatti, evidenziato che:
a) i limiti rinvenibili nella normativa italiana a tutela della salute, dell’ambiente, della sicurezza stradale non sono adeguati e proporzionati posto che si applicano solo ai nuovi impianti di distribuzione e non a quelli preesistenti;
b) i controlli per la tutela dei su indicati interessi pubblici possono essere efficacemente demandati al concreto riscontro dell’autorità competente, senza inadeguate limitazioni generali basate sul calcolo delle distanze;
c) la tutela dei consumatori, sub specie di <<razionalizzazione del servizio reso agli utenti della rete distributiva>>, costituisce un motivo economico e non un motivo imperativo di interesse generale;
d) in ogni caso tale <<razionalizzazione>> si rivela, su piano pratico, un espediente per favorire gli operatori già presenti sul territorio (cfr. in termini sez. V, 23.05.2011, n. 3084) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.02.2013 n. 940 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della riliquidazione o meno degli oneri di urbanizzazione, l’unico legittimo presupposto imponibile è costituito dalla sussistenza o meno dell’eventuale maggiore carico urbanistico provocato dalla variante, introdotta in un fabbricato già autorizzato, sicché è illegittima la richiesta di pagamento solo se non si verifica la variazione del carico urbanistico, che invece nella specie è pienamente riscontrabile poiché muta la destinazione dell’intero fabbricato.
In diritto costituisce giurisprudenza pacifica (così Cons. Stato, V, 20.06.2001, n. 3251) che ai fini della riliquidazione o meno degli oneri di urbanizzazione, l’unico legittimo presupposto imponibile è costituito dalla sussistenza o meno dell’eventuale maggiore carico urbanistico provocato dalla variante, introdotta in un fabbricato già autorizzato, sicché è illegittima la richiesta di pagamento solo se non si verifica la variazione del carico urbanistico, che invece nella specie è pienamente riscontrabile poiché muta la destinazione dell’intero fabbricato (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.02.2013 n. 918 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Il vicino controinteressato non è un soggetto contemplato tra quelli a cui va inviata la comunicazione di avvio del procedimento per il rilascio di un titolo edilizio, ai sensi dell'art. 7, l. n. 241 del 1990, pur se lo stesso già risulti essersi opposto in precedenti occasioni all'attività edilizia dell'altro soggetto confinante.
Non vi è, infatti, identità tra le posizioni di coloro che siano legittimati ad impugnare il provvedimento finale di concessione e coloro che possono intervenire o hanno titolo a ricevere l'avviso di avvio del procedimento.
Infatti, ove sia stata proposta una domanda di concessione edilizia o di altro titolo abilitativo, che tra l’altro viene rilasciato con espressa salvezza dei diritti dei terzi, il vicino del richiedente o il soggetto legittimato possono intervenire nel procedimento ed impugnare il provvedimento che accoglie l'istanza, ma non hanno titolo a ricevere l'avviso di avvio del procedimento.

E’ infondato altresì il vizio dedotto in appello con cui si lamenta il difetto di comunicazione dell’avvio del procedimento e quindi la mancanza di partecipazione dell’appellante al procedimento concessorio, al di là dei profili di interesse a ricorrere.
In generale, il vicino controinteressato non è un soggetto contemplato tra quelli a cui va inviata la comunicazione di avvio del procedimento per il rilascio di un titolo edilizio, ai sensi dell'art. 7, l. n. 241 del 1990, pur se lo stesso già risulti essersi opposto in precedenti occasioni all'attività edilizia dell'altro soggetto confinante.
Non vi è, infatti, identità tra le posizioni di coloro che siano legittimati ad impugnare il provvedimento finale di concessione e coloro che possono intervenire o hanno titolo a ricevere l'avviso di avvio del procedimento.
Infatti, ove sia stata proposta una domanda di concessione edilizia o di altro titolo abilitativo, che tra l’altro viene rilasciato con espressa salvezza dei diritti dei terzi, il vicino del richiedente o il soggetto legittimato possono intervenire nel procedimento ed impugnare il provvedimento che accoglie l'istanza, ma non hanno titolo a ricevere l'avviso di avvio del procedimento (Cons. St., sez. VI, 14.03.2002 n. 1533) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.02.2013 n. 916 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In base al principio dell'economia dei mezzi giuridici, se l'amministrazione riscontra vizi nel modus procedendi, che non travolgono l'intero procedimento ma coinvolgono solo singole fasi, legittimamente può far ricorso alla regola cardine della conservazione degli atti validi e di conseguenza, può limitare l'esercizio dell'autotutela agli atti effettivamente incisi dalle accertate illegittimità e, quindi, circoscrivere la rinnovazione del procedimento alle sole fasi viziate e a quelle successive, conservando l'efficacia dei precedenti atti legittimi del procedimento.
In linea di principio deve ricordarsi che in base al principio dell'economia dei mezzi giuridici, se l'amministrazione riscontra vizi nel modus procedendi, che non travolgono l'intero procedimento ma coinvolgono solo singole fasi, legittimamente può far ricorso alla regola cardine della conservazione degli atti validi e di conseguenza, può limitare l'esercizio dell'autotutela agli atti effettivamente incisi dalle accertate illegittimità e, quindi, circoscrivere la rinnovazione del procedimento alle sole fasi viziate e a quelle successive, conservando l'efficacia dei precedenti atti legittimi del procedimento (tra tante, Consiglio di Stato sez. IV, 26.07.2012, n. 4257)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.02.2013 n. 915 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: L'esercizio del potere di annullamento d'ufficio di un titolo edilizio deve rispondere ai requisiti di legittimità codificati nell'art. 21-nonies, l. 07.08.1990 n. 241, consistenti nell'illegittimità originaria del titolo e nell'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino della legalità, comparato con i contrapposti interessi dei privati.
L'esercizio del potere di annullamento d'ufficio di un titolo edilizio, che paradossalmente la parte appellante invoca contro i suoi interessi, deve rispondere ai requisiti di legittimità codificati nell'art. 21-nonies, l. 07.08.1990 n. 241, consistenti nell'illegittimità originaria del titolo e nell'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino della legalità, comparato con i contrapposti interessi dei privati (così, Consiglio di Stato sez. III, 09.05.2012, n. 2683) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.02.2013 n. 915 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione di opere edilizie abusive non deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7, l. n. 241 del 1990, trattandosi di un atto dovuto, che viene emesso quale sanzione per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia, l'abuso , di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo.
In linea di principi, l'avviso di avvio del procedimento non è dovuto nel caso di procedimento volto all'irrogazione della sanzione della demolizione di costruzione eseguita senza alcun titolo, od attinente ad abusi che non necessitano di particolari valutazioni discrezionali, ma comportano un mero accertamento di natura tecnica sulla consistenza delle opere.

L'ordine di demolizione di opere edilizie abusive non deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7, l. n. 241 del 1990, trattandosi di un atto dovuto, che viene emesso quale sanzione per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia, l'abuso , di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo.
In linea di principi, l'avviso di avvio del procedimento non è dovuto nel caso di procedimento volto all'irrogazione della sanzione della demolizione di costruzione eseguita senza alcun titolo, od attinente ad abusi che non necessitano di particolari valutazioni discrezionali, ma comportano un mero accertamento di natura tecnica sulla consistenza delle opere
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.02.2013 n. 915 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Per un atto c.d. "plurimotivato", anche l'eventuale fondatezza di una delle argomentazioni addotte non potrebbe in ogni caso condurre all'annullamento dell'impugnato provvedimento sindacale, che rimarrebbe sorretto dal primo versante motivazionale risultato immune ai vizi lamentati.
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Nel caso di provvedimento di esclusione da una gara d'appalto "plurimotivato", la riconosciuta legittimità di una delle ragioni dell'atto è sufficiente a reggere il provvedimento di estromissione.
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Nel caso in cui il provvedimento impugnato sia fondato su di una pluralità di autonomi motivi (c.d. provvedimento plurimotivato), il rigetto della doglianza volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente.

E’ infatti noto come in presenza di atto plurimotivato anche la legittimità di una delle motivazioni è da solo idonea a sorreggerlo, con la conseguenza che alcun rilievo avrebbero le ulteriori censure volte a contestare gli ulteriori profili motivazionali (giurisprudenza costante, cfr. TAR Campania Salerno, sez. II, 17.01.2011, n. 63 secondo cui “Per un atto c.d. "plurimotivato", anche l'eventuale fondatezza di una delle argomentazioni addotte non potrebbe in ogni caso condurre all'annullamento dell'impugnato provvedimento sindacale, che rimarrebbe sorretto dal primo versante motivazionale risultato immune ai vizi lamentati"; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 14.01.2011, n. 139 secondo cui “Nel caso di provvedimento di esclusione da una gara d'appalto "plurimotivato", la riconosciuta legittimità di una delle ragioni dell'atto è sufficiente a reggere il provvedimento di estromissione”; TAR Campania Napoli, sez. VII, 14.01.2011, n. 164 secondo cui “Nel caso in cui il provvedimento impugnato sia fondato su di una pluralità di autonomi motivi (c.d. provvedimento plurimotivato), il rigetto della doglianza volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente”) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 08.02.2013 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Vanno annoverati fra gli interventi di nuova costruzione, necessitanti di permesso di costruire, gli interventi di ricostruzione non fedele della preesistenza, ovvero diversi nella volumetria e/o nella sagoma, occorrendo la coincidenza sia della superficie che della sagoma ai fini della configurabilità di un intervento di ristrutturazione edilizia, assentibile a mezzo d.i.a..
Infatti per giurisprudenza costante sono interventi di ristrutturazione edilizia, assentibili a mezzo d.i.a., i soli interventi di ricostruzione fedele della preesistenza -quanto a volumetria e/o sagoma- in forza della previsione di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), D.P.R. 380/2001, ultima parte, secondo cui “Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
Ne consegue che vanno annoverati fra gli interventi di nuova costruzione, necessitanti di permesso di costruire, gli interventi di ricostruzione non fedele della preesistenza, ovvero diversi nella volumetria e/o nella sagoma, occorrendo la coincidenza sia della superficie che della sagoma ai fini della configurabilità di un intervento di ristrutturazione edilizia, assentibile a mezzo d.i.a..
Lo stesso Consiglio di Stato, con la richiamata sentenza sez. VI, 15.05.2012 n. 2782, si è inoltre pronunciato sulla necessità del permesso di costruire, e quindi sulla configurabilità, nella fattispecie sottoposta alla sua attenzione, del divieto di cui all’art. 5 l.r. 35/1987, in relazione ad un intervento di demolizione e ricostruzione per il quale non risultava provata la fedeltà rispetto alla preesistenza (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 08.02.2013 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer il soppalco serve il permesso
Per la realizzazione di un soppalco all'interno di un immobile è necessario il permesso di costruire. Gli interventi che vanno a aumentare la superficie utile dell'immobile sono vere e proprie ristrutturazioni e richiedono il titolo abilitativo e cioè del permesso di costruire.

È quanto contenuto nella sentenza 08.02.2013 n. 720 del Consiglio di Stato, Sez. VI, che si è espresso su un ricorso contro l'ordinanza comunale di demolizione.
Il caso: il comune aveva accertato la realizzazione di un intervento abusivo di ristrutturazione in un immobile del centro storico. L'intervento consisteva nella realizzazione di un soppalco in ferro e nel cambio di destinazione d'uso da magazzino ad abitazione con angolo cottura senza titolo abilitativo. Per queste ragioni l'amministrazione ha ordinato la demolizione delle opere abusive e il pagamento di una somma, a titolo di sanzione 15 mila euro.
Contro questa decisione gli interessati presentavano ricorso al Tar e poi al Cds. Di parere opposto il Consiglio di stato, che ha ricordato come per gli interventi di ristrutturazione edilizia sia sempre richiesto il permesso di costruire (art. 10, dpr 380/2001). Sono qualificati tali quelli che comportano aumento di superfici o che, per immobili in zone omogenee A comportino mutamenti di destinazione d'uso.
L'art. 33 del dpr 380/2001 prevede che, nel caso in cui vengano eseguiti interventi in assenza di permesso di costruire, la sanzione irrogata è rimozione o demolizione (articolo ItaliaOggi del 22.02.2013).

EDILIZIA PRIVATAPer la realizzazione di un soppalco è necessario il Permesso di Costruire.
Lo ha ribadito il Consiglio di Stato - Sez. VI, con la sentenza 08.02.2013 n. 720, precisando che questo tipo di intervento produce un aumento di superficie e rientra, quindi, tra i lavori di ristrutturazione edilizia.
Nel caso specifico, il Comune aveva accertato la realizzazione di un soppalco abusivo (per la sua struttura e funzione) all’interno di un immobile del centro storico e il cambio di destinazione d’uso da magazzino ad abitazione, senza il permesso di costruire.
L’amministrazione aveva ordinato la demolizione del manufatto e il pagamento di una sanzione pecuniaria di euro 15.000. Il cittadino aveva presentato ricorso al Tar e poi appello al Consiglio di Stato sostenendo che il soppalco non aveva un piano d’appoggio calpestabile e quindi non comportava un aumento di superficie.
I giudici del CDS, confermando la Sentenza del Tribunale Amministrativo, rigettano il ricorso dei titolari dei lavori che avevano ampliato e danno ragione al Comune che chiede la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi (commento tratto da www.acca.it).
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L’art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001 dispone che sono subordinati al rilascio del permesso di costruire «gli interventi di ristrutturazione edilizia».
Sono espressamente qualificati tali quelli che, tra l’altro, comportino un aumento di superfici ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A –come nel caso in esame– comportino mutamenti della destinazione d’uso. Si tratta di una previsione di particolare rigore per i centri storici, finalizzata ad evitare indebite alterazioni dei loro delicati equilibri abitativi e funzionali.
L’art. 33 prevede che, nel caso in cui vengano eseguiti, tra l’altro, i suddetti interventi in assenza di permesso di costruire o in totale difformità da esso, la sanzione irrogata è quella della rimozione o demolizione, cioè –in coerenza con detti obiettivi– senz’altro quella ripristinatoria.
Nel caso in esame la fattispecie contestata rientra nell’ambito applicativo delle disposizione riportate.
Per quanto attiene al soppalco, lo stesso, per la sua struttura e funzione, ha comportato un aumento della superficie utile. Non vale obiettare che in concreto gli appellanti avrebbero realizzato soltanto una mera intelaiatura priva del «piano di calpestio». Anche ad ammettere che questo corrisponda alla reale situazione dei luoghi, rimane incontestato, come risulta anche dalla stessa perizia di parte (redatta, peraltro, sulla base di «documentazione fotografica fornita dalla proprietà»), che fossero state già realizzate «travi in ferro ad una altezza di circa due metri con scala in ferro per accesso». Questi interventi delineano gli elementi strutturali essenziali di un soppalco.
La circostanza che l’intervento non è stato completato mediante il piano di copertura non assume rilevanza. In presenza, infatti, di lavori in corso, sospesi con apposita ordinanza comunale (nella specie adottata in data 24.01.2012), non è possibile, pena una intrinseca contraddizione del sistema di repressione degli abusi, fare leva sul forzoso mancato completamento degli interventi per dedurne la loro non riconducibilità alle categorie giuridiche descritte dal d.P.R. n. 380 del 2001. In altri termini, è sufficiente che, al momento dell’accertamento, risulti chiaramente, come nella specie, che la finalità perseguita con gli interventi allora in corso di espletamento sia quella di realizzare un soppalco affinché l’amministrazione possa ordinare, come è legittimamente avvenuto nella fattispecie, la sospensione dei lavori e il ripristino dello stato dei luoghi.
Per quanto poi attiene all’angolo cottura, lo stesso è pieno indice, come correttamente posto in rilievo dal primo giudice, dell’intervenuto mutamento di destinazione da magazzino ad uso abitativo nell’ambito della detta zona omogenea A. Né ancora una volta possono assumere rilevanza la mancanza delle «piastre di cottura e piano di lavoro munito di lavello, allacci ecc.». E’ sufficiente, per le ragioni indicate, che gli interventi edilizi eseguiti delineino la struttura essenziale che si intende realizzare.
Si tenga conto, inoltre, che entrambi gli interventi in esame (soppalco e angolo cottura) costituiscono elementi indici di una complessiva attività edilizia volta al mutamento della destinazione d’uso. Del resto, gli stessi appellanti, come risulta dalla documentazione prodotta dalla difesa dell’amministrazione comunale, hanno chiesto il rilascio del permesso di costruire in esame per gli interventi eseguiti sull’immobile in esame (link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il diritto di accesso non è meramente strumentale alla proposizione di una azione giudiziale, ma ha carattere autonomo rispetto a essa, cosicché il giudice dell’accesso deve accertare solo l’esistenza dei presupposti che legittimano la richiesta di accesso e non anche la necessità di utilizzare gli atti richiesti in un altro giudizio, ad es. dinanzi al giudice civile, fermo restando però che la disciplina sull’accesso non può essere rivolta a tutelare l’interesse a eseguire un controllo generico e generalizzato sull’attività della pubblica amministrazione.
Detto altrimenti, la necessaria sussistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento a cui è chiesto l’accesso, alla quale fa riferimento l’art. 22, comma 1, lett. b), della legge 07.08.1990, n. 241, non significa che l’accesso sia stato configurato dal legislatore con carattere meramente strumentale rispetto alla difesa in giudizio della situazione sottostante; esso assume invece una valenza autonoma, non dipendente dalla sorte del processo principale e dalla stessa possibilità di instaurazione di tale processo. In questa prospettiva, il collegamento tra l’interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza, sancito dalla norma citata, non può che essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse.

Si è costituito in giudizio la Società deducendo l’infondatezza del ricorso.
La ricorrente, a sostegno delle proprie ragioni, richiama la sentenza della Sezione V del Consiglio di Stato 02.02.2012, n. 554 con la quale si è affermato che “il diritto di accesso non è meramente strumentale alla proposizione di una azione giudiziale, ma ha carattere autonomo rispetto a essa, cosicché il giudice dell’accesso deve accertare solo l’esistenza dei presupposti che legittimano la richiesta di accesso e non anche la necessità di utilizzare gli atti richiesti in un altro giudizio, ad es. dinanzi al giudice civile, fermo restando però che la disciplina sull’accesso non può essere rivolta a tutelare l’interesse a eseguire un controllo generico e generalizzato sull’attività della pubblica amministrazione. Detto altrimenti, la necessaria sussistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento a cui è chiesto l’accesso, alla quale fa riferimento l’art. 22, comma 1, lett. b) della legge 07.08.1990, n. 241, non significa che l’accesso sia stato configurato dal legislatore con carattere meramente strumentale rispetto alla difesa in giudizio della situazione sottostante; esso assume invece una valenza autonoma, non dipendente dalla sorte del processo principale e dalla stessa possibilità di instaurazione di tale processo. In questa prospettiva, il collegamento tra l’interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza, sancito dalla norma citata, non può che essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse”.
La sentenza richiamata a sostegno delle proprie ragioni, in realtà, dimostra l’infondatezza del ricorso proposto dal dott. R.B..
L’affermazione di principio, contenuta nel precedente richiamato e dalla quale questo Collegio non intende discostarsi, è che l’interesse diretto, concreto ed attuale all’acquisizione del documento prescinde dalla avvenuta instaurazione di un processo dove utilizzare gli atti.
L’instaurazione del successivo giudizio, che è fatto meramente eventuale, non è invero un presupposto di un siffatto interesse (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 08.02.2013 n. 716 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La legittimazione ad agire in giudizio della singola impresa in associazione –sia essa mandante o mandataria e sia che il raggruppamento sia stato già costituito al momento dell'offerta o debba costituirsi all'esito dell'aggiudicazione– è riconosciuta dal consolidato e pressoché univoco indirizzo della giurisprudenza amministrativa.
Il raggruppamento temporaneo di imprese non istituzionalizza, invero, un soggetto diverso dalle singole imprese che aggregano le proprie potenzialità economiche, con capacità di rappresentanza degli interessi del gruppo a mezzo di organi all'uopo costituiti. La singola impresa è, quindi, titolare in corso di gara di una posizione di interesse legittimo al regolare svolgimento della procedura, che può tutelare anche in caso di inerzia delle altre imprese associate a proporre congiunta impugnativa.

Ed invero, diversamente da quanto sostiene l’appellante, la legittimazione ad agire in giudizio della singola impresa in associazione –sia essa mandante o mandataria e sia che il raggruppamento sia stato già costituito al momento dell'offerta o debba costituirsi all'esito dell'aggiudicazione– è riconosciuta dal consolidato e pressoché univoco indirizzo della giurisprudenza amministrativa (cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 05.06.2012, n. 3314; Cons. Stato, sez. VI, 08.10.208, n. 4931).
Il raggruppamento temporaneo di imprese non istituzionalizza, invero, un soggetto diverso dalle singole imprese che aggregano le proprie potenzialità economiche, con capacità di rappresentanza degli interessi del gruppo a mezzo di organi all'uopo costituiti. La singola impresa è, quindi, titolare in corso di gara di una posizione di interesse legittimo al regolare svolgimento della procedura, che può tutelare anche in caso di inerzia delle altre imprese associate a proporre congiunta impugnativa.
Il gravame proposto dalla singola impresa in associazione non è, inoltre, sfornito di interesse al ricorso. La presentazione dell’offerta da parte del raggruppamento da costituire reca l’impegno reciproco delle imprese in associazione, in caso di aggiudicazione della gara, a conferire mandato ad una di esse, qualificata come capogruppo, alla stipula il contratto. Si tratta di posizione di obbligo il cui assolvimento è esigibile nei confronti delle altre imprese associate in caso di esito favorevole dell'impugnativa e che, in caso di inadempimento, espone l’impresa cha aveva prestato il consento alla costituzione dell’a.t.i. ATI a possibili pretese risarcitorie. Tanto basta a suffragare la tesi della legittimazione della singola impresa in associazione a reagire nei confronti di della violazione di regole che presiedono il procedimento di aggiudicazione
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 08.02.2013 n. 714 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La violazione delle forme prescritte dall’art. 38 d.P.R. n. 445 del 2000 non integra una mera irregolarità ma, anche in forza del richiamo a tale disposizioni espressamente contenuto nella lex specialis, si traduce nella violazione di una regola di gara espressamente sanzionata a pena di esclusione.
Va evidenziato che l’art. 38 d.P.R. n. 445 del 2000 prevede che: “Le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre agli organi della amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi sono […] sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore”.
E’ palese evidente, quindi, che in assenza di sottoscrizione la dichiarazione sostitutiva non produce effetti perché risulta priva di un elemento essenziale.

Nel caso di specie, la lettera di invito, al punto n. 3, richiedeva, da parte delle imprese partecipanti alla gara, la presentazione, a pena di esclusione, di una dichiarazione (attestante, in sostanza, la mancanza delle cause di esclusione), da rendersi, sotto forma di dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, nelle forme previste dall’art. 38 d.P.R. 28.12.2000, n. 445 del 2000.
La violazione delle forme prescritte dall’art. 38 d.P.R. n. 445 del 2000 non integra, quindi, una mera irregolarità, ma, anche in forza del richiamo a tale disposizioni espressamente contenuto nella lex specialis, si traduce nella violazione di una regola di gara espressamente sanzionata a pena di esclusione.
Non è corretto, a tal riguardo, sostenere che la lex specialis sanzionasse a pena di esclusione solo la mancata presentazione della dichiarazione sostitutiva e non anche la sua incompletezza o la violazione delle forme previste per la sua presentazione.
In primo luogo, qui il punto n. 3 della lettera di invito richiedeva, a pena di esclusione, che la dichiarazione fosse resa nelle forme di cui all’art. 38 d.P.R. n. 445 del 2000, con la conseguenza che la violazione dell’art. 38 d.P.R. cit. integra pienamente, in virtù dell’espresso richiamo contenuto nella lettera di invito, la violazione di una prescrizione sanzionata espressamente a pena di esclusione.
Inoltre, nel caso di specie, risulta dirimente la circostanza che la violazione “formale” di cui si discute consiste nella mancanza di un elemento essenziale di ogni dichiarazione, ovvero della sua sottoscrizione, la quale che rappresenta un insostituibile strumento di imputazione della dichiarazione al soggetto che ne è autore. In mancanza di sottoscrizione, quindi, la dichiarazione non può dirsi semplicemente incompleta o “irregolare”, ma è radicalmente inesistente.
Va evidenziato, del resto, che l’art. 38 d.P.R. n. 445 del 2000 prevede che: “Le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre agli organi della amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi sono […] sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore”.
E’ palese evidente, quindi, che in assenza di sottoscrizione la dichiarazione sostitutiva non produce effetti perché risulta priva di un elemento essenziale.
Non si tratta, in definitiva, di una semplice dichiarazione incompleta: la mancanza della sottoscrizione, anche se relativa solo al secondo dei due fogli di cui essa si compone, rende la dichiarazione presentata inimputabile e dunque totalmente inidonea ad attestare le circostanze in essa menzionate. Con riferimento a tali attestazioni, quindi, essa la dichiarazione deve considerarsi mancante e tale, pertanto, da determinare l’esclusione dalla gara
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 08.02.2013 n. 714 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'autorizzazione regionale, riferita all’impianto fotovoltaico, assorbe nel procedimento unico tutti i permessi, nulla osta e altri atti di assenso e costituisce titolo unico per la realizzazione dell’impianto di produzione elettrica, <<delle opere connesse e delle infrastrutture indispensabili>>.
Pertanto, non è concettualmente corretto affermare –come fa il Comune nel provvedimento demolitorio impugnato– che dette strutture (cioè la tettoia fotovoltaica e il sottostante manufatto in lamiera) siano sfornite di assenso edilizio: è vero che il Comune non le ha assentite, ma è altresì vero che l’autorizzazione unica regionale sostituisce ogni altra forma di autorizzazione o assenso, compreso quello paesaggistico ed edilizio, e copre anche le opere connesse e le infrastrutture indispensabili.

Il Comune di Venafro (Is) ha ingiunto alla ricorrente la demolizione di opere edilizie, senza approfondire la natura, le caratteristiche e la funzione delle medesime. Invero, la ricorrente cooperativa ha realizzato due tettoie mobili, una che sorregge pannelli solari e una consistente in struttura d’acciaio coperta da telone plastificato.
La prima tettoia –unitamente a un piccolo manufatto in lamiera, che risulta pure verbalizzato come abusivo- è parte integrante di un impianto fotovoltaico, regolarmente autorizzato dalla Regione Molise, con determina dirigenziale n. 28 del 15.05.2008. Tale autorizzazione regionale, riferita all’impianto fotovoltaico, assorbe nel procedimento unico tutti i permessi, nulla osta e altri atti di assenso e costituisce titolo unico per la realizzazione dell’impianto di produzione elettrica, <<delle opere connesse e delle infrastrutture indispensabili>>. Pertanto, non è concettualmente corretto affermare –come fa il Comune nel provvedimento impugnato– che dette strutture (cioè la tettoia fotovoltaica e il sottostante manufatto in lamiera) siano sfornite di assenso edilizio: è vero che il Comune non le ha assentite, ma è altresì vero che l’autorizzazione unica regionale sostituisce ogni altra forma di autorizzazione o assenso, compreso quello paesaggistico ed edilizio, e copre anche le opere connesse e le infrastrutture indispensabili.
La seconda tettoia è situata in zona adiacente a un preesistente edificio in muratura e serve a coprire un piazzale dove viene accumulata la sansa prodotta all’interno dell’oleificio, di cui la ricorrente è titolare, ubicato in zona E (agricola) del vigente P.R.G. di Venafro. Le capriate di metallo che sorreggono il telone plastificato scorrono su binari e consentono la scomparsa della copertura, a fine stagione, senza che essa sia smontata. Si tratta di un’opera pertinenziale all’opificio, avente un relativo impatto visivo, realizzata in esecuzione dell’ordinanza sindacale n. 5 del 23.02.2001, che ha ingiunto alla ricorrente cooperativa di prevenire l’inquinamento da residui di lavorazione dell’olio vegetale e ha stabilito che siano adottati accorgimenti per quanto attiene lo stoccaggio della sansa sul piazzale, <<che dovrà essere opportunamente ricoperta e isolata dal piano di calpestio, in modo da evitare eventuali dilavamenti sul piazzale, conseguenti a precipitazioni atmosferiche>>. Se è vero che la seconda tettoia non è stata assentita dal Comune, è altresì vero che essa è stata realizzata su ordine del Comune, la qual cosa la rende del tutto legittima, sul piano formale.
I motivi del ricorso sono, pertanto, fondati.
Gli interventi oggetto di provvedimento demolitorio ineriscono all’esercizio di attività di produzione agricola, non comportano alterazioni permanenti dello stato dei luoghi, non alterano l’assetto idrogeologico del territorio. La prima tettoia ha la funzione di produzione di energia da fonte alternativa per autoconsumo di un opificio agricolo, la seconda ha la funzione precipua di evitare l’inquinamento della falda acquifera da infiltrazioni di percolato di sansa.
Pertanto, detti interventi s’inquadrano tra le pertinenze dell’azienda agricola e la loro compatibilità paesaggistica è resa possibile dalla previsione dell’art. 149, lett. b), del D.Lgs. 22.01.2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio). In ogni caso, non si può dire che siano interventi abusivi, poiché il primo è stato autorizzato dalla Regione Molise, il secondo è stato “ordinato” dal Sindaco di Venafro.
Sono, dunque, fondate le censure di travisamento, difetto di istruttoria, difetto di motivazione (TAR Molise, sentenza 07.02.2013 n. 91 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Condominio. Le norme del regolamento. Decoro, ok a limiti più severi del Codice.
L'ECCEZIONE/ I vincoli di tipo contrattuale possono superare anche le previsioni di legge modificate dalla riforma.

Il regolamento condominiale può vietare qualunque alterazione del decoro architettonico dell'edificio purché sia di natura contrattuale.
Lo sottolinea la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, nella sentenza 24.01.2013 n. 1748.
Alcuni proprietari pro indiviso di un'unità immobiliare in un edificio, avevano citato in giudizio il proprietario di una costruzione limitrofa con giardino, sul quale era stata edificata una struttura in aderenza all'immobile di loro proprietà, sino all'altezza del lastrico solare. L'obiettivo era quello di ottenere la demolizione della struttura, perché questa aveva alterato il decoro architettonico del complesso edilizio, in violazione dell'articolo 1120 del Codice civile, della normativa del Regio decreto 1165 del 1938 e del regolamento condominiale.
Mentre il tribunale accoglieva la domanda, condannando il convenuto a demolire l'edificazione e a pagare le spese di lite, la corte di appello, con una decisione basata sull'articolo 1120 del Codice civile, escludeva la lesione del decoro architettonico dell'edificio, ritenendo che il manufatto vi si inserisse perfettamente, non solo perché riproduceva analoghe strutture, ma perché presentava la stessa tipologia di immagine, di materiali, di finiture e di colorazioni dell'intero complesso.
La Cassazione, nell'accogliere parzialmente il ricorso, ha invece stabilito che in materia di condominio «l'autonomia privata consente alle parti di stipulare convenzioni che pongano limitazioni, nell'interesse comune, ai diritti dei condòmini, sia relativamente alle parti comuni, sia riguardo al contenuto del diritto dominicale sulle parti di loro esclusiva proprietà, senza che rilevi che l'esercizio del diritto individuale su di esse si rifletta o meno sulle strutture o sulle parti comuni. Ne discende che legittimamente le norme di un regolamento di condominio –aventi natura contrattuale, in quanto predisposte dall'unico originario proprietario dell'edificio e accettate con i singoli atti di acquisto dai condomini ovvero adottate in sede assembleare con il consenso unanime di tutti i condomini– possono derogare od integrare la disciplina legale ed in particolare possono dare del concetto di decoro architettonico una definizione più rigorosa di quella accolta dall'articolo 1120 del Codice civile».
Questo principio, esposto in precedenti sentenze e ribadito nella sentenza 1748/2013, è sempre fatto salvo, nonostante la legge di riforma del condominio, nel modificare l'articolo 1122 del Codice civile, abbia disposto che, nell'unità immobiliare di sua proprietà o destinata all'uso individuale, il condòmino non può eseguire opere che danneggino le parti comuni o determino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell'edificio.
Il richiamo allo stesso «pregiudizio» è previsto in altri due articoli di nuova formulazione: l'articolo 1117-ter (modifica delle destinazioni d'uso delle parti comuni), e l'articolo 1122-bis (installazione di impianti non centralizzati di ricezione radiotelevisiva e di produzione di energia da fonti rinnovabili). Poiché tutti gli articoli citati sono derogabili, il regolamento di condominio di natura contrattuale può riportare un concetto più o meno rigoroso di «decoro architettonico» al quale ogni condomino dovrà attenersi (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2013).

APPALTI SERVIZINiente proroga per la gestione di lampade votive.
Non ha alcun diritto alla proroga, fino al 2031, l'impresa che nel 1971 ha vinto l'appalto concorso per la costruzione e la gestione dell'impianto di illuminazione votiva del cimitero. Ciò in quanto, alla fattispecie, si devono applicare gli artt. 113, comma 15-bis, del dlgs n. 267/2000 e 23-bis, comma 8, del dl n. 112/2008, che prevedono l'automatica cessazione delle concessioni di servizi pubblici locali rilasciate con procedure diverse dall'evidenza pubblica.

La questione è stata posta all'attenzione del Consiglio di stato, Sez. V, il quale, con la sentenza 24.01.2013 n. 435.
Il Collegio ha ricordato come in caso di prestazioni eterogenee, «vanno individuate quali prestazioni siano prevalenti e quale sia il nesso direzionale che regola il rapporto di strumentalità tra le diverse componenti, stabilendo se la gestione delle opere e degli impianti sia funzionale e strumentale alla loro realizzazione o alla gestione del servizio». Nel caso specifico ha avuto ragione, quindi, il Tar, ad affermare la accessorietà della componente lavori, rispetto la gestione del servizio, perché di rilevanza economica non considerevole.
La questione era sorta a seguito dell'affidamento, nato come concessione di costruzione e gestione perché il Comune non disponeva di impianto di illuminazione votiva cimiteriale, attribuendo al concessionario, quale controprestazione per la realizzazione e gestione dell'impianto e per l'esecuzione delle lavorazioni richieste, il diritto di gestire l'impianto e le opere realizzate, che sarebbero rimaste di proprietà del concessionario sino alla scadenza della concessione (articolo ItaliaOggi del 22.02.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: Appello, filtro non troppo rigido. Inammissibile l'impugnazione se palesemente infondata. Così la giurisprudenza interpreta e applica le disposizioni del decreto legge sviluppo.
La porta dell'appello è chiusa solo per le impugnazioni pretestuose. E il giudice di secondo grado non deve basarsi su impressioni superficiali per sbarrare le porte a chi vuole ribaltare la sentenza di primo grado.
La Corte di appello di Roma, Sez. III civile, con l'ordinanza 23.01.2013, ha chiarito la portata dell'articolo 348-bis del codice di procedura civile: il filtro agli appelli, introdotto dal decreto legge 83/2012, non può trasformarsi in una forca caudina, ma serve solo a scoraggiare chi, avendo torto pieno, strumentalizza la giustizia, costringendola a occuparsi di vicende ormai correttamente definite.
Viene così accolta l'esigenza di evitare che il filtro diventi un ostacolo insormontabile all'esercizio dei diritti in nome di un processo veloce sì, ma ingiusto.
Il filtro. L'articolo 348-bis del codice di procedura civile dispone che l'impugnazione deve essere dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta. Preventivamente, dunque, il giudice deve valutare se ci sono probabilità di accoglimento dell'appello. Se la risposta è negativa, rimane sempre la possibilità del ricorso in Cassazione, anche se si tratta di un rimedio a metà, considerando che la Cassazione giudica solo sulla esatta interpretazione della legge e non giudica quasi mai sul fatto.
Nel dettaglio all'udienza di trattazione, il giudice, prima di procedere alla trattazione, sentite le parti, dichiara inammissibile l'appello, con ordinanza succintamente motivata, anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi. La decisione sull'ammissibilità dell'appello deve, dunque, essere preceduta da una discussione tra i soggetti coinvolti, che possono dire la loro opinione: il giudice deve, infatti, sentire le parti.
Inoltre il giudice provvede sulle spese di regola condannando la parte appellante, autore dell'appello inammissibile. L'ordinanza di inammissibilità è pronunciata solo quando, sia per l'impugnazione principale sia per quella incidentale, ricorrono i presupposti di ragionevole infondatezza. Quando è pronunciata l'inammissibilità, contro il provvedimento di primo grado può essere proposto ricorso per Cassazione. In tal caso il termine per il ricorso per Cassazione avverso il provvedimento di primo grado decorre dalla comunicazione o notificazione, se anteriore, dell'ordinanza che dichiara l'inammissibilità.
Quando l'inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per Cassazione è limitato a motivo di diritto.
Il filtro non si applica a numero ristretto di giudizi (quelli caratterizzati dall'intervento del pubblico ministero). Altra eccezione al filtro riguarda i processi sommari di cognizione, per i quali l'appello sarà deciso senza una preliminare verifica di ammissibilità.
Nessun arbitrio del giudice. La novità ha suscitato critiche per la discrezionalità della valutazione del giudice, che potrebbe anche portare a pronunce ingiuste sulla base di una veloce lettura degli atti. In questo caso l'esigenza di fare in fretta e di smaltire il lavoro giudiziario sarebbe state tutelate a discapito dei diritti delle persone.
Questo pericolo è scongiurato se avrà seguito l'impostazione della corte di appello di Roma.
Secondo l'ordinanza citata, il giudizio di ragionevole probabilità di accoglimento dell'appello a norma dell'art. 348-bis cpc non è il risultato di una valutazione sommaria e superficiale (come invece capita per i provvedimenti di urgenza di natura cautelare) e neppure di una valutazione a cognizione parziale, come quella che si riscontra nel caso dei procedimenti a contraddittorio eventuale (per esempio nel procedimento di richiesta di decreto ingiuntivo).
Nella cognizione superficiale, effettivamente, si deve andare in fretta e in nome dell'urgenza si possono considerare i fatti senza l'approfondimento tipico di un giudizio ordinario; nella cognizione parziale si sente una campana (per esempio il richiedente del decreto ingiuntivo) e il contraddittorio pieno si realizza solo se c'è opposizione dell'interessato.
Nulla di tutto questo si verifica nel filtro all'appello.
Secondo la corte capitolina l'appello non ha ragionevoli probabilità di accoglimento quando è a prima vista infondato, anzi così palesemente infondato da non meritare che siano sprecate energie del servizio giustizia, che non sono illimitate. Secondo l'ordinanza della corte di appello di Roma il filtro all'appello si inserisce, quindi, in un ampio intervento legislativo volto a sanzionare l'abuso del processo, abuso in cui si risolve l'esercizio del diritto di interporre appello in un quadro di plateale infondatezza.
Non si tratta di scoraggiare l'appello di chi ha fondate ragioni, ma di colpire chi ci tenta pur avendo torto marcio.
L'ordinanza romana è chiara nel sottolineare che l'appello privo di probabilità di accoglimento non è quello che tale appare al giudice secondo la sua soggettiva percezione, a seguito di una sbrigativa lettura degli atti, ma è quello oggettivamente tale, perché palesemente infondato. Certo un margine di discrezionalità giudiziale rimane sempre, ma si mantiene (si deve mantenere) nei limiti fisiologici di qualsiasi giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 18.02.2013).

EDILIZIA PRIVATA: -a) anche per il procedimento di condono edilizio di opere realizzate su aree sottoposte a vincolo, l'articolo 32 della legge n. 47 del 1985 (anche da applicare ai sensi dell’art. 39 della legge n. 724 del 1994) dispone che "il rilascio della concessione o dell'autorizzazione in sanatoria ... è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso";
-b) “sotto il profilo funzionale il parere ex art. 32 è assimilabile all'autorizzazione paesaggistica intesa come strumento di gestione del vincolo, per cui l'annullamento ministeriale, posto ad estrema difesa del vincolo, non può non comprendere anche la valutazione di compatibilità paesistica da effettuare in sede di condono edilizio”;
-c) per questo è evidente il valore prioritario della verifica della compatibilità dell'opera rispetto al vincolo, con la conseguenza che tale valutazione è pregiudiziale ad ogni altra poiché, se sfavorevole, rende impossibile la sanatoria dell'opera;
-d) si deve perciò applicare alla fattispecie in esame quanto definito in giurisprudenza, in linea generale, riguardo all’esercizio del potere di riesame dell’organo statale sull’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione, o dall’ente sub delegato, per l’esecuzione di opere in area protetta, non essendovi motivo per l’individuazione di speciali procedure e parametri di valutazione nel procedimento di sanatoria di abuso edilizio in una tale area.
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Sui limiti dell’esame da parte della Soprintendenza dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione (o da un ente subdelegato), si richiama la giurisprudenza costante di questo Consiglio di Stato, per la quale:
a) l’autorità delegata preposta alla tutela del vincolo deve esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla compatibilità con il vincolo paesaggistico dell’opera specificamente assentita, in relazione a tutte le circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o di istruttoria;
b) il potere di annullamento della Soprintendenza non consente il riesame nel merito delle valutazioni compiute dalla Regione, o dall’ente subdelegato, ma si esprime in un sindacato di legittimità, esteso a tutte le ipotesi riconducibili all'eccesso di potere, anche per difetto di motivazione o di istruttoria e dunque riguardante anche la compiuta presa in considerazione delle circostanze concrete e rilevanti per il giudizio di compatibilità;
c) l’autorità statale, con un tale potere di cogestione del vincolo, dato dalla legge ad estrema difesa del vincolo stesso, se ravvisa nell’atto oggetto del suo riesame un vizio di difetto di motivazione o di istruttoria, nel proprio provvedimento può motivare sulla non compatibilità degli interventi progettati rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel vincolo.
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Nei singoli casi è anzitutto necessario verificare se alla base dell’annullamento dell’autorizzazione esaminata da parte della Soprintendenza competente si riscontri l’incompiutezza o l’inadeguatezza della valutazione di compatibilità paesaggistica resa dalla Regione o dall’ente locale delegato, essendo l’autorizzazione, in questa ipotesi, viziata per difetto di istruttoria o di motivazione e risultando legittimo, perciò, il provvedimento statale di annullamento.
La valutazione di compatibilità paesaggistica in concreto resa è a sua volta adeguata se le caratteristiche dell’intervento vi risultano individuate, raffrontate e giustificate con i valori riconosciuti e protetti dal vincolo, dovendo essere esposta l’analisi eseguita sulle ragioni di compatibilità o incompatibilità effettiva che, in riferimento a tali valori, rendano o meno compatibile l’opera progettata, non essendo quindi sufficiente, allo scopo, l’asserzione generica della compatibilità paesaggistica.
Nella specie la valutazione di compatibilità resa con l’autorizzazione comunale n. 18931 del 2006 non reca alcuna analisi delle caratteristiche dell’intervento edilizio in questione in raffronto a quelle del paesaggio tutelato in cui si inseriscono, venendo assunto, ad unica motivazione della favorevole valutazione di compatibilità, il fatto che si tratta di manufatto “in zona urbanizzata il cui progetto di completamento non si discosta dalla tipologia edilizia dei fabbricati circostanti”.
E’ così espressa, in sostanza, una valutazione di mera assentibilità dell’intervento in alcun modo motivata, non essendo sufficiente allo scopo il richiamo dell’intensa attività edilizia intervenuta poiché, come chiarito in giurisprudenza, la motivazione della già intervenuta urbanizzazione di un’area vincolata non “appare idonea a legittimare interventi edilizi non rispettosi degli interessi sottesi ai vincoli imposti nella zona, in quanto il nuovo edificato contribuisce, comunque, ad aggravare, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, il danno arrecato dalle costruzioni non rispettose di tali finalità, rafforzando, pertanto, la necessità di provvedere alla tutela dei luoghi”.

Premesso che dagli atti il manufatto in questione non appare “ultimato” al rustico, come richiesto dalla normativa per la fruizione della sanatoria, in base alla quale si considera tale il manufatto dotato almeno della muratura portante e della copertura (art. 31, comma 2, della legge n. 47 del 1985, da applicare nella specie ai sensi dell’art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724), in ogni caso, quanto al rapporto tra i poteri della Soprintendenza e quelli dell’autorità comunale in sede di procedimento di sanatoria di abuso commesso in area protetta, si rileva che:
-a) anche per il procedimento di condono edilizio di opere realizzate su aree sottoposte a vincolo, l'articolo 32 della legge n. 47 del 1985 (anche da applicare ai sensi dell’art. 39 della legge n. 724 del 1994) dispone che "il rilascio della concessione o dell'autorizzazione in sanatoria ... è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso";
-b) “sotto il profilo funzionale il parere ex art. 32 è assimilabile all'autorizzazione paesaggistica intesa come strumento di gestione del vincolo, per cui l'annullamento ministeriale, posto ad estrema difesa del vincolo, non può non comprendere anche la valutazione di compatibilità paesistica da effettuare in sede di condono edilizio” (Cons. Stato, VI, 28.01.1998, n. 114);
-c) per questo è evidente il valore prioritario della verifica della compatibilità dell'opera rispetto al vincolo, con la conseguenza che tale valutazione è pregiudiziale ad ogni altra poiché, se sfavorevole, rende impossibile la sanatoria dell'opera (Cons. Stato, V, 29.05.2006, n. 3216);
-d) si deve perciò applicare alla fattispecie in esame quanto definito in giurisprudenza, in linea generale, riguardo all’esercizio del potere di riesame dell’organo statale sull’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione, o dall’ente sub delegato, per l’esecuzione di opere in area protetta, non essendovi motivo per l’individuazione di speciali procedure e parametri di valutazione nel procedimento di sanatoria di abuso edilizio in una tale area.
Sui limiti dell’esame da parte della Soprintendenza dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione (o da un ente subdelegato), si richiama la giurisprudenza costante di questo Consiglio di Stato, per la quale:
a) l’autorità delegata preposta alla tutela del vincolo deve esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla compatibilità con il vincolo paesaggistico dell’opera specificamente assentita, in relazione a tutte le circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o di istruttoria;
b) il potere di annullamento della Soprintendenza non consente il riesame nel merito delle valutazioni compiute dalla Regione, o dall’ente subdelegato, ma si esprime in un sindacato di legittimità, esteso a tutte le ipotesi riconducibili all'eccesso di potere, anche per difetto di motivazione o di istruttoria e dunque riguardante anche la compiuta presa in considerazione delle circostanze concrete e rilevanti per il giudizio di compatibilità;
c) l’autorità statale, con un tale potere di cogestione del vincolo, dato dalla legge ad estrema difesa del vincolo stesso (Corte cost., 27.06.1986, n. 151; 18.10.1996, n. 341; 25.10.2000, n. 437), se ravvisa nell’atto oggetto del suo riesame un vizio di difetto di motivazione o di istruttoria, nel proprio provvedimento può motivare sulla non compatibilità degli interventi progettati rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel vincolo (Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9; VI, 11.06.2012, n. 3401; 22.06.2011, n. 3767; 26.07.2010, n. 4861; 22.03.2007, n. 1362).
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Nei singoli casi è quindi anzitutto necessario verificare se alla base dell’annullamento dell’autorizzazione esaminata da parte della Soprintendenza competente si riscontri l’incompiutezza o l’inadeguatezza della valutazione di compatibilità paesaggistica resa dalla Regione o dall’ente locale delegato, essendo l’autorizzazione, in questa ipotesi, viziata per difetto di istruttoria o di motivazione e risultando legittimo, perciò, il provvedimento statale di annullamento.
La valutazione di compatibilità paesaggistica in concreto resa è a sua volta adeguata se le caratteristiche dell’intervento vi risultano individuate, raffrontate e giustificate con i valori riconosciuti e protetti dal vincolo, dovendo essere esposta l’analisi eseguita sulle ragioni di compatibilità o incompatibilità effettiva che, in riferimento a tali valori, rendano o meno compatibile l’opera progettata, non essendo quindi sufficiente, allo scopo, l’asserzione generica della compatibilità paesaggistica.
Nella specie la valutazione di compatibilità resa con l’autorizzazione comunale n. 18931 del 2006 non reca alcuna analisi delle caratteristiche dell’intervento edilizio in questione in raffronto a quelle del paesaggio tutelato in cui si inseriscono, venendo assunto, ad unica motivazione della favorevole valutazione di compatibilità, il fatto che si tratta di manufatto “in zona urbanizzata il cui progetto di completamento non si discosta dalla tipologia edilizia dei fabbricati circostanti”.
E’ così espressa, in sostanza, una valutazione di mera assentibilità dell’intervento in alcun modo motivata, non essendo sufficiente allo scopo il richiamo dell’intensa attività edilizia intervenuta poiché, come chiarito in giurisprudenza, la motivazione della già intervenuta urbanizzazione di un’area vincolata non “appare idonea a legittimare interventi edilizi non rispettosi degli interessi sottesi ai vincoli imposti nella zona, in quanto il nuovo edificato contribuisce, comunque, ad aggravare, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, il danno arrecato dalle costruzioni non rispettose di tali finalità, rafforzando, pertanto, la necessità di provvedere alla tutela dei luoghi” (Cons. Stato, Sez. VI, 01.07.2009, n. 4238).
In questo quadro si deve concludere per la legittimità dell’impugnato provvedimento di annullamento della Soprintendenza, in quanto basato sul riscontro del mancato accertamento di compatibilità nell’autorizzazione comunale (penultimo “Considerato”), a sua volta rapportato, nelle stesse premesse del provvedimento, alla previa ricognizione delle caratteristiche dell’area quali compendiate nell’apposizione del vincolo con la valutazione del contrasto con esse del manufatto in questione in relazione nella sua dimensione e struttura (secondo e terzo “Considerato”)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.01.2013 n. 115 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mentre il preveniente deve attenersi, nella prosecuzione in altezza del fabbricato, della scelta operata originariamente, di guisa che ogni parte dell’immobile risulti conforme al criterio di prevenzione adottato sulla base di esso, a ciò non può frapporre ostacoli il confinante (prevenuto) che, se a sua volta abbia costruito in aderenza fino all’altezza inizialmente raggiunta dal preveniente, ha diritto di sopraelevare soltanto sul confine, ovvero a distanza da questo (e, quindi, dalla eventuale sopraelevazione del preveniente) pari a quella globale minima di legge o dei regolamenti.
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Mentre quando gli strumenti urbanistici locali fissino senza alternativa le distanze delle costruzioni dal confine, salva soltanto la possibilità di costruzione in aderenza, non può farsi luogo all’applicazione del principio di prevenzione, quando, al contrario, essi prevedono, riguardo ad edifici preesistenti, la facoltà di costruire in deroga alle prescrizioni contenute nel piano regolatore sulle distanze, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dall’art. 873 c.c., “con la conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico.

Gli art. 2.04 e 19 n.t.a. del piano regolatore generale, nello stabilire le distanze tra costruzioni, ammettono interventi ampliativi, anche tramite sopraelevazione, sugli edifici esistenti in contrasto con dette distanze, purché nel rispetto delle norme del codice civile.
In effetti, il provvedimento di annullamento d’ufficio, riguardante immobili preesistenti non rispettosi delle distanze introdotte dalla normativa urbanistica, è motivato sulla violazione dell’art. 873 c.c. in materia di distanza tra edifici .
Considera, tuttavia, il Collegio che la corretta applicazione dei principi civilistici in materia di distanza tra edifici, richiamati dalle norme tecniche di attuazione del piano regolatore, involga anche quello di prevenzione, data la circostanza (non contestata) che l’edificio che il ricorrente intende sopraelevare preesiste rispetto a quello del vicino, costruito ad una distanza inferiore a tre metri.
Detto principio, in caso di sopraelevazione, comporta che “mentre il preveniente deve attenersi, nella prosecuzione in altezza del fabbricato, della scelta operata originariamente, di guisa che ogni parte dell’immobile risulti conforme al criterio di prevenzione adottato sulla base di esso, a ciò non può frapporre ostacoli il confinante (prevenuto) che, se a sua volta abbia costruito in aderenza fino all’altezza inizialmente raggiunta dal preveniente, ha diritto di sopraelevare soltanto sul confine, ovvero a distanza da questo (e, quindi, dalla eventuale sopraelevazione del preveniente) pari a quella globale minima di legge o dei regolamenti” (Cass. civ. Sez. III, 27.08.1990, n. 8849).
La possibilità, nella specie, di fare applicazione di detto principio trova conferma nel consolidato orientamento per cui, mentre quando gli strumenti urbanistici locali fissino senza alternativa le distanze delle costruzioni dal confine, salva soltanto la possibilità di costruzione in aderenza, non può farsi luogo all’applicazione del principio di prevenzione, quando, al contrario, essi prevedono, riguardo ad edifici preesistenti, la facoltà di costruire in deroga alle prescrizioni contenute nel piano regolatore sulle distanze, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dall’art. 873 c.c., “con la conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico (Cassazione civile, sez. II, 09.04.2010, n. 8465)” (Cons. St. Sez. IV, 09.05.2011, n. 2749; analogamente, Cons. St. Sez. IV, 31.03.2009, n. 1998).
Dalle suesposte considerazioni discende la fondatezza dell’appello in punto di erronea applicazione dell’art. 873 c.c., richiamato dalle n.t.a., non essendosi tenuto conto della prevenzione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.01.2013 n. 53 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Lo scopo del preavviso di diniego previsto dall’art. 10-bis della legge 241/1990, a mente del quale prima di adottare il provvedimento negativo in caso di procedimento ad istanza di parte l’Amministrazione è tenuta a comunicare le ragioni ostative all’adozione del provvedimento favorevole, è quello di ricercare una composizione di interessi quanto più efficace, una volta conclusa l’istruttoria, quindi una volta che il richiedente conosca l’avviso dell’Amministrazione, e ciò al fine di evitare quanto più possibile inutili contenziosi su aspetti che potrebbero essere definiti previamente in sede amministrativa.
Il difetto di preventiva comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento di un’istanza è peraltro assimilabile all’assenza di comunicazione di avvio del procedimento in quanto entrambi gli atti, seppure con riferimento a due distinte fasi sub-procedurali, hanno lo scopo di permettere un effettivo confronto tra l’Amministrazione e i privati anteriormente all’adozione di un provvedimento negativo in modo che non siano trascurati elementi istruttori utili per la decisione finale; sicché, a tale identità di funzione consegue che anche la mancanza della comunicazione ai sensi dell’art. 10-bis L. 241/1990 incide sulla validità dell’atto conclusivo nei soli limiti previsti dall’art. 21-octies, comma 2, della stessa legge, ossia quando si sia determinato un deficit istruttorio e quindi soltanto quando il soggetto non avvisato provi che, ove avesse avuto la possibilità di partecipare, avrebbe potuto presentare osservazioni ed opposizioni, anche solo eventualmente idonee ad incidere, in termini a lui favorevoli, sull’atto conclusivo del procedimento.
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La motivazione dell’atto può essere anche data “per relationem”, nel senso che la motivazione può essere espressa anche con riferimento ad atti del procedimento amministrativo, come ad esempio pareri o valutazioni tecniche.

Priva di fondamento è la censura di cui al primo motivo di violazione e falsa applicazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, con cui la ricorrente lamenta che il provvedimento del 12.07.2010 non è stato preceduto dal preavviso di rigetto con l’indicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza.
In proposito è sufficiente osservare che lo scopo del preavviso di diniego previsto dall’art. 10-bis della legge 241/1990, a mente del quale prima di adottare il provvedimento negativo in caso di procedimento ad istanza di parte l’Amministrazione è tenuta a comunicare le ragioni ostative all’adozione del provvedimento favorevole, è quello di ricercare una composizione di interessi quanto più efficace, una volta conclusa l’istruttoria, quindi una volta che il richiedente conosca l’avviso dell’Amministrazione, e ciò al fine di evitare quanto più possibile inutili contenziosi su aspetti che potrebbero essere definiti previamente in sede amministrativa.
Il difetto di preventiva comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento di un’istanza è peraltro assimilabile all’assenza di comunicazione di avvio del procedimento in quanto entrambi gli atti, seppure con riferimento a due distinte fasi sub-procedurali, hanno lo scopo di permettere un effettivo confronto tra l’Amministrazione e i privati anteriormente all’adozione di un provvedimento negativo in modo che non siano trascurati elementi istruttori utili per la decisione finale; sicché, a tale identità di funzione consegue che anche la mancanza della comunicazione ai sensi dell’art. 10-bis L. 241/1990 incide sulla validità dell’atto conclusivo nei soli limiti previsti dall’art. 21-octies, comma 2, della stessa legge, ossia quando si sia determinato un deficit istruttorio e quindi soltanto quando il soggetto non avvisato provi che, ove avesse avuto la possibilità di partecipare, avrebbe potuto presentare osservazioni ed opposizioni, anche solo eventualmente idonee ad incidere, in termini a lui favorevoli, sull’atto conclusivo del procedimento.
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Altresì priva di pregio è la censura di cui al secondo motivo di violazione dell’art. 3 della legge 241/1990 e di eccesso di potere.
È infatti principio giurisprudenziale consolidato e condiviso da questo Collegio che la motivazione dell’atto può essere anche data “per relationem”, nel senso che la motivazione può essere espressa anche con riferimento ad atti del procedimento amministrativo, come ad esempio pareri o valutazioni tecniche
(TAR Basilicata, sentenza 10.01.2013 n. 6 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La mancata dettagliata indicazione, nel verbale di gara, delle specifiche modalità di custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la segretezza delle offerte non costituisce di per sé motivo di illegittimità dell’attività posta in essere dalla Commissione per garantire siffatta custodia, in assenza di ulteriori elementi realmente idonei a far ritenere verificate in concreto manomissioni o alterazione dei documenti.
Sul punto, la Sezione non ravvisa ragioni per discostarsi dall’indirizzo secondo cui la mancata dettagliata indicazione, nel verbale di gara, delle specifiche modalità di custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la segretezza delle offerte non costituisce di per sé motivo di illegittimità dell’attività posta in essere dalla Commissione per garantire siffatta custodia, in assenza di ulteriori elementi realmente idonei a far ritenere verificate in concreto manomissioni o alterazione dei documenti (cfr. Cons. Stato, sez. III, 02.08.2012, nr. 4422; Cons. Stato, sez. VI, 24.11.2010, nr. 8224) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.01.2013 n. 4 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADIFFERENZE TRA ORDINE DI DEMOLIZIONE ‘‘COMUNALE’’ ED ORDINE DI DEMOLIZIONE ‘‘PENALE’’.
L’ordine di demolizione adottato dal Comune è distinto e autonomo rispetto all’ordine di demolizione penale, con la conseguenza che la sua eventuale illegittimità, anche qualora accertata dal giudice amministrativo, non rileva di per sé ai fini dell’esecuzione penale.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Corte di Cassazione con la decisione in esame verte sulla differente natura giuridica dell’ordine di demolizione adottato dal Comune rispetto all’omologo ordine adottato, invece, in via di supplenza dal giudice penale all’esito del giudizio di condanna per il reato edilizio.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza del Tribunale, quale giudice dell’esecuzione, che aveva revocato il beneficio della sospensione condizionale della pena concesso al condannato con sentenza irrevocabile, non essendosi verificata, nel termine prescritto, la condizione della demolizione dell’immobile abusivamente edificato alla quale detto beneficio era subordinato.
Avverso l’ordinanza, veniva proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, deducendo, per quanto di interesse in questa sede, l’erronea interpretazione dell’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, in quanto il Tribunale non avrebbe tenuto conto del fatto che l’interessato aveva proposto ricorso al TAR avverso l’ordinanza di demolizione emessa dal Comune e che tale giudice aveva accolto la domanda di sospensione cautelare di detta ordinanza.
La tesi non ha avuto fortuna davanti ai giudici della Suprema Corte i quali hanno, infatti, respinto il ricorso. In particolare, da un lato, secondo la Cassazione non sarebbero state specificate le ragioni per le quali il TAR aveva disposto la richiamata sospensione cautelare, la quale ha, del resto, per oggetto non un provvedimento di diniego di sanatoria edilizia, ma un’ordinanza comunale di demolizione. In secondo luogo, ed è questo l’aspetto di maggiore interesse della decisione, secondo i giudici di Piazza Cavour non vale richiamare sul punto gli orientamenti giurisprudenziali di legittimità che ammettono che l’ordine di demolizione divenga inapplicabile nel caso di rilascio del condono edilizio intervenuto dopo l’irrevocabilità della sentenza di condanna o, ancora, che lo stesso rimanga sospeso nel caso di attuale inconciliabilità con atti amministrativi che abbiano sanato l’abuso.
Tali orientamenti, infatti, secondo gli Ermellini, non trovano applicazione nel caso in esame, perché si riferiscono al solo procedimento di condono edilizio e non anche alla fattispecie della sospensione dell’ordine di demolizione adottato dal Comune che è distinto e autonomo rispetto all’ordine di demolizione penale, con la conseguenza che la sua eventuale illegittimità, anche qualora accertata dal giudice amministrativo, non rileva di per sé ai fini dell’esecuzione penale (v., sul punto: Cass. pen., sez. III, 14.03.2012, n. 27308, inedita) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.12.2012 n. 46735 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2013).

EDILIZIA PRIVATA: DIFFERENZE TRA RISANAMENTO E RESTAURO, RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA E MANUTENZIONE STRAORDINARIA.
In materia edilizia occorre distinguere tra interventi di risanamento e restauro, interventi di ristrutturazione edilizia ed interventi di manutenzione straordinaria:
a) la ristrutturazione edilizia, anzitutto, non è vincolata al rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’edificio esistente, comprendendo il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti;
b) gli interventi di manutenzione straordinaria non possono, invece, comportare aumento della superficie utile o del numero delle unità immobiliari, né la modifica della sagoma o mutamento della destinazione d’uso;
c) il restauro ed il risanamento conservativo, infine, non possono modificare in modo sostanziale l’assetto edilizio preesistente e consentono soltanto variazioni d’uso ‘‘compatibili’’ con l’edificio conservato.

Di particolare interesse la decisione qui commentata con cui la Corte, traendo spunto da una fattispecie concreta assai comune, coglie l’occasione per fare il punto della situazione tra diverse tipologie di interventi edilizi che, apparentemente, presentano aspetti comuni ma che, ad un’attenta analisi, presentano aspetti differenziali che incidono, ovviamente, sui titoli abilitativi richiesti per la loro realizzazione.
La vicenda processuale trae origine da una sentenza con cui la Corte di appello ha riformato la decisione, appellata dal Procuratore Generale presso la medesima Corte, con la quale, il Tribunale aveva assolto l’imputato da alcune violazioni previste dalla normativa edilizia ed antisismica per la realizzazione di un intervento di innalzamento del cordolo su tre lati di un preesistente fabbricato per cm. 30 circa e la messa in opera di due file di tegole, con ulteriore innalzamento di circa cm. 50.
Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per cassazione la difesa dell’imputato, sostenendo che i giudici d’appello avrebbero erroneamente qualificato gli interventi eseguiti, correttamente inquadrati dal primo giudice nell’ambito della mera ristrutturazione, non avendo determinato mutamento di destinazione d’uso di locali con diversa distribuzione o la creazione di nuovi volumi, cosicché per la loro realizzazione non sarebbe stato necessario il permesso di costruire.
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che, infatti, hanno respinto il ricorso.
In particolare, osserva la Corte che gli interventi di manutenzione straordinaria, cui il ricorrente assumeva dovessero ricondursi gli interventi eseguiti, sono descritti all’art. 3, lett. b), del D.P.R. n. 380 del 2001, come «le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso». Orbene, precisano i giudici di legittimità, perché possa configurarsi la manutenzione straordinaria, gli interventi edilizi devono essere contenuti in opere di accomodamento o anche di rinnovazione e sostituzione di parti degli elementi costitutivi dell’edificio (compresi i servizi tecnologici ed igienico sanitari), ma nel rispetto degli elementi tipologici, non solo strutturali ma anche formali, dell’edificio stesso nella loro originaria configurazione (v., ad es., da ultimo: Cass. pen., sez. III, 23.03.2011, n. 25017, in Ced Cass. n. 250602).
Inoltre, soggiunge la Corte, dev’essere posta in evidenza anche la differenza tra gli interventi di risanamento e restauro, quelli di ristrutturazione edilizia e di manutenzione straordinaria, in quanto la ristrutturazione edilizia non è vincolata al rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’edificio esistente, comprendendo il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti; gli interventi di manutenzione straordinaria non possono invece comportare aumento della superficie utile o del numero delle unità immobiliari, né la modifica della sagoma o mutamento della destinazione d’uso, mentre il restauro ed il risanamento conservativo non possono modificare in modo sostanziale l’assetto edilizio preesistente e consentono soltanto variazioni d’uso ‘‘compatibili’’ con l’edificio conservato (sul punto: Cass. pen., sez. III, 14.05.2008, n. 35897, in Riv. Giur. Edil., 2009, 1, I, 346, con nota di Dello Sbarba Gli elementi distintivi della ristrutturazione edilizia).
La giurisprudenza della Cassazione ha anche individuato alcuni interventi di ristrutturazione edilizia di portata minore, che determinano una semplice modifica dell’ordine in cui sono disposte le diverse parti che compongono la costruzione, in modo che, pur risultando complessivamente innovata, questa conserva la sua iniziale consistenza urbanistica. La stessa giurisprudenza ricorda che, al contrario, le ristrutturazioni edilizie che comportano integrazioni funzionali e strutturali dell’edificio esistente, ammettendosi limitati incrementi di superficie e di volume, necessitano del permesso di costruire ovvero della denunzia di inizio attività alternativa al permesso (v., in tema: Cass. pen., sez. III, 19.12.2007, n. 47046, in Ced Cass. n. 238461).
Orbene, nella fattispecie, risulta dalla semplice descrizione delle opere realizzate che le stesse non possono rientrare nella tipologia della manutenzione straordinaria o della ristrutturazione ‘‘leggera’’ o ‘‘minore’’, avendo determinato un sostanziale innalzamento dell’edificio e la modifica della sagoma originaria. Come correttamente osservato dai giudici d’appello, dunque, per l’esecuzione di detto intervento era richiesto il permesso di costruire (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.11.2012 n. 45959 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2013).

EDILIZIA PRIVATA: RAPPORTI DI VICINATO E LEGITTIMAZIONE AL RISARCIMENTO DANNI.
Il privato confinante è legittimato a costituirsi parte civile, quando la realizzazione dell’abuso edilizio da parte del vicino non violi solo le norme poste a tutela del regolare assetto del territorio, ma anche le norme che impongono limiti al diritto di proprietà, che stabiliscono distanze, volumetria ed altezza delle costruzioni, previste dal codice civile e dai piani regolatori, violazioni produttive di un danno patrimoniale.
Il tema affrontato dalla Cassazione nella sentenza in esame verte sulla questione della legittimazione attiva del vicino, che asserisca di aver subito una lesione patrimoniale per il ‘‘comportamento’’ edilizio illegittimo del proprietario confinante, di agire giudizialmente nei suoi confronti per ottenere il risarcimento del danno sofferto.
La vicenda processuale segue alla condanna, inflitta in sede di appello in riforma della sentenza assolutoria in primo grado, per violazioni edilizie e per reati di falso, ascritti al committente ed al progettista e direttore dei lavori, per aver eseguito interventi di ristrutturazione edilizia di un edificio preesistente sulla base di un permesso di costruire ritenuto illegittimo, riguardando gli interventi parti del fabbricato già costruite abusivamente negli anni settanta e mai condonate, nonché per avere, in concorso tra loro, redatto una relazione tecnica allegata alla domanda di permesso di costruire, attestante falsamente la preesistenza degli interventi di ampliamento dell’edificio all’epoca di effettiva realizzazione.
Contro la sentenza di condanna proponevano ricorso per cassazione gli interessati. Tra i diversi motivi di censura rileva, per quanto qui d’interesse, quello -comune ad entrambi i ricorrenti- con cui si contesta la violazione di legge con riferimento alla condanna al risarcimento dei danni in favore del proprietario confinante che, secondo la difesa, può fare seguito solo alla violazione di norme urbanistiche e non anche alla declaratoria di illegittimità del titolo edilizio per ragioni diverse.
La tesi è stata favorevolmente accolta dai giudici della Suprema Corte che, sul punto, hanno richiamato il principio di diritto secondo il quale, nei procedimenti per violazioni urbanistico-edilizie, il privato confinante e` legittimato a costituirsi parte civile, quando la realizzazione dell’abuso edilizio da parte del vicino non violi solo le norme poste a tutela del regolare assetto del territorio, ma anche le norme che impongono limiti al diritto di proprietà, che stabiliscono distanze, volumetria ed altezza delle costruzioni, previste dal codice civile e dai piani regolatori, violazioni produttive di un danno patrimoniale (v., tra le tante: Cass. pen., sez. III, 25.11.2009, n. 45295, in Ced Cass. n. 245270).
Ed infatti, hanno aggiunto i giudici di legittimità, ai fini dell’accoglimento della domanda di risarcimento danni proposta dalla parte civile costituitasi in un processo per reato urbanistico, è necessario che il giudice accerti la lesione di un diritto soggettivo della parte, a seguito della violazione di norme poste a tutela dello statuto proprietario di questa, non essendo idonea a tale effetto la violazione di norme che disciplinano la sfera della potestà amministrativa, e quindi rilevanti esclusivamente nei rapporti tra comune e privato (in termini: Cass. pen., sez. III, 18.12.1991, n. 12766, in Ced Cass. n. 188735). Orbene, nel caso in esame, osservano gli Ermellini, è stata esclusa l’illegittimità dei permessi di costruire quale conseguenza della violazione di norme edilizie di carattere generale ovvero stabilite dagli strumenti urbanistici locali, ma esclusivamente per essere afferente quello ‘‘incriminato’’ a interventi di ristrutturazione di parti di un immobile preesistente realizzate abusivamente negli anni settanta.
Tale profilo d’illegittimità del provvedimento e dei lavori consequenziali non si palesa, però, ad avviso della Corte, lesivo dei diritti della costituita parte civile, né dalla motivazione della sentenza emergono elementi indicativi dell’esistenza di un danno subito dalla stessa quale conseguenza dell’intervento edilizio ritenuto abusivo. Da qui, dunque, l’accoglimento del ricorso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.11.2012 n. 45942 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2013).

EDILIZIA PRIVATA: VARIANTI NON ESSENZIALI E CONDIZIONI DI ASSENTIBILITA` MEDIANTE DIA.
La richiesta di esecuzione di lavori in variante, ancorché non essenziale, di un’opera oggetto di precedente permesso di costruire, purché non incidenti su alcuno dei parametri indicati nell’art. 32, ove sia proposta nel corso dei lavori (art. 34, D.P.R. n. 380 del 2001) è assentibile mediante semplice DIA; diversamente, se la DIA in sanatoria venga inoltrata a lavori completati, l’intervento eseguito non può essere considerato come mera variante rispetto al titolo abilitativo, bensì quale difformità vera e propria, assoggettata alla procedura del permesso in sanatoria.
Decisione di particolare interesse quella della Suprema Corte. Gli Ermellini si occupano, infatti, nel caso in esame, di un tema in realtà non molto approfondito in giurisprudenza, inerente l’individuazione del titolo abilitativo necessario in caso di esecuzione di varianti non essenziali rispetto al progetto approvato.
La vicenda processuale segue alla condanna dell’imputato per il reato di cui all’art. 44, lett. a), D.P.R. n. 380/2001 per violazioni alle normative sulle edificazioni in cemento armato e sismica. Contro tale sentenza, in particolare, proponeva ricorso per Cassazione l’imputato, adducendo diversi motivi tra cui, per quanto di interesse in questa sede, rileva quello secondo cui -ad avviso dell’interessato- gli interventi in variante non necessitano della concessione edilizia (rectius, permesso di costruire).
La tesi non ha avuto fortuna davanti ai giudici della Suprema Corte i quali hanno, infatti, respinto il ricorso muovendo, anzitutto, dal rilievo per cui, nel caso di specie, si è trattato di lavori in variante, ancorché di certo non essenziale, dell’opera oggetto del permesso di costruire. Tale variante -per i giudici di legittimità- avrebbe, però, potuto e dovuto essere richiesta nel corso dei lavori, ex art. 34 D.P.R. n. 380 del 2001, con una DIA, trattandosi appunto di variazioni non essenziali, concernenti le medesime opere già autorizzate con il predetto permesso a costruire, non incidenti su alcuno dei parametri indicati nell’art. 32.
Ma, poiché la domanda di DIA in sanatoria -aggiungono gli Ermellini- è stata inoltrata a lavori completati, l’intervento eseguito non poteva essere considerato come mera variante rispetto al titolo abilitativo, bensì quale difformità vera e propria, assoggettata alla procedura del permesso in sanatoria, donde la configurabilità del reato in esame.
La soluzione appare condivisibile, soprattutto laddove si consideri che, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, mentre le ‘‘varianti in senso proprio’’, ovvero le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementario ed accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all’originario permesso a costruire, le ‘‘varianti essenziali’’, ovvero quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall’art. 32 del D.P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante (Cass. pen., sez. III, 24.06.2010, n. 24236, in Ced Cass. n. 247686) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.11.2012 n. 45940 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2013).

EDILIZIA PRIVATAPer quanto concerne la canna fumaria il Collegio condivide la giurisprudenza amministrativa alla luce della quale la canna fumaria deve ritenersi un volume tecnico e, come tale, un’opera priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale, che non risulta particolarmente pregiudizievole per il territorio e, pertanto, la sua realizzazione rientra tra quelle opere per le quali non è necessario il permesso di costruire e, conseguentemente, non è soggetta alla sanzione della demolizione.
Lo stesso dicasi per i due serbatoi idrici e relativo autoclave che, essendo impianti tecnologici, innanzitutto non sviluppano nuovo volume e devono ritenersi privi di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale; inoltre, per quanto riguarda in particolare quelli di cui alla fattispecie oggetto di gravame, seppure posizionati all’esterno dell’appartamento, data la loro specifica ubicazione nella facciata interna del condominio, non risultano particolarmente pregiudizievoli per il territorio.

Il Collegio ritiene, tuttavia, che per entrambe le opere di cui si contesta la mancanza del titolo edilizio, trattandosi rispettivamente di impianti tecnologici e di volume tecnico, non occorreva per la loro realizzazione il permesso di costruire che determina la sanzione della demolizione prevista dall’art. 31 del d.p.r. n. 380 del 2001, ma era sufficiente la denuncia di inizio di attività la cui mancanza non è sanzionabile con la rimozione o demolizione ma solo con l’irrogazione della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 37 del d.p.r. n. 380 del 2001, come prospettato da parte ricorrente; pertanto l’ordinanza oggetto di impugnazione deve ritenersi illegittimamente adottata.
In particolare per quanto concerne la canna fumaria il Collegio condivide, infatti, la giurisprudenza amministrativa alla luce della quale la canna fumaria deve ritenersi un volume tecnico e, come tale, un’opera priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale, che non risulta particolarmente pregiudizievole per il territorio e, pertanto, la sua realizzazione rientra tra quelle opere per le quali non è necessario il permesso di costruire e, conseguentemente, non è soggetta alla sanzione della demolizione (cfr. ex multis TAR Campania Napoli, Sez. VII, 15.12.2010, n. 27380); lo stesso dicasi per i due serbatoi idrici e relativo autoclave che, essendo impianti tecnologici, innanzitutto non sviluppano nuovo volume e devono ritenersi privi di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale; inoltre, per quanto riguarda in particolare quelli di cui alla fattispecie oggetto di gravame, seppure posizionati all’esterno dell’appartamento, data la loro specifica ubicazione nella facciata interna del condominio, non risultano particolarmente pregiudizievoli per il territorio.
Si ritiene di dover precisare che, anche nella ipotesi che sembrerebbe emergere nella fattispecie per cui è causa, di un vincolo paesaggistico dell’area ove è ubicato l’immobile, peraltro non indicato nell’ordinanza dal Comune ma solo genericamente rappresentato nella memoria prodotta in giudizio come “vincolo architettonico”, esso non sarebbe di ostacolo ad ottenere una autorizzazione paesaggistica in sanatoria, su richiesta dell’avv. Ferlicchia, per gli interventi contestati nell’ordinanza di rimozione .
Ciò in quanto l’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004, alla lettera a) prevede la possibilità del versamento di una indennità pecuniaria “per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”, fattispecie applicabile alla fattispecie oggetto di gravame (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. VII, 15.12.2010, n. 27380 cit.) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 30.10.2012 n. 1859 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASi tratta, nella specie, di una semplice canna fumaria, relativa ad un impianto eco-compatibile a basso impatto ambientale alimentato con materiali biodegrabili, opera comunque priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale e che non risulta particolarmente pregiudizievole per il territorio, costituendo peraltro volume tecnico.
Ma anche a ritenere la necessità di un titolo abilitativo, comunque non si sarebbe trattato del permesso di costruire, con conseguente ipotetica irrogazione della sola sanzione pecuniaria.

Espone l’odierno ricorrente di essere proprietario di un fabbricato con area di pertinenza nel Comune di Catanzaro. Su detta unità immobiliare lo stesso ha installato una canna fumaria. Il settore Igiene ambientale del Comune ha, quindi, con nota del 22.12.2010 notiziato di detta installazione il settore Edilizia privata. Con ordinanza n. 44 del 07.04.2011, il Comune di Catanzaro ha quindi ordinato la demolizione dell’opera di che trattasi poiché abusivamente realizzata.
Avverso la detta ordinanza di demolizione è quindi proposto il presente ricorso a sostegno del quale si argomenta la non necessità del previo conseguimento di titolo abilitativo per la installazione di una canna fumaria.
Si è costituito in giudizio il Comune di Catanzaro affermando la infondatezza del proposto ricorso e concludendo perché lo stesso venga respinto.
Alla pubblica udienza del 09.03.2012 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
Il ricorso è fondato e va, pertanto, accolto.
Osserva, infatti, il Collegio che si tratta, nella specie, di una semplice canna fumaria, relativa ad un impianto eco-compatibile a basso impatto ambientale alimentato con materiali biodegrabili, opera comunque priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale e che non risulta particolarmente pregiudizievole per il territorio, costituendo peraltro volume tecnico (cfr. TAR Napoli, VII Sezione, 15.12.2010 n. 27380). Ma anche a ritenere la necessità di un titolo abilitativo, comunque non si sarebbe trattato del permesso di costruire, con conseguente ipotetica irrogazione della sola sanzione pecuniaria.
Ne consegue, pertanto, la illegittimità dell’avversata ordinanza di demolizione che, in accoglimento del proposto ricorso, deve essere annullata (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 17.04.2012 n. 391 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Si tratta di una semplice canna fumaria, opera priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale e che non risulta particolarmente pregiudizievole per il territorio.
Inoltre, si tratta di volume tecnico, e secondo la giurisprudenza di questa Sezione sarebbe possibile ottenere l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria ex art. 167 d.lgs. 42/2004: “l’interpretazione teleologica induce inevitabilmente a ritenere che, nonostante l’utilizzo della particella disgiuntiva “o” nella frase “che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi”, il duplice riferimento alle nuove superfici utili e ai nuovi volumi costituisca un’endiadi, ossia una modalità di esprimere un concetto unitario con due termini coordinati. In altri termini, la necessità di interpretare le eccezioni al divieto di rilasciare l’autorizzazione paesistica in sanatoria (previste dall’articolo 167, comma 4, del decreto legislativo n. 42/2004) in coerenza con la ratio dell’introduzione di tale divieto induce il Collegio a ritenere che esulino dalla eccezione prevista dall’articolo 167, comma 4, lettera a), gli interventi che abbiano contestualmente determinato la realizzazione di nuove superfici utili e di nuovi volumi e che, di converso, siano suscettibili di accertamento della compatibilità paesistica anche i soppalchi, i volumi interrati ed i volumi tecnici”, atteso che i volumi tecnici, proprio in ragione dei caratteri che li contraddistinguono (già evidenziati in precedenza), sono inidonei ad introdurre un impatto sul territorio eccedente la costruzione principale.

La parte ricorrente impugnava i provvedimenti in epigrafe per i seguenti motivi: 1) carenza di motivazione, atteso che non vengono spiegate le ragioni di interesse pubblico a sostegno della demolizione; la canna fumaria era stata realizzata già nel 1973; 2) eccesso di potere per contraddittorietà perché la stessa Amministrazione aveva ingiunto alla ricorrente il controllo della canna fumaria; 3) eccesso di potere perché l’ordinanza persegue uno scopo diverso dalla tutela del territorio, e cioè gli interessi privati di altri condomini; 4) difetto di istruttoria.
Il ricorso è fondato e va accolto per i motivi di seguito precisati.
Infatti, come già osservato in fase cautelare, si tratta di una semplice canna fumaria, opera priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale e che non risulta particolarmente pregiudizievole per il territorio. Inoltre, si tratta di volume tecnico, e secondo la giurisprudenza di questa Sezione sarebbe possibile ottenere l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria ex art. 167 d.lgs. 42/2004: “l’interpretazione teleologica induce inevitabilmente a ritenere che, nonostante l’utilizzo della particella disgiuntiva “o” nella frase “che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi”, il duplice riferimento alle nuove superfici utili e ai nuovi volumi costituisca un’endiadi, ossia una modalità di esprimere un concetto unitario con due termini coordinati. In altri termini, la necessità di interpretare le eccezioni al divieto di rilasciare l’autorizzazione paesistica in sanatoria (previste dall’articolo 167, comma 4, del decreto legislativo n. 42/2004) in coerenza con la ratio dell’introduzione di tale divieto induce il Collegio a ritenere che esulino dalla eccezione prevista dall’articolo 167, comma 4, lettera a), gli interventi che abbiano contestualmente determinato la realizzazione di nuove superfici utili e di nuovi volumi e che, di converso, siano suscettibili di accertamento della compatibilità paesistica anche i soppalchi, i volumi interrati ed i volumi tecnici”, atteso che i volumi tecnici, proprio in ragione dei caratteri che li contraddistinguono (già evidenziati in precedenza), sono inidonei ad introdurre un impatto sul territorio eccedente la costruzione principale (Tar Campania, Napoli, VII, 1748/2009).
Per altro, la stessa Soprintendenza, in data 02.09.2010, con parere n. 17796 prot., ha espresso parere di compatibilità paesaggistica sulla canna fumaria, proprio ai sensi dell’art. 167, co. 4, d.lgs. 42/2004, e lo stesso Comune, con nota del 14.10.2010, ha preso atto di tale parere invitando la ricorrente a presentare la perizia giurata al fine di determinare la sanzione di cui all’art. 167, co. 5; tali sviluppi amministrativi confermano la riconducibilità dell’opera tra quelle per la realizzazione delle quali non è necessario il permesso di costruire e, in quanto tali, non soggette alla sanzione della demolizione (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 15.12.2010 n. 27380 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAInterventi sulla canna fumaria esterna consistenti in intonacatura con posa di retina plasticata e malta fibrorinforzata, istallazione di chiave di ritenuta in acciaio, inserimento all’interno della canna fumaria di tubazione in acciaio sono da considerarsi quali opere di manutenzione straordinaria e, come tali, non abbisognano della preventiva autorizzazione paesaggistica (in area sottoposta a vincolo ambientale).
Con il provvedimento impugnato il Dirigente del Comune di Venezia ha ordinato la rimozione delle seguenti opere:
- interventi sulla canna fumaria esterna consistenti in intonacatura con posa di retina plasticata e malta fibrorinforzata, istallazione di chiave di ritenuta in acciaio, inserimento all’interno della canna fumaria di tubazione in acciaio.
La motivazione del provvedimento impugnato fa riferimento alla circostanza che le opere eseguite sono ritenute non rientranti nella manutenzione ordinaria e ricadono in area sottoposta a vincolo paesaggistico ambientale senza che sia stata ottenuta la preventiva autorizzazione paesaggistica.
La controinteressata interviene nel presente giudizio per sostenere la legittimità del provvedimento impugnato.
Il ricorso è fondato.
Infatti l’art. 149 del D.Lgs. n. 42 del 2004 stabilisce che l’autorizzazione paesaggistica non è prescritta per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo.
L’Amministrazione ha errato nel considerare che, non trattandosi di manutenzione ordinaria, dovesse essere richiesta l’autorizzazione paesaggistica, perché anche gli interventi di manutenzione straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo non richiedono il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
Il Comune di Venezia non ha valutato se trattasi di opere di manutenzione straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo, che non richiedono il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
Il ricorso deve pertanto essere accolto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 08.01.2010 n. 35 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAGli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l'avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, non essendo richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario, non devono essere preceduti da alcuna comunicazione di avvio del relativo procedimento.
Secondo giurisprudenza consolidata di questo Tribunale, “Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l'avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, non essendo richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario, non devono essere preceduti da alcuna comunicazione di avvio del relativo procedimento”: TAR Campania Napoli, sez. IV, 01.08.2008, n. 9710
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 03.06.2009 n. 3039 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa canna fumaria, di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sua sagoma, “non può considerarsi un elemento meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell'immobile, occorrendo pertanto, per la stessa, la concessione edilizia”.
Con il secondo mezzo si critica l’amministrazione per la ritenuta carenza della istruttoria. In sintesi, la ricorrente critica la scelta demolitoria osservando che, nella fattispecie in esame, ci si era limitati alla sostituzione di un preesistente “fatiscente tubo di plastica” con la canna di acciaio contestata.
Proprio la differente consistenza, materialità ed impatto visivo rende la sostituzione necessitante un titolo abilitante specifico: trattasi infatti di intervento che ricade in zona di particolare pregio secondo la normazione evidenziata nell’epigrafe dell’atto impugnato.
La censura innesta, del resto, il punto principale di causa, costituito dalla verifica giudiziale della tutela sul piano paesaggistico che il Comune ha inteso appontare: in termini legittimi, secondo questo Tribunale.
In argomento, si ricorda che, ai sensi dell’art. 67 del regolamento edilizio del Comune di Ischia, “Le canne fumarie non possono essere esterne alle murature o tamponature se non costituenti una soddisfacente soluzione architettonica”. La norma si inserisce dunque in una meditata valorizzazione del paesaggio urbano dell’isola, già nella sua interezza vincolata paesisticamente, che ha riscontri precisi nella adozione di alcuni atti quali il regolamento sull’ornato urbano, ovvero sulle tonalità cromatiche degli edifici ischitani (cfr., delibera del 13/03/2007 n. 54 verbale di deliberazione del commissario straordinario – “oggetto: l.r.c. n. 26/2002. approvazione piano del colore di alcuni ambiti urbani”), nonché, evidentemente, nel rispetto della sottoposizione dell’isola al regime vincolistico disciplinato dal Piano Territoriale Paesistico approvato con Decreto Ministeriale dell’08.02.1999, pubblicato sulla G.U. n. 94 del 23.04.1999.
E’ evidente allora che l’esigenza espressa dal provvedimento gravato è eminentemente paesistica, e sul piano sanzionatorio si collega alla “straordinaria importanza della tutela «reale» dei beni paesaggistici ed ambientali” (cfr., C. Cost. ord.za 12/20.12.2007 nr. 439). In particolare, si concreta nella previsione della rimessione in pristino come consentita dall’art. 167 del Dlgs 42/2004: vale su punto ricordare che lo stesso articolo 1° del DPR 380/2001 afferma testualmente al secondo comma che “Restano ferme le disposizioni in materia di tutela dei beni culturali ed ambientali”, sicché le due tutela devono considerarsi autonome e operative su basi differenti.
Sempre in termini generali, la necessità della autorizzazione paesistica, nella presente fattispecie, si rinviene agevolmente dal testo dell’art. 149 Dlgs n. 42/2004 ove si esclude tale esigenza “per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”.
In quest’ultima proposizione (“aspetto esteriore degli edifici”) è agevole riscontrare un evidente compromissione della identità del luogo nella sostituzione di una fatiscente canna fumaria con altra di acciaio e la pari evidente necessità –connessa ad una dinamica “tutela attiva” del paesaggio”– della intermediazione della verifica dialettica (per il tramite del procedimento autorizzatorio) con l’amministrazione pubblica al fine di pervenire ad una ponderata e non invasiva sistemazione del quadro d’insieme dei luoghi, degradabile anche con l’incontrollata manipolazione esteriore degli edifici, con riferimento ad impianti tecnologici di varia specie che, se non “impegnativi” sul piano strettamente edilizio, ben possono essere tali, su quella della vulnerazione dei valori paesaggistici.
Ma anche sul piano rigorosamente edilizio, la sanzione non appare sproporzionata. Come ha notato la giurisprudenza, la canna fumaria, di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sua sagoma, “non può considerarsi un elemento meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell'immobile, occorrendo pertanto, per la stessa, la concessione edilizia”: Tar Lazio n. 4246 - 18.05.2001
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 03.06.2009 n. 3039 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per quanto concerne la canna fumaria installata dalla ricorrente sull’edificio di sua proprietà risulta evidente, per le dimensioni della stessa e la conformazione, in particolare del comignolo, di eccessiva e sproporzionata mole e consistenza ponderale e per la conseguente alterazione, di palese evidenza, che arreca alla costruzione su cui è stata installata ed alla sua sagoma, che la stessa si presenta, nello spazio interessante la sua apposizione ed elevazione in altezza, come un visibile prolungamento completativo degli elementi costituenti la sagoma di una fiancata e della sovrastante copertura a tetto spiovente dell’edificio preesistente, già realizzato.
La stessa canna fumaria non può perciò considerarsi, come sostiene la ricorrente, un elemento meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell’immobile.

Va precisato al riguardo che nel sistema di cui alla legge n. 47/1985, che tipicizza le violazioni edilizie in ragione della natura, finalità e caratteristiche degli interventi eseguiti prevedendo la applicazione di distinte e corrispondenti misure sanzionatorie per la repressione dei rispettivi abusi, devono ritenersi sottratte al regime della concessione edilizia soltanto quelle opere che siano riconducibili (anche in applicazione di previsioni normative dettate da disposizioni diverse da quelle della citata legge n. 47/1985) o al regime della autorizzazione comunale ovvero a quello, estremamente semplificato, della c.d. “denuncia di inizio di attività” che consente la esecuzione di particolari interventi su edifici preesistenti mediante la presentazione della medesima d.i.a. al Comune.
Sono dunque solo tali interventi che possono essere realizzati senza concessione edilizia poiché a giudizio del legislatore nella ipotesi di esecuzione degli stessi in preesistenti edifici e posti in un rapporto di stretto collegamento con la costruzione cui accedono, può ritenersi proprio dalla presenza dell’edificio principale, assorbito l’impatto o la alterazione (sempre che sia di modesta proporzione) che il nuovo intervento arreca al preesistente assetto edilizio.
Ora, per quanto concerne la canna fumaria installata dalla ricorrente sull’edificio di sua proprietà risulta evidente, per le dimensioni della stessa e la conformazione, in particolare del comignolo, di eccessiva e sproporzionata mole e consistenza ponderale e per la conseguente alterazione, di palese evidenza, che arreca alla costruzione su cui è stata installata ed alla sua sagoma, che la stessa si presenta, nello spazio interessante la sua apposizione ed elevazione in altezza, come un visibile prolungamento completativo degli elementi costituenti la sagoma di una fiancata e della sovrastante copertura a tetto spiovente dell’edificio preesistente, già realizzato.
La stessa canna fumaria non può perciò considerarsi, come sostiene la ricorrente, un elemento meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell’immobile (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 18.05.2001 n. 4246 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 18.02.2013

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MOBILITA'

PUBBLICO IMPIEGO: il Comune di Cisano Bergamasco (BG) cerca con mobilità volontaria n. 1 geometra, cat. "C" a tempo pieno ed indeterminato, da destinare all'Ufficio Tecnico il cui avviso di mobilità prevede il termine di martedì 26.02.2013 entro cui inviare le domande di partecipazione.

UTILITA'

SICUREZZA LAVOROGuida interattiva per il committente e il responsabile dei lavori: obblighi e responsabilità.
Il committente viene definito dal D.Lgs. 81/2008 (Testo Unico sulla Sicurezza) come il “soggetto per conto del quale l’intera opera viene realizzata, indipendentemente da eventuali frazionamenti della sua realizzazione …”.
Assume automaticamente la funzione di committente chi, ad esempio:
● in qualità di proprietario di una villetta affida i lavori di tinteggiatura interna od esterna
● in qualità di locatario di un appartamento, affida i lavori di rifacimento del bagno
● in qualità di amministratore di condominio, affida i lavori di rifacimento del manto di copertura o di isolamento a cappotto dei muri
● in qualità di titolare d’impresa, affida i lavori di sistemazione degli uffici o di ampliamento della zona produttiva del suo capannone aziendale;
● in qualità di proprietario di un lotto edificabile, affida i lavori di costruzione della sua nuova casa
Il committente ha precise responsabilità penali ed amministrative attribuitegli dalla legislazione vigente, come ad esempio:
designare il coordinatore per la sicurezza se necessario
accertare i requisiti del coordinatore
trasmettere il P.S.C. a tutte le imprese invitate a presentare l’offerta
etc.
Il Comune di Reggio Emilia, in collaborazione con i vari ordini professionali, ha pubblicato qualche tempo fa una guida interattiva molto utile, con l'intento di fornire ai Committenti e ai Responsabili dei Lavori uno strumento operativo basato su domande e risposte, che li supporti negli adempimenti e negli obblighi previsti dalla legge.
Il documento è strutturato in forma interattiva, con domande e risposte e fornisce informazioni sui ruoli e le responsabilità del committente sia in caso di lavori pubblici che privati.
Sarà sufficiente rispondere ai semplici quesiti e seguire l’iter proposto, per essere in regola con gli adempimenti.
Alla fine della guida sono presenti modelli utili al committente, quali:
● notifica preliminare
● comunicazione dell'avvenuta verifica dell'idoneità tecnico-professionale
● comunicazione nominativi del Coordinatore per la sicurezza
● modelli di incarico professionale (14.02.2013 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATADai VV.F. il manuale di prevenzione incendi, utile anche alla formazione degli addetti alla lotta antincendio.
L’art. 18 del Testo Unico sulla Sicurezza (D.Lgs. 81/2008 - aggiornato a gennaio 2013), obbliga il datore di lavoro a “designare preventivamente i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione individuale e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave e immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione dell’emergenza”.
La designazione “deve tenere conto della natura dell’ attività, delle dimensioni dell’azienda o dell’unità produttiva, e del numero delle persone presenti”.
Lo stesso TUS prevede la possibilità per i datori di lavoro delle aziende che occupano fino a cinque lavoratori di svolgere direttamente i compiti di prevenzione incendi e di evacuazione.
Inoltre, il datore di lavoro ha l’obbligo di formare i lavoratori incaricati dell'attività di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro.
Al fine di favorire la formazione degli addetti alla lotta antincendio, il Comando Provinciale dei VV.F. di Ascoli Piceno ha pubblicato il “Manuale di prevenzione incendi”.
Il documento affronta, in maniera chiara e semplice, i concetti base legati all’incendio e alla sua prevenzione, le tipologie di protezione e le procedure da adottare in caso di emergenza.
Un intero capitolo è dedicato ad esercitazioni pratiche, come l’utilizzo degli estintori, delle maschere antigas, e dei dispositivi di protezione individuale.
In appendice sono disponibili esempi di piani di evacuazione ed emergenza (14.02.2013 - link a www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 14.02.2013 n. 38 "Regolamento recante attività di competenza del Ministero della difesa in materia di sicurezza della navigazione aerea e di imposizione di limitazioni alla proprietà privata nelle zone limitrofe agli aeroporti militari e alle altre installazioni aeronautiche militari" (Ministero della Difesa, decreto 19.12.2012 n. 258).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: F. Grilli, Sono nulli i contratti in forma pubblica amministrativa non elettronica? (13.02.2013 - link a www.leggioggi.it).

APPALTI: M. Gnes, La nuova disciplina sui ritardi dei pagamenti (D.Lgs. 09.11.2012 n. 192) (Giornale di diritto amministrativo n. 2/2013 - tratto da www.ipsoa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: L. Carbone, “PASSAGGIO” DALLA TARIFFA FORENSE AI PARAMETRI: LE PROBLEMATICHE DELLA DISCIPLINA TRANSITORIA (Il corriere giuridico n. 11/2012 - tratto da www.ipsoa.it).

CORTE DEI CONTI

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTIIl catasto è gratis. Banca dati aperta per i comuni. Corte conti Emilia: da pagare solo i servizi extra.
L'accesso dei Comuni alla banca dati catastale deve essere totalmente gratuito. All'amministrazione richiedente deve restare a carico solo l'eventuale costo collegato alla richiesta di servizi specifici e prestazioni straordinarie.
È quanto ribadisce la sezione regionale di controllo della Corte dei Conti per l'Emilia Romagna, nel testo del parere 31.01.2013 n. 37.
Nei fatti, il Comune di Anzola dell'Emilia comunicava che, per necessità di implementare il proprio sistema informativo territoriale, per l'esecuzione di controlli in materia di tributi comunali e per attuare le disposizioni in materia di partecipazione dei comuni alle attività di accertamento fiscale, richiedeva all'ufficio provinciale dell'Agenzia del territorio l'accesso alla banca dati catastali, ricevendo il nulla osta subordinato alla richiesta di un corrispettivo. Pertanto, il primo cittadino del comune istante ha sollevato dubbi sulla legittimità dei corrispettivi pretesi in tal senso dall'ufficio del Territorio.
La Corte rispondeva rilevando che, sul punto, soccorrono numerose disposizioni legislative. In primo luogo, l'articolo 50, comma 2, del dlgs n. 82/2005, ove si prevede che qualunque dato trattato dalle pubbliche amministrazioni, nel rispetto delle norme sulla privacy, è reso accessibile e fruibile alle altre amministrazioni, qualora l'utilizzazione del dato sia necessaria per lo svolgimento di compiti istituzionali delle amministrazioni richiedenti.
In più, ha rimarcato la Corte nella sua attenta disamina, nel testo del decreto legge n. 78/2010 (artt. 18 e 19), che disciplina la collaborazione dei comuni all'accertamento tributario e contributivo, è espressamente sancito che ai comuni viene garantito l'acceso gratuito all'Anagrafe Immobiliare, così da permettere alle stesse amministrazioni comunali la «piena accessibilità e interoperabilità» con le banche dati dell'Agenzia del territorio.
Pertanto, da questo corollario normativo, si legge nel parere della Corte, emerge inequivocabilmente un generale principio di gratuità per l'accesso dei comuni alla banca dati catastale.
A carico del comune richiedente può ricadere soltanto il costo legato all'effettuazione di servizi connessi a particolari e straordinarie esigenze (articolo ItaliaOggi del 16.02.2013 - link a www.ecostampa.it).

TRIBUTICondono con limiti temporali. Delibera della corte conti Campania sui tributi locali.
Sono illegittimi i condoni dei tributi locali adottati dai comuni per le annualità successive al 2002.
Lo ha affermato la Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Campania, con il parere 17.01.2013 n. 10.
Per i giudici contabili, sono illegittimi i condoni «a catena» che i comuni hanno deliberato per gli anni successivi al 2002.
La norma che ha previsto la sanatoria, infatti, «deve essere oggetto di stretta interpretazione», in quanto ha «natura di evento eccezionale nell'ambito dell'ordinamento giuridico» e «non consente alcuna interpretazione estensiva». Non è possibile, secondo la Corte, fare ricorso al condono per «un arco temporale indefinito». Dunque, deve essere limitato ai periodi di imposta antecedenti al 01.01.2003, data di entrata in vigore dell'articolo 13 della legge 289/2002 che lo ha istituito.
Questa interpretazione, però, si pone in contrasto con quanto sostenuto dal ministero dell'economia e delle finanze, il quale più volte ha sostenuto che la facoltà dei comuni di istituire, con regolamento, la definizione agevolata delle violazioni tributarie non fosse soggetta a limiti temporali. Peraltro, anche la Cassazione non si è espressa in maniera univoca sulla questione. Sebbene con la sentenza 12679/2012 ha giudicato illegittima la delibera del comune di Roma che aveva istituito il condono delle liti pendenti instaurate dopo l'entrata in vigore della Finanziaria 2003 e ha ritenuto l'amministrazione comunale priva del potere di deliberare la sanatoria a distanza di anni da quando il legislatore gli ha riconosciuto questa facoltà.
Si legge nella motivazione della sentenza che la possibilità per il contribuente di conseguire la sospensione del giudizio in corso, in seguito alla presentazione dell'istanza di condono, è ancorata dall'articolo 13 alla presenza di due presupposti: che si tratti di obblighi tributari sorti prima della sua entrata in vigore, vale a dire fino al 31.12.2002, e che, alla stessa data, la procedura di accertamento o i procedimenti contenziosi in sede giurisdizionale fossero già stati instaurati. Mancando questi requisiti il condono è illegittimo, in quanto il potere non è esercitabile sine die.
In realtà, molti comuni hanno adottato la sanatoria anche per gli anni successivi al 2002, considerato che l'articolo 13 è tuttora vigente e non pone dei limiti temporali. La Finanziaria 2003 ha attribuito agli enti locali la facoltà di prevedere eventuali forme di condono sui tributi di loro competenza. Quindi, il potere di disciplinare con regolamento la riduzione dell'ammontare delle imposte e tasse loro dovute, escludendo o riducendo gli interessi e le sanzioni a carico del contribuente.
L'unico obbligo imposto ex lege, nel rispetto dello Statuto del contribuente (legge 212/2000), riguarda il termine minimo che deve intercorrere tra l'entrata in vigore del regolamento e la scadenza degli adempimenti a carico degli interessati. E' stata infatti lasciata agli enti la facoltà di fissare autonomamente il termine per regolarizzare le violazioni commesse, purché non inferiore a 60 giorni dalla data di pubblicazione dell'atto regolamentare (articolo ItaliaOggi del 15.02.2013 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Locazioni della PA, adeguamenti Istat ''congelati' fin dal 07.07.2012.
La recenti disposizioni in materia di contenimento della spesa pubblica, laddove prevedono che, in considerazione dell'eccezionalità della situazione economica e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di ''risparmio'', per gli anni 2012, 2013 e 2014, l'aggiornamento relativo alla variazione degli indici ISTAT, previsto dalla normativa vigente, non si applica al canone dovuto dalle Amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della Pubblica Amministrazione a decorre dal 7 luglio 2012 e, quindi, esplica efficacia contenitiva dei canoni a far tempo da tale data.
Il parere in rassegna, pronunciato dalla Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, giusto parere 14.11.2012 n. 472, a fronte dell'interpello di un Sindaco formulato ex art. 7, comma 8, L. 05.06.2003, n. 131, ritiene che l'art. 3, comma 1, D.L. 06.07.2012, n. 95, convertito nella L. 07.08.2012, n. 135, laddove prevede che "In considerazione dell'eccezionalità della situazione economica e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di contenimento della spesa pubblica, a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento, per gli anni 2012, 2013 e 2014, l'aggiornamento relativo alla variazione degli indici ISTAT, previsto dalla normativa vigente, non si applica al canone dovuto dalle Amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della Pubblica Amministrazione (...)", decorre dal 07.07.2012 e, quindi, esplica efficacia contenitiva dei canoni a far tempo da tale data.
E' di tutta evidenza la ratio della disposizione, ovvero la riduzione delle spese per acquisti di beni e servizi (tra cui quelle per locazioni passive), da parte dei soggetti pubblici citati nel preambolo del decreto, e posta alla base di altre previsioni normative, tra cui proprio l'art. 3, il quale dispone, in particolare, che l'aggiornamento relativo alla variazione degli indici ISTAT, previsto dalla normativa in relazione alle locazioni passive, non si applichi al canone dovuto dalle amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della p.a..
Si tratta, in altri termini di un blocco degli aggiornamenti ISTAT dei canoni dovuti per le locazioni passive delle P.A. per gli anni 2012, 2013 e 2014, in forza del quale, sostanzialmente, in deroga a quanto pattuito per i contratti in essere, dal 07.07.2012 (data di entrata in vigore del decreto), gli aggiornamenti annuali ISTAT non sono applicabili.
In merito, dubbi interpretativi sono immediatamente sorti sul perimetro d'applicazione del blocco dell'aggiornamento ISTAT, stante un'imprecisione normativa dovuta al riferimento del comma 1, in commento, all'annualità 2012, e contemporaneamente all'espressa previsione di decorrenza dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento (07.07.2012).
E' per questo che il Comune istante chiede al magistrato contabile di conoscere se il mancato adeguamento ISTAT valga retroattivamente dal primo gennaio 2012, o piuttosto decorra dal 07.07.2012: il pagamento di canoni al lordo dell'adeguamento ISTAT costituirebbe, infatti, danno patrimoniale arrecato all'ente per aver sostenuto spese in violazione della legge.
L'interpellata Corte dei Conti-Emilia Romagna, col parere 14.11.2012 n. 472, risolve il quesito svolgendo due considerazioni di fondo:
- in primo luogo, emerge la chiara formulazione della norma che esplicitamente introduce e individua sul piano letterale la propria dimensione, circoscrivendo, formalmente, da un lato l'orizzonte applicativo temporale ("per gli anni 2012, 2013, 2014") e, dall'altro, individuando apertamente l'avvio della portata prescrittiva, esprimendosi con la formula: "a decorrere dall'entrata in vigore del presente provvedimento";
- in secondo luogo, conferma compiutamente tale convincimento la relazione tecnica all'art. 3, comma 1, D.L. n. 95 del 2012 in analisi, relazione autorevolmente ripresa e, per questa parte, avvalorata in sede di resoconti Parlamentari, dalla quale si evince che il risparmio di spesa corrente, stimato, programmaticamente, per il 2012, a seguito dell'introduzione del provvedimento in esame, risulta notevolmente contenuto in rapporto alle previsioni relative al 2013, 2014, proprio a motivo della diversità temporale del riferimento applicativo.
Tutto ciò premesso, la Corte, sul piano logico-giuridico, ricava necessariamente una decorrenza della norma in esame a far tempo dal 07.07.2012 e, quindi, un'efficacia contenitiva dei canoni, indotta dal prescritto non aggiornamento dell'indice ISTAT, a far tempo dalla predetta data (commento tratto da www.ipsoa.it).

NEWS

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCONSIGLIO DEI MINISTRI/ Ok definitivo al decreto con i nuovi obblighi per gli uffici. La p.a. ora non ha più segreti. Trasparenti patrimoni, rendiconti, contratti, incarichi.
In attuazione del principio di accessibilità totale delle informazioni, previsto l'obbligo di pubblicità delle situazioni patrimoniali di politici e parenti entro il secondo grado; pubblici anche i rendiconti dei gruppi consiliari regionali e provinciali; accessibili e da pubblicare i dati sui premi del personale pubblico e sul trattamento accessorio; ampliata la sfera di dati relativi ai contratti pubblici di lavori, forniture e servizi che devono essere resi pubblici; trasparenza anche sugli incarichi dei dipendenti pubblici; previsto il previsto il Piano triennale per la trasparenza e l'integrità, che detta gli obblighi di trasparenza e gli obiettivi collegati con il piano della performance.
Queste le novità più rilevanti del decreto con la disciplina degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni da parte delle p.a. approvato ieri in via definitiva dal consiglio dei ministri.
L'articolato conferma in larga parte la versione approvata in via preliminare e recepisce le osservazioni contenute nei pareri del Garante della privacy e di Regioni, province e Comuni che hanno partecipato alla Conferenza unificata.
Le modifiche
Fra le modifiche apportate a valle della Conferenza unificata si segnala la previsione per cui le Regioni a statuto speciale e le Province di Trento e Bolzano possano individuare specifiche forme di applicazione della nuova disciplina in ragione della peculiarità dei loro ordinamenti. Inoltre , su richiesta delle Regioni, è stata introdotta la pubblicazione dei dati relativi al livello del benessere organizzativo interno alle pubbliche amministrazioni e la pubblicazione dei risultati delle indagini di «customer satisfaction» effettuati.
Data la definizione del principio generale di trasparenza come accessibilità totale delle informazioni che riguardano l'organizzazione e l'attività delle p.a., allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche, venendo al contenuto dei principali obblighi, per quel che riguarda i politici, il regolamento stabilisce l'obbligo di pubblicità delle situazioni patrimoniali di politici, e parenti entro il secondo grado. Dovranno essere resi pubblici poi gli atti dei procedimenti di approvazione dei piani regolatori e delle varianti urbanistiche; i dati, in materia sanitaria, relativi alle nomine dei direttori generali, oltre che agli accreditamenti delle strutture cliniche.
Rendiconti e incarichi
Evidenza pubblica anche per la pubblicazione dei rendiconti dei gruppi consiliari regionali e provinciali, nonché per gli atti e le relazioni degli organi di controllo, da parte delle regioni, delle province autonome e delle province, evidenziando, in particolare, le risorse trasferite a ciascun gruppo, con indicazione del titolo di trasferimento e dell'impiego delle risorse utilizzate.
Trasparenza assoluta per gli incarichi dei dipendenti pubblici: si prevede infatti che siano pubblicati sul sito dell'amministrazione di appartenenza del dipendente l'elenco di tutti gli incarichi autorizzati, con l'indicazione della durata e del compenso spettante per ogni incarico, in aggiunta alla pubblicazione del singolo incarico sul sito dell'amministrazione conferente, diversa da quella di appartenenza. Per i soggetti esterni all'amministrazione rimane fermo l'elenco complessivo degli incarichi affidati consultabile sulla banca dati del Dipartimento della funzione pubblica.
I premi
Da pubblicare anche i dati relativi all'ammontare complessivo dei premi stanziati per la performance dei dipendenti pubblici e l'ammontare dei premi effettivamente distribuiti. Inoltre le amministrazioni dovranno pubblicare i dati relativi all'entità del premio mediamente conseguibile dal personale, i dati relativi alla distribuzione del trattamento accessorio, in forma aggregata. Lo scopo da perseguire con questa pubblicazione è quello di dare conto del livello di selettività utilizzato nella distribuzione dei premi e degli incentivi.
Per quel che riguarda i contratti pubblici il provvedimento declina i principi di trasparenza e pubblicità come obbligo di pubblicazione delle informazioni sui siti istituzionali di ciascuna amministrazione pubblica in modo da rendere conoscibili ed accessibili gli elementi delle procedure di affidamento (l'oggetto del band, l'elenco degli offerenti, l'aggiudicatario, l'importo di aggiudicazione, i tempi di completamento dell'opera, servizio o fornitura; l'importo delle somme liquidate).
Entro il 31 gennaio di ogni anno, tali informazioni, relativamente all'anno precedente, dovranno essere pubblicate in tabelle riassuntive rese liberamente scaricabili in un formato digitale standard aperto) per un maggior controllo sull'imparzialità degli affidamenti, nonché una maggiore apertura degli appalti pubblici alla concorrenza.
Obblighi di pubblicazione
Opportunamente la norma richiama, attraverso una formula omnicomprensiva, tutti gli obblighi di pubblicazione, in materia di contratti pubblici, derivanti dalla normativa nazionale, citando espressamente anche le norme che impongono alle stazioni appaltanti la pubblicazione sui quotidiani per estratto degli avvisi e bandi di gara, oltre a tutte le altre norme che prevedono la pubblicazione sulla gazzetta ufficiale, sui siti istituzionali e sui siti delle singole amministrazioni (avvisi di preinformazione, pubblicità dei sistemi di qualificazione nei cosiddetti settori speciali ecc.).
Di particolare rilievo anche l'obbligo di pubblicare la delibera a contrarre che dispone il ricorso all'affidamento con procedura negoziata senza bando e invito ad almeno tre soggetti (o cinque per i servizi di ingegneria e architettura). Prevista anche la pubblicità dei processi di pianificazione, realizzazione e valutazione delle opere pubbliche. Viene disciplinato il Piano triennale per la trasparenza e l'integrità –che è parte integrante del Piano di prevenzione della corruzione– e che deve indicare le modalità di attuazione degli obblighi di trasparenza e gli obiettivi collegati con il piano della performance.
Nel piano dovranno anche essere indicati gli obiettivi collegati con il piano della performance previsto dal dlgs n. 150/2009, dal momento che il perseguimento di obiettivi di maggiore trasparenza deve costituire area strategica organizzativa e individuale della pubblica (articolo ItaliaOggi del 16.02.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIACONSIGLIO DEI MINISTRI/ Ultimo sì per la semplificazione degli adempimenti. L'ambiente alleggerisce le pmi. Autorizzazione unica. E la regione potrà snellire ancora.
Meno adempimenti in materia ambientale per le imprese. Arriva l'autorizzazione unica ambientale (Aua) che sostituisce fino a sette procedure diverse (ad esempio: l'autorizzazione allo scarico di acque reflue industriali, l'autorizzazione alle emissioni in atmosfera, la documentazione previsionale di impatto acustico ecc.).
Basterà un'unica domanda da presentare per via telematica allo Sportello unico per le attività produttive per richiedere l'unica autorizzazione necessaria. Le Regioni potranno estendere ulteriormente il numero di atti compresi nell'Aua (si veda ItaliaOggi di ieri).

Il consiglio dei ministri ha approvato ieri in via definitiva il regolamento che disciplina l'Aua e la semplificazione degli adempimenti amministrativi in materia ambientale per le imprese e gli impianti non soggetti ad autorizzazione integrata ambientale.
L'Aua, spiega una nota di palazzo Chigi, costituisce il primo blocco della semplificazione delle procedure di autorizzazione ambientali, peraltro già previste nel decreto semplificazioni, con particolare riferimento ad Autorizzazione integrata ambientale e Valutazione d'impatto ambientale. La piena applicazione dell'Aua, secondo l'esecutivo, garantirà un risparmio complessivo di 700 milioni di euro all'anno per le pmi.
Vediamo le altre novità.
Detenuti. Il presidente del Consiglio ha riferito di aver firmato il decreto, proposto dal ministro della giustizia, che destina 16 milioni di euro agli interventi per favorire l'attività lavorativa dei detenuti, in attuazione della legge n. 193 del 2000.
Sisma. Il Consiglio, a seguito della richiesta delle regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto ha deliberato una deroga al limite (previsto dalla legge di Stabilità 2013) del 20% all'acquisto di beni mobili e all'affitto di beni immobili a favore dei comuni colpiti dal sisma del maggio 2012. La deroga garantirà ai comuni danneggiati di far fronte alle spese di allestimento degli immobili destinati a servizi di pubblica utilità, in particolare le scuole e i municipi.
Incompatibilità. Il Consiglio ha avviato l'esame di un decreto legislativo che attua la legge anti-corruzione nella parte relativa alla inconferibilità e incandidabilità di incarichi nelle p.a. e negli enti controllati (si veda ItaliaOggi di ieri).
Enti locali. Ok via preliminare a un regolamento sulla composizione e sulle modalità di funzionamento della Commissione per la stabilità finanziaria degli enti locali. Esso riduce di quattro unità il numero di componenti della Commissione (da 15 a 11); prevede che la partecipazione alle sedute sia svolta a titolo gratuito e non dia diritto ad alcun rimborso spese a carico del ministero; disciplina la sottocommissione, costituita da otto rappresentanti statali e quattro rappresentanti Anci.
Vigili del fuoco. Approvato in via preliminare anche il regolamento che disciplina i tempi e le modalità di attuazione del trasferimento della flotta aerea antincendio della Protezione civile al Dipartimento dei vigili del fuoco. Le operazioni di trasferimento dovranno terminare entro i 30 giorni che precedono l'inizio della campagna antincendio boschivo 2013. In caso contrario il regolamento prevede che vengano sospese e completate entro i 30 giorni successivi alla fine della campagna.
Ozono. Varato in via preliminare il decreto legislativo che disciplina le sanzioni per la violazione delle norme europee sulle sostanze che riducono lo strato di ozono (Regolamento Ce n. 1005 del 2009 del Parlamento europeo e del Consiglio). La normativa europea ha l'obiettivo di contribuire alla riduzione delle emissioni di ozono inquinante prevista dal Protocollo di Montreal e stabilisce le norme in materia di produzione, importazione, esportazione, immissione sul mercato, uso, recupero, riciclo rigenerazione e distruzione delle sostanze che riducono lo stato di ozono.
Il regolamento attribuisce agli stati membri di disciplinare le sanzioni nel rispetto dei principi di efficacia, proporzionalità e dissuasione. Il decreto approvato dal Consiglio disciplina pertanto le sanzioni amministrative e pecuniarie per tutte le violazioni alle norme del Regolamento (articolo ItaliaOggi del 16.02.201).

EDILIZIA PRIVATAImpianti termici, ispezioni indipendenti.
Ispezioni per gli impianti termici effettuate in maniera indipendente da esperti qualificati o riconosciuti. Semplificazioni amministrative per i cittadini e le p.a. in tema di controlli e ispezioni dei sistemi di condizionamento dell'aria.
Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri due regolamenti che attuano il decreto legislativo n. 192 del 2005 e uniformano le norme italiane alla direttiva europea sul rendimento energetico in edilizia (direttiva n. 2002/91/Ce).
Il primo regolamento (si veda ItaliaOggi di ieri) riguarda l'esercizio, la conduzione, il controllo, la manutenzione e l'ispezione degli impianti termici per la climatizzazione invernale ed estiva degli edifici e per la preparazione dell'acqua calda per usi igienici sanitari.
Il secondo regolamento definisce i requisiti professionali e i criteri di accreditamento necessari per assicurare la qualificazione professionale e l'indipendenza dei tecnici esperti e degli organismi abilitati a rilasciare la certificazione energetica degli edifici.
Scioperi. Disco verde in via preliminare a un regolamento che modifica le norme per l'amministrazione e la contabilità della Commissione di garanzia per l'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici. In particolare il regolamento attribuisce in via esclusiva al Coordinatore generale i compiti di gestione dell'Ufficio e riserva al presidente della Commissione le funzioni di indirizzo e controllo. Tra i compiti di gestione sono inclusi l'individuazione e la ripartizione dei fondi in entrata e in uscita in appositi capitoli, le variazioni al bilancio di previsione, la predisposizione dei mandati di pagamento delle spese e la stipula dei contratti.
Norme Ue: gas serra e sicurezza lavoro. Approvati in via definitiva due decreti che recepiscono la normativa comunitaria. Il primo provvedimento recepisce le significative modifiche introdotte dalla direttiva 2009/29/Ce al sistema comunitario per lo scambio delle quote di emissione di CO2 - ETS. Definisce in maniera più puntuale il campo di applicazione per quanto riguarda gli impianti di combustione ed ha esteso il sistema ad altri gas diversi dalla CO2. E disciplina il metodo di assegnazione delle quote prevedendo che le quote vengano assegnate mediante asta.
Più precisamente, per gli impianti termoelettrici e per gli impianti per la cattura e lo stoccaggio del carbonio l'assegnazione sarà, salvo qualche eccezione, totalmente a titolo oneroso («full auctioning»), mentre per gli impianti dei settori diversi dal termoelettrico è prevista una transizione graduale verso il «full auctioning». Il decreto definisce anche le modalità per la gestione delle aste, che avverranno a livello nazionale con regole armonizzate stabilite a livello comunitario, prevedendo che una cospicua parte dei proventi derivanti dalle aste vengano destinati al Ministero dell'ambiente per politiche di mitigazione e per favorire gli adattamenti ai cambiamenti climatici (ad esempio la riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra, lo sviluppo delle fonti rinnovabili e dell'efficienza energetica, l'incentivazione della cattura e lo stoccaggio geologico ambientalmente sicuri di CO2).
Il secondo provvedimento attua le norme europee in materia di semplificazione e razionalizzazione delle relazioni all'Unione europea sull'attuazione pratica in materia di salute e sicurezza sul lavoro. La semplificazione consiste nell'invio di una relazione unica all'Unione europea sullo stato di attuazione di tutte le direttive in materia di salute e sicurezza sul lavoro (confronta comunicato stampa n. 56 del 30.11.2012)
Militari stranieri. Varata in via preliminare una modifica al regolamento n. 1666 del 1956, concernente le modalità di esercizio della rinuncia alla giurisdizione penale italiana nei confronti di militari stranieri nell'ambito Nato, che adegua per il futuro le vecchie disposizioni alle norme del codice di procedura penale e consente l'esercizio della rinuncia coerentemente con la precisazione dei fatti nel corso del processo (articolo ItaliaOggi del 16.02.2013).

APPALTII certificati antimafia ora li rilascia solo la prefettura.
Dal 13 febbraio stop al rilascio dei certificati antimafia da parte della Camera di commercio. I soggetti che hanno rapporti contrattuali o di natura autorizzatoria con pubbliche amministrazioni devono richiedere la certificazione antimafia presso le prefetture.
Questo in seguito all'entrata in vigore del dlgs del 15/11/2012 n. 218 che ha abrogato il dpr del 03/06/1998 n. 252 e ha stabilito che la Camera di commercio non è più competente al rilascio dei certificati del registro delle imprese integrati con la dicitura antimafia né al privato che si presenta allo sportello né alle pubbliche amministrazioni o privati gestori di servizi pubblici. Le nuove disposizioni antimafia (dlgs 15.11.2012, n. 218) comportano anche l'aumento del numero di soggetti e operatori economici soggetti alle verifiche antimafia necessarie per il rilascio delle informative.
Tra questi ora ci sono anche i gruppi europei di interesse economico, i membri dei collegi sindacali di società ed associazioni anche prive di personalità giuridica, chi esercita poteri di amministrazione, rappresentanza o direzione dell'impresa per le società costituite all'estero prive di sede secondaria con rappresentanza stabile in Italia, le società concessionarie nel settore dei giochi pubblici. Si rammenta che, ai sensi dell'art. 15 della legge 183/2011, le Pubbliche amministrazioni nonché i gestori di pubblici servizi non possono più richiedere ai cittadini alcun tipo di certificato (compreso quello antimafia), ma solo dichiarazioni sostitutive di certificazione.
Pertanto, esclusivamente gli enti pubblici e i soggetti equiparati potranno rivolgersi alle prefetture per la verifica delle autocertificazioni ricevute. La documentazione antimafia deve essere richiesta alla prefettura dalle pubbliche amministrazioni e gli enti pubblici, anche costituiti in stazioni uniche appaltanti, dagli enti e dalle aziende vigilati dallo Stato o da altro ente pubblico e dalle società o imprese comunque controllate dallo Stato o da altro ente pubblico nonché dai concessionari di opere pubbliche e dai contraenti generali di cui all'art. 76 del dlgs. 163/2006 (articolo ItaliaOggi del 16.02.2013 - link a www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIIncompatibilità. Primo sì del Consiglio dei ministri al decreto attuativo sulle cause di «inconferibilità» nelle pubbliche amministrazioni e nelle Asl.
Altolà ai condannati nella Pa. Non potrà essere ministro, assessore o manager pubblico chi ha sentenza anche non definitiva.
EX MINISTRI/ Incarichi in enti o società controllate vietati per un anno Via libera definitivo del Cdm al decreto sulla trasparenza negli uffici pubblici.

Stop alle "porte girevoli" tra politica e amministrazione. Il Consiglio dei ministri di ieri –che ha dato l'ok definitivo al decreto sulla trasparenza nella Pa– ha esaminato anche in via preliminare il decreto attuativo della legge anticorruzione che impone l'alt di un anno agli ex membri di governo che vogliono assumere incarichi nelle amministrazioni statali in cui hanno esercitato la carica oppure in Spa finanziate o vigilate dallo Stato o da enti locali. Il divieto varrà anche per chi ha subito una sentenza di condanna (anche non definitiva) per reati contro la pubblica amministrazione.
Il Governo Monti prova dunque a esercitare la delega della legge Severino sulla prevenzione dei fenomeni di corruzione e malamministrazione dello Stato. Il Dlgs discusso a Palazzo Chigi stabilisce in primo luogo, che i condannati per reati contro la Pa con una pronuncia non passata in giudicato (oppure per chi ha patteggiato), non possano ricoprire: posizioni di vertice nelle amministrazioni statali regionali e locali (ministri, viceministri, sottosegretari, consiglieri, assessori, sindaci eccetera); ruoli dirigenziali e di amministratori di enti pubblici nazionali, regionali e locali; cariche dirigenziali, sia interne che esterne, nella Pa e negli enti di diritto privato in controllo pubblico (nazionali, regionali e locali); incarichi di direttore generale, direttore sanitario e amministrativo nelle Asl. E ciò per un periodo massimo di 5 anni. Il divieto diventa perpetuo se la condanna è passata in giudicato e se è accompagnata dall'interdizione permanente dai pubblici uffici.
Lo stesso provvedimento fissa inoltre i criteri per l'«inconferibilità» di mandati nelle amministrazioni statali, regionali e locali a soggetti che provengono da enti di diritto privato regolati o finanziati. Stop anche agli incarichi per chi nell'anno precedente è stato premier, ministro o sottosegretario. Tutti questi soggetti per un anno non potranno avere incarichi amministrativi di vertice e dirigenziali nelle Pa in cui hanno esercitato la carica, così come non potranno diventare amministratori di enti pubblici o di un ente di diritto privato in regime di controllo pubblico di livello nazionale, controllati, vigilati o finanziati dallo Stato, che operano prevalentemente nei settori connessi con la carica ricoperta.
Nuove regole anche per gli incarichi direttivi nel comparto sanità. I candidati, non eletti, «in elezioni europee, nazionali, regionali e locali, in collegi elettorali che comprendano il territorio di competenza della asl» non potranno guidare le aziende sanitarie locali per 5 anni. Stop che sarà invece di due anni per gli ex membri di governo o di uno per gli ex parlamentari. Accanto all'«inconferibilità» il Dlgs sancisce poi le cause d'«incompatibilità» per le stesse categorie di soggetti. E applicando le disposizioni citate poc'anzi.
Il Cdm di ieri ha dato poi l'ok definitivo al nuovo regolamento sulla trasparenza amministrativa e sull'obbligo di pubblicazione dei dati sulle situazioni patrimoniali di politici, e parenti entro il secondo grado. Adeguando il testo licenziato dal Governo in prima lettura il 22 gennaio scorso alle indicazioni del garante della privacy. In tal senso le Pa non potranno rendere noti i dati identificativi delle persone fisiche destinatarie di sussidi e ausili finanziari, se da questi è possibile ricavare informazioni relative allo stato di salute o alla situazione di disagio economico-sociale degli interessati. Su richiesta delle Regioni, l'Esecutivo ha anche previsto che le Pa potranno pubblicare i dati relativi al livello del benessere organizzativo interno alle pubbliche amministrazioni e i risultati delle indagini di customer satisfaction.
Confermato in blocco il resto del provvedimento. In primis l'obbligo di pubblicazione degli atti dei procedimenti di approvazione dei piani regolatori e delle varianti urbanistiche, nonché dei dati, in materia sanitaria, relativi alle nomine dei direttori generali, oltre che agli accreditamenti delle strutture cliniche. Spazio al principio della totale accessibilità delle informazioni sulla falsa riga del Freedom of Information Act statunitense, che garantisce l'accessibilità di chiunque lo richieda a qualsiasi documento o dato in possesso delle Pa, salvo i casi in cui la legge lo esclude espressamente.
Degno di nota inoltre il diritto di accesso civico agli atti dell'amministrazione in base al quale tutti i cittadini hanno diritto di chiedere e ottenere che le amministrazioni pubbliche rendano noti atti, documenti e informazioni che detengono e che, per qualsiasi motivo, non hanno ancora divulgato. E non mancano misure ad hoc sui concorsi pubblici. Oltre al rispetto degli obblighi di pubblicità legale, gli uffici pubblici dovranno rendere noti i bandi per il reclutamento a qualsiasi titolo di personale. Previsti infine gli obblighi di aggiornamento costante dell'elenco dei bandi e di indicazione on-line di quelli svolti negli ultimi due anni. Con tanto di report su dipendenti assunti e spese sostenute (articolo Il Sole 24 Ore del 16.02.2013 - link a www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATAControlli sulle caldaie con intervalli ridotti.
ESTATI MENO FRESCHE/ Fissato a 26 gradi –con 2° di tolleranza– il limite sotto il quale non è consentito in estate abbassare la temperatura.

Nuove regole per gli impianti termici domestici e per il loro utilizzo, d'inverno come d'estate. Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri i regolamenti che attuano il decreto legislativo 192 del 2005 e uniformano le norme italiane alla direttiva europea sul rendimento energetico in edilizia (2002/91/CE), resi necessari proprio dalla procedura d'infrazione europea in corso per il non completo recepimento.
Il primo regolamento riguarda l'esercizio, la conduzione, il controllo, la manutenzione e l'ispezione degli impianti termici per la climatizzazione invernale ed estiva degli edifici e per la preparazione dell'acqua calda per usi igienici sanitari. La nuova normativa interviene sui controlli e sulle ispezioni degli impianti di climatizzazione estiva, che integra quella già esistente per gli impianti di climatizzazione invernale. Le ispezioni per gli impianti termici saranno effettuate in maniera indipendente da esperti qualificati o riconosciuti, nel contesto di semplificazioni amministrative per i cittadini e per la pubblica amministrazione anche per controlli e ispezioni dei sistemi di condizionamento dell'aria.
Il secondo regolamento approvato dal Cdm fissa i requisiti professionali e i criteri di accreditamento necessari per assicurare la qualificazione professionale e l'indipendenza dei tecnici esperti e degli organismi abilitati a rilasciare la certificazione energetica degli edifici.
Dall'entrata in vigore del Dpr la cadenza dei controlli sull'efficienza energetica sarà ogni due anni per gli impianti a combustibile liquido o solido e di quattro anni per quelli a gas, metano o gpl. Solo se la potenza termica è maggiore o uguale a 100 kW i tempi si dimezzano. Di fatto è una rivoluzione, perché quelli con potenza inferiore sono la quasi totalità. I limiti attuali, fissati dai decreti legislativi 192/2005 e 311/2006, sono più severi: per le caldaie sotto i 35 kW di potenza, i controlli sono annuali se il combustibile è liquido o solido, ogni due anni se l'impianto è a gas, è all'interno o supera gli otto anni di età, ogni quattro se la caldaia è di tipo B o C ed è a gas. Tutti gli altri impianti si verificano una volta l'anno.
Novità anche in condominio o negli edifici con unico proprietario ma più unità immobiliari: il proprietario unico o l'amministratore dovranno esporre una tabella con indicati il periodo di accensione e orario di attivazione giornaliera, le generalità e il recapito del responsabile dell'impianto, il codice dell'impianto assegnato dal Catasto territoriale degli impianti termici.
Cambiano invece la figura e le mansioni del responsabile dell'impianto (infatti viene abrogato l'articolo 11 del Dpr 412/1993): la delega al "terzo responsabile" diventerà sempre possibile, tranne nel caso di impianti autonomi in singole unità immobiliari che non siano installati in locali tecnici dedicati (come spesso accade nelle villette). I responsabili rispondono del mancato rispetto delle norme relative all'impianto, anche sotto il profilo della sicurezza e della tutela ambientale. Viene anche fissato il limite dei gradi (media ponderata dei singoli ambienti) sotto i quali non è consentito, nei mesi estivi, abbassare ulteriormente la temperatura: 26 gradi (con -2° di tolleranza).
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Le novità
01 | I CONTROLLI
I controlli sugli impianti energetici saranno ogni 2 anni per quelli a combustibile liquido o solido e di 4 anni per quelli a gas, metano o gpl. Solo se la potenza termica è maggiore o uguale a 100 kW i tempi si dimezzano. Quelli con potenza inferiore sono la quasi totalità degli impianti esistenti
02 | LA PUBBLICITÀ
Novità anche in condominio o negli edifici con unico proprietario ma più unità immobiliari: il proprietario unico o l'amministratore dovranno esporre una tabella con indicati il periodo di accensione e orario di attivazione giornaliera, le generalità e il recapito del responsabile dell'impianto, il codice dell'impianto assegnato dal Catasto territoriale degli impianti termici
03 I TECNICI INDIPENDENTI
Il nuovo regolamento prevede che le ispezioni per gli impianti termici vengano effettuate in maniera indipendente da esperti qualificati o riconosciuti (articolo Il Sole 24 Ore del 16.02.2013).

APPALTI FORNITURENelle forniture responsabilità solidale esclusa. Attesa la circolare dell'Agenzia.
IL PRINCIPIO/ L'analisi della norma porta a considerare fuori dal vincolo anche le prestazioni dei professionisti.

La nuova responsabilità solidale negli appalti (articolo 13-ter del Dl 83/2012) non si applica né alle prestazioni dei professionisti né ai contratti di semplice fornitura di beni o servizi (come trasporto e noleggio).
Questo principio, che deriva da un'interpretazione letterale della norma e dalle regole che informano la disciplina degli appalti, non sembra essere stato ancora metabolizzato dalle imprese committenti, che continuano a inondare di richieste consulenti e prestatori per ottenere da questi ultimi l'agognata autocertificazione che li "esclude" dall'applicazione delle relative sanzioni.
A dire il vero anche negli ultimi convegni in cui sono intervenuti esponenti del l'agenzia delle Entrate le risposte hanno sempre rinviato a una circolare di prossima pubblicazione che dovrebbe definitivamente chiarire il punto.
La specifica normativa va comunque riportata necessariamente nell'ambito giuridico del contratto di appalto. Questa lettura della portata della norma discende dal dettato della disposizione, che espressamente si rivolge ai contratti di appalto di opere e servizi e, sul piano soggettivo individua come destinatari delle nuove regole l'appaltatore, il subappaltatore e il committente.
L'appalto si caratterizza per la presenza di un fare, e questo sin dalla definizione normativa dell'articolo 1655 del Codice civile: «L'appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro». Questo esclude tutti quei contratti in cui invece abbia una prevalenza l'aspetto del dare (compravendita, somministrazione, locazione, eccetera).
La definizione normativa di appalto fa specifico riferimento a «opere» o «servizi»; il fatto che nell'ambito della normativa comunitaria (e poi nazionale) sui contratti pubblici sia comunemente assimilata anche la «fornitura», non può fare sorgere alcun dubbio in ordine al l'esclusione dei contratti privati di fornitura dalla norma in questione. Ciò sia perché la norma in questione esclude espressamente i contratti pubblici dal proprio spettro applicativo, sia perché il nuovo comma 28 recita: «In caso di appalto di opere o di servizi», non includendovi le forniture (si deve registrare l'incongruità della menzione agli «appalti di opere, forniture e servizi» operata al comma 28-ter, mutuata dalla terminologia degli appalti pubblici, e incoerente con il comma 28 che invece chiaramente delinea l'ambito applicativo della solidarietà ai soli appalti di opere o servizi): in assenza di un'interpretazione autentica del legislatore, non può che prevalere la prima disposizione, la quale individua l'ambito applicativo sostanziale della norma, rispetto alla seconda che ne fa un mero –ed erroneo– richiamo al solo fine di specificare che deve trattarsi di appalti soggetti a regime Iva). La stessa agenzia delle Entrate, nella circolare n. 40/E dell'08.10.2012, avvalora tale impostazione laddove riconosce che tale ultima disposizione normativa «ha modificato la disciplina in materia di responsabilità fiscale nell'ambito dei contratti d'appalto e subappalto di opere e servizi».
Andrebbero parimenti esclusi quei contratti che costituiscono locazione d'opera professionale, rispetto ai quali sia la Corte dei conti (Sezione regionale di controllo per la Lombardia - deliberazione n. 37 del 04.03.2008) che il Consiglio di Stato (IV sezione, 29.01.2008 n. 263) hanno segnato una chiara differenza rispetto all'appalto, in particolare per l'inesistenza di una «organizzazione di impresa» che caratterizza invece l'appalto (articolo Il Sole 24 Ore del 15.02.2013 - link a www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATACertificatori indipendenti per il risparmio energetico. Abilitati ingegneri e tecnici iscritti all'albo, enti pubblici operanti in edilizia e impiantistica. Al vaglio dell'esecutivo il regolamento sui requisiti professionali.
Abilitati come certificatori energetici i professionisti tecnici iscritti all'albo e le società di ingegneria e di servizi, le Esco, gli enti pubblici operanti nei settori dell'energia e dell'edilizia e gli organismi di ispezione operanti nel settore edile, dell'ingegneria e civile e dell'impiantistica; previsti requisiti di indipendenza e imparzialità; necessario il superamento di un esame a seguito di apposito corso di formazione; l'attestato di certificazione energetica avrà natura di atto pubblico.
È quanto prevede la bozza di regolamento sui requisiti professionali e i criteri di accreditamento dei certificatori energetici che sarà discusso oggi dal consiglio dei ministri. Si tratta del provvedimento che attua l'art. 4, comma 1, lettera c), del dlgs n. 192/2005 che a sua volta ha attuato la direttiva 2002/91/Ce sul rendimento energetico in edilizia e che dovrebbe porre fine alla procedura d'infrazione avviata dalla Commissione europea per il mancato recepimento della direttiva europea. Potranno essere abilitati e riconosciuti come certificatori in primo luogo i tecnici abilitati operanti sia in veste di dipendenti di enti e organismi pubblici o di società di servizi pubbliche o private, comprese le società di ingegneria, sia come professionista libero o associato.
In questo caso si deve trattare di laureati o diplomati di istruzione tecnica, settore tecnologico, iscritti ai relativi ordini e collegi professionali, ove esistenti, e abilitati all'esercizio della professione relativa alla progettazione di edifici e impianti asserviti agli edifici stessi. Saranno poi abilitati come certificatori gli enti pubblici e gli organismi di diritto pubblico operanti nel settore dell'energia e dell'edilizia, che esplicano l'attività con un tecnico, o con un gruppo di tecnici abilitati, in organico, con gli stessi requisiti dei tecnici abilitati; gli organismi pubblici e privati qualificati a effettuare attività di ispezione nel settore delle costruzioni edili, opere di ingegneria civile in generale e impiantistica connessa, accreditati sulla base delle norme Uni Cei En Iso/Iec 17020 e infine le società di servizi energetici (Esco). Non basterà però essere in possesso di questi requisiti perché le quattro categorie di certificatori dovranno anche acquisire un attestato di frequenza, con superamento dell'esame finale, relativo a specifici corsi di formazione per la certificazione energetica degli edifici.
Richiesta anche una dichiarazione sull'«assoluta imparzialità e indipendenza» del certificatore rispetto all'incarico da acquisire: si dovrà dichiarare l'assenza di conflitto di interessi, tra l'altro espressa attraverso il non coinvolgimento diretto o indiretto nel processo di progettazione e realizzazione dell'edificio da certificare o con i produttori dei materiali e dei componenti in esso incorporati, nonché rispetto ai vantaggi che possano derivarne al richiedente, che in ogni caso non deve essere né il coniuge né un parente fino al quarto grado.
Saranno poi le regioni a dettare le norme di attuazione per adottare un sistema di riconoscimento dei soggetti abilitati come certificatori energetici, per la formazione e l'aggiornamento e per verificare la correttezza e la qualità dei servizi resi all'utenza. Il regolamento prevede anche che l'attestato di certificazione energetica rilasciato dai certificatori abbia natura di atto pubblico (articolo ItaliaOggi del 15.02.2013).

PUBBLICO IMPIEGOPRIVACY/ Provvedimento del garante riconosce i diritti dell'azienda, ma con limiti. Pc dei dipendenti, non si tocca. Controlli previa informazione e nel rispetto della dignità.
Una società non può controllare il contenuto del pc di un dipendente senza averlo prima informato di questa possibilità e senza il pieno rispetto della libertà e della dignità del lavoratore.
Lo ha affermato, con il provvedimento 18.10.2012 n. 307, il garante privacy.
Decidendo un ricorso di un dipendente il garante ha stabilito che nel caso specifico un dipendente è stato licenziato sulla base dei documenti presenti in una cartella personale del pc portatile aziendale, consegnato per il periodico back up. Nella cartella personale si trovavano documenti relativi a una attività svolta dal dipendente in concorrenza con il suo datore di lavoro. La società, secondo il garante, ha violato la privacy del lavoratore in quanto non ha informato il lavoratore sui limiti di utilizzo del bene aziendale e sulla modalità di analisi e verifica sulle informazioni contenute nel pc stesso.
In altre parole l'azienda non ha inserito nella policy aziendale un esplicito riferimento alle operazioni di controllo su tutte le cartelle archiviate nella memoria del computer. Il garante ha, comunque, ribadito che il datore di lavoro può effettuare controlli mirati al fine di verificare l'effettivo e corretto adempimento della prestazione lavorativa e, se necessario, il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro. Quanto all'utilizzo dei dati in sede giudiziaria (nel processo sul licenziamento) è il giudice che deve decidere l'utilizzabilità nel procedimento civile già in corso della documentazione acquisita agli atti.
Punti patente
Estratto conto dettagliato dei punti patente. Si devono indicare tutti i movimenti, in più e in meno, e non solo il saldo finale. Il garante della privacy, con il provvedimento n. 25 del 24.01.2013, ha imposto al ministero delle infrastrutture e dei trasporti di aggiornare sul web il «portale dell'automobilista» in modo da consentire all'interessato di conoscere tutta la movimentazione dei punti patente. La stessa cautela deve essere osservata nell'invio agli automobilisti di estratti cronologici.
Il trattamento delle informazioni relativi ai punti patente costituisce un trattamento di dati personali, soggetto al codice della privacy. È per questo che i dati devono essere esatti e aggiornati. Tuttavia il garante ha accertato che gli estratti cronologici disponibili all'automobilista non contengono, nel dettaglio e cronologicamente, la totalità delle stesse variazioni, traendone la conseguenza che i dati non sono esatti e completi. L'automobilista, in particolare, deve essere messo in grado di capire anche quando le maggiorazioni dei punti, dapprima attribuite per assenza di violazioni, a posteriori vengono cancellate per successive registrazioni di infrazioni da cui deriva la perdita di punti.
Per ripristinare la correttezza delle informazioni il garante ha prescritto al ministero di cambiare entro sei mesi le procedure. In futuro le comunicazioni dovranno contenere i dati relativi alla totalità delle variazioni dei punti della patente, anche se effettuate in modo automatizzato, comprese l'attribuzione di punti che, successivamente, si è rivelata non legittimamente effettuata, in modo che la relativa operazione di annullamento risulti conoscibile all'interessato; questo vale anche per il portale online dell'automobilista.
Il garante suggerisce inoltre di inserire una avvertenza con una dicitura dalla quale si deduca che l'attribuzione dei punti non è definitiva ma è subordinata all'assenza di una violazione di una norma di comportamento da cui derivi la decurtazione del punteggio, per il periodo di due anni. Per il passato il dettaglio dei movimenti deve essere reso disponibile su specifica richiesta dell'interessato (articolo ItaliaOggi del 15.02.2013 - link a www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOIncarichi politici e dirigenziali, condannati bloccati. Corruzione, concussione e altri reati contro la p.a. rendono impossibile il conferimento. Oggi in consiglio dei ministri lo schema di decreto attuativo della legge anticorruzione.
Un freno agli incarichi politici e dirigenziali a coloro che siano condannati per reati contro la pubblica amministrazione e alla commistione tra politica e gestione.
Il Governo ha elaborato lo schema di decreto legislativo, attuativo della delega contenuta nella legge 190/2012 «anticorruzione», allo scopo di fissare i casi di incompatibilità ed inconferibilità sia di cariche elettive, sia degli incarichi dirigenziali nelle pubbliche amministrazioni. Oggi il testo sarà all'esame del consiglio dei ministri.
Reati contro la pubblica amministrazione
Nel caso di reati come corruzione, concussione e le altre fattispecie di reati contro la pubblica amministrazione, il decreto prevede l'assoluta preclusione ad incarichi amministrativi di vertice nelle amministrazioni statali, regionali e locali, come quelli di amministratore di ente, quelli dirigenziali, interni e esterni, comunque denominati, e quelli di direttore generale, direttore sanitario e direttore amministrativo nelle aziende sanitarie locali del servizio sanitario nazionale.
L'inconferibilità scatta anche nel caso di sentenze non ancora passate in giudicato, e diviene perpetua, laddove vi sia anche la condanna all'interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Ai dirigenti di ruolo, per la durata del periodo di inconferibilità, si potranno assegnare incarichi diversi da quelli che comportino l'esercizio delle competenze di amministrazione e gestione.
La situazione di inconferibilità cessa di diritto ove venga pronunciata, per il medesimo reato, sentenza anche non definitiva, di proscioglimento.
Commistione tra politica e gestione
Lo schema di decreto legislativo contiene un complesso reticolo di disposizioni finalizzato a garantire un maggior grado di autonomia della dirigenza dalla politica.
In sostanza, si tende ad impedire che coloro che abbiano rivestito incarichi nell'ambito di organi di indirizzo politico nell'anno o biennio precedente, possano essere destinatari di incarichi dirigenziali sia nelle amministrazioni pubbliche, sia negli enti di diritto privato partecipati o comunque finanziati dalla pubblica amministrazione.
Il conferimento di incarichi dirigenziali, tanto a dipendenti di ruolo, quanto a soggetti esterni, deve essere motivato da ragioni di competenza, non di appartenenza politica.
Il governo, forse memore del fatto che è in larga parte composto da ex appartenenti ai vertici dirigenziali dello Stato, ha, però, previsto che i divieti non si applicano ai dipendenti della stessa amministrazione, ente pubblico o ente di diritto privato in controllo pubblico che, all'atto di assunzione della carica politica, erano già titolari di incarichi.
Gli incarichi amministrativi di vertice, poi, non sono compatibili con l'assunzione di cariche politiche nei territori degli enti locali interessati. Un alto funzionario regionale, ad esempio, non potrà assumere la carica in un consiglio comunale con popolazione superiore ai 15 mila abitanti o provinciale.
Conflitto di interessi
Similmente, le amministrazioni pubbliche non potranno conferire incarichi dirigenziali di qualsiasi tipo a coloro che nei due anni precedenti abbiano svolto funzioni manageriali all'interno di enti di diritto privato regolati o finanziati dall'amministrazione, dall'ente pubblico o dall'ente di diritto privato in controllo pubblico che conferisce l'incarico ovvero abbiano svolto in proprio attività professionali, se queste sono regolate, finanziate o comunque retribuite dall'amministrazione o ente che conferisce l'incarico.
Simmetricamente, i dirigenti pubblici non potranno nel corso dell'incarico incarichi e cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dall'amministrazione, ente pubblico o ente di diritto privato in controllo pubblico che conferisce l'incarico. Lo scopo è sia evitare il cumulo di troppe funzioni e remunerazioni in capo al medesimo soggetto, ma, soprattutto, di scongiurare il pericolo di conflitti di interessi o, comunque, di confusione tra controllore e controllato.
Nullità
Gli incarichi conferiti in violazione delle previsioni del decreto legislativo saranno nulli e in conseguenza di sentenze dichiarative della loro nullità coloro che li hanno conferiti ne rispondono sul piano della responsabilità amministrativa.
Sulla correttezza e rispondenza degli incarichi alle incompatibilità previste dal decreto dovrà vigilare il responsabile della prevenzione della corruzione, che avrà il compito di segnalare le violazioni alla Civit nella veste di Autorità nazionale anti corruzione (che avrà penetranti poteri di controllo e sanzione) e alla Corte dei conti. o schema precisa che le sue disposizioni valgono non solo per coloro che rivestono la qualifica di dirigente, ma, negli enti locali, anche per i funzionari incaricati di funzioni dirigenziali e per i dirigenti extra dotazione organica.
Tutti gli alti funzionari, comunque, dovranno dichiarare di non incorrere nei casi di inconferibilità o incompatibilità sia all'atto di assunzione dell'incarico, sia annualmente, come conferma del permanere del proprio status (articolo ItaliaOggi del 15.02.2013 - link a www.corteconti.it).

TRIBUTILa Tares non si autoliquida. Necessari avvisi di pagamento da parte del comune.  Chiarezza dalle linee guida delle Finanze sul prototipo di regolamento. L'Anci: rinviare.
La Tares non va versata dai contribuenti in autoliquidazione. Deve invece essere pagata solo in seguito alla spedizione degli avvisi di pagamento da parte dei comuni, che devono specificare in dettaglio per ogni utenza le somme dovute per tributo, maggiorazione e tributo provinciale.
Questo importante chiarimento è contenuto nelle linee guida ministeriali sul prototipo di regolamento Tares.
Il tutto mentre ieri l'Anci ha chiesto di spostare la partenza della tares al prossimo anno. «La previsione di luglio della Tares è insostenibile», pertanto «sia cambiata o sia posticipata al 2014, altrimenti avremo un ulteriore aggravio per le casse dei comuni», ha detto il presidente dell'Anci, Graziano Delrio, durante la conferenza stampa sui dati del gettito effettivo dell'Imu (si veda altro articolo in pagina).
Tornando alle linee guida, vengono dunque confermate le vecchie modalità di pagamento, che per tanti anni sono state utilizzate per la riscossione sia della Tarsu che della Tia. Nelle linee guida viene precisato che, pur essendo «scomparso il sistema di riscossione ordinario tramite ruoli che caratterizzava la Tarsu», è stato ritenuto opportuno, «per ragioni di continuità», mantenere la prassi che prevede l'invio ai contribuenti di «inviti di pagamento», che devono indicare le somme da versare e le relative modalità e termini. Pertanto, il comune riscuote il tributo comunale sui rifiuti e i servizi inviando ai contribuenti, «anche per posta semplice», inviti di pagamento che specificano per ogni utenza le somme dovute per tributo, maggiorazione e tributo provinciale, suddividendo l'ammontare complessivo nel numero di rate previste dalla legge o deliberate dall'ente stesso.
Per il 2013 la prima rata si verserà a luglio, in seguito alle modifiche apportate all'articolo 14 del decreto «salva Italia» (201/2011) dall'articolo 1, comma 387, della legge 228/2012. Non è escluso un ulteriore intervento normativo che anticipi la scadenza ad aprile. I comuni, però, possono posticipare ulteriormente la scadenza. Hanno inoltre il potere di variare sia i termini che il numero delle rate di versamento. La legge di stabilità, infatti, ha introdotto modifiche alla disciplina della Tares sul fronte della riscossione.
Fino al 31.12.2013 la gestione del tributo o della tariffa puntuale possono essere affidati ai soggetti che hanno gestito lo smaltimento rifiuti e le attività di accertamento e riscossione di Tarsu, Tia1 e Tia2. Tributo e maggiorazione possono essere pagati con l'F24 o con bollettino di conto corrente postale. Le somme vanno versate direttamente al comune, in quattro rate trimestrali scadenti nei mesi di gennaio, aprile, luglio e ottobre. Fino alla determinazione delle nuove tariffe le somme dovute vanno pagate in acconto, commisurato all'importo versato nel 2012. Per le nuove occupazioni effettuate a partire dal 2013, invece, la tassa va calcolata tenendo conto delle tariffe deliberate nell'anno precedente. Il conguaglio dovrà essere effettuato con la rata da pagare dopo la determinazione delle tariffe.
Anche la maggiorazione va pagata nella misura standard, fissata in 0,30 euro al metro quadrato, senza applicazione di sanzioni e interessi, contestualmente al tributo o alla tariffa, alla scadenza delle prime tre rate. Con l'ultima rata potrà essere operato il conguaglio, qualora il comune dovesse decidere di aumentarla fino a 0,40 euro. È consentito il pagamento in unica soluzione entro il mese di giugno di ciascun anno. In caso di omesso o insufficiente versamento, come per le altre entrate tributarie, si applica la sanzione del 30% prevista dall'articolo 13 del decreto legislativo 471/1997.
Naturalmente il versamento con l'F24, alternativo al pagamento del tributo con il bollettino di conto corrente postale, consente di operare le compensazioni con altri debiti fiscali del contribuente. Nella relazione ministeriale viene posto in rilievo che l'obbligo di riscossione spontanea da parte del comune è in linea con le recenti modifiche in materia di riscossione delle entrate degli enti locali. Mentre per la riscossione coattiva l'articolo 14 fa salva la scelta regolamentare dell'ente di affidare l'incarico a Equitalia o ad altro concessionario iscritto all'albo ministeriale (articolo ItaliaOggi del 15.02.2013 - link a www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPersonale, chiuso il borsellino. Nei bilanci nessuna risorsa aggiuntiva per i contratti. È l'effetto prodotto dalla mancata previsione di coperture nella legge di Stabilità.
I comuni, le province e le regioni non devono prevedere nei propri bilanci preventivi risorse aggiuntive né per il rinnovo dei contratti nazionali né per la tutela retributiva, istituto che ha preso il posto della indennità contrattuale.
È questo il principale effetto determinato dalla mancanza nella legge di stabilità dello stanziamento di risorse aggiuntive destinate al rinnovo dei contratti nazionali e di specifiche disposizioni sul superamento della spesa per il salario accessorio.
Le amministrazioni devono invece dare corso da subito alla approvazione del fondo per le risorse decentrate: non è necessario attendere l'adozione del bilancio preventivo e non sono attese modifiche alle regole per la sua costituzione.
Lo scorso 31.12.2012 è scaduto il blocco della contrattazione collettiva nazionale prevista per il triennio 2010/2012 dal dl n. 78/2010. Ricordiamo che questo doveva essere il primo contratto di durata triennale, sia per la parte normativa che per la parte economica, sulla base delle previsioni della legge Brunetta. Con la scadenza del blocco si sarebbero dovute avviare le trattative per il rinnovo contrattuale. Il che è però impedito, per le amministrazioni statali, dalla mancanza di risorse aggiuntive destinate a questo scopo. E per gli enti locali e le regioni, dalla mancanza di una autorizzazione alla possibilità di stanziare risorse aggiuntive per il rinnovo contrattuale. Peraltro, sulla base del dl n. 98/2011, il governo è autorizzato a disporre il blocco della contrattazione collettiva nazionale quanto meno per il 2013.
Con il dlgs n. 150/2009 la indennità di vacanza contrattuale è stata sostituita dalla tutela retributiva. Essa opera in assenza di rinnovo contrattuale in uno dei seguenti due modi. In primo luogo, con la erogazione entro il mese di aprile degli aumenti previsti dalla legge di stabilità. Ovvero, con la erogazione di un compenso che deve coprire gli aumenti del costo della vita calcolati con la nuova metodologia europea, sulla base delle indicazioni dettate da una specifica intesa nazionale. Per cui, al momento attuale, non è possibile prevedere la erogazione di alcun compenso aggiuntivo per tutela retributiva dei dipendenti. Non si deve considerare in alcun modo in discussione la indennità di vacanza contrattuale erogata nel 2010 in luogo del mancato rinnovo del contratto nazionale del triennio 2010/2012.
Le amministrazioni locali possono costituire il fondo per le risorse decentrate, anche se non è stato approvato il bilancio preventivo, facendo riferimento alle risorse previste nel bilancio pluriennale. Il fondo deve essere costituito dal dirigente con una determinazione, previa deliberazione dell'organo di governo dell'eventuale inserimento di risorse aggiuntive. Le relazioni sindacali sono limitate alla semplice informazione.
Nella costituzione del fondo occorre prevedere in primo luogo l'applicazione integrale delle regole dettate dai Ccnl in vigore; in esse sono comprese l'inserimento nella parte stabile sia della Ria dei dipendenti cessati dal servizio sia dell'importo degli aumenti delle varie posizioni di progressione orizzontale disposti dai contratti nazionali. Successivamente occorre verificare che il fondo così costituito non sia superiore all'importo di quello del 2010. Nel caso in cui ciò avvenga, ad esempio per il recupero di risorse derivanti dalla Ria dei cessati, il fondo deve essere tagliato in modo da restare nel tetto del 2010.
In tale calcolo non vanno considerate le risorse escluse da tale tetto (incentivazione della realizzazione di opere pubbliche, incentivazione degli avvocati, risorse che l'Istat ha destinato alla incentivazione del personale di comuni per il censimento del personale, risparmi che l'ente ha conseguito nel fondo per la contrattazione decentrata dell'anno precedente). Infine occorre verificare il numero dei dipendenti in servizio e, nel caso in cui sia inferiore, rispetto al 2010: nel caso di diminuzione si deve tagliare in misura proporzionale il fondo (articolo ItaliaOggi del 15.02.2013 - link a www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARIResidenza anche senza l'ok sanitario. Idoneità alloggi a maglie larghe.
La mancanza dei requisiti igienico-sanitari di un'abitazione non preclude la possibile fissazione della residenza anagrafica da parte dell'interessato. Le uniche pregiudiziali in tal senso sono infatti previste solo per i cittadini stranieri che richiedono il ricongiungimento familiare.

Lo ha evidenziato il ministero dell'interno con la circolare 14.01.2013 n. 1.
Il pacchetto sicurezza Maroni 94/2009 ha riformulato molte disposizioni di interesse comunale introducendo, tra l'altro, con l'art. 1/18° la possibilità che l'iscrizione anagrafica dei cittadini possa dar luogo alla verifica comunale delle condizioni igienico sanitarie dell'immobile. Per cercare di interpretare correttamente questa disposizione è stato quindi richiesto un parere al Consiglio di stato che si è espresso con la nota n. 4849/2012.
In particolare al collegio sono stati evidenziati i dubbi di alcuni sindaci sulla possibilità di richiedere ai cittadini interessati all'iscrizione anagrafica (e in particolare agli stranieri) documentazione integrativa attestante la sussistenza dei requisiti igienico sanitari dell'immobile. A parere del Consiglio di stato la vicenda igienico sanitaria è estranea alle funzioni dell'ufficiale d'anagrafe. In buona sostanza gli organi di vigilanza hanno facoltà di effettuare anche controlli igienico sanitari ma l'esito di queste verifiche non può ordinariamente interferire con l'iscrizione anagrafica dei richiedenti. A maggior ragione non si può certo limitare questo tipo di accertamento condizionato agli stranieri.
Per quanto riguarda la disciplina di questa categoria di soggetti occorre fare riferimento al comma 19 dello stesso articolo 1della legge 94/2009 il quale dispone che «lo straniero che richiede il ricongiungimento deve dimostrare la disponibilità di un alloggio conforme ai requisiti igienico-sanitari, nonché di idoneità abitativa, accertati dai competenti uffici comunali».
In pratica per ottenere il nulla osta dalla questura lo straniero che intende ricongiungersi con un proprio parente o con il coniuge deve dimostrare la disponibilità di un alloggio idoneo sia dal punto di vista dimensionale che strutturale (articolo ItaliaOggi del 15.02.2013).

ATTI AMMINISTRATIVIP.a., vietato respingere le email. Il cittadino può inviare istanze alla posta certificata. Dalla legge anticorruzione ecco una decisa spinta alla semplificazione dei rapporti.
Vietato respingere le istanze rivolte alle pubbliche amministrazioni, se inviate via mail alla posta elettronica certificata indicata nei siti istituzionali.
L'articolo 1, comma 29, della legge 190/2012, meglio nota come legge anticorruzione, dà una spinta estremamente decisa verso la semplificazione dei rapporti e dei contatti tra cittadini e imprese, da una parte, e amministrazioni dall'altra, puntando sulla telematica.
La norma dispone che ogni amministrazione pubblica deve rendere noto, tramite il proprio sito web istituzionale, almeno un indirizzo di posta elettronica certificata, al quale il cittadino potrà trasmettere istanze ai sensi dell'articolo 38 del dpr 445/2000 e ricevere informazioni circa i provvedimenti e i procedimenti amministrativi che lo riguardano.
Per un verso, si introduce un sistema di relazioni semplici tra amministrazione e cittadino.
Chi non disponga, ad esempio, di strumentazioni idonee per navigare nel sito ed autenticarsi per avvalersi degli eventuali servizi online offerti, anche con un semplice telefonino che si connetta al web può comunque chiedere informazioni sull'andamento delle pratiche di proprio interesse, avendo il diritto a ottenere una risposta, sol che rivolga la mail alla posta elettronica certificata indicata dall'amministrazione.
Soprattutto, la disposizione afferma un principio: le amministrazioni non possono pretendere la forma cartacea o un documento informatico sottoscritto con firma digitale, per avviare i procedimenti amministrativi. L'istanza di parte deve essere comunque accettata e costituisce presupposto per dare il via all'iter amministrativo.
Le amministrazioni hanno, di conseguenza, l'obbligo di dotarsi di almeno una casella di posta elettronica certificata, che è il punto di snodo per la ricezione delle istanze. I sistemi di protocollazione informatica dovranno, poi, assicurare lo smistamento delle mail provenienti da cittadini e imprese verso gli uffici responsabili delle istruttorie.
Quanto previsto dalla legge anticorruzione è estremamente utile per la semplificazione dei rapporti tra amministrazione ed amministrati, ma in parte incompleto. Non si obbliga, infatti, il mittente a utilizzare, a sua volta, una casella di Pec per inviare l'istanza. Manca, così, la possibilità di attribuire certezza giuridica piena sulla provenienza, assicurata, invece, dallo scambio di informazioni Pec su Pec.
A questo proposito, allora, non pare né inopportuno, né in contrasto con lo spirito della norma, richiedere che l'istanza inviata tramite mail sia accompagnata dalla scansione di un documento di identità o, quanto meno, dall'indicazione del numero e della data di scadenza, così che sia possibile ricondurre il documento inviato via mail alla sfera giuridica del mittente. Tale precisazione potrebbe essere contenuta nel regolamento sui procedimenti amministrativi, che, in alternativa, visto che non è semplice per tutti scannerizzare il documento di identità o individuare esattamente i dati identificativi del documento stesso, potrebbe prevedere l'obbligo del rilascio di un recapito telefonico, per ricontattare il mittente, a fini di verifica dell'effettiva provenienza.
Per quanto riguarda le imprese, poiché esse sono obbligate a dotarsi di una casella di Pec, il problema non dovrebbe porsi: si dovrebbe dare per scontato che le loro istanze siano trasmesse tramite posta elettronica certificata. Resta il problema del bollo, qualora, come spesso accade, l'istanza debba scontare l'imposta. Occorre che il portale dell'amministrazione indichi al richiedente come inserire i dati per l'assoluzione in modo virtuale, comunicando il numero identificativo (seriale) della marca da bollo utilizzata, specificando che essa deve essere annullata e conservata (articolo ItaliaOggi del 15.02.2013 - link a www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGOCodice di comportamento. Niente premi a chi sgarra.
Niente premio di produttività per i dipendenti che vìolino il codice di comportamento. Tra le maggiori novità dello schema di codice di comportamento recentemente approvato dal consiglio dei ministri, c'è la previsione espressa che chi «sgarra» non può aspirare ad avere incentivi individuali.
L'attuale testo dell'articolo 15, comma 3, dello schema di regolamento stabilisce che «la grave o reiterata violazione, debitamente accertata, delle regole contenute nel codice, esclude la corresponsione di qualsiasi forma di premialità comunque denominata, a favore del dipendente».
Per la prima volta si innesta nell'ordinamento giuridico un collegamento diretto tra l'esclusione dalla produttività e i comportamenti. Si tratta di una sorta di responsabilità oggettiva: anche laddove il dipendente abbia espletato la propria attività in modo produttivo, ma in violazione delle regole di comportamento, rimane escluso da qualsiasi tipo di incentivazione.
È una conseguenza molto forte sullo status giuridico dei lavoratori. La norma in parte prevede delle prudenze, per evitarne un'applicazione indiscriminata.
Non basterà una semplice violazione del codice di condotta, ma ne occorreranno molteplici «debitamente» accertate. Poiché l'inadempimento agli obblighi del codice comporterà anche responsabilità disciplinare, occorrerà un accertamento probabilmente conseguente alla conclusione di procedimenti disciplinari che si concludano col riconoscimento della responsabilità.
In alternativa, potrebbe essere sufficiente anche una sola violazione, ma qualificabile come «grave», particolarmente incidente, dunque, sia sulla responsabilità disciplinare, sia comportante anche responsabilità civili e amministrative.
Ovviamente, occorrerà una specifica motivazione da parte del dirigente competente, che dovrà rendere evidente il collegamento tra l'esclusione dal premio e l'evento che lo giustifica.
La norma parla di qualsiasi forma di premialità, comunque denominata. Si deve intendere, allora, che essa si estenda a tutti i sistemi premianti attualmente regolati dalla norma, compresa la –per ora comunque congelata– progressione orizzontale, che per quanto determini un aumento economico stabile dello stipendio, è pur sempre originata da una valutazione selettiva e, quindi, costituisce anch'essa uno strumento premiale (articolo ItaliaOggi del 15.02.2013 - link a www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Il sindaco nel quorum. L'esclusione è da indicare espressamente. C'è giurisprudenza non univoca sul regolamento del consiglio.
Ai fini della determinazione del quorum strutturale, previsto dal regolamento di un consiglio comunale, il voto del sindaco com' è computato?

Il legislatore statale (art. 38, comma 2, del Tuel n. 267/2000) ha demandato alla fonte regolamentare, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, il funzionamento dei consigli e la determinazione del numero legale per la validità delle sedute, con il limite che detto numero non può, in ogni caso, essere inferiore al «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tal fine il sindaco_».
Premesso che sulla questione non si riscontrano orientamenti univoci giurisprudenziali (cfr. Tar Puglia sent. 1301/2004, Tar Lazio, sez. II-ter, sentenza n. 497/2011 e Tar Lombardia sentenza n. 1604/2011), si ritiene che il quorum debba essere calcolato includendo il sindaco.
In genere, infatti, le ipotesi in cui, nel quorum richiesto per la validità della seduta non deve essere computato il voto del sindaco o del presidente della provincia, vengono indicate espressamente usando la formula «senza computare a tal fine il sindaco e il presidente della provincia» (articolo ItaliaOggi del 15.02.2013 - link a www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni consultive.
Può essere modificato un Regolamento comunale, al fine di ridurre il numero dei componenti delle commissioni consultive consiliari, ovvero tale riduzione potrebbe compromettere le regole del gioco democratico, non rispecchiando il peso numerico e di voto? Se la delibera fosse già stata adottata dall'ente, a chi spetta l'eventuale pronuncia di legittimità della stessa?

Ai sensi dell'articolo 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000, le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall'apposito regolamento comunale con l'inderogabile limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio devono essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse ne sia riprodotto il peso numerico e di voto.
La proporzionalità, quindi, è volta ad assicurare in seno alle commissioni la maggiore rappresentatività possibile.
Tuttavia, il legislatore non ha precisato in che modo debba essere applicato il citato criterio di proporzionalità. È da ritenersi che spetti al regolamento, cui sono demandate la determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, stabilire i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
Secondo un orientamento giurisprudenziale, il criterio proporzionale può dirsi rispettato ove sia assicurata la presenza in ogni commissione di ciascun gruppo presente in consiglio, in modo che se una lista è rappresentata da un solo consigliere, questi deve essere presente in tutte le commissioni costituite (v. Tar Lombardia, Brescia, 04/07/1992, n. 796; Tar Lombardia Milano, 03/05/1996, n. 567), assicurando una composizione delle commissioni proporzionata all'entità di ciascun gruppo consiliare.
In ogni caso è rimessa all'autonomia organizzativa del comune interessato l'individuazione, anche mediante opportune integrazioni del vigente regolamento, del meccanismo tecnico (quale voto plurimo, voto ponderato o altro) reputato maggiormente idoneo ad assicurare a ciascun commissario un peso corrispondente a quello del gruppo che rappresenta.
Infatti, come precisato dalla stessa giurisprudenza richiamata, il criterio proporzionale «è posto dal legislatore come direttiva suscettibile di svariate opzioni applicative, egualmente legittime purché coerenti con la ratio che quel principio sottende, e che consiste nell'assicurare in seno alle commissioni la maggiore rappresentatività possibile» (Tar Lombardia, n. 567/1996).
In ogni caso, qualora l'ente avesse già adottato la delibera di variazione del regolamento comunale, spetterà al giudice amministrativo ogni eventuale pronuncia sulla legittimità della stessa (articolo ItaliaOggi del 15.02.2013 - link a www.corteconti.it).

APPALTIGare. Spese a carico delle imprese. Bandi e appalti da rendere pubblici sui quotidiani.
Alle imprese di costruzione e alle società di ingegneria e progettazione vincere le gare di appalto dei lavori pubblici può costare, complessivamente, 75 milioni di euro.
Si tratta dell'onere che dovranno sostenere per l'applicazione del comma 35 dell'articolo 34 del decreto legge 179/2012 (cosiddetto crescita 2). Esso stabilisce che «a partire dai bandi e dagli avvisi pubblici pubblicati successivamente al 01.01.2013, le spese per la pubblicazione di cui al secondo periodo del comma 7 dell'articolo 66 e al secondo periodo del comma 5 dell'articolo 122 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, sono rimborsate alla stazione appaltante dall'aggiudicatario entro 60 giorni dall'aggiudicazione».
In sostanza, chi vince una gara d'appalto deve rimborsare il comune, l'università o qualunque altro ente che l'ha indetta, della spesa di pubblicità sostenuta per cercare chi gli realizzasse l'opera o gli prestasse il servizio.
Gli avvisi e i bandi relativi a contratti di progettazione del valore di almeno 500mila euro oltre che sulla «Gazzetta Ufficiale» e sui siti informatici del ministero delle Infrastrutture e su quello dell'osservatorio dei lavori pubblici, devono essere pubblicati (per estratto) su almeno uno dei principali quotidiani a diffusione nazionale e su almeno uno dei quotidiani a maggiore diffusione locale nel luogo ove si eseguono i lavori (comma 5, articolo 122 del decreto legislativo 163/2006).
Tanto quelli nazionali quanto quelli locali diventano due nel caso di bandi di rilevanza comunitaria, cioè relativi a contratti che superano specifiche soglie di valore (comma 7, articolo 66 del decreto legislativo 163/2006).
In una primissima versione del decreto legge 06.07.2012, n. 95 (quello sulla spending review confezionato da Bondi) fu prevista l'eliminazione della pubblicità dei bandi sui giornali, con un risparmio di spesa stimato, nella relazione tecnica di accompagnamento del decreto, in 25 milioni di euro per il 2012 e di 75 all'anno a partire dal 2013. Prima ancora che iniziasse la discussione del decreto la norma (era il comma 5 dell'articolo 1) che prevedeva l'eliminazione di questa forma di pubblicità fu cassata.
Nel maxiemendamento al decreto legge 179/2012 presentato dal Governo spuntò una soluzione che salvava capra e cavoli: i bandi di gara avrebbero continuato a essere pubblicati anche sui giornali ma a spese di ingegneri e costruttori che si aggiudicano i contratti.
L'Ance e l'Oice, le associazioni delle imprese di costruzioni e delle società di ingegneria, lo giudicarono un blitz negativo per le imprese. Paolo Guzzetti e Luigi Iperti, i presidenti delle due associazioni, chiesero, senza successo, il ritiro di quella parte dell'emendamento, partendo dall'assunto che «è assolutamente incredibile e fuori dalla realtà che il Governo, in un provvedimento che dovrebbe favorire la crescita, abbia potuto inserire un ulteriore balzello a carico delle società, degli studi professionali e di tutte le imprese che partecipano a gare pubbliche. È una misura iniqua per tutto il settore delle costruzioni».
Proteste che non avuto alcun esito, visto che ora, per legge, le spese di pubblicità devono essere rimborsate alla stazione appaltante entro 60 giorni dall'aggiudicazione, mentre i vincitori delle gare non ricevono i pagamenti con la stessa sollecitudine. Proprio per questo, per imprese e professionisti sarebbe stato più semplice se fosse stato previsto di scontare il rimborso delle spese delle pubblici sui giornali dal pagamento, effettuato al vincitore della gara da parte della stazione appaltante, dell'anticipo o del primo saldo i avanzamento dei lavori.
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La regola
01|IL RIMBORSO
Chi vince una gara d'appalto deve rimborsare il comune o qualunque altro ente che l'ha indetta, della spesa di pubblicità sostenuta per cercare chi gli realizzasse l'opera o gli prestasse il servizio.
Gli avvisi e i bandi relativi a contratti di progettazione del valore di almeno 500mila euro oltre che sulla «Gazzetta Ufficiale» e sui siti informatici del ministero delle Infrastrutture e su quello dell'osservatorio dei lavori pubblici, devono essere pubblicati (per estratto) su almeno uno dei principali quotidiani a diffusione nazionale e su almeno uno dei quotidiani a maggiore diffusione locale nel luogo ove si eseguono i lavori
02|NUOVI COSTI
Le imprese di costruzione e le società di ingegneria e progettazione che vinceranno le gare di appalto dei lavori pubblici dovranno spendere 75 milioni di euro per l'onere che dovranno sostenere per l'applicazione del comma 35 dell'articolo 34 del decreto legge 179/2012 (cosiddetto crescita 2) (articolo Il Sole 24 Ore del 15.02.2013 - link a www.corteconti.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambiente, semplificazioni in arrivo per le imprese. In Consiglio dei ministri regolamento sui vincoli amministrativi.
Semplificazioni in arrivo per gli adempimenti delle imprese in materia ambientale. Con obblighi che saranno proporzionati alle dimensioni dell'impresa e alla sua capacità di farvi fronte.
Domani il consiglio dei ministri esaminerà un regolamento presidenziale avente a oggetto «Disciplina dell'autorizzazione unica ambientale e semplificazione di adempimenti amministrativi in materia ambientale gravanti sulle imprese e sugli impianti non soggetti ad autorizzazione integrata ambientale, a norma dell'articolo 23 del decreto-legge n. 5 del 2012».
La norma in questione prevede che l'autorizzazione sostituisca ogni atto di comunicazione, notifica ed autorizzazione previsto dalla legislazione vigente in materia ambientale; venga rilasciata da un unico ente; il procedimento debba essere improntato al principio di proporzionalità degli adempimenti amministrativi in relazione alla dimensione dell'impresa e al settore di attività, nonché all'esigenza di tutela degli interessi pubblici e non dovrà comportare l'introduzione di maggiori oneri a carico delle imprese.
In sostanza, adempimenti a misura d'impresa. Tra gli altri provvedimenti all'esame dell'esecutivo, spicca, in via preliminare, un decreto legislativo attuativo della legge anticorruzione, recante «Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge n. 190 del 2012».
Tra gli altri provvedimenti all'esame, due decreti legislativi di attuazione delle seguenti direttive: 2007/30/CE che modifica talune direttive ai fini della semplificazione e della razionalizzazione delle relazioni all'Unione europea sull'attuazione pratica in materia di salute e sicurezza sul lavoro; 2009/29/CE che modifica la direttiva 2003/87/CE al fine di perfezionare ed estendere il sistema comunitario per lo scambio di quote di emissione di gas a effetto serra, un regolamento presidenziale su «Composizione e modalità di funzionamento della Commissione per la finanza e gli organici degli enti locali, a norma dell'articolo 155, comma 2, del dlgs n. 267 del 2000», un regolamento presidenziale di attuazione dell'articolo 4, comma 1, lettere a), e c), del dlgs n. 192 del 2005, in materia di definizione dei criteri generali in materia di esercizio, conduzione, controllo, manutenzione e ispezione degli impianti termici per la climatizzazione invernale ed estiva degli edifici e per la preparazione dell'acqua calda per usi igienici sanitari, più un altro che attiene invece alla disciplina dei criteri di accreditamento per assicurare la qualificazione e l'indipendenza degli esperti e degli organismi a cui affidare la certificazione energetica degli edifici e l'ispezione degli impianti di climatizzazione (articolo ItaliaOggi del 14.02.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Dal 13/2 servizi integrati sul Suap. La pratica edilizia allo Sportello unico.
Le pratiche edilizie dal 13 febbraio viaggiano sul Suap, lo sportello unico delle attività produttive.

Nell'ottica di consolidare l'esperienza del Suap e diffonderne sempre di più l'impiego, InfoCamere, Cassa italiana di previdenza e assistenza dei Geometri liberi professionisti, Groma e Ancitel hanno raggiunto un accordo per fornire servizi integrati a tutti i professionisti tecnici: geometri, architetti, periti e ingegneri all'interno dello sportello unico delle attività produttive.
Il primo importante risultato dell'accordo è l'integrazione della piattaforma Sipem, la soluzione telematica che permette la gestione delle pratiche edilizie su internet, e lo sportello unico delle attività produttive. Il dialogo tra i due applicativi e cioè Sipem e sportello unico attività produttive, sviluppati rispettivamente da Groma, Ancitel e da InfoCamere, consentirà all'utenza professionale la predisposizione di pratiche di competenza del Suap, che includano adempimenti in materia di edilizia produttiva. La base per la sperimentazione di questa nuova soluzione saranno tutti i 3 mila Comuni, distribuiti su tutto il territorio nazionale, che operano con le camere di commercio attraverso uno schema operativo di sportello unico standard.
I lavori di integrazione e sperimentazione si svilupperanno per tutto il 2013. La cooperazione con Sipem è solo il primo esempio del programma di «apertura» della piattaforma camerale verso l'integrazione con front office specialistici utilizzati da un'utenza professionale. Dobbiamo ricordare che lo sportello unico dell'edilizia è debuttato il 12 febbraio. Esso costituisce l'unico punto di accesso per il privato interessato a tutte le vicende amministrative riguardanti il titolo abilitativo e l'intervento edilizio.
Questo è quanto previsto dall'art. 13 del dl 22/06/2012, n. 83 convertito dalla l. 07.08.2012, n.134, che ha introdotto importanti misure di semplificazione per l'attività edilizia che hanno riguardato lo sportello unico per l'edilizia (articolo ItaliaOggi del 14.02.2013).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Il ricorso all'avvalimento, avente ad oggetto il fatturato o l'esperienza pregressa è legittimo, atteso che la disciplina dell'art. 49 del Codice dei contratti non pone alcuna limitazione, se non per i requisiti strettamente personali di carattere generale, di cui agli artt. 38 e 39 del Codice stesso.
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Se può configurarsi ex art. 38 del Codice degli appalti un obbligo in capo ai concorrenti di dichiarare anche gli amministratori cessati nel triennio precedente, ivi compresi quelli che nel medesimo periodo amministravano società incorporate dalla concorrente prima della pubblicazione del bando di gara, tale obbligo non è rinvenibile nella ipotesi dell'avvalimento di cui all'art. 49 del medesimo Codice.
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E’ noto come la questione della cessione d'azienda ai fini della dichiarazione ex art. 38 del Codice degli appalti, oggetto di contrastanti indirizzi giurisprudenziali, sia stata di recente risolta dalla Adunanza Plenaria di questo Consiglio con la decisione n. 10 del 04.05.2012.
Con detta decisione, l'Adunanza ha precisato che deve "ritenersi la sussistenza in capo al cessionario dell'onere di presentare la dichiarazione relativa al requisito di cui all'art. 38, comma 1, lett. c), del D.Lgs n. 163 del 2006, anche in riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici che hanno operato presso la cedente nell'ultimo triennio (ora nell'ultimo anno)".

Premette il Collegio, in linea generale, come la riconducibilità del contratto di avvalimento alla categoria degli atti di ordinaria amministrazione piuttosto che a quella degli atti di straordinaria amministrazione, nella assenza di specifiche indicazioni normative, debba necessariamente farsi dipendere dalla tipologia dei requisiti che l'impresa ausiliaria si impegna a mettere a disposizione dell'impresa ausiliata.
Se, infatti, gli atti di ordinaria amministrazione posseggono una valenza di tipo conservativo del patrimonio sociale, mentre quelli di straordinaria amministrazione sono suscettibili per la loro intrinseca rischiosità di diminuirne l'entità economica, è consequenziale che con riferimento all'avvalimento la distinzione vada compiuta tenendo conto dell'importanza, della finalità ovvero della eccezionalità dell'atto compiuto in confronto a quelli che possono considerarsi eventi normali in un'impresa, in rapporto alla natura e all'oggetto sociale della stessa, nonché in relazione ai rapporti che intercorrono tra ausiliaria e ausiliata.
Pertanto, è attraverso l'individuazione del requisito che l'impresa ausiliaria si è impegnata a mettere a disposizione dell'impresa ausiliata che andrà verificato se tale impegno possa in qualche modo comportare il rischio di una diminuzione del patrimonio ovvero alterare l'organizzazione sociale dell'ausiliaria medesima, e quindi rientrare o meno tra gli atti di straordinaria amministrazione.
Ciò posto, osserva il Collegio come nella specie l'impresa ausiliaria, che è totalmente partecipata e controllata dalla società ausiliata, abbia messo a disposizione esclusivamente la propria pregressa esperienza.
Essa non ha, quindi, messo a disposizione mezzi, uomini o altre risorse aziendali, quale ad esempio la propria attestazione SOA, né si è impegnata a svolgere attività in subappalto nell'ambito del servizio pubblico posto a gara.
Se, dunque, l'impegno assunto dall'ausiliaria è rappresentato unicamente dalla messa a disposizione dell'esperienza maturata nel tempo nello specifico ambito del servizio di igiene pubblica, non può ragionevolmente ritenersi che lo stesso possa comportare il rischio di una diminuzione del patrimonio aziendale o un'alterazione dell'organizzazione sociale.
Peraltro, che l'impresa ausiliaria possa legittimamente conferire in avvalimento anche la sola propria referenza maturata in passato non è contestabile, in quanto detta possibilità non trova alcun divieto espresso nella disciplina comunitaria e di diritto interno.
Al riguardo, del resto, la giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo di precisare più volte che il ricorso all'avvalimento, avente ad oggetto il fatturato o l'esperienza pregressa è legittimo, atteso che la disciplina dell'art. 49 del Codice dei contratti non pone alcuna limitazione, se non per i requisiti strettamente personali di carattere generale, di cui agli artt. 38 e 39 del Codice stesso.
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Ed invero, se può configurarsi ex art. 38 del Codice degli appalti un obbligo in capo ai concorrenti di dichiarare anche gli amministratori cessati nel triennio precedente, ivi compresi quelli che nel medesimo periodo amministravano società incorporate dalla concorrente prima della pubblicazione del bando di gara, tale obbligo non è rinvenibile nella ipotesi dell'avvalimento di cui all'art. 49 del medesimo Codice.
Infatti, la disposizione in parola stabilisce al riguardo che, in sede di presentazione dell'offerta, il concorrente debba semplicemente allegare "una dichiarazione sottoscritta dall'impresa ausiliaria attestante il possesso da parte di quest'ultima dei requisiti generali di cui all'art. 38".
Ben diverso e ben più stringente, quindi, è il tenore della disposizione di cui all'art. 38 relativamente alla dichiarazione che deve essere resa dai concorrenti in gara, laddove, per questi ultimi, specifica che "in ogni caso l'esclusione e il divieto operano anche nei confronti dei soggetti cessati dalla carica nell'anno (prima della recente modifica "nel triennio") antecedente la data di pubblicazione del bando di gara ...".
Del resto , la ratio della differente formulazione delle norme in esame va rinvenuta nella diversa posizione dei soggetti coinvolti, poiché ai sensi dell'art. 49, comma 10, solo il concorrente aggiudicatario è chiamato ad eseguire il servizio e solo ad esso è rilasciato il certificato di esecuzione.
Orbene, stante il principio di tipicità e tassatività delle cause di esclusione, non v'è dubbio che la norma recata dall'art. 38, co. 1, lett. c), di cui si controverte, non sia suscettibile di interpretazione tale da introdurre ulteriori e non previste cause ostative.
Ne consegue che all'ausiliario non possano estendersi i rigorosi criteri limitativi propri del concorrente.
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E’ noto come la questione della cessione d'azienda ai fini della dichiarazione ex art. 38 del Codice degli appalti, oggetto di contrastanti indirizzi giurisprudenziali, sia stata di recente risolta dalla Adunanza Plenaria di questo Consiglio con la decisione n. 10 del 04.05.2012.
Con detta decisione, l'Adunanza ha precisato che deve "ritenersi la sussistenza in capo al cessionario dell'onere di presentare la dichiarazione relativa al requisito di cui all'art. 38, comma 1, lett. c), del D.Lgs n. 163 del 2006, anche in riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici che hanno operato presso la cedente nell'ultimo triennio (ora nell'ultimo anno)".
A tanto, la medesima è pervenuta sul presupposto che il contenuto della norma di cui al richiamato art. 38 "già di per sé" comprenda ipotesi non testuali, ma pur sempre ad essa riconducibili sotto il profilo della sostanziale continuità del soggetto imprenditoriale a cui si riferiscono, sicché il soggetto cessato dalla carica sia identificabile quale interno al concorrente, così come "ben può verificarsi.... in ipotesi di cessione di azienda o di ramo d'azienda".
Ciò posto, l'Adunanza ha però precisato che "resta altresì fermo -tenuto conto della non univocità delle norme circa l'onere del cessionario- che in caso di mancata presentazione della dichiarazione e sempre che il bando non contenga al riguardo una espressa comminatoria di esclusione, quest'ultima potrà essere disposta soltanto là dove sia effettivamente riscontrabile l'assenza del requisito in questione".
E ciò in quanto, a ben vedere, lo scopo della preclusione di legge è da individuarsi sicuramente in quello di impedire la partecipazione alle procedure di affidamento dei pubblici appalti, "di soggetti di cui sia accertata la mancanza di rigore comportamentale con riguardo a circostanze gravemente incidenti sull'affidabilità morale e professionale"
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.02.2013 n. 911 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: La nozione di servizio pubblico prescelta dal legislatore, quella oggettiva, si fonda su due elementi: 1) la preordinazione dell'attività a soddisfare in modo diretto esigenze proprie di una platea indifferenziata di utenti; 2) la sottoposizione del gestore ad una serie di obblighi, tra i quali quelli di esercizio e tariffari, volti a conformare l'espletamento dell'attività a regole di continuità, regolarità, capacità tecnico- professionale e qualità.
Ne consegue che, fermi gli elementi essenziali sopra menzionati, la configurazione del servizio pubblico è compatibile con diversi schemi giuridici e con differenti modalità di remunerazione della prestazione. A nulla quindi rileva che oggetto dell'affidamento fosse soltanto la raccolta dei rifiuti e non l'intero servizio dell'igiene ambientale, così come non rileva che il gestore fosse remunerato dal soggetto aggiudicatore: quel che conta, infatti, è che l'attività del gestore fosse diretta ad una platea indifferenziata di utenti e che esso fosse destinatario di obblighi funzionali alla destinazione al pubblico dell'attività dovuta.

Ed invero, con riferimento al primo profilo, va rilevato che l'art. 23-bis, comma 9, del D.L. n. 112/2008, convertito in L. n. 113 del 2008 e modificato dall'art. 15 del D.L. n. 135/2009, nella sostanza, vieta l'acquisizione della gestione di servizi ulteriori, con o senza gara, alle società che gestiscono servizi pubblici locali ad esse affidati senza il rispetto dei principi dell'evidenza pubblica, anche per il tramite di società controllanti o da esse controllate.
La "ratio" della predetta disposizione, come correttamente rilevato dal Tar, va senz'altro ravvisata nell'esigenza di impedire alterazioni del mercato concorrenziale che deriverebbero dalla partecipazione alle gare per l'affidamento di ulteriori servizi pubblici locali di quei soggetti che, in quanto già affidatari diretti di tali servizi nel medesimo o in altri ambiti territoriali, si trovano in una posizione di privilegio acquisita al di fuori dei meccanismi dell'evidenza pubblica.
Se tant'é sotto il profilo funzionale, appare allora irrilevante, sempre come esattamente rilevato dal primo giudice, la modalità di affidamento prescelta dalla stazione appaltante (appalto o concessione), atteso che il divieto posto dal legislatore riguarda genericamente "l'acquisizione" della gestione di servizi ulteriori.
In altri termini, le modalità di remunerazione delle attività, pur idonee a far ascrivere la gara nella categoria dell'appalto anziché in quella della concessione, non possono influire sulla natura delle prestazioni oggetto della procedura in esame.
Al riguardo, peraltro, la giurisprudenza della Sezione ha già avuto modo di precisare che "La nozione di servizio pubblico prescelta dal legislatore, quella oggettiva, si fonda su due elementi: 1) la preordinazione dell'attività a soddisfare in modo diretto esigenze proprie di una platea indifferenziata di utenti; 2) la sottoposizione del gestore ad una serie di obblighi, tra i quali quelli di esercizio e tariffari, volti a conformare l'espletamento dell'attività a regole di continuità, regolarità, capacità tecnico- professionale e qualità (sez. V, 12.10.2004, n. 6574).
Ne consegue che, fermi gli elementi essenziali sopra menzionati, la configurazione del servizio pubblico è compatibile con diversi schemi giuridici e con differenti modalità di remunerazione della prestazione. A nulla quindi rileva che oggetto dell'affidamento fosse soltanto la raccolta dei rifiuti e non l'intero servizio dell'igiene ambientale, così come non rileva che il gestore fosse remunerato dal soggetto aggiudicatore: quel che conta, infatti, è che l'attività del gestore fosse diretta ad una platea indifferenziata di utenti e che esso fosse destinatario di obblighi funzionali alla destinazione al pubblico dell'attività dovuta
" (cfr. sentenza n. 1651 del 22.03.2010)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.02.2013 n. 911 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASussiste la necessità, anche prima dell’entrata in vigore del testo unico dell’edilizia, della concessione edilizia per l'attività di spargimento di ghiaia, su di un'area che ne era precedentemente priva, allorché sia preordinata alla modifica della precedente destinazione d'uso.
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L'art. 3 comma 5, d.P.R. n. 380/2001 annovera tra gli interventi edilizi di «nuova costruzione» (per i quali è, quindi, necessario il permesso di costruire) anche l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, cose mobili, imbarcazioni, che siano utilizzate come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee, e la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato.
La posa di containers è da ritenersi riconducibile a tale previsione normativa, né può ritenersi che, nel caso di specie, essa abbia natura precaria, essendo funzionale ad una utilizzazione perdurante nel tempo e non ad un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione.
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Non può qualificarsi quale attività edilizia libera, ai sensi dell’art. 6, d.P.R. n. 380/2001 la realizzazione di un manufatto in legno, di 20 mq. atteso che tale intervento non rientra tra le opere di c.d. manutenzione ordinaria. Viene, piuttosto, in rilievo la diversa previsione di cui all’art. 3, c. 5, lett. e, d.P.R. n. 380/2001.

15. Con il quinto motivo, la ricorrente ne contesta la legittimità per violazione dell’art. 1, l. n. 10/1977 ed afferma la compatibilità dell’uso a parcheggio e deposito merci con la destinazione agricola dell’area.
Il motivo è infondato.
Al riguardo, è sufficiente rinviare a quanto affermato al punto 10 della sentenza n. 2086/2012 circa la necessità, anche prima dell’entrata in vigore del testo unico dell’edilizia, della concessione edilizia per l'attività di spargimento di ghiaia, su di un'area che ne era precedentemente priva, allorché sia preordinata alla modifica della precedente destinazione d'uso (cfr. Cassazione penale, sez. III, 09.06.1982).
D’altro canto, di tale necessità ne era consapevole la stessa ricorrente, la quale ha, difatti, domandato all’amministrazione comunale il rilascio di un provvedimento di condono.
16. Con il sesto ed il settimo motivo di ricorso –che possono essere trattati congiuntamente perché strettamente connessi sul piano logico e giuridico- la ricorrente lamenta il vizio dell’eccesso di potere in quanto l’ordinanza di remissione in pristino si porrebbe in contraddizione con precedenti manifestazioni di volontà.
I motivi sono infondati.
Il provvedimento impugnato costituisce, difatti, espressione di un potere vincolato, con la conseguenza che in ordine ad esso non possono venire in rilievo profili di eccesso di potere, propri dell'esercizio del potere discrezionale (cfr. Consiglio Stato sez. V, 16.03.2011, n. 1623; TAR Cagliari Sardegna sez. II, 13.01.2012, n. 18; TAR Perugia Umbria, sez. I, 02.11.2011, n. 354).
In ogni caso, quanto alla installazione di quattro containers, non possono condividersi le affermazioni dalla ricorrente circa il carattere non permanente di tali strutture.
L'art. 3 comma 5, d.P.R. n. 380/2001 annovera tra gli interventi edilizi di «nuova costruzione» (per i quali è, quindi, necessario il permesso di costruire) anche l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, cose mobili, imbarcazioni, che siano utilizzate come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee, e la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato.
La posa di containers è da ritenersi riconducibile a tale previsione normativa, né può ritenersi che, nel caso di specie, essa abbia natura precaria, essendo funzionale ad una utilizzazione perdurante nel tempo e non ad un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione.
Di è ciò è riprova la presenza di tali opere quantomeno dal 2004, allorché la ricorrente presentò l’istanza di condono.
17. Parimenti infondato è l’ottavo motivo di ricorso.
Non può, difatti, qualificarsi quale attività edilizia libera, ai sensi dell’art. 6, d.P.R. n. 380/2001 la realizzazione di un manufatto in legno, di 20 mq. atteso che tale intervento non rientra tra le opere di c.d. manutenzione ordinaria. Viene, piuttosto, in rilievo la diversa previsione di cui all’art. 3, c. 5, lett. e, d.P.R. n. 380/2001 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.02.2013 n. 435 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' legittimo l’ordine di rimessione in pristino del deposito a cielo aperto di materiale ferroso e rottami stante l’obbligo di rimozione in forza della normativa di cui al d.P.R. n. 380/2001.
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E' orientamento consolidato di questa Sezione che la vetustà dell'opera non escluda il potere di controllo e il potere sanzionatorio del Comune in materia urbanistico-edilizia, perché l'esercizio di tale potere non è soggetto a prescrizione o decadenza; ne consegue che l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione della relativa sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che il ritardo nell'adozione della sanzione comporti sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni consolidate.
I provvedimenti di repressione degli abusi edilizi, in quanto atti vincolati, sono, poi, sufficientemente motivati con l'affermazione dell'accertata irregolarità dell'intervento, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso -anche se risalente nel tempo- senza necessità di una motivazione su puntuali ragioni di interesse pubblico e di una specifica comparazione con gli interessi privati coinvolti.
Né sussiste infine un obbligo per l’amministrazione di indicare nel provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi l’epoca di realizzazione delle opere abusive.

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Quanto alla mancata indicazione dell’area di sedime da acquisire al patrimonio comunale, nell'ipotesi di inottemperanza all'ordine di demolizione, essa non costituisce causa di illegittimità dell'ingiunzione a demolire: la giurisprudenza maggioritaria è difatti dell’avviso che tale indicazione può essere contenuta nel successivo atto di accertamento dell'inottemperanza e di acquisizione gratuita al patrimonio comunale.
18. Il nono motivo di ricorso contesta la legittimità dell’ordine di rimessione in pristino del deposito a cielo aperto di materiale ferroso e rottami: la ricorrente afferma che esso non può qualificarsi tale, essendo limitato ad una porzione di 500 mq. laddove l’area su cui la stessa svolge la propria attività, è pari a 44.000 mq.
La ricorrente contesta, poi, l’applicabilità del d.lgs. n. 152/2006.
La censura è infondata.
Le dimensioni del deposito realizzato, pari a 500 mq., non sono affatto irrilevanti, né assume alcun rilievo, ai fini della valutazione della loro incidenza sull’assetto del territorio, l’ampiezza dell’area su cui è esercitata l’attività della ricorrente.
Al contrario, in considerazione dell’entità del deposito, dell’ingombro dei materiali presenti (evincibili dalle fotografie scattate in occasione del sopralluogo eseguito dall’amministrazione comunale in data 10.05.2011 e depositate agli atti del giudizio), della stabilità dell’utilizzazione dell’area come deposito (è la stessa ricorrente ad avere richiesto nel 2004 il titolo abilitativo in sanatoria per il deposito di materiali), è da ritenersi realizzata una trasformazione permanente dell’assetto edilizio del territorio, necessitante il rilascio di permesso di costruire.
La censura con cui viene contestata l’applicabilità del d.lgs. n. 152/2006 è, invece, inammissibile per genericità non indicando alcun elemento a supporto della contestazione della natura di rifiuto dei materiali oggetto dell’ordinanza di ripristino. In ogni caso, essa non inficerebbe la legittimità del provvedimento impugnato, stante l’obbligo di rimozione in forza della normativa di cui al d.P.R. n. 380/2001.
19. Anche il decimo motivo di ricorso è infondato.
È, difatti, orientamento consolidato di questa Sezione che la vetustà dell'opera non escluda il potere di controllo e il potere sanzionatorio del Comune in materia urbanistico-edilizia, perché l'esercizio di tale potere non è soggetto a prescrizione o decadenza; ne consegue che l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione della relativa sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che il ritardo nell'adozione della sanzione comporti sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni consolidate (cfr. fra le tante Tar Lombardia, Milano, sez. II, 17.06.2008, n. 2045; cfr. anche Cons. Stato, sez. V, 11.01.2011, n. 79).
I provvedimenti di repressione degli abusi edilizi, in quanto atti vincolati, sono, poi, sufficientemente motivati con l'affermazione dell'accertata irregolarità dell'intervento, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso -anche se risalente nel tempo- senza necessità di una motivazione su puntuali ragioni di interesse pubblico e di una specifica comparazione con gli interessi privati coinvolti (TAR Lombardia Milano, sez. II, 19.02.2009, n. 1318).
Né sussiste infine un obbligo per l’amministrazione di indicare nel provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi l’epoca di realizzazione delle opere abusive.
20. Con l’ultimo motivo viene contestata la violazione dell’art. 31, d.P.R. n. 380/2001.
Anche questa censura è infondata.
Non sussiste, invero, alcuna incertezza in ordine a quali siano le opere oggetto dell’ordine di remissione in pristino: l’amministrazione ha compiutamente descritto le opere in questione e ne ha altresì precisato gli identificativi catastali.
Quanto alla mancata indicazione dell’area di sedime da acquisire al patrimonio comunale, nell'ipotesi di inottemperanza all'ordine di demolizione, essa non costituisce causa di illegittimità dell'ingiunzione a demolire: la giurisprudenza maggioritaria è difatti dell’avviso che tale indicazione può essere contenuta nel successivo atto di accertamento dell'inottemperanza e di acquisizione gratuita al patrimonio comunale (cfr. Consiglio Stato sez. IV, 26.09.2008, n. 4659) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.02.2013 n. 435 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Una procura alle liti sottoscritta con crocesegno o priva del tutto di sottoscrizione non è suscettibile di autenticazione né da parte del difensore, ove rilasciata in calce o a margine dell’atto giudiziale, né, ove rilasciata con atto separato, da alcun pubblico ufficiale (nella specie, impiegato comunale), atteso che la sottoscrizione, essendo indispensabile ai fini dell’individuazione dell’autore del documento e costituendo un elemento essenziale dello stesso, deve risultare da segni grafici che indichino, anche in forma abbreviata, purché decifrabile, le generalità del soggetto che conferisce la procura e non è integrata, pertanto, da un segno di croce vergato, ancorché in presenza di testimoni, al posto della firma.
Sotto un primo profilo pregiudiziale, appare corretta la statuizione relativa alla nullità della procura speciale, e quindi la rilevata carenza di valido mandato ad litem, poiché secondo orientamento condivisibile della Suprema Corte il c.d. crocesegno non è suscettibile di autenticazione da parte del difensore (secondo Cass. Sez. Lav., 16.04.2004, n. 7305, secondo cui “Una procura alle liti sottoscritta con crocesegno o priva del tutto di sottoscrizione non è suscettibile di autenticazione né da parte del difensore, ove rilasciata in calce o a margine dell’atto giudiziale, né, ove rilasciata con atto separato, da alcun pubblico ufficiale (nella specie, impiegato comunale), atteso che la sottoscrizione, essendo indispensabile ai fini dell’individuazione dell’autore del documento e costituendo un elemento essenziale dello stesso, deve risultare da segni grafici che indichino, anche in forma abbreviata, purché decifrabile, le generalità del soggetto che conferisce la procura e non è integrata, pertanto, da un segno di croce vergato, ancorché in presenza di testimoni, al posto della firma”; nello stesso senso, Sez. Lavoro, 19.08.2004, n. 16226, e per più risalente affermazione Cass., Sez. II, 14.05.1994, n. 4178) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.02.2013 n. 908 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: I vincoli c.d. strumentali, procedimentali o d’attesa, proprio perché privi di contenuto ed effetti ablatori, non rientrano nel novero dei vincoli assoggettati a decadenza quinquennale.
Orbene, è del tutto evidente che il vincolo introdotto dal combinato disposto degli artt. 7 e 25 delle N.T.A. è vincolo strumentale e/o procedimentale e/o di “attesa”, che subordina l’edificazione all’approvazione di uno strumento urbanistico esecutivo, ma non incide su determinati beni assoggettandoli ad espropriazione, e che quindi rimane del tutto insensibile ed estraneo all’effetto decadenziale riveniente dall’art. 2 della legge 19.11.1968, n. 1187, testualmente e inequivocamente riferito alle sole previsioni di piano regolatore generale “…nella parte in cui incidono su beni determinati ed assoggettano i beni stessi a vincoli preordinati all'espropriazione od a vincoli che comportino l'inedificabilità…”.
Nel caso di specie non solo l’area dell’interessata non è assoggettata ad alcun vincolo espropriativo, ma l’edificabilità non era affatto esclusa, essendo consentita con i.f. di 3 mc/mq e secondo percentuali di utilizzazione che ex se spiegavano e giustificavano l’esigenza del piano urbanistico esecutivo.
E’ giurisprudenza del tutto consolidata che i vincoli c.d. strumentali, procedimentali o d’attesa, proprio perché privi di contenuto ed effetti ablatori, non rientrano nel novero dei vincoli assoggettati a decadenza quinquennale (cfr. tra le tante, e le più recenti, Cons. Stato, Sez. IV, 04.01.2013, n. 5).
Né può sostenersi che nella specie, il riferimento della normativa tecnica attuativa al piano particolareggiato di esecuzione comportasse, in modo irrefutabile, che dovesse trattarsi di piano esecutivo a iniziativa pubblica, piuttosto che di piano esecutivo a iniziativa privata, in disparte la possibilità dell’interessato, rimasta inesplorata, di attivarsi per ottenere la formazione e approvazione di piano esecutivo, secondo quanto apoditticamente opinato dal giudice amministrativo campano (i cui riferimenti giurisprudenziali attengono, infatti, all’evenienza che sia positivamente esclusa la possibilità di piani esecutivi a iniziativa privata -vedi al riguardo tra le più recenti Cons. Stato, Sez. IV. 24.03.2009, n. 1765-, nella specie per nulla prevista e stabilita dall’art. 7 e dall’art. 25 N.T.A.) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.02.2013 n. 907 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittima la realizzazione di un soppalco (ad uso deposito, di superficie pari ad appena mq. 10, ad altezza di ml. 2,60 dal pavimento e con altezza pari a ml. 2,00 dal solaio di copertura) che concretizza (riducendola) un'altezza inferiore a quella di legge (mt. 2,70) del locale sottostante.
L’appello in epigrafe è fondato e deve essere accolto, onde in riforma della sentenza impugnata deve essere rigettato il ricorso proposto in primo grado.
Anche seguendo la prospettazione dell’appellato, secondo la quale, nel caso di specie, doveva trovare applicazione l’art. 16 del regolamento edilizio vigente alla data di presentazione della denuncia d’inizio attività (29.05.1996) -con divieto realizzazione di soppalchi con altezze interne inferiori a ml. 1,80 e con altezza interna minima dei vani non inferiore a ml. 2,40-, nondimeno l’art. 43, comma 2, lettera b), della legge 05.08.1978, n. 457 (recante “Norme per l'edilizia residenziale”), prescriveva “altezze nette degli ambienti abitativi e dei vani accessori delle abitazioni, misurate tra pavimento e soffitto...non inferiori a metri 2,70 per gli ambienti abitativi, e metri 2,40 per i vani accessori”, ammettendo deroga soltanto per “…eventuali inferiori altezze previste da vigenti regolamenti edilizi”, e quindi salvaguardando soltanto le prescrizioni anteriori alla sua entrata in vigore.
Peraltro, l’art. 1, comma 1, del d.m. 05.07.1975 (recante “Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20.06.1896 relativamente all'altezza minima ed ai requisiti igienico-sanitari principali dei locali di abitazione”) ha fissato l’altezza minima dei locali adibiti ad abitazione, senza alcuna distinzione, in ml. 2,70, consentendo di derogarvi, con altezza minima pari a ml. 2,40, soltanto per “…per i corridoi, i disimpegni in genere, i bagni, i gabinetti ed i ripostigli”.
Nel caso di specie è incontestato che l’altezza del vano sottostante il soppalco, a seguito della realizzazione del medesimo, è pari a ml. 2,60 e quindi inferiore a quella minima prescritta pari a ml. 2,70.
Ne consegue che l’intervento edilizio, indipendentemente dal regime autorizzativo (ossia se assoggettato a d.i.a. o a concessione edilizia), non poteva essere comunque realizzato perché in contrasto con disposizioni legislative e regolamentari statali prevalenti sulle disposizioni di regolamento edilizio invocate dall’appellato (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.02.2013 n. 905 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In tema di appalti pubblici l’atto che costituisce la prestazione di garanzia non può presentare contraddizioni o ambiguità tali che il garante possa opporre alla stazione appaltante limitazioni alla garanzia prestata ovvero eccezioni tali da frustrare la finalità stessa della previsione normativa; pertanto, quando la polizza non consenta con immediatezza di ritenere assolta la garanzia di cui all’art. 75 cit. (cioè senza che si renda necessario un lavorio interpretativo in ordine alla individuazione della esatta portata soggettiva ed oggettiva del patto contrattuale), deve ritenersi violata la relativa prescrizione della legge di gara.
Come noto, in tema di appalti pubblici l’atto che costituisce la prestazione di garanzia non può presentare contraddizioni o ambiguità tali che il garante possa opporre alla stazione appaltante limitazioni alla garanzia prestata ovvero eccezioni tali da frustrare la finalità stessa della previsione normativa; pertanto, quando la polizza non consenta con immediatezza di ritenere assolta la garanzia di cui all’art. 75 cit. (cioè senza che si renda necessario un lavorio interpretativo in ordine alla individuazione della esatta portata soggettiva ed oggettiva del patto contrattuale), deve ritenersi violata la relativa prescrizione della legge di gara (cfr. da ultimo Cons. St., sez. IV, 17.10.2012, n. 5340) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.02.2013 n. 861 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le osservazioni presentate in occasione dell'adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo, con conseguente assenza in capo all'Amministrazione a ciò competente di un obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree, tranne i casi di affidamenti qualificati, non ricorrenti certo nella specie.
La presentazione di osservazioni, costituente una forma di apporto critico o collaborativo nel procedimento di formazione del Piano Regolatore, non muta l'ambito e l'estensione dell'obbligo di motivazione, né comporta l'esigenza di un'analitica confutazione con riferimento alle singole situazioni evidenziate dai privati, anche di sacrificio, essendo al contrario sufficiente che le rispettive osservazioni siano state esaminate e ritenute, sia pure succintamente e collettivamente, in contrasto con le linee guida del piano e con gli interessi pubblici che richiedano il sacrificio di tali contrapposti interessi privati coinvolti.
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Con riguardo alla pretesa di una ripubblicazione del piano una volta approvato (della approvazione, non della adozione o della riadozione, si deve intendere), costituisce principio generale e acquisito di questo Consesso che non sussiste l'obbligo di riadozione del piano regolatore adottato dal comune (previo annullamento o revoca del precedente) né quello di ripubblicazione, ex art. 9 l. 17.08.1942 n. 1150, del piano stesso, qualora le modifiche apportate dal comune d'ufficio, o su richiesta della regione, non abbiano determinato un mutamento essenziale del suo contenuto, traducendosi in un nuovo progetto di piano.

Inoltre, vale il generale principio per cui le osservazioni presentate in occasione dell'adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo, con conseguente assenza in capo all'Amministrazione a ciò competente di un obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree, tranne i casi di affidamenti qualificati, non ricorrenti certo nella specie (tra le tante, Consiglio di Stato sez. IV, 11.09.2012, n. 4806).
La presentazione di osservazioni, costituente una forma di apporto critico o collaborativo nel procedimento di formazione del Piano Regolatore, non muta l'ambito e l'estensione dell'obbligo di motivazione, né comporta l'esigenza di un'analitica confutazione con riferimento alle singole situazioni evidenziate dai privati, anche di sacrificio, essendo al contrario sufficiente che le rispettive osservazioni siano state esaminate e ritenute, sia pure succintamente e collettivamente, in contrasto con le linee guida del piano e con gli interessi pubblici che richiedano il sacrificio di tali contrapposti interessi privati coinvolti.
Con riguardo alla pretesa di una ripubblicazione del piano una volta approvato (della approvazione, non della adozione o della riadozione, si deve intendere), costituisce principio generale e acquisito di questo Consesso (tra le tante, Consiglio Stato sez. IV, 16.03.1998, n. 437) che non sussiste l'obbligo di riadozione del piano regolatore adottato dal comune (previo annullamento o revoca del precedente) né quello di ripubblicazione, ex art. 9 l. 17.08.1942 n. 1150, del piano stesso, qualora le modifiche apportate dal comune d'ufficio, o su richiesta della regione, non abbiano determinato un mutamento essenziale del suo contenuto, traducendosi in un nuovo progetto di piano (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.02.2013 n. 845 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 35, comma 18, della legge n. 47/1985 prevede testualmente che "fermo il disposto del primo comma dell'art. 40 e con l'esclusione dei casi di cui all'art. 33, decorso il termine perentorio di ventiquattro mesi dalla presentazione della domanda, quest'ultima si intende accolta ove l'interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio ed alla presentazione all'ufficio tecnico erariale della documentazione necessaria all'accatastamento. Trascorsi trentasei mesi si prescrive l'eventuale diritto al conguaglio o al rimborso spettanti".
Quindi, il richiamato termine di trentasei mesi decorre dalla presentazione della domanda di condono, ove completa di tutti gli elementi, ovvero, dall'avvenuto adempimento della richiesta integrazione documentale.
L''omessa presentazione della documentazione prescritta per la domanda di condono impedisce il decorso sia del termine di ventiquattro mesi per la formazione del silenzio assenso sia di quello di trentasei mesi per la prescrizione di eventuali crediti a rimborso o a conguaglio dell' oblazione versata.
Muovendo da questa ricostruzione interpretativa, il Collegio ritiene che, anche per il conguaglio dell'oblazione dovuta in caso di condono edilizio, il dies a quo non possa coincidere con la presentazione della domanda, qualora questa sia sfornita della documentazione tecnica ed istruttoria prescritta dalla normativa. La decorrenza del termine di prescrizione di cui si discorre presuppone (tanto in favore dell'amministrazione per l'eventuale conguaglio, quanto in favore del privato per l'eventuale rimborso) che la pratica di sanatoria edilizia sia definita in tutti i suoi aspetti e siano, per l'effetto, precisamente determinabili, alla stregua dei parametri stabiliti dalla legge, l'"an" ed il "quantum" dell'obbligazione gravante sul privato; ciò che riflette puntualmente la "ratio" sottesa all'art. 2935 cod. civ. secondo il quale, in generale, la prescrizione non può decorrere se non "... dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere".
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L'obbligo del pagamento degli interessi al tasso legale, ai sensi dell'art. 1282 c.c., costituisce principio di carattere generale, applicabile, in mancanza di una specifica disciplina di settore, in caso di ritardato pagamento di somme dovute. Peraltro l'art. 35, comma 12, della legge n. 47/1985, prevede che: "Entro centoventi giorni dalla presentazione della domanda, l'interessato integra, ove necessario, la domanda a suo tempo presentata e provvede a versare la seconda rata dell'oblazione dovuta, pari ad un terzo dell'intero, maggiorato del 10 per cento, in ragione d'anno. La terza e ultima rata, maggiorata del 10 per cento, è versata entro i successivi sessanta giorni.".
Accertato, quindi, l’obbligo di corresponsione degli interessi legali, secondo la giurisprudenza condivisa dal Collegio, lo stesso decorre dalla data di presentazione della domanda nel caso in cui, come nella fattispecie in esame, il richiedente la sanatoria abbia commesso un errore in sede di autoliquidazione dell’oblazione.

L'art. 35, comma 18, della legge n. 47/1985 prevede testualmente che "fermo il disposto del primo comma dell'art. 40 e con l'esclusione dei casi di cui all'art. 33, decorso il termine perentorio di ventiquattro mesi dalla presentazione della domanda, quest'ultima si intende accolta ove l'interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio ed alla presentazione all'ufficio tecnico erariale della documentazione necessaria all'accatastamento. Trascorsi trentasei mesi si prescrive l'eventuale diritto al conguaglio o al rimborso spettanti".
Secondo l’orientamento della giurisprudenza condiviso dal Collegio, il richiamato termine di trentasei mesi decorre dalla presentazione della domanda di condono, ove completa di tutti gli elementi, ovvero, dall'avvenuto adempimento della richiesta integrazione documentale (cfr. Cfr. TAR Campania, Salerno, I, 26.11.2012, n. 2138).
La giurisprudenza ha, peraltro, evidenziato, anche di recente, che l'omessa presentazione della documentazione prescritta per la domanda di condono impedisce il decorso sia del termine di ventiquattro mesi per la formazione del silenzio assenso sia di quello di trentasei mesi per la prescrizione di eventuali crediti a rimborso o a conguaglio dell' oblazione versata (cfr. Consiglio Stato, IV, 07.08.2012, n. 4525; TAR Campania, Napoli, II, 28.05.2012, n. 2497; TAR Sicilia, Palermo, III, 29.09.2006, n. 1996).
Muovendo da questa ricostruzione interpretativa, il Collegio ritiene che, anche per il conguaglio dell'oblazione dovuta in caso di condono edilizio, il dies a quo non possa coincidere con la presentazione della domanda, qualora questa sia sfornita della documentazione tecnica ed istruttoria prescritta dalla normativa. La decorrenza del termine di prescrizione di cui si discorre presuppone (tanto in favore dell'amministrazione per l'eventuale conguaglio, quanto in favore del privato per l'eventuale rimborso) che la pratica di sanatoria edilizia sia definita in tutti i suoi aspetti e siano, per l'effetto, precisamente determinabili, alla stregua dei parametri stabiliti dalla legge, l'"an" ed il "quantum" dell'obbligazione gravante sul privato; ciò che riflette puntualmente la "ratio" sottesa all'art. 2935 cod. civ. secondo il quale, in generale, la prescrizione non può decorrere se non "... dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere".
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Il Collegio osserva che l'obbligo del pagamento degli interessi al tasso legale, ai sensi dell'art. 1282 c.c., costituisce principio di carattere generale, applicabile, in mancanza di una specifica disciplina di settore, in caso di ritardato pagamento di somme dovute. Peraltro l'art. 35, comma 12, della legge n. 47/1985, prevede che: "Entro centoventi giorni dalla presentazione della domanda, l'interessato integra, ove necessario, la domanda a suo tempo presentata e provvede a versare la seconda rata dell'oblazione dovuta, pari ad un terzo dell'intero, maggiorato del 10 per cento, in ragione d'anno. La terza e ultima rata, maggiorata del 10 per cento, è versata entro i successivi sessanta giorni.".
Accertato, quindi, l’obbligo di corresponsione degli interessi legali, secondo la giurisprudenza condivisa dal Collegio, lo stesso decorre dalla data di presentazione della domanda nel caso in cui, come nella fattispecie in esame, il richiedente la sanatoria abbia commesso un errore in sede di autoliquidazione dell’oblazione (cfr. TAR Puglia, Bari, III, 13.04.2011, n. 581)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 08.02.2013 n. 832 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: L'aver partecipato ad una procedura concorsuale comporta il diritto a conoscere gli atti relativi al curriculum degli altri partecipanti, atti in relazione ai quali non vi è alcuna contrapposta esigenza di riservatezza.
... a prescindere dalla proposizione del ricorso al TAR (di cui aveva comunque documentato la pendenza), la Dott.ssa Ventura, in quanto partecipante alla procedura selettiva, vanta il diritto a conoscere gli atti relativi al curriculum degli altri partecipanti, atti in relazione ai quali non vi è alcuna contrapposta esigenza di riservatezza (Consiglio Stato, sez. VI, 21.05.2009, n. 3147) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 08.02.2013 n. 731 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’acquisizione gratuita non rappresenta un atto provvedimento di autotutela, ma costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all’inottemperanza dell’ordine di demolizione.
In senso ostativo all’acquisizione non può assumere quindi rilevanza né il tempo trascorso dalla realizzazione dell’abuso, né l’affidamento eventualmente riposto dall’interessato sulla legittimità delle opere realizzare, né l’assenza di motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite attraverso l’acquisizione.

Come la giurisprudenza ha spesso in più occasioni ricordato, infatti, l’acquisizione gratuita non rappresenta un atto provvedimento di autotutela, ma costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all’inottemperanza dell’ordine di demolizione.
In senso ostativo all’acquisizione non può assumere quindi rilevanza né il tempo trascorso dalla realizzazione dell’abuso, né l’affidamento eventualmente riposto dall’interessato sulla legittimità delle opere realizzare, né l’assenza di motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite attraverso l’acquisizione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 08.02.2013 n. 718 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’inutile decorso del termine (di trenta giorni, qualora non diversamente previsto) indicato nell’art. 12, I comma del codice dei contratti comporta non già l’aggiudicazione definitiva, ma soltanto l’approvazione dell’aggiudicazione provvisoria della gara (adempimento, questo, che ai sensi del citato art. 11, V comma, è preliminare all’adozione del provvedimento finale di aggiudicazione definitiva): in altre parole, scaduto il termine di trenta giorni dall’aggiudicazione provvisoria, quest’ultima, in difetto di un provvedimento espresso, si ha per approvata tacitamente, e l’aggiudicatario provvisorio può esigere, chiedendola formalmente, l’emissione del provvedimento di aggiudicazione definitiva, quale atto conclusivo della procedura concorsuale.
Ma anche qualora si aderisse alla tesi della ricorrente –e cioè che il silenzio serbato dall’Amministrazione avrebbe trasformato l’aggiudicazione provvisoria in definitiva-, la situazione non muterebbe, in quanto l’art. 11, VIII comma subordina comunque l’efficacia dell’aggiudicazione definitiva alla positiva verifica del possesso, in capo all’aggiudicataria, dei prescritti requisiti, che, se riscontrati assenti (come nel caso in esame), consentono l’esercizio dell’autotutela, ovvero, se non riscontrati per inerzia, consentono all’interessata di sciogliersi da ogni vincolo mediante atto notificato alla stazione appaltante (art. 11 cit., IX comma).
La verifica dei requisiti di ammissione è, dunque, in ogni caso un adempimento che la stazione appaltante deve espletare sia in sede di approvazione dell’aggiudicazione provvisoria, sia –in caso di inutile decorso del termine per provvedere all’approvazione– in sede di aggiudicazione definitiva, quale condizione di efficacia.

... ritenuto che il ricorso è infondato per i motivi di seguito esposti:
- l’inutile decorso del termine (di trenta giorni, qualora non diversamente previsto) indicato nell’art. 12, I comma del codice dei contratti comporta non già l’aggiudicazione definitiva, ma soltanto l’approvazione dell’aggiudicazione provvisoria della gara (adempimento, questo, che ai sensi del citato art. 11, V comma, è preliminare all’adozione del provvedimento finale di aggiudicazione definitiva): in altre parole, scaduto il termine di trenta giorni dall’aggiudicazione provvisoria, quest’ultima, in difetto di un provvedimento espresso, si ha per approvata tacitamente, e l’aggiudicatario provvisorio può esigere, chiedendola formalmente, l’emissione del provvedimento di aggiudicazione definitiva, quale atto conclusivo della procedura concorsuale (cfr. CdS, III, 16.10.2012 n. 5282; IV, 26.03.2012 n. 1766, citata dalla stessa ricorrente).
Ma anche qualora si aderisse alla tesi della ricorrente –e cioè che il silenzio serbato dall’Amministrazione avrebbe trasformato l’aggiudicazione provvisoria in definitiva-, la situazione non muterebbe, in quanto l’art. 11, VIII comma subordina comunque l’efficacia dell’aggiudicazione definitiva alla positiva verifica del possesso, in capo all’aggiudicataria, dei prescritti requisiti, che, se riscontrati assenti (come nel caso in esame), consentono l’esercizio dell’autotutela, ovvero, se non riscontrati per inerzia, consentono all’interessata di sciogliersi da ogni vincolo mediante atto notificato alla stazione appaltante (art. 11 cit., IX comma).
La verifica dei requisiti di ammissione è, dunque, in ogni caso un adempimento che la stazione appaltante deve espletare sia in sede di approvazione dell’aggiudicazione provvisoria, sia –in caso di inutile decorso del termine per provvedere all’approvazione– in sede di aggiudicazione definitiva, quale condizione di efficacia.
Orbene, nel caso di specie l’Amministrazione ha riscontrato in capo alla ricorrente la (sopravvenuta) assenza del requisito della capacità economica e finanziaria, requisito questo che la concorrente doveva possedere sia al momento di presentazione dell’offerta (ed ivi lo possedeva, tramite l’impresa di cui si era avvalsa ai sensi dell’art. 49 del codice), sia durante lo svolgimento del servizio e fino alla sua conclusione, in quanto requisito garantista dell’affidabilità dell’aggiudicataria e, conseguentemente, della corretta esecuzione del contratto: ma requisito di cui, invece, la ricorrente in tale fase sarebbe stata priva, atteso che la sopravvenuta contestazione del contratto di avvalimento (portata a conoscenza della stazione appaltante, peraltro, prima dell’aggiudicazione definitiva o, comunque, prima che l’aggiudicazione definitiva divenisse efficace) ha inevitabilmente compromesso la certezza dell’Amministrazione in merito all’affidabilità dell’impresa aggiudicataria, certezza che l’Amministrazione ha inteso, appunto, collegare al possesso della capacità economico-finanziaria nei termini evidenziati nella legge di gara, e affidabilità che ha stimato sussistere proprio in ragione dell’incontestato godimento della predetta capacità, individuata quale requisito di ammissione alla gara.
Giacché, premesso che ausiliaria ed ausiliata sono solidalmente responsabili in relazione alla prestazione dedotta nel contratto da aggiudicare, l'avvalimento dispiega la funzione di assicurare alla stazione appaltante un “partner” commerciale che garantisca una capacità imprenditoriale –nella fattispecie, sotto il profilo economico e finanziario- proporzionata ai rischi dell'inadempimento o dell’inesatto adempimento della prestazione dedotta nel contratto di appalto: garanzia che, nel caso in cui il contratto di avvalimento venga contestato dall’impresa ausiliaria – come nel caso di specie -, viene certamente meno (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 08.02.2013 n. 178 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Buoni pasto ai dipendenti pubblici, se non c'e' la mensa.
Sussiste il diritto dei dipendenti pubblici a ottenere la corresponsione dei buoni pasto giornalieri per ogni giorno di rientro pomeridiano, nel caso in cui vi sia una comprovata impossibilità o difficoltà, per il personale interessato, di utilizzare le più vicine mense di servizio.

Alcuni agenti della Polizia di Stato hanno adito il TAR di Roma al fine di ottenere la declaratoria del diritto a vedersi corrispondere buoni pasto giornalieri per ogni giorno di rientro pomeridiano.
Hanno esposto che la direzione centrale per le risorse umane del Ministero dell’interno aveva chiesto al competente dipartimento di P.S. l’erogazione al personale in servizio di buoni pasto giornalieri, quale controvalore del pasto dovuto ai dipendenti, ai sensi della L. n. 203/1989, per i giorni di rientro pomeridiano, tenuto conto dell’impossibilità per il personale di recarsi nelle più vicine mense di servizio in relazione all’entità del lasso temporale concesso per la consumazione del pasto.
L’Amministrazione interessata aveva respinto l’istanza, all’uopo provvedendo all’istituzione di buoni pasto utilizzabili presso un unico esercizio convenzionato.
Annullata in sede giurisdizionale siffatta determinazione, i deducenti hanno chiesto al G.A. capitolino il riconoscimento del diritto a ottenere buoni pasto quale controvalore del pasto dovuto ai medesimi.
Il ricorso è stato accolto.
Il Collegio di Roma ha rammentato che la L. n. 203/1989 (“Disposizioni per i servizi di mensa delle forze di polizia"), disciplinando le cc.dd. “mense obbligatorie di servizio”, prevede la possibilità per il personale dipendente di fruire del pasto gratuito nei casi in cui lo stesso, dovendo permanere nel luogo di servizio, non può recarsi presso il proprio domicilio per il tempo necessario a consumare il pasto.
Inoltre, ha precisato che la medesima legge ammette la possibilità di ricorrere alla stipula di convenzioni con enti pubblici o con esercizi privati di ristorazione qualora presso l’organismo interessato o presso altri uffici o reparti della Polizia di Stato sia impossibile assicurare, direttamente o mediante appalti, il funzionamento delle suddette mense obbligatorie.
Inoltre, l’adito G.A. ha osservato che il successivo D.P.R. n. 254/1999 (Recepimento dell’accordo sindacale per le forze di Polizia) ha sancito che l’Amministrazione, al fine di garantire il beneficio agli aventi diritto ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. b), L. n. 203/1989, può erogare al personale dipendente un buono pasto giornaliero in alternativa alle convenzioni con esercizi privati di ristorazione di importo pari a quello stabilito da tali atti convenzionali.
Ragion per cui il giudicante ha rilevato che le PP.AA. hanno l’obbligo, in via prioritaria, di provvedere alla costituzione delle mense di servizio.
In subordine, nelle ipotesi di oggettiva difficoltà o impossibilità di realizzazione delle predette mense obbligatorie, la medesima disciplina ammette che l’Amministrazione -ferma la ricorrenza delle condizioni e presupposti ex lege previsti- provveda alla stipula di convenzioni con esercizi privati di ristorazione di ciascun dipendente.
Infine, nei casi in cui i servizi di mensa di servizio, per ragioni di oggettiva impossibilità o difficoltà, non possono essere utilizzati da parte dei lavoratori, la P.A. può, alternativamente, procedere alla stipula di convenzioni con esercizi privati di ristorazione, ovvero provvedere all’erogazione di buoni pasto ai propri dipendenti.
Orbene, in relazione alla vicenda al medesimo sottoposta, il Collegio ha stabilito che, in ragione dell’assoluta difficoltà per i ricorrenti di servirsi delle mense di servizio, la scelta operata dall’Amministrazione di stipulare convenzioni con gli esercizi privati di ristorazione non era risultata comunque funzionale alle esigenze del personale in servizio.
Gli stessi punti di ristoro, invero, non solo erano ubicati in posizione non idonea rispetto alla sede di servizio dei ricorrenti, ma erano altresì scarsamente ricettivi rispetto alle esigenze di somministrazione dei pasti nell’intervallo di orario destinato alla pausa pranzo.
Per tal ragione, il Tribunale amministrativo ha precisato che le convenzioni, poiché relative a esercizi di ristorazione inidonei alla consumazione diretta di un pasto, avrebbero imposto alla P.A. di procedere a una differente scelta organizzativa, attraverso l’erogazione dei buoni pasto (sostitutivi) in favore dei ricorrenti.
Di tal ché, il TAR di Roma ha accolto il gravame, contestualmente stabilendo che il controvalore economico degli invocati buoni pasto dovesse essere determinato alla stregua dei criteri di calcolo stabiliti nell’accordo sindacale di settore (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, sentenza 07.02.2013 n. 1365 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Nel caso in cui il bando di concorso prevede, come requisito di ammissione, il Diploma di Geometra, va ammesso al concorso anche il candidato in possesso della Laurea in Ingegneria o della Laurea in Architettura, in quanto il possesso di tali titoli di studio superiori devono ritenersi assorbenti, poiché le materie di studio, facenti parte dei Corsi di Laurea in Ingegneria o Architettura, comprendono quelle del corso di studi di Geometra ed inoltre contemplano un maggiore livello di approfondimento.
Per quanto riguarda l’abilitazione all’esercizio della professione di Ingegnere, va evidenziato che secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale (cfr. per es. TAR Umbria n. 708 del 07.11.2008; TAR Pescara n. 463 del 09.05.2008; TAR Piemonte Sez. II n. 3028 dell’08.11.2004), nel caso in cui il bando di concorso prevede, come requisito di ammissione, il Diploma di Geometra, va ammesso al concorso anche il candidato in possesso della Laurea in Ingegneria o della Laurea in Architettura, in quanto il possesso di tali titoli di studio superiori devono ritenersi assorbenti, poiché le materie di studio, facenti parte dei Corsi di Laurea in Ingegneria o Architettura, comprendono quelle del corso di studi di Geometra ed inoltre contemplano un maggiore livello di approfondimento.
Pertanto, dalla legittima ammissione al concorso in questione dei laureati in Ingegneria o Architettura discende anche l’obbligatoria valutazione del titolo di abilitazione all’esercizio delle rispettive professioni, tenuto pure conto della circostanza che il bando di concorso prevede l’attribuzione di 1 punto per l’abilitazione alla professione, attinente al titolo di studio di ammissione al concorso (TAR Basilicata, sentenza 07.02.2013 n. 72 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In omaggio al principio di conservazione degli atti, nel caso in cui l’atto amministrativo gravato “si fondi su una pluralità di ragioni, ognuna delle quali abbia autonoma sufficienza, esso è legittimo anche quando lo sia una sola di esse, di per sé idonea a sostenere l’atto”, con la conseguenza che alcun rilievo potrebbero assumere rilievo le censure volte a contestare gli ulteriori profili motivazionali.
Pacifico risulta in giurisprudenza difatti che, in omaggio al principio di conservazione degli atti, nel caso in cui l’atto amministrativo gravato “si fondi su una pluralità di ragioni, ognuna delle quali abbia autonoma sufficienza, esso è legittimo anche quando lo sia una sola di esse, di per sé idonea a sostenere l’atto” (TAR Campania-Salerno, 19.04.2000, n. 275), con la conseguenza che alcun rilievo potrebbero assumere rilievo le censure volte a contestare gli ulteriori profili motivazionali (giurisprudenza costante, cfr. TAR Campania Salerno, sez. II, 17.01.2011, n. 63; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 14.01.2011, n. 139; TAR Campania Napoli, sez. VII, 14.01.2011, n. 164) (TAR Basilicata, sentenza 07.02.2013 n. 63 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Va escluso che al proprietario delle aree inquinate possa essere legittimamente impartito un ordine siffatto sulla base della generica “culpa in vigilando”.
Infatti l'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006 ai fini dell'imputabilità della condotta del divieto di abbandono e di deposito incontrollato di rifiuti sul suolo, richiede, a carico del proprietario o dei titolari di diritti reali o personali sul bene, un comportamento a titolo di dolo o di colpa, così come richiesto per l'autore materiale e quindi collegato da nesso causale diretto alle operazioni materiali da cui è originato il deposito in loco dei rifiuti, che non è assolutamente ravvisabile nella totalmente diversa fattispecie del loro mancato asporto durante previe operazioni di pulizia effettuate da altri responsabili o comunque a seguito della segnalazione della loro presenza.

Sul punto il Collegio deve peraltro richiamarsi al consolidato orientamento giurisprudenziale che ha escluso che al proprietario delle aree inquinate possa essere legittimamente impartito un ordine siffatto sulla base della generica “culpa in vigilando” (es. TAR Potenza, sez. I 501/2012, TAR Genova, sez. I, 750/2011, TAR Napoli, sez. V, 13059/2010, TAR Napoli, sez. V, 1407/2007).
Infatti l'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006 ai fini dell'imputabilità della condotta del divieto di abbandono e di deposito incontrollato di rifiuti sul suolo, richiede, a carico del proprietario o dei titolari di diritti reali o personali sul bene, un comportamento a titolo di dolo o di colpa, così come richiesto per l'autore materiale e quindi collegato da nesso causale diretto alle operazioni materiali da cui è originato il deposito in loco dei rifiuti, che non è assolutamente ravvisabile nella totalmente diversa fattispecie del loro mancato asporto durante previe operazioni di pulizia effettuate da altri responsabili o comunque a seguito della segnalazione della loro presenza, che è in sostanza quanto addebitato dal Comune alla Regione nel caso di specie (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 07.02.2013 n. 56 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'annullamento parziale di una concessione edilizia riconosciuta illegittima è ammissibile soltanto quando l'opera autorizzata sia scindibile in modo tale da poter essere oggetto di distinti progetti: la ragione di tale principio è la stessa per cui il comune può respingere o accogliere una domanda di concessione edilizia, ma non può modificare il progetto, non potendosi imporre al richiedente un'opera diversa dal progetto sul quale ha chiesto la concessione.
Come osservato in giurisprudenza, l'annullamento parziale di una concessione edilizia riconosciuta illegittima è ammissibile soltanto quando l'opera autorizzata sia scindibile in modo tale da poter essere oggetto di distinti progetti: la ragione di tale principio è la stessa per cui il comune può respingere o accogliere una domanda di concessione edilizia, ma non può modificare il progetto, non potendosi imporre al richiedente un'opera diversa dal progetto sul quale ha chiesto la concessione (cfr. Cons. di St., V, 11.10.2005, n. 5495; TAR Genova Liguria sez. I, 20.07.2011, n. 1148; TAR Roma Lazio sez. II, 30.03.2012, n. 3065) (TAR Basilicata, sentenza 07.02.2013 n. 54 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa pubblicazione all'albo pretorio della determinazione adottata si configura come misura di pubblicità idonea a far decorrere il termine per impugnare proprio per i soggetti non contemplati direttamente nell'atto, mentre per i soggetti direttamente menzionati nella determinazione il termine decadenziale per l'impugnativa decorre dalla data di notifica o comunicazione dell'atto o da quella dell'effettiva conoscenza.
Secondo le regole generali, la pubblicazione all'albo pretorio della determinazione adottata dalla Comunità montana si configura come misura di pubblicità idonea a far decorrere il termine per impugnare proprio per i soggetti non contemplati direttamente nell'atto, mentre per i soggetti direttamente menzionati nella determinazione il termine decadenziale per l'impugnativa decorre dalla data di notifica o comunicazione dell'atto o da quella dell'effettiva conoscenza (cfr. TAR Toscana, II, 1649 - 04.11.2011; TAR Catanzaro, Sez. I, 29.07.2010 n. 2013 e TAR Parma 14.01.2009 n. 3) (TAR Basilicata, sentenza 07.02.2013 n. 53 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare, Un 'errore passato' non determina l'esclusione perenne.
E' illegittimo il provvedimento di esclusione di una ditta da una gara di appalto, la cui motivazione, operando esclusivo riferimento a un precedente grave errore commesso dalla partecipante nell'esecuzione di altre prestazioni con la medesima stazione, tralascia di indicare tutte le circostanze successivamente verificatesi.

La decisione evidenzia l’importanza della motivazione di un provvedimento di esclusione da una gara di appalto, attraverso un’efficace rappresentazione di tutte le circostanze verificatesi in un lungo lasso di tempo che possono, in qualche misura, incidere sul giudizio “di fiducia” dell’impresa contraente.
In particolare la ricorrente, partecipante a una procedura indetta per l'affidamento in economia del servizio di gestione delle selezioni per l'ammissione alle Scuole di specializzazione della Facoltà di Medicina e Chirurgia, ha impugnato il provvedimento con cui la stazione appaltante, ai sensi dell’art. 38, lett. f), D.Lgs. n. 163/2006, aveva disposto la propria esclusione dalla gara a cagione “… della sussistenza di elementi reputati tali da far venir meno la fiducia nell’impresa”.
Ha contestato, così, la violazione dell’art. 38 cit., dell’art. 332, D.P.R. n. 207/2010, nonché il difetto di motivazione, contestualmente formulando richiesta di risarcimento del danno ingiusto sofferto per effetto dell’attività amministrativa contestata.
Il ricorso è stato accolto. Il TAR di Napoli ha osservato che la misura espulsiva –intervenuta dopo che la stazione appaltante aveva rilevato che l’offerta della ricorrente era la migliore e chiesto alla stessa di anticipare l’avvio delle attività preparatorie– era stata adottata sulla base della motivazione per cui: "… da un accertamento in ordine alla pregressa collaborazione con questa amministrazione è emerso che codesta società ha commesso un grave errore nell’espletamento di analoga procedura, a seguito del quale sono state rilevate l’inidoneità e l’inaffidabilità della stessa a eseguire la prestazione in argomento per le motivazioni esplicitate nella nota di questa amministrazione del 28.10.2002.
Pertanto, alla luce di quanto sopra esposto e per gli effetti dell’art. 38, D.Lgs. n. 163/2006 codesta società è esclusa dalla gara.
"
Sicché, considerato il tenore motivazionale dell’impugnato provvedimento di esclusione, il giudicante ha riscontrato sia la violazione del menzionato art. 38 per carenza dei presupposti, sia il censurato difetto di motivazione.
Al riguardo ha precisato che, sibbene la fattispecie contemplata dalla citata previsione normativa implichi un ampio potere discrezionale in ordine alla ponderazione dei fatti integranti grave negligenza, malafede o errore grave nell’esercizio dell’attività professionale, l’esercizio della suddetta potestà non si sottrae per ciò solo al sindacato giurisdizionale nei casi di manifesta illogicità o irrazionalità (nello stesso senso, Cons. Stato, Sez. V, 21.06.2012, n. 3666).
Del resto, l’apprezzamento dell’elemento fiduciario nei rapporti contrattuali con la pubblica Amministrazione esclude di per sé qualsiasi automatismo, occorrendo che, come richiesto dalla norma, l’esclusione sia supportata da una "motivata valutazione" della stazione appaltante.
Pertanto, pur riconoscendo la rilevanza dell’episodio, l’adito G.A. ha rilevato che, nella specie, l’autorità amministrativa non aveva considerato che il contestato “grave errore” era stato commesso circa dieci anni prima e che l’addebito era stato prontamente riconosciuto dalla ricorrente con la rinuncia a percepire il compenso stabilito per lo svolgimento di quel servizio.
Invero, ha osservato che il decorso di un lungo periodo di tempo –i cui effetti l'ordinamento riconosce e consacra dando vita a istituti ampiamente disciplinati in ogni settore del diritto– avrebbe determinato l'esigenza di rafforzare l'impianto motivazionale del provvedimento di esclusione, mediante una dettagliata illustrazione delle circostanze che avrebbero potuto rilevare nel giudizio di affidabilità dell’impresa contraente; la meccanica applicazione della misura espulsiva, infatti, aveva snaturato la connotazione dell’istituto in esame, configurandolo impropriamente alla stregua di un potere sanzionatorio.
Non a caso, la ricorrente aveva rappresentato che, nell’arco temporale in questione, la compagine sociale era mutata e che la stessa aveva conseguito idonee certificazioni per i settori d’interesse e gestito positivamente molteplici, complesse procedure concorsuali presso i più prestigiosi atenei italiani.
Tali elementi, a opinione del Collegio, avrebbero dovuto essere oggetto di una più meditata valutazione da parte della stazione appaltante che, in tal modo, avrebbe potuto esprimere un adeguato giudizio di complessiva idoneità dell’impresa a eseguire con la dovuta diligenza il servizio in questione. In tal modo si sarebbe evitato ogni illogico automatismo conseguente a un solo episodio sfavorevole accaduto in passato che, peraltro, non avrebbe potuto comunque limitare le chances della deducente di contrattare sine die con l’ateneo e di acquisire altre esperienze e referenze utili per l’ulteriore crescita dell’impresa.
Sotto differente profilo, il TAR partenopeo ha censurato le modalità attraverso le quali l’Amministrazione aveva adottato il contestato provvedimento di esclusione.
Quest’ultima, infatti, ancorché in possesso di tutte le informazioni relative al pregresso rapporto, aveva dapprima invitato l’interessata a far pervenire la propria offerta e, solo dopo aver constatato l’economicità della propria offerta e averla invitata a porre in essere le attività propedeutiche allo svolgimento del servizio, aveva provveduto a comunicare il proprio intendimento di estrometterla dalla procedura.
Conseguentemente, il G.A. di Napoli, rintracciando plurimi profili d’illegittimità dell’operato della stazione appaltante, ha accolto il gravame e, per l’effetto, annullato il contestato provvedimento di esclusione della ricorrente; parallelamente reputando sussistenti tutti gli elementi costitutivi della responsabilità della P.A., ivi compreso l’elemento soggettivo, ha accolto la domanda di risarcimento del danno, la cui quantificazione ha equitativamente determinato ai sensi dell’art.1226 c.c. (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 01.02.2013 n. 695 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Revoca della gara in autotutela, quando 'scattano' le regole civilistiche.
La revoca degli atti di gara da parte di una stazione appaltante può configurare un illecito precontrattuale perché in contrasto con le comuni regole di buona fede e correttezza di cui all'articolo 1337 del codice civile; il Consiglio di Stato si è pronunciato in merito al risarcimento danni, subito da un ATI partecipante ad una gara, a seguito di annullamento in autotutela della procedura di affidamento di lavori.
Con bando pubblicato sulla G.U.C.E., una stazione appaltante indiceva una procedura aperta avente ad oggetto l’affidamento, secondo il criterio del prezzo più basso, dei lavori di ristrutturazione e riqualificazione di un immobile di proprietà di un ente locale, per un “nuovo” complesso termale.
La gara in questione era aggiudicata ad un ATI composta da tre SRL; nell’agosto 2007 nelle more del giudizio amministrativo che ha interessato la gara in questione, la procura della Repubblica disponeva il sequestro dell’immobile da riqualificare.
Nel 2008 il Ministero dello Sviluppo Economico sospendeva in via cautelare l’iter procedimentale relativo alle agevolazioni finanziarie richieste dalla stazione appaltante e, conseguentemente, quest’ultima preso atto che per effetto del sequestro giudiziario del nuovo complesso termale era stato impossibile dare esecuzione ai lavori di riqualificazione, deliberava di rinunciare all’investimento e di risolvere il contratto stipulato con il Comune avente ad oggetto la concessione in godimento dell’immobile termale.
La stazione appaltante in seguito deliberava di revocare tutti gli atti e i provvedimenti del procedimento di gara relativo all’affidamento dei lavori di ristrutturazione e riqualificazione.
L’ATI si era rivolta al TAR per chiedere la condanna della stazione appaltante al risarcimento del danno derivante dall’intervenuta autotutela.
Il Tribunale amministrativo regionale aveva accolto in parte il ricorso riconoscendo soltanto alcune delle voci risarcitorie reclamate dalla ricorrente; l’ATI di conseguenza si rivolgeva al Consiglio di Stato.
Il Consiglio di Stato con la corposa sentenza in commento ritiene, nel caso di specie, che il comportamento complessivo tenuto della stazione appaltante, poi sfociato nella revoca degli atti di gara, integra un illecito precontrattuale, perché si pone in contrasto con le regole di buona fede e correttezza di cui all’art. 1337 c.c., riferite ad una pubblica amministrazione.
E’ ormai consolidata la configurabilità di una responsabilità precontrattuale anche della pubblica amministrazione, perché anche su di essa grava l’obbligo sancito dall’art. 1337 c.c. di comportarsi secondo buona fede durante lo svolgimento delle trattative.
Di conseguenza, se durante la fase formativa del contratto la pubblica amministrazione viola quel dovere di lealtà e di correttezza, ponendo in essere comportamenti che non salvaguardano l’affidamento della controparte (anche colposamente, perché non occorre un particolare comportamento di malafede, né la prova dell’intenzione di arrecare pregiudizio all’altro contraente) in modo da sorprendere la sua fiducia sulla conclusione del contratto, essa risponde per responsabilità precontrattuale.
Per i giudici di Palazzo Spada in caso di responsabilità precontrattuale da ingiustificato recesso dalla trattativa, nel cui ambito si inquadra la vicenda oggetto del presente contenzioso, in cui viene messo in rilievo la revoca degli atti di gara da parte della stazione appaltante, il danno è commisurato non al c.d. interesse positivo (ovvero alle utilità economiche che il privato avrebbe tratto dall’esecuzione del contratto), ma al c.d. interesse negativo, da intendersi, appunto, come interesse a non essere coinvolto in trattative inutili, a non investire inutilmente tempo e risorse economiche partecipando a trattative (o, nel presente caso, a gare d’appalto) destinate poi a rivelarsi del tutto inutili a causa del recesso scorretto della controparte.
I fatti che hanno portato alla revoca dell’aggiudicazione sono riconducibili ad un comportamento non diligente della stazione appaltante; una delle ragioni principali su cui si fonda il provvedimento di revoca è, infatti, il venire meno delle risorse finanziarie necessarie al finanziamento dei lavori. Di fronte, infatti, al procedimento penale iniziato dalla Procura della Repubblica per presunti illeciti consumati dalla stessa stazione appaltante, in occasione della richiesta di finanziamento pubblico per iniziare i lavori di ristrutturazione dell’immobile, la stessa stazione appaltante ha immediatamente rinunciato al finanziamento e, conseguentemente, ha disposto la revoca della gara.
La stazione appaltante, anziché rinunciare al finanziamento e disporre la revoca degli atti di gara, avrebbe dovuto, visto che la gara ormai era stata bandita e aggiudicata (e, quindi, si configurava un ragionevole e fondato affidamento dell’aggiudicatario in ordine alla prossima conclusione del contratto), quanto meno adoperarsi attivamente per trovare soluzioni alternative, comunque “meno penalizzanti per gli interessi dell’aggiudicatario, in ipotesi anche verificando la ragionevole possibilità, prima di rinunciare unilateralmente al finanziamento già ottenuto, di reperire congruamente risorse finanziarie da altre fonti, onde dare comunque seguito ai lavori per i quali la gara era stata espletata”.
Per il Consiglio di Stato, tuttavia, nell’ambito della responsabilità precontrattuale il c.d. danno curriculare non è risarcibile, perché non attiene all’interesse negativo, ma, più propriamente, all’interesse positivo, derivando proprio dalla mancata esecuzione dell’appalto, non dall’inutilità della trattativa. Il c.d. danno curriculare può, infatti, essere definito come il pregiudizio subito dall’impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum professionale per non poter indicare in esso l’avvenuta esecuzione dell’appalto.
Il Consiglio di Stato, quindi, condanna la stazione appaltante al rimborso, nei confronti delle società che costituiscono l’ATI, delle spese vive sostenute per la partecipazione alla gara nei limiti dei cui importi riescano a dimostrarne l’avvenuto pagamento, del danno emergente per le spese generali per il costo del personale e della struttura che avrebbero potuto essere destinate ad altre attività, del lucro cessante per la perdita di chance contrattuale alternativa scaturente dalla rinuncia a concludere un altro contratto (commento tratto da www.ispoa.it - Consiglio di Stato, Sez. I, sentenza 01.02.2013 n. 633 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il semplice scarico e spianamento su un terreno di una certa quantità di detriti non integra l’ipotesi di trasformazione della destinazione a zona agricola dello stesso, né quella di occupazione di suolo mediante deposito di materiali di cui all’art. 7 d.l. 23.01.1982 n. 9 per le quali sia necessaria specifica autorizzazione dell’autorità comunale, concretando piuttosto un’ipotesi di mera utilizzazione che il proprietario ritenga fare del proprio terreno, per la quale è esclusa la necessità di un titolo concessorio.
Più in generale, il semplice scarico e spianamento su un terreno di una certa quantità di detriti non integra l’ipotesi di trasformazione della destinazione a zona agricola dello stesso, né quella di occupazione di suolo mediante deposito di materiali di cui all’art. 7 d.l. 23.01.1982 n. 9 per le quali sia necessaria specifica autorizzazione dell’autorità comunale (Cons. St. Ad Plen. 05.12.1984, n. 22), concretando piuttosto un’ipotesi di mera utilizzazione che il proprietario ritenga fare del proprio terreno, per la quale è esclusa la necessità di un titolo concessorio (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 08.01.2013 n. 184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIDiritto di critica, con toni civili, nei confronti dell'azienda.
LA CORRETTEZZA/ Il lavoratore non deve travalicare con dolo o colpa grave la soglia del rispetto della verità oggettiva.

Ampio spazio al diritto di critica verso il datore di lavoro, che trova come unico limite il dolo, la colpa grave e l'utilizzo di forme civili.
Questo l'orientamento della Corte d'appello di Roma che, con la sentenza 12.12.2012 n. 9631, ha annullato le sanzioni disciplinari applicate da un'impresa nei confronti di un dipendente giornalista che aveva reso delle dichiarazioni fortemente critiche in ordine alle modalità con cui l'azienda stava gestendo un problema inerente alcuni colleghi, investiti da un'inchiesta sulla gestione dei contratti di natura pubblicitaria.
Dopo che il lavoratore aveva rilasciato queste dichiarazioni, l'azienda lo aveva sanzionato sul piano disciplinare. Il Tribunale in primo grado aveva confermato la legittimità della decisione, accogliendo la tesi dell'azienda, la quale aveva fatto presente che il lavoratore non solo aveva denigrato gratuitamente l'operato aziendale, ma aveva commesso questo illecito violando la normativa interna, che disciplinava in maniera precisa i comportamenti da tenere nei rapporti con la stampa e in generale nelle comunicazioni verso l'esterno.
La Corte d'appello ha rovesciato questa decisione, evidenziando innanzitutto che al lavoratore non erano state preventivamente comunicate le norme aziendali in merito al comportamento da tenere nelle comunicazioni con la stampa. In particolare, secondo la Corte, nel caso in esame non trova applicazione quell'indirizzo giurisprudenziale che non ritiene necessaria la predeterminazione dei comportamenti vietati, perché –secondo la sentenza– tale orientamento è valido solo per i casi in cui il comportamento illecito sia immediatamente percepibile dal lavoratore, trattandosi di condotte contrarie a quello che i giudici chiamano "minimo etico" o, comunque, sanzionate da norme penali.
Nel caso del giornalista questo requisito, secondo la Corte, mancava, in quanto la possibile violazione del lavoratore atteneva solo al rispetto dei doveri contrattuali, e pertanto egli avrebbe avuto il diritto di conoscere in anticipo le regole da applicare nei rapporti con la stampa.
A prescindere da questo elemento, la sentenza ritiene comunque infondate le sanzioni disciplinari, in quanto le stesse avrebbero prodotto un'indebita compressione di diritti costituzionalmente garantiti. A sostegno di questa affermazione, la Corte ricorda che il lavoratore ha diritto di criticare il datore di lavoro, nel rispetto di alcune condizioni. Innanzitutto, non deve travalicare, con dolo o colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva; inoltre, la critica, anche aspra, deve rispettare i limiti della correttezza formale, non potendosi risolvere nell'attribuzione all'impresa o ai suoi dirigenti di qualità disonorevoli non provate.
Nel caso discusso dalla sentenza, la Corte ritiene che non siano stati violati tali limiti, in quanto il giornalista si era limitato a biasimare, in maniera civile e circostanziata, l'atteggiamento di apparente disinteresse dell'azienda rispetto a presunti illeciti commessi da alcuni colleghi; di conseguenza le sanzioni disciplinari sono state annullate (articolo Il Sole 24 Ore del 15.02.2013).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: E' possibile accordarsi tra appaltatore e subappaltatore per derogare alle norme prevenzionistiche?
In caso di infortunio sul lavoro, l'esclusione della responsabilità dell'appaltatore, nel corso dello svolgimento di attività di appalto d'opera, è configurabile solo qualora al subappaltatore sia affidato lo svolgimento di lavori, ancorché determinati e circoscritti, che questi svolga in piena ed assoluta autonomia organizzativa e dirigenziale rispetto all'appaltatore, e non nel caso in cui la stessa interdipendenza dei lavori svolti dai due soggetti escluda ogni estromissione dell'appaltatore dall'organizzazione del cantiere; nella ricorrenza delle anzidette condizioni, trattandosi di norme di diritto pubblico che non possono essere derogate da determinazioni pattizie, non potrebbero avere rilevanza operativa, per escludere la responsabilità dell'appaltatore, neppure eventuali clausole di trasferimento del rischio e della responsabilità intercorse tra questi ed il subappaltatore.
Interessante decisione della Corte di Cassazione sul tema della delimitazione degli obblighi e delle responsabilità gravanti sull’appaltatore dei lavori e sul subappaltatore, in caso di affidamento dell’esecuzione a quest’ultimo di parte delle attività oggetto del contratto di appalto. La Corte, con la sentenza in esame, esamina approfonditamente l a questione pervenendo alla conclusione che i rapporti tra appaltatore e subappaltatore, pur potendo essere oggetto di regolamentazione convenzionale, sono comunque disciplinati dalle norme prevenzionistiche e, pertanto, eventuali deroghe di natura “pattizia” tra le parti (ad esempio finalizzate ad escludere la responsabilità dell’appaltatore addossandola al subappaltatore) devono considerarsi senza effetto in quanto su di esse prevalgono le norme in materia di infortuni sul lavoro.
Il caso
La vicenda processuale vedeva imputati il datore di lavoro e rappresentante legale di un’impresa edile, subappaltatrice dei lavori in muratura, ed il preposto (capo cantiere) di altra impresa, appaltatrice dei lavori per la ristrutturazione di un palazzo municipale; agli stessi era stato addebitato di aver cagionato le lesioni personali patite da un operaio a seguito dell'infortuno occorsogli nel mentre era intento alla sua attività lavorativa di manovale edile alle dipendenze della ditta subappaltatrice quando, sfondando la soletta del tetto dell'edificio su cui si trovava, precipitava al piano sottostante. A seguito delle indagini si accertava che sul cantiere non era presente neppure una cintura di sicurezza idonea a trattenere in posizione corretta l'operatore in caso di caduta, né erano stati apprestati rimedi di sicurezza di altro genere per impedire la caduta al suolo di operai nel caso di sfondamento, tutt'altro che remoto, della soletta che era stata messa in sicurezza soltanto per una parte.
Il ricorso
Contro la sentenza di condanna, proponevano ricorso per cassazione gli imputati, in particolare sostenendo il datore di lavoro dell’infortunato che tra la società solo formalmente subappaltatrice dell'opera e la società appaltatrice ed esecutrice dell'opera, sarebbe intercorso un rapporto di somministrazione di lavoro, nel senso che la società dell’imputato si sarebbe limitata a "prestare" i propri dipendenti all’altra. Il datore di lavoro che somministra o affitta, o concede l'utilizzazione della propria manodopera ad altra impresa, di fatto, secondo la tesi difensiva, si spoglia di qualsiasi potere o facoltà di direzione e di controllo sull'attività svolta da quelli che solo formalmente restano suoi dipendenti. Dunque, contrariamente a quanto affermato dai giudici di merito, il rapporto tra l'impresa subappaltatrice e l'impresa appaltatrice ha comportato una pregnante delega di compiti ad un soggetto idoneo ad assumerli.
La decisione della Cassazione
La prospettazione difensiva è stata respinta dalla Cassazione che ha, infatti, dichiarato inammissibile il ricorso.
Per meglio comprendere la soluzione accolta dalla Cassazione è utile un breve inquadramento normativo della questione. L’appalto è il contratto con cui una parte (appaltatore) assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, l'obbligazione di compiere in favore di un'altra (committente o appaltante) un'opera o un servizio. Nell'ordinamento italiano, il contratto d'appalto è regolato dagli artt. 1655 e seguenti del codice civile. La disciplina è integrata, con riferimento ai contratti conclusi con enti pubblici o enti che svolgono servizi pubblici, dal D.Lgs. n. 163/2006, il cosiddetto "Codice dei Contratti pubblici" e suo regolamento di esecuzione e attuazione, il d.P.R. n. 207/2010. Il subappalto non è consentito, salvo autorizzazione, per iscritto, del committente (art.1656 c.c.). L'appalto è infatti un contratto fondato sull'intuitus personae (ovvero, sulla scelta esplicita della controparte contrattuale), per cui non è consentita una sostituzione non autorizzata del soggetto obbligato.
Tale peculiarità caratterizza il rapporto tra appaltatore e subappaltatore. Ed infatti, nel caso di esecuzione di lavori in subappalto, all’interno di un unico cantiere edile predisposto dall’appaltatore, secondo un consolidato indirizzo, gli obblighi di osservanza gravano su tutti coloro che esercitano i lavori, quindi anche sul subappaltatore interessato all’esecuzione di un’opera parziale e specialistica. Pure il titolare dell’impresa subappaltatrice ha l’onere di riscontrare ed accertare la sicurezza dei luoghi di lavoro, anche se la sua attività si svolga contestualmente ad altra, prestata da altri soggetti, e sebbene l’organizzazione del cantiere sia direttamente riconducibile all’appaltatore, che non cessa di essere titolare dei poteri direttivi generali. Peraltro, è precisamente il subappalto parziale che chiama in causa con maggior forza il ruolo del committente, mentre il subappalto totale permette di delimitare in modo più netto le responsabilità delle parti.
Orbene, nel caso esaminato, i giudici di legittimità hanno affermato che l'esclusione della responsabilità dell'appaltatore, nel corso dello svolgimento di attività di appalto d’opera, è configurabile solo qualora al subappaltatore sia affidato lo svolgimento di lavori, ancorché determinati e circoscritti, che questi svolga in piena ed assoluta autonomia organizzativa e dirigenziale rispetto all'appaltatore, e non nel caso in cui la stessa interdipendenza dei lavori svolti dai due soggetti escluda ogni estromissione dell'appaltatore dall'organizzazione del cantiere (in precedenza, sul tema dei rapporti tra appaltatore e subappaltatore, v.: Cass. pen., Sez. 4, n. 42477 del 16/07/2009, dep. 05/11/2009, imp. C., in Ced Cass. n. 245786).
La soluzione della Cassazione merita di essere condivisa, anche per quanto riguarda l’ulteriore profilo affrontato, concernente la derogabilità delle norme prevenzionistiche che stabiliscono obblighi e responsabilità dell’appaltatore mediante un accordo tra quest’ultimo e il subappaltatore. In tal senso, osserva la Cassazione, le norme prevenzionistiche, in quanto norme di diritto pubblico, non possono essere derogate da determinazioni pattizie; pertanto, non potrebbero avere rilevanza operativa, per escludere la responsabilità dell'appaltatore, neppure eventuali clausole di trasferimento del rischio e della responsabilità intercorse tra questi ed il subappaltatore. Sul punto, si noti, già da tempo la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che i poteri doveri del datore di lavoro non possono essere validamente trasferiti ad altro imprenditore, in quanto eventuali accordi sarebbero privi di efficacia, appartenendo le norme antinfortunistiche al diritto pubblico ed essendo le stesse inderogabili in forza di atti privati (Cass. pen., Sez. 4, n. 10043 del 08/07/1994, dep. 22/09/1994, imp. V. ed altro, in Ced Cass. n. 00149) (commento tratto da www.ispoa.it - Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 15.11.2012 n. 44829).

AGGIORNAMENTO AL 14.02.2013

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IN EVIDENZA

PUBBLICO IMPIEGO: La fondazione architetti e ingegneri liberi professionisti iscritti INARCASSA attacca i tecnici della Pubblica Amministrazione.
Di seguito uno stralcio di quanto pubblicato sul proprio sito da parte della suddetta Fondazione.
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Oggi, sul quotidiano LA REPUBBLICA, viene pubblicato il Manifesto della Fondazione che sintetizza cosa chiediamo al prossimo Governo.
Il documento è di fatto diviso in due parti: la prima è una proposta forte che, prevedendo la ricostruzione del nostro Paese e migliorando sostanzialmente la qualità della vita degli italiani, è finalizzata alla ripartenza dell’economia reale; la seconda è invece rivolta a richieste puntuali legate al nostro lavoro.
Ecco il testo del Manifesto:
(uno stralcio per quanto qui di interesse ...)
MODIFICA DEL D.LGS. 163/2006 – CODICE APPALTI
E’ necessario che con la massima urgenza venga modificata la normativa per gli aspetti che riguardano le modalità affidamento degli incarichi professionali, formalmente definiti “appalto dei servizi di ingegneria”.
Per la natura totalmente immateriale del servizio richiesto e considerata la diretta relazione tra qualità della prestazione e qualità dell’opera, chiediamo che gli appalti vengano affidati esclusivamente in base alla qualità dell’offerta e non al prezzo.

REVISIONE DELLE STRUTTURE DELLA P.A.
La Pubblica Amministrazione deve finalmente dedicarsi unicamente nello svolgere il suo ruolo di programmazione e di controllo delle Opere Pubbliche.
Anche nell’ottica della spending review risulta oggi ingiustificata la presenza nelle Pubbliche Amministrazioni di strutture tecniche di progettazione permanenti, spesso un carrozzone non flessibile rispetto alle reali necessità.
Ancora più ingiustificata risulta la corresponsione agli uffici tecnici delle PA dell’incentivo per la progettazione di opere pubbliche
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E’ oggettivamente difficile comprendere perché, per svolgere solo e unicamente il proprio lavoro, proprio quello e solo quello per cui si è stati assunti, e nel normale orario quotidiano, si possa percepire un incentivo. Un incentivo non irrilevante: il 2% del valore dei lavori da eseguirsi. Questo incentivo del 2%, ultima tariffa garantita rimasta nel mondo professionale, vale ogni anno più di 500 milioni di Euro.
DIVIETO AL DOPPIO LAVORO LIBERO PROFESSIONALE
Chiediamo che si approvi una norma precisa, chiara e non derogabile che vieti ai pubblici dipendenti qualsiasi attività di libera professione oltre al proprio lavoro dipendente.
Il pubblico dipendente, che già gode di tutte le garanzie giustamente destinate al lavoro subordinato, può oggi svolgere altri lavori oltre a quello per il quale è stato assunto. E questo è inaccettabile perché com’è ben noto, al di là di qualsiasi altra considerazione, il secondo lavoro viene spesso svolto a discapito di quello principale e in pesanti situazioni di conflitto d’interesse malamente mascherate. Proprio per questa ultima considerazione, anche a coloro che svolgono l’attività in status di part-time, pur consentendo lo svolgimento di altre attività nel tempo residuo, deve essere assolutamente vietata qualsiasi attività libero professionale.
Come Architetti e come Ingegneri, che nel passato tanto hanno contribuito alla realizzazione di un Patrimonio invidiatoci da tutto il mondo, con orgoglio rivendichiamo oggi il diritto di poter essere parte importante, determinante, nella ricostruzione dell’Italia, quella di domani
(tratto da e link a https://fondazionearching.it).

MOBILITA'

PUBBLICO IMPIEGO: il Comune di Cisano Bergamasco (BG) cerca con mobilità volontaria n. 1 geometra, cat. "C" a tempo pieno ed indeterminato, da destinare all'Ufficio Tecnico il cui avviso di mobilità prevede il termine di martedì 26.02.2013 entro cui inviare le domande di partecipazione.

SINDACATI

ATTI AMMINISTRATIVI: Enti Locali: il sistema dei controlli interni modificato dal D.L. 174 del 2012 (CGIL-FP di Bergamo, nota 12.02.2013).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Modello Unico di Dichiarazione ambientale – scadenza del 30.04.2013. Nuovo servizio di ANCE Bergamo per la compilazione e presentazione del MUD (ANCE Bergamo, circolare 11.02.2013 n. 43).

APPALTI: Oggetto: Decreto legislativo 15.11.2012, n. 218 recante disposizioni integrative e correttive al Codice Antimafia. Prime indicazioni operative [Ministero dell'Interno, nota 08.02.2013 n. 11001/119/20(6)].

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: G.U. 13.02.2013 n. 37 "Introduzione, in via sperimentale per gli anni 2013-2015, del congedo obbligatorio e del congedo facoltativo del padre, oltre a forme di contributi economici alla madre, per favorire il rientro nel mondo del lavoro al termine del congedo" (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, decreto 22.12.2012).

EDILIZIA PRIVATA: CONFERENZA UNIFICATA DEL 24.01.2013: Intesa sullo schema di D.P.R. recante regolamento di modifica del D.P.R. 09.07.2010, n. 139, recante procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità, a norma dell’art. 146, comma 9, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42:
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DOTTRINA E CONTRIBUTI

SEGRETARI COMUNALI: S. Santoro, Il Segretario Generale: compiti e responsabilità (link a www.leggioggi.it).

APPALTI: G. P. Turcato, Le modalità di stipula dei contratti pubblici, una norma di difficile interpretazione (link a www.leggioggi.it).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Parcheggi «Tognoli»
Domanda
Ho letto di recente che è stata modificata la disciplina che regolamenta la possibilità di trasferire i parcheggi pertinenziali. Potreste darmi qualche delucidazione?
Risposta
È vero. L'art. 10 del Dl «Semplificazione e Sviluppo» n. 5/2012 (conv. dalla L. n. 35/2012) ha sostituito l'art. 9, 5° c. della Legge «Tognoli» n. 122/1989. L'art. 9, 5° c., ora stabilisce che, fermo restando l'art. 41-sexies, L. n. 1150/1942 e l'immodificabilità dell'esclusiva destinazione a parcheggio, la proprietà dei parcheggi realizzati a norma del 1° comma può essere trasferita, anche in deroga a quanto previsto nel titolo edilizio e nei successivi atti convenzionali, solo con contestuale destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso comune mentre i parcheggi realizzati ai sensi del 4° c. del medesimo art. 9 continuano a non poter essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale a pena di nullità dei relativi atti di cessione, a eccezione di espressa previsione contenuta nella convenzione stipulata con il comune, ovvero quando quest'ultimo abbia autorizzato l'atto di cessione.
La modifica riguarda solo i parcheggi di cui all'art. 9, 1° c., L. n. 122/1989 ai sensi del quale: «I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati, a uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica e ambientale e i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai ministeri dell'ambiente e per i beni culturali e ambientali da esercitare motivatamente nel termine di 90 giorni. I parcheggi stessi ove i piani del traffico non siano stati redatti, potranno comunque essere realizzati nel rispetto delle indicazioni di cui al periodo precedente».
Il 4° c. dell'art. 9 stabilisce invece che i comuni, previa determinazione dei criteri di cessione del diritto di superficie e su richiesta dei privati interessati o di imprese di costruzione o di società anche cooperative, possono prevedere, nell'ambito del programma urbano dei parcheggi, la realizzazione di parcheggi da destinare a pertinenza di immobili privati su aree comunali o nel sottosuolo delle stesse (_). La costituzione del diritto di superficie è subordinata alla stipula di una convenzione nella quale siano previsti la durata della concessione del diritto di superficie per un periodo non superiore a novanta anni e altri elementi tra i quali le sanzioni previste per gli eventuali inadempimenti.
Prima della recente modifica normativa, anche i parcheggi di cui al 1° c. dell'art. 9 (quelli, cioè, su proprietà privata) non potevano essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla quale erano legati da vincolo pertinenziale, a pena di nullità dei relativi atti di cessione, preclusione tuttora prevista per i parcheggi realizzati su area comunale di cui al 4° comma dell'art. 9 della L. n. 122/1989 (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.02.2013).

CORTE DEI CONTI

ATTI AMMINISTRATIVI - SEGRETARI COMUNALI: Responsabilità. Obbligo presente anche dopo l'addio alle verifiche di legittimità. Al segretario anche il dovere di controllo preventivo
LE BASI/ Una segnalazione anonima può essere sufficiente per avviare un giudizio se contiene elementi «specifici e concreti».

Le segnalazioni anonime che contengano elementi precisi possono essere assunte come base per l'avvio del giudizio di responsabilità contabile. Il segretario ha il dovere di segnalare le illegittimità che sono contenute nelle proposte di deliberazione; lo stesso vincolo è posto in capo al vicesegretario. La colpa grave non è data dalla semplice violazione di una norma: si richiede in aggiunta una grave negligenza.
Sono le principali indicazioni contenute nella sentenza 18.01.2013 n. 40 della III Sez. di appello della Corte dei Conti.
La pronuncia conferma la condanna di primo grado irrogata ad amministratori, segretario e vice segretario di un Comune che hanno reiterato incarichi professionali senza che l'ente ne avesse un vantaggio. L'importanza della sentenza è data dall'ampliamento degli ambiti entro cui matura la colpa grave, delle possibilità di avviare procedimenti sulla base di notizie anonime e dalla definizione delle condizioni entro cui matura la responsabilità del segretario.
Viene detto espressamente che «il carattere anonimo di un esposto non è di per sé di ostacolo al legittimo avvio dell'istruttoria tanto più se la segnalazione ... configura una notizia di danno specifica e concreta». In questo modo si ribadisce l'ampia discrezionalità che la procura della Corte dei Conti ha nel selezionare le notizie sulla cui base avviare un procedimento di responsabilità contabile.
Altrettanto netta è l'individuazione delle condizioni per la maturazione della responsabilità del segretario e, elemento per molti aspetti innovativo, del vicesegretario. Essi hanno il dovere di «esprimere pareri di legittimità sulle delibere dell'ente locale» e la presenza nelle riunioni di Giunta e consiglio impone loro di «evidenziare la non conformità a legge del provvedimento». Né questo dovere è venuto meno a seguito dell'abrogazione del parere di legittimità da parte del segretario; essi hanno il «preciso obbligo giuridico di segnalare agli amministratori le illegittimità contenute negli emanandi provvedimenti, al fine di impedire atti e comportamenti illegittimi forieri di danno erariale». È questo il tratto essenziale del loro «ruolo di garanzia».
Infine la sentenza chiarisce che per configurare la presenza del fattore della colpa grave «non è sufficiente la semplice violazione della legge o di regole di buona amministrazione ma è necessario che questa violazione sia connotata da inescusabile negligenza o dalla previsione dell'evento dannoso». Ovvero, occorre «un comportamento avventato e caratterizzato dalla assenza di quel minimo di diligenza che è lecito attendersi in relazione ai doveri di servizio propri o specifici dei pubblici dipendenti». Occorre cioè una condotta caratterizzata dalla «prevedibilità delle conseguenze dannose del comportamento».
Un suo altro indice è costituito dall'elevato «grado di anomalia e di incompatibilità dei comportamenti concreti rispetto agli schemi normativi astratti, ivi compreso il dovere di svolgere i propri compiti con il massimo di lealtà e diligenza». La presenza di questo componente deve essere verificata con riferimento alla condotta concretamente seguita da amministratori e funzionari (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.02.2013 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPersonale. Parere della Corte dei conti della Lombardia. La gestione associata deve produrre risparmi.
L'INDICAZIONE/ Per i vincoli alle uscite vanno conteggiati pro quota anche i dipendenti che svolgono la propria attività nelle funzioni «esternalizzate».

Il parere 10.12.2012 n. 513 (diffuso nelle ultime settimane) della Corte dei conti sezione controllo Lombardia riafferma l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale le modalità di computo ai fini della disciplina vincolistica in tema di spesa di personale incidono non solo sulla spesa del personale alle dirette dipendenze dell'ente, ma vanno conteggiate anche per il personale che svolge attività al di fuori del singolo Comune, per tutte le forme di esternalizzazione o di associazione intercomunale.
Secondo la Corte dei conti, le amministrazioni interessate a processi di convenzionamento, per rendere correttamente le certificazioni e le attestazioni relative al rispetto dei parametri di spesa per il personale, previsto dalla normativa, dovranno conteggiare la quota parte di spesa di personale in convenzione che sia riferibile al Comune. Allo scopo si dovranno reperire e adottare idonei criteri per determinare la misura della spesa di personale riferibile pro-quota al Comune (Corte dei conti, sezione autonomie 8/2011).
Ciò vale anche per la gestione in convenzione delle funzioni fondamentali. Il principio è già consolidato nell'ipotesi di unione, per cui, in relazione alle funzioni attribuite, la spesa sostenuta per il personale del l'unione non può comportare, in sede di prima applicazione, il superamento della somma delle spese di personale sostenute precedentemente dai singoli Comuni partecipanti. Secondo la Corte, a regime, attraverso azioni di razionalizzazione organizzativa e di rigorosa programmazione dei fabbisogni, sarà necessario assicurare progressivi risparmi di spesa in materia di personale (si veda sul punto la deliberazione 426/2912/Par della sezione regionale di controllo di Lombardia).
La gestione associata delle funzioni in forma convenzionata si deve svolgere in modo tale che non si superi la spesa aggregata complessiva in precedenza destinata a tali funzioni dai singoli Comuni convenzionati.
Nel caso analizzato dalla sezione Lombarda, il Comune che non aveva registrato la spesa di personale per l'assenza di personale interno di polizia locale, sopporterà una spesa aggiuntiva, da compensare con la minore spesa di personale riferita alle altre funzioni fondamentali da gestire in forma associata. Il parere analizza quella che deve essere la concreta organizzazione di ciascuna funzione. L'unificazione degli uffici, a seconda delle attività che in concreto caratterizzano la funzione, prevede la responsabilità del servizio in capo a un unico soggetto che disponga dei necessari poteri organizzativi e gestionali, nominato secondo le indicazioni contenute nel l'articolo 109 del Tuel (il testo unico degli enti locali, decreto legislativo 267/2000). Pertanto, dovrà essere l'atto costitutivo dell'unione o della convenzione predisposta per la gestione associata dei servizi a prevedere le modalità di nomina dei responsabili dei servizi, previo adeguamento del regolamento degli uffici e dei servizi di ogni ente aderente.
La raccomandazione è che, nell'operare la riorganizzazione, gli enti non devono eludere gli obiettivi di finanza pubblica (articolo 14, commi 27 e seguenti, del decreto legge 78/2010), ossia, adottare soluzioni organizzative che di fatto non portano a risparmio di spesa, perché nella sostanza, non modificano la precedente organizzazione. L'esercizio unificato o associato della funzione, invece, implica che sia ripensata e organizzata ciascuna attività, cosicché ciascun compito che caratterizza la funzione va considerato in modo unitario e non come sommatoria di più attività simili.
Lo svolgimento unitario di ciascuna funzione non implica necessariamente che la stessa debba far capo a un unico ufficio in un solo Comune, mentre si può ritenere, in relazione ad alcune funzioni, che sia possibile mantenere più uffici in enti diversi. Ma anche in questi casi l'unitarietà della funzione comporta che la stessa sia espressione di un disegno unitario guidato e coordinato da un responsabile, senza che si possa escludere, in linea di principio, che specifici compiti e attività siano demandati ad altri dipendenti o anche agli organi di vertice dell'amministrazione comunale partecipante alla convenzione (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.02.2013 - tratto da www.corteconti.it).

NEWS

CONDOMINIORIFORMA FORENSE/ I legali fuori dal condominio. L'avvocato non può avere incarico di amministratore. Il Cnf ha aggiornato le faq sulla nuova legge professionale.
L'avvocato non può fare l'amministratore di condominio. E il responsabile delle avvocature degli enti pubblici deve essere un avvocato. La nuova legge professionale (n. 247/2012) esclude che il legale possa occuparsi della gestione dei fabbricati condominiali e impone che la responsabilità degli uffici legali interni a una amministrazione sia attribuita a un iscritto all'albo.
Lo chiarisce il Consiglio nazionale forense, che ha aggiornato le faq sulla riforma forense.
Il Cnf si occupa a tutto campo degli effetti della riforma, da ultimo con particolare attenzione sul regime delle incompatibilità.
Amministrazioni condominiali. La professione di avvocato è incompatibile con l'attività di amministratore di condominio, che è diventata attività di lavoro autonomo, svolta necessariamente in modo continuativo o professionale. A supporto della risposta negativa il Cnf richiama la nuova disciplina in materia di professioni regolamentate senza albo (legge n. 4/2013). Dal canto suo la riforma forense esclude che l'avvocato possa esercitare qualsiasi attività di lavoro autonomo svolta continuamente o professionalmente, fatte salve alcune eccezioni tassative. Tra queste non compare l'amministrazione dei condomini. Viene così modificata l'impostazione precedente a favore della compatibilità, motivata tra l'altro dal fatto che in assenza di un albo degli amministratori di condominio il professionista può svolgere le due attività permanendo sottoposto alle norme deontologiche degli avvocati (parere Consiglio nazionale forense 25.06.2009, n. 26).
Avvocati di enti pubblici. La legge di riforma fa salvi i diritti acquisiti degli avvocati già iscritti nell'elenco speciale dei dipendenti di enti pubblici. Alcune novità sono previste per le nuove iscrizioni. In particolare bisognerà adeguare il testo dei contratti individuali. Nel contratto di lavoro, infatti, si devono scrivere clausole a garanzia dell'autonomia e indipendenza di giudizio intellettuale e tecnica dell'avvocato. Inoltre l'ente pubblico deve prevedere la stabile costituzione di un ufficio legale nella propria pianta organica, con specifica attribuzione della trattazione degli affari legali dell'ente. A favore dell'avvocato si deve prevedere l'esclusiva della trattazione degli affari legali dell'ente a tale ufficio. Inoltre il capo dell'ufficio deve essere un avvocato iscritto all'elenco speciale. Infine l'avvocato responsabile deve esercitare i propri poteri in conformità con i principi della legge professionale.
Incompatibilità. Lo svolgimento della professione è incompatibile con la qualità di socio illimitatamente responsabile o di amministratore di società di persone, aventi quale finalità l'esercizio di attività di impresa commerciale, in qualunque forma costituite; è incompatibile con la qualità di amministratore unico o consigliere delegato di società di capitali, anche in forma cooperativa, e con la qualità di presidente di consiglio di amministrazione con poteri individuali di gestione. Sono previste delle eccezioni qualora l'oggetto della attività della società sia limitato esclusivamente all'amministrazione di beni, personali o familiari, e per gli enti e consorzi pubblici e per le società a capitale interamente pubblico.
Eccezioni. Tra le eccezioni alle incompatibilità la riforma elenca l'iscrizione nell'albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, nell'elenco dei pubblicisti e nel registro dei revisori contabili o nell'albo dei consulenti del lavoro. Inoltre è consentito l'esercizio della professione a docenti e ricercatori in materie giuridiche di università, scuole secondarie (pubbliche o private parificate), istituzioni ed enti di ricerca e sperimentazione pubblici. Per i docenti (professori ordinari e associati di ruolo) e ricercatori universitari a tempo pieno permane l'iscrizione nell'elenco speciale, con al precisazione che devono esercitare la professione nei limiti consentiti dall'ordinamento universitario (articolo ItaliaOggi del 13.02.2013 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTIViolazioni antiriciclaggio indizi per l'antimafia. Una circolare dell'Interno sulle disposizioni correttive.
La violazione degli obblighi di tracciabilità dei flussi finanziari assumerà valore «indiziante» ai fini delle verifiche antimafia; 45 giorni, prorogabili di altri 30, per la verifica da parte delle prefetture; dal 13 febbraio in vigore le nuove norme sulla documentazione antimafia che prescinderanno dall'attivazione della banca dati unica.
È quanto chiarisce la circolare emanata dal capo di gabinetto del ministero dell'interno relativamente al dlgs 15.11.2012 n. 218, recante disposizioni integrative e correttive al decreto n. 159/2011, il Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione.
La circolare 08.02.2013 n. 11001/119/20(6) richiama innanzitutto l'attenzione delle amministrazioni sulla più rilevante novità, l'anticipazione al 13.02.2013 dell'entrata in vigore delle disposizioni del libro II del Codice relativo alla documentazione antimafia che viene quindi sganciata dall'effettiva attivazione della Banca dati nazionale unica della documentazione antimafia.
Una seconda novità è l'ampliamento della platea di operatori economici da sottoporre alle verifiche antimafia: i Geie (gruppi europei di interesse economico, membri dei collegi sindacali di associazioni e società e componenti degli organi di vigilanza; soggetti che esercitano poteri di amministrazione, rappresentanza o direzione dell'impresa per società costituite all'estero prive di sede secondaria in Italia, società concessionarie nel settore dei giochi pubblici.
Dal punto di vista dei comportamenti e, quindi, delle situazioni «indizianti», la circolare pone in evidenza come si debbano tenere presenti anche le violazioni degli obblighi di tracciabilità dei flussi finanziari. Viene inoltre richiamata l'attenzione sulla avvenuta soppressione delle cosiddette «informazioni atipiche» (segnalazione di evenienze dubbie anche in assenza di accertate ostatività): ad oggi quindi l'informazione antimafia dovrà avere contenuto o liberatorio o interdittivo a proseguire il rapporto contrattuale o amministrativo.
Sul procedimento di rilascio della documentazione antimafia, la circolare ricorda che il codice prefigura un sistema basato sulla banca dati nazionale unica della documentazione antimafia che a regime dovrebbe restituire in tempo reale alle amministrazioni il provvedimento richiesto; allo stesso tempo viene eliminata la possibilità di acquisire la comunicazione antimafia nella forma dei certificati camerali.
Al riguardo la circolare precisa che fino all'attivazione del nuovo sistema informatico le amministrazioni dovranno richiedere la documentazione alle prefetture competenti che verificheranno tramite il Ced interforze e sistema Sicrant delle camere di commercio la sussistenza o meno delle situazioni controindicanti. Dal punto di vista dei tempi, i prefetti avranno 45 giorni prorogabili di altri 30 per verifiche di particolare complessità (articolo ItaliaOggi del 13.02.2013).

EDILIZIA PRIVATAEfficienza energetica. Il nuovo Dpr. Caldaie autonome a gas con verifiche ogni quattro anni.
Controlli sugli impianti termici adeguati alle esigenze Ue e limite minimo al fresco d'estate.
Sono alcune delle principali novità dello schema di Dpr che approderà venerdì mattina al Consiglio dei ministri. Il provvedimento incide sui Dpr 59/2009 e 412/1993 e nasce dalla procedura d'infrazione in corso per il non completo recepimento della direttiva 2002/91/Ce.
Dall'entrata in vigore del Dpr la cadenza dei controlli sull'efficienza energetica sarà ogni 2 anni per gli impianti a combustibile liquido o solido e di 4 anni per quelli a gas, metano o gpl. Solo se la potenza termica è maggiore o uguale a 100 kW i tempi si dimezzano. Di fatto è una rivoluzione, perché quelli con potenza inferiore sono la quasi totalità.
I limiti attuali, fissati dai Dlgs 192/2005 e 311/2006, sono più severi: per le caldaie sotto i 35 kW di potenza, i controlli sono annuali se il combustibile è liquido o solido, ogni 2 anni se l'impianto è a gas, è all'interno o supera gli 8 anni di età, ogni 4 se la caldaia è di tipo B o C ed è a gas. Tutti gli altri impianti si verificano una volta l'anno.
Novità anche in condominio o negli edifici con unico proprietario ma più unità immobiliari: il proprietario unico o l'amministratore dovranno esporre una tabella con: indicazione del periodo di accensione e orario di attivazione giornaliera, generalità e recapito del responsabile dell'impianto, codice dell'impianto assegnato dal Catasto territoriale degli impianti termici.
Cambiano invece la figura e le mansioni del responsabile dell'impianto (infatti viene abrogato l'articolo 11 del Dpr 412/93): la delega al "terzo responsabile" diventerà sempre possibile, tranne nel caso di impianti autonomi in singole unità immobiliari che non siano installati in locali tecnici dedicati (come spesso accade nelle villette). I responsabili rispondono del mancato rispetto delle norme relative all'impianto, anche sotto il profilo della sicurezza e della tutela ambientale. Se l'impianto non è a norma, non si può delegare la faccenda al terzo responsabile, a meno che la delega non preveda i necessari interventi e la relativa copertura finanziaria: queste garanzie, in condominio, devono essere approvate con delibera.
Viene anche fissato il limite dei gradi (media ponderata dei singoli ambienti) sotto i quali non è consentito, nei mesi estivi, abbassare ulteriormente la temperatura: 26 gradi (con -2° di tolleranza) (articolo Il Sole 24 Ore del 13.02.2013).

PUBBLICO IMPIEGOGalateo ai dipendenti pubblici. Decisioni tracciate. Stop ai regali. Incarichi circoscritti. Lo schema di decreto con il codice di comportamento previsto dalla legge anticorruzione.
I dipendenti pubblici devono documentare l'iter seguito nel loro processo decisionale (tracciabilità documentale); ammessi soltanto regali fino a un massimo di 150 euro e se di importo superiore i regali devono essere «immediatamente» restituiti; illegittimi gli incarichi di collaborazione per chi ha avuto interessi economici in attività o decisioni dell'ufficio che deve conferire l'incarico; obbligo per il dipendente di comunicare l'adesione ad associazioni o organizzazioni con interessi vicini a quelli dell'ufficio; obbligo di comunicare eventuali suoi rapporti di collaborazione con privati, o di parenti e affini entro il secondo grado, intercorsi negli ultimi tre anni e obbligo di astensione; le violazioni al codice di comportamento, fonte di responsabilità disciplinare, saranno sanzionabili anche con l'espulsione ma la sanzione dovrà essere sempre commisurata alla gravità della violazione dei doveri; i Ccnl potranno prevedere ulteriori criteri di individuazione delle sanzioni.
Sono queste alcune delle indicazioni contenute nello schema di dpr recante il codice di comportamento dei dipendenti pubblici, che attua l'articolo 54 del dlgs 165/2001 come sostituito dall'articolo 1, comma 44 della legge 190/2012 (la cosiddetta «anticorruzione»).
Il provvedimento, che sostituirà il dm della funzione pubblica del 28.11.2000, ha ottenuto il via libera della Conferenza unificata e dovrà essere inviato al Consiglio di Stato.
Destinatari del codice sono tutti i dipendenti, dirigenti e non dirigenti delle pubbliche amministrazioni, ma le norme del codice costituiranno principi di comportamento anche per le restanti categorie di personale. In particolare le pubbliche amministrazioni sono chiamate ad estendere gli obblighi di condotta previsti dal codice ai propri collaboratori e consulenti, ai titolari di organi e incarichi negli uffici di diretta collaborazione delle autorità politiche e ai collaboratori di imprese fornitrici di servizi a favore dell'amministrazione.
Dopo avere richiamato il rispetto della Costituzione e dei principi di integrità correttezza, buona fede, proporzionalità, obiettività, equità e ragionevolezza, il codice chiama il dipendente ad improntare la sua azione anche ai principi di economicità, efficienza ed efficacia, oltre a quello di contenimento dei costi nella gestione della risorse pubbliche.
Particolare attenzione viene riservata alle regalie: in primis il dipendente non deve chiedere -né per se, né per altri- né accettare regali o altre utilità «salvo quelli d'uso di modico valore effettuati occasionalmente nell'ambito della normali relazioni di cortesia». La soglia di modico valore si fissa a 100 euro «in via orientativa», ma i piani di prevenzione della corruzione possono fissarla anche in misura diversa (anche più bassa) ma mai oltre i 150 euro.
Laddove riceva regali oltre questa somma, il dipendente è tenuto «immediatamente» alla restituzione. Previsto il divieto di accettare incarichi di collaborazione da privati che abbiano o abbiano avuto nel biennio precedente interesse nelle attività dell'ufficio. Se il dipendente aderisce ad associazioni o organizzazioni i cui ambiti di interesse sono coinvolti o interferiscano con lo svolgimento dell'attività dell'ufficio, deve comunicarlo all'amministrazione. Non esiste analogo obbligo per l'adesione a partiti politici e sindacati.
Rilevanti anche gli obblighi di comunicazione di tutti gli interessi finanziari e dei potenziali conflitti di interesse rispetto a rapporti di collaborazione con privati (propri, dei parenti e degli affini entro il secondo grado) intercorsi fino a tre anni prima dell'assunzione; connesso a questo obbligo c'è quello di astensione dal prendere decisioni o svolgere attività in conflitto anche potenziale di interessi con il coniuge, conviventi, parenti e affini entro il secondo grado.
Ovviamente il dipendente dovrà anche rispettare il piano di prevenzione della corruzione, fermo restando l'obbligo di denuncia all'autorità giudiziaria di eventuali situazioni di illecito di cui venga a sapere. Il dipendente, oltre ad assicurare l'adempimento degli obblighi di trasparenza «totale» previsti in capo alle amministrazioni, dovrà anche garantire, attraverso un adeguato supporto documentale, la tracciabilità dei processi decisionali adottati, in maniera che siano «replicabili».
Confermato, nei rapporti con il pubblico, l'obbligo di esibire in modo visibile il badge, di rispettare gli standard di qualità e quantità fissati dalla amministrazione e di osservare il dovere di ufficio. La vigilanza sul rispetto del codice sarà affidata ai dirigenti responsabili, alle strutture di controllo interno e agli uffici etici e di disciplina o agli uffici procedimenti disciplinari. La violazione degli obblighi del codice configura sempre responsabilità disciplinare e ai fini della valutazione delle sanzioni, che possono arrivare anche all'espulsione, occorrerà tenere conto della gravità dell'atto; i contratti collettivi nazionali di lavoro potranno definire criteri di individuazione delle sanzioni in relazione alle tipologie di violazione del codice (articolo ItaliaOggi del 12.02.2013 - tratto da www.corteconti.it).

TRIBUTIImmobili senza utenze esclusi dalla Tares.
Non sono soggette al pagamento della Tares le unità immobiliari destinate a civili abitazioni prive di mobili e di allacci alle reti idriche e elettriche.

Sono queste le indicazioni contenute nelle linee guida ministeriali per l'applicazione del nuovo tributo sui rifiuti e i servizi.
Nel prototipo di regolamento Tares, infatti, viene precisato che non sono soggetti al tributo i locali e le aree che non possono produrre rifiuti o che non comportano, «secondo la comune esperienza, la produzione di rifiuti in misura apprezzabile per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati». E tra le unità immobiliari escluse dal prelievo rientrano quelle «adibite a civile abitazione prive di mobili e suppellettili e sprovviste di contratti attivi di fornitura dei servizi pubblici a rete».
La tesi ministeriale, però, si pone in contrasto con quanto sostenuto dalla Cassazione e dai giudici di merito. Tra l'altro, anche la relazione governativa sull'articolo 14 del dl 201/2011, che ha istituito il nuovo balzello, chiarisce che il legislatore, laddove assoggetta al tributo gli immobili «suscettibili di produrre rifiuti», ha inteso recepire «il consolidato orientamento della Corte di cassazione, riconducendo l'applicazione del tributo alla mera idoneità dei locali e delle aree a produrre rifiuti, prescindendo dall'effettiva produzione degli stessi».
In realtà, la Cassazione ha sempre posto dei limiti rigidi per l'esonero dal pagamento della tassa, che è dovuta a prescindere dal fatto che il contribuente utilizzi l'immobile. Vanno esclusi solo gli immobili non utilizzabili (inagibili, inabitabili, diroccati) o improduttivi di rifiuti.
Anche il presupposto Tares è l'occupazione, detenzione o conduzione di locali e aree scoperte a qualsiasi uso adibiti. Non sono soggetti solo gli immobili che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel corso dell'anno. Pertanto insuscettibili di produrre rifiuti, come quelli situati in luoghi impraticabili, interclusi o in stato di abbandono. Il contribuente può fare ricorso solo a queste prove vincolate per dimostrare che l'immobile sia inidoneo a produrre rifiuti e quindi non soggetto al pagamento.
Mentre nella normativa Tarsu si faceva riferimento agli immobili «oggettivamente utilizzabili», nel decreto Monti si usa l'espressione «suscettibili di produrre rifiuti». Il risultato però è lo stesso. Tant'è che viene richiamata nella relazione ministeriale la giurisprudenza della Cassazione, che da più di 10 anni ha affermato in maniera inequivoca che il tributo è dovuto dal contribuente se l'immobile sia oggettivamente utilizzabile, ancorché soggettivamente inutilizzato per scelta del titolare.
Per la prima volta il principio è stato affermato con la sentenza 16785 del 30.11.2002. Successivamente, con le sentenze 9920/2003, 22770/2009, 1850/2010 e altre. Questo orientamento è stato seguito anche dai giudici di merito. La commissione tributaria regionale di Palermo (sentenza 121/2012) ha infatti sostenuto che l'attivazione delle utenze non è decisiva ai fini del pagamento della tassa rifiuti. Magazzini e locali di deposito sono soggetti al prelievo anche se non hanno allacci alle reti idriche e elettriche.
Infine la Suprema Corte, con la recente ordinanza 1331 del 21.01.2013, ha ribadito che la prova fornita dal contribuente di aver cessato un'attività commerciale o industriale non lo esonera dal pagamento della tassa rifiuti. Non rileva, dunque, la scelta del titolare di non utilizzare l'immobile (articolo ItaliaOggi del 12.02.2013).

APPALTIPAGAMENTI P.A./ Tajani: il governo intervenga subito. Passera: al lavoro su soluzione. Chance dalla fattura differita. La regola dei 30 giorni è aggirabile nelle transazioni B2B.
Pagamenti rateali e fatture differite per uscire dalle strettoie imposte dal recepimento della direttiva sui ritardati pagamenti. Possono essere questi gli unici grimaldelli per aprire qualche varco all'interno della regola dei 30 giorni di tempo imposta dal dlgs 192/2012.
Il pagamento a rate può essere ammesso sia nei rapporti tra imprese e p.a. sia nelle transazioni B2B.
La postergazione della data di emissione della fattura, invece, è espressamente vietata dalla legge (e quindi nulla) quando il debitore è una pubblica amministrazione. Ma il dlgs nulla dice sull'ipotesi che le parti possano far slittare l'emissione della fattura a un momento successivo rispetto alla prestazione dei servizi o alla consegna della merce.
Si tratta di uno dei tanti aspetti lacunosi (evidenziati da Vincenzo Roppo, ordinario di diritto civile all'Università di Genova) del decreto che pur avendo recepito a tempo record la direttiva 2011/7/Ue, necessita ora di un ulteriore “tagliando” in via interpretativa.
Il primo è arrivato con la circolare dello Sviluppo economico che ha chiarito che la direttiva contro i pagamenti-lumaca si applica anche agli appalti pubblici.
Il secondo dovrà riguardare i termini di pagamento e dovrà affermare senza ombra di dubbio che nelle transazioni commerciali tra p.a. e imprese i debiti vanno pagati entro 30 giorni salvo pochissime eccezioni (sanità, aziende pubbliche, alcune tipologie di appalti) che consentono lo slittamento fino a 60 giorni. La richiesta di un chiarimento urgente, già avanzata la settimana scorsa in un convegno organizzato a Milano dalla commissione europea (si veda ItaliaOggi del 5/2/2013) è stata recapitata dal vicepresidente dell'esecutivo di Bruxelles, Antonio Tajani, direttamente al ministro Corrado Passera, nel corso di un incontro presso Assolombarda. «Bisogna fare presto», ha detto Tajani, «perché l'Ue sarà intransigente nel verificare le modalità con cui i paesi membri hanno applicato la direttiva». L'apertura di una procedura di infrazione, se il chiarimento non dovesse arrivare entro il 16 marzo, (dead line per l'attuazione delle nuove regole) è un pericolo reale e per questo ad occuparsene dovrà essere l'esecutivo attualmente in carica.
L'altro nodo da sciogliere riguarda l'avvio del negoziato sui debiti pregressi. Nessuno conosce l'esatto ammontare dei mancati pagamenti della p.a. italiana nei confronti delle imprese perché fino ad ora la cifra “monstre” (che si aggirerebbe tra i 70 e i 100 miliardi di euro) non è stata contabilizzata nel debito pubblico. E il motivo è da ricercare nelle regole contabili italiane che consentono di mettere a debito un pagamento solo quando è saldato e non quando sorge l'obbligo giuridico.
Se il pregresso dei mancati pagamenti venisse contabilizzato nel debito pubblico italiano (ormai abbondantemente sopra i 2.000 miliardi di euro) l'obiettivo di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013 sarebbe gravemente compromesso. Di qui il tentativo di Tajani di convincere il commissario Ue per gli affari economici e monetari Olli Rehn ad offrire una via d'uscita ai Paesi con il maggior fardello di debiti scaduti (oltre all'Italia anche Portogallo e Spagna).
Gli incontri sono iniziati la scorsa settimana (si veda ItaliaOggi del 5/2/2012) e proseguiranno incessantemente per arrivare a una soluzione nel giro di un mese. Tajani è ottimista e realista al tempo stesso. «Non sarà facile, ma sono convinto che qualche spiraglio possa esserci», ha dichiarato.
Nel frattempo le strade percorribili sono la certificazione dei crediti e le compensazioni con i debiti fiscali. Due opportunità offerte alle imprese dal governo Monti e che Passera ha rivendicato con orgoglio.
Al termine del primo mese di operatività (gennaio 2013), ha annunciato il ministro, le amministrazioni abilitate all'utilizzo del sistema di certificazione dei crediti sono state 1.227, sono state rilasciate 71 certificazioni (per circa 3 mln di euro) e presentate 467 istanze (per circa 45 mln di euro). Le compensazioni fiscali concluse nel 2012 ammontano invece a 200 per un importo di 15 milioni di euro.
Per quanto riguarda la richiesta di un intervento chiarificatore sui tempi di pagamento, Passera non si è tirato indietro. «Cercheremo di trovare una soluzione», ha dichiarato, «perché l'applicazione della direttiva deve essere rigorosa».
«Intanto», ha proseguito, «va risolto il problema del debito pregresso che è una zavorra accumulatasi ai danni delle imprese creditrici e della stessa p.a.». Secondo il ministro dello sviluppo economico la strada maestra da percorrere è una revisione del patto di stabilità, europeo e interno, in modo che i vincoli contabili non penalizzino la virtuosità delle amministrazioni.
Una richiesta che ha trovato concorde anche il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi secondo cui, contro i mancati pagamenti, «serve una terapia d'urto nei primi 100 giorni di governo del prossimo esecutivo». «E' essenziale che lo stato paghi almeno 48 dei 70-100 miliardi di debiti pregressi. L'importo sul deficit sarebbe irrilevante per il 2013 e in ogni caso ampiamente compensato dagli effetti benefici sull'economia» (articolo ItaliaOggi del 12.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIMini-enti, fuori dal Patto le spese per calamità.
In Piemonte, non sono pochi i sindaci dei piccoli comuni che aspettano di ricevere i contributi per l'alluvione del 1994. Forse arriveranno nel 2013, a quasi 20 anni di distanza da quel tragico evento. Ma, a meno che il Mef non cambi idea, si tratterà di entrate non valide ai fini del Patto di stabilità interno, anche se nel frattempo gli enti hanno effettuato gli interventi di ripristino finanziandoli con risorse proprie.
La beffa, che rischia di sballare ulteriormente i già precari equilibri di bilancio dei mini-enti, emerge dalla lettura della circolare 07.02.2013 n. 5/2013, diramata dalla Ragioneria generale dello Stato per illustrare il funzionamento del nuovo Patto.
La relativa disciplina prevede una deroga specifica per le entrate e le spese relative a calamità naturali. Esse, infatti, purché siano di provenienza statale, possono essere escluse dal saldo. Il problema è che spesso le entrate tardano ad arrivare, mentre le spese rivestono quasi sempre carattere di urgenza, tanto che i sindaci sono costretti ad anticiparle di tasca propria, in attesa che lo stato o le regioni effettuino i rimborsi. In tali casi, vale la regola della «simmetria»: se a suo tempo hai detratto le spese (impegni o pagamenti, a seconda che siano correnti o in conto capitale), devi fare lo stesso con le entrate nel momento in cui le accerti o le riscuoti.
La circolare del Mef, al punto C4, fornisce alcuni esempi pratici che aiutano a capire. Un ente, nel 2013, accerta entrate per 100 a fronte di impegni già assunti a valere su altre risorse negli anni precedenti; in tal caso, l'accertamento di 100 è escluso dal saldo 2013, mentre non possono essere esclusi ulteriori impegni a valere sui 100. Esempio analogo vale per gli investimenti.
Tale lettura è certamente corretta laddove l'ente in questione abbia, a suo tempo, detratto la spesa effettuata con risorse proprie dai calcoli del Patto. Ma ciò, nel caso dei comuni fra 1000 e 5000 abitanti, non è vero, perché tali enti non erano soggetti. Questi ultimi, quindi, pur non avendo, in passato, detratto alcuna spesa, non potranno tenere buona l'entrata di quest'anno.
Si tratta di una penalizzazione che si aggiunge a quella derivante dalla mancata attuazione della norma che prevede la possibilità di escludere dal Patto le spese per calamità naturali finanziate dagli enti con risorse proprie. Ma, mentre per ovviare a quest'ultima occorre una legge, la prima potrebbe essere corretta dal Mef (articolo ItaliaOggi del 12.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Semplificazioni. Per le Pmi una sola certificazione al posto di sette vincoli burocratici.
Autorizzazione unica verso l'ok. Dopo il parere della commissione Ambiente della Camera in settimana il varo in Cdm.
L'IMPATTO/ L'intervento alleggerisce gli oneri delle imprese di 1,3 miliardi. Montecitorio chiede di rivedere la durata di 15 anni giudicata troppo lunga.

L'autorizzazione unica ambientale arriva all'ultimo miglio. E vede il traguardo che taglierà sul filo di lana già questo venerdì quando il Governo in uno dei suoi ultimissimi consigli dei ministri dovrebbe varare, dopo un lungo iter durato 6 mesi, il Dpr che apre le porte all'attesa semplificazione per le Pmi che unisce in una sola autorizzazione almeno sette adempimenti burocratici sul fronte ambientale.
Ieri la commissione Ambiente della Camera ha dato infatti l'ultimo parere, dopo quello arrivato dal Senato prima di Natale, al decreto che attua l'articolo 23 del «Semplifica Italia» (35/2012). Un parere favorevole, quello di Montecitorio, anche se corredato da una serie di osservazioni e da una condizione: quella di rivedere la durata dell'autorizzazione prevista dal Dpr in 15 anni e giudicata troppo lunga.
L'«Aua», questo l'acronimo che sta appunto per Autorizzazione unica ambientale, promette di dare una mano alle piccole e medie imprese semplificando al massimo una serie di «titoli abilitativi» (autorizzazioni, comunicazioni, nulla osta) a cui sono assoggettate le piccole e medie imprese e gli impianti che non hanno dimensioni tali da soggiacere all'Aia (autorizzazione integrata ambientale).
Si tratta, secondo le stime del Governo, di una misura anti-burocrazia che incide sulla vita delle Pmi con un conto salato di oneri amministrativi che vale in tutto 1,3 miliardi. Non a caso era stato lo stesso premier Monti a segnalare l'importanza di questa misura dopo il suo primo varo in consiglio dei ministri a metà settembre dell'anno scorso: «Renderà più semplice la vita delle imprese», aveva detto Monti convinto che sarebbe stata anche di «grande aiuto per la crescita».
L'«Aua» raccoglie in un unico procedimento fino a sette adempimenti ambientali che prima dovevano essere ottenuti singolarmente. E cioè: l'autorizzazione agli scarichi; la comunicazione preventiva sull'uso delle acque reflue; l'autorizzazione alle emissioni in atmosfera; l'autorizzazione generale per le imprese con emissioni modeste; il nulla osta per valutare l'impatto acustico; l'autorizzazione all'uso dei fanghi di depurazione in agricoltura; la comunicazione in materia di autosmaltimento e recupero dei rifiuti. Ma le Regioni, a loro volta, potranno estendere l'elenco ricomprendendovi eventualmente anche altre autorizzazioni.
Per chiedere l'autorizzazione unica ambientale basterà presentare una domanda sola allo Sportello unico per le attività produttive (Suap). Che, in via telematica, trasmetterà l'istanza delle imprese alle «autorità competenti» (Regione, Comune, Provincia o Arpa a seconda dei casi) che a loro volta dovranno rispondere entro 90 giorni. Su questo punto in particolare la commissione Ambiente della Camera, tra le sue osservazioni, ha segnalato di individuare nella sola Provincia l'autorità competente, «salvo diversa previsione della normativa regionale».
Tempi certi e brevi –90 giorni– che potranno allungarsi a 120 giorni o al massimo 150 in caso di procedimento che coinvolga la conferenza dei servizi o che preveda integrazioni. Il decreto fissa infine a 15 anni la durata dell'Aua, uniformando così i diversi termini di scadenza che oggi interessano le singole autorizzazioni. Ma su questo la commissione Ambiente, nel suo parere, ha avanzato come condizione «l'opportunità di verificare la congruenza dei quindici anni quale durata dell'autorizzazione unica ambientale». 
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Ieri l'ok delle commissioni del Senato. Adempimenti facilitati per le piccole imprese
IL RUOLO DEL SUAP/ L'Aua sarà rilasciata dallo Sportello unico per attività produttive e avrà una durata di 15 anni.

Si presenta sulla rampa di lancio l'atteso regolamento sull'autorizzazione unica ambientale (Aua) e la semplificazione degli adempimenti amministrativi in materia ambientale gravanti sulle imprese e sugli impianti non soggetti ad Aia (autorizzazione integrata ambientale). Lo schema ha infatti ricevuto ieri il parere favorevole delle competenti commissioni parlamentari del Senato.
La nuova tipologia di autorizzazione prevista dall'imminente decreto è stata introdotta dall'articolo 23 della legge 35/2012 dedicata alle semplificazioni in materia amministrativa e burocratica. Beneficiari del nuovo sistema saranno fondamentalmente le imprese piccole e medie le cui soglie dimensionali sono individuate dal Dm Attività produttive 18 aprile 2005 che, finalmente, riceveranno l'autorizzazione da un unico ente. Questo riferimento unitario è rappresentato dallo Sportello unico per attività produttive (Suap) previsto dal Dpr 160/2010. Per gli impianti soggetti a Via (Valutazione d'impatto ambientale) la procedura non sarà attivabile ove tale valutazione comprenda e sostituisca tutti gli atti di assenso, comunque denominati, in materia ambientale.
La nuova autorizzazione dovrebbe avere una durata di quindici anni (il Senato ha espresso le proprie riserve al riguarda ma, per gli scarichi contenenti sostanze pericolose viene prevista una relazione intermedia sulla situazione degli autocontrolli da inviare ogni quattro anni). Le verifiche per la completezza della documentazione non potranno durare più di 30 giorni. La conferenza di servizi è prevista solo nel caso in cui la nuova autorizzazione riguardi il rilascio di titoli abilitativi per i quali almeno uno dei termini di conclusione del procedimento sia fissato in misura superiore ai 90 giorni ai sensi dell'articolo 90 Dpr 160/2010. I pareri, i nulla osta e gli atti di assenso comunque denominati di competenza di altri enti devono tutti e sempre transitare per il Suap.
Per il rinnovo dell'Aua è prevista una semplice autocertificazione; tuttavia, ove intervengano modifiche nel processo produttivo, sarà necessaria l'attivazione della Conferenza di servizi.
Le spese per rilievi e accertamenti sono poste a carico dell'impresa richiedente.
Ministero dell'Ambiente, Conferenza unificata e organizzazioni imprenditoriali individueranno le forme per monitorare l'attuazione delle disposizioni introdotte dal nuovo regolamento.
I titoli abilitativi che saranno sostituiti dalla nuova autorizzazione sono i seguenti: scarichi idrici, comunicazione preventiva per l'utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento; emissioni in atmosfera, autorizzazione generale di cui all'articolo 272, "Codice ambientale"; spandimento fanghi in agricoltura di cui al Dlgs 99/1992; iscrizione presso i registri provinciali per il recupero agevolato dei rifiuti pericolosi e non pericolosi (articolo Il Sole 24 Ore del 12.02.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPassate le scadenze della riforma Brunetta. Accordi integrativi a rischio nullità negli enti territoriali.
FUORI LINEA/ Le intese andavano adeguate entro la fine del 2012 e il mancato rinnovo può rendere illegittime le indennità locali.

Integrativi a rischio nella maggioranza degli enti locali e delle Regioni, che non hanno adeguato le regole delle intese decentrate alle previsioni della riforma Brunetta.
Il tempo per adeguarsi al nuovo quadro delle competenze, che per esempio sottrae alla concertazione le materie che riguardano l'organizzazione degli uffici assegnandole alla competenza dirigenziale, è scaduto nel silenzio a fine dicembre del 2012. Complice il congelamento di tutta la contrattazione dettato dal Dl 78/2010, soprattutto nelle autonomie territoriali lo slancio nella revisione delle dinamiche contrattuali alla luce della riforma non è stato particolarmente intenso, e nella maggioranza degli enti ha lasciato le cose com'erano, in attesa di tempi migliori. La riforma, però, nonostante le consuete proroghe, non dava scelta: le intese decentrate andavano adeguate entro il 31 dicembre scorso (articolo 65, comma 4, del Dlgs 150/2009).
Negli ultimi giorni il problema è arrivato sui tavoli della Funzione pubblica e delle organizzazioni sindacali, che si sono chieste che cosa possa succedere nelle amministrazioni che hanno mantenuto inalterate le vecchie intese. I rischi principali riguardano la corresponsione delle indennità integrative, perché di fatto diventa illegittimo il contratto decentrato sulla base del quale sono erogate. A ben vedere, sulla base di questa impostazione il problema potrebbe non toccare le voci che trovano la propria origine nei contratti nazionali, come accade per esempio per il turno o per l'indennità di lavoro notturno (ad esempio nella Polizia locale). Il contratto nazionale, però, demanda integralmente alle intese decentrate altre indennità, come quelle di rischio e quelle legate a specifiche responsabilità. Per queste voci, le contestazioni potrebbero arrivare numerose, anche a causa dell'articolata griglia di controlli sui contratti decentrati introdotta dalla stessa riforma Brunetta nell'articolo 40-bis del testo unico del pubblico impiego (Dlgs 150/2001).
Proprio per questa ragione, nei giorni scorsi i sindacati hanno avviato i contatti con il Governo per cercare di mettere una pezza al problema evitando altri colpi al potere d'acquisto delle retribuzioni pubbliche. Non manca chi sostiene che l'illegittimità bollerebbe solo le parti dei contratti decentrati non in linea con la riforma, a partire da quelle che chiedono il confronto sindacale per le materie organizzative. L'"illegittimità parziale", però, è disciplinata dall'articolo 40, comma 3-quinquies del Dlgs 165/2001 solo per le intese che sono state riviste dopo la riforma, ma presentano ancora clausole difformi: in questo caso, l'illegittimità sarebbe selettiva, mentre se la revisione dell'intesa manca completamente potrebbe essere l'intero contratto decentrato a perdere il proprio valore. Vista la complessità della materia, e la concretezza delle responsabilità e delle conseguenze che ne potrebbero derivare, le istruzioni ufficiali sono particolarmente attese.
Così com'è atteso un altro provvedimento che manca all'appello, e che dovrebbe prorogare al 2013/2014 il blocco dei rinnovi contrattuali nazionali del pubblico impiego. Anche il «congelamento» introdotto nel Dl 78/2010 è scaduto a fine 2012, ed è decisamente improbabile un via libera alle contrattazioni: il Dpcm di proroga del blocco era del resto stato già annunciato dal Governo, ma poi si è perso per strada e difficilmente vedrà la luce prima del voto (articolo Il Sole 24 Ore del 12.02.2013).

TRIBUTITares, pagheranno le imprese. A carico delle aziende gli sconti concessi dai sindaci. Le indicazioni nello schema tipo di regolamento e nelle linee guida diffuse giovedì.
Le imprese pagheranno gli sconti Tares concessi dai sindaci alle abitazioni civili per incentivare la raccolta differenziata.

La conferma arriva dallo schema-tipo di regolamento comunale relativo al nuovo tributo su rifiuti e servizi diffuso dal dipartimento delle Finanze, insieme a dettagliate «Linee guida», la scorsa settimana (si veda ItaliaOggi dell'8 febbraio).
La Tares (istituita dall'art. 14 del dl 201/2011 per razionalizzare il sistema di imposizione sui rifiuti) deve garantire, infatti, la copertura integrale dei costi dei servizi di raccolta e smaltimento.
Una delle conseguenze di questo vincolo è che le riduzioni per la raccolta differenziata riferibili alle utenze domestiche deve essere addebitata a quelle non domestiche (quali attività commerciali, industriali, artigianali, professionali e produttive in genere).
Il peso in termini finanziari di questa sorta di «partita di giro», precisano le linee guida ministeriali, è rimesso alla scelta discrezionale di ciascun ente locale «senza obbligo di specifica motivazione sul punto». È ovvio, però, che si tratta di una scelta che andrà attentamente calibrata, specialmente nei comuni che finora hanno applicato la Tarsu, al fine di non appesantire ulteriormente il carico fiscale sui soggetti produttivi, che quasi certamente dovranno anche scontare un aggravio dell'Imu.
Le Finanze chiariscono anche alcuni altri aspetti dubbi della disciplina relativa alla Tares.
Il primo riguarda l'evidente contrasto esistente fra l'art. 14, c. 23, del dl 201, che rimette ai comuni la determinazione delle tariffe, e l'art. 34, c. 23, del dl 179/2012, che invece assegna tale competenza agli enti regionali di governo degli ambiti e dei bacini territoriali ottimali.
Quest'ultima disposizione viene completamente ignorata, riaffermando indirettamente la piena competenza dei consigli comunali, ferma restando la necessità che le tariffe siano conformi al piano finanziario del servizio di gestione dei rifiuti approvato dall'Autorità dell'ambito territoriale ottimale o dai diversi soggetti individuati a livello regionale.
Lo schema di regolamento, inoltre, elenca dettagliatamente i locali e le aree escluse dalla tassazione per inidoneità a produrre rifiuti: fra queste rientrano anche le aree adibite in via esclusiva alla sosta gratuita dei veicoli (ad esempio, il parcheggio di un supermercato), che secondo alcuni interpreti avrebbero dovuto essere soggette.
Arriva poi la conferma che la tariffa corrispettiva alternativa ai tributi può essere istituita solo dai comuni che dispongono di sistemi di misurazione puntuale della quantità di rifiuti conferiti dalla singola utenza, oggi presenti in poche realtà.
Sempre riguardo alla tariffa corrispettiva, un'ulteriore precisazione concerne le modalità di determinazione del costo del servizio, dopo che la l 228/2012 ha abrogato la previsione (art. 14, c. 12, del dl 201) che la rimandava ad un apposito regolamento statale. Anche in tal caso, come per il tributo, si applicano le disposizioni del dpr 158/1999.
Tuttavia, secondo i chiarimenti del ministero, i comuni non sono vincolati al rispetto puntuale dei coefficienti stabiliti dal c.d. «metodo normalizzato», ma sono liberi di muoversi liberamente all'interno della forchetta compresa fra il minimo e il massimo.
Infine, rimangono ancora alcune incertezze riguardo alla riscossione.
La legge 228 ha stabilito che essa, oltre che gestita direttamente dai comuni, possa anche essere affidata agli attuali gestori, fermo restando, però, l'obbligo di versamento diretto al comune.
Per i piccoli comuni, però, tale obbligo mal si concilia con quello di gestire in forma associata (insieme alle altre funzioni fondamentali), anche quelle relative ai rifiuti, che per espressa previsione di legge includono la riscossione dei relativi tributi.
Al riguardo, si ritiene che il gettito della Tares possa essere attribuito direttamente alle unioni, salvo i casi in cui i sindaci optino per il modello alternativo della convezione.
Del resto, in base all'art. 32, c. 7, del Tuel, alle unioni (e non ai singoli comuni associati) competono gli introiti derivanti dalle tasse, dalle tariffe e dai contributi sui servizi ad esse affidati (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.02.2013).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIVademecum sui diritti-doveri di datori e dipendenti in occasione delle operazioni di voto. Elezioni, l'assenza è legittimata. I permessi sono considerati giornate di attività lavorativa.
Assenza giustificata per chi partecipa alle operazioni di voto. I lavoratori dipendenti, infatti, qualora vengano nominati presidente, segretario, scrutatore o rappresentante di lista presso seggi, possono assentarsi dal lavoro con diritto alla conservazione del posto per tutto il periodo corrispondente alla durata delle operazioni di voto e scrutinio.

Si chiamano «permessi elettorali» e fanno sì che i giorni di assenza vengano considerati a tutti gli effetti «giornate di attività lavorativa». Vediamone dunque la disciplina in vista del prossimo impegno elettorale per le politiche (elezione del parlamento) e le regionali del 24 e 25 febbraio, nonché per le amministrative che si svolgeranno il 26 e 27 maggio con eventuale ballottaggio nei giorni 9 e 10 giugno.
Il diritto ai permessi elettorali. Il diritto ai permessi elettorali è riconosciuto a tutti i lavoratori dipendenti che vengano nominati scrutatore, segretario, presidente, rappresentante di lista o di gruppo presso seggi elettorali, in occasione di qualsiasi tipo di consultazione, compresi i referendum e le elezioni europee. Il diritto si concreta nella possibilità di assentarsi dal lavoro per il periodo corrispondente alla durata delle operazioni elettorali (di voto e di scrutinio).
Il diritto al permesso elettorale significa, in altre parole, che i giorni di assenza vengono considerati dalla legge, a tutti gli effetti, giornate di attività lavorativa: i giorni lavorativi passati al seggio sono, dunque, retribuiti come se il lavoratore avesse normalmente lavorato. I giorni festivi e quelli non lavorativi, invece (l'ipotesi ricorrente è la domenica, nonché il sabato per le imprese che applicano la settimana lavorativa cosiddetta corta), sono recuperati con una giornata di riposo compensativo; oppure possono essere compensati con quote giornaliere di retribuzione in aggiunta alla retribuzione normalmente percepita. Una eventuale rinuncia al riposo deve comunque essere validamente accettata dal lavoratore.
In base ai principi in tema di riposo settimanale il riposo compensativo deve essere goduto con immediatezza, cioè subito dopo la fine delle operazioni svolte al seggio. In base alla sentenza della Corte di cassazione n. 11830/2001, anche se l'attività prestata per lo svolgimento delle operazioni elettorali copre una sola parte della giornata, l'assenza è legittima per tutto il giorno lavorativo che, quindi, deve essere retribuito interamente. Resta fermo che le assenze per permessi elettorali devono essere giustificate dal lavoratore al proprio datore di lavoro e ciò può avvenire mediante esibizione di idonea documentazione (la nomina, per esempio).
La settimana corta. L'impresa che attua, ai fini lavorativi, la cosiddetta settimana corta ha un orario settimanale di lavoro articolato da lunedì a venerdì; sabato è una giornata non lavorativa e domenica è festivo.
I giorni trascorsi al seggio dovranno essere considerati nel modo seguente:
● sabato e domenica: il lavoratore ha diritto a una giornata di riposo compensativo oppure a una aggiunta di retribuzione pari a una giornata (retribuzione mensile diviso 26 o lo specifico divisore previsto dal ccnl per la determinazione della paga giornaliera);
● lunedì: il lavoratore ha diritto ad assentarsi dal lavoro e a percepire la piena retribuzione, come se avesse lavorato (vanno compresi, pertanto, anche eventuali indennità aggiuntive);
● martedì: se le operazioni di scrutinio si prolungano oltre le ore 24,00 del lunedì, il lavoratore ha diritto ad assentarsi dal lavoro anche per questa giornata e a percepire la piena retribuzione, come se avesse lavorato.
Se le operazioni terminano entro le ore 24 del lunedì, il lavoratore fruirà dei riposi compensativi che gli spettano per le giornate di sabato e domenica nei giorni di martedì e mercoledì; ove, invece, le operazioni terminano nelle prime ore di martedì mattina, il lavoratore fruirà dei riposi compensativi nei giorni di mercoledì e giovedì.
La settimana lunga. L'impresa che attua, ai fini lavorativi, la settimana lunga ha l'orario settimanale di lavoro articolato da lunedì a sabato; resta, dunque, soltanto la domenica come giornata festiva.
I giorni trascorsi al seggio dovranno essere considerati nel modo seguente:
● sabato: il lavoratore ha diritto ad assentarsi dal lavoro e a percepire la piena retribuzione, come se avesse lavorato (vanno compresi, pertanto, anche eventuali indennità aggiuntive);
● domenica: il lavoratore ha diritto a una giornata di riposo compensativo oppure a una aggiunta di retribuzione pari a una giornata (retribuzione mensile diviso 26 o lo specifico divisore previsto dal ccnl per la determinazione della paga giornaliera);
● lunedì: il lavoratore ha diritto ad assentarsi dal lavoro e a percepire la piena retribuzione, come se avesse lavorato;
● martedì: se le operazioni di scrutinio si prolungano oltre le ore 24,00 del lunedì, il lavoratore ha diritto ad assentarsi dal lavoro anche per questa giornata e a percepire la piena retribuzione, come se avesse lavorato.
Se le operazioni terminano entro le ore 24,00 del lunedì, il lavoratore fruirà del riposo compensativo che gli spetta per la giornate di domenica il martedì; ove, invece, le operazioni terminano nelle prime ore di martedì mattina, il lavoratore fruirà del riposo compensativo il mercoledì.
I permessi per recarsi a votare. Impiegati pubblici più tutelati dei privati, in tal caso. La necessità di assentarsi dal lavoro, non per svolgere funzioni elettorali ma soltanto per adempiere al diritto–dovere di esprimere il voto, si presenta ricorrentemente, per esempio, nelle ipotesi di lavoratori che hanno residenza in un Comune diverso (e lontano) da quello di esercizio dell'attività lavorativa. In materia, vigono diverse regole a seconda che si tratti di lavoratori del settore pubblico o privato.
Per i lavoratori del settore privato non esistono norme di legge specifiche in merito. Tuttavia in base a usi è pacifico il diritto del lavoratore a chiedere e ottenere permessi non retribuiti per raggiungere il proprio comune di residenza con i mezzi di trasporto ordinari (treno, aereo, nave). Il lavoratore avrà cura, in tal caso, di presentare al proprio datore di lavoro la tessera elettorale, timbrata dalla sezione, che attesti l'avvenuto esercizio del diritto di voto.
Per i lavoratori del settore pubblico, la concessione del permesso retribuito per recarsi a votare in comune diverso da quello della sede di servizio, ai sensi dell'articolo 118 del dpr n. 361/1957, è previsto soltanto nell'ipotesi in cui il lavoratore risulti trasferito di sede nell'approssimarsi delle elezioni. In tal caso, il lavoratore anche se ha provveduto nel prescritto termine di 20 giorni a chiedere il trasferimento di residenza, risulta che non ha ancora ottenuto l'iscrizione nelle liste elettorali della nuova sede di servizio. Se spetta, il permesso retribuito per l'esercizio del diritto di voto sarà di:
● un giorno per le distanze da 350 a 700 chilometri;
● due giorni per le distanze oltre i 700 chilometri o per spostamenti da e per le isole (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.02.2013).

APPALTILavori pubblici. Il rilascio di un provvedimento interdittivo impedirà la stipula dell'accordo e comunque ne farà scattare la risoluzione.
Più controlli antimafia negli appalti. Da domani gli accertamenti sulle infiltrazioni si estendono ai familiari dell'imprenditore.

Al via da domani le nuove regole sulla documentazione antimafia. Il Dlgs 218/2012 ha anticipato al 12 febbraio l'entrata in vigore delle norme contenute nel libro II del Dlgs 159/2011 (di riforma del Codice antimafia), rimaste finora congelate in attesa dell'attivazione della banca dati nazionale della documentazione antimafia che invece, per il momento, resterà in standby.
Nel riordino della disciplina, il Codice mantiene inalterata la distinzione tra comunicazione ed informazione antimafia: la prima attesta l'eventuale sussistenza di misure di prevenzione a carico di un'impresa; mentre, la seconda accerta anche la presenza di tentativi di infiltrazione mafiosa all'interno della società.
Come in passato, la documentazione dovrà essere acquisita dalle amministrazioni prima della stipula, o dell'autorizzazione, di contratti e subcontratti pubblici di lavori, servizi e forniture in base ai seguenti scaglioni:
- comunicazione in caso di contratti di importo superiore a 150mila euro e inferiore alle soglie comunitarie (attualmente di 5 milioni per i lavori, 200mila per i servizi e 130mila euro per le forniture);
- informazione per contratti di importo superiore alle soglie e per subcontratti di importo superiore a 150mila euro.
Diverse tuttavia le novità, a cominciare dalla modalità di acquisizione della comunicazione antimafia che potrà essere rilasciata solamente dal prefetto della provincia in cui ha sede l'ente richiedente, attraverso l'utilizzo dei collegamenti telematici con le altre banche dati già esistenti (Ced interforze e Camere di commercio). Nel Codice non è stata infatti inserita una disposizione analoga all'articolo 9 del Dpr 252/1998, che equiparava il certificato di iscrizione al Registro imprese rilasciato dalla Camera di commercio con il nullaosta antimafia alla comunicazione e che, quindi, consentiva ai committenti di effettuare i controlli direttamente mediante le Camere di commercio. L'informazione antimafia continuerà ad essere rilasciata dalle prefetture.
Il Codice ha tuttavia ampliato l'elenco delle situazioni dalle quali si potrà desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa: rispetto al passato, l'informativa sarà interdittiva anche in caso di condanna, comprese quelle non definitive, per i nuovi reati di turbata libertà degli incanti e del procedimento di scelta del contraente, oltre che per truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche; oppure, ancora, nel caso in cui l'impresa non abbia denunciato all'autorità giudiziaria i reati di corruzione ed estorsione, a meno che non vi sia stata costretta per stato di necessità o per legittima difesa (si veda anche la tabella a fianco).
Ma il Dlgs 218/2012 ha ulteriormente arricchito il catalogo delle situazioni in odore di mafia, desumendo l'infiltrazione anche dalla violazione degli obblighi di tracciabilità dei pagamenti imposti dalla legge n. 136/2010: l'informazione vieterà la stipula del contratto, solo per comportamenti reiterati nell'arco di cinque anni.
Ampliata inoltre la schiera dei soggetti sottoposti a verifica che fa registrare l'ingresso in elenco dei familiari conviventi.
Un'autentica novità è poi rappresentata dagli effetti collegati alle informazioni antimafia: d'ora in avanti, infatti, il rilascio di un provvedimento interdittivo impedirà sempre la stipula del contratto e determinerà in ogni caso la sua risoluzione in fase esecutiva. Come confermato dal comunicato Casgo (comitato di sorveglianza Grandi opere) del 19.12.2012, scompare dunque la categoria delle informative atipiche che, sino ad ora, lasciavano alla discrezionalità delle stazioni appaltanti, la decisione sulle sorti del contratto.
Confermata infine la validità della comunicazione antimafia per sei mesi dalla data di acquisizione, aumentata a un anno nel caso dell'informazione, sempre che non siano intervenuti mutamenti nell'assetto societario e gestionale dell'impresa, da comunicare al prefetto entro 30 giorni, pena l'applicazione di una sanzione da 20 a 60mila euro (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.02.2013 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI: Pagamenti. L'applicazione delle norme sui tempi e ritardi. Anche le verifiche della Pa entro il termine di 30 giorni.
Le amministrazioni pubbliche devono pagare le imprese per gli appalti di forniture, servizi e lavori entro il termine standard di 30 giorni, ma possono concordare con le stesse un termine diverso, in ogni caso non superiore a sessanta giorni.
Dal 1° gennaio sono entrate in vigore le modifiche alla disciplina dei pagamenti per le transazioni commerciali (contenuta nel Dlgs 231/2002), che sono interamente applicabili ai contratti pubblici, compresi quelli relativi alle opere, per espressa previsione della normativa (Dlgs n. 192/2012, che recepisce la direttiva comunitaria sui ritardi nei pagamenti, la 2011/17).
I ministeri dello Sviluppo economico e delle Infrastrutture hanno prodotto una nota interpretativa (protocollo 1293 del 23.01.2013) che ha evidenziato come la normativa settoriale (contenuta nel Codice dei contratti e nel regolamento attuativo) sia in parte compatibile con il quadro generale (con riferimento alla tempistica di 30 giorni per il saldo del certificato di pagamento), ma come presenti anche disposizioni (ad esempio quella relativa al periodo intercorrente tra la maturazione dello stato avanzamento lavori e l'emissione del certificato) confliggenti con le norme comunitarie e, quindi, sia da disapplicare (si veda anche il Sole 24 Ore del 24 gennaio).
La nuova normativa non può peraltro impedire che l'amministrazione effettui le verifiche, comprese quelle del responsabile del procedimento rispetto allo stato di avanzamento lavori proposto dal direttore lavori prima di autorizzare l'emissione della fattura o del certificato. Ma queste operazioni –comunque doverose– non potranno superare il termine standard di 30 giorni.
Anche negli appalti di lavori, quindi, si applicano i termini previsti dall'articolo 4 dell'innovato decreto 231/2002. Ed è sui tempi che i fornitori devono focalizzare l'attenzione.
Il termine standard, infatti, è individuato in 30 giorni dal ricevimento della fattura (o di altro titolo di pagamento idoneo) da parte dell'amministrazione appaltante, ma questa può concordare con l'affidatario un termine diverso, comunque non superiore a sessanta giorni e che deve essere giustificato dall'oggetto del contratto o da particolari condizioni al momento della stipulazione.
Negli appalti con gli organismi del servizio sanitario (Asl, aziende ospedaliere, istituti di ricerca) il termine standard è già di sessanta giorni (articolo 4, comma 5), senza altra estensione. Questa tempistica rischia però di essere vanificata dai vincoli posti dal patto di stabilità interno alla gestione dei flussi di spesa.
I problemi maggiori potrebbero aversi per le spese per investimenti (lavori pubblici), in considerazione della maggiore rigidità e minore frequenza dei flussi in entrata che vanno ad alimentare la cassa (aspetto invece meno rilevante per la spesa corrente, salvo che negli enti sanitari, dipendenti in gran parte dai trasferimenti regionali).
Gli operatori economici possono tuttavia controllare se i responsabili di servizio che hanno impegnato le risorse per l'appalto abbiano verificato il rispetto della programmazione della spesa (articolo 9, comma 2, legge n. 102/2009).
Un ulteriore problema potrebbe aversi in relazione ai tempi per l'acquisizione del Durc (documento unico di regolarità contributiva) da parte della stazione appaltante, qualora non coincidano con lo standard dei 30 giorni: la mancanza del Durc impedisce infatti di dar corso al pagamento.
In caso di ritardo, la corresponsione degli interessi di mora deve essere effettuata dalle amministrazioni automaticamente, senza diffida del l'impresa. Inoltre devono essere rimborsati all'operatore economico i costi per il recupero dei crediti e deve essere corrisposto un indennizzo forfettario di 40 euro.
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I vincoli
01 | LE SCADENZE
Dal primo gennaio con l'entrata in vigore del Dlgs 190/2012 le amministrazioni devono saldare i fornitori entro trenta giorni dal certificato di pagamento (60 per la Sanità). Tempi diversi possono essere concordati tra le parti, fino a un massimo di 60 giorni, ma vanno motivati
02 | LE CONSEGUENZE
Se i nuovi termini vengono superati, l'amministrazione deve riconoscere al debitore gli interessi di mora in automatico, senza diffida
03 | LE VERIFICHE
Il funzionario responsabile del procedimento deve comunque effettuare i controlli sullo stato di avanzamento lavori fornito dall'impresa nel limite dei trenta giorni
04 | LE DIFFICOLTÀ
Se l'amministrazione non riesce ad acquisire il Durc entro i trenta giorni, non può comunque procedere al pagamento. Ulteriori ritardi potrebbero essere causati dalla necessità per l'ente appaltante di ritardare i pagamenti per via del patto di stabilità (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTIDal 1° gennaio. I contratti ora solo in formato digitale.
Dal primo gennaio i contratti di appalto hanno detto addio alla carta. Da quella data infatti tutti i contratti pubblici di lavori, servizi o forniture devono essere stipulati, a pena di nullità, con atto pubblico notarile informatico, oppure in modalità elettronica secondo le regole di ciascuna stazione appaltante, in forma pubblica amministrativa o con scrittura privata.

Il Decreto crescita (Dl 179/2012) ha introdotto questa importante novità nel Codice dei contratti pubblici, riformulando la disposizione che disciplina la formalizzazione dei rapporti tra stazioni appaltanti e operatori economici aggiudicatari (articolo 11 del Dlgs 163/2006). La norma impone il passaggio al digitale, prescrivendo la nullità di tutti i contratti pubblici ancora stipulati su supporto cartaceo, fatta eccezione per le scritture private.
La stipula elettronica dei contratti per gli appalti pubblici semplifica le procedure e garantisce minori costi.
L'interpretazione prevalente in sede di prima analisi della norma evidenzia come dal 01.01.2013 le amministrazioni aggiudicatrici debbano digitalizzare i contratti sia se ricorrono ad un notaio sia se interviene come ufficiale rogante il segretario comunale. Ormai solo la scrittura privata è gestibile con modalità tradizionali (firma autografa sul supporto cartaceo, con formalizzazione semplice o autenticata).
Il percorso per l'atto pubblico notarile informatico è disciplinato in modo dettagliato da una serie di disposizioni della legge notarile (n. 89/1913) introdotte dal Dlgs 110/2010.
L'articolo 52-bis, in particolare, consente la sottoscrizione delle parti sia con la firma digitale sia con la firma elettronica, consistente anche nell'acquisizione digitale della sottoscrizione autografa.
L'alternativa all'atto pubblico notarile informatico è individuata nella forma pubblica amministrativa, anch'essa realizzata con modalità elettroniche, che devono tuttavia essere definite dalle stazioni appaltanti con proprie norme, da inserire nel regolamento dei contratti.
L'intervento del segretario comunale come ufficiale rogante segue lo schema operativo delineato dalla legge notarile, per cui anche in tal caso le sottoscrizioni delle parti possono essere acquisite con forma digitale o firma autografa scannerizzata.
Il passaggio più delicato è quello della registrazione del l'atto, per la quale molte amministrazioni pubbliche (soprattutto enti locali) stanno sperimentando l'utilizzo del software Unimod, messo a disposizione dall'agenzia delle Entrate: il programma consente anche il pagamento del l'imposta di registro e dell'imposta di bollo.
Proprio rispetto a quest'ultimo adempimento tributario si rileva uno dei principali elementi positivi per gli operatori economici, in quanto in base al Dm 22 febbraio 2007 il pagamento del bollo è effettuato in modo forfettario proprio in funzione della registrazione telematica (per un importo di 45 euro ad atto).
Più complesso appare il tema dei diritti di segreteria, per i quali le amministrazioni locali dovrebbero prevedere un passaggio intermedio, anch'esso digitalizzato, immediatamente precedente la registrazione.
Il flusso gestionale del contratto informatizzato si completa con la conservazione, per la quale i notai si avvalgono di una struttura tecnologica messa a punto dalla società informatica del Notariato, Notartel, con il coordinamento della commissione Informatica interna. Questo percorso è in fase di sperimentazione collaborativa, in alcuni contesti, anche per gli atti rogati dai segretari comunali (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.02.2013).

TRIBUTILa legge di stabilità ha abrogato il comma con la riserva per l'Erario. Imu statale sulle imprese con «buco» normativo. Il divieto di agevolazioni privo di base nelle regole.
La risposta del ministero dell'Economia in merito al gettito Imu 2013 dei fabbricati rurali, data alla manifestazione Telefisco 2013 (si veda Il Sole 24 Ore del 01.02.2013), complica ancor di più l'incerto quadro normativo dell'imposta, aprendo la strada a possibilità interpretative ed applicative che sarebbero pericolose per le entrate dello Stato.
La legge di stabilità ha modificato per il 2013 le regole di riparto tra Stato e Comuni del gettito Imu. L'articolo 13, comma 11, del Dl 201/2011, che attribuiva allo Stato la riserva di una quota dell'imposta pari alla metà dell'importo dovuto ad aliquota di base di tutti gli immobili, ad eccezione dell'abitazione principale e delle pertinenze, oltre che dei fabbricati rurali ad uso strumentale, è stato soppresso.
Il gettito Imu verrà incassato tutto dai Comuni, fatta eccezione per i fabbricati di categoria D, per i quali è prevista la riserva allo Stato del gettito calcolato applicando l'aliquota standard dello 0,76 per cento. È lasciata comunque la possibilità ai Comuni di aumentare sino a 0,3 punti percentuali l'aliquota, riservandosene il gettito.
Nel ridisegnare il nuovo riparto tra Stato e Comuni il legislatore non è però intervenuto con il bisturi ma con la mannaia, eliminando integralmente il comma 11 dell'articolo 13, che prevedeva che il gettito dell'Imu dovuta per i fabbricati rurali strumentali fosse interamente riservato ai Comuni. Con l'abrogazione della norma, il gettito relativo ai fabbricati strumentali classificati in categoria D/10, essendo questi «fabbricati produttivi di categoria D», dovrebbe essere riservato, secondo il Ministero dell'Economia, allo Stato. La tesi ministeriale, sebbene aderente al dato letterale della norma, apre a parecchie incertezze.
Un primo profilo è rappresentato dalla circostanza che non tutti i fabbricati rurali strumentali sono accatastati in categoria D, potendosi accatastare, in base al decreto del ministero dell'Economia del 26.07.2012, anche in altra categoria, ad esempio C/2, ma con l'annotazione che si tratta di fabbricati rurali. Quindi, si avrebbero fabbricati strumentali, quelli con categoria D, il cui gettito sarebbe riservato allo Stato, e fabbricati strumentali, quelli iscritti nelle altre categorie catastali con l'annotazione di ruralità, il cui gettito sarebbe riservato ai Comuni. È difficile intravedere una razionalità fiscale in questa distinzione, mentre è facile vedere un'inutile complicazione per gli agricoltori.
Inoltre, nell'Imu 2013 è prevista la riserva allo Stato del gettito dei fabbricati D con applicazione dell'aliquota standard dello 0,76 per cento, ma la normativa (articolo 13, comma 8) prevede ancora oggi per i fabbricati rurali strumentali l'applicazione della aliquota base dello 0,2 per cento, peraltro non aumentabile ma solo riducibile sino allo 0,1 per cento. Secondo il ministero dell'Economia, si continuerebbe ad applicare l'aliquota dello 0,2 per cento, facendo salva anche la possibilità per i Comuni di disporre l'eventuale riduzione.
A ben vedere, la tesi ministeriale, che autorizza il Comune a intervenire sulla quota statale, troverebbe un suo fondamento nella soppressione dello stesso comma 11, che conteneva anche il divieto per i Comuni di deliberare riduzioni che potessero incidere sulla quota statale. Ma se si aderisce a tale tesi, si dovrà anche ammettere che come il Comune può ridurre l'aliquota base dei fabbricati rurali così potrà ridurre anche l'aliquota base dei fabbricati di categoria D.
È evidentemente impossibile lasciare ai Comuni la discrezionalità di abbassare l'aliquota standard, come confermato dal dipartimento Finanze che impone di rivedere le aliquote ai Comuni che prevedevano agevolazioni per questi immobili (si veda Il Sole 24 Ore del 6 febbraio). Per chiudere il cerchio, però, occorre che il legislatore intervenga nuovamente, ripristinando il comma 11 soppresso.
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Stessa categoria, trattamenti diversi
Secondo l'amministrazione finanziaria anche nel 2013 i fabbricati strumentali all'attività agricola godono dell'aliquota agevolata anche se sono accatastati nella categoria D, per la quale in genere la legge di stabilità prevede la riserva statale del gettito ad aliquota standard dello 0,76%.
Proprio la riserva statale, secondo le Finanze, impedisce ai Comuni di prevedere sconti sui capannoni delle imprese: questa riserva era però contenuta nell'articolo 13, comma 11, del Dl 201/2011, abrogato dalla legge di stabilità (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

CONSIGLIERI COMUNALI: L’art. 43 del TUEL prevede il diritto dei consiglieri comunali di ottenere dagli uffici tutte le notizie e informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del loro mandato.
Pertanto, la ratio della norma è nel principio democratico dell’autonomia locale e della rappresentanza esponenziale, sicché tale diritto è direttamente funzionale non tanto all’interesse del consigliere comunale (o provinciale) ma alla cura dell’interesse pubblico connessa al mandato conferito, controllando il comportamento degli organi decisionali del Comune.
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Il diritto di accesso dei Consiglieri comunali non è soggetto ad alcun onere motivazionale giacché diversamente opinando sarebbe introdotto una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale. Gli unici limiti all'esercizio di tale diritto si rinvengono nel fatto che l’esercizio di tale diritto deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali e che non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazione al diritto stesso.
I consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere di utilità all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale. Di conseguenza sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che diversamente opinando sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale; dal termine "utili", contenuto nell'articolo 43 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, detto aggettivo garantendo in realtà l’estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio del mandato.
In base all'art. 43, d.lgs. 18.08.2000 n. 267 i consiglieri comunali, ivi inclusi ovviamente quelli di minoranza, hanno un diritto di accesso incondizionato -purché non invada l'ambito riservato all'apparato amministrativo e non integri però un abuso del diritto- a tutti gli atti che possano essere "utili" all'espletamento del loro mandato, anche al fine di permettere di valutare con piena cognizione la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale; sul consigliere comunale, inoltre, non può gravare alcun onere di motivare le proprie richieste di accesso atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale.
I consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere di utilità all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di permettere di valutare con piena cognizione la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale. Sul consigliere comunale, inoltre, non può gravare alcun onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che diversamente opinando sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale; dal termine «utili», contenuto nell'art, 43, d.lgs. 18.08.2000 n. 267, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, detto aggettivo garantendo in realtà l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato. Dette conclusioni si appalesano stringenti ove ad azionare l'istituto siano consiglieri di minoranza, come nel caso di specie, cui i principi fondanti delle democrazie e la legge attribuiscono compiti di controllo dell'operato della maggioranza e, quindi, dell'esecutivo, qui inteso nella sua più larga accezione di apparato politico ed apparato amministrativo, se pur, si intende, da esplicarsi nel rispetto della legge, ovvero senza indebite incursioni in ambiti riservati all'apparato amministrativo dalla legge stessa e senza porre in essere atti e/o comportamenti qualificabili come abuso del diritto.
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali quindi si atteggia quale latissimo diritto all’informazione al quale si contrappone l’obbligo degli uffici di fornire ai richiedenti tutte le notizie e informazioni in loro possesso, fermo il divieto di perseguire interessi personali o di tenere condotte emulative.
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E' legittimo il diniego opposto dall'amministrazione comunale alla richiesta rivolta dai consiglieri comunali diretta all'estrazione di copie in assenza di motivazione in ordine all'esistenza dei presupposti del diritto di accesso, soprattutto in presenza di numerose e reiterate istanze, che tendono ad ottenere la documentazione di tutti i settori dell'Amministrazione, apparendo così tendenti a compiere un sindacato generalizzato dell'attività degli organi decidenti, deliberanti e amministrativi dell'Ente che non all'esercizio del mandato politico finalizzato ad un organico progetto conoscitivo in relazione a singole problematiche che di volta in volta l'elettorato.
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Anche a voler ritenere che la nozione di “notizie e informazioni” sia più lata della nozione di “documenti” ravvisabile nell’art. 22 della l.n. 241 del 1990 –e cioè ogni elemento conoscitivo in possesso dell’amministrazione, anche non riferibile alle competenze del Consiglio Comunale, perché sempre inerente al munus rivestito e non solo i provvedimenti adottati, ma anche gli atti preparatori, anche di provenienza privata-, anche in tale situazione soggettiva speciale non può non valere il principio secondo cui il rimedio dell'accesso non può essere utilizzato per indurre o costringere l'Amministrazione a formare atti nuovi rispetto ai documenti amministrativi già esistenti, ovvero a compiere un'attività di elaborazione di dati e documenti , potendo essere invocato esclusivamente al fine di ottenere il rilascio di copie di documenti già formati e materialmente esistenti presso gli archivi dell'Amministrazione che li possiede.

L’appello è fondato per le seguenti ragioni, nonostante la latitudine che deve riconoscersi al diritto di accesso dei consiglieri comunali.
L’art. 43 del TUEL prevede il diritto dei consiglieri comunali di ottenere dagli uffici tutte le notizie e informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del loro mandato.
Pertanto, la ratio della norma è nel principio democratico dell’autonomia locale e della rappresentanza esponenziale, sicché tale diritto è direttamente funzionale non tanto all’interesse del consigliere comunale (o provinciale) ma alla cura dell’interesse pubblico connessa al mandato conferito, controllando il comportamento degli organi decisionali del Comune.
Quanto ai presupposti, si è osservato come non sia necessaria una connessione tra la conoscenza dei dati richiesti con l’attività espletata nel mandato di consigliere.
Il diritto di accesso dei Consiglieri comunali non è soggetto ad alcun onere motivazionale giacché diversamente opinando sarebbe introdotto una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale. Gli unici limiti all'esercizio di tale diritto si rinvengono nel fatto che l’esercizio di tale diritto deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali e che non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazione al diritto stesso (tra tanti, Consiglio di Stato sez. V, 29.08.2011, n. 4829).
I consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere di utilità all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale. Di conseguenza sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che diversamente opinando sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale; dal termine "utili", contenuto nell'articolo 43 del D. Lgs. 18.08.2000, n. 267, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, detto aggettivo garantendo in realtà l’estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio del mandato (così Consiglio Stato sez. V, 17.09.2010, n. 6963).
In base all'art. 43, d.lgs. 18.08.2000 n. 267 i consiglieri comunali, ivi inclusi ovviamente quelli di minoranza, hanno un diritto di accesso incondizionato -purché non invada l'ambito riservato all'apparato amministrativo e non integri però un abuso del diritto- a tutti gli atti che possano essere "utili" all'espletamento del loro mandato, anche al fine di permettere di valutare con piena cognizione la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale; sul consigliere comunale, inoltre, non può gravare alcun onere di motivare le proprie richieste di accesso atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale.
I consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere di utilità all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di permettere di valutare con piena cognizione la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale. Sul consigliere comunale, inoltre, non può gravare alcun onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che diversamente opinando sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale; dal termine «utili», contenuto nell'art, 43, d.lgs. 18.08.2000 n. 267, non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, detto aggettivo garantendo in realtà l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato. Dette conclusioni si appalesano stringenti ove ad azionare l'istituto siano consiglieri di minoranza, come nel caso di specie, cui i principi fondanti delle democrazie e la legge attribuiscono compiti di controllo dell'operato della maggioranza e, quindi, dell'esecutivo, qui inteso nella sua più larga accezione di apparato politico ed apparato amministrativo, se pur, si intende, da esplicarsi nel rispetto della legge, ovvero senza indebite incursioni in ambiti riservati all'apparato amministrativo dalla legge stessa e senza porre in essere atti e/o comportamenti qualificabili come abuso del diritto.
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali quindi si atteggia quale latissimo diritto all’informazione al quale si contrappone l’obbligo degli uffici di fornire ai richiedenti tutte le notizie e informazioni in loro possesso, fermo il divieto di perseguire interessi personali o di tenere condotte emulative.
L’appellante Comune in realtà lamenta l’abuso del diritto, rappresentando come i tre istanti abbiano manifestato l’interesse alla conoscenza rispetto ad una generalizzata serie di atti e avverso varie delibere in serie, di modo che si debba dubitare della correttezza delle esigenze di informazione, dovendosi invece ravvisarsi un generalizzato e strumentale esercizio del diritto di informazione di cui all’art. 43 del TUEL.
In effetti, il Collegio osserva il riconoscimento da parte dell'articolo 43 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (Testo Unico sugli Enti Locali) di una particolare forma di accesso costituita dall'accesso del consigliere comunale per l'esercizio del mandato di cui è attributario, che non può portare allo stravolgimento dei principi generali in materia di accesso ai documenti e non può comportare che, attraverso uno strumento dettato dal legislatore per il corretto svolgimento dei rapporti cittadino-pubblica amministrazione, il primo, servendosi del baluardo del mandato politico, ponga in essere strategie ostruzionistiche o di paralisi dell'attività amministrativa con istanze che a causa della loro continuità e numerosità determinino un aggravio notevole del lavoro negli uffici ai quali sono rivolte e determinino un sindacato generale sull'attività dell'amministrazione oramai vietato dall'art. 24, comma 3 della l. n. 241 del 1990.
Soprattutto, la particolare disposizione del Testo Unico degli Enti Locali va coordinata con la modifica introdotta all'art. 22 della l. n. 241 del 1990, dalla l. n. 15 del 2005, di tal che anche il consigliere comunale deve essere portatore di un interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento per il quale richiede l'accesso.
Sulla base di tali considerazioni generali, l’appello dell’amministrazione non può che ritenersi fondato.
Pertanto, è legittimo il diniego opposto dall'amministrazione comunale alla richiesta rivolta dai consiglieri comunali diretta all'estrazione di copie in assenza di motivazione in ordine all'esistenza dei presupposti del diritto di accesso, soprattutto in presenza di numerose e reiterate istanze, che tendono ad ottenere la documentazione di tutti i settori dell'Amministrazione, apparendo così tendenti a compiere un sindacato generalizzato dell'attività degli organi decidenti, deliberanti e amministrativi dell'Ente che non all'esercizio del mandato politico finalizzato ad un organico progetto conoscitivo in relazione a singole problematiche che di volta in volta l'elettorato.
Il Collegio osserva però che, nella fattispecie, al di là delle valutazioni su una esagerata richiesta di conoscere e informarsi su tutti i settori dell’attività amministrativa da parte dei consiglieri comunali, in ogni caso, per l’accoglimento dell’appello è sufficiente prendere atto dell’attività eseguita dal Comune in ottemperanza alla richiesta di accesso, espletatasi sia nella trasmissione e ostensione dei documenti a disposizione, sia nell’apertura di nuovi procedimenti, intesi ad acquisire maggiori conoscenze, allo stato non disponibili.
Pertanto, in buona sostanza l’ostensione degli atti richiesti ed esistenti è già avvenuta; per il resto, non si può pretendere, secondo costante giurisprudenza di questo Consesso, che l’Amministrazione costruisca una documentazione allo stato non ancora esistente.
Anche a voler ritenere che la nozione di “notizie e informazioni” sia più lata della nozione di “documenti” ravvisabile nell’art. 22 della l.n. 241 del 1990 –e cioè ogni elemento conoscitivo in possesso dell’amministrazione, anche non riferibile alle competenze del Consiglio Comunale, perché sempre inerente al munus rivestito e non solo i provvedimenti adottati, ma anche gli atti preparatori, anche di provenienza privata-, anche in tale situazione soggettiva speciale non può non valere il principio, affermato dalla Sezione (così Consiglio Stato sez. IV, 30.11.2010, n. 8359), secondo cui il rimedio dell'accesso non può essere utilizzato per indurre o costringere l'Amministrazione a formare atti nuovi rispetto ai documenti amministrativi già esistenti, ovvero a compiere un'attività di elaborazione di dati e documenti , potendo essere invocato esclusivamente al fine di ottenere il rilascio di copie di documenti già formati e materialmente esistenti presso gli archivi dell'Amministrazione che li possiede.
Nella specie, come deduce l’appellante, con nota n. 1987 del 13.04.2012, l’amministrazione rappresentava che non vi erano ulteriori documenti da esibire, fornendo le possibili informazioni e comunicava che: “agli atti del Comune non vi è un elenco dei cittadini occupanti prefabbricati senza titolo, ed è difficile censire tutti i prefabbricati poiché molti sono stati smontati e agli atti dell’Ente non risultano né atti di alienazione né atti di donazione”; il Comune “al momento sta procedendo solo in presenza di segnalazioni di cittadini alla verifica di casi di occupazione abusiva e nei prossimi giorni si procederà ad una attenta ed accurata verifica di tutti i possessori aventi titolo all’occupazione dei prefabbricati”; in allegato alla nota il Sindaco inviava gli unici atti in possesso dell’Ente e cioè l’Elenco occupanti prefabbricati comunali redatto in data 04.03.2010 dalla Polizia Municipale e dall’U.T.C. e la planimetria del 16.02.2012 delle aree prefabbricati con indicazione degli occupanti.
In corso di giudizio, anche se quindi successivamente alla introduzione del medesimo, il Comune ha anche depositato nota sindacale n. 2985 del 06.06.2012 di impulso al responsabile dell’UTC e dell’area tecnica di effettuare un dettagliato sopralluogo al fine di censire i prefabbricati di proprietà del Comune, di verificare il numero dei prefabbricati non occupati, di verificare chi ne detiene il possesso.
E’ evidente che pertanto il Comune ha soddisfatto le richieste di accesso dei consiglieri comunali e che, sulla base del principio secondo cui l’Amministrazione non può essere condannata a costruire documenti allo stato non disponibili, debba essere accolto l’appello e, in conseguenza, respinto il ricorso di primo grado, in riforma della appellata sentenza (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.02.2013 n. 846 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La lesività del titolo ad aedificandum può essere apprezzata dal vicino, che se ne dolga, esclusivamente alla data di ultimazione dei lavori, se solo in tale momento è consentito avere piena cognizione dell'esistenza e dell'entità delle violazioni edilizie, per cui a tale fine è insufficiente fare riferimento all'atto abilitativo o soltanto all' inizio dei lavori, incombendo, tra l'altro, la prova della eventuale tardività alla parte che la eccepisce.
Tale principio non vale, invece, nelle ipotesi in cui, per la natura delle censure dedotte, la percezione della lesività dell’intervento edilizio si abbia già con l’inizio dei lavori, nel qual caso il termine per impugnare decorre a prescindere dalla loro ultimazione. Si è cioè ulteriormente precisato che sebbene in linea di principio il termine per l'impugnazione in sede giurisdizionale di una concessione edilizia decorra dalla piena ed effettiva conoscenza di quest'ultima -che si verifica, in assenza di altri e più rigorosi elementi probatori, non con il mero inizio dei lavori, bensì con l'ultimazione di essi, perché solo in quel momento si possono apprezzare le dimensioni e le caratteristiche dell'opera e, quindi, l'entità delle violazioni urbanistiche derivanti dal provvedimento impugnando-, anche l'inizio dei lavori stessi, purché ne sia chiara la natura edificatoria, può determinare tale piena conoscenza della lesività, in relazione allo stato di fatto o di diritto dell'area d'intervento o alla natura e qualità di quest'ultimo (nella specie del precedente, la piena conoscenza dell'atto impugnato è stata valutata con riguardo all'apposizione del cartello di cantiere, contenente tutti gli estremi della concessione , nonché al contenuto dei motivi di ricorso, incentrati sull'inedificabilità dell'area, sulla violazione di norme paesaggistiche, sull'assenza del piano particolareggiato, sulla destinazione dell'area stessa a scopi non edificatori, ecc., ossia a dati che consentivano di ritenere sufficiente la conoscenza dell'iniziativa in corso senza bisogno d'attendere l'ultimazione dei lavori).

Nella specie, non può ritenersi che la mera apposizione del cartello abbia comportato, per il vicino confinante, la possibilità di conoscere non già l’intervento, ma tutte le caratteristiche che poi lo avrebbero indotto a ritenerlo lesivo, come la violazione delle distanze.
Il principio generale è quindi che la lesività del titolo ad aedificandum può essere apprezzata dal vicino, che se ne dolga, esclusivamente alla data di ultimazione dei lavori, se solo in tale momento è consentito avere piena cognizione dell'esistenza e dell'entità delle violazioni edilizie, per cui a tale fine è insufficiente fare riferimento all'atto abilitativo o soltanto all' inizio dei lavori, incombendo, tra l'altro, la prova della eventuale tardività alla parte che la eccepisce (di recente, tra tante, Consiglio di Stato sez. IV, 16.03.2012, n. 1488).
Tale principio non vale, invece, nelle ipotesi in cui, per la natura delle censure dedotte, la percezione della lesività dell’intervento edilizio si abbia già con l’inizio dei lavori, nel qual caso il termine per impugnare decorre a prescindere dalla loro ultimazione. Si è cioè ulteriormente precisato (tra tante, Consiglio Stato, sez. V, 29.01.1999, n. 91) che sebbene in linea di principio il termine per l'impugnazione in sede giurisdizionale di una concessione edilizia decorra dalla piena ed effettiva conoscenza di quest'ultima -che si verifica, in assenza di altri e più rigorosi elementi probatori, non con il mero inizio dei lavori, bensì con l'ultimazione di essi, perché solo in quel momento si possono apprezzare le dimensioni e le caratteristiche dell'opera e, quindi, l'entità delle violazioni urbanistiche derivanti dal provvedimento impugnando-, anche l'inizio dei lavori stessi, purché ne sia chiara la natura edificatoria, può determinare tale piena conoscenza della lesività, in relazione allo stato di fatto o di diritto dell'area d'intervento o alla natura e qualità di quest'ultimo (nella specie del precedente, la piena conoscenza dell'atto impugnato è stata valutata con riguardo all'apposizione del cartello di cantiere, contenente tutti gli estremi della concessione , nonché al contenuto dei motivi di ricorso, incentrati sull'inedificabilità dell'area, sulla violazione di norme paesaggistiche, sull'assenza del piano particolareggiato, sulla destinazione dell'area stessa a scopi non edificatori, ecc., ossia a dati che consentivano di ritenere sufficiente la conoscenza dell'iniziativa in corso senza bisogno d'attendere l'ultimazione dei lavori)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.02.2013 n. 844 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituiscono ristrutturazione urbanistica sia la trasformazione degli organismi edilizi con un insieme sistematico di opere che possono portare anche ad un organismo in tutto od in parte diverso dal precedente, sempre che detti interventi riguardino solo alcuni elementi dell'edificio (ripristino o sostituzione di alcuni elementi costituitivi dell'edificio; eliminazione, modifica e inserimento di nuovi elementi o nuovi impianti), sia la demolizione e ricostruzione, sempre che ciò avvenga con la stessa volumetria e sagoma. Laddove invece vi sia un mutamento della sagoma, debbono ravvisarsi gli estremi della nuova costruzione.
Nell'ambito delle opere edilizie, la semplice ristrutturazione si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano (e, all'esito degli stessi, rimangano inalterate) le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura.
E’ ravvisabile la ricostruzione allorché dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro.

Non possono quindi che applicarsi le conseguenze che derivano dal richiamo di consolidati principi giurisprudenziali, secondo cui (così, Consiglio Stato, sez. IV, 31.10.2006, n. 6464), costituiscono ristrutturazione urbanistica sia la trasformazione degli organismi edilizi con un insieme sistematico di opere che possono portare anche ad un organismo in tutto od in parte diverso dal precedente, sempre che detti interventi riguardino solo alcuni elementi dell'edificio (ripristino o sostituzione di alcuni elementi costituitivi dell'edificio; eliminazione, modifica e inserimento di nuovi elementi o nuovi impianti), sia la demolizione e ricostruzione, sempre che ciò avvenga con la stessa volumetria e sagoma. Laddove invece vi sia un mutamento della sagoma, debbono ravvisarsi gli estremi della nuova costruzione (nel senso che la modifica di altezza e sagoma anche ai fini delle distanze determinano nuova opera e non ristrutturazione, si veda anche Consiglio Stato, sez. V, 21.02.1994, n. 112).
Nell'ambito delle opere edilizie (così, tra tante, Cassazione civile sez. un., 19.10.2011, n. 21578), la semplice ristrutturazione si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano (e, all'esito degli stessi, rimangano inalterate) le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura.
E’ ravvisabile la ricostruzione allorché dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.02.2013 n. 844 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Esiste il principio giurisprudenziale secondo cui, posto che nella disciplina legale dei rapporti di vicinato l'obbligo di osservare nelle costruzioni determinate distanze sussiste solo relativamente alle vedute e non anche dalle luci, la dizione pareti finestrate contenuta in un regolamento edilizio che, ispirandosi all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, prescrive nelle sopraelevazioni il rispetto della distanza di 10 metri dalle pareti finestrate di edifici prospicienti, si riferisce esclusivamente alle pareti munite di finestre qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su cui si aprono finestre cosiddette lucifere.
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Le prescrizioni di cui al d.m. 02.04.1968 n. 1444 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici.
La prescrizione di cui all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile.
Infatti, nella suddetta materia deve ritenersi che in tema di distanze tra costruzioni, applicabile, come detto, anche alle sopraelevazioni, l'adozione da parte dei Comuni di strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di superiore livello dell'art. 9 DM 02.04.1968 n. 1444 -che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- comporterebbe l'obbligo per il giudice di applicare, in sostituzione delle disposizioni illegittime, quelle dello stesso strumento urbanistico, nella formulazione derivate, però, dalla inserzione in esso della regola sulla distanza fissata nel decreto ministeriale.
La disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c.
Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, oltre alla considerazione che nella specie la disciplina è stata integrata dal regolamento comunale in senso ancora più rispettoso e rigoroso.
L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.

Va ora esaminato quanto sostenuto dalla società appellante incidentale, che sottolinea come il Vannucchi, nell’appello, abbia ammesso che la violazione della distanza si ponga in relazione a parete finestrata, dove tuttavia non gode di veduta ma di luce. Al riguardo invoca il principio secondo cui il rispetto delle distanze può essere invocato per le vedute e non per le luci.
Il Collegio osserva che, in realtà, esiste il principio giurisprudenziale (Cassazione civile sez. II, 30.04.2012, n. 6604) secondo cui, posto che nella disciplina legale dei rapporti di vicinato l'obbligo di osservare nelle costruzioni determinate distanze sussiste solo relativamente alle vedute e non anche dalle luci, la dizione pareti finestrate contenuta in un regolamento edilizio che, ispirandosi all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, prescrive nelle sopraelevazioni il rispetto della distanza di 10 metri dalle pareti finestrate di edifici prospicienti, si riferisce esclusivamente alle pareti munite di finestre qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su cui si aprono finestre cosiddette lucifere.
Nella specie, tuttavia, il regolamento edilizio comunale, all’art. 5.11, rubricato “Distanze fra edifici”, rinvia sì al D.M. 1968/1444, ma stabilisce che “per i nuovi edifici è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m.10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti anche non finestrate”. Conseguentemente, in assenza di impugnazione o contestazione di tale clausola del regolamento edilizio comunale, la eventuale mancanza di veduta nella parete finestrata di Vannucchi non rileva ai fini di annientare la pretesa al rispetto delle distanze, che vanno quindi in ogni caso rispettate.
In ordine alla valenza direttamente precettiva tra privati del decreto ministeriale sulle distanze (questione oggetto degli appelli incidentali) questo Consesso (Consiglio di Stato sez. IV, 27.04.2011, n. 5759) e alla eventuale disapplicazione di strumenti urbanistici con esso contrastanti nel senso della minore tutela, ha già avuto modo di osservare che le prescrizioni di cui al d.m. 02.04.1968 n. 1444 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici.
La prescrizione di cui all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile (per tali principi consolidati, ex plurimis, Consiglio Stato, sez. IV, 12.06.2007, n. 3094).
Infatti, nella suddetta materia deve ritenersi che in tema di distanze tra costruzioni, applicabile, come detto, anche alle sopraelevazioni, l'adozione da parte dei Comuni di strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di superiore livello dell'art. 9 DM 02.04.1968 n. 1444 -che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- comporterebbe l'obbligo per il giudice di applicare, in sostituzione delle disposizioni illegittime, quelle dello stesso strumento urbanistico, nella formulazione derivate, però, dalla inserzione in esso della regola sulla distanza fissata nel decreto ministeriale (così Cassazione civile, II, 27.03.2001, n. 4413 su richiamata; così anche Consiglio di Stato, IV, 12.06.2007, n. 3094).
La disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c.
Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, oltre alla considerazione che nella specie la disciplina è stata integrata dal regolamento comunale in senso ancora più rispettoso e rigoroso.
L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.
D’altra parte, come visto, nella specie non solo la norma comunale ha tenuto conto della disposizione ministeriale esistente, ma l’ha appunto integrata in senso ancora più rigoroso
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.02.2013 n. 844 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa comunicazione di avvio del procedimento, tesa a favorire la partecipazione procedimentale, non è necessaria laddove l’interessato ha già avuto conoscenza del procedimento amministrativo e vi ha in concreto partecipato, in quanto la finalità dell’adempimento contemplato dall’art. 7 L. 241/1990 è quella di rendere edotto il destinatario di un provvedimento amministrativo dell’inizio del procedimento e, quindi, consentirgli la partecipazione.
Laddove l’interessato abbia già avuto contezza dell’esistenza di un procedimento amministrativo, l’adempimento in parola perde rilevanza, in forza del generale principio di raggiungimento dello scopo, a tenor del quale ogni omissione, nullità è sanata se è raggiunto, comunque, lo scopo dell’atto omesso.

Come è noto, la comunicazione di avvio del procedimento, tesa a favorire la partecipazione procedimentale, non è necessaria laddove l’interessato ha già avuto conoscenza del procedimento amministrativo e vi ha in concreto partecipato, in quanto la finalità dell’adempimento contemplato dall’art. 7 L. 241/1990 è quella di rendere edotto il destinatario di un provvedimento amministrativo dell’inizio del procedimento e, quindi, consentirgli la partecipazione.
Laddove l’interessato abbia già avuto contezza dell’esistenza di un procedimento amministrativo, l’adempimento in parola perde rilevanza, in forza del generale principio di raggiungimento dello scopo, a tenor del quale ogni omissione, nullità è sanata se è raggiunto, comunque, lo scopo dell’atto omesso
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 07.02.2013 n. 373 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 31 L. 1150/1942, prima dell’entrata in vigore della l. 765/1967, consentiva al ricorrente di costruire senza alcun titolo abilitativo, in quanto l’area interessata era posta fuori del centro abitato.
Sul punto la giurisprudenza amministrativa consolidata ha evidenziato che solo dopo l'entrata in vigore dell'art 10 legge 06.08.1967 n 765, che ha soppresso la limitazione contenuta nell'art. 31 legge 17.08.1942 n 1150, la licenza edilizia è necessaria anche quando si tratta di costruzione da erigere fuori del centro abitato.

E’ fondato, invece, il secondo motivo di ricorso, con cui il ricorrente impugna il provvedimento, deducendone l’illegittimità per difetto di motivazione.
L’amministrazione ha emesso l’ordinanza ingiunzione al pagamento di sanzione pecuniaria sul presupposto che il ricorrente avesse realizzato il fabbricato in argomento “in sostanziale difformità” rispetto a quanto all’epoca autorizzato con Licenza edilizia n. 114/1967 del 24.02.1967 e in zona sottoposta a vincolo ambientale.
L’art. 31 L. 1150/1942, prima dell’entrata in vigore della l. 765/1967, consentiva al ricorrente di costruire senza alcun titolo abilitativo, in quanto l’area interessata era posta fuori del centro abitato. Sul punto la giurisprudenza amministrativa consolidata ha evidenziato che solo dopo l'entrata in vigore dell'art 10 legge 06.08.1967 n 765, che ha soppresso la limitazione contenuta nell'art. 31 legge 17.08.1942 n 1150, la licenza edilizia è necessaria anche quando si tratta di costruzione da erigere fuori del centro abitato (cfr., Cons. Stato sez. 05, n. 865 del 24/10/1980).
Ne deriva, pertanto, che è dirimente, nel caso di specie, verificare la data del presunto abuso edilizio, in quanto il ricorrente ha ottenuto la licenza edilizia in data 24.02.1967 per la costruzione di un fabbricato rurale al di fuori del centro abitato e, quindi, prima dell’entrata in vigore della L. 765/1967. Ai sensi dell’art. 31 L. 1150/1942, come detto, non era necessario alcun titolo abilitativo per le costruzioni al di fuori dei centri abitati e, pertanto, l’eventuale costruzione realizzata dal ricorrente in difformità della licenza edilizia non avrebbe alcun rilievo. Inoltre, il vincolo ambientale è stato imposto con DM del 20.06.1967 ed è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 10.07.1967 e, quindi, in data successiva al rilascio della licenza edilizia. Ne deriva che il vincolo in argomento non poteva operare riguardo alla costruzione del ricorrente se realizzata in data anteriore alla previsione del vincolo.
Il provvedimento amministrativo impugnato non dà conto in maniera adeguata della data degli abusi, limitandosi a richiamare acriticamente la relazione tecnica del 28.03.1996 e il parere legale del 09.07.1996, che fa un ulteriore rinvio a diverso parere legale del 04.12.1995.
Inoltre, anche la relazione tecnica del 28.03.1996 non fa alcuna menzione della data degli abusi, mentre il parere legale del 04.12.1995, che fa risalire l’abuso contestato “ad epoca compresa tra il marzo ’74 ed il luglio ‘77”, non è compiutamente motivato, ricollegando la data degli abusi alla richiesta del ricorrente di ottenere l’abitabilità di una “casa” (risalente del marzo 1974) e alla ulteriore comunicazione del ricorrente (risalente al luglio 1977) di voler procedere alla sistemazione interna di un fabbricato destinato a plurialloggi bar e ristorante, che di per sé non possono essere considerati elementi dirimenti. Inoltre, non può essere sottaciuto che nessuna prova diretta della data dell’abuso sussiste, ma solo presunzioni, come detto non condivisbili, derivanti dalla circostanza che l’accertamento dello stato dei luoghi è stato effettuato dall’amministrazione solo in data 28.3.1996 e, quindi, a distanza di ben trent’anni dal rilascio della licenza edilizia.
Ne deriva, pertanto, che il provvedimento amministrativo impugnato va annullato perché illegittimo, non avendo l’amministrazione compiutamente esposto le ragioni che hanno condotto a ritenere abusive le opere realizzate dal ricorrente
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 07.02.2013 n. 373 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell'articolo 338 rd 1265/1934 i cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. Lo stesso articolo vieta, inoltre, di costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge.
In particolare, l'esistenza del vincolo cimiteriale, nell'area nella quale è stato realizzato un manufatto abusivo, comportando l'inedificabilità assoluta, preclude il rilascio della concessione in sanatoria ai sensi dell'art. 33, l. 28.02.1985 n. 47, senza necessità di compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità dell'opera con i valori tutelati dal vincolo.
Il chiaro disposto dell'articolo 338 citato vieta, quindi, di costruire intorno ai cimiteri laddove il riferimento al centro abitato viene fatto nel primo periodo solo per escludere che si possano realizzare nuovi cimiteri all'interno del centro abitato.

Tanto premesso, il ricorso va rigettato.
Il Comune di Paderno Dugnano, prima in persona dell’assessore delegato all’urbanistica e poi del sindaco, ha correttamente rigettato l’istanza di rilascio di concessione in sanatoria e conseguentemente ordinato la demolizione dei manufatti abusivi. La motivazione su cui poggiano entrambi i provvedimenti è che i manufatti ricadono all’interno del limite cimiteriale e in zona vincolata a Parco Agricolo Nord Villoresi /Grugnotorto.
Orbene, la giurisprudenza amministrativa consolidata, che questo Collegio condivide, ha chiarito che ai sensi dell'articolo 338 rd 1265/1934 i cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. Lo stesso articolo vieta, inoltre, di costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge.
In particolare, l'esistenza del vincolo cimiteriale, nell'area nella quale è stato realizzato un manufatto abusivo, comportando l'inedificabilità assoluta, preclude il rilascio della concessione in sanatoria ai sensi dell'art. 33, l. 28.02.1985 n. 47, senza necessità di compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità dell'opera con i valori tutelati dal vincolo (Cons. St., IV, 12.03.2007 n. 1185). Il chiaro disposto dell'articolo 338 citato vieta, quindi, di costruire intorno ai cimiteri laddove il riferimento al centro abitato viene fatto nel primo periodo solo per escludere che si possano realizzare nuovi cimiteri all'interno del centro abitato (cfr., Cons. Stato citato).
Nel caso di specie, è emerso in modo incontestato che la società ricorrente ha realizzato manufatti abusivi all’interno del perimetro cimiteriale; manufatti che non potevano essere realizzati ai sensi dell’art. 338 rd 1265/1934, indipendentemente dall’esistenza dell’area vincolata.
Ne deriva, pertanto, che correttamente l’amministrazione resistente ha negato il rilascio della concessione in sanatoria e ordinato la demolizione dei manufatti abusivi (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 07.02.2013 n. 371 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGONell'ambito del pubblico impiego lo svolgimento di fatto da parte del dipendente di mansioni superiori a quelle dovute in base all'inquadramento è del tutto irrilevante, sia ai fini economici, sia ai fini della progressione di carriera, salva l'esistenza di un'espressa disposizione che disponga diversamente.
Né è di ausilio l'art. 36 Cost., in quanto il principio della corrispondenza della retribuzione dei lavoratori alla qualità e alla quantità del lavoro prestato non trova incondizionata applicazione nel rapporto di pubblico impiego, concorrendo con altri principi di pari rilievo costituzionale, quali quelli di cui agli artt. 97 e 98 Cost..
Anche l’art. 2126 c.c. non è conferente in tale ipotesi, consentendo la retribuibilità del lavoro prestato solo sulla base di atto nullo o annullato, che nella specie non ricorre. Alcuni autori hanno richiamato l’art. 2041 c.c. per consentire almeno il riconoscimento del trattamento economico corrispondente alle mansioni superiori in concreto esercitate. Tale ricostruzione non è, tuttavia, convincente perché l'azione di arricchimento senza causa postula un correlativo depauperamento del dipendente, non riscontrabile e dimostrabile nel caso del pubblico dipendente che, come nel caso di specie, ha comunque percepito la retribuzione prevista per la qualifica rivestita.
Ad ogni modo, nel pubblico impiego, presupposto indefettibile per la stessa configurabilità dell'esercizio di mansioni superiori è anche l'esistenza di un posto vacante in pianta organica, al quale corrispondano le mansioni effettivamente svolte, oltre che un atto formale d'incarico o investitura di dette funzioni, proveniente dall'organo amministrativo a tanto legittimato, non potendo l'attribuzione delle mansioni e il relativo trattamento economico essere oggetto di libere determinazioni dei funzionari amministrativi.

La questione sottoposta all’attenzione del Collegio è se lo svolgimento di mansioni superiori rispetto a quelle formalmente attribuite dall’amministrazione consenta il riconoscimento al pubblico dipendente del superiore inquadramento giuridico e del corrispondente trattamento economico.
La giurisprudenza amministrativa, con orientamento ormai consolidato, condiviso dal Collegio, ha chiarito che nell'ambito del pubblico impiego lo svolgimento di fatto da parte del dipendente di mansioni superiori a quelle dovute in base all'inquadramento è del tutto irrilevante, sia ai fini economici, sia ai fini della progressione di carriera, salva l'esistenza di un'espressa disposizione che disponga diversamente. Né è di ausilio l'art. 36 Cost., in quanto il principio della corrispondenza della retribuzione dei lavoratori alla qualità e alla quantità del lavoro prestato non trova incondizionata applicazione nel rapporto di pubblico impiego, concorrendo con altri principi di pari rilievo costituzionale, quali quelli di cui agli artt. 97 e 98 Cost..
Anche l’art. 2126 c.c. non è conferente in tale ipotesi, consentendo la retribuibilità del lavoro prestato solo sulla base di atto nullo o annullato, che nella specie non ricorre. Alcuni autori hanno richiamato l’art. 2041 c.c. per consentire almeno il riconoscimento del trattamento economico corrispondente alle mansioni superiori in concreto esercitate. Tale ricostruzione non è, tuttavia, convincente perché l'azione di arricchimento senza causa postula un correlativo depauperamento del dipendente, non riscontrabile e dimostrabile nel caso del pubblico dipendente che, come nel caso di specie, ha comunque percepito la retribuzione prevista per la qualifica rivestita.
Ad ogni modo, nel pubblico impiego, presupposto indefettibile per la stessa configurabilità dell'esercizio di mansioni superiori è anche l'esistenza di un posto vacante in pianta organica, al quale corrispondano le mansioni effettivamente svolte, oltre che un atto formale d'incarico o investitura di dette funzioni, proveniente dall'organo amministrativo a tanto legittimato, non potendo l'attribuzione delle mansioni e il relativo trattamento economico essere oggetto di libere determinazioni dei funzionari amministrativi (cfr., Consiglio di Stato, sez. V, 19.11.2012, n. 5852).
Ne deriva, pertanto, che correttamente l’amministrazione resistente ha negato al ricorrente l’inquadramento corrispondente alle mansioni superiori dallo stesso in concreto svolte, nonché il relativo trattamento economico (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 07.02.2013 n. 367 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Bandi di gara subito impugnabili per ogni vizio o no? Lo deciderà l'Ad. Plen. Consiglio di Stato.
La VI Sez. del Consiglio di Stato, con l'ordinanza 01.02.2013 n. 634, ha rimesso all'Adunanza Plenaria la questione se il bando di gara sia immediatamente impugnabile per ogni vizio rilevato ovvero se il bando possa essere impugnato entro il termine decadenziale solo ove immediatamente lesivo di una situazione soggettiva protetta.
Di seguito, la massima dell'ordinanza.
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1. L’atto amministrativo generale, o l’atto di normazione secondaria presupposto debbono essere impugnati entro i predetti termini decadenziali –non assieme all’atto conclusivo della procedura– solo ove immediatamente lesivi di una situazione soggettiva protetta: situazione, quella appena indicata, ritenuta ravvisabile quando l’atto presupposto risulti di per sé ostativo per la realizzazione dell’interesse finale perseguito (ovvero in rapporto ad una procedura concorsuale, il cui bando sia per talune ditte preclusivo della partecipazione cfr. in tal senso Cons. St., Ad. Plen., 23.01.2003, n. 1 e successiva, pacifica giurisprudenza conforme).
La sussistenza di ragioni per pervenire ad un diverso indirizzo è stata affermata dalla sezione con ordinanze nn. 351 del 18.01.2011 e 2633 in data 08.05.2012; in entrambi i casi, tuttavia, l’Adunanza Plenaria non ha esaminato la questione per difetto di rilevanza (Cons. St., Ad. Plen. 07.04.2011, n. 4 e 31.07.2012, n. 31)
Ad avviso del Collegio, la questione merita quindi di essere nuovamente sollevata.
2. La sussistenza di giusti motivi per un indirizzo evolutivo, rispetto alla citata pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 1/2003, risultano già esposti nelle ordinanze della sezione sopra ricordate, nei termini di seguito sintetizzati:
- la volontà deflattiva del contenzioso, sottostante all’indirizzo di immediata impugnabilità delle sole clausole escludenti, non ha trovato rispondenza nei fatti, con reiterate impugnazioni che, dopo la conclusione delle procedure di gara, postulano l’annullamento del bando e quindi l’azzeramento delle procedure stesse, con notevole aggravio di spese per l’amministrazione e danno per le imprese aggiudicatarie incolpevoli, sulle cui offerte non fosse emerso o riconosciuto alcun vizio;
- i principi di buona fede e affidamento, di cui agli articoli 1337 e 1338 cod. civ., dovrebbero implicare che le imprese, tenute a partecipare alla gara con attenta disamina delle prescrizioni del bando, fossero non solo abilitate, ma obbligate a segnalare tempestivamente, tramite impugnazione del bando stesso, eventuali cause di invalidità della procedura di gara così come predisposta, anche come possibile fonte di responsabilità precontrattuale; quanto sopra, in linea con la ratio ispiratrice dell’art. 243-bis del codice degli appalti (d.lgs. n. 163/2006), nel testo introdotto dal d.lgs. n. 53/2010 (informativa preventiva dell’intento di proporre ricorso giurisdizionale).
Il Collegio condivide le predette osservazioni e ritiene che le imprese partecipanti a procedure contrattuali ad evidenza pubblica dovrebbero ritenersi tenute ad impugnare qualsiasi clausola del bando ritenuta illegittima, entro gli ordinari termini decadenziali.
La questione sopra indicata appare connessa alla vera e propria svolta, impressa al contenzioso in materia di pubblici appalti dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 4/2011, ispirata al superamento di indirizzi giurisprudenziali, che finiscono per determinare una “litigiosità esasperata”, senza garantire il soddisfacimento dell’interesse primario di ciascun concorrente (aggiudicazione dell’appalto) e rendendo “estremamente difficoltosa e spesso impossibile (si pensi alla perdita di finanziamenti comunitari) l’esecuzione dell’opera pubblica”.
3. Fra tali indirizzi, sembra al Collegio che possa annoverarsi quello riconducibile alla ricordata sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 1/2003, limitativa dell’immediata impugnabilità dei bandi di gara (o di concorso) –senza necessità di attendere i relativi atti applicativi– solo con riferimento alle clausole impeditive dell’ammissione di soggetti interessati alla selezione, ovvero impositive di oneri sproporzionati per la partecipazione, o di condizioni non comprensibili; quanto sopra, nella presupposizione che in ogni altro caso mancherebbe una lesione diretta ed attuale dell’interesse protetto.
Tale conclusione –oltre a non condurre, come già in precedenza rilevato, ad una riduzione del contenzioso, che viene normalmente avviato su ogni questione prospettabile (con aggravata lesione degli interessi sia pubblici che privati, in caso di azzeramento dell’intera procedura dopo la conclusione della stessa)– appare non più convincente anche sul piano dei principi, regolatori dell’impugnativa di atti amministrativi generali, destinati alla cura concreta di interessi pubblici nei confronti di destinatari indeterminati, ma determinabili.
Con la domanda di partecipazione alla gara, infatti, le imprese concorrenti divengono titolari di un interesse legittimo, quale situazione soggettiva protetta corrispondente all’esercizio di un potere, soggetto al principio di legalità ed esplicato, in primo luogo, con l’emanazione del bando.
A qualsiasi vizio di quest’ultimo si contrappone, pertanto, l’interesse protetto al corretto svolgimento della procedura, nei termini disciplinati dalla normativa vigente in materia e dalla lex specialis; l’inoppugnabilità della disciplina di gara contenuta nel bando, alla scadenza degli ordinari termini decadenziali, appare dunque conforme alle esigenze di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa (commento tratto da www.giurdanella.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIDeve ritenersi assolto l’obbligo della motivazione del provvedimento, anche quando questa sia esplicitata in maniera succinta a condizione che risulti idonea a disvelare l’iter logico e procedimentale che consenta di inquadrare la fattispecie nell’ipotesi astratta considerata dalla legge.
In particolare, si ritiene che l’obbligo in argomento anche in presenza di una motivazione per relationem purché:
a) le ragioni dell’atto richiamato siano esaurienti - onde sia possibile desumere le ragioni in base alle quali la volontà dell’amministrazione si è determinata;
b) l’atto indicato al quale viene fatto riferimento, sia reso disponibile agli interessati;
c) non vi siano pareri richiamati che siano in contrasto con altri pareri o determinazioni rese all’interno del medesimo procedimento.

Sotto un profilo d’ordine generale, va rilevato che la giurisprudenza (cfr. ex multis Cons. St. Sez. IV, 18.02.2010 n. 944) ha affermato che deve ritenersi assolto l’obbligo della motivazione del provvedimento, anche quando questa sia esplicitata in maniera succinta a condizione che risulti idonea a disvelare l’iter logico e procedimentale che consenta di inquadrare la fattispecie nell’ipotesi astratta considerata dalla legge. In particolare, si ritiene (cfr. Cons. giust. amm., 20.01.2003, n. 31; sez. VI, 24.10.1995, n. 1201; sez. IV, 07.03.1994, n. 204) che l’obbligo in argomento anche in presenza di una motivazione per relationem purché:
a) le ragioni dell’atto richiamato siano esaurienti - onde sia possibile desumere le ragioni in base alle quali la volontà dell’amministrazione si è determinata;
b) l’atto indicato al quale viene fatto riferimento, sia reso disponibile agli interessati;
c) non vi siano pareri richiamati che siano in contrasto con altri pareri o determinazioni rese all’interno del medesimo procedimento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 09.01.2013 n. 4 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa circostanza che un soggetto terzo possa disporre di un area non di sua proprietà, ai fini di un programma d’interventi, senza il concorso del proprietario, con conseguente possibilità, per il proprietario non aderente, di subire poi l’esproprio del bene, induce a privilegiare l’espletamento della procedura ex art. 27 L. n. 166/2002 nella fase di avvio.
In altri termini, il completamento, con la decorrenza del termine di 90 giorni, della procedura di diffida va configurata come la condizione preliminare perché il Comune possa deliberare una proposta di piano o di un programma integrato che non sia presentata da tutti i proprietari dell’area interessata.

La L.R. n. 12/2005 –che all’art. art. 12 (in tema di piani attuativi) richiama espressamente (al comma 4) la procedura di cui all’art. 27 L. n. 166/2002- distingue (all’art. 12, terzo comma, e all’art. 14, primo comma) fra la presentazione della proposta di piano o di programma e l’adozione del piano o del programma stesso. Queste disposizioni riconoscono ai proprietari che non rappresentino l’intero ambito interessato la legittimazione a presentare la loro proposta (cfr. art. 12, quarto comma: “Per la presentazione del piano attuativo è sufficiente …”) e riconducono a tale presentazione il termine di dieci giorni per la comunicazione della diffida ai proprietari non aderenti. La ‘presentazione’ è però un atto distinto dall’adozione, che è un adempimento diverso e successivo ed attiene all’esercizio della funzione amministrativa (cfr. art. 14, primo comma, della l.reg. 12/2005, che scandisce la successione temporale fra presentazione e adozione di un piano); a maggior ragione la ‘presentazione’ non va confusa con l’approvazione.
Inoltre, l’art. 12, quarto comma, stabilisce, con riferimento proprio alla procedura di diffida prevista dall’art. 27, quinto comma, l. 166/2002, che “ … il termine di novanta giorni di cui all'articolo 14, comma 1 (che è quello per l’adozione dei piani attuativi) inizia a decorrere a far tempo dalla conclusione della suddetta procedura”. Quindi la fase della diffida avrebbe dovuto precedere l’adozione del programma integrato.
In assenza di una specifica disciplina dettata per i P.I.I., deve ritenersi che agli stessi si applichi quella sovra esposta prevista per i piani attuativi.
Sotto il profilo sistematico, va rilevato che l’opzione ermeneutica prescelta appare quella più conforme ai principi sulla garanzia della proprietà, che nella presente fase storica tanta tutela ottengono sia a livello sovranazionale sia (conseguentemente) a livello nazionale.
Invero, la circostanza che un soggetto terzo possa disporre di un area non di sua proprietà, ai fini di un programma d’interventi, senza il concorso del proprietario, con conseguente possibilità, per il proprietario non aderente, di subire poi l’esproprio del bene, induce a privilegiare l’espletamento della procedura ex art. 27 L. n. 166/2002 nella fase di avvio. In altri termini, il completamento, con la decorrenza del termine di 90 giorni, della procedura di diffida va configurata come la condizione preliminare perché il Comune possa deliberare una proposta di piano o di un programma integrato che non sia presentata da tutti i proprietari dell’area interessata
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 09.01.2013 n. 4 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICAIn via generale, va rilevato quanto segue:
- i provvedimenti di autotutela sono espressione di un potere discrezionale, non già di un dovere di provvedere;
- l’esercizio dell’autotutela da parte della pubblica amministrazione -ancor prima della norma posta dall’art. 21-nonies della l. 07.08.1990 n. 241 (introdotta dalla l. 2005 n. 15)- è stato subordinato dalla giurisprudenza a rigorose regole:
a) l’obbligo della motivazione;
b) la presenza di concrete ragioni di pubblico interesse, non riducibili alla mera esigenza di ripristino della legalità;
c) la valutazione dell’affidamento delle parti private destinatarie del provvedimento oggetto di riesame, tenendo conto del tempo trascorso dalla sua adozione; d) il rispetto delle regole del contraddittorio procedimentale;
e) l’adeguata istruttoria.
- in altri termini, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, l'annullamento in via di autotutela non può basarsi unicamente sulla illegittimità riscontrata poiché il decorso del tempo, consolidando le posizioni giuridiche soggettive, incide sulle modalità con cui il potere discrezionale di autotutela può essere esercitato, occorrendo un'adeguata motivazione sull'interesse pubblico e attuale che possa dar luogo all'atto di ritiro, preceduta da un'accurata indagine sulle circostanze che possano evidenziare un interesse pubblico al ritiro e sulle quali anche il privato ha diritto ed interesse a pronunciarsi facendo valere le proprie ragioni.

L’art. 21-nonies della l. 07.08.1990 n. 241 (introdotto dalla l. n. 15/2005) prevede che il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.
In via generale, va rilevato quanto segue:
- i provvedimenti di autotutela sono espressione di un potere discrezionale, non già di un dovere di provvedere;
- l’esercizio dell’autotutela da parte della pubblica amministrazione -ancor prima della norma posta dall’art. 21-nonies della l. 07.08.1990 n. 241 (introdotta dalla l. 2005 n. 15)- è stato subordinato dalla giurisprudenza (cfr. ex multis Cons. St. Sez. V, 11.06.2001 n. 3130) a rigorose regole: a) l’obbligo della motivazione; b) la presenza di concrete ragioni di pubblico interesse, non riducibili alla mera esigenza di ripristino della legalità; c) la valutazione dell’affidamento delle parti private destinatarie del provvedimento oggetto di riesame, tenendo conto del tempo trascorso dalla sua adozione; d) il rispetto delle regole del contraddittorio procedimentale; e) l’adeguata istruttoria.
- in altri termini, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, l'annullamento in via di autotutela non può basarsi unicamente sulla illegittimità riscontrata poiché il decorso del tempo, consolidando le posizioni giuridiche soggettive, incide sulle modalità con cui il potere discrezionale di autotutela può essere esercitato, occorrendo un'adeguata motivazione sull'interesse pubblico e attuale che possa dar luogo all'atto di ritiro, preceduta da un'accurata indagine sulle circostanze che possano evidenziare un interesse pubblico al ritiro e sulle quali anche il privato ha diritto ed interesse a pronunciarsi facendo valere le proprie ragioni.
La delibera di annullamento del P.I.I. sopra riportata risponde pienamente ai requisiti richiesti dall’art. 21-nonies della l. 07.08.1990 n. 241, dato che:
a) indica una serie di vizi di legittimità propri dell’atto;
b) individua concrete ragioni di pubblico interesse ulteriori rispetto al mero ripristino della legalità violata (elencate nei p. da 1 a 8 alla pagg. 6/7 del deliberato);
c) valuta l’affidamento delle parti private (evidenziando altresì il breve lasso temporale intercorso fra l’approvazione del P.I.I. e l’annullamento), che ritiene recessivo rispetto all’interesse pubblico e a quello degli altri privati controinteressati danneggiati dal P.I.I.;
d) rispetta il contraddittorio procedimentale, essendo stato data la comunicazione di avvio ed essendo state prese in esame le osservazioni svolte dai privati;
e) è frutto di adeguata istruttoria.
Va rilevato inoltre che, al momento in cui si è deliberato l’annullamento, non era ancora stata stipulata fra le parti la convenzione attuativa del P.I.I..
Una volta rilevata la sussistenza nella fattispecie dei requisiti richiesti per farsi luogo all’annullamento del P.I.I., va dichiarata infondata la successiva doglianza, con la quale la ricorrente sostiene che l’Amministrazione avrebbe sviatamente fatto luogo all’annullamento in luogo della revoca per non dover corrispondere al privato il dovuto indennizzo
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 09.01.2013 n. 4 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA- con riguardo alla disciplina dettata dalla L. n. 1150 del 1942, la delibera di adozione del piano regolatore generale o di una sua variante può essere revocata dal Comune fin quando il procedimento non si sia concluso con l'approvazione regionale;
- più recentemente, la giurisprudenza ha preso in esame la questione riguardante la possibilità, per un’amministrazione comunale neo-eletta, di revocare la deliberazione di approvazione definitiva del nuovo strumento urbanistico adottata dall’amministrazione uscente, risolvendola in senso positivo. In dette pronunce è stato posto in luce che una volta eliminato con la revoca l’ultimo atto dell’iter procedimentale appena concluso (l’approvazione) si riporta la procedura allo stadio immediatamente antecedente l’approvazione definitiva;
- infine, si è affermato che, in relazione alla nuova disciplina regionale dettata con la L.R. n. 12 del 2005, deve ritenersi l’atto di approvazione acquista efficacia solo dopo che è intervenuta la pubblicazione sul BURL dell’avviso dell’intervenuta approvazione, sicché la procedura di approvazione del PGT trova compimento (solo) al momento in cui tale pubblicazione avviene, sicché –ove la pubblicazione non sia avvenuta, legittimamente il nuovo Consiglio può procedere alla revoca dell’approvazione, senza necessità di far luogo alla procedura di variante che presuppone l’avvenuto perfezionamento del piano antecedente.

In relazione al primo profilo, va innanzitutto ricordato che la Sezione ha avuto modo di affermare:
- con riguardo alla disciplina dettata dalla L. n. 1150 del 1942, che la delibera di adozione del piano regolatore generale o di una sua variante può essere revocata dal Comune fin quando il procedimento non si sia concluso con l'approvazione regionale (cfr. la sentenza 02.10.1991 n. 662: in detta sentenza è stato posto in luce che la revoca “costituisce espressione dello jus poenitendi, che è riconosciuto all’Ente pubblico, indipendentemente da un’espressa previsione legislativa al riguardo, perché si tratta della manifestazione dello stesso potere già esercitato nell’emanazione dell’atto da revocare”, soggiungendosi che “il potere di ritiro si fonda proprio sulla necessità che l’amministrazione (discrezionale) attiva sia costantemente rispondente all’interesse pubblico e possa, in qualsiasi momento, adeguarsi al mutare di questo” e precisandosi che il limite al potere di revoca da parte dell’Amministrazione comunale deve essere individuato –in relazione alla natura di atto complesso proprio della procedura di formazione del PRG- nel momento dell’avvenuta approvazione regionale dello strumento urbanistico);
- più recentemente, con le sentenze 24.03.2006 n. 348 e 27.11.2006 n. 1525, ha preso in esame la questione riguardante la possibilità, per un’amministrazione comunale neo-eletta, di revocare la deliberazione di approvazione definitiva del nuovo strumento urbanistico adottata dall’amministrazione uscente, risolvendola in senso positivo. In dette pronunce è stato posto in luce che una volta eliminato con la revoca l’ultimo atto dell’iter procedimentale appena concluso (l’approvazione) si riporta la procedura allo stadio immediatamente antecedente l’approvazione definitiva;
- infine, con la sentenza n. 1278 del 30.08.2011, ha affermato che, in relazione alla nuova disciplina regionale dettata con la L.R. n. 12 del 2005, deve ritenersi l’atto di approvazione acquista efficacia solo dopo che è intervenuta la pubblicazione sul BURL dell’avviso dell’intervenuta approvazione, sicché la procedura di approvazione del PGT trova compimento (solo) al momento in cui tale pubblicazione avviene, sicché –ove la pubblicazione non sia avvenuta, legittimamente il nuovo Consiglio può procedere alla revoca dell’approvazione, senza necessità di far luogo alla procedura di variante che presuppone l’avvenuto perfezionamento del piano antecedente.
Più in particolare, venendo alla questione qui posta dalla ricorrente, deve dissentirsi dalla lettura da questa proposta (secondo cui l’art. 13, c. 7, L.R. n. 12/2005 si risolve regge in una mera norma acceleratoria), dovendosi invece ritenere che la norma in questione –nel prevedere la perdita di efficacia degli atti– attribuisce espressamente un effetto legale tipico al decorso del termine di 90 giorni.
La fattispecie all’esame, nella quale il consiglio ha commendevolmente ritenuto opportuno consacrare in uno specifico deliberato i motivi a base della decisione di lasciare inutilmente decorrere il termine perentorio stabilito, per l’approvazione del Piano, dalla L.R. n. 12/2005, si inquadra perfettamente in tali principi, senza che possa configurarsi alcuna violazione dell’obbligo di concludere il procedimento, né utilizzo sviato della norma.
In ogni caso, risulta del tutto condivisibile il rilievo, svolto dalla difesa comunale, secondo cui l’effetto giuridico (la decadenza del PGT) è automaticamente prodotto dal mero decorso del termine stabilito dell’art. 13, settimo comma, della l.reg. 12/2005, sicché è la scadenza del termine legale e non già la delibera qui impugnata a determinarla
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 09.01.2013 n. 4 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOTelecamere, privacy inviolata. Sulla videosorveglianza a deliberare è la maggioranza. La Cassazione: non ci sono gli estremi del delitto di interferenze illecite nella vita privata.
Via libera alla videosorveglianza delle aree condominiali, con deliberazione a maggioranza da parte dell'assemblea. La nuova legge n. 220/2012 di riforma della disciplina del condominio degli edifici ha, infatti, chiarito che rientra fra le competenze assembleari la decisione in merito all'installazione delle telecamere sulle parti comuni e ha stabilito le necessarie maggioranze. Nel frattempo la Corte di cassazione ha precisato che l'installazione di sistemi di videosorveglianza non viola la privacy. Non sussistono, infatti, gli estremi del delitto di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis del codice penale) nel caso in cui un condomino effettui riprese dell'area condominiale destinata a parcheggio e del relativo ingresso, trattandosi di luoghi destinati all'uso di un numero indeterminato di persone e, pertanto, esclusi dalla tutela penale, la quale concerne una particolare relazione del soggetto da tutelare con l'ambiente in cui questi vive la sua vita privata, in modo da sottrarla a ingerenze esterne.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione (Sez. II civile), nella sentenza 03.01.2013 n. 71.
Nel caso in questione un condomino, visti i ripetuti atti vandalici perpetrati da ignoti a danno delle parti comuni e delle parti di proprietà esclusiva, non registrando intervento alcuno da parte dell'amministrazione condominiale, aveva deciso di provvedere unilateralmente all'installazione di un impianto di videosorveglianza sulle aree condominiali, chiedendo poi agli altri comproprietari di rimborsagli pro quota la spesa anticipata.
Uno dei condomini si era però rifiutato di pagare la sua parte e la vicenda era giunta dapprima dinanzi al giudice di pace e, quindi, addirittura presso la Suprema corte. Occorre segnalare come nella specie il giudice di merito avesse deciso la controversia secondo equità, pronunciandosi in favore del condomino che si era attivato per la gestione dell'impianto.
Questo tipo di sentenze, però, sono impugnabili per Cassazione soltanto in relazione ai principi informatori della materia, restando invece preclusa la denunzia di violazione di specifiche norme di diritto sostanziale. Nel caso in questione la condòmina ricorrente non aveva assolto a tale onere probatorio e, quindi, anche per tale motivo, il ricorso era stato integralmente rigettato.
La Suprema corte, pur non potendosi pronunciare nel merito della questione civilistica, ha tuttavia ricordato il costante orientamento relativo alla non punibilità di tali comportamenti ai sensi dell'art. 615-bis del codice penale (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.02.2013).

AGGIORNAMENTO ALL'11.02.2013

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MOBILITA'

PUBBLICO IMPIEGO: il Comune di Cisano Bergamasco (BG) cerca con mobilità volontaria n. 1 geometra, cat. "C" a tempo pieno ed indeterminato, da destinare all'Ufficio Tecnico il cui avviso di mobilità prevede il termine di martedì 26.02.2013 entro cui inviare le domande di partecipazione.

NOVITA' NEL SITO

Inserito il nuovo bottone dossier TRIBUTI LOCALI.

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 dell'11.02.2013, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 31.01.2013, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 05.02.2013 n. 10).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.U.E. 08.02.2013 n. L/37 "DIRETTIVA 2013/2/UE DELLA COMMISSIONE del 07.02.2013 recante modifica dell’allegato I della direttiva 94/62/CE del Parlamento europeo e del Consiglio sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio" (link a http://eur-lex.europa.eu).

NOTE, CIRCOLARI E  COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Regola tecnica per gli impianti di protezione attiva contro l’incendio (ANCE di Bergamo, circolare 08.02.2013 n. 37).

ENTI LOCALI: Oggetto: Circolare concernente il patto di stabilità interno per il triennio 2013-2015 per le province e i comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti (articoli 30, 31 e 32 della legge 12.11.2011, n. 183, come modificati dalla legge 24.12.2012, n. 228) (link a http://www.rgs.tesoro.it).
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Gli articoli 30, 31 e 32 della legge 12.11.2011, n. 183 (legge di stabilità 2012), come modificati dalla legge 24.12.2012, n. 228 (legge di stabilità 2013), disciplinano il nuovo patto di stabilità interno per il triennio 2013-2015 volto ad assicurare il concorso degli enti locali alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica. La circolare 07.02.2013 n. 5/2013 contiene i criteri interpretativi per l'applicazione delle nuove regole da parte degli enti locali ivi inclusi il metodo di calcolo degli obiettivi programmatici, i 'Patti di solidarietà' fra gli enti territoriali ed il meccanismo premiale basato sulla virtuosità.
E', inoltre, disponibile un modello di calcolo, in formato Excel, per consentire agli enti di individuare, nelle more della pubblicazione del relativo decreto, gli obiettivi programmatici 2013-2015. Successivamente alla pubblicazione del predetto decreto sarà accessibile, sull'applicativo web della Ragioneria Generale dello Stato, un prospetto precompilato che individuerà automaticamente l'obiettivo di ciascun ente.

APPALTI: Oggetto: Art. 11, comma 13, del Codice dei contratti pubblici. Modalità di registrazione dei contratti di appalto stipulati con modalità elettronica (Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di Firenze, Ufficio Territoriale di Empoli, nota 06.02.2013).

LAVORI PUBBLICICircolare esplicativa per l'attuazione da parte dei gestori delle gallerie stradali degli adempimenti amministrativi introdotti dal Nuovo Regolamento di semplificazione di Prevenzioni Incendi, emanato con il D.P.R. 151/2011 (Ministero dell'Interno e Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, circolare 29.01.2013 n. 1).

APPALTIOggetto: Appunto n. 1/13: "Nuovi obblighi per la firma del contratto di appalto" (Istituto Etico per l'Osservazione e la Promozione degli Appalti, appunto 16.01.2013 n. 1/2013).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Attività soggette ai controlli di prevenzione incendi di categoria A di cui al D.P.R. 151/2011. Disposizioni per l'asseverazione (Ministero dell'Interno, Dipartimento dei VV.F., lettera-circolare 26.11.2012 n. 14724 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Modulistica per la presentazione delle istanze, delle segnalazioni e delle dichiarazioni, prevista nel D.M. 07.08.2012 (Ministero dell'Interno, Dipartimento VV.F., nota 26.11.2012 n. 14720 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Impiego di prodotto e sistemi per la protezione antincendio delle costruzioni (Ministero dell'Interno, Dipartimento dei VV.F., lettera-circolare 19.11.2012 n. 14229 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Istanza di interpello ai sensi dell’articolo 11 della legge n. 212 del 2000 –Applicabilità dell’imposta di bollo agli elaborati tecnici allegati alla concessione edilizia (Agenzia delle Entrate, risoluzione 23.03.2009 n. 74/E).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Interpello ……./2001 Articolo 11, legge 27.07.2000 n. 212. Ministero della Difesa Direzione generale del Demanio e della Difesa (Agenzia delle Entrate, risoluzione 27.03.2002 n. 97/E).
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QUESITO sull’applicazione dell’imposta di bollo dei seguenti documenti in materia di realizzazione opere pubbliche: contratto di appalto ed eventuali atti aggiuntivi; capitolati di oneri e relative tariffe; verbale di concordamento nuovi prezzi; progetti, disegni, computi metrici, relazioni tecniche, planimetrie; piano di sicurezza; tariffe; giornale del direttore dei lavori; verbali di consegna, di sospensione, di ripresa e di ultimazione lavori; verbali di constatazione delle misure, libretto delle misure, note settimanali, registro delle misure, certificati di acconto, conto finale; certificato di collaudo e certificato di regolare esecuzione.

UTILITA'

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Adempimenti previsti dalla L. n. 190/2012 e relativi termini.
Si pubblicano, di seguito, due prospetti nei quali sono individuati, con l’indicazione, ove previsti, dei relativi termini:
a) gli adempimenti che la legge pone a carico, rispettivamente, del Governo, del Ministro della funzione pubblica, del Dipartimento della funzione pubblica, della CiVIT, dei responsabili della prevenzione della corruzione, degli OIV, dell’AVCP, della Corte dei conti e dei prefetti (prospetto A);
b) gli obblighi delle pubbliche amministrazioni e degli altri soggetti previsti dalla legge (prospetto B).
In attesa della definitiva approvazione del Decreto legislativo di attuazione dell’art. 1, co. 35, della L. n. 190/2012, i prospetti non riguardano gli adempimenti in tema di pubblicità e trasparenza (05.02.2013 - link a www.civit.it).

APPALTI: F. A. Caputo, VADEMECUM SUGLI APPALTI PUBBLICI (2) - Modelli di comportamento per le Amministrazioni Aggiudicatrici (gennaio 2013 - tratto da www.ieopa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturare conviene: guida alle agevolazioni fiscali per le opere di ristrutturazione e recupero delle abitazioni (link a www.ancebrescia.it).

LAVORI PUBBLICILe nuove Linee guida sulla pubblica illuminazione con Capitolati tecnici, esempi e progetti pilota.
Informare, sensibilizzare e fornire alle Amministrazioni Comunali tutti gli strumenti necessari ad una gestione energeticamente efficiente della pubblica illuminazione, contribuendo alla riduzione delle emissioni inquinanti e ad un risparmio economico per la collettività”.
È questo l’obiettivo delle Linee Guida per la predisposizione di Capitolati tecnici comunali finalizzati a promuovere la fornitura di energia elettrica, l’esercizio e la manutenzione ordinaria e straordinaria degli impianti pubblici, le opere di adeguamento normativo e di riqualificazione tecnologica degli impianti stessi, redatte da Ancitel.
In coerenza con le Linee Guida dell’ENEA (v. articolo BibLus-net “Arrivano le linee guida per la gestione efficiente dell’illuminazione pubblica”) il documento approfondisce con maggior dettaglio gli aspetti tecnici, economici e gestionali dei sistemi di illuminazione pubblica, ponendosi come strumento operativo concreto a disposizione delle Amministrazioni e dei tecnici in generale.
Le linee guida contengono, inoltre, esempi e applicazioni concrete e illustrano in maniera dettagliata un progetto pilota (07.02.2013 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATAManiglioni antipanico: ultima chiamata il 18.02.2013!
Il 18.02.2013 scade il termine per la sostituzione e l’installazione dei maniglioni antipanico marcati CE sulle vie di fuga nelle attività soggette a controllo dei Vigili del Fuoco.
Si tratta del termine ultimo dopo le numerose proroghe che si sono susseguite negli anni.
Ricordiamo, brevemente, che tale disposizione è stata introdotta dal Decreto 06.12.2011 “Modifica al decreto 03.11.2004 concernente l’installazione e la manutenzione dei dispositivi per l’apertura delle porte installate lungo le vie di esodo relativamente alla sicurezza in caso di incendio.”
I nuovi maniglioni, oltre che essere marcati CE, devono essere conformi alla norma UNI EN 179 o alla norma UNI EN 1125 in base al tipo di attività e alle condizioni di utilizzo (07.02.2013 - link a www.acca.it).

LAVORI PUBBLICIGallerie e prevenzione incendi: ecco i nuovi adempimenti.
A seguito dell'entrata in vigore del nuovo Regolamento di prevenzione incendi (D.P.R. 151/2011), che ha compreso nell'ambito delle attività sottoposte ai controlli di prevenzione incendi anche le gallerie stradali di lunghezza superiore ai 500 metri, il Ministero dell’Interno ha emanato la Circolare esplicativa n. 1 DIP. VV.F. del 29.01.2013.
La Circolare, in attesa dell’emanazione della regola tecnica di prevenzione incendi relativa alle gallerie stradali di lunghezza superiore ai 500 metri, al fine di dare immediata attuazione al D.P.R. 151/2011, fornisce ai gestori di gallerie stradali chiarimenti sui nuovi adempimenti.
Nello specifico, vengono date indicazioni su come procedere in funzione dei diversi casi che possono verificarsi:
galleria ricadente nella rete stradale trans-europea;
galleria non ricadente nella rete stradale trans-europea;
galleria conforme ai requisiti indicati nel D.Lgs. 246/2006;
galleria non conforme ai requisiti indicati nel D.Lgs. 246/2006;
galleria esistente;
galleria di nuova realizzazione.
Vengono fissati i termini e le modalità per la presentazione della SCIA a seconda dei vari casi (07.02.2013 - link a www.acca.it).

COMPETENZE PROFESSIONALINuovo regolamento professionale dei Geometri: ecco la bozza.
Il Consiglio Nazionale dei Geometri e dei Geometri Laureati ha pubblicato una bozza del nuovo regolamento professionale dei Geometri.
Il documento si pone l’obiettivo di ridisegnare il quadro della professione di geometra, rinnovando il vecchio testo risalente al 1929.
I punti chiave sono:
● rinnovamento dei contenuti del vecchio regolamento del 1929
● elenco puntuale delle competenze del geometra e del geometra laureato (tutela dell'ambiente e del territorio, topografia, edilizia, estimo e sicurezza sul lavoro, etc.)
● sistema di autogoverno della categoria, con semplificazione delle strutture territoriali e del sistema elettorale
● chiarimenti sul percorso per l’accesso all'esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio della professione (07.02.2013 - link a www.acca.it).

INCARICHI PROGETTUALIE’ pronto il regolamento per le società tra professionisti: ecco il testo finale!
Il Regolamento per le società tra professionisti, dopo un iter abbastanza contrastato, è stato firmato dal Ministero della Giustizia e ora attende solo il via libera del dicastero dello Sviluppo Economico.
Gli argomenti principali del regolamento sono:
● requisiti che devono possedere i soci
● obbligo di fornire al cliente una serie di informazioni, tra cui l’elenco dei singoli soci professionisti con titolo o qualifica professionale di ciascuno
● divieto di partecipazione a più società tra professionisti
● modalità di iscrizione all’Albo professionale
● responsabilità disciplinari della società
Pertanto, con questo nuovo regolamento i professionisti potranno aggregarsi in enti riconosciuti legalmente (07.02.2013 - link a www.acca.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, LE ZONE URBANISTICHE PAESAGGISTICAMENTE VINCOLATE - (commento alla sentenza n. 1739 della Suprema Corte di Cassazione penale, Sez. III, registrata al n. 1262/2013) (link a www.lexambiente.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: P. Bertazzoli, M. Cozzolino e G. De Luca, IL DIRITTO DI ACCESSO DEI CONSIGLIERI COMUNALI (gennaio 2013 - link a www.segretariocomunale.com).

VARI: A. Passarella, Nullità del contratto - Rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto (I contratti n. 1/2013 - tratto da www.ipsoa.it).
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Il Giudice di merito ha il potere di rilevare d’ufficio la nullità del contratto nell’ambito di una causa promossa per la risoluzione del contratto stesso? Quali saranno i risvolti in tema di giudicato?
Nel contributo che segue l’Autrice, inquadrata la questione dei limiti all’esercizio dei poteri officiosi ex art. 1421 c.c., da sempre al centro di burrascosi rapporti tra dottrina e giurisprudenza, risponde al quesito proposto sulla base delle linee guida offerte dalle Sezioni Unite, le quali, con recente decisione, sembrano aver portato il “sereno”, ponendo fine all’annosa querelle.

APPALTI: I. Pagani, DURC - I parametri di valutazione di gravità degli inadempimenti contributivi e previdenziali al vaglio della Corte di Giustizia (Urbanistica e appalti n. 12/2012 - tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: P. Sciscioli, L'assentibilità edilizia dei volumi tecnici (Ufficio Tecnico n. 11-12/2012).

EDILIZIA PRIVATA: A. Mafrica e M. Petrulli, Breve rassegna di particolari interventi edilizi subordinati al rilascio del permesso di costruire (Ufficio Tecnico n. 11-12/2012).

APPALTI: F. Indelicato, Divieto di intestazione fiduciaria in materia di appalti (Ufficio Tecnico n. 11-12/2012).

APPALTI: D. Sterrantino, Il bando tipo dell'Autorità di vigilanza per i contratti pubblici (Ufficio Tecnico n. 11-12/2012).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Non è prospettabile il riconoscimento, né a maggior ragione la liquidazione dell’incentivo ex art. 92, comma 5, del D.Lgs. n. 163/2006 e s.m.i. nei confronti del personale tecnico dipendente dall’Ente, nel caso in cui la progettazione realizzata ha riguardato un’opera per la quale non è stato previsto (o è venuto meno) il finanziamento da parte del soggetto terzo e conseguentemente non è stata legittimamente possibile l’indizione della gara d’appalto.
...
Con la nota indicata in epigrafe, il Sindaco del Comune di Ariano Irpino (AV), formula il seguente quesito: “… Spetta il compenso ex art. 92, comma 5, del Decreto Legislativo n. 163/2006 e ss.mm.ii. ai tecnici dipendenti dell’Ente nel caso di attività progettuale di opera pubblica non finanziata da ente terzo?
Oppure trova applicazione anche nel suddetto caso la disposizione contenuta nell’articolo 92, comma 1 del Decreto Legislativo n. 163/2006 che così recita … “Le Amministrazioni aggiudicatrici non possono subordinare la corresponsione dei compensi relativi allo svolgimento della progettazione e delle attività tecnico–amministrative ad essa connesse all’ottenimento del finanziamento dell’opera progettata”.
” ….
...
Preliminarmente il Collegio rappresenta che la sintetica formulazione del quesito de quo, nei termini sopra trascritti, non chiarisce esaurientemente gli esatti ambiti della problematica sottoposta al vaglio della Sezione, tuttavia, osserva che da una valutazione generale ed astratta della tematica, la questione sembrerebbe riguardare, prima facie, la legittimità del riconoscimento dell’incentivo previsto dall’art. 92, comma 5, del cit. D.Lgs. ai tecnici dipendenti dell’Ente, nel caso in cui sia stata intrapresa e/o realizzata un’attività progettuale interna per un’opera che -presumibilmente ab initio (o in un momento successivo)– non risulti (più) finanziata da un soggetto terzo.
A conforto dell’esattezza di tale interpretazione soccorre il riferimento esplicito nella richiesta di parere –altrimenti del tutto inconferente– al comma 1 del medesimo art. 95 ove, con specifico riferimento ai progettisti esterni incaricati (Cfr. II° parte del comma 1), il legislatore ha escluso che le pubbliche amministrazioni aggiudicatrici possano subordinare la corresponsione di compensi relativi allo svolgimento della progettazione e delle attività tecnico–amministrative ad essa connesse, all’ottenimento del finanziamento dell’opera progettata.
Al fine del sistematico inquadramento dell’istituto giuridico oggetto della richiesta di parere appare opportuno richiamare il dettato normativo (art. 92, comma 5, d.lgs. n. 163/2006, c.d. Codice dei contratti pubblici) che, nella formulazione vigente dispone: “Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo dipendente non può superare l'importo del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie … omissis …”.
Al riguardo va in primo luogo osservato che la materia degli incentivi alla progettazione ha, in più occasioni, formato oggetto di attività consultiva della Corte dei conti (cfr., fra le altre, Sezione Autonomie n. 16/2009, Sezione Campania n. 7/2008, n. 117/2010, n. 67/2012, Sezione Veneto n. 337/2011, Sezione Piemonte n. 290/2012, Sezione Lombardia n. 425/2012 e n. 453/2012), sebbene sotto profili diversi da quelli rappresentati dal quesito in trattazione, tuttavia, già in tale sede sono state elaborate le coordinate interpretative della norma recata dall’art. 92, comma 5, del D.Lgs n. 163/2006, alle cui motivazioni e conclusioni può farsi riferimento per l’analisi dei profili generali.
La norma va letta nel complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli incarichi tecnico professionali, previste dalla legislazione in materia di contratti pubblici. In particolare, il principio generale (già codificato dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001), secondo il quale i predetti incarichi possono essere conferiti a soggetti esterni al plesso amministrativo solo se non si disponga di professionalità adeguate nel proprio organico, mira a preservare le finanze pubbliche oltre che a valorizzare il personale interno alle amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi ordinarie in cui gli incarichi tecnici sono espletati da personale interno, ai fini della loro remunerazione, occorre far riferimento alle regole generali previste per il pubblico impiego, il cui sistema retributivo è conformato da due principi cardine, quello di definizione contrattuale delle componenti economiche e quello di onnicomprensività della retribuzione (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001, nonché Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Puglia, sentenze nn. 464, 475 e 487 del 2010). Secondo tale orientamento interpretativo nulla è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri d’ufficio, anche se di particolare complessità.
Tale principio ha, nel sistema delineato dal D.Lgs. 165/2001 (applicabile anche al personale degli enti locali in forza dell’art. 1, comma 2, del medesimo decreto) vari addentellati normativi.
Il c.d. “incentivo alla progettazione”, previsto dal Codice dei contratti pubblici, costituisce uno di quei casi nei quali il legislatore, derogando al principio per cui il trattamento economico è fissato dai contratti collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice, previa contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione.
L’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006 deroga ai principi di onnicomprensività e determinazione contrattuale della retribuzione del dipendente pubblico e, come tale, costituisce un’eccezione che si presta a stretta interpretazione e per la quale sussiste il divieto di analogia posto dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al codice civile (in tal senso Sezione Campania, delibera n. 7/2008).
L’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici, con atto di regolazione n. 6 del 04/11/1999, aveva già avuto modo di precisare come, nel caso della progettazione interna, la prestazione dei dipendenti, in quanto riferita direttamente all’amministrazione di appartenenza, è da considerare svolta "ratione offici" e non "intuitu personae", risolvendosi "in una modalità di svolgimento del rapporto di pubblico impiego" (Cass. Civ. Sez. Un. 02.04.1998, n. 3386), nell'ambito della cui disciplina, normativa e contrattuale, vanno individuati i termini della relativa retribuzione.
Come evincibile dalla lettura del citato comma 5, la legge pone alcuni paletti per l’attribuzione del predetto incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“criteri e modalità”) ad un regolamento interno assunto previa contrattazione decentrata.
I punti fermi che il regolamento interno deve rispettare, nonché quelli deducibili direttamente dalla lettera della norma paiono essere i seguenti:
● erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori);
● riferimento all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” e non, pertanto, per un appalto di fornitura di beni o di servizi (Cfr. in senso conforme Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Campania, deliberazione n. 67/2012);
● ammontare complessivo non superiore al due per cento dell’importo a base di gara.
Ebbene, l’ancoramento del fondo incentivante alla base di gara sembrerebbe significare che l’importo di riferimento non può essere né quello oggetto del contratto, né quello risultante dallo stato finale dei lavori, ma soprattutto induce a ritenere non ammissibile la previsione e l’erogazione di alcun compenso nel caso in cui l’iter della procedura d’appalto d’opera o del lavoro non sia giunto, quantomeno, alla fase della pubblicazione del bando o della spedizione delle lettere d’invito, come d’altronde espressamente contemplato dall’art. 2 comma 3 del DM Infrastrutture n. 84 del 17/03/2008, il quale prevede che: “Gli incentivi … omissis … sono riconosciuti soltanto quando i relativi progetti sono posti a base di gara”.
Fermo restando che, in sede di regolamento interno, l’Ente potrebbe subordinare l’erogazione dell’incentivo a più stringenti presupposti, quale, a titolo esemplificativo l’aggiudicazione dell’opera (ex multis in senso conforme Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia deliberazione n. 425/2012).
Da quanto suesposto ed in considerazione della vigente normativa, appare evidente che la fase della pubblicazione del bando di gara (o della spedizione delle lettere d’invito), costituisce un posterius, rispetto al reperimento delle risorse finanziarie idonee a garantire la copertura contabile della spesa necessaria per la realizzazione dell’opera progettata; d’altronde solo con l’individuazione, acquisizione e destinazione nel bilancio di previsione dell’Ente delle risorse finanziarie (almeno in termini di prenotazione d’impegno di spesa ex art. 183, comma 3, del TUEL), è possibile procedere alla redazione del cd. “quadro economico” dell’opera (comprensivo dell’incentivo da destinare al personale interno per la progettazione) ed alla successiva attivazione della procedura di gara.
In conclusione, osserva il Collegio che
non è prospettabile il riconoscimento, né a maggior ragione la liquidazione dell’incentivo ex art. 92, comma 5, del D.Lgs. n. 163/2006 e s.m.i. nei confronti del personale tecnico dipendente dall’Ente, nel caso in cui la progettazione realizzata ha riguardato un’opera per la quale non è stato previsto (o è venuto meno) il finanziamento da parte del soggetto terzo e conseguentemente non è stata legittimamente possibile l’indizione della gara d’appalto (Corte dei Conti, Sez. controllo Campania, parere 31.01.2013 n. 17).

ENTI LOCALI: Il riconoscimento del debito fuori bilancio derivante da sentenza, a differenza delle altre ipotesi elencate dal legislatore alle lettere da b) ad e) dell'art. 194 dlgs 267/2000, non lascia alcun margine di apprezzamento discrezionale all’organo consiliare.
In altri termini, nel caso in esame, il Consiglio dell’ente locale non deve e non può compiere alcuna valutazione, in quanto il pagamento del relativo debito è dovuto in base a un titolo esecutivo prodottosi in sede giurisdizionale.
Diversamente nelle altre ipotesi l’organo assembleare gode della discrezionalità necessaria per valutare e riconoscere la legittimità del debito, al fine poi di procedere al relativo pagamento.
Pertanto, nel caso di debiti derivanti da sentenze il riconoscimento consiliare svolge una mera funzione ricognitiva; si tratta di una presa d’atto finalizzata al mantenimento degli equilibri di bilancio.
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In mancanza di una disposizione che preveda una disciplina specifica e diversa per le sentenze esecutive, analogamente a quanto dettato per le amministrazioni statali, ai fini di una maggiore efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa, se del caso con ulteriori accorgimenti predisposti dal legislatore per salvaguardare gli equilibri finanziari dell’ente locale, la Sezione ritiene di non poter accogliere, allo stato attuale, un’interpretazione estensiva dell’art. 14, comma 2, del D.L. 31.12.1996, n. 669, conv. in L. 28.02.1997, n. 30, che consenta anche agli enti locali di procedere al pagamento prima della delibera consiliare.

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In particolare, il Sindaco chiede se “sia possibile o no procedere al pagamento delle somme scaturenti da provvedimenti giurisdizionali esecutivi ai sensi dell’art. 194, lett. a), del D.lgs. 267/2000 con provvedimento del Dirigente anche prima dell’adozione della deliberazione consiliare di presa d’atto.
Ad avviso del Sindaco, essendo tale procedura sottratta alla discrezionalità dell’ente locale, si potrebbe effettuare il pagamento con un provvedimento dirigenziale prima dell’adozione della delibera consiliare, anche al fine di evitare ulteriori aggravi di spese. Il procedimento, di conseguenza, sarebbe così scandito: “a.1 adozione di Determinazione dirigenziale da parte del Dirigente competente di riconoscimento del debito, previa verifica della sussistenza del titolo esecutivo;
a.2 emissione dell'ordinativo di pagamento al Tesoriere comunale da parte del Dirigente dell'Ufficio Economo—Finanziario;
a.3 proposta di Deliberazione del Consiglio Comunale per la presa d'atto della sentenza liquidata al creditore che preveda, ai sensi dell'art. 23, comma 5, della legge 27.12.2002 n. 289, la trasmissione alla Corte dei Conti
”.
Con specifico riferimento all’oggetto della presente pronuncia, il Collegio ritiene di poter fornire all’amministrazione richiedente indicazioni di principio volte a coadiuvare quest’ultima nell’esercizio delle proprie funzioni.
Al riguardo rilevano le norme concernenti i debiti fuori bilancio e, in primo luogo, la lettera a) dell’art. 194 del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (d’ora in poi TUEL). La disposizione stabilisce che gli enti locali, con periodicità stabilita dai regolamenti di contabilità degli enti medesimi ovvero almeno una volta entro il 30 settembre di ciascun anno (in tal senso, infatti, opera il richiamo all’art. 193, comma 2, TUEL, ndr), riconoscono con deliberazione consiliare la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da sentenze esecutive.
In secondo luogo, occorre ricordare l’art. 14 del D.L. 31.12.1996, n. 669, conv. in L. 28.02.1997, n. 30 rubricato “esecuzione forzata nei confronti di pubbliche amministrazioni” che, al primo comma, dispone: “Le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici non economici completano le procedure per l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l’obbligo di pagamento di somme di denaro entro il termine di centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine il creditore non può procedere ad esecuzione forzata né alla notifica di atto di precetto”.
Infine, non è possibile tralasciare il secondo comma della disposizione appena citata che afferma che “Nell'ambito delle amministrazioni dello Stato, nei casi previsti dal comma 1, il dirigente responsabile della spesa, in assenza di disponibilità finanziarie nel pertinente capitolo, dispone il pagamento mediante emissione di uno speciale ordine di pagamento rivolto all'istituto tesoriere, da regolare in conto sospeso. La reintegrazione dei capitoli avviene a carico del fondo previsto dall'articolo 7 della legge 05.08.1978, n. 468, in deroga alle prescrizioni dell'ultimo comma. Con decreto del Ministro del tesoro sono determinate le modalità di emissione nonché le caratteristiche dello speciale ordine di pagamento previsto dal presente comma”.
La norma, dunque, si riferisce specificamente alle amministrazioni statali, non disponendo alcunché in relazione agli enti diversi dallo Stato.
In base ad un’interpretazione letterale risulterebbero esclusi da tale procedura gli enti locali. In tal senso, pur in presenza delle risorse finanziarie necessarie, l’amministrazione locale non potrebbe procedere al pagamento del debito derivante da sentenza esecutiva se non prima del riconoscimento consiliare.
Tuttavia, prima di rispondere al quesito proposto occorre effettuare una premessa in ordine alla natura giuridica da attribuire alla deliberazione consiliare di riconoscimento della legittimità dei debiti fuori bilancio nella specifica ipotesi delle sentenze esecutive. In particolare, bisogna accertare se il provvedimento abbia natura autorizzatoria ovvero meramente ricognitiva in relazione alla salvaguardia degli equilibri generali di bilancio.
Invero, in base alle norme citate e con riferimento ai poteri dell’organo assembleare nell’ipotesi de qua,
il riconoscimento del debito fuori bilancio derivante da sentenza, a differenza delle altre ipotesi elencate dal legislatore alle lettere da b) ad e), non lascia alcun margine di apprezzamento discrezionale all’organo consiliare.
In altri termini, nel caso in esame, il Consiglio dell’ente locale non deve e non può compiere alcuna valutazione, in quanto il pagamento del relativo debito è dovuto in base a un titolo esecutivo prodottosi in sede giurisdizionale.

Diversamente nelle altre ipotesi l’organo assembleare gode della discrezionalità necessaria per valutare e riconoscere la legittimità del debito, al fine poi di procedere al relativo pagamento.
Pertanto,
nel caso di debiti derivanti da sentenze il riconoscimento consiliare svolge una mera funzione ricognitiva; si tratta di una presa d’atto finalizzata al mantenimento degli equilibri di bilancio. In tal senso depone anche l’interpretazione letterale dell’art. 194 TUEL che disponendo che gli enti locali “riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio”, usa un’espressione che non indica un provvedimento “preventivo” a contenuto autorizzatorio, necessario al fine di rimuovere un limite legale allo svolgimento di una attività. Viceversa, si tratta di un provvedimento di puro riconoscimento di debito accostabile all’art. 1988 c.c. secondo cui la ricognizione di debito non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha solo l'effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, “venendo ad operarsi, un'astrazione meramente processuale della "causa debendi", comportante una semplice "relevatio ab onere probandi" per la quale il destinatario della promessa è dispensato dall'onere di provare l'esistenza del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria, ma dalla cui esistenza o validità non può prescindersi sotto il profilo sostanziale, con il conseguente venir meno di ogni effetto vincolante della ricognizione di debito, ove rimanga giudizialmente provato che il rapporto fondamentale non è mai sorto o è invalido o si è estinto” (cfr. in tal senso, ex multis, Cass. civ. sez. II, sent. n. 18259 del 22.08.2006; nonché Cass. civ. sez. lav., sent. n. 17423 dell’08.08.2007). In tale ottica, la Suprema Corte ha, anche, ritenuto che “il riconoscimento del debito fuori bilancio non costituisce fattispecie idonea a produrre i medesimi effetti negoziali riconducibili alla (sottostante, ndr) fattispecie legale" (cfr. Cass. civ., sez. I, sent. n. 7966 del 27.03.2008).
In virtù di tale natura giuridica, secondo una certa prospettiva,
si ritiene che in tal caso anche in ambito locale gli organi amministrativi, accertata la sussistenza del provvedimento giurisdizionale, possano procedere al relativo pagamento anche prima della deliberazione consiliare di riconoscimento. Ciò pure perché ex art. 14, comma 2, cit., neanche l’eventuale delibera potrebbe impedire l’avvio delle procedure esecutive per l’adempimento coattivo del debito (cfr. Corte dei conti, S.R. Regione Sicilia, 2/2005; Corte dei Conti, sez. contr. Sardegna, 6/2005, cit.; Corte dei conti, sez. contr. Sardegna, 12/2006). Come, infatti, afferma il Comune di Torre Annunziata “a differenza delle ipotesi di riconoscimento di legittimità di debito fuori bilancio elencate dalla lett. b) alla lett. e) del richiamato art. 194 del D.lgs. n. 267/2000, quella prevista alla lett. a) non lascia alcuna discrezionalità valutativa all'Organo Consiliare tanto che, sempre secondo la normativa dello Stato (art. 14 del d.l. 31/12/1996 n. 669, convertito con modificazioni nella legge 28/02/1997 n. 30) trascorsi 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo, il creditore può azionare la procedura esecutiva forzata (pignoramento presso terzi) previa notifica dell'atto di precetto”.
Indubbiamente tale interpretazione ha il vantaggio di essere coerente con i principi di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa e con l’interesse della collettività alla eliminazione di ogni superfluo esborso di denaro pubblico. Infatti, attendere la delibera consiliare potrebbe comportare dei costi inutili rappresentati, in primo luogo, dagli interessi legali e dall’eventuale rivalutazione monetaria. Inoltre, nell’ipotesi in cui il provvedimento consiliare non intervenga entro il termine di centoventi giorni previsto dall’art. 14 del D.L. 669/96, a tali oneri andrebbero ad aggiungersi le spese giudiziali derivanti dalle procedure esecutive, con ulteriori pesi economici ricadenti sulla collettività.
Come evidenziato dal Comune richiedente “il procedimento amministrativo fino ad ora attuato comporta maggiori oneri di spesa a carico dell'Amministrazione comunale costituiti oltre che dagli interessi e dalla eventuale rivalutazione monetaria, anche delle spese giudiziali derivanti dalle procedure esecutive di pignoramento presso terzi eventualmente azionate dai creditori qualora il riconoscimento del debito venga effettuato oltre i 120 giorni previsti dal più volte richiamato art. 14 del d. I. 31/12/1996 n. 669, convertito con modificazioni nella legge 28/02/1997 n. 30 e ss.mm.ii.
In virtù di tali considerazioni risulta evidente come il legislatore avrebbe dovuto disciplinare a parte il caso in esame, anche ai fini di una parità di trattamento, ex art. 3 Cost., tra i creditori delle amministrazioni statali, tutelati dal comma 2 dell’art. 14 cit., che, come detto, dispone la possibilità del pagamento del debito fuori bilancio mediante emissione di uno speciale ordine di pagamento rivolto al tesoriere, ed i creditori degli enti locali, ove tale procedura non è prevista. Ciò, in quanto, se, da un lato, può riscontrarsi un elemento unificante fra tutte le ipotesi previste dall’art. 194 TUEL, consistente nella circostanza che il debito nasce al di fuori e indipendentemente dalle ordinarie procedure riguardanti la formazione della volontà dell’ente, dall’altro e per contro, la natura dei diversi casi di debito non è assolutamente unitaria. Nell’ipotesi in esame, come visto, a differenza delle altre, il debito si impone all’ente ex se, in base alla forza imperativa della sentenza (in tal senso cfr. Corte dei Conti, sez. contr. Friuli Venezia Giulia, n. 6/1c/2005), non residuando in capo all’ente alcun margine di discrezionalità circa l’an e il quantum del debito, stabiliti già dal provvedimento giurisdizionale (cfr. Corte dei Conti, sez. contr. Puglia, n. 9/2012).
Tuttavia,
la Sezione ritiene di dover condividere una diversa interpretazione secondo cui nel caso in esame alla luce dell’imperatività del provvedimento giudiziale il significato della delibera del Consiglio non è quello di riconoscere una legittimità del debito che già è stata verificata, ma di ricondurre “al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria che è maturato all’esterno di esso, così come previsto al punto 101 dal principio contabile n. 2 nella versione redatta dall’Osservatorio per la Finanza e la Contabilità degli Enti locali in data 12/03/2008 (cfr. in tal senso Corte dei Conti, sez. contr. Puglia, 93/2010). La delibera consiliare è necessaria, quindi, al fine di individuare la fonte di finanziamento in ottemperanza all’obbligo di copertura finanziaria gravante sui provvedimenti di spesa ex art. 191 TUEL. La norma da ultimo citata, infatti, disciplina le “regole per l’assunzione di impegni e per l’effettuazione di spese”, imponendo dei “meccanismi di natura tecnico-contabile per evitare il formarsi di debiti fuori bilancio e per garantire l’equilibrio tra le entrate e le spese.
Sinteticamente: le spese possono essere effettuate solo se vi è stata l’assunzione dell’impegno contabile e l’attestazione della copertura finanziaria
” (in tali termini si esprime Corte dei Conti, sez. contr. Campania, 22/2009). Ogni spesa può essere effettuata solo in presenza di una regolare assunzione di atto di impegno registrato, e purché vi sia la relativa copertura finanziaria negli stanziamenti di bilancio, in modo da contenere appunto il fenomeno dei debiti fuori bilancio (Corte dei Conti, sez. contr. Emilia Romagna, 311/2012). In tale prospettiva, l’art. 194, primo comma, TUEL rappresenta un’eccezione ai principi riguardanti la necessità del preventivo impegno formale e della copertura finanziaria; onde per riportare le ipotesi previste nei principi di copertura finanziaria è, dunque, richiesta la delibera consiliare.
In tal senso,
con il provvedimento consiliare viene ripristinata la fisiologia della fase della spesa e i debiti de quibus vengono ricondotti al sistema (in tal senso vd. Corte dei Conti, sez. contr. Friuli Venezia Giulia, 6/1c/2005, cit.) con l’adozione dei necessari provvedimenti di riequilibrio finanziario. Inoltre, la delibera consiliare svolge anche il ruolo di accertamento delle cause che hanno originato l’obbligo, con le consequenziali ed eventuali responsabilità. Del resto, questa funzione di accertamento è rafforzata dalla previsione dell’invio agli organi di controllo e alla Procura regionale della Corte dei conti (art. 23, comma 5, L. 289/2002) delle delibere in esame (in tal senso, cfr. Corte dei conti, sez. contr. Lombardia, 1/2007).
Nell’ottica delineata,
la delibera consiliare svolge una duplice funzione: da un lato, giuscontabilistica, per la salvaguardia degli equilibri di bilancio; dall’altro garantista, per l’accertamento delle responsabilità nella fattispecie in esame (cfr. Corte dei conti, sez. contr. Lombardia, 1/2007, cit.; Corte dei conti, sez. contr. Emilia Romagna, 20/2007; Corte dei conti, sez. contr. Lombardia, 401/2012).
In base alle considerazioni esposte,
ad avviso del Collegio, sussiste, nel caso di sentenza esecutiva, l’obbligo di procedere con tempestività alla convocazione del Consiglio per il riconoscimento del debito, in modo da impedire il maturare di interessi, rivalutazione monetaria ed ulteriori spese legali. Come infatti previsto anche dal punto 103 del principio contabile n. 2 cit. “Nel caso di sentenza esecutiva al fine di evitare il verificarsi di conseguenze dannose per l’ente per il mancato pagamento nei termini previsti decorrenti dalla notifica del titolo esecutivo, la convocazione del Consiglio per l’adozione delle misure di riequilibrio deve essere disposta immediatamente e in ogni caso in tempo utile per effettuare il pagamento nei termini di legge ed evitare la maturazione di oneri ulteriori a carico del bilancio dell’ente”.
Diversamente, si potrebbero prospettare evidenti e consequenziali profili di responsabilità, nel caso di tempi di attesa troppo lunghi, in particolare se in prossimità dello scadere ovvero oltre il periodo di salvaguardia previsto per le Pubbliche Amministrazioni (120 giorni) ex art. 14 comma 1, cit.. Pertanto, alla luce dell’attuale normativa, non è consentito all’ente locale discostarsi dalle prescrizioni letterali dell’art. 194 TUEL.
In mancanza di una disposizione che preveda una disciplina specifica e diversa per le sentenze esecutive, analogamente a quanto dettato per le amministrazioni statali, ai fini di una maggiore efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa, se del caso con ulteriori accorgimenti predisposti dal legislatore per salvaguardare gli equilibri finanziari dell’ente locale, la Sezione ritiene di non poter accogliere, allo stato attuale, un’interpretazione estensiva dell’art. 14, comma 2, cit. che consenta anche agli enti locali di procedere al pagamento prima della delibera consiliare.
Ora, posto questo ragionamento in via di principio, occorre notare che per la Regione Campania sussiste una particolare disciplina. Il legislatore regionale, nella sua riconosciuta autonomia legislativa ex artt. 117, 121 e 127 Cost., ha infatti imposto un termine perentorio alla convocazione del Consiglio regionale nel caso in esame.
In tal senso, l’art. 47, comma 5, della legge regionale 30.04.2002, n. 7 (Ordinamento contabile della regione Campania, pubblicata nel B.U. Campania 06.05.2002, n. 23), stabilisce che “al riconoscimento della legittimità dei debiti fuori bilancio di cui al comma a), il Consiglio regionale provvede entro sessanta giorni dalla ricezione della relativa proposta”.
Proprio al fine di evitare ulteriori danni a carico dell’Ente, in caso di difficoltà o di ritardi nella convocazione del Consiglio regionale, la Regione si è autovincolata, in relazione ai termini di convocazione.
La natura perentoria di tale termine si deduce nel prosieguo della norma secondo cui “Decorso inutilmente tale termine, la legittimità di detto debito si intende riconosciuta”. In caso di inadempimento all’obbligo di convocazione tempestiva, pertanto, è prevista un’ipotesi di silenzio significativo. Naturalmente, in tal caso, non solo sarà necessaria una successiva delibera con cui indicare la copertura finanziaria, ma dall’eventuale formazione del provvedimento in via significativa potrebbero derivare eventuali profili di responsabilità.
Nella prospettiva delineata, la possibilità di agire in virtù di una delibera formatasi “silenziosamente”, prevista quale eccezione e sanzione all’inottemperanza del Consiglio, rappresenta la conferma della correttezza dell’impostazione proposta e cioè della necessità della previa delibera consiliare.
Tale impostazione non muta neanche qualora vi sia già una disponibilità finanziaria sui pertinenti capitoli di competenza del bilancio. Secondo la Sezione anche nel caso di una preesistente copertura finanziaria non viene meno la necessità dell’attivazione della procedura consiliare di riconoscimento. Indubbiamente, sarebbe opportuno che l’ente valuti previamente in base alle circostanze ed alle diverse fattispecie, se effettuare un accantonamento in vista di una probabile soccombenza giudiziale al fine di evitare o neutralizzare gli effetti sfavorevoli della sentenza sugli equilibri di bilancio; ma la presenza di uno specifico fondo non consentirebbe comunque all’ente di omettere la delibera di riconoscimento, in quanto in tal modo si vanificherebbe la disciplina di garanzia prevista dall’ordinamento (cfr. in tal senso Corte dei conti, sez. contr. Lombardia, 1/2007, cit.).
A tal proposito, risulta utile evidenziare che l’impatto sul bilancio può essere minore se nel bilancio viene previsto uno specifico fondo per la copertura di spese giudiziali in caso di soccombenza, perché si potrà fronteggiare il pagamento del debito utilizzando quanto già destinato a tale scopo. Diversamente, con la delibera consiliare dovranno essere indicate quali risorse utilizzare; il che potrebbe comportare evidenti ricadute sulla collettività, in quanto presumibilmente l’ente potrebbe trovarsi costretto ad aumentare le entrate ovvero a diminuire spese già previste (cfr. in tal senso Corte dei Conti, sez. contr. Lombardia, 483/2011).
Un problema particolare potrebbe porsi nel caso di appello della sentenza da parte del Comune. Anzi, come precisato dal punto 102 del citato principio contabile n. 2: “Il riconoscimento della legittimità del debito fuori bilancio derivante da sentenza esecutiva non costituisce acquiescenza alla stessa e pertanto non esclude l’ammissibilità dell’impugnazione. Il medesimo riconoscimento, pertanto, deve essere accompagnato dalla riserva di ulteriori impugnazioni ove possibili e opportune”.
La questione si pone, in particolare, in quanto a seguito della modifica apportata all’art. 282 c.p.c. dalla L. 353/1990, le sentenze di primo grado sono provvisoriamente esecutive tra le parti (tant’è che l’art. 194, lett. a), TUEL non ha riproposto l’analoga disposizione contenuta nell’art. 37, lett. a), d.lgs. 25.02.1995, n. 77 che faceva riferimento a “sentenze passate in giudicato o sentenze immediatamente esecutive”).
La Sezione ritiene, in tal caso, opportuno precisare che se il Giudice di Appello sospendesse in via cautelare l’esecutività della sentenza, con il conseguente venire meno dell’obbligo di provvedere al riconoscimento del debito da parte del Consiglio, l’ente potrebbe accantonare in via prudenziale e nel rispetto dei principi di una sana e corretta gestione finanziaria, idonee risorse atte a garantire la copertura del debito in caso di eventuale soccombenza (Corte dei Conti, Sez. controllo Campania, parere 31.01.2013 n. 15).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale. Le economie possono trasformarsi in bonus. Piano taglia-spese, risparmi al fondo risorse decentrate.
I VINCOLI/ Sono ammessi solo gli enti virtuosi che hanno già provveduto a ridurre i costi dell'organico.

Le economie dei piani di razionalizzazione che incrementano il fondo delle risorse decentrate sono fuori dal tetto previsto dall'articolo 9, comma 2-bis, del Dl 78/2012.
La Sezione Autonomie della Corte dei Conti, con la deliberazione 21.01.2013 n. 2/2013, sancisce che gli emolumenti eventualmente destinati al personale dipendente per le attività aggiuntive rispetto ai normali carichi di lavoro non rientrano tra le voci da considerare per il confronto con il 2010 per il trattamento accessorio complessivo.
La questione è attuale, in quanto l'articolo 16, commi 4 e 5, del Dl 98/2011, indica la data del 31 marzo di ciascun anno come il momento in cui le Pa possono predisporre piani triennali di razionalizzazione e riqualificazione della spesa, di ristrutturazione amministrativa, di semplificazione e digitalizzazione, di riduzione dei costi della politica e di funzionamento, compresi gli appalti di servizio, gli affidamenti e il ricorso alle consulenze attraverso persone giuridiche. Le eventuali economie realizzate possono essere destinate alla contrattazione integrativa decentrata per un importo massimo del 50 per cento.
Di queste somme, che confluiscono quindi nel fondo, il 50% va poi erogato con il sistema delle fasce di merito, mentre la parte rimanente è lasciata alla contrattazione.
Non vi è alcun obbligo da parte delle amministrazioni né di procedere in tal senso e neppure di destinare tutto il 50% dei risparmi al salario accessorio. Va però rilevato che l'occasione può essere "appetibile" in quanto i fondi sono bloccati rispetto al 2010. La deroga ora avallata dalla Sezione Autonomie permette di premiare il personale coinvolto nelle riduzioni di spesa.
Questo non significa, però, che le cose vadano prese alla leggera. L'ente, per poter incrementare il fondo, deve essere in possesso di tutti i parametri di virtuosità richiamati dall'articolo 40 del Dlgs 165/2001: rispetto del patto di stabilità, riduzione delle spese di personale in valore assoluto, rapporto tra spese di personale e spese correnti inferiori al 50 per cento.
Inoltre, per predisporre i piani di razionalizzazione e soprattutto per rendere disponibili le somme a favore dei dipendenti, è necessario un deciso rigore nel predisporre un sistema di controllo al fine della verifica delle economie realizzate più basato sui principi di contabilità economica che finanziaria.
Ora che la Sezione Autonomie ha confermato quanto già in precedenza affermato dalle Sezioni del Veneto (delibera 513/2012), Emilia Romagna (398/2012), Piemonte (313/2012) e dalla Ragioneria, si può intraprendere serenamente questa strada, ma è vietato sbagliare. Gli obiettivi devono essere oggettivi, i dati reali, il risultato finale certificato da un organo di revisione e l'apporto lavorativo dei dipendenti altamente misurabile con valori certi e concreti (articolo Il Sole 24 Ore del 04.02.2013 - tratto da www.corteconti.it).

TRIBUTI: Corte dei conti. Il bonus non trova spazio nei regolamenti. Imu, niente incentivi contro l'evasione.
IL CONFRONTO CON L'ICI/ Non è stato riprodotto il meccanismo della vecchia imposta con i premi per chi recupera somme non versate.

In mancanza di una legge che disciplini la materia come accadeva per l'Ici, non è possibile per i regolamenti comunali riconoscere gli incentivi al personale per la lotta all'evasione Imu.
A dirlo è la Corte dei Conti del Veneto, Sez. controllo, nel parere 16.01.2013 n. 22.
A vietarlo, secondo la Corte, è prima di tutto il principio di onnicomprensività, che trova fondamento nel l'articolo 2, commi 3 e 24, del Dlgs 165/2001 per i dirigenti e nell'articolo 45 per i dipendenti.
In virtù di questo principio, nulla è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale e accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri d'ufficio.
Solo la legge può derogare all'omnicomprensività, prevedendo ulteriori specifici compensi o addirittura la possibilità di una diversa strutturazione del trattamento economico, sia sul piano qualitativo sia su quello quantitativo.
La Corte inoltre, facendo il parallelo con la ben diversa disciplina in materia di Ici, evidenzia che in assenza di una specifica disposizione di legge, il Comune non è autorizzato a prevedere compensi incentivanti per gli accertamenti Imu in favore del personale dipendente. Per l'Ici, infatti, la previsione era contenuta nell'articolo 58 del Dlgs 446/1997.
Tale facoltà era poi stata confermata nel d.l. 201/2011. Tuttavia con la legge 44/2012, di conversione del decreto legge n. 16/2012, è stata eliminata l'estensione della disciplina (e il riferimento legislativo) contenuta originariamente nel Dlgs 23/2011, stralciando il richiamo all'articolo 59 citato: di conseguenza la previsione derogatoria –afferente quindi i soli compensi Ici- deve essere considerata di stretta interpretazione, come affermato dalla giurisprudenza della stessa Corte, che ha escluso l'utilizzo dello strumento regolamentare per erogare compensi incentivanti per le entrate locali diverse dall'Ici (Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione 577/2011 del 10.11.2011), o, per l'attività di recupero dei tributi erariali (Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la Sardegna, deliberazione 127/2011 del 21.12.2011).
Argomenti favorevoli non possono essere tratti dall'articolo 52 del Dlgs 446/1997 e della potestà regolamentare generale per introdurre nel regolamento Imu una disposizione sugli incentivi al personale.
In conclusione nessun incentivo Imu per il personale addetto alla riscossione che cosi perde un beneficio presente nella disciplina Ici anche se a ben vedere la finalità ossia incentivare il personale al recupero dell'evasione nell'interesse dell'ente rimane comune alle due imposte (articolo Il Sole 24 Ore del 04.02.2013 - tratto da www.corteconti.it).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Formia - Parere in merito all'applicazione della legge regionale 21/2009 in aree sottoposte al vincolo paesaggistico delle fasce di rispetto dei territori costieri e in zona B di P.R.G. antecedente al 06.09.1985 (art. 142 D.Lgs. n. 42/2004) (Regione Lazio, parere 06.02.2013 n. 3942 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Arnara - Parere in merito al rilascio dei certificati di destinazione urbanistica nel periodo di coesistenza tra disposizioni urbanistiche approvate e disposizioni urbanistiche adottate (Regione Lazio, parere 06.02.2013 n. 340076 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Monte Compatri - Parere in merito all'acquisizione al patrimonio comunale, ai sensi dell'art. 15, comma 5, della legge regionale 15/2008, dell'opera abusiva e della relativa area di sedime nel caso di enfiteusi (Regione Lazio, parere 06.02.2013 n. 384739 di prot.).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Autorizzazione allo svolgimento di attività nei confronti di terzi.
L'INPS ha precisato (cfr. circolare n. 88/2009), in merito alla possibilità dei dipendenti pubblici di svolgere lavoro occasionale di tipo accessorio, che in tal caso trova applicazione l'art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 che prevede la richiesta di autorizzazione, da parte dello stesso dipendente o dei soggetti sia pubblici che privati che intendono avvalersi delle prestazioni, all'amministrazione di appartenenza per lo svolgimento di tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri d'ufficio, per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di autorizzare un dipendente, con la qualifica di capo operaio con funzioni di coordinamento della squadra addetta alla manutenzione del patrimonio comunale e del verde pubblico, a svolgere attività a favore di soggetti privati per l'esecuzione di piccoli lavori di pulizia e giardinaggio pagati a mezzo voucher. L'interessato dichiara trattarsi di attività occasionali da svolgersi al di fuori dell'orario di lavoro, senza pregiudicare, pertanto, il corretto e puntuale adempimento delle mansioni rivestite presso l'amministrazione di appartenenza, non ponendosi detta attività in contrasto o conflitto di interesse con le medesime.
Preliminarmente si osserva che, come precisato dall'INPS [1], in merito alla possibilità dei dipendenti pubblici di svolgere lavoro occasionale di tipo accessorio, per i medesimi trova applicazione l'art. 53 del d.lgs. 165/2001, in tema di incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi, che prevede la richiesta di autorizzazione, da parte di soggetti sia pubblici che privati, all'amministrazione di appartenenza per lo svolgimento di 'tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso'.
Ai sensi di quanto disposto dal comma 10 dell'art. 53 citato -continua l'INPS- la richiesta di autorizzazione può essere effettuata da parte dello stesso dipendente o dei soggetti pubblici e privati che intendono avvalersi delle prestazioni di lavoro occasionale.
Premesso un tanto, si evidenzia che l'art. 1, comma 42, della l. 190/2012 ha recentemente modificato il contenuto di alcuni commi dell'art. 53 di cui si discute.
Si evidenzia che il comma 7 del citato articolo prevede che i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza, precisando che, ai fini dell'autorizzazione, l'amministrazione verifica l'insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto d'interessi.
Il comma 9 inoltre dispone che i soggetti privati non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi, previa verifica dell'insussistenza di situazioni, anche potenziali di conflitto di interessi.
Il comma 5 dell'articolo in esame recita testualmente: 'In ogni caso, il conferimento operato direttamente dall'amministrazione, nonché l'autorizzazione all'esercizio di incarichi che provengano da amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza, ovvero da società o persone fisiche, che svolgono attività d'impresa o commerciale, sono disposti dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell'interesse del buon andamento della pubblica amministrazione o situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi, che pregiudichino l'esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente'.
E' da notare come le citate disposizioni nell'attuale formulazione escludano espressamente l'autorizzazione a svolgere attività esterna, con incarico extraistituzionale, qualora detta situazione lavorativa possa comportare, anche potenzialmente, l'insorgere di un conflitto d'interessi.
Si richiama, pertanto, l'attenzione dell'Ente sul fatto che le citate disposizioni, come novellate, impongono alle amministrazioni di appartenenza un'attenta valutazione delle situazioni relative all'autorizzazione di incarichi esterni ai propri dipendenti.
Qualora l'amministrazione di appartenenza dovesse verificare che lo svolgimento dell'attività extra richiesta rispetta tutte le condizioni e i presupposti di legge, non sussisteranno motivi ostativi al rilascio della relativa autorizzazione.
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[1] Cfr. circolare n. 88 del 09.07.2009, punto 3. Committenti (06.02.2013 - link a www.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI: Locazioni passive. Applicazione agli enti locali del D.L. n. 95/2012.
L'art. 3, comma 1, D.L. n. 95/2012, che stabilisce il blocco degli adeguamenti ISTAT sui canoni pagati dalle amministrazioni pubbliche per gli immobili in affitto a far data dalla sua entrata in vigore (07.07.2012) e per gli anni 2012, 2013 e 2014, trova applicazione anche alle locazioni passive degli enti locali.
Non si applica, invece, agli enti locali, essendo espressamente riferito alle Amministrazioni centrali, l'art. 3, comma 4, che stabilisce un'ulteriore misura di contenimento della spesa pubblica consistente nella riduzione dei canoni del 15% di quanto attualmente in essere, dal primo gennaio 2015 e, comunque, a decorrere dal 15.08.2012, per i contratti di locazione scaduti o rinnovati dopo tale data, salvo il diritto di recesso garantito al locatore.

Il Comune, premesso di aver stipulato, in qualità di conduttore, un contratto di locazione con la Parrocchia avente ad oggetto i locali, di proprietà di quest'ultima, come sede per la scuola materna statale, chiede come comportarsi in merito alla formale disdetta comunicata dalla Parrocchia con proposta di rinnovo ad un canone più alto. Il Comune chiede, in particolare, se trovino applicazione le disposizioni di contenimento della spesa pubblica dettate dal D.L. n. 95/2012 [1] (Spending review), in materia di locazioni passive, riferite alla sospensione degli adeguamenti ISTAT e alla riduzione dei canoni del 15%.
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
L'art. 3, comma 1, D.L. n. 95/2012, stabilisce, in considerazione dell'eccezionalità della situazione economica e tenuto conto delle esigenze prioritarie degli obiettivi di contenimento della spesa pubblica, il blocco degli adeguamenti ISTAT sui canoni pagati dalle amministrazioni pubbliche, ivi previste, per gli immobili in affitto a far data dalla sua entrata in vigore (07.07.2012) e per gli anni 2012, 2013 e 2014.
In particolare, la misura di contenimento della spesa di cui all'art. 3, D.L. n. 95/2012, riguarda specificamente le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica ai sensi dell'art. 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196.
Ai sensi dell'art. 1, comma 3, richiamato, la ricognizione delle amministrazioni pubbliche ai fini della applicazione delle disposizioni in materia di finanza pubblica è operata annualmente dall'ISTAT con proprio provvedimento pubblicato annualmente in Gazzetta Ufficiale.
Al riguardo, viene, da ultimo, in considerazione l'elenco di cui al Comunicato 28.09.2012 [2], comprendente, per quanto qui di interesse, le Amministrazioni locali (tra cui, le Regioni e province autonome, le Province, i Comuni, le Comunità montante e le Unioni di Comuni).
Si può dunque, affermare, l'applicabilità della misura di contenimento di cui all'art. 3, comma 1, D.L. n.95/2012, relativa alla sospensione degli adeguamenti ISTAT, anche alle locazioni passive degli enti locali [3].
L'art. 3, statuisce, inoltre, al comma 4, ai fini del contenimento della spesa pubblica, l'ulteriore misura della riduzione dei canoni pagati dalle amministrazioni pubbliche, ivi previste, del 15% di quanto attualmente in essere, dal primo gennaio 2015, salvo il diritto di recesso garantito al locatore. La norma prevede, poi, che a decorrere dal 15.08.2012 [4] la riduzione del 15% si applica comunque ai contratti di locazione scaduti o rinnovati dopo tale data.
Specificamente, l'art. 3, comma 4, identifica le amministrazioni pubbliche coinvolte dalla misura di contenimento della spesa indicando le Amministrazioni centrali inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica ai sensi dell'art. 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché le Autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob).
Per quanto concerne il quesito posto dall'Ente circa l'applicazione o meno del suddetto art. 3, comma 4, agli enti locali [5], si segnala il parere della Corte dei Conti, sezione di controllo per la Regione Lazio, n. 3 del 10.01.2013, in ordine ad una richiesta proveniente da un sindaco e concernente l'applicazione o meno agli enti locali delle disposizioni di cui all'art.3, commi 4, 5 e 6, D.L. n. 95/2012.
In particolare, il Giudice contabile circoscrive l'attenzione sul comma 6 [6], il quale, osserva, è espressamente dettato per le Amministrazioni richiamate dal comma 4, che si riferisce alle 'Amministrazioni centrali come individuate dall'ISTAT ai sensi dell'art. 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196'. Per cui, prosegue, il Giudice contabile, non rientrando i Comuni tra le Amministrazioni centrali, è da ritenere che la disposizione di cui al comma 6 non possa ad essi applicarsi. Analoga considerazione, si ritiene possa farsi per la previsione di cui all'art. 3, comma 4, riferita alle Amministrazioni centrali.
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[1] D.L. 06.07.2012, n. 95, recante: 'Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario', convertito, con modificazioni, dalla L. 07.08.2012, n. 135.
[2] ISTAT, Comunicato 28.09.2012, recante: 'Elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato individuate ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196 (Legge di contabilità e di finanza pubblica)'.
[3] In tal senso si esprime la Relazione tecnica al DL n. 95/2012 ed altresì l'ANCI nella nota di lettura dell'art. 3, D.L. n. 95/2012.
[4] La data è quella dell'entrata in vigore della legge n. 135/2012 di conversione del D.L. n. 95/2012.
[5] L'Ente si pone il dubbio argomentando dalla previsione di cui all'art. 3, comma 7, D.L. n. 95/2012, il quale prevede espressamente che le disposizioni di cui al comma 4 non si applicano in via diretta alle regioni e province autonome e agli enti del servizio sanitario nazionale, per i quali costituiscono disposizioni di principio ai fini del coordinamento della finanza pubblica e non esclude invece dall'applicazione diretta gli enti locali.
[6] Il comma 6 dispone che ai contratti di locazione passiva, aventi ad oggetto immobili ad uso istituzionale di proprietà di terzi, di nuova stipulazione a cura delle Amministrazioni di cui al comma 4, si applica la riduzione del 15% sul canone congruito dall'Agenzia del demanio, ferma restando la permanenza dei fabbisogni espressi ai sensi dell'art. 2, comma 222, della legge 23 dicembre 2009, n. 191, nell'ambito dei piani di razionalizzazione ove già definiti nonché in quelli di riorganizzazione e accorpamento delle strutture previste dalle norme vigenti
(05.02.2013 - link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Pubblica amministrazione.
Domanda
Di chi è la competenza a giudicare sulla mancata applicazione dello «scorrimento» ai fini delle assunzioni nella pubblica amministrazione?
Risposta
Il cosiddetto «scorrimento» della graduatoria approvata all'esito della procedura concorsuale, consente la stipulazione del contratto di lavoro con partecipanti risultati idonei e non vincitori, in forza di eventi successivi alla definizione del procedimento concorsuale con l'approvazione della graduatoria.
Ciò può avvenire o in applicazione di specifiche previsioni del bando, contemplanti l'ammissione alla stipulazione del contratto del lavoro degli idonei fino a esaurimento dei posti messi a concorso; ovvero perché viene conservata (per disposizione di atti normativi o del bando) l'efficacia della graduatoria ai fini dell'assunzione degli idonei in relazione a posti resisi vacanti e disponibili entro un determinato periodo di tempo.
La pretesa allo «scorrimento», di conseguenza, si colloca di per sé fuori dall'ambito della procedura concorsuale (esclusa, nella seconda delle ipotesi indicate, proprio dall'ultrattività della graduatoria approvata) ed è conosciuta dal giudice ordinario quale controversia inerente al «diritto all'assunzione», salva la verifica del fondamento di merito della domanda, esulante dall'ambito delle questioni di giurisdizione (articolo ItaliaOggi Sette del 04.02.2013).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Mobbing.
Domanda
Quali sono le caratteristiche del mobbing?
Risposta
Il mobbing è costituito da un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.
Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono quindi ricorrere molteplici elementi:
a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra le condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.
Alla base della responsabilità per mobbing lavorativo si pone normalmente l'art. 2087 cod. civ., che obbliga il datore di lavoro ad adottare le misure necessarie a tutela l'integrità psico-fisica e la personalità morale del lavoratore, per garantirne la salute, la dignità e i diritti fondamentali, di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost.
D'altra parte, come risulta dalla stessa definizione del fenomeno, se anche le diverse condotte denunciate dal lavoratore non si ricompongono in un unicum e non risultano, pertanto, complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l'equilibrio psico-fisico del lavoratore o a mortificare la sua dignità, ciò non esclude che tali condotte o alcune di esse, ancorché finalisticamente non accomunate, possano risultare, se esaminate separatamente e distintamente, lesive dei fondamentali diritti del lavoratore, costituzionalmente tutelati (articolo ItaliaOggi Sette del 04.02.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Autorizzazione allo svolgimento di incarico esterno.
L'art. 53, comma 5, del d.lgs. 165/2001 dispone che l'autorizzazione all'esercizio di incarichi che provengano da amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza, ovvero da società o persone fisiche, che svolgono attività d'impresa o commerciale, sono disposti dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell'interesse del buon andamento della pubblica amministrazione o situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi, che pregiudichino l'esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente.
L'Ente ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di autorizzare un dipendente, 'Ingegnere coordinatore del Servizio Motorizzazione Civile', a svolgere un incarico di docenza presso una autoscuola, rivolto agli insegnanti ed agli istruttori della autoscuola stessa. Si precisa che il suddetto incarico, di natura occasionale, viene svolto al di fuori dell'orario di servizio ed è retribuito. L'Amministrazione si è posta la questione relativa all'insorgere di un'eventuale incompatibilità, considerato che le funzioni svolte dall'interessato nell'ambito del Settore Motorizzazione Civile comportano di fatto che il medesimo soggetto esplichi attività di esaminatore nelle sessioni di patente di guida.
Preliminarmente si osserva che l'art. 1, comma 42, della l. 190/2012 ha recentemente modificato il contenuto di alcuni commi dell'art. 53, del d.lgs. n. 165/2001, che detta una specifica disciplina in ordine al regime di incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
In particolare, è stato riscritto il comma 5 del predetto articolo, che recita testualmente: 'In ogni caso, il conferimento operato direttamente dall'amministrazione, nonché l'autorizzazione all'esercizio di incarichi che provengano da amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza, ovvero da società o persone fisiche, che svolgono attività d'impresa o commerciale, sono disposti dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell'interesse del buon andamento della pubblica amministrazione o situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi, che pregiudichino l'esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente'.
Inoltre, il successivo comma 7 dell'articolo in esame ribadisce che i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. Ai fini dell'autorizzazione, l'amministrazione verifica l'insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi.
E' da notare come le citate disposizioni nell'attuale formulazione non si riferiscano solo genericamente, come in precedenza, a casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, ma escludano espressamente l'autorizzazione a svolgere attività esterna, con incarico extraistituzionale, qualora detta situazione lavorativa possa comportare, anche potenzialmente, l'insorgere di un conflitto d'interessi.
Premesso un tanto, si richiama l'attenzione dell'Ente sul fatto che le citate disposizioni, come novellate, impongono alle amministrazioni di appartenenza un'attenta valutazione delle situazioni relative all'autorizzazione di incarichi esterni ai propri dipendenti, ciò comportando non solo l'assunzione di una specifica responsabilità da parte del soggetto che procede al rilascio della stessa autorizzazione, ma anche, in caso di inadempimento o violazione delle norme vigenti, la comminazione di pesanti sanzioni.
Come peraltro rappresentato dall'ANCI [1], non è agevole, in astratto, esprimere un parere sul conflitto di interesse delle fattispecie rappresentate dai rispettivi enti locali. Infatti, il conflitto di interesse deve essere verificato, nel concreto, dal singolo ente, in base agli elementi di giudizio e valutazione in suo possesso.
A tal proposito si osserva che gli enti sono tenuti innanzitutto a disciplinare con proprio regolamento i criteri oggettivi e le ipotesi concrete in cui si potrà autorizzare il dipendente allo svolgimento di attività extra-lavorativa, in base alla natura della stessa ed in riferimento ad eventuali situazioni di conflitto di interesse, anche solo potenziale, nel rispetto dei principi di ragionevolezza ed imparzialità dell'azione amministrativa.
E' chiaro che la verifica della sussistenza o meno del concreto o potenziale conflitto di interesse deve riguardare le effettive funzioni svolte dal dipendente interessato all'interno dell'amministrazione di appartenenza e quelle derivanti dalla natura specifica dell'incarico presso terzi.
Si evidenzia, in merito, che la Corte costituzionale [2] si è riferita, ai fini della configurazione di un conflitto di interessi, 'alla specifica attività di servizio svolta dal dipendente' e la Suprema Corte [3] ha rilevato come il dipendente pubblico debba mantenere comunque 'una posizione di indipendenza, al fine di evitare di prendere decisioni o svolgere attività inerenti alle sue mansioni in situazioni, anche solo apparenti, di conflitto di interessi; ciò non solo per evitare situazioni e comportamenti che possano nuocere agli interessi della pubblica amministrazione, ma anche per salvaguardarne l'immagine'.
In sostanza, per la configurazione di un conflitto di interessi, è necessario far riferimento alle possibili decisioni o attività che il dipendente sia chiamato ad adottare o compiere in concreto nello svolgimento delle proprie funzioni istituzionali presso l'amministrazione di appartenenza.
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[1] Cfr. pareri dell'01.12.2006, del 03.04.2007, dell'11.02.2008 e dell'01.12.2010.
[2] Cfr. sentenza n. 390 del 2006.
[3] Cfr. Corte di cassazione, sez. lavoro, sentenza n. 5113 del 2010. Nella fattispecie si esaminava il caso di un licenziamento per giusta causa di un dirigente che non aveva segnalato l'insorgere di una situazione di conflitto di interessi relativa ad un dipendente
(01.02.2013 - link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Monteleone Sabino - Parere in merito alla sanabilità di una piscina abusiva in zona agricola (Regione Lazio, parere 30.01.2013 n. 533364 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Bagnoregio - Allevamento di galline ovaiole - rapporto di connessione con l'attività agricola (Regione Lazio, parere 30.01.2013 n. 476856 di prot.).

LAVORI PUBBLICI: Imposta di bollo su elaborati, atti e documenti attinenti ai lavori pubblici.
L'applicazione dell'imposta di bollo alle diverse tipologie di elaborati, atti e documenti concernenti l'appalto di lavori pubblici è stata puntualmente chiarita dall'Agenzia delle entrate con risoluzione 27.03.2002, n. 97/E, cui occorre ancora fare riferimento per stabilire quali scontino l'imposta sin dall'origine e quali in caso d'uso.
In virtù di alcune previsioni contenute nel D.P.R. 642/1972, gli atti e i documenti devono essere redatti su carta uso bollo, ovvero nel rispetto delle caratteristiche proprie di tale tipo di carta, al fine di provvedere al corretto pagamento dell'imposta.

Il Comune pone due quesiti in ordine all'assoggettamento all'imposta di bollo di elaborati, atti e documenti attinenti all'appalto di lavori pubblici, chiedendo, specificatamente:
1) se si ritenga corretta l'individuazione, operata dall'Ente, dei documenti [1] che dovrebbero scontare l'imposta sin dall'origine;
2) se i documenti da assoggettare all'imposta di bollo (tanto sin dall'origine, quanto in caso d'uso) debbano essere stampati su carta uso bollo (o, comunque, rispettare i parametri di tale carta per numero di righe e caratteri, ecc., così come avviene per i contratti), al fine di poterli bollare correttamente.
Occorre, anzitutto, evidenziare che la materia oggetto di esame ricade nell'ambito dell'esclusiva competenza legislativa statale. Ciò implica che l'apporto che questo Ufficio può fornire sulle questioni poste è necessariamente limitato alla ricognizione degli atti interpretativi emanati, al riguardo, dall'Agenzia delle entrate, cui codesto Ente dovrebbe rivolgersi direttamente per acquisire le indicazioni relative agli aspetti eventualmente non ancora trattati dalla medesima.
Un tanto premesso, si rappresenta che, in ordine al primo quesito posto dal Comune, l'Agenzia delle entrate si è dettagliatamente espressa con risoluzione 27.03.2002 n. 97/E, il cui contenuto è stato confermato con la più recente risoluzione 23.03.2009 n. 74/E [2], pur riguardando, quest'ultima, il diverso ambito dell'applicabilità dell'imposta di bollo agli elaborati tecnici allegati alla concessione edilizia.
Con la predetta risoluzione n. 97/E/2002 l'Amministrazione finanziaria ha chiarito il corretto trattamento tributario, ai fini dell'imposta di bollo, di una serie di atti e documenti formati nell'esecuzione di contratti pubblici di appalto [3], nei termini che seguono.
Quanto al contratto di appalto e ad eventuali atti aggiuntivi [4], ai capitolati d'oneri [5] e al verbale di concordamento nuovi prezzi [6], l'Agenzia ha affermato che, in considerazione della natura e del contenuto che li contraddistingue, essi devono essere assoggettati ad imposta di bollo fin dall'origine, ai sensi degli artt. 1 e 2 della tariffa, parte I [7], allegata al decreto del Presidente della Repubblica 26.10.1972, n. 642.
Con riferimento agli ulteriori atti e documenti elencati nella richiesta di chiarimento interpretativo, l'Agenzia ha richiamato le pertinenti disposizioni normative atte a definirne natura e contenuto [8], nonché l'art. 110, comma 1 [9], del decreto del Presidente della Repubblica 21.12.1999, n. 554, le cui previsioni sono state trasfuse (con integrazioni) nell'art. 137, comma 1 [10], del decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, ove sono individuati gli atti che formano parte integrante del contratto e che devono essere richiamati nello stesso.
È stato, quindi, affermato che, per stabilire l'imposta di bollo dovuta sui documenti elencati da tale norma, occorre accertare se essi «siano riconducibili tra le tipologie alternative di seguito precisate:
- 'Scritture private contenenti convenzioni o dichiarazioni anche unilaterali, con le quali si creano, si modificano, si estinguono, si accertano o si documentano rapporti giuridici di ogni specie, descrizioni, constatazioni e inventari destinati a far prova tra le parti che li hanno sottoscritti', individuati dall'articolo 2 della tariffa, allegato A, parte prima del d.P.R. 642 del 1972, per le quali è dovuta l'imposta di bollo fin dall'origine di € 10,33 (lire 20.000) [11] per ogni foglio;
- 'Tipi, disegni, modelli, piani, dimostrazioni, calcoli ed altri lavori degli ingegneri, architetti, periti, geometri e misuratori;...', individuati dall'articolo 28 della tariffa, allegato A, parte seconda [12] del d.P.R. 642 del 1972, per i quali è dovuta l'imposta di bollo in caso d'uso di € 0,31 (lire 600) [13] per ogni foglio o esemplare
.».
Sulla scorta di tali indicazioni, l'Agenzia ha ritenuto, che:
1) i documenti individuati alle lett. a), b), d) ed f) dell'art. 110, comma 1, del D.P.R. 554/1999 (i capitolati generale e speciale, l'elenco prezzi unitari ed il cronoprogramma), non avendo i requisiti necessari per l'applicazione dell'art. 28 della tariffa, parte seconda, ricadono nell'ambito dell'art. 2 della tariffa, parte prima, giacché disciplinano particolari aspetti del contratto[14] e sono, pertanto soggetti all'imposta di bollo fin dall'origine;
2) gli elaborati grafici progettuali (lett. c) [15] ed i piani di sicurezza (lett. e) ricadono, invece, nell'ambito della previsione di cui all'art. 28 della tariffa, parte seconda, che riguarda la documentazione tecnica propriamente riconducibile alle categorie di professionisti ivi individuate;
3) gli ulteriori documenti (processo verbale di consegna; verbale di sospensione e di ripresa lavori; certificato di ultimazione lavori; determinazione ed approvazione dei nuovi prezzi non contemplati nel contratto; libretto di misura dei lavori e delle provviste; certificato di collaudo; certificato di regolare esecuzione), che attengono al rispetto delle prescrizioni contrattuali nell'esecuzione dei lavori e, pertanto, si caratterizzano per l'incidenza che producono sui rapporti contrattuali intercorrenti tra le parti, vanno ascritti nell'ambito delle tipologie previste dall'art. 2 della tariffa, parte prima, con applicazione dell'imposta di bollo fin dall'origine.
Quanto ai documenti amministrativi contabili per l'accertamento dei lavori e delle somministrazioni in appalto (giornale dei lavori; libretto delle misure; lista settimanale; registro di contabilità; sommario del registro di contabilità; stato di avanzamento; certificato per il pagamento di rate; conto finale dei lavori) l'Amministrazione finanziaria ha affermato che essi non sono riconducibili alla previsione dell'art. 28 della tariffa, parte seconda, per carenza delle peculiarità tecniche dei documenti ivi individuati e devono, pertanto, essere assoggettati alla disciplina dell'art. 32[16] della stessa tariffa, che prevede il pagamento dell'imposta di bollo in caso d'uso di € 10,33 [17] per ogni esemplare dell'atto, documento o altro scritto e per ogni cento pagine o frazione di cento pagine o del relativo estratto.
Si ritiene doveroso segnalare, per completezza di argomentazione, che l'art. 137 del D.P.R. 207/2010, innovando la precedente previsione di cui all'art. 110 del D.P.R. 554/1999, che non contemplava alcunché al riguardo, dispone, al comma 3, che «I documenti elencati al comma 1 [18] possono anche non essere materialmente allegati, fatto salvo il capitolato speciale e l'elenco prezzi unitari, purché conservati dalla stazione appaltante e controfirmati dai contraenti.».
Ne consegue che, della documentazione che costituisce 'parte integrante' del contratto, solo il capitolato speciale e l'elenco prezzi unitari devono essere concretamente allegati allo stesso, essendo riconosciuta la facoltà della stazione appaltante di omettere l'allegazione dei restanti documenti, a condizione che questi siano conservati dall'amministrazione e controfirmati dai contraenti.
Infine, circa la questione concernente l'eventuale obbligo di redigere gli atti su carta uso bollo, o, quantomeno, nel rispetto delle caratteristiche proprie di tale tipo di carta, al fine di provvedere al pagamento dell'imposta nei termini di legge, si risponde affermativamente, nella considerazione delle previsioni contenute nell'art. 4, secondo comma [19], nell'art. 5, primo comma, lett. a) [20] e secondo comma[21], nell'art. 9, primo [22] e secondo comma [23] e nell'art. 10, primo comma [24], del D.P.R. 642/1972.
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[1] Capitolato speciale d'appalto; elenco prezzi unitari; cronoprogramma; processo verbale di consegna lavori; verbali di sospensione e ripresa lavori; certificato e verbale di ultimazione lavori; determinazione ed approvazione dei nuovi prezzi non contemplati nel contratto; verbali di constatazione delle misure; certificato di collaudo; certificato di regolare esecuzione.
[2] Nella quale viene richiamata anche la risoluzione 30.03.1995, n. 78, ove era già stato affermato che gli atti e i documenti di natura tecnica indicati nell'art. 28 della tariffa (allegato A), parte seconda, annessa al D.P.R. 642/1972, sono sempre assoggettati all'imposta di bollo in caso d'uso, in quanto non perdono la loro particolare natura di 'scritti tecnici', anche se sono allegati o costituiscono parte integrante di atti soggetti all'imposta di bollo sin dall'origine.
[3] Contratto di appalto ed eventuali atti aggiuntivi; capitolati di oneri e relative tariffe; verbale di concordamento nuovi prezzi; progetti, disegni, computi metrici, relazioni tecniche, planimetrie; piano di sicurezza; tariffe; giornale del direttore dei lavori; verbali di consegna, di sospensione, di ripresa e di ultimazione lavori; verbali di constatazione delle misure, libretto delle misure, note settimanali, registro delle misure, certificati di acconto, conto finale; certificato di collaudo e certificato di regolare esecuzione.
[4] Atti rogati, ricevuti o autenticati da notai o da altri pubblici ufficiali (v. art. 1 della tariffa).
[5] Atti contenenti le condizioni negoziali dei contratti di un determinato genere ovvero di un singolo contratto di appalto (v. art. 2 della tariffa).
[6] Dichiarazione diretta a modificare un preesistente rapporto giuridico (v. art. 2 della tariffa).
[7] «Atti, documenti e registri soggetti all'imposta fin dall'origine».
[8] Relativamente alle previsioni concernenti i piani di sicurezza ed il piano operativo, già contenute nell'art. 31 della L. 109/1994 e negli artt. 4 e 10 del D.Lgs. 494/1996 v., ora, rispettivamente, l'art. 131 del D.Lgs. 163/2006 e gli artt. 91 e 98 del D.Lgs. 81/2008.
[9] «Sono parte integrante del contratto e devono in esso essere richiamati: a) il capitolato generale; b) il capitolato speciale; c) gli elaborati grafici progettuali; d) l'elenco dei prezzi unitari; e) i piani di sicurezza previsti dall'articolo 31 della Legge; f) il cronoprogramma.».
[10] «Sono parte integrante del contratto, e devono in esso essere richiamati: a) il capitolato generale, se menzionato nel bando o nell'invito; b) il capitolato speciale; c) gli elaborati grafici progettuali e le relazioni; d) l'elenco dei prezzi unitari; e) i piani di sicurezza previsti dall'articolo 131 del codice; f) il cronoprogramma; g) le polizze di garanzia.».
[11] Attualmente € 14,62.
[12] «Atti, documenti e registri soggetti all'imposta in caso d'uso».
[13] Attualmente € 0,52.
[14] Termine entro il quale devono essere ultimati i lavori, responsabilità ed obblighi dell'appaltatore, modi di riscossione dei corrispettivi dell'appalto, indicazione dei tempi massimi di svolgimento delle varie fasi di esecuzione.
[15] Quali disegni, computi metrici, relazioni tecniche e planimetrie.
[16] «Atti per i quali non sono espressamente previsti il pagamento dell'imposta o l'esenzione».
[17] Attualmente € 14,62.
[18] V. nota n. 10.
[19] «La carta bollata, esclusa quella per cambiali, deve essere marginata e contenere cento linee per ogni foglio.».
[20] «Agli effetti del presente decreto e delle annesse Tariffa e Tabella: a) il foglio si intende composto da quattro facciate, la pagina da una facciata; [...]».
[21] «Per i tabulati meccanografici l'imposta è dovuta per ogni 100 linee o frazione di 100 linee effettivamente utilizzata.».
[22] «Sulla carta bollata non si può scrivere fuori dei margini né eccedere il numero delle linee in essa tracciate. Nei margini del foglio possono apporsi sottoscrizioni ed annotazioni, visti, vidimazioni, numerazioni e bolli prescritti o consentiti da leggi o regolamenti.».
[23] «Per gli atti e documenti scritti a mezzo stampa, litografia o altri analoghi sistemi è consentito, in deroga al disposto del precedente comma, scrivere fuori dei margini, fermo peraltro il divieto di eccedere le 100 linee per foglio.».
[24] «Nei casi in cui il pagamento dell'imposta di bollo in modo straordinario o virtuale sia sostitutivo o alternativo di quello ordinario si osservano i limiti stabiliti dagli artt. 4 e 9 circa il numero delle linee di ciascun foglio.»
(30.01.2013 - link a www.regione.fvg.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Amministrazione aperta ex art. 18 D.L. 83/2012.
Ai sensi delle disposizioni sull'amministrazione aperta, anche una determinazione dirigenziale, avente ad oggetto, ad esempio, la fornitura di carta per i fotocopiatori di un ente locale, può essere soggetta agli obblighi di pubblicazione, ricadendo la fattispecie all'interno dell'ambito dell'attribuzione di corrispettivi e compensi a persone, professionisti, imprese ed enti privati di cui all'art. 18, comma 1, del D.L. 83/2012.
Il quinto comma dell'art. 18 stabilisce, tuttavia, che solo per le concessioni e le attribuzioni di importo superiore a 1.000 euro, avvenute nel corso del medesimo anno solare, la pubblicazione acquisisce valore di condizione legale di efficacia la cui eventuale omissione o incompletezza costituisce responsabilità amministrativa, patrimoniale e contabile rilevabile anche d'ufficio dagli organi dirigenziali e di controllo e altresì rilevabile da chiunque abbia interesse anche ai fini del risarcimento del danno da ritardo da parte dell'amministrazione.

Il Comune chiede di sapere a quali tipologie di atti il legislatore intende fare riferimento quando, all'art. 18 del decreto legge 22.06.2012, n. 83 [1], nell'ambito delle informazioni e dei dati soggetti a pubblicità su internet in applicazione degli obblighi sull'amministrazione aperta, ricomprende anche quelli connessi alla 'attribuzione dei corrispettivi e dei compensi a persone, professionisti, imprese ed enti privati e comunque di vantaggi economici di qualunque genere di cui all'articolo 12 della legge 07.08.1990, n. 241 ad enti pubblici e privati'. Più specificatamente, l'Ente si domanda se anche una determina per la fornitura di beni, come la carta per fotocopiatore, sia soggetta a detta normativa.
Le disposizioni sull'amministrazione aperta, previste, in particolare, dal primo comma dell'art. 18, coprono un triplice ambito oggettivo di applicazione. Esse, infatti, riguardano:
a) la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi e ausili finanziari alle imprese [2];
b) l'attribuzione di corrispettivi e compensi a persone, professionisti, imprese ed enti privati [3];
c) l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere, di cui all'art. 12 della L. 241/1990, ad enti pubblici e privati [4].
Il secondo comma prevede tutta una serie di dati, informazioni e documenti [5] che, qualora si versi in uno degli ambiti di cui al primo comma, l'amministrazione è tenuta a pubblicare sul proprio sito internet nella sezione 'Trasparenza, valutazione e merito' [6].
Ai sensi di un tanto, pare che anche una determinazione dirigenziale, avente ad oggetto, ad esempio, la fornitura di carta per i fotocopiatori di un ente locale, possa essere soggetta agli obblighi pubblicitari previsti dalla norma, ricadendo la fattispecie all'interno della lettera b) dell'elenco [7].
Il quinto comma dell'art. 18 stabilisce, tuttavia, che solo per le concessioni e le attribuzioni di importo superiore a 1.000 euro, avvenute nel corso del medesimo anno solare, la pubblicazione acquisisce valore di condizione legale di efficacia la cui eventuale omissione o incompletezza costituisce responsabilità amministrativa, patrimoniale e contabile rilevabile anche d'ufficio dagli organi dirigenziali e di controllo e altresì rilevabile da chiunque abbia interesse anche ai fini del risarcimento del danno da ritardo da parte dell'amministrazione.
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[1] Convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 134.
[2] Tali atti sono caratterizzati dal fatto di costituire attribuzioni economiche, non legate ad una controprestazione, che hanno come destinatari le imprese.
[3] Tali atti sono caratterizzati dal fatto di costituire attribuzioni economiche, erogate a fronte di una controprestazione, a favore di privati.
[4] Tali atti sono caratterizzati dal fatto di costituire generiche attribuzioni di un 'vantaggio economico' riferibili all'art. 12 della L. 241/1990 e, perciò, senza che vi sia una controprestazione verso il concedente. Vi sono compresi i contributi ad enti pubblici per la realizzazione di specifiche attività o l'attuazione di programmi di pubblico interesse.
[5] L'amministrazione è tenuta a pubblicare: 'a) il nome dell'impresa o altro soggetto beneficiario ed i suoi dati fiscali; b) l'importo; c) la norma o il titolo a base dell'attribuzione; d) l'ufficio e il funzionario o dirigente responsabile del relativo procedimento amministrativo; e) la modalità seguita per l'individuazione del beneficiario; f) il link al progetto selezionato, al curriculum del soggetto incaricato, nonché al contratto e capitolato della prestazione, fornitura o servizio'.
[6] Si coglie l'occasione per rammentare che, per agevolare il compito delle amministrazioni locali, la Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, per il tramite del Servizio Sistemi Informativi ed E-Government e nell'ambito della convenzione per i servizi informatici SIAL, ha messo a disposizione l'applicativo "Amministrazione Aperta". Per maggiori informazioni, si prega di consultare la pagina: http://autonomielocali.regione.fvg.it/aall/opencms/AALL/SIAL/Amministrazione_aperta/
[7] Sul contemporaneo obbligo, nel caso sussistano le condizioni previste dalla legge, di pubblicazione delle determinazioni dirigenziali sia all'albo pretorio on-line sia nella sezione 'Trasparenza, valutazione e merito' del sito internet, questo Ufficio si è già espresso con il parere prot. n. 1704 del 18.01.2013, scaricabile alla pagina http://autonomielocali.regione.fvg.it/aall/opencms/AALL/Servizi/pareri/
(25.01.2013 - link a www.regione.fvg.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Amministrazione aperta e pubblicazione delle determinazioni.
L'affissione di atti all'albo pretorio on-line non esonera l'amministrazione dall'obbligo di pubblicazione anche sul sito istituzionale nel caso in cui gli stessi rientrino nelle categorie per le quali l'obbligo è previsto dalle norme sull'amministrazione aperta di cui all'art. 18 del D.L. 83/2012.
Il Comune rileva che è stato recentemente sostituito, ad opera della legge regionale 21.12.2012, n. 26 (legge di manutenzione dell'ordinamento regionale 2012), l'art. 1, comma 15, della legge regionale 11.12.2003, n. 21, il quale ora prevede la pubblicazione all'interno dei siti informatici propri o di altre pubbliche amministrazioni, oltre che delle deliberazioni, anche delle determinazioni degli enti locali.
L'Ente locale osserva, inoltre, che la Regione Friuli Venezia Giulia ha disciplinato, all'art. 12, commi 26-41, della legge regionale 31.12.2012, n. 27 [1], gli obblighi sull'amministrazione aperta derivanti dall'applicazione dell'art. 18 del decreto legge 22.06.2012, n. 83 [2].
Alla luce di un tanto, il Comune chiede se la pubblicazione all'interno del proprio sito istituzionale delle determinazioni assolva anche alle prescrizioni di cui al citato art. 18 del D.L. 83/2012 ovvero se queste ultime debbano essere comunque rispettate da parte dell'Ente.
Gli obblighi sulla pubblicazione di concessioni, compensi ed altri vantaggi, previsti dall'art. 18 del D.L. 83/2012, come già osservato in altro parere espresso da questo Ufficio [3], trovano applicazione anche per le amministrazioni locali del Friuli Venezia Giulia.
E' pur vero che l'oggetto delle pubblicazioni previste dalle due norme può, in alcuni casi, coincidere, potendo, ad esempio, una determinazione dirigenziale riguardare l'attribuzione di compensi o altri vantaggi economici per i quali l'art. 18 del D.L. 83/2012 prevede la pubblicazione sul sito internet.
Anche in tale caso, però, gli enti devono adempiere agli obblighi previsti dalle due distinte normative, pubblicando, se del caso, sia sull'albo pretorio informatico sia nella sezione 'Trasparenza, valutazione e merito' il medesimo atto qualora richiesto dalle norme citate.
Di un tanto si è avuto conferma in una delibera della Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche (Civit), la quale, constatando che la tenuta, anche online, dell'albo pretorio non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 11 del decreto legislativo 27.10.2009, n. 150 [4], e più in generale delle norme sulla trasparenza, ha espresso l'avviso che l'affissione di atti nell'albo pretorio on-line non esonera l'amministrazione dall'obbligo di pubblicazione anche sul sito istituzionale nel caso in cui tali atti rientrino nelle categorie per le quali l'obbligo è previsto dalla legge [5].
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[1] Come emerge dalla circolare n. 20 del 27.12.2012 della Direzione centrale finanze, patrimonio e programmazione, tali disposizioni si applicano, ai sensi dei commi 40 e 41 dell'art. 12 della L.R. 27/2012, solamente all'amministrazione regionale, agli enti regionali ed alle agenzie regionali e, quindi, non agli enti locali. La norma lascia, tuttavia, aperta l'applicabilità a questi ultimi solamente qualora gli stessi operino in qualità di 'soggetti che gestiscono, per conto della Regione, risorse finalizzate alle concessioni e alle attribuzioni', con riferimento, in particolare, ai casi in cui tali enti siano soggetti delegatari in forza di delegazioni amministrative intersoggettive (v. art. 51 della legge regionale 31.05.2002, n. 14).
[2] Convertito, con modificazioni, dalle legge 7 agosto 2012, n. 134.
[3] V. parere prot. n. 39395 del 14.12.2012 scaricabile dal Portale delle autonomie locali alla pagina http://autonomielocali.regione.fvg.it/aall/opencms/AALL/Servizi/pareri/.
[4] Norme sulla trasparenza nella pubblica amministrazione, intesa come accessibilità totale anche attraverso lo strumento della pubblicazione sui siti istituzionali delle informazioni concernenti ogni aspetto dell'organizzazione, degli indicatori relativi agli andamenti gestionali e all'utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali.
[5] V. delibera Civit n. 33/2012: 'Rapporti di affissione di atti nell'albo pretorio on-line e il loro obbligo di pubblicazione sul sito istituzionale dell'Ente'
(18.01.2013 - link a www.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI: Contratti di sponsorizzazione.
Ai contratti di sponsorizzazione, nei quali la controprestazione offerta dallo sponsor non consista nella realizzazione di lavori, né nell'esecuzione di forniture o di servizi (sponsorizzazione di puro finanziamento), è applicabile la normativa di cui al R.D. 224/1923 e relativo regolamento, che richiede l'espletamento di procedure comparative.
Tuttavia, per valori di importo modesto, la previsione di addivenire alla stipula del contratto direttamente con il soggetto proponente, prescindendo dall'espletamento di una procedura selettiva, sembra comunque rispondere ai principi di non aggravamento, efficacia ed efficienza dell'azione amministrativa, ai quali sono improntate alcune previsioni derogatorie della predetta regola generale (cfr. artt. 26 e 125 del D.Lgs. 163/2006).

Il Comune chiede un parere in ordine alla possibilità di modificare il regolamento sulle sponsorizzazioni al fine di introdurre una norma che consenta l'affidamento diretto nel caso di offerte di sponsorizzazione spontaneamente provenienti da soggetti privati di importo inferiore a 20.000,00 euro, senza dover ricorrere ad una procedura ad evidenza pubblica di comparazione con eventuali ulteriori offerte migliorative.
La possibilità, per le pubbliche amministrazioni, di concludere contratti di sponsorizzazione è prevista dall'articolo 43 della legge 27.12.1997, n. 449, che al comma 1 recita: «Al fine di favorire l'innovazione dell'organizzazione amministrativa e di realizzare maggiori economie, nonché una migliore qualità dei servizi prestati, le pubbliche amministrazioni possono stipulare contratti di sponsorizzazione ed accordi di collaborazione con soggetti privati ed associazioni, senza fini di lucro, costituite con atto notarile».
Il comma 2 dell'articolo 43 citato circoscrive la possibilità di utilizzazione di tale contratto alla presenza di una serie di limiti e condizioni. In particolare, le iniziative degli enti pubblici devono:
a) essere dirette al perseguimento di interessi pubblici;
b) escludere forme di conflitto di interesse tra l'attività pubblica e quella privata;
c) comportare risparmi di spesa rispetto agli stanziamenti disposti.
Per gli enti locali, i contratti di sponsorizzazione sono previsti all'articolo 119 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, il quale, nel richiamare l'articolo 43 della legge 449/1997, dispone che, al fine di favorire una migliore qualità dei servizi prestati, i comuni, le province e gli altri enti locali indicati nel testo unico possono stipulare contratti di sponsorizzazione ed accordi di collaborazione, nonché convenzioni con soggetti pubblici o privati diretti a fornire consulenze o servizi aggiuntivi.
L'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici [1] ha definito il contratto di sponsorizzazione come «un contratto a prestazioni corrispettive mediante il quale l'ente locale (sponsee) offre a un terzo (sponsor), che si obbliga a pagare un determinato corrispettivo, la possibilità di pubblicizzare in appositi determinati spazi nome, logo, marchio o prodotti». Essa ha, poi, precisato che in tale contratto «il corrispettivo può essere rappresentato anche da un contributo in beni o servizi o altre utilità».
Stanti le predette caratteristiche, il negozio viene inquadrato tra i contratti atipici a titolo oneroso a prestazioni corrispettive, la cui causa è individuata nella «utilizzazione a fini direttamente o indirettamente pubblicitari dell'attività, del nome o dell'immagine altrui verso un corrispettivo che può consistere in un finanziamento in denaro o nella fornitura di materiali o di altri beni». [2]
Lo strumento delle sponsorizzazioni serve quindi ad attivare le risorse disponibili in un determinato contesto territoriale, a coinvolgere soggetti privati (imprese, fondazioni, soggetti del privato-sociale) ed a migliorare la qualità dei servizi prestati.
Il vasto campo di applicazione del contratto di sponsorizzazione rappresenta un'opportunità per la pubblica amministrazione, in quanto tutte le aree di attività possono essere potenzialmente interessate dai contratti in questione. In particolare, per quanto riguarda le ipotesi concrete in cui le pubbliche amministrazioni possono far ricorso ai contratti di sponsorizzazione, si va dai contratti di sponsorizzazione tout court fino alle sponsorizzazioni accessorie a contratti di appalto di lavori, servizi o forniture.
Possono essere infatti oggetto di sponsorizzazione le manifestazioni, gli spettacoli, le mostre, i concerti, le iniziative di comunicazione e informazione, ed in genere tutti gli eventi (culturali, turistici, sportivi, artistici, ricreativi, ecc.) e i progetti posti in essere dall'ente.
I contratti di sponsorizzazione sono sottratti all'applicazione della disciplina ordinaria del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, che si limita a contemplare, quali 'contratti esclusi', unicamente quelli che prevedono, come controprestazione dello sponsor, l'esecuzione di servizi o di forniture, ovvero la realizzazione di opere o lavori.
Infatti, l'articolo 26 [3] del decreto legislativo 163/2006 prevede che «Ai contratti di sponsorizzazione e ai contratti a questi assimilabili, di cui siano parte un'amministrazione aggiudicatrice o altro ente aggiudicatore e uno sponsor che non sia un'amministrazione aggiudicatrice o altro ente aggiudicatore, aventi ad oggetto i lavori di cui all'allegato I, nonché gli interventi di restauro e manutenzione di beni mobili e delle superfici decorate ... ovvero i servizi di cui all'allegato II, ovvero le forniture disciplinate dal presente codice, quando i lavori, i servizi, le forniture sono acquisiti o realizzati a cura e a spese dello sponsor per importi superiori a quarantamila euro, si applicano i principi del Trattato per la scelta dello sponsor nonché le disposizioni in materia di requisiti di qualificazione dei progettisti e degli esecutori del contratto».
Per i contratti contemplati dal predetto articolo 26 (che l'Autorità di vigilanza definisce di 'sponsorizzazione tecnica' [4]) rimane ferma la disciplina di cui all'articolo 27 del Codice dei contratti pubblici, secondo cui l'affidamento dei 'contratti esclusi' deve comunque avvenire nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, facendo precedere l'affidamento da invito ad almeno cinque concorrenti, qualora ciò sia compatibile con l'oggetto del contratto.
L'Autorità di vigilanza [5] ha, inoltre, chiarito che diversa è la 'sponsorizzazione pura o di puro finanziamento', alla quale pare riferirsi il quesito posto, trattandosi di manifestazioni culturali o sportive, in cui lo sponsor si impegna nei confronti della stazione appaltante esclusivamente al riconoscimento di un contributo, in cambio del diritto di sfruttare spazi per fini pubblicitari, e non anche allo svolgimento di altre attività.
Stabilito, quindi, che la fattispecie in esame non risulta riconducibile ai contratti disciplinati dagli articoli 26 e 27 del decreto legislativo 163/2006, posto che la controprestazione offerta dallo sponsor non consiste nella realizzazione di lavori, né nell'esecuzione di forniture o di servizi, si ritiene che, trattandosi di contratti (anch'essi) 'attivi', la normativa applicabile debba rinvenirsi nei regi decreti 18.11.1923, n. 2440 e 23.05.1924, n. 827, i quali richiedono -rispettivamente, all'art. 3, primo comma [6] e all'art. 37, primo comma [7]- l'espletamento di procedure comparative.
Tuttavia, stante la modestia del valore cui l'Ente fa riferimento (euro 20.000,00), la previsione di addivenire alla stipula del contratto direttamente con il soggetto proponente, prescindendo dall'espletamento di una procedura selettiva, sembra comunque rispondere ai principi di non aggravamento, efficacia ed efficienza dell'azione amministrativa, ai quali sembrano improntate alcune previsioni derogatorie della predetta regola generale.
Si ricorda, infatti, che, pur non risultando applicabili al caso di specie, significative appaiono le scelte operate dal legislatore con il già citato articolo 26 del decreto legislativo 163/2006, il quale consente di prescindere dall'osservanza dei principi del Trattato istitutivo dell'Unione europea per la scelta dello sponsor, qualora i lavori, i servizi e le forniture che questi realizzerà/fornirà all'amministrazione siano di importo pari o inferiore a 40.000,00 euro e con l'articolo 125 [8] dello stesso decreto, il quale prevede espressamente la facoltà di procedere all'affidamento diretto del contratto, qualora il suo valore sia inferiore a 40.000,00 euro.
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[1] Con la determinazione 05.12.2001, n. 24, il cui orientamento è stato confermato con la deliberazione 08.11.2008, n. 48.
[2] Cassazione 11.10.1997, n. 9880.
[3] Come modificato da ultimo dal decreto legge 09.02.2012, n. 5, convertito, con modificazioni nella legge 04.04.2012, n. 35.
[4] V., più recentemente, la deliberazione dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture 08.02.2012, n. 9.
[5] V. deliberazione n. 9/2012, cit..
[6] «I contratti dai quali derivi un'entrata per lo Stato debbono essere preceduti da pubblici incanti, salvo che per particolari ragioni, delle quali dovrà farsi menzione nel decreto di approvazione del contratto, e limitatamente ai casi da determinare con il regolamento, l'amministrazione non intenda far ricorso alla licitazione ovvero nei casi di necessità alla trattativa privata.».
[7] «Tutti i contratti dai quali derivi entrata o spesa dello Stato debbono essere preceduti da pubblici incanti, eccetto i casi indicati da leggi speciali e quelli previsti nei successivi articoli.».
[8] Relativo alle acquisizioni di lavori, servizi e forniture in economia, i cui commi 8, ultimo periodo e 11, ultimo periodo, dispongono, rispettivamente, che:
«8. [...]. Per lavori di importo inferiore a quarantamila euro è consentito l'affidamento diretto da parte del responsabile del procedimento.»;
«11. [...] Per servizi o forniture inferiori a quarantamila euro, è consentito l'affidamento diretto da parte del responsabile del procedimento.»
(09.01.2013 - link a www.regione.fvg.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAOggetto: Richiesta di chiarimenti in merito al DM 161/2012 del 12.08.2012 da parte dell'Ordine dei Geologi della regione Umbria (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Segreteria Tecnica del Ministro, nota 14.11.2012 n. 36288 di prot.).
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Terre e rocce da scavo: il DM 161/2012 non si applica al materiale da scavo riutilizzato nello stesso sito in cui è prodotto.
Con una nota del 14/11/2012, il Ministero dell'Ambiente, rispondendo ad una richiesta di chiarimenti presentata in merito al D.M. 161/2012, ha chiarito che la disciplina da esso recata non si applica al materiale da scavo riutilizzato nello stesso sito in cui è prodotto.
Il Ministero dell'Ambiente e Tutela del Territorio e del Mare, con una Nota prot. 36288 del 14/11/2012, ha fornito chiarimenti in merito all'applicazione del D.M. 161/2012 recante la disciplina delle terre e rocce da scavo, rispondendo ad una richiesta di chiarimenti presentata dall'Ordine dei Geologi della Regione Umbria.
In merito, il Ministero chiarisce in primo luogo che il D.M. 161/2012 non tratta il materiale da scavo riutilizzato nello stesso sito in cui è prodotto, e pertanto non trova applicazione la disciplina da esso recata.
Ciò discende dall'indicazione del campo di applicazione del D. Leg.vo 152/2006, dal quale il D.M. 161/2012 discende, di cui all'art. 185 (Esclusioni dall'ambito di applicazione) dello stesso, che al comma 1, lettera c), prevede che «Non rientrano nel campo di applicazione della parte quarta del presente decreto [...] il suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito in cui è stato escavato».
Inoltre la Nota ricorda che, ai sensi dell'art. 266, comma 7, del D.Leg.vo 152/2006, la disciplina per la semplificazione amministrativa delle procedure relative ai materiali, ivi incluse le terre e le rocce da scavo, provenienti da cantieri di piccole dimensioni la cui produzione non superi i 6.000 mc. di materiale sarà dettata da apposito decreto, e pertanto tale tipologia di materiale non è oggetto del D.M. 161/2012
(commento tratto da www.legislazionetecnica.it).

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ENTI LOCALI - CONSIGLIERI COMUNALIANTICORRUZIONE/ P.a. a trasparenza dimezzata. No alla diffusione di consulenze e denunce dei redditi. Il parere del garante privacy sul dlgs attuativo della legge.
Trasparenza dimezzata nella p.a. Relativamente ai dipendenti pubblici, resta la possibilità di pubblicare sui siti internet solo gli stipendi tabellari e i curricula, escludendo dunque eventuali consulenze. Mentre per quanto riguarda politici, stop alla diffusione integrale di dichiarazioni dei redditi e stati patrimoniali, anche relativi ai familiari.
Sono alcuni dei rilievi contenuti nel parere del garante privacy allo schema di decreto legislativo delegato attuativo della legge 190/2012 (anticorruzione), nella parte relativa al riordino della trasparenza sul web della pubblica amministrazione. Pur essendo un parere favorevole (ma condizionato), il garante boccia l'impostazione dello schema di decreto.
Dal canto suo il governo, per bocca del ministro per la p.a., Filippo Patroni Griffi, ha assicurato che i rilievi del garante saranno esaminati attentamente, anche se deve essere impedito che la riservatezza diventi un alibi per assicurare sfere pubbliche non conoscibili. Mentre dal punto di vista dell'Associazione dei comuni italiani (Anci), pure essendo auspicabile la massima trasparenza dell'azione amministrativa, «fa piacere che il garante abbia nuovamente sottolineato alcune necessità di tutela nei confronti di chi assume incarichi elettivi».
Dati sanitari & co.
No alla diffusione sui siti della p.a. di dati sanitari o dei dati identificativi di chi percepisce sussidi. E periodo massimo di conservazione dei documenti in rete, accessibili solo da motori di ricerca interni ai siti istituzionali. Nel merito il provvedimento distingue gli atti e documenti da pubblicare obbligatoriamente da quelli da pubblicare facoltativamente. Su questi ultimi lo schema lascia alle singole p.a. la decisione se anonimizzare o meno le informazioni: il garante chiede anonimizzazione obbligatoria e, comunque, il rispetto della regola per cui la possibilità di pubblicazione deve essere rimessa alla legge o al regolamento e non a una decisione discrezionale del singolo ente pubblico.
Pubblicazione ...
Quanto ad atti destinati per legge alla pubblicazione (ad esempio le deliberazioni di un ente locale) il garante propone una modifica nel senso che il contenuto di tali atti non violi la privacy delle persone. Questo si ottiene fissando la regola per cui le p.a. devono rendere non intelligibili i dati eccedenti o, se sensibili o giudiziari, i dati non indispensabili. In questo caso si devono usare le tecniche della allegazione di documenti, contenenti i dati delicati, richiamati negli atti pubblicati o della codificazione degli stessi dati delicati.
Deve comunque essere prescritto il divieto di pubblicazione di dati sanitari o idonei a rivelare la vita sessuale. Il decreto legislativo non chiarisce se e in che termini possano essere pubblicati altri dati sensibili o giudiziari. Il garante suggerisce, poi, con riferimento ad atti e documenti soggetti a pubblicazione, di limitare le ricerche a motori di ricerca interni al sito, escludendo quelli generali. Il garante frena sul libero riutilizzo dei dati pubblicati dalle p.a.: deve essere consentito solo in termini compatibili con gli scopi per cui sono stati raccolti e utilizzati.
... e diritto all'oblio
Tema scottante è quello della durata della pubblicazione e del diritto all'oblio. Lo schema di decreto legislativo prevede un termine di cinque anni indifferenziato. Il garante suggerisce di rimodulare la scadenza, anche in considerazione di termini molto diversi previsti dalla normativa di settore (ad esempio, 15 giorni per le deliberazioni di comuni e province). Nel parere del garante si sottolinea che è necessario spiegare cosa fare allo scadere del termine di pubblicazione, non essendo sufficiente in ogni caso la conservazione in altre sezioni del sito ad accesso selezionato.
Politici e dipendenti
Il principale rilievo, come detto, concerne le informazioni reddituali e patrimoniali dei politici. Secondo il garante è sproporzionata la diffusione tramite i siti istituzionali delle integrali dichiarazioni dei redditi o di dati dei familiari. Anche per i dati del personale delle p.a. al garante appare sproporzionata la diffusione tramite il web di dati, se eccedenti i profili del curriculum. Lo schema di decreto legislativo conferma la normativa (dl 83/2012) relativa alla pubblicazione dei provvedimenti relativi a sussidi e vantaggi economici di qualunque genere anche a persone fisiche.
Secondo il garante tale disciplina va riformulata, escludendo espressamente dall'obbligo di pubblicazione i dati identificativi dei destinatari di provvedimenti riguardanti persone fisiche dai quali sia possibile ricavare informazioni relative allo stato di salute degli interessati, oppure lo stato economico-sociale disagiato degli stessi (come il riconoscimento di agevolazioni economiche, la fruizione di prestazioni sociali collegate al reddito, il contributo per le refezione scolastica o dal ticket sanitario, i benefici per portatori di handicap, il riconoscimento di sussidi ad anziani non autosufficienti, i contributi erogati per la cura di malattie o per le vittime di violenza sessuale).
Va vietata anche la diffusione di dati non pertinenti rispetto alle finalità perseguite, quali ad esempio l'indirizzo di casa, il codice fiscale, le coordinate bancarie, la ripartizione degli assegnatari secondo le fasce Isee, informazioni sulle condizioni di indigenza.
Tutela in giudizio
Osservazione conclusiva riguarda la tutela giurisdizionale. Lo schema di decreto prevede la competenza del giudice amministrativo, mentre il garante, richiamando il codice della privacy, ritiene che la giurisdizione sia del giudice ordinario (tribunale) (articolo ItaliaOggi del 09.02.2013).

ENTI LOCALIPartecipate, corsa contro il tempo per evitare lo scioglimento.
L'Antitrust ha pubblicato le procedure da seguire allorquando si ritengano sussistenti i presupposti per l'applicazione della deroga allo scioglimento o dismissione delle partecipazioni societarie delle pubbliche amministrazioni.

La comunicazione, con relativo formulario, è stata emanata lo scorso 4 febbraio e contiene le informazioni che le amministrazioni debbono fornire ai fini del rilascio del parere, obbligatorio e vincolante, da parte della suddetta Autorità. L'articolo 4 del dl n. 95/2012 introduce misure restrittive in tema di società partecipate, direttamente o indirettamente, dalle p.a. disponendo il loro scioglimento ovvero la dismissione di quelle che erogano servizi strumentali.
Il comma 3 stabilisce l'esclusione dall'applicazione di tali norme se, per le particolari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto di riferimento, non è possibile per la p.a. controllante un efficace e utile ricorso al mercato. In tale caso, l'amministrazione, nel rispetto della tempistica prevista per la dismissione, predispone un'analisi di mercato da inviare all'Autorità garante della concorrenza e del mercato, ai fini dell'acquisizione del parere vincolante.
Le ipotesi di deroga hanno, pertanto, un carattere di eccezionalità e debbono dar luogo ad una approfondita istruttoria, con relativa motivazione e giustificazione e al fine, di dimostrare l'impossibilità di ottenere, con il ricorso al mercato, condizioni più vantaggiose per la prestazione dei servizi offerti dalla società partecipata. La relazione deve essere fondata su un'adeguata analisi, che sia in grado di illustrare le caratteristiche e la struttura dei mercati interessati, evidenziando l'esistenza di benchmark di costo.
Le amministrazioni che ritengono di rientrare tra le ipotesi di deroga debbono presentare una richiesta di parere all'Autorità antitrust, utilizzando il formulario per la richiesta di parere, allegato alla comunicazione del 4 febbraio scorso. La richiesta deve essere inviata in tempo utile per rispettare i termini di cui al comma 1 dell'articolo 4 e precisamente il 30.06.2013 in caso di alienazione ed entro il 31 dicembre prossimi nel caso di scioglimento, tenendo conto, inoltre, del termine di 60 giorni per il rilascio del parere, che decorre dal ricevimento della richiesta.
All'Autorità devono essere forniti una serie di documentazioni, quali l'atto costitutivo, lo statuto, gli ultimi tre bilanci approvati, le forme di finanziamento e le indicazioni in merito agli interventi di ricapitalizzazione effettuati nel triennio precedente. È necessario indicare il tipo e il valore dei servizi in questione e le eventuali forme di finanziamento dell'attività svolta dalla società partecipata.
In particolare deve essere fornita una relazione contenente gli esiti dell'indagine di mercato, dalla quale risulta non possibile un utile ed efficace ricorso al mercato, analisi che deve contenere, in particolare, le informazioni sulle caratteristiche economiche, sociali e ambientali del contesto e del settore o del mercato, dei principali operatori attivi (articolo ItaliaOggi del 09.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTILe Finanze hanno messo a punto per i comuni un prototipo di regolamento del tributo. La Tares con l'invito a pagare. L'ente può mantenere la prassi delle richieste bonarie.
Tares con invito al pagamento. Consentito ai comuni di tenere in vita la prassi che prevede l'invio ai contribuenti, senza formalità di notifica, di inviti di pagamento che indicano le somme da versare e le relative modalità e termini entro i quali eseguire detti adempimenti.
Agli enti accordata anche la possibilità di modificare sia il numero che la scadenza delle rate di versamento, che deve comunque avvenire tramite conto corrente postale o modello F-24.

È quanto si legge nel prototipo di regolamento relativo alla tassa rifiuti e servizi pubblicato sul sito del Ministero dell'economia e delle finanze (unitamente alle linee guida per la predisposizione delle delibere e dei regolamenti concernenti le entrate tributarie locali e strumenti prototipali), sul quale gli operatori del settore possono inviare consigli e rilievi anche critici validi per eventuali future edizioni del prototipo di regolamento.
La disciplina statale è contenuta nell'art. 14 del dl 06.12.2011, n. 201, convertito con modificazioni dalla legge 22.12.2011, n. 214, che è stato oggetto di notevoli cambiamenti da parte dell'art. 1, comma 387, della legge 24.12.2012, n. 228, e cioè della legge di stabilità per l'anno 2013. Il prototipo di regolamento Tares (che da quest'anno ha preso il posto di Tarsu, Tia1 e Tia2) recepisce tutte le novità apportate al nuovo tributo, le razionalizza e propone uno strumento che ogni ente locale può adeguare alle proprie esigenze finanziarie ed organizzative. Ma non è vincolante per i comuni.
Il primo chiarimento presente nel regolamento è il suo ambito di applicazione, che è limitato a disciplinare il solo tributo comunale sui rifiuti e sui servizi, vale a dire un'entrata di natura tributaria, mentre non riguarda in alcun modo la tariffa con natura corrispettiva prevista ai commi da 29-32 dell'art. 14 del dl n. 201 del 2011, che i comuni che hanno realizzato sistemi di misurazione puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico possono prevedere, con regolamento, in luogo del tributo. Uno dei punti di maggiore incertezza è stato sempre rappresentato dai criteri per l'individuazione del costo del servizio di gestione dei rifiuti e per la determinazione della tariffa. Sul punto si ricorderà che l'originaria formulazione dell'art. 14 del dl 201 del 2012 prevedeva l'emanazione di un regolamento entro il 31.10.2012 e solo in via transitoria, l'applicazione delle disposizioni del dpr 27.04.1999, n. 158, e cioè il cosiddetto «metodo normalizzato» per definire la Tia1.
La nuova norma ribalta la situazione in quanto rende definitiva l'applicazione del decreto in questione, circostanza che se da un lato rassicura i comuni che avevano adottato la Tia, dall'altro mette in crisi gli enti rimasti nel regime Tarsu e pertanto non avvezzi all'utilizzo di tali regole. L'art. 13 del regolamento precisa che la tariffa Tares è commisurata alle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione agli usi e alla tipologia di attività svolte.
Precisa, inoltre, che la tariffa è determinata sulla base del piano finanziario con deliberazione del consiglio comunale, da adottare entro la data di approvazione del bilancio di previsione relativo alla stessa annualità. Un altro aspetto affrontato nell'art. 11 del regolamento riguarda la determinazione della superficie tassabile, che in base alle novità introdotte dalla legge di stabilità, equivale a quella calpestabile dei locali e delle aree suscettibili di produrre rifiuti urbani e assimilati. E ciò almeno fino al definitivo allineamento tra i dati catastali relativi alle unità immobiliari a destinazione ordinaria ed i dati riguardanti la toponomastica e la numerazione civica interna ed esterna di ciascun comune che dovrebbe permettere di addivenire alla determinazione della superficie assoggettabile al tributo pari all'80% di quella catastale, e cioè della superficie che l'originaria formulazione del comma 9 dell'art. 14, era considerata tassabile. Ai fini dell'applicazione del tributo si considerano, quindi, le superfici dichiarate o accertate ai fini della Tarsu, della Tia1 e della Tia2.
Il tributo provinciale per l'esercizio delle funzioni di tutela, protezione e igiene dell'ambiente. Dovuto dai soggetti passivi del tributo comunale sui rifiuti e sui servizi, detto tributo provinciale, commisurato alla superficie dei locali e delle aree assoggettabili al tributo comunale, è applicato nella misura percentuale -non inferiore all'1% né superiore al 5%- deliberata dalla provincia sul solo importo del tributo comunale.
La maggiorazione per i servizi indivisibili. Gli artt. 29 e 30 sono, invece, dedicati alla maggiorazione applicata alla tariffa Tares a copertura dei costi relativi ai servizi indivisibili dei comuni. Detta maggiorazione, si legge nelle note all'articolo «ha natura di imposta addizionale rispetto al tributo sui rifiuti (che ha invece natura di tassa), di cui assume il medesimo presupposto». La maggiorazione è dovuta dalle utenze domestiche e non domestiche, in misura pari al prodotto tra l'aliquota vigente stabilita e la superficie soggetta alla Tares.
L'aliquota base della maggiorazione è pari, per ogni tipologia di utenza, a 0,30 euro per ogni metro quadrato di superficie imponibile; il consiglio comunale può modificare solo in aumento detta misura elevandola fino a 0,40 euro per metro quadrato, anche graduandola in ragione della tipologia dell'immobile e della zona ove lo stesso è ubicato.
La riscossione. Il pagamento del tributo, della tariffa corrispettivo e della maggiorazione deve avvenire di norma in quattro rate trimestrali a gennaio, aprile, luglio e ottobre, con facoltà di effettuare il pagamento in unica soluzione entro giugno. È stata poi, come detto, prevista nel testo l'alternativa accordata dalla legge ai comuni, che possono modificare sia il numero che la scadenza delle rate di versamento.
Lo strumento che i contribuenti devono utilizzare è il bollettino di conto corrente postale, o il modello di pagamento unificato F-24. Nel regolamento si è ritenuto opportuno, per ragioni di continuità, mantenere la prassi invalsa presso i comuni che prevede l'invio ai contribuenti, senza formalità di notifica di «inviti di pagamento» che indicano le somme da versare e le relative modalità e termini entro i quali eseguire detti adempimenti (articolo ItaliaOggi dell'08.02.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAEntro il 15/2 i consorzi devono accreditarsi al Gse. Moduli fotovoltaici, countdown sul riciclo.
Entro il 15 febbraio i sistemi o i consorzi devono inviare al Gse la domanda di adesione per il recupero e riciclo dei moduli fotovoltaici a fine vita.
I decreti interministeriali del 05.05.2011 (quarto conto energia) e del 05.07.2012 (quinto conto energia) hanno stabilito, per gli impianti entrati in esercizio a decorrere dall'01.07.2012, che il produttore dei moduli fotovoltaici debba aderire a un sistema o consorzio che ne garantisca il riciclo a fine vita. I sistemi o i consorzi sono tenuti a trasmettere al Gse entro il 15.02.2013 la seguente documentazione: la dichiarazione di manleva; la dichiarazione di disponibilità di rete/polizze/autorizzazioni; l'atto istitutivo dello strumento negoziale; la dichiarazione sostitutiva del disciplinare tecnico resa dal gestore del fondo.
La documentazione deve essere trasmessa alla casella di posta elettronica ConsorzioSmaltimentoFTV@gse.it (la dimensione massima della singola e-mail non può superare i 10 MB). Il Gse valuterà la documentazione pervenuta e pubblicherà sul proprio sito internet, entro il 28.02.2013, un primo elenco dei sistemi o consorzi ritenuti idonei. L'elenco sarà soggetto ad aggiornamento periodico per tener conto della documentazione fatta pervenire al Gse, successivamente al 15.02.2013, da parte di nuovi sistemi o consorzi. Il Gse si riserva di chiedere documenti integrativi o elementi chiarificatori riguardo alla documentazione presentata.
Per essere riconosciuti come tali, i sistemi o i consorzi devono essere in possesso di determinati requisiti stabiliti nel «Disciplinare Tecnico per la definizione e verifica dei requisiti tecnici dei Sistemi/Consorzi per il recupero e riciclo dei moduli fotovoltaici a fine vita» pubblicato dal Gse il 21.12.2012. Entro il 31.03.2013, i produttori di moduli fotovoltaici installati su impianti entrati in esercizio nel periodo transitorio (01.07.2012-31.03.2013), dovranno aderire, con riferimento a tali moduli, a uno dei sistemi o consorzi inclusi nell'elenco pubblicato dal Gse (articolo ItaliaOggi dell'08.02.2013).

INCARICHI PROGETTUALIAppalti, parametri al palo. Nel dm valori più alti delle vecchie tariffe. Stop dall'Autorità di vigilanza: il decreto volta le spalle al mercato.
Il regolamento sui parametri per le gare di appalto inciampa nello stesso vincolo contenuto nella legge delega (1/12 modificato dal dl Sviluppo 83/2012): supera le vecchie tariffe professionali e volta le spalle al mercato.
Lo fa rilevare l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici nel parere 06.02.2013 n. 14435 di prot. inviato al ministero della giustizia sullo «Schema di regolamento che definisce i parametri da utilizzare per la determinazione dell'importo da porre a base di gara nell'ambito dei contratti pubblici dei servizi di ingegneria e architettura».
Un testo molto atteso dopo che il decreto legge sulle liberalizzazioni aveva di fatto cancellato ogni riferimento tariffario, privando le stazioni appaltanti di regole per calcolare gli importi e per determinare le corrette procedure per l'affidamento. E alimentando una situazione di eccessiva discrezionalità.
Una situazione destinata, però, a protrarsi ancora a lungo, visto il mix combinato della conclusione imminente della legislatura, anche se il testo potrebbe procedere nel suo iter, e della richiesta invece dell'Autorità di raddrizzarne il tiro. Senza considerare inoltre che sul provvedimento pende ancora il parere del Consiglio di stato che dovrebbe arrivare proprio in questi giorni. In ogni caso, le osservazioni dell'Autorità, che seguono quelle del Consiglio superiore dei lavori pubblici, rileva una serie di criticità invitando l'ufficio legislativo di Via Arenula a rimetterci mano.
Innanzitutto, rileva l'Avcp, il quadro di sintesi e le verifiche elaborate dal ministero della giustizia con tanto di grafici e tabelle presenti nella relazione illustrativa non sono sufficienti a ricavare che i parametri non determinino corrispettivi maggiori delle vecchie tariffe. In questo senso, l'organo di vigilanza guidato da Sergio Santoro suggerisce che nella predisposizione degli atti di gara il responsabile del procedimento abbia l'obbligo di accertare che non siano superati gli importi «delle precedenti soglie tariffarie, con conseguente violazione del vincolo di cui al comma 2 dell'art. 1 del dm in esame».
Qualora questo accadesse il prezzo a base d'asta dovrebbe essere ridotto «almeno del valore ricavabile dalle precedenti soglie». Non solo perché per l'Autorità i parametri per il calcolo del corrispettivo «non sembrerebbero rinconducibili ai risultati di un'analisi di mercato, ma piuttosto a un approccio pragmatico che ha assunto quali riferimenti le precedenti tariffe e quelle del recente dm 240/2010. Quindi, il ricorso ai parametri deve essere effettuato nel rispetto del codice dei contratti pubblici (dlgs 163/2006) che indica che le stazioni appaltanti hanno la possibilità non l'obbligo di rifarsi alle tariffe professionali».
Di conseguenza è consentito loro determinare l'importo della prestazione, tenendo conto delle precedenti esperienze di affidamento e dell'andamento del mercato, nel caso in cui i parametri del decreto in discussione «conducano a corrispettivi, da ritenersi quale massimo di riferimento, superiori» (articolo ItaliaOggi dell'08.02.2013 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALIIl fondo anti-default è indolore. Le anticipazioni non pesano né sul Patto né sul debito. Una circolare della Ragioneria spiega le novità contabili per il triennio 2013-2015.
Le anticipazioni del fondo anti-dissesto non pesano né sul Patto né sul debito, così come ininfluente ai fini del rispetto dei vincoli di finanza pubblica è il fondo di svalutazione crediti.
Sono queste due fra le principali novità contenute nella consueta circolare annuale con la quale la Ragioneria dello stato illustra i contenuti della disciplina in materia di Patto di stabilità interno di province e comuni (circolare n. 5/2012, diffusa ieri).
Il primo chiarimento importante riguarda il «fondo di rotazione per assicurare la stabilità finanziaria degli enti locali», introdotto dal dl 174/2013 per offrire un salvagente alle amministrazioni sull'orlo del dissesto.
Al riguardo, la circolare precisa che le relative anticipazioni vanno imputate contabilmente alle accensioni di prestiti ma, trattandosi di un finanziamento erogato dallo stato, non rilevano ai fini dei tetto di cui all'art. 204 del Tuel (da quest'anno pari al 4% delle entrate correnti). Simmetricamente, le restituzioni vanno imputate contabilmente tra i rimborsi di prestiti. Da qui un'altra conseguenza importante: sia le risorse in entrata che quelle in uscita non rilevano ai fini del Patto.
La circolare si sofferma poi sul fondo di svalutazione crediti, la cui iscrizione a bilancio è stata resa obbligatoria dal dl 95/2012 in misura non inferiore al 25% dei residui attivi, di cui ai titoli primo e terzo dell'entrata, aventi anzianità superiore a 5 anni. Al riguardo, essa precisa che l'importo così accantonato non va impegnato, confluendo in tal modo, a fine esercizio, nel risultato di amministrazione quale fondo vincolato (così come stabilito dal principio contabile n. 1/53). Ne consegue che lo stesso non rileva ai fini del Patto. In tal modo, di fatto, il Mef smentisce la (o almeno depotenzia la portata della) pronuncia della Corte dei conti per la Toscana (n. 287/2012) che aveva sostenuto il contrario, affermando che l'esclusione della quota di spesa corrente prevista per il fondo determinerebbe una grave irregolarità contabile
Altre precisazioni importanti riguardano l'impatto contabile delle riduzioni previste dallo stesso dl 95 a valere sullo scorso esercizio finanziario. Per i comuni che non sono riusciti, entro lo scorso 31 dicembre, a destinare (in tutto o in parte) il relativo importo alla riduzione del debito, il taglio scatterà quest'anno per la differenza. Contestualmente, tuttavia, gli stessi enti beneficeranno di un miglioramento dell'obiettivo di quest'anno, al fine di compensare l'esclusione subita sul Patto 2012. La variazione verrà operata in automatico dal Mef, sulla base dei dati che gli stessi comuni comunicheranno al ministero dell'interno entro il prossimo 31 marzo.
Il dipartimento guidato da Mario Canzio non scioglie, invece, un nodo che preoccupa diversi piccoli comuni. Il problema sono gli interventi per il ripristino dei danni conseguenti a calamità naturali. Al riguardo, la regola generale prevede che gli enti possano escludere le sole spese finanziate con risorse statali, a condizione, però, che essi detraggano anche le relative entrate. Spesso, però, i sindaci sono stati costretti ad anticipare i soldi di tasca propria, in attesa che lo stato o le regioni effettuassero i rimborsi. Per questi casi, la circolare precisa che se un ente, nell'anno 2013, incassa una somma (per esempio 100) a fronte di spese già effettuate a valere su altre risorse negli anni passati, l'incasso di 100 è escluso dal saldo 2013 e non possono essere escluse ulteriori spese. Ciò presuppone che l'ente in questione abbia, a suo tempo, escluso la spesa dai calcoli del Patto. Ma ciò, nel caso dei comuni fra 1.000 e 5.000 abitanti, non è vero, perché tali enti non erano soggetti (lo sono solo da quest'anno). Da qui un evidente penalizzazione, che meriterebbe di essere corretta.
La circolare si sofferma sui nuovi controlli esterni previsti dal dl 174, precisando che la Corte dei conti mantiene anche il potere di vigilanza sull'autoapplicazione delle sanzioni da parte degli enti inadempienti, malgrado l'abrogazione della relativa previsione.
Per il resto, la circolare conferma tutte le novità già anticipate da Italia Oggi: modifica della base di calcolo (ora vale la spesa corrente media 2007-2009); previsione di un modesto sconto (solo sul 2013) per i piccoli comuni; parziale revisione dei parametri di virtuosità (che ora considerano anche valore delle rendite catastali e numero di occupati); conferma degli istituti di «solidarietà» (Patto regionale verticale, incentivato e non, patto orizzontale nazionale e regionale); inclusione anche degli enti commissariati per infiltrazioni mafiose (articolo ItaliaOggi dell'08.02.2013).

APPALTI - ENTI LOCALITrasparenza, i contratti sul web. Non rileva pubblicare la liquidazione della fattura. Sono molte le difficoltà operative generate dalle nuove norme sull'amministrazione aperta.
La pubblicazione delle determine di liquidazione, ai sensi della normativa sulla cosiddetta «amministrazione aperta», non condiziona l'efficacia dei pagamenti. I servizi finanziari, dunque, possono procedere ai pagamenti senza avere l'onere di controllare l'avvenuto adempimento.
Sono molteplici le difficoltà operative che continua a porre l'articolo 18 del dl 83/2012, convertito in legge 134/2012, per effetto del quale le amministrazioni sono obbligate a pubblicare una serie di informazioni concernenti appalti, incarichi di collaborazione e contributi sui propri siti istituzionali.
I problemi discendono, prevalentemente, dal disposto del comma 5 del citato articolo 18, ai sensi del quale «a decorrere dal 01.01.2013, per le concessioni di vantaggi economici successivi all'entrata in vigore del presente decreto legge, la pubblicazione ai sensi del presente articolo costituisce condizione legale di efficacia del titolo legittimante delle concessioni ed attribuzioni di importo complessivo superiore a 1.000 euro nel corso dell'anno solare».
La norma è molto rigorosa, perché introduce una condizione di efficacia, il cui mancato rispetto comporta responsabilità per indebita concessione del beneficio stesso, ma è evidentemente troppo laconica nell'indicare quale sia l'atto condizionato dalla pubblicazione.
Il riferimento poco chiaro è al «titolo legittimante».
Moltissimi ritengono che detto titolo legittimante sia la fattura e che, di conseguenza, il pagamento resti condizionato all'adozione e pubblicazione del provvedimento che la liquida. Pertanto, i responsabili degli uffici finanziari ritengono di dover controllare che l'adempimento della pubblicazione del provvedimento liquidativo sia stato rispettato, prima di ordinare il pagamento al tesoriere.
Si tratta, tuttavia, di una visione non corretta. La fattura non ha alcuna funzione di «titolo legittimante». Come sancisce la pacifica giurisprudenza della Cassazione la fattura commerciale, che è atto formato unilateralmente dall'imprenditore e, soprattutto, inerente a un rapporto già formato tra le parti, ha solo natura di atto partecipativo e non di prova documentale, né di indizio circa l'esistenza del credito in essa riportato.
Dunque, la fattura sicuramente non costituisce «titolo legittimante». Esso va ricercato a monte del rapporto cui la fattura inerisce, non avendo essa natura costitutiva del medesimo.
Il titolo legittimante, allora, non può che essere l'atto di costituzione e regolazione del rapporto tra pubblica amministrazione e privato. Non è, di conseguenza, il provvedimento amministrativo di concessione del contributo o individuazione del contraente (aggiudicazione definitiva o affidamento), perché si tratta comunque di atti aventi esclusivamente efficacia interna: autorizzano l'amministrazione a impegnare definitivamente la spesa e a stipulare il contratto o gli atti convenzionali regolanti il rapporto.
Dunque, si comprende come il «titolo legittimante» sia esclusivamente l'atto di regolazione del rapporto, cioè contratto, convenzione, o altro atto di identica natura, qualunque sia il nomen iuris.
Il beneficio viene materialmente concesso o attribuito al terzo destinatario con la stipulazione del contratto, dunque esso è il titolo legittimante. Allora, la pubblicazione che condiziona l'efficacia è quella del contratto.
Sicuramente la pubblicazione del provvedimento di liquidazione, pur essendo comunque obbligatoria, non assume alcun a funzione né di condizione di efficacia, né presupposto, tanto della liquidazione, quanto del successivo pagamento.
I servizi finanziari non debbono, quindi, accertare preventivamente al pagamento che la liquidazione sia pubblicata. Semmai, occorre sempre evidenziare in tutti gli atti e provvedimenti adottati successivamente alla stipulazione del contratto che esso risulti pubblicato nel sito istituzionale dell'ente, con l'indicazione dell'indirizzo internet nel quale reperirlo (articolo ItaliaOggi dell'08.02.2013).

ENTI LOCALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Conti, decide il consiglio. Sulla proposta di equilibrio di bilancio. La mancata approvazione in commissione non impedisce l'esame.
Qual è la procedura prevista per l'approvazione delle delibere da parte del consiglio comunale in relazione all'obbligo, per l'ente, di approvare entro il 30 settembre la salvaguardia degli equilibri di bilancio ai sensi dell'art. 193 del decreto legislativo n. 267/2000?

Nella fattispecie, il regolamento per il funzionamento del consiglio comunale ha disciplinato i poteri e l'organizzazione delle commissioni costituite in base alla facoltà demandata allo statuto dell'ente dall'articolo 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000.
In particolare, il regolamento prevede che tutti i provvedimenti di competenza del consiglio comunale devono essere approvati preventivamente dalla commissione «in sede referente» e che, in caso di mancata approvazione, ne sia data comunque comunicazione nella seduta successiva.
Nel caso di specie la proposta di delibera relativa alla salvaguardia degli equilibri di bilancio è stata sottoposta alla commissione competente, in sede referente, che, tuttavia, non l'ha approvata.
È stato chiesto se la mancata approvazione da parte della commissione in sede referente precluda al consiglio comunale di deliberare la specifica proposta.
La disciplina regolamentare per l'approvazione dei provvedimenti di competenza del consiglio che prevede, obbligatoriamente, l'esame del testo da parte della commissione in sede referente è coerente con la configurazione delle commissioni consiliari quali organismi di supporto all'attività del consiglio comunale, ai sensi dell'art. 38, comma 6, del dlgs n. 267/20009.
Inoltre, qualora non disciplinata in modo dettagliato dal regolamento del consiglio comunale, la funzione meramente «istruttoria» svolta dalla commissione referente, nell'ambito della procedura sui provvedimenti consiliari, si evince laddove si prevede che in caso di rigetto, la commissione «ne dà comunque comunicazione» al consiglio comunale, nonché quando «decorso il termine stabilito, senza che la commissione abbia espresso il proprio parere, la proposta di delibera viene trasmessa direttamente al consiglio comunale».
Anche i provvedimenti approvati dalla commissione in sede referente sono trasmessi al consiglio comunale per la successiva votazione della delibera consiliare.
Da ciò consegue che è solo il consiglio comunale che deve comunque pronunciarsi in via definitiva sulla proposta, ancorché già esaminata dalla commissione.
Tale assunto trova conferma, con particolare riferimento all'approvazione della salvaguardia degli equilibri di bilancio, espressamente attribuita dall'art. 193, comma 2, del dlgs n. 267/2000 al consiglio comunale in quanto atto fondamentale per la vita dell'ente, la cui mancata adozione comporta l'attivazione della procedura di cui all'art. 141, comma 2 (articolo ItaliaOggi dell'08.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Indennità di funzione.
Come si determinano gli importi relativi all'indennità di funzione da corrispondere agli amministratori locali in carica?
In merito alla problematica relativa alla vigenza del comma 54 dell'art. 1 della legge 23.12.2005, n. 266, che ha disposto la riduzione del 10% dei compensi spettanti agli amministratori locali rispetto all'ammontare risultante al 30.09.2005, comunque determinato dagli stessi enti locali in virtù della facoltà al tempo riconosciuta di apportare modifiche ai minimi tabellari, si è pronunciata la Corte dei conti a sezioni riunite in sede di controllo, con delibera 1/Contr/12 del 24.11.2011, che, a fronte di soluzioni giurisprudenziali non univoche, ha risolto la questione esprimendo il parere che il taglio operato dalla norma deve ritenersi strutturale, avente cioè un orizzonte temporale non limitato all'esercizio 2006.
In proposito, non sembrano residuare margini per un riesame della questione, sulla quale il ministero dell'interno si è già espresso con argomentazioni di cui la stessa Corte ha tenuto conto nella stesura della propria decisione (articolo ItaliaOggi dell'08.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATA - INCARICHI PROGETTUALILavori in casa. Sconto sul 36-50% anche per professionisti senza Albo. Detraibile la parcella del progettista di interni.
Possono essere detratte al 36% (50% per i pagamenti effettuati dal 26.06.2012 al 30.06.2013) le spese per tutte le prestazioni professionali "strettamente" collegate alla realizzazione degli interventi agevolati, indipendentemente dall'iscrizione del prestatore ad Albi o Collegi. Infatti, sono agevolate anche tutte le consulenze, "strettamente" connesse alla realizzazione degli interventi di cui si parla nella mail arrivata al Sole 24 Ore.

Anche dopo la conferma a regime dell'incentivo del 36-50%, attuata dal 01.01.2012, restano detraibili le spese sostenute per la «progettazione e per prestazioni professionali connesse all'esecuzione delle opere edilizie e alla messa a norma degli edifici ai sensi della legislazione vigente in materia» (articolo 16-bis, comma 2, Tuir). La disposizione è simile a quella in vigore fino al 2011, quindi, sono confermate tutte le interpretazioni fornite sul tema dall'agenzia delle Entrate, la quale ha chiarito che sono detraibili al 36% (50% per i pagamenti effettuati dal 26.06.2012 al 30.06.2013) le spese «per la progettazione e le altre prestazioni professionali connesse», per la «messa in regola degli edifici» alle normative sugli impianti, «per la relazione di conformità dei lavori alle leggi vigenti» e «per l'effettuazione di perizie e sopralluoghi» (risoluzione n. 229/E/2009; risoluzione Dre Lombardia n. 76227/1999, circolari n. 57/E/1998 e n. 121/E/1998).
Questa elencazione non ha valore tassativo, in quanto la risoluzione n. 229/E/2009 consente di beneficiare dell'agevolazione anche per tutte le «prestazioni professionali comunque richieste dal tipo di intervento» e per «gli altri eventuali costi strettamente collegati» alla sua realizzazione (voce confermata recentemente anche dalla circolare n. 19/E/2012, risposta 1.9). Si tratta di due categorie "residuali" di spese, nelle quali possono rientrare anche le consulenze per la divisione degli spazi interni, per la posizione degli impianti, per la scelta dei materiali del pavimento e dei rivestimenti, per i disegni degli infissi, delle porte o dei portoni, per le relative finiture interne, le tinteggiature, i cartongessi, gli isolamenti.
Queste consulenze possono essere detratte solo se sono «comunque richieste dal tipo di intervento» agevolato o se sono "strettamente" collegate alla sua realizzazione (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.02.2013).

APPALTI: L'Authority contratti vuole i link con tutti i dati.
Le stazioni appaltanti devono trasmettere tutte le informazioni pubblicate sui siti internet relativi alla gestione di contratti pubblici anche all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici.

È quanto chiede il presidente dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, Sergio Santoro, in una lettera trasmessa al ministro della funzione pubblica nella quale si chiedono diverse modifiche allo schema di decreto legislativo sulla pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni.
Si tratta del provvedimento varato in via preliminare dal governo il 21 gennaio, che attua l'art. 1, comma 35, della legge 190/2012 (anticorruzione) e, fra le altre cose, fa fermi, confermandoli, gli obblighi di pubblicità legale di bandi e avvisi di gara sui quotidiani (ItaliaOggi dell'01/02/2013). La proposta è di estendere l'obbligo di trasmissione all'organismo di vigilanza anche delle informazioni che le stazioni appaltanti devono pubblicare sui propri siti internet, oltre a quelle concernenti i contratti di importo inferiore a 20.000 e all'obbligo di pubblicazione del verbale di consegna lavori, di ultimazione dei lavori e del conto finale dei lavori.
In altre parole le amministrazioni dovrebbero inviare all'Autorità la determina di aggiudicazione definitiva dell'appalto e le informazioni relative all'importo di aggiudicazione, al soggetto aggiudicatario, alla base d'asta, alla procedura di selezione, al numero degli offerenti, ai tempi di completamento dell'appalto; all'importo delle somme liquidate, a eventuali modifiche contrattuali alle decisioni di ritiro e di recesso dei contratti. Per agevolare le amministrazioni l'Autorità propone di acquisire, tramite collegamento alla Banca dati nazionale dei contratti pubblici, tutte le informazioni rilevanti sui contratti stipulati, riportandole in una tabella riassuntiva predisposta dall'Autorità.
Le stazioni appaltanti dovrebbero quindi integrare le tabelle, pubblicarle sul proprio sito e comunicare all'Autorità il link o la pagina del sito dove è avvenuta la pubblicazione. In questo modo, peraltro, l'Autorità può verificare l'avvenuto adempimento degli obblighi informativi e segnalare alla Corte dei conti eventuali omissioni. Un altro profilo critico dello schema di decreto riguarda le informazioni sui costi unitari e gli indicatori di realizzazione delle opere pubbliche, da pubblicare sulla base di uno schema tipo curato dall'Authority; la pubblicazione di queste informazioni sostituirebbe l'obbligo di pubblicare i costi unitari di produzione dei servizi erogati ai cittadini previsto dall'art. 1, comma 15, della legge 190.
La lettera sottolinea l'esigenza di raccordare la nozione di costi unitari con quella di «costi standard» (art. 7 del Codice) e di «prezzi di riferimento» (art. 17 legge 98/2011) e critica la scelta di superare l'obbligo di pubblicazione dei costi dei servizi erogati ai cittadini che determinerebbe «la conseguenza di impedire ogni opportuna valutazione di convenienza economica delle scelte» (articolo ItaliaOggi del 06.02.2013 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTIAutorità di vigilanza. Appello del regolatore dei contratti pubblici: correzioni prima della pubblicazione. «Trasparenza Pa da rivedere». Santoro: nel decreto rafforzare gli obblighi di comunicazione negli appalti.
L'OMISSIONE/ Dimenticati gli obblighi di trasmissione all'Autorità dei dati relativi agli appalti che le amministrazioni dovranno mettere on-line.

Correggere il decreto sulla trasparenza della Pa prima della pubblicazione. È quanto chiede l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici con una lettera firmata dal presidente Sergio Santoro e inviata al ministro della semplificazione Filippo Patroni Griffi e al sottosegretario di Stato Antonio Catricalà.
Secondo l'Autorità il testo approvato dal Consiglio dei ministri il 22 gennaio, in attesa del parere della Conferenza unificata e del garante della privacy, va rivisto, rafforzando gli obblighi di comunicazione della Pa in materia di appalti, estendendo il sistema delle sanzioni nei confronti delle amministrazioni ritrose a fornire informazioni sui contratti, uniformando il concetto di costi unitari delle opere pubbliche a quello dei costi standard, previsto dal codice dei contratti pubblici, e dei prezzi di riferimento delle prestazioni sanitarie che la stessa Autorità è stata incaricata di rilevare.
Il decreto varato dal Governo mette in pratica le indicazioni della legge anticorruzione (legge 190/2012) in materia di appalti pubblici e sul fronte dell'edilizia privata. Il decreto fa salvi gli obblighi di pubblicità legale, con il vincolo di pubblicazione di bandi e avvisi di aggiudicazione sui giornali (con costi a carico di imprese e professionisti a partire dal primo gennaio). Aumentano però i dati e le informazioni da pubblicare sui siti web.
Nel dettaglio, andranno on-line il bando, la determina di aggiudicazione, l'oggetto del bando, l'oggetto dell'eventuale delibera a contrarre, l'importo, l'aggiudicatario, la base d'asta, la procedura e la modalità di selezione del contraente, il numero di offerenti, i tempi di completamento dell'opera, l'importo delle somme liquidate, le modifiche contrattuali, le decisioni di ritiro e recesso dei contratti (comma 1 dell'articolo 37).
Per tutte queste informazioni, segnala Santoro, non è previsto «alcun obbligo di trasmissione delle informazioni in formato digitale a questa Autorità». Né, di conseguenza, esiste alcun obbligo per l'Autorità di pubblicare queste informazioni sul proprio sito e di comunicare l'elenco delle Pa inadempienti alla Corte dei Conti con l'applicazione delle sanzioni previste dal Codice degli appalti per le amministrazioni poco trasparenti (da 25.822 a 51.545 euro per i casi più gravi).
Una "dimenticanza" poco spiegabile per l'Autorità. Anche alla luce del fatto che lo stesso decreto prevede che le stazioni appaltanti raccolgano comunque tutte queste informazioni rendendole liberamente fruibili sul proprio sito web e inviandole al via Ripetta ogni tre mesi in forma aggregata. Un principio che vale per tutti i contratti sotto i 20mila euro e per tutti gli appalti di lavori pubblici: per i quali vanno pubblicati anche il verbale di consegna dei lavori, il certificato di ultimazione dei lavori e il conto finale. Oltre alla delibera a contrarre nel caso di interventi affidati a trattativa privata senza bando.
In tutte questi casi il provvedimento varato dal Governo prevede l'obbligo di informare l'Autorità a pena di sanzione. «E ciò -sottolinea Santoro- senza che questa disparità di trattamento appaia giustificata da una maggiore rilevanza di tali dati rispetto a quelli del comma 1 ai fini perseguiti dall'intervento normativo». Cioè aumentare il grado di trasparenza della Pa.
Un altro rilievo riguarda l'obbligo per le amministrazioni di pubblicare sui propri siti web i «costi unitari» di realizzazione delle opere pubbliche sulla base di uno schema-tipo redatto dall'Autorità. Per Santoro servirebbe innanzitutto un chiarimento sulla «nozione di costi unitari», da raccordare a quelle di «costi standard» e «prezzi di riferimento» previste rispettivamente dal codice dei contratti pubblici e dalle norme in materia di prestazioni sanitarie. «Tale raccordo non è stato ancora operato dal legislatore ed è, ad oggi, fonte di gravi difficoltà operative» (articolo Il Sole 24 Ore del 06.02.2013 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTIPagamenti in 30 giorni per tutti. Deroghe eccezionali. Ora l'Italia è a rischio infrazione. Convegno a Milano sul recepimento della direttiva Ue. Tajani: il governo chiarisca.
Pagamenti entro 30 giorni, con pochissime eccezioni. Questa è la regola generale nelle transazioni commerciali tra p.a. e imprese, ma anche tra impresa e impresa (B2B), introdotta nell'ordinamento italiano dal dlgs 192/2012 che ha recepito la direttiva comunitaria sui ritardati pagamenti. Le parti non possono decidere di allungare o meno i termini a proprio piacimento a meno che non vi siano circostanze eccezionali che legittimino lo slittamento del termine a 60 giorni (aziende pubbliche, sanità, particolari procedure di appalto come il dialogo competitivo).
Al di fuori di questi casi, il periodo massimo per saldare le fatture resta di 30 giorni. Dopo scatteranno gli interessi di mora fissati dal 01.01.2013 all'8,75% (8% + il tasso Bce). La possibilità di deroga a 60 giorni, che appare come generalizzata nel dlgs 192/2012, rischia quindi di essere incompatibile con il dettato della direttiva 2011/7/Ue. E potrebbe anche portare all'avvio di una procedura di infrazione contro l'Italia.

È quanto è emerso nel corso dell'incontro organizzato ieri a Milano dalla Commissione europea con i rappresentanti delle istituzioni e del mondo economico per illustrare gli effetti del recepimento in Italia della direttiva contro i pagamenti lumaca.
Un'occasione che è servita ai rappresentanti dell'esecutivo di Bruxelles per ribadire alcuni concetti ancora oggetto di interpretazioni fuorvianti «anche a causa dell'ambiguità del testo italiano» (ha ammesso il vicepresidente della Commissione europea, Antonio Tajani).
Per questo Tajani ha annunciato che chiederà al nuovo governo una presa di posizione ufficiale entro il 16 marzo, pena l'apertura di una procedura di infrazione contro l'Italia. E poco importa che la bacchettata di Bruxelles possa essere attivata proprio dall'iniziativa del nostro commissario europeo. Tajani ha fatto della corretta applicazione della direttiva uno dei punti caratterizzanti del proprio mandato di commissario per l'Industria e l'Imprenditoria. E si è già attivato per chiedere al governo italiano di fugare ogni dubbio sull'ambito di applicazione della direttiva 2011/7/Ue. Cosa che è avvenuta con la recente circolare del ministero dello sviluppo economico (si veda ItaliaOggi Sette del 28.01.2013) che ha chiarito che non esistono settori esclusi dall'applicazione della direttiva. Gli appalti pubblici, quindi, vi rientrano a tutti gli effetti. Ora però, secondo Tajani, la priorità è insistere sulla rigidità dei tempi di pagamento.
La regola generale è che le fatture vanno saldate entro 30 giorni, elevabili a 60 (e non oltre) in determinati settori (sanità, aziende pubbliche o particolari procedure di appalto quali il dialogo competitivo). Trascorsi questi termini iniziano a decorrere gli interessi di mora. «I ritardi nei pagamenti disincentivano gli investimenti stranieri», ha osservato Tajani. «In tutto il mondo la base per fare affari è la certezza giuridica». In tutto il mondo tranne che in Italia, dove a causa delle attuali regole di contabilità pubblica è possibile iscrivere un debito a bilancio solo nel momento dell'effettivo pagamento e non invece nel momento in cui sorge l'obbligo giuridico a pagare.
«È un incentivo a non pagare», lamenta Tajani, «perché non pagando un debito questo non entra in bilancio, ma così facendo si finisce per sottomettere l'economia reale alle regole di contabilità, quando invece dovrebbe essere il contrario».
Intanto a livello europeo i ritardi di pagamento continuano a crescere raggiungendo il livello senza precedenti di 340 miliardi di euro. Di questi, almeno 100 miliardi di euro sono la fetta attribuibile all'Italia, sempre più maglia nera visto che la p.a. tricolore paga mediamente in 180 giorni quando invece la media Ue è di 162 e quella dei paesi nordici addirittura di 32 giorni. Le insolvenze hanno portato alla perdita di 450 mila posti di lavoro e il 57% delle imprese europee ha avuto problemi di liquidità a causa dei ritardi di pagamento.
Ma se per il futuro la strada dovrebbe essere tracciata, come fare a risolvere il problema dei debiti pregressi? Cento miliardi di euro sono una cifra che, se sommata al debito pubblico, renderebbe impossibile il raggiungimento del pareggio di bilancio previsto per il 2014.
Come fare quindi a liberarsi di questo fardello? E soprattutto come conciliarlo con i rigidi vincoli di contabilità pubblica imposti a livello europeo? La soluzione potrebbe essere quella di escludere il debito monstre verso le imprese dal calcolo del debito pubblico. E quindi dall'obbligo di pareggio di bilancio. La richiesta sarà oggetto di una riunione tecnica che Tajani avrà giovedì prossimo col collega (e commissario Ue per gli affari economici e monetari) Olli Rehn. E non è escluso che il tema possa diventare presto uno dei prossimi temi caldi della campagna elettorale. Anzi, l'auspicio di Tajani è proprio questo, perché per mettere la p.a. nelle condizioni di pagare in tempo servono regole contabili più flessibili. Altrimenti sarà difficile centrare gli obiettivi europei di arrivare al 70% delle fatture saldate entro 30 giorni.
Anche il presidente dell'Ance, Paolo Buzzetti, si è detto d'accordo con la richiesta di escludere dal debito pubblico i 100 miliardi di euro attesi dalle imprese. L'edilizia, del resto, è forse il settore che più di tutti sta soffrendo per i ritardi nel pagamento delle fatture. E il credit crunch, ossia la difficoltà di accesso al credito bancario, fa il resto. I costruttori hanno portato a casa la certezza che la direttiva Ue si applica agli appalti pubblici (così come chiarito espressamente dal Mise).
Ma restano ancora alcuni nervi scoperti col governo di cui il prossimo esecutivo dovrà farsi carico. L'Imu sull'invenduto, per esempio, non va proprio giù ai costruttori che la considerano incostituzionale (per violazione del principio di uguaglianza) oltre che contraria alla normativa europea (articolo ItaliaOggi del 05.02.2013).

ENTI LOCALITrasparenza, Civit striglia i comuni e le unioni.
La Civit (Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche), con delibera 29.01.2013 n. 10/2013, in ordine al mancato adempimento degli obblighi di trasparenza delle Unioni di comuni, con particolare riguardo alla loro costituzione e gestione, ha deliberato che, sia l'Unione di comuni che i comuni che ne fanno parte, sono tenuti a pubblicare sui siti istituzionali, in adempimento degli obblighi di trasparenza previsti dalla legge, gli atti, i documenti e i dati di rispettiva competenza.
La deliberazione nasce dalle note in data 14.12.2012, con le quali la Cisl Fp di Salerno ha segnalato il mancato adempimento degli obblighi di trasparenza da parte di alcune Unioni di comuni, anche per quanto riguarda la costituzione e la gestione. La delibera fa riferimento all'art. 19 del dl n. 95/2012, che ha reso obbligatoria la gestione in forma associativa di servizi e di funzioni per i comuni con popolazione fino a 5 mila abitanti (articolo ItaliaOggi del 05.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTILa diatriba sul riconoscimento retroattivo della ruralità. Sul recupero dell'Ici pregressa per i comuni è game-over.
Per il recupero dell'imposta comunale degli immobili (Ici) pregressa sui fabbricati rurali, per i Comuni è «game over».

Recentemente la giurisprudenza di merito (C.T. Regionale di Bologna, sentenza 65/12/12) e, soprattutto, le disposizioni contenute nell'art. 7, dm 26/07/2012 (Gazzetta Ufficiale n. 185 del 09/08/2012) hanno sancito la definitiva chiusura della «diatriba» in corso, sul riconoscimento «retroattivo» della ruralità ai fini del citato tributo locale.
I comuni hanno, recentemente, intensificato l'emissione di avvisi di accertamento e liquidazione dell'Ici relativa al quinquennio 2007/2011, molto spesso con carenza di motivazione, asserendo che non esiste una norma specifica di esenzione, ma soprattutto che senza la categoria specifica (A/6 per le unità abitative e D/10 per i fabbricati strumentali), la ruralità non può essere riconosciuta per i periodi pregressi.
Molti di questi enti, nei dinieghi alle numerose istanze di autotutela, hanno precisato che, pur tentando di riconoscere l'esenzione dal tributo a detti immobili, la variazione catastale richiesta dalla recente giurisprudenza di legittimità (su tutte, Cassazione Ss.Uu. 21/08/2009 n. 18565 e 18570) è condizione necessaria per l'ottenimento della qualifica e, di conseguenza, dell'esenzione.
Detto principio, peraltro, è stato codificato dal comma 2-bis, dell'art. 7, dl n. 70/2011 che ha anche previsto un termine per la presentazione delle domande di variazione, tese all'ottenimento della citata specifica categoria; termine fissato definitivamente al 30 settembre scorso, a cura del comma 19, dell'art. 3, dl n. 95/2012. A molti comuni, però, è sfuggito il passaggio del dl n. 201/2011 (lettera d-bis, comma 14 e comma 14-bis, dell'articolo 13) che ha, di fatto, riportano all'indietro la situazione, attraverso la quale si dispone che la ruralità è un requisito di natura esclusivamente «oggettiva» e che prescinde dalla categoria catastale (sul tema, ministero delle finanze, circ. 3/DF/2012), nonostante la conferma della Suprema Corte (Cassazione, sentenza n. 11081/2012) della necessità di ottenere la categoria specifica.
Infatti, recentemente è stato pubblicato il dm 26/07/2012, di attuazione del comma 14-bis, dell'art. 13, dl n. 201/2011 appena richiamato, con il quale sono state definite le modalità di inserimento negli atti catastali della sussistenza dei requisiti di ruralità degli immobili oggetto della domanda di variazione di categoria, con il quale sono stati fissati due principi sacrosanti, riguardanti rispettivamente la portata (effetti) dell'annotazione della ruralità e la sanatoria degli anni pregressi. Sul punto, è chiaro il comma 2, dell'art. 7, dm 26/07/2012 con il quale il legislatore ha testualmente dichiarato che «la presentazione delle domande e l'inserimento negli atti catastali dell'annotazione producono gli effetti previsti per il riconoscimento del requisito di ruralità (?) a decorrere dal quinto anno antecedente a quello di presentazione della domanda».
Di fatto, la richiesta di variazione catastale eseguita entro lo scorso 30 settembre, autocertificata dal proprietario o dal titolare del diritto reale sull'immobile, comporta una mera indicazione (annotazione) in Catasto e non il cambio di categoria, per qualsiasi genere di fabbricato (abitativo o strumentale); di fatto, il locale, destinato, per esempio, a deposito attrezzi che non possiede caratteristiche da D/10 (dimensioni ridotte) resta iscritto nella categoria specifica (per esempio, C/2) con annotazione di «fabbricato rurale», se in possesso dei requisiti (Agenzia del territorio, circolare n. 2/T/2012).
In secondo luogo, la presentazione delle domande e l'inserimento dell'annotazione di possesso dei requisiti di ruralità producono effetti «retroattivi» a decorrere dal quinto anno antecedente a quello di presentazione, ai sensi del citato art. 7, dm 26/07/2012; ciò sta a significare che, a prescindere dalla tipologia dell'immobile (abitativo o rurale), l'annotazione eseguita equivale a categoria speciale assegnata (A/6 o D/10), ancorché la categoria del compendio rimanga quella originaria, ancorché diversa da quella speciale.
A prescindere da tali disposizioni, che risultano trancianti e definitive, anche la giurisprudenza di merito sta consolidando tale orientamento, giacché per taluni giudici aditi (la più recente, Ctr Bologna, sentenza n. 65/12/12) il riconoscimento della ruralità è stato sancito da tempo dai commi 3 e 3-bis, dell'art. 9, del dl n. 557/1993, dopo l'intervento innovatore del dl 159/2007 (art. 42-bis), per effetto della portata «interpretativa» delle disposizioni (articolo ItaliaOggi del 05.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTITia senza presunzioni
La Tia non ammette presunzioni. Il contribuente è tenuto a pagare per i rifiuti effettivamente conferiti. Non può essere conteggiato il quantitativo prodotto in base al numero degli svuotamenti dei contenitori.

Lo ha affermato la Commissione tributaria di primo grado di Trento, I Sez., con la sentenza 13.09.2012 n. 94.
Il regolamento comunale, che la Commissione tributaria ha ritenuto illegittimo, stabilisce che per il calcolo della parte variabile della tariffa si considerano validi tutti gli svuotamenti, effettuati nella fase di raccolta, necessari a garantire la pulizia del contenitore assegnato alla singola utenza. Mentre le disposizioni di legge impongono che il quantum dovuto dall'utente sia rapportato alla quantità dei rifiuti conferiti.
Per i giudici tributari, dunque, non può ritenersi rispondente alle regole stabilite dalla norma nazionale il criterio adottato per comodità, di conteggiare il quantitativo di rifiuti conferiti in base al numero degli svuotamenti secondo il principio del cosiddetto «vuoto per pieno».
La possibilità concessa all'amministrazione dalla delibera provinciale di conteggiare il rifiuto conferito utilizzando il criterio del volume o del peso, non può porsi in contrasto con i principi ispiratori della Tia che impongono all'ente «di calcolare l'effettiva quantità di rifiuti prodotta dal contribuente». In realtà, però, il dlgs 22/1997 e il dpr 158/1999, richiamati nella pronuncia, consentono alle amministrazioni che non siano in grado di misurare i rifiuti conferiti di fare ricorso a presunzioni.
Di recente il Consiglio di stato, sez. VI, con sentenza 6208/2012, ha affermato che il regolamento statale sul metodo normalizzato con il quale viene determinata la tariffa rifiuti, da quest'anno applicato alla Tares, non viola la normativa comunitaria, anche se consente ai comuni l'uso di criteri presuntivi non rapportati all'effettiva produzione di rifiuti (articolo ItaliaOggi del 05.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - CONSIGLIERI COMUNALIIn Gazzetta la legge sul verde pubblico. Potature solo se autorizzate.
Il sindaco a fine mandato dovrà occuparsi di relazionare anche sullo stato arboreo del comune mentre per il rispetto dell'obbligo di piantare un albero per ogni neonato nasce un comitato ad hoc. Attenzione poi agli abbattimenti fai da te degli alberi monumentali. In caso di potatura non autorizzata scatterà una multa di almeno 5 mila euro.

Lo ha stabilito la Legge 14.01.2013 n. 10 pubblicata sulla GU n. 27 del 01/02/2013, in vigore dal 16.022013.
La giornata nazionale degli alberi fissata dalla novella per il 21 novembre coinvolgerà innanzitutto le scuole e sarà sostanzialmente orientata a promuove la cultura ecologica con la messa a dimora di piante. In questa iniziativa sarà chiaramente coinvolto anche il sindaco chiamato in causa per potenziare il rispetto dell'obbligo di piantumazione di un albero per ogni neonato.
In particolare ogni comune dovrà effettuare un censimento degli alberi posizionati sul territorio collegati ai neonati e agevolare la conoscenza degli interventi effettuati in tal senso. Inoltre due mesi prima della scadenza del mandato il primo cittadino dovrà redigere il bilancio arboreo del municipio evidenziando lo stato di consistenza e manutenzione delle aree verdi urbane di propria competenza. Spetterà ad uno speciale comitato nazionale per il verde pubblico verificare a costo zero la correttezza degli interventi locali e attivare azioni di tutela dei giardini storici più importanti. Ma anche relazionare alle camere sullo stato di adeguamento degli strumenti urbanistici comunali alle prescrizioni minime sul verde e sui parcheggi.
Interessante anche la nuova possibilità di aprire agli sponsor privati la sostenibilità di interventi ecologici con inedite modalità pubblicitarie per i finanziatori.
La legge promuove inoltre anche iniziative locali per lo sviluppo degli spazi verdi e favorisce la trasparenza amministrativa in materia. Attenzione infine agli alberi monumentali che saranno inseriti nel nuovo elenco nazionale tenuto dal corpo forestale. Danneggiare o abbattere abusivamente un albero protetto costerà almeno 5 mila euro. Per stare tranquilli servirà sempre l'ok del comune e dei forestali (articolo ItaliaOggi del 05.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTICondanne per reati, la verifica si fa on-line.
Attivata la procedura per la richiesta delle risultanze del casellario giudiziale online. Viene, in pratica, data attuazione a quanto era stato disposto dall'art. 39 del dpr 313/2002, ovvero il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti.

Con l'art. 39 del testo unico era stata prevista la consultazione diretta del sistema telematico del Ministero della giustizia, oltre che da parte dell'autorità giudiziaria anche da parte delle amministrazioni pubbliche e dei gestori di pubblici servizi. E ciò, al fine della verifica del possesso dei requisiti di onorabilità prescritti dalla relativa disciplina per coloro i quali sono intenzionati a esercitare un'attività economica, quale ad esempio il commercio, l'attività di somministrazione, agenzie di affari. Verifica che, fino ad oggi, è stata effettuata con la tradizionale modalità cartacea.
La novità è conseguente alla entrata in vigore del decreto 05.12.2012, pubblicato in Gazzetta lo scorso 21 dicembre scorso e con il quale sono state fissate le regole procedurali di carattere tecnico operativo per l'attuazione della consultazione diretta. Per poter utilizzare il sistema telematico, tuttavia, sarà necessaria la stipula di una convenzione da richiedere utilizzando la modulistica (Allegato C) del decreto del 05.12.2012.
In seguito alla richiesta, l'ufficio del Casellario svolgerà le necessarie verifiche e avvierà la procedura per la stipula di convenzione con il richiedente su fruibilità dei dati e garanzia del pieno rispetto della normativa in materia di protezione dei dati personali, di accesso ai documenti amministrativi, di tutela del segreto e di divieto di divulgazione.
Nella convenzione saranno stabiliti anche termini e condizioni per garantire che il certificato contenga solo i dati pertinenti con i compiti istituzionali delle amministrazioni interessate (articolo ItaliaOggi del 05.02.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOInps-Inpdap, l'unificazione è fatta. Finita la fase transitoria, ecco come accedere ai servizi.
L'istituto nazionale della previdenza sociale guidato da Antonio Mastrapasqua ha posto fine, nei giorni scorsi, al periodo transitorio nella gestione in materia previdenziale e assicurativa dei pubblici dipendenti che si era determinato per effetto della confluenza dal 01.01.2012 dell'Inpdap nell'Inps.

Con la circolare 25.01.2013 n. 12 l'Inps ha infatti completato il quadro operativo -applicabile anche al personale della scuola- concernente la presentazione e la consultazione telematica in via esclusiva delle istanze per le prestazioni pensionistiche previdenziali e assicurative, per il riconoscimento del servizio militare, per l'accredito figurativo dei periodi di congedo per maternità, per l'autorizzazione della prosecuzione volontaria, per i riscatti di periodi o servizi ai fini pensionistici e per il computo dei servizi.
Il quadro dei tempi e delle modalità perché il personale della scuola possa richiedere le suddette prestazioni è così definito:
- dal 12.01.2013 opera il regime dell'invio telematico in via esclusiva per le domande di pensione diretta di anzianità, anticipata, vecchiaia e inabilità; di ricongiunzioni ai sensi dell'art. 1 della legge n. 29/1979 e dell'art. 1 della legge n. 45/1990; le richieste di variazione delle posizioni assicurative;
- dal 01.02.2013 opera, con le stesse modalità, il regime dell'invio delle domande di pensione di privilegio; di pensione diretta ordinaria in regime internazionale; di pensione a carico dello stato estero;
- dal 04.03.2013 opererà il regime dell'invio telematico in via esclusiva per le domande di: ricongiunzione ai sensi dell'art. 6 della legge n. 29/1979, della legge n. 523/1954 e degli artt. 113 e 115 del DPR n. 1092/1973; costituzione della posizione assicurativa ai sensi della legge n. 322/1958; liquidazione dell'indennità una tantum;
- dal 04.04.2013 sarà attivata la modalità di presentazione telematica in via esclusiva delle domande di: riconoscimento del servizio militare; accredito figurativo per il riconoscimento dei periodi corrispondenti all'estensione obbligatoria per maternità verificatasi al di fuori del rapporto di lavoro; autorizzazione alla prosecuzione volontaria dei contributi; riscatto per la valutazione onerosa ai fini pensionistici di periodi o di servizio non coperti da contribuzione altrimenti non utili; computo dei servizi ai sensi degli artt. 11, 12 e 15 del Dpr n. 1092/1973.
Entrambe le circolari ribadiscono che le istanze presentate in forma diversa da quella telematica non saranno prese in considerazione fino a quando il richiedente non abbia provveduto a trasmetterle in via telematica attraverso uno dei seguenti canali: WEB- servizi telematici accessibili direttamente dal cittadino tramite Pin attraverso il portale dell'Istituto; Contact Center integrato - n. 803164; Patronati (articolo ItaliaOggi del 05.02.2013).

APPALTI: Durc, procedure diversificate. Oneri e verifiche a seconda della tipologia societaria. Gli effetti della risposta all'interpello n. 2 del 24 gennaio del ministero del lavoro.
Documento unico di regolarità contributiva (Durc): le irregolarità contributive dei soci di società di capitali non bloccano il rilascio del documento. Nell'ambito della verifica della regolarità contributiva delle società di capitali non rileva la posizione contributiva dei singoli soci, con la conseguenza che le eventuali pregresse irregolarità dei versamenti contributivi riguardanti gli stessi non possono incidere sul rilascio del Durc.
La posizione contributiva personale va verificata solo nelle società di persone.

Questo è il principio espresso nell'interpello 24.01.2013 n. 2/2013 del Ministero del lavoro (Direzione generale dell'attività ispettiva) in risposta a un quesito posto dal Consiglio nazionale dell'Ordine dei consulenti del lavoro.
Questi ultimi infatti avevano avanzato istanza di interpello per conoscere se, in caso di richiesta di un documento unico di regolarità contributiva (Durc) che preveda la verifica della posizione ai fini degli obblighi contributivi previdenziali nei confronti dell'Inps di una società di capitali, la stessa debba essere effettuata anche sulla posizione personale dei singoli soci e, in tal caso, in presenza di eventuali pregresse irregolarità contributive, se debba essere negata la regolarità contributiva della società.
Nel fornire risposta, la direzione generale dell'attività ispettiva del Ministero del lavoro ha precisato quali sono gli adempimenti e le verifiche da espletare in fase di rilascio del Durc in relazione alle diverse tipologie di imprese richiedenti (società di capitali e società di persone).
Durc e società di capitali. Le società, come noto, si dividono in due gruppi: le società di persone (società semplice, società in nome collettivo, società in accomandita semplice) e le società di capitali (società per azioni, società in accomandita per azioni e società a responsabilità limitata ordinaria, semplificata e a capitale ridotto). Quello che è importante osservare, nell'ambito dei due gruppi societari, è il rapporto intercorrente tra il patrimonio della società e quello del singolo socio.
Le società di capitali sono considerate persone giuridiche caratterizzate da autonomia patrimoniale «perfetta» e, quindi, dalla separazione completa tra il capitale sociale e il patrimonio personale dei soci. Pertanto il controllo di regolarità nei versamenti contributivi deve essere effettuato sulla contribuzione dovuta dai datori di lavoro per i lavoratori con rapporto di lavoro subordinato e dai committenti/associanti che occupano lavoratori con rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, resa anche nella modalità a progetto, aventi per oggetto la prestazione di attività svolte senza vincolo di subordinazione. Questo in quanto nelle società di capitali, l'irregolarità della posizione contributiva personale dei singoli soci non può rilevare ai fini dell'accertamento dell'irregolarità delle stesse società che, in ragione dell'autonomia patrimoniale perfetta, non possono essere chiamate a rispondere delle irregolarità contributive riferibili ai medesimi soci. Le società di capitali, infatti, in quanto titolari di un proprio patrimonio del tutto autonomo e distinto da quello dei soci, rispondono delle obbligazioni sociali nei limiti del proprio patrimonio.
Ne deriva che sul patrimonio sociale non possono trovare soddisfazione i creditori personali del socio e, al contempo, i creditori sociali non possono escutere il patrimonio personale dei soci.
La posizione dei soci, pertanto, non deve essere oggetto di verifica al fine del rilascio del Durc che sia richiesto per effettuare il controllo di regolarità della società di capitali nella quale la stessa posizione è rivestita.
Durc e società di persone. La verifica appare invece necessaria in caso di società di persone ed in relazione al versamento contributivo dovuto dal socio sulla propria posizione, così come del resto già evidenziato del Ministero del lavoro con circolare n. 5/2008. Le società di persone, al contrario delle società di capitali, non hanno personalità giuridica e la divisione tra i due patrimoni è affievolita, quindi siamo in presenza di un'autonomia patrimoniale imperfetta.
L'autonomia patrimoniale della società è imperfetta in quanto il patrimonio della società non è completamente distinto da quello personale dei soci, perciò per i debiti sociali rispondono ambedue i patrimoni (della società e dei soci) e per i debiti personali del socio può rispondere anche la società.
I soci illimitatamente responsabili sono, infatti, chiamati in via sussidiaria a rispondere con il proprio patrimonio delle obbligazioni sociali (autonomia patrimoniale imperfetta).
Questo minor grado di indipendenza del patrimonio della società comporta che: i creditori personali dei soci non possono soddisfarsi sul patrimonio sociale, potendo agire, finché dura la società, solo sugli utili spettanti al socio loro debitore o compiere atti conservativi sulla quota a lui spettante in sede di liquidazione. Tuttavia, in caso di proroga della società a tempo indeterminato, possono ottenere la liquidazione della quota del socio, se gli altri suoi beni sono insufficienti a soddisfare il loro credito. Non possono compensare il credito con un debito che vantano nei confronti della società; i creditori sociali possono agire sul patrimonio personale dei singoli soci dopo avere infruttuosamente escluso quello sociale.
Seguendo la tesi della direzione generale dell'attività ispettiva del Ministero del lavoro fondata sull'autonomia patrimoniale delle società e sulla responsabilità dei soci possiamo sostenere che: le società di capitali essendo persone giuridiche hanno un'autonomia patrimoniale perfetta e pertanto le vicende contributive personali dei soci non incidono sul patrimonio della società e viceversa. Al contrario le società di persone hanno un'autonomia patrimoniale imperfetta e i soci rispondono illimitatamente. Essa è considerata come una somma di imprenditori individuali. Ne consegue che i soci di una società di persone iscritti alle gestioni autonome dell'Inps sono soggetti a verifica al fine del rilascio del Durc (articolo ItaliaOggi Sette del 04.02.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Raee, eco-contributo visibile. I produttori possono continuare con l'indicazione ad hoc. La legge che converte il dl 1/13 ha abrogato il termine. In arrivo novità di matrice Ue.
Produttori e distributori di apparecchiature elettriche ed elettroniche (cosiddette «Aee») potranno continuare a indicare in modo visibile agli acquirenti, tenendo il relativo importo separato dal prezzo, l'eco-contributo che essi pagano per la gestione dei beni una volta giunti a fine vita (ossia diventati «Raee», rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche).
La visible fee. Mediante la diretta novella del provvedimento madre in materia (il dlgs 151/2005) la legge di conversione del dl 1/2013 approvata in via definitiva il 22.01.2013 ha infatti abrogato il termine (coincidente con il 13.02.2013) fino al quale il contributo finalizzato a coprire i costi di recupero, trattamento e riciclaggio dei cd. Raee «storici» provenienti dai nuclei domestici (ossia dei rifiuti derivanti dalle Aee di uso non professionale immesse sul mercato fino al 13.08.2005) può essere indicato esplicitamente, confermando così la natura di visible fee (compenso visibile) di tale corrispettivo. Il dlgs 151/2005, lo ricordiamo, prevede a monte un meccanismo di ripartizione dei costi per la gestione dei Raee sia domestici che professionali.
In particolare, il dlgs 151/2005 individua nei produttori di Aee i soggetti tenuti alla copertura dei costi di gestione dei Raee domestici, lasciando loro la facoltà di traslarli sugli acquirenti di apparecchiature e statuendo la possibilità, per i soli Raee storici, di indicare in modo separato dal costo dei nuovi beni il sovrapprezzo per la gestione dei rifiuti (ossia, l'eco-contributo in parola, da cui il termine «visible fee») ma vietando tale visibilità per gli agli altri Raee (ossia quelli derivanti da Aee commercializzate dopo il 13.08.2005).
In relazione ai costi di gestione dei Raee «professionali», il dlgs 151/2005 pone invece a carico dei detentori quelli per la gestione dei rifiuti storici conferiti ai gestori senza acquisto di nuove ed analoghe Aee, lasciando sui produttori di Aee quelli per la gestione di Raee «nuovi».
Raee, le novità all'orizzonte. Proprio sulla gestione dei rifiuti elettrici ed elettronici, e relativi costi, rilevanti novità arriveranno per gli operatori della filiera mediante il recepimento della nuova direttiva in materia (la 2012/19/Ue).
In base al provvedimento comunitario in parola (destinato a sostituire l'attuale direttiva 2002/96/Ce, sulla quale è fondata il dlgs 151/2005, e da recepire entro il 14.02.2014) l'attuale obbligo di ritiro gratuito delle Aee usate da parte dei distributori di nuove apparecchiature domestiche dovrà passare dal sistema «one on one» (ritiro solo dietro acquisto di analogo bene da parte del consumatore) a quello «one on zero» (ritiro dell'usato conferito dal consumatore anche senza corrispettivo acquisto di prodotto equivalente). La direttiva 2012/19/Ue, in particolare, impone l'obbligatorietà del ritiro «one on zero» a carico di tutti i negozi al dettaglio con superficie di vendita uguale o superiore ai 400 metri quadrati ed in relazione ai rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche provenienti da nuclei domestici di «piccolissime dimensioni» (ossia inferiori a 25 centimetri esterni), stabilendo una deroga a favore dei soli operatori che riusciranno a dimostrare l'esistenza di regimi di raccolta alternativa altrettanto efficaci.
Altra novità traghettata dalla direttiva 2012/19/Ue sarà l'aumento delle percentuali minime di raccolta differenziata e di recupero di Raee da assicurare a livello nazionale, percentuali che dovranno salire dalle attuali 70/80% fino all'85%.
Aee, le novità «imminenti». Se per l'allineamento del dlgs 151/2005 alle nuove regole sui Raee previste dalla direttiva 2012/19/Ue il conto alla rovescia prevede ancora 12 mesi di tempo, è invece scaduto lo scorso 02.01.2013 il termine per il recepimento della parallela direttiva 2011/65/Ce sulla fabbricazione di Aee. Tale direttiva, dettata in sostituzione della direttiva 2002/96/Ce (a suo tempo recepita tramite il citato dlgs 151/2005 insieme alla 2002/96/Ce sui Raee), impone un allargamento del divieto di commercializzazione delle apparecchiature contenenti determinate sostanze pericolose e un parallelo ampliamento degli obblighi burocratici per fabbricanti, importatori e distributori dei beni in questione.
Il futuro provvedimento nazionale di attuazione (del quale vi è traccia nella delega al governo prevista dalla legge comunitaria 2011, approvata lo scorso 2 febbraio dalla camera dei deputati e attualmente all'esame del senato) dovrà in particolare recepire tre importanti meccanismi previsti dalla direttiva: allargamento della definizione di Aee (e dunque del campo di applicazione delle regole per la loro fabbricazione) a qualsiasi apparecchiatura che dipende da correnti elettriche o campi elettromagnetici per espletare «almeno una» delle funzioni previste ed ai relativi pezzi di ricambio; divieto di utilizzo delle sostanze pericolose bandite dalla disciplina sulle sostanze chimiche recata dal regolamento Ce n. 1907/2006 («disciplina Reach»); upgrade del sistema informativo sulla produzione delle Aee, mediante l'obbligo per fabbricanti, importatori e distributori di garantire lungo tutta la filiera dei beni l'accesso a documentazione tecnica, dichiarazioni di conformità e identificazione seriale delle apparecchiature commercializzate (articolo ItaliaOggi Sette del 04.02.2013).

GIURISPRUDENZA

APPALTICassazione sull'autocertificazione. Gare d'appalto, requisiti doc.
Stretta sui requisiti di accesso agli appalti. Risponde di falso in atto pubblico l'imprenditore che nella dichiarazione sostitutiva dice di essere in regola con l'Inps. La responsabilità penale scatta al di là della falsificazione del Durc.
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. V penale, con la sentenza 07.02.2013 n. 6221.
La quinta sezione penale del Palazzaccio ha dunque bocciato il ricorso di un imprenditore di L'Aquila che aveva fatto una dichiarazione sostitutiva attestando falsamente per avere libero ingresso a una gara d'appalto, di essere a posto con le posizione contributiva dei suoi operai. Per questo, con una doppia conforme, Tribunale e Corte d'appello avevano condannato l'uomo per falso in atto pubblico.
Lui si era difeso da subito sostenendo che una dichiarazione sostitutiva non fosse paragonabile al Durc.
A questa obiezione il Collegio di legittimità ha risposto che l'art. 483 c.p. punisce la violazione del dovere giuridico dell'imprenditore di esporre la verità in un atto destinato a provare la verità dei fatti attestati e a cui siano ricollegati specifici effetti, rappresentati, nella specie, dalla ammissione alla gara di appalto. Non solo la norma, sanziona inoltre, l'obbligo giuridico del dichiarante di dire la verità, circa il pagamento dei contributi verso la cassa edile nella dichiarazione allegata all'offerta per l'aggiudicazione di un appalto pubblico. Infatti tale obbligo risiede anche nell'art. 24, comma 2, della direttiva 93/97 Cee, recepita sul punto dal dl 30.07.1994, n. 478, non convertito, i cui effetti sono peraltro stati stabilizzati dalla legge 29.03.1995, n. 95.
In altri termini, se la certificazione viene utilizzata per attestare la posizione contributiva in un procedimento pubblico allora la punibilità scatta lo stesso, a prescindere dal fatto che il documento falsificato fosse anch'esso pubblico o privata, come l'autocertificazione (articolo ItaliaOggi del 09.02.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edili abusive non trova applicazione l’obbligo di comunicare l’avvio dell’iter procedimentale in ragione della natura vincolata del potere repressivo esercitato che rende di per sé inconfigurabile quale che sia apporto partecipativo, come peraltro previsto dall’ipotesi legislativa recata dall’art. 21-octies della stessa legge n. 241/1990, come introdotto dall’art. 14 della legge 11.02.2005 n. 15.
Il Collegio non può qui non ribadire quanto più volte precisato da questo Consiglio di Stato (cfr. Sez. II n. 3702/06 del 19.03.2008) e cioè che nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edili abusive non trova applicazione l’obbligo di comunicare l’avvio dell’iter procedimentale in ragione della natura vincolata del potere repressivo esercitato che rende di per sé inconfigurabile quale che sia apporto partecipativo, come peraltro previsto dall’ipotesi legislativa recata dall’art. 21-octies della stessa legge n. 241/1990, come introdotto dall’art. 14 della legge 11.02.2005 n. 15
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.02.2013 n. 666 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’accatastamento costituisce adempimento di tipo fiscale-tributario che fa stato ad altri fini, non atteggiandosi a strumento idoneo ad evidenziare una situazione di conformità edilizia.
Le condizioni di uno stato dei luoghi modificato rispetto a quello originario quanto alla loro esistenza e consistenza sono state verificate dai competenti uffici comunali, inverandosi nei rilievi mossi a carico dell’appellante i presupposti di fatto e di diritto per un intervento del Comune volto a ripristinare una situazione dei luoghi alterata rispetto a quello in origine autorizzata, con il conseguente doveroso operato dell’Amministrazione volto a porre fine ad una accertata situazione di non conformità urbanistico-edilizia: di qui la legittimità del potere repressivo-ripristinatorio esercitato dal Comune con i provvedimenti de quibus con cui si è doverosamente e correttamente intimato il ripristino in favore della sig.ra G. dell’accesso da via del Leone con contestuale chiusura dell’accesso dal sentiero pedonale da via Saturno.
Assume parte appellante che la conformità dello stato dei luoghi (con speculare illegittimità dei provvedimenti comunali) sarebbe rilevabile dagli esiti del contenzioso civilistico e dall’ accatastamento effettuato nel 1975, ma l’argomentazione difensiva non appare condivisibile, in quanto:
a) le statuizioni recate dal decisum in sede civile servono a definire l’assetto dei rapporti tra i privati e i loro diritti secondo le regole dello jus privatorum senza che ciò possa incidere sulla validità delle determinazioni amministrative emanate per assicurare l’osservanza della disciplina urbanistica ;
b) l’accatastamento costituisce adempimento di tipo fiscale-tributario che fa stato ad altri fini, non atteggiandosi a strumento idoneo ad evidenziare una situazione di conformità edilizia
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.02.2013 n. 666 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Deve escludersi il carattere agricolo dell'attività di molitura delle olive e lavorazione della pasta disoleata, giacché il ciclo produttivo dell'impianto è finalizzato al trattamento non solo di olive, ma anche di derivati di seconda lavorazione conferiti da altri opifici.
La caratterizzazione principale dell'attività consiste dunque in una lavorazione di prodotti di terzi mediante una complessa tecnologia che di per sé non è espressione di tipica attività agricola.
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È stato precisato che la predetta attività connessa dell'imprenditore agricolo deve restare collegata all'attività dal medesimo esercitata in via principale mediante un vincolo di strumentalità o complementarietà funzionale, in assenza del quale essa non rientra nell'esercizio normale dell'agricoltura ed assume invece il carattere prevalente o esclusivo dell'attività commerciale o industriale.
Con specifico riguardo all'attività di molitura delle olive è stato rilevato che, qualora sia svolta anche a favore di terzi, può definirsi agricola solo se quest'ultima attività non sia prevalente.
In ogni caso, allorquando l'attività della cui connessione con un'attività propriamente agricola si discute, abbia in concreto dimensioni tali (anche nell'ambito della medesima impresa) che la rendono principale rispetto quella agricola, deve escludersi il carattere agricolo dell'attività stess.
Alla stregua delle predette considerazioni deve senz'altro escludersi il carattere agricolo dell'attività in questione, giacché, in genere in tali casi, come anche nella specie, il ciclo produttivo dell'impianto è finalizzato al trattamento, come si ripete, non solo di olive, ma anche di derivati di seconda lavorazione conferiti da altri opifici.
La caratterizzazione principale dell'attività consiste dunque in una lavorazione di prodotti di terzi mediante una complessa tecnologia che di per sé non è espressione di tipica attività agricola.
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Già è stato ritenuto legittimo il diniego di concessione edilizia opposto dal Comune alla realizzazione in zona agricola di un impianto per la molitura delle olive e la trasformazione delle paste derivate, ove come nel caso, per dimensioni e tipologia, esso sia destinato prevalentemente alla lavorazione dei prodotti di terzi rispetto a quelli provenienti dal fondo; la lavorazione e trasformazione dei prodotti agricoli -per poter essere considerata "attività connessa" all'agricoltura e rientrare nella nozione di "impresa agricola" di cui all'art. 2135 c.c.- deve infatti avere carattere strettamente strumentale e complementare all' attività principale di coltivazione del fondo, ciò che non accade allorché essa abbia prevalentemente ad oggetto la trasformazione di prodotti agricoli per conto terzi.

Questo Consesso ha già sostenuto che deve escludersi il carattere agricolo dell'attività di molitura delle olive e lavorazione della pasta disoleata, giacché il ciclo produttivo dell'impianto è finalizzato al trattamento non solo di olive, ma anche di derivati di seconda lavorazione conferiti da altri opifici.
La caratterizzazione principale dell'attività consiste dunque in una lavorazione di prodotti di terzi mediante una complessa tecnologia che di per sé non è espressione di tipica attività agricola.
Deve rilevarsi che la lavorazione per conto terzi (“da un ristretto numero di clienti”) non è smentita e anzi ammessa anche da parte del De Giorgi (relazione dott. Salerno, in particolare).
È stato precisato che la predetta attività connessa dell'imprenditore agricolo deve restare collegata all'attività dal medesimo esercitata in via principale mediante un vincolo di strumentalità o complementarietà funzionale, in assenza del quale essa non rientra nell'esercizio normale dell'agricoltura ed assume invece il carattere prevalente o esclusivo dell'attività commerciale o industriale (in tal senso: Cons. stato, sez. IV 14.05.2001 n. 2669).
Con specifico riguardo all'attività di molitura delle olive è stato rilevato che, qualora sia svolta anche a favore di terzi, può definirsi agricola solo se quest'ultima attività non sia prevalente (Cass. 29.03.1990 n. 2571).
In ogni caso, allorquando l'attività della cui connessione con un'attività propriamente agricola si discute, abbia in concreto dimensioni tali (anche nell'ambito della medesima impresa) che la rendono principale rispetto quella agricola, deve escludersi il carattere agricolo dell'attività stessa (Cass. 06.06.1974 n. 1682).
Alla stregua delle predette considerazioni deve senz'altro escludersi il carattere agricolo dell'attività in questione, giacché, in genere in tali casi, come anche nella specie, il ciclo produttivo dell'impianto è finalizzato al trattamento, come si ripete, non solo di olive, ma anche di derivati di seconda lavorazione conferiti da altri opifici.
La caratterizzazione principale dell'attività consiste dunque in una lavorazione di prodotti di terzi mediante una complessa tecnologia che di per sé non è espressione di tipica attività agricola.
Venendo in considerazione un impianto anche per la lavorazione della pasta disoleata, il processo tecnologico consiste in ciò: una volta molite le olive si procede, attraverso particolari strutture (oggetto della denegata concessione in sanatoria) ad estrarre, per separazione, oli e pasta disoleata, dopo di che tale pasta, costituita da un miscuglio di sansa più acqua contenuta nelle olive, subisce ulteriori cicli di trasformazione grazie ai quali viene recuperata la pasta esausta, dalla quale, poi, per successive lavorazioni tecnologiche, si ottengono nuovi derivati, alcuni dei quali, come ad esempio l'olio d'oliva "lampante", devono essere sottoposti ad un ultimo trattamento di trasformazione, che prevede l'uso di processi chimici, per poter diventare commestibili.
Non si è in definitiva in presenza di una semplice attività connessa ad un'attività tipicamente agricola svolta in via principale, bensì di una vera e propria attività industriale.
Con il medesimo motivo l’appellante lamenta che il Comune non avrebbe svolto adeguata istruttoria per sostenere le ragioni del diniego.
Il diniego del Comune ha preso le mosse dalla disciplina urbanistica vigente; in particolare le NTA della zona B (Completamento), zona in cui è posto il fondo in oggetto, che non prevede, in tali zone, l’edificazione di locali per attività artigianali moleste e rumorose, e il Regolamento Comunale di Polizia Urbana, che all’art. 61 qualifica come rumorosi e incomodi, dopo una serie non tassativa di esempi, tutti quei mestieri che, per l’azione di macchine, di motori o per l’uso continuo di strumenti manuali, rechino molestia al vicinato.
E’ quindi immune da censure la qualificazione operata dagli uffici comunali, laddove si assume non a torto che nel progetto di frantoio (ciclo continuo di trasformazione, lavorazione per conto terzi, sistema degli scarichi) si ravviserebbe un impianto produttivo “del tutto avulso dal tessuto edilizio di completamento”.
Giova in proposito ricordare come già è stato ritenuto legittimo il diniego di concessione edilizia opposto dal Comune alla realizzazione in zona agricola di un impianto per la molitura delle olive e la trasformazione delle paste derivate, ove come nel caso, per dimensioni e tipologia, esso sia destinato prevalentemente alla lavorazione dei prodotti di terzi rispetto a quelli provenienti dal fondo; la lavorazione e trasformazione dei prodotti agricoli -per poter essere considerata "attività connessa" all'agricoltura e rientrare nella nozione di "impresa agricola" di cui all'art. 2135 c.c.- deve infatti avere carattere strettamente strumentale e complementare all' attività principale di coltivazione del fondo, ciò che non accade allorché essa abbia prevalentemente ad oggetto la trasformazione di prodotti agricoli per conto terzi (così Consiglio Stato sez. V, 06.03.2007, n. 1051)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.02.2013 n. 651 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento della domanda non è necessaria in relazione alle decisioni di ricorsi gerarchici, atteso che il preavviso di rigetto si applica ai procedimenti ad istanza di parte, mentre il ricorso amministrativo non è assimilabile a un'istanza di provvedimento, ma costituisce la contestazione di un provvedimento già emanato; inoltre è diretto a promuovere il contraddittorio prima dell'adozione di un provvedimento di amministrazione attiva, mentre, nel caso del ricorso amministrativo, il provvedimento di amministrazione attiva è già stato emanato e impugnato.
Prima del provvedimento impugnato il privato, di regola, ha già potuto interloquire con l'Amministrazione, sicché un ulteriore preavviso di rigetto introdurrebbe un'ulteriore fase di contraddittorio, sostanzialmente inutile e in contrasto con le esigenze di buon andamento, economicità e celerità dell'azione amministrativa.
La comunicazione del preavviso di rigetto interrompe i termini per l'emanazione del provvedimento finale, e questo effetto è incompatibile con la disciplina del ricorso amministrativo perché comporterebbe il raddoppio praeter legem dei termini di decisione del ricorso.
Il procedimento avviato col ricorso gerarchico può concludersi con il silenzio, con l'effetto di consentire al ricorrente di impugnare in sede giurisdizionale il provvedimento già impugnato in sede amministrativa, e tale disciplina è, per la sua intrinseca funzione acceleratoria dei rimedi di tutela, incompatibile con la necessità del preavviso di rigetto; la decisione dell'Amministrazione sul ricorso gerarchico ha carattere di segretezza fino alla sua emanazione, e pertanto non ammette un preavviso di rigetto.

E’ infondato anche il riproposto motivo di violazione dell’art. 10-bis.
Infatti, in caso di riesame, per ordine del giudice, di un provvedimento amministrativo censurato in sede giurisdizionale, la comunicazione del preavviso di diniego ex art. 10-bis citato costituisce un inutile aggravamento dell'attività amministrativa, tenuto anche conto che il riesame dell’istanza è disposto per impulso giudiziale, e quindi con tutte le garanzie del contradditorio proprie del processo, e non su istanza di parte, allorché invece l'art. 10-bis legge 241/1990, come noto, trova applicazione per i soli procedimenti “ad istanza di parte”.
Valgono al riguardo le regole dettate dalla giurisprudenza amministrativa sui ricorsi amministrativi.
La comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento della domanda non è necessaria in relazione alle decisioni di ricorsi gerarchici, atteso che il preavviso di rigetto si applica ai procedimenti ad istanza di parte, mentre il ricorso amministrativo non è assimilabile a un'istanza di provvedimento, ma costituisce la contestazione di un provvedimento già emanato; inoltre è diretto a promuovere il contraddittorio prima dell'adozione di un provvedimento di amministrazione attiva, mentre, nel caso del ricorso amministrativo, il provvedimento di amministrazione attiva è già stato emanato e impugnato; prima del provvedimento impugnato il privato, di regola, ha già potuto interloquire con l'Amministrazione, sicché un ulteriore preavviso di rigetto introdurrebbe un'ulteriore fase di contraddittorio, sostanzialmente inutile e in contrasto con le esigenze di buon andamento, economicità e celerità dell'azione amministrativa; la comunicazione del preavviso di rigetto interrompe i termini per l'emanazione del provvedimento finale, e questo effetto è incompatibile con la disciplina del ricorso amministrativo perché comporterebbe il raddoppio praeter legem dei termini di decisione del ricorso; il procedimento avviato col ricorso gerarchico può concludersi con il silenzio, con l'effetto di consentire al ricorrente di impugnare in sede giurisdizionale il provvedimento già impugnato in sede amministrativa, e tale disciplina è, per la sua intrinseca funzione acceleratoria dei rimedi di tutela, incompatibile con la necessità del preavviso di rigetto; la decisione dell'Amministrazione sul ricorso gerarchico ha carattere di segretezza fino alla sua emanazione, e pertanto non ammette un preavviso di rigetto (Consiglio di Stato sez. V, 03.05.2012, n. 2548)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.02.2013 n. 651 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini del rispetto del termine di inizio dei lavori di cui all’articolo 15 del d.p.r. n. 380 del 2001, occorre il compimento di attività direttamente e immediatamente collegate all’inizio dei lavori, e tali non possono essere considerate la realizzazione della recinzione del cantiere, la pulizia dell'area, l'installazione della cartellonistica di cantiere, e nemmeno possono esserlo il taglio degli alberi, l’apertura di un varco di accesso al terreno, la demolizione di parte di un muro di confine; secondo la giurisprudenza prevalente, inoltre, non sono segno univoco di un serio inizio dei lavori neanche lo sbancamento del terreno e l'esecuzione dei lavori di scavo.
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La decadenza del permesso di costruire (per mancato inizio lavori entro l'anno) opera di diritto e non è richiesta a tal fine l’adozione di un provvedimento espresso.
Nonostante la presenza di un minoritario orientamento diverso, la tesi prevalente in giurisprudenza, e che il Collegio condivide, si basa sulla lettera della legge, che fa dipendere la decadenza non da un atto amministrativo, costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice fatto dell'inutile decorso del tempo.
Diversamente opinando, del resto, si farebbe dipendere la decadenza non solo da un comportamento dei titolari del permesso di costruire ma anche della Pubblica Amministrazione che potrebbe in taluni casi adottare un provvedimento espresso e in altri casi no, con possibili ipotesi di disparità di trattamento tra situazioni che nella sostanza si presenterebbero identiche.

Ciò premesso, è sufficiente rilevare che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, ai fini del rispetto del termine di inizio dei lavori di cui all’articolo 15 del d.p.r. n. 380 del 2001, occorre il compimento di attività direttamente e immediatamente collegate all’inizio dei lavori, e tali non possono essere considerate la realizzazione della recinzione del cantiere, la pulizia dell'area, l'installazione della cartellonistica di cantiere (cfr. tra le tante, Consiglio di Stato, sentenza n. 3030/2008), e nemmeno possono esserlo il taglio degli alberi, l’apertura di un varco di accesso al terreno, la demolizione di parte di un muro di confine (cfr. Tar Napoli, sentenza n. 10890/2008); secondo la giurisprudenza prevalente, inoltre, non sono segno univoco di un serio inizio dei lavori neanche lo sbancamento del terreno e l'esecuzione dei lavori di scavo (cfr. Tar Napoli, sentenza n. 10890/2008; TAR Milano, sentenza n. 372/2007; TAR Napoli sentenza n. 59/2006; TAR Roma sentenza n. 5370/2005; Consiglio di Stato sentenza n. 5242/2000).
Ne consegue che le attività compiute dalla società ricorrente e descritte nei sopralluoghi dei funzionari comunali non sono idonee ad evitare la decadenza di cui all’articolo 15 cit. per mancato inizio dei lavori nel termine di un anno dal rilascio del permesso di costruire.
La decadenza, inoltre, opera di diritto e non è richiesta a tal fine l’adozione di un provvedimento espresso.
Nonostante la presenza di un minoritario orientamento diverso, la tesi prevalente in giurisprudenza, e che il Collegio condivide, si basa sulla lettera della legge, che fa dipendere la decadenza non da un atto amministrativo, costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice fatto dell'inutile decorso del tempo (cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 2915/2012).
Diversamente opinando, del resto, si farebbe dipendere la decadenza non solo da un comportamento dei titolari del permesso di costruire ma anche della Pubblica Amministrazione che potrebbe in taluni casi adottare un provvedimento espresso e in altri casi no, con possibili ipotesi di disparità di trattamento tra situazioni che nella sostanza si presenterebbero identiche (cfr. Tar Roma sentenza n. 5530/2005; Consiglio di Stato, sentenza n. 2915/2012) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 04.02.2013 n. 61 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La preventiva comunicazione di avvio del procedimento, prescritta dall’art. 7 della legge 07.08.1990 n. 241 sul procedimento amministrativo, costituisce una regola generale dell’azione amministrativa, soprattutto quando l’Amministrazione eserciti il potere di annullamento d’ufficio, per il quale occorre dare adeguatamente conto della sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione dell’atto o alla cessazione dei suoi effetti.
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L’Amministrazione, in sede di adozione dell’atto impugnato, avrebbe dovuto indicare le ragioni di interesse pubblico all’annullamento ed avrebbe dovuto effettuare anche una ponderazione degli interessi coinvolti, cioè avrebbe dovuto comparare tali interessi pubblici con l’interesse dei privati, considerando per un verso la particolare posizione della parte ricorrente (che da anni svolge un’attività lavorativa che presuppone il possesso del diploma di laurea) e l’affidamento ingenerato dalla circostanza che alla comunicazione dell’avvio del procedimento non aveva poi fatto seguito l’atto preannunciato, e per altro verso che era ormai decorso un periodo di tempo rilevantissimo dal rilascio del diploma di laurea.

Va, peraltro, anche evidenziato che la preventiva comunicazione di avvio del procedimento, prescritta dall’art. 7 della legge 07.08.1990 n. 241 sul procedimento amministrativo, costituisce una regola generale dell’azione amministrativa, soprattutto quando l’Amministrazione eserciti il potere di annullamento d’ufficio, per il quale occorre dare adeguatamente conto della sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione dell’atto o alla cessazione dei suoi effetti (Cons. St., sez. I, 25.05.2012, n. 3060). Né sembra che nella specie, in relazione a quanto oggi evidenziato dalla parte ricorrente con i motivi di ricorso dedotti volti a contestare la sussistenza dei vizi indicati nell’atto di annullamento d’ufficio, tale comunicazione di avvio del procedimento possa ritenersi superflua (Cons. St., sez. IV, 17.09.2012, n. 4925).
In relazione, poi, a quanto sopra indicato alle lettere b) e c), va evidenziato che nell’atto impugnato -come sopra ricordato- non sono state indicate le ragioni di interesse pubblico all’esercizio il potere di autotutela, né è stata effettuata una comparazione tra detto interesse pubblico e quello dei soggetti incisi dal provvedimento in quanto si trattava di assumere un atto “di carattere vincolato”, rispetta alla cui adozione non residuava “in capo all’Ateneo alcun margine di discrezionalità”.
In realtà, ad avviso del Collegio, l’Amministrazione, in sede di adozione dell’atto impugnato, avrebbe dovuto indicare le ragioni di interesse pubblico all’annullamento ed avrebbe dovuto effettuare anche una ponderazione degli interessi coinvolti, cioè avrebbe dovuto comparare tali interessi pubblici con l’interesse dei privati, considerando per un verso la particolare posizione della parte ricorrente (che da anni svolge un’attività lavorativa che presuppone il possesso del diploma di laurea) e l’affidamento ingenerato dalla circostanza che alla comunicazione dell’avvio del procedimento non aveva poi fatto seguito l’atto preannunciato, e per altro verso che era ormai decorso un periodo di tempo rilevantissimo dal rilascio del diploma di laurea.
Va, invero, osservato che l’attività connessa all’esercizio dell’autotutela, anche nel caso in esame, costituisce espressione di ampia discrezionalità (Cons. St., Sez. V, 03.10.2012, n. 5199) e deve, pertanto, rispettare la disciplina generale dell’autotutela di cui all’art. 21-nonies, della legge sul procedimento; né può ritenersi, in assenza di alcuna espressa previsione normativa, che nella specie l’Università sia titolare di un potere di autotutela “speciale” rispetto alla disciplina generale contenuta nel predetto all’art. 21-nonies, da configurarsi come doveroso e non discrezionale, che possa prescindere anche dal rispetto di limiti temporali (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 04.02.2013 n. 54 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOVigili/ - La pagella non dipende dalle multe.
Bocciato il dirigente che valuta l'operato dei vigili sulla base del numero delle multe accertate o sulla intransigenza operativa.

Lo ha chiarito il TRIBUNALE di Venezia, Sez. lavoro, con la sentenza 02.02.2013 n. 620.
Tre operatori di vigilanza hanno ricevuto delle schede di valutazione peggiorative rispetto alle precedenti e per questo si sono rivolti al tribunale per richiederne l'annullamento. A parere del giudice effettivamente le richieste dei vigili sono meritevoli di accoglimento.
In particolare un agente è stato deprezzato per aver criticato per iscritto il comandante ed un altro per aver accertato un numero inferiore di infrazioni rispetto all'anno precedente. Il tribunale di Venezia ha accolto le doglianze. La critica civile all'operato dei superiori non può trasformarsi in un boomerang per l'agente intransigente. A maggior ragione la produttività non può essere correlata al numero delle multe (articolo ItaliaOggi dell'08.02.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: In materia di accesso ai documenti amministrativi l’art. 22, comma 1, lett. c), legge n. 241/1990 (come sostituito con la legge n. 15/2005) impone di riconoscere qualità di controinteressato non già a tutti coloro che, a qualsiasi titolo, siano nominati o comunque coinvolti nel documento oggetto dell’istanza ostensiva, ma solo a coloro che per effetto dell’ostensione vedrebbero pregiudicato il loro diritto alla riservatezza.
Non basta, perciò, che taluno venga chiamato in qualche modo in causa dal documento in richiesta, ma occorre in capo a tale soggetto un quidpluris, vale a dire la titolarità di un diritto alla riservatezza sui dati racchiusi nello stesso documento.

L’art. 22 della legge 07.08.1990, n. 241, prevede che il “diritto di accesso” sia riconosciuto a “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”.
Nel caso di specie il ricorrente ha interesse ad accedere alla documentazione richiesta al fine di poter resistere in giudizio, a tutela del suo diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione, come espressamente previsto dall’art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990 (Consiglio di Stato, VI, 12.12.2012, n. 6380).
Quanto al collegamento tra la situazione da tutelare e la documentazione richiesta appare idonea la circostanza che il sostituto Procuratore della Corte dei Conti abbia posto a fondamento della sua azione anche i predetti documenti. L’effettiva rilevanza degli stessi potrà essere valutata esclusivamente dal giudice munito di giurisdizione sulla controversia e non anche in questa sede, dove tale circostanza è solo sommariamente delibata (cfr. Consiglio di Stato, VI, 21.01.2013, n. 316; TAR Lombardia, Milano, IV, 07.09.2012, n. 2251). Inoltre va aggiunto che il diritto di accesso possiede una sua autonomia rispetto alla situazione sostanziale sottostante, che lo rende azionabile indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica concreta dell’istante (Consiglio di Stato, VI, 09.03.2011, n. 1492).
Con riferimento alla posizione di rifiuto espressa del controinteressato va evidenziato come in realtà sia molto dubbia la sussistenza nella presente fattispecie di un effettivo controinteressato, considerato che “in materia di accesso ai documenti amministrativi l’art. 22, comma 1, lett. c), legge n. 241/1990 (come sostituito con la legge n. 15/2005) impone di riconoscere qualità di controinteressato non già a tutti coloro che, a qualsiasi titolo, siano nominati o comunque coinvolti nel documento oggetto dell’istanza ostensiva, ma solo a coloro che per effetto dell’ostensione vedrebbero pregiudicato il loro diritto alla riservatezza. Non basta, perciò, che taluno venga chiamato in qualche modo in causa dal documento in richiesta, ma occorre in capo a tale soggetto un quidpluris, vale a dire la titolarità di un diritto alla riservatezza sui dati racchiusi nello stesso documento” (Consiglio di Stato, V, 27.05.2011, n. 3190) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 01.02.2013 n. 310 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’amministrazione comunale, in sede di rilascio del titolo edilizio, deve considerare eventuali limiti e vincoli di carattere privatistico, anche di natura reale, laddove siano certi e non contestati. Ed invero, la legittimità del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 11 D.P.R. n. 380/2001, non può essere inficiata da posizioni dei terzi che abbiano la consistenza di semplici pretese di utilizzazione del bene oggetto dell’assentita attività edificatoria.
L’amministrazione comunale, infatti, in sede di rilascio del permesso di costruire, ha l’onere di verificare il rispetto dei limiti privatistici (discendenti dall'esercizio dell'autonomia negoziale, tra i quali spiccano gli iura in re aliena, come il diritto di servitù), purché essi “siano immediatamente conoscibili, effettivamente e legittimamente conosciuti nonché del tutto incontestati, di guisa che il controllo si traduca in una semplice presa d'atto”.
In altri termini, l’amministrazione non è tenuta affatto a condurre ad approfondite e dispendiose verifiche circa i rapporti tra le parti contendenti.

La tesi sostenuta dalla ricorrente non è condivisibile. L’amministrazione comunale, in sede di rilascio del titolo edilizio, deve considerare eventuali limiti e vincoli di carattere privatistico, anche di natura reale, laddove siano certi e non contestati. Ed invero, la legittimità del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 11 D.P.R. n. 380/2001, non può essere inficiata da posizioni dei terzi che abbiano la consistenza di semplici pretese di utilizzazione del bene oggetto dell’assentita attività edificatoria.
L’amministrazione comunale, infatti, in sede di rilascio del permesso di costruire, ha l’onere di verificare il rispetto dei limiti privatistici (discendenti dall'esercizio dell'autonomia negoziale, tra i quali spiccano gli iura in re aliena, come il diritto di servitù), purché essi “siano immediatamente conoscibili, effettivamente e legittimamente conosciuti nonché del tutto incontestati, di guisa che il controllo si traduca in una semplice presa d'atto” (cfr. C.d.S., sez. IV, 10.12.2007, n. 6332; C.d.S., sez. IV, 12.03.2007, n. 1206).
In altri termini, l’amministrazione non è tenuta affatto a condurre ad approfondite e dispendiose verifiche circa i rapporti tra le parti contendenti (Tar Campania, Napoli, sez. IV, n. 1165 del 25.02.2011)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 31.01.2013 n. 313 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di volume tecnico in campo edilizio si fonda su tre parametri: il primo, positivo, di tipo funzionale, secondo cui il manufatto deve avere un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione; il secondo e il terzo, negativi, ricollegati, da un lato, all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non devono essere ubicate all'interno della parte abitativa, e, dall'altro, ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti.
Pertanto, tale nozione si adatta solo alle opere completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti al servizio di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali di quest’ultima. Il volume tecnico consiste quindi in un locale avente una propria ed autonoma individualità fisica e conformazione strutturale, funzionalmente inserito al servizio di un’esigenza oggettiva della costruzione principale, privo di valore autonomo di mercato, tale da non consentire una diversa destinazione da quella a servizio dell’immobile cui accede.
Il carattere strumentale rispetto all’immobile principale deve comunque essere oggettivo e non deve risultare dalla destinazione soggettivamente conferita dal progettista o dal proprietario del bene.
Inoltre, deve essere sempre facilmente rilevabile il rapporto di proporzionalità tra questi volumi e le esigenze effettivamente presenti.

Secondo consolidata giurisprudenza amministrativa, la nozione di volume tecnico in campo edilizio si fonda su tre parametri: il primo, positivo, di tipo funzionale, secondo cui il manufatto deve avere un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione; il secondo e il terzo, negativi, ricollegati, da un lato, all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non devono essere ubicate all'interno della parte abitativa, e, dall'altro, ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti.
Pertanto, tale nozione si adatta solo alle opere completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti al servizio di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali di quest’ultima (Consiglio di Stato, sez. IV, 28.01.2011, n. 687; Tar Calabria, Catanzaro, Sez. II, 21.03.2012, n. 297). Il volume tecnico consiste quindi in un locale avente una propria ed autonoma individualità fisica e conformazione strutturale, funzionalmente inserito al servizio di un’esigenza oggettiva della costruzione principale, privo di valore autonomo di mercato, tale da non consentire una diversa destinazione da quella a servizio dell’immobile cui accede.
Il carattere strumentale rispetto all’immobile principale deve comunque essere oggettivo e non deve risultare dalla destinazione soggettivamente conferita dal progettista o dal proprietario del bene.
Inoltre, deve essere sempre facilmente rilevabile il rapporto di proporzionalità tra questi volumi e le esigenze effettivamente presenti
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 31.01.2013 n. 313 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In assenza di inadempimenti imputabili all'Amministrazione idonei a configurare a suo carico una responsabilità "da contatto" oppure di natura precontrattuale, non può farsi riferimento all'art. 1227 c.c. essendo tale disposizione riferibile solo alle obbligazioni di carattere risarcitorio e non a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura sanzionatoria, come nel caso in esame. Quest'ultima conclusione deve essere confermata.
Invero, pur in presenza di un contratto di garanzia cosiddetta autonoma, con il quale il garante si obbliga ad eseguire la prestazione oggetto della garanzia "a semplice richiesta" del creditore garantito, senza opporre eccezioni attinenti alla validità, all'efficacia ed alla vicenda del rapporto principale, anche in questa ipotesi il meccanismo dell'adempimento del garante "a prima richiesta" scatta a seguito dell'inadempimento dell'obbligazione principale, ancorché resti vietato al garante di chiedere la preventiva escussione del debitore principale.
D'altronde, neppure con riguardo al regime ordinario delle obbligazioni tra privati sarebbe pertinente il richiamo all'art. 1227 cod. civ. Infatti, l'onere di diligenza che questa norma fa gravare sul creditore non si estende alla sollecitudine nell'agire a tutela del proprio credito onde evitare maggiori danni, i quali viceversa sono da imputare esclusivamente alla condotta del debitore, tenuto al tempestivo adempimento della sua obbligazione.
Inoltre, non è dato ravvisare nel sistema di cui agli artt. 1936 ss. cod. civ. alcun principio di preventiva doverosa escussione del fideiussore alla scadenza del termine fissato per l'adempimento dell'obbligazione garantita, che peraltro colliderebbe con le finalità dell'istituto, inteso a rafforzare la garanzia del credito in funzione di un interesse proprio e specifico del creditore.
In altri termini, ed in materia di obbligazioni "portable" quali quelle pecuniarie, e con termine di adempimento che esonera dalla costituzione in mora del debitore, il creditore è soltanto facultato ad attivare la solidale responsabilità del fideiussore, senza che possa invece ritenersi tenuto ad escutere il coobbligato piuttosto che attendere il pagamento, ancorché tardivo, salva l'esistenza di apposita clausola in tal senso (che dovrebbe essere accettata dall'Amministrazione).

A prescindere infatti dalle difficoltà incontrate dal Comune nell'escutere il fideiussore (in ragione delle opposizioni dallo stesso formulate e dal continuo cambio di sede, che ha impedito la notificazione delle richieste di pagamento, come si evince dalla memoria difensiva comunale e dalla documentazione alla stessa allegata), deve rilevarsi che il giudice di appello, con recente pronuncia (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, n. 5395 del 28.09.2011), ha così statuito: "con decisioni C.S. n. 1250/2005, n. 6345/2005, n. 4025/2007 è stato precisato che in assenza di inadempimenti imputabili all'Amministrazione idonei a configurare a suo carico una responsabilità "da contatto" oppure di natura precontrattuale, non può farsi riferimento all'art. 1227 c.c. essendo tale disposizione riferibile solo alle obbligazioni di carattere risarcitorio e non a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura sanzionatoria, come nel caso in esame. Quest'ultima conclusione deve essere confermata.
Invero, pur in presenza di un contratto di garanzia cosiddetta autonoma, con il quale il garante si obbliga ad eseguire la prestazione oggetto della garanzia "a semplice richiesta" del creditore garantito, senza opporre eccezioni attinenti alla validità, all'efficacia ed alla vicenda del rapporto principale, anche in questa ipotesi il meccanismo dell'adempimento del garante "a prima richiesta" scatta a seguito dell'inadempimento dell'obbligazione principale, ancorché resti vietato al garante di chiedere la preventiva escussione del debitore principale (Cass. 18.11.1992 n. 12341, 03.11.1993 n. 10850, 17.05.2001 n. 6757).
D'altronde, neppure con riguardo al regime ordinario delle obbligazioni tra privati sarebbe pertinente il richiamo all'art. 1227 cod. civ. Infatti, l'onere di diligenza che questa norma fa gravare sul creditore non si estende alla sollecitudine nell'agire a tutela del proprio credito onde evitare maggiori danni, i quali viceversa sono da imputare esclusivamente alla condotta del debitore, tenuto al tempestivo adempimento della sua obbligazione (V. Corte cost. n. 308 del 14.07.1999).
Inoltre, non è dato ravvisare nel sistema di cui agli artt. 1936 ss. cod. civ. alcun principio di preventiva doverosa escussione del fideiussore alla scadenza del termine fissato per l'adempimento dell'obbligazione garantita, che peraltro colliderebbe con le finalità dell'istituto, inteso a rafforzare la garanzia del credito in funzione di un interesse proprio e specifico del creditore.
In altri termini, ed in materia di obbligazioni "portable" quali quelle pecuniarie, e con termine di adempimento che esonera dalla costituzione in mora del debitore, il creditore è soltanto facultato ad attivare la solidale responsabilità del fideiussore, senza che possa invece ritenersi tenuto ad escutere il coobbligato piuttosto che attendere il pagamento, ancorché tardivo, salva l'esistenza di apposita clausola in tal senso (che dovrebbe essere accettata dall'Amministrazione), nella specie non prevista
" (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 31.01.2013 n. 305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il termine di 36 mesi ex art. 35, comma 18, della l. n. 47/1985, trascorso il quale si prescrive l'eventuale diritto al conguaglio delle somme dovute a titolo di oblazione, decorre dalla presentazione della domanda di concessione edilizia in sanatoria, ma, ovviamente, solo se questa sia corredata da tutti i documenti richiesti dalla legge per la sua definizione; altrimenti, il termine in parola deve intendersi decorrente dalla data di integrazione della documentazione da allegare alla domanda.
Posto, invero, che per gli oneri di urbanizzazione e costo di costruzione il dies a quo decorre dal rilascio della concessione edilizia, e, quindi, da un momento in cui sono esattamente noti tutti gli elementi utili alla determinazione dell'entità del contributo, relativamente al conguaglio dell'oblazione dovuta in caso di condono edilizio, il dies a quo non può, cioè, coincidere con la presentazione della domanda che risulti sfornita della documentazione all'uopo richiesta e necessaria ai fini della corretta e definitiva determinazione dell'entità dell'oblazione; cosicché la decorrenza del termine di prescrizione presuppone -tanto in favore dell'amministrazione per l'eventuale conguaglio, quanto in favore del privato per l'eventuale rimborso- che la pratica di sanatoria edilizia sia definita in tutti i suoi aspetti e siano, per l'effetto, precisamente determinabili, alla stregua dei parametri stabiliti dalla legge, l'an e il quantum dell'obbligazione gravante sul privato; ciò che riflette puntualmente la ratio sottesa all'art. 2935 cod. civ., secondo il quale, in generale, la prescrizione non può decorrere se non dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere.
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Quanto alle somme dovute a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione, deve osservarsi che il termine per far valere il diritto al relativo conguaglio, disciplinato dall'art. 37 della l. n. 47/1985, soggiace, come esattamente argomentato anche da parte ricorrente, al termine ordinario di prescrizione decennale, atteso che il termine speciale di 36 mesi, fissato dal precedente art. 35, comma 18, concerne esclusivamente l'oblazione.
Tale prescrizione decennale decorre, poi, dal momento in cui il diritto può essere fatto valere (ex art. 2935 cod. civ.), ossia dall'emanazione della concessione edilizia in sanatoria o, in alternativa, dalla scadenza del termine perentorio di 24 mesi dalla presentazione della domanda, spirato il quale "quest'ultima si intende accolta ove l'interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio".

Vale anzitutto premettere, in punto di diritto, che il termine di 36 mesi ex art. 35, comma 18, della l. n. 47/1985, trascorso il quale si prescrive l'eventuale diritto al conguaglio delle somme dovute a titolo di oblazione, decorre, bensì, dalla presentazione della domanda di concessione edilizia in sanatoria, ma, ovviamente, solo se questa sia corredata da tutti i documenti richiesti dalla legge per la sua definizione; altrimenti, il termine in parola deve intendersi decorrente dalla data di integrazione della documentazione da allegare alla domanda (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 09.02.2012, n. 695; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 05.03.2008, n. 735; TAR Campania, Salerno, sez. II, 18.03.2008, n. 306; 17.06.2008, n. 1962; 26.11.2008, n. 3912; 26.01.2009, n. 165; TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 18.12.2008, n. 1752; TAR Lazio, Roma, sez. II, 15.04.2009, n. 6852; Latina, 03.03.2010, n. 204).
Posto, invero, che per gli oneri di urbanizzazione e costo di costruzione il dies a quo decorre dal rilascio della concessione edilizia, e, quindi, da un momento in cui sono esattamente noti tutti gli elementi utili alla determinazione dell'entità del contributo, relativamente al conguaglio dell'oblazione dovuta in caso di condono edilizio, il dies a quo non può, cioè, coincidere con la presentazione della domanda che risulti sfornita della documentazione all'uopo richiesta e necessaria ai fini della corretta e definitiva determinazione dell'entità dell'oblazione; cosicché la decorrenza del termine di prescrizione presuppone -tanto in favore dell'amministrazione per l'eventuale conguaglio, quanto in favore del privato per l'eventuale rimborso- che la pratica di sanatoria edilizia sia definita in tutti i suoi aspetti e siano, per l'effetto, precisamente determinabili, alla stregua dei parametri stabiliti dalla legge, l'an e il quantum dell'obbligazione gravante sul privato; ciò che riflette puntualmente la ratio sottesa all'art. 2935 cod. civ., secondo il quale, in generale, la prescrizione non può decorrere se non dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. II, 02.03.2010, n. 1552; 03.06.2010, n. 8224; TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, 17.11.2010, n. 2600).
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Quanto, poi, alle somme dovute a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione, deve osservarsi che il termine per far valere il diritto al relativo conguaglio, disciplinato dall'art. 37 della l. n. 47/1985, soggiace, come esattamente argomentato anche da parte ricorrente, al termine ordinario di prescrizione decennale, atteso che il termine speciale di 36 mesi, fissato dal precedente art. 35, comma 18, concerne esclusivamente l'oblazione (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. II, 08.10.2004, n. 1896; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 20.03.2007, n. 458; TAR Trentino Alto Adige, Trento, 09.12.2010, n. 234).
Tale prescrizione decennale decorre, poi, dal momento in cui il diritto può essere fatto valere (ex art. 2935 cod. civ.), ossia dall'emanazione della concessione edilizia in sanatoria o, in alternativa, dalla scadenza del termine perentorio di 24 mesi dalla presentazione della domanda, spirato il quale "quest'ultima si intende accolta ove l'interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio"
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 31.01.2013 n. 302 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Sulla vexata quaestio della tutela del privato in presenza di occupazioni che, per quanto in origine legittime, siano divenute sine titulo per mancata adozione, nei termini di legge, di rituale misura ablatoria.
Va ricordato il consolidato orientamento che attribuisce alla giurisdizione amministrativa le controversie, anche risarcitorie, che abbiano a oggetto un'occupazione originariamente legittima, e che sia poi divenuta sine titulo a causa del decorso dei termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità senza il sopravvenire di un valido decreto di esproprio, trattandosi non già di meri comportamenti materiali, ma di condotte costituenti espressione di un'azione originariamente riconducibile all'esercizio del potere autoritativo della p.a., e che solo per accidenti successivi -come avviene anche per l'ipotesi di successivo annullamento giurisdizionale degli atti ablatori- hanno perso la propria connotazione eminentemente pubblicistica.
Esula, peraltro, dalla giurisdizione amministrativa, per spettare a quella del giudice ordinario, la domanda tesa ad ottenere il riconoscimento degli indennizzi per il periodo di occupazione legittima in relazione alla quale continua a valere a tutti gli effetti la riserva disposta dall'art. 53, comma 2, d.P.R. n. 327 del 2001 (ora, art. 133 comma 1, lett. g, c.p.a.).
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Va, in proposito, osservato:
a) che, in caso occupazione originariamente valida non seguita, peraltro, da tempestiva adozione del decreto di esproprio, il decorso del termine ventennale utile ad usucapionem prende avvio solo dal momento in cui l’occupazione diventa contra legem, con il decorso del termine quinquennale;
b) che, ai fini interruttivi, appaiono idonee (in virtù del combinato disposto degli artt. 1965 e 2943 c.c.) esclusivamente iniziative giudiziali in funzione recuperatoria del possesso, e non già intese alla mera condanna al risarcimento del danno;
c) che, per comune intendimento, la maturata usucapione fa venir meno (non soltanto, come è ovvio, la facoltà di esperire le tutele reali e recuperatorie, stante la correlativa perdita della situazione dominicale, ma anche) l'elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria (nonché, deve ritenersi, di quella indennitaria), consistente nell'illiceità della condotta lesiva della situazione giuridica soggettiva dedotta, non solo per il periodo successivo al decorso del termine, ma anche per quello anteriore, in virtù della retroattività degli effetti dell'acquisto, stabilita per garantire, alla scadenza del termine necessario, la piena realizzazione dell'interesse all'adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto;
d) che neppure, del resto, risulta concretamente possibile, ad usucapione maturata, condanna alla adozione (ad esito alternativo discrezionalmente apprezzabile) di provvedimento ex art. 42-bis del T.U. n. 327/2001, per la preclusiva ragione che l’usucapione costituisce già autonomo titolo di acquisto della proprietà e non potrebbe, con ogni evidenza, procedersi all’acquisto di cosa propria.

Il ricorso è, nei sensi delle considerazioni che seguono, infondato e merita di essere correlativamente respinto.
Va, liminarmente, respinta l’articolata eccezione di difetto di giurisdizione alla luce del consolidato orientamento che attribuisce alla giurisdizione amministrativa le controversie, anche risarcitorie, che abbiano a oggetto un'occupazione originariamente legittima, e che sia poi divenuta sine titulo a causa del decorso dei termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità senza il sopravvenire di un valido decreto di esproprio, trattandosi non già di meri comportamenti materiali, ma di condotte costituenti espressione di un'azione originariamente riconducibile all'esercizio del potere autoritativo della p.a., e che solo per accidenti successivi -come avviene anche per l'ipotesi di successivo annullamento giurisdizionale degli atti ablatori- hanno perso la propria connotazione eminentemente pubblicistica (cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 28.11.2012, n. 6012 e già Cons. Stato, Ad. Pl., 22.10.2007, n. 12).
Esula, peraltro, dalla giurisdizione amministrativa, per spettare a quella del giudice ordinario, la domanda tesa ad ottenere il riconoscimento degli indennizzi per il periodo di occupazione legittima in relazione alla quale continua a valere a tutti gli effetti la riserva disposta dall'art. 53, comma 2, d.P.R. n. 327 del 2001 (ora, art. 133 comma 1, lett. g, c.p.a.): in termini, da ultimo TAR Campania Napoli, sez. V, 14.06.2012, n. 2831.
In termini generale, giova premettere che la controversia in esame attiene alla vexata quaestio della tutela del privato in presenza di occupazioni che, per quanto in origine legittime, siano divenute sine titulo per mancata adozione, nei termini di legge, di rituale misura ablatoria.
Va osservato, sul punto, che i percorsi di tutela della proprietà privata a fronte dell’illegittimo esercizio del potere espropriativo –oscillanti tra azione restitutoria, azione risarcitoria per equivalente e (attualmente) potere pubblicistico di acquisizione sanante ai sensi del vigente art. 42-bis del t.u. n. 327/2001– sono oggetto (anche, vale soggiungere, indipendentemente dai persistenti dubbi di compatibilità costituzionale e di conformità alla convenzione EDU del citato art. 42-bis, che Cons. Stato, sez. IV, 27.01.2012, n. 427 ha, peraltro, inteso senz’altro fugare) di perdurante dibattito dottrinale e di non sopiti contrasti giurisprudenziali.
I punti di partenza della questione sono, alquanto paradossalmente, del tutto perspicui:
a) la c.d. occupazione appropriativa per trasformazione irreversibile dell'immobile, come modo di acquisto della proprietà a titolo originario, fondato sul principio della accessione c.d. invertita mutuato per analogia dall’art. 938 c.c., dopo una (fin troppo nota e travagliata) vicenda segnata dal progressivo affinamento del formante giurisprudenziale, è stata ormai inesorabilmente espunta dal nostro ordinamento, in virtù delle reiterate e decisive pronunzie della Corte di Strasburgo (v., in termini perspicui, Cons. Stato, ad. plen., 29.04.2005, n. 2, cui giova complessivamente rinviare);
b) di conseguenza, ricondotta la vicenda della occupazione illegittima ad una “ordinaria” ipotesi di illecita ingerenza nella sfera dominicale altrui, al proprietario leso spetteranno (ove si prescinda, per un momento, dalla già ventilata possibilità che l’ente espropriante eserciti il distinto potere di cui all’attuale art. 42-bis, di cui si dirà) tutte le ordinarie azioni a difesa della proprietà e del possesso, non potendo godere la pubblica amministrazione di uno status privilegiato se non in presenza di poteri esercitati in conformità del paradigma legale di riferimento.
È, peraltro, evidente che –in mancanza di un idoneo titolo giuridico che valga a trasferire la proprietà in capo alla pubblica amministrazione– il privato resta, a fronte della illecita ingerenza, proprietario del bene, con la conseguenza che può, anzitutto, attivare (a parte, ovviamente, il risarcimento del danno per il periodo di occupazione) la tutela restitutoria, previa ripristino dello status quo ante: al che non può costituire impedimento (una volta venuta meno la “costruzione“ concettuale della occupazione acquisitiva) né la avvenuta trasformazione delle aree né la realizzazione dell’opera pubblica (quella che, in passato, si definiva sintomaticamente trasformazione “irreversibile”, che tale era peraltro, con evidente circuito logico, solo in quanto scattasse il postulato meccanismo acquisitivo a titolo originario), in quanto, per un verso, il limite della eccessiva onerosità è codificato, dal’art. 2058 c.c., in relazione alla tutela risarcitoria (in forma specifica) e non per quella restitutoria (che trova fondamento negli artt. 948 ss. ed è preordinata alla tutela reale della proprietà) e, per altro verso, l’ulteriore limite di cui all’art. 2933 c.c. (relativo alla riduzione in pristino di quanto sia stato realizzato in violazione dell’obbligo di non fare) si riferisce solo alla ricorrenza di pregiudizi per l’intera economia nazionale e non a quello “localizzato” (in termini, da ultimo, Cass. sez. I, 23.08.2012, n. 14609).
Per la stessa ragione, di conserva, al privato dovrebbe, in principio, ritenersi preclusa la tutela risarcitoria (naturalmente diversa da quella relativa alla mera occupazione, finché la stessa sia di fatto durata), difettando –ai fini del riconoscimento del diritto al rivendicato controvalore venale del bene– il presupposto della perdita della proprietà (non potendosi, incidentalmente, ritenere –secondo un ragionamento speciosamente formulato in passato, ma privo di basi ed oggi espressamente ripudiato non meno dal giudice ordinario che da quello amministrativo– che la formulazione della domanda risarcitoria implicasse di per sé l’implicita volontà dismissiva della proprietà, alla stregua di una sorta di “abbandono liberatorio”).
Una importante e paradossale conseguenza è, allora, che le domande risarcitorie (anche quelle proposte quando nessuno, né tantomeno gli odierni ricorrenti, aveva plausibile ragione di dubitare del regime della occupazione acquisitiva, magari giunte alla attuale cognizione del giudice amministrativo –oggi attributario, come è noto, della giurisdizione esclusiva in materia, giusta l’art. 34 del d.lgs. n. 80/1998, trasfuso nell’art. 133 c.p.a.– per via di translatio judicii in esito a declinatoria della giurisdizione, e salva la possibilità di formulare in proposito una auspicabile emendatio libelli: cfr., in tal senso, Cons. Stato, sez. IV, 01.06.2011, n. 3331) dovrebbero essere senz’altro respinte in quanto non fondate (per carenza del fatto costitutivo del diritto azionato).
Che è esito, va riconosciuto, nel complesso indubbiamente insoddisfacente non solo per l’Amministrazione espropriante (che vede, di fatto, in generale potenzialmente pregiudicato l’interesse pubblico dalla doverosità ed automaticità della reintegrazione della proprietà privata, anche in casi di trasformazione delle aree e di avvenuta realizzazione delle opere pubbliche, potendo solo riattivare ab ovo la procedura ablatoria), ma anche per lo stesso privato (che, più spesso di quanto non si possa immaginare, annette in concreto maggior interesse alla pronta liquidazione del bene secondo il suo valore venale che al ripristino dello status quo ante e che, in ogni caso, ha potuto ragionevolmente optare, diversamente da quanto occorso nella fattispecie in esame, per l’attivazione, in via esclusiva, della via risarcitoria di fatto preclusa da inopinati overruling pretori).
A fronte di ciò, può ritenersi in generale sostanzialmente appagante l’eventualità (non verificatasi, peraltro, nel caso di specie nonostante lo spatium deliberandi di fatto concesso dalla ordinanza collegiale evocata in narrativa) che l’Amministrazione adotti l’autonomo potere ablatorio codificato dall’art. 42-bis del t.u. n. 327/2001, in quanto:
a) per un verso, la legalità dell’azione amministrativa viene, in certo modo, “recuperata” dalla creazione di un (nuovo ed autonomo) titulus adquirendi di natura provvedimentale, munito di idonea base legale e frutto di doverosa e rigorosa ponderazione comparativa degli interessi in gioco, complessivamente intesa alla salvaguardia di quello pubblico concretamente preminente (così superando la logica, stigmatizzata in sede CEDU, dell’occupazione acquisitiva, che consentiva l’acquisto in virtù di un mero comportamento di fatto, per di più concretante fattispecie di illecito);
b) per altro verso, si garantisce al privato una tutela piena e satisfattiva (in prospettiva dichiaratamente “indennitaria” piuttosto che “risarcitoria”, non trattandosi, nell’auspicio “ricostruttivo”, per quanto valer possa l’intento qualificatorio trasfuso nella norma, dei conditores, di non più plausibile acquisto ex re illicita, come ancora autorizzava a ritenere la formulazione del previgente art. 43) al conseguimento dell’integrale valore del bene (per giunta maggiorato –a dire il vero, non senza una sottile contraddizione “sistematica”– del pregiudizio non patrimoniale forfetizzato, oltre che, naturalmente, del danno da occupazione), senza neppure precludergli (in tesi astratta) la possibilità di impugnare (se interessato soprattutto alla reintegra) il provvedimento.
Il problema si pone, allora, essenzialmente per l’ipotesi (peraltro praticamente più frequente) di inerzia (o addirittura di silenzio) dell’ente espropriante: inerzia e silenzio che, per quanto si è detto, appaiono in grado di condizionare lo spettro delle tutele a disposizione del privato, di fatto conservandone lo status non sempre gradito (e, nella specie, addirittura prospetticamente suscettibile di azzerare le forme di tutela azionate) di proprietario dei beni.
Un primo tentativo di soluzione del problema è stato offerto da quella giurisprudenza che –muovendosi sul piano schiettamente civilistico (l’unico, peraltro, possibile in difetto di esercizio di legittime potestà pubblicistiche):
a) o ha ritenuto (così TAR Lecce, sez. I, 24.11.2010, n. 2683) che l’irreversibile trasformazione del bene continui a rappresentare fatto idoneo a far acquistare la proprietà alla pubblica amministrazione (non già, peraltro, per il principio dell’accessione invertita, ma in virtù della c.d. specificazione ex art. 940 c.c., consistente nella utilizzazione della altrui “materia” per realizzare una “nuova cosa”): tesi rimasta, peraltro, del tutto isolata, se non altro per il rilievo che la specificazione, quale modo civilistico di acquisto della proprietà a titolo originario, si attaglia alle cose mobili e non a quelle immobili);
b) ovvero –con esito del tutto opposto– ha ventilato l’applicazione della regola (ordinaria e tradizionale) della accessione ex art. 934 c.c., in forza della quale non solo (come è pacifico) il proprietario delle aree occupate non perde il proprio diritto in conseguenza dell’altrui ingerenza, ma diventa anche il proprietario degli immobili realizzati sul proprio suolo: con il che peraltro –del tutto paradossalmente– il privato sarebbe esposto anche ad un arricchimento “imposto” ed una consequenziale obbligazione indennitaria a suo danno.
Si è anche formato un orientamento giurisprudenziale volto, per altra via, ad aggirare la difficoltà ed a raggiungere comunque l'obiettivo perseguito dal legislatore: già nella vigenza dell'art. 43 si era, invero, statuito che, a fronte della domanda risarcitoria, la P.A. avrebbe potuto (alternativamente ma doverosamente) pervenire ad un accordo transattivo ovvero emettere un formale e motivato decreto, con cui disporre o la restituzione dell'area a suo tempo occupata, previa ripristino dello status quo ante, ovvero l'acquisizione coattiva: con il che, in caso di inerzia conseguente al giudicato “ad esito alternativo”, l'interessato avrebbe potuto chiedere, in sede di ottemperanza, l'esecuzione della decisione, per la adozione delle misure consequenziali (rientrando nei poteri del giudice, in tal caso estesi come è noto al merito, la nomina di un commissario ad acta per l’adozione della scelta più opportuna): così Cons. Stato, sez. IV, 21.05.2007, n. 2582, seguito, tra le altre, da TAR Campania Napoli, sez. V, 28.05.2009).
È evidente che, in tale prospettiva, il processo azionato dal privato diventa indirettamente strumento per imporre alla P.A. di attivarsi per comporre la vicenda, senza ancora pregiudicare le diverse opzioni, ma sull'implicito presupposto pratico che l'ipotesi della restituzione rimanga puramente teorica. Perciò, con l’introduzione dell'art. 42-bis, questo orientamento ha ripreso vigore, specie nella giurisprudenza di prime cure (ed è stato accolto, per esempio, da questo Tribunale: cfr, in tal senso, TAR Campania Salerno, sez. II, 11.01.2012, n. 28), puntando, da fatto, più seccamente sulla ineludibile alternativa tra restituzione e acquisizione sanante, mentre passano in secondo piano altre soluzioni che erano emerse, come l'accordo transattivo o la rinnovazione del procedimento espropriativo (la prima, ovviamente, sempre possibile ma non certo in forza di una statuizione giudiziaria impositiva di un obbligo, sia pure alternativo, a contrarre, privo, come tale, di idonea base positiva; la seconda anch’essa, beninteso, sempre possibile, ma chiaramente disfunzionale ed onerosa, in presenza di una facoltà acquisitiva autonoma ex art. 42-bis).
Va, peraltro, rammentato come altra impostazione abbia inteso andare oltre il prospettato esito decisionale, escludendo ogni alternativa, anche quella della restituzione, e rendendo non più nascosto ma esplicito e vincolante l'obiettivo di addivenire all'acquisizione: se il provvedimento di acquisizione è (o si vuole che sia) l'unico modo per sistemare la vicenda e la P.A. rimane inerte, vorrà dire che a tale provvedimento si dovrà ineludibilmente pervenire per ordine del giudice, con eventuale esercizio di poteri sostitutivi in sede di esecuzione: in tal caso l'accoglimento del ricorso si risolve, direttamente, in una condanna specifica ad adottare il provvedimento di acquisizione ai sensi dell'art. 42-bis.
Con questa sorta di mutatio officiosa della domanda (peraltro, di dubbia compatibilità con il canone della corrispondenza tra chiesto e pronunziato ex art. 112 c.p.c.), la ''sostanza'' cui, iussu proprie iudicis, si perviene è che, da un lato, si è trasferita la proprietà e si è evitata la restituzione, d'altro lato, si è concesso indirettamente il risarcimento del danno per equivalente al privato: il provvedimento di acquisizione contiene infatti ex lege l'indennizzo per la perdita della proprietà (in tali sensi, tra le altre, TAR Campania Napoli, Sez. V, 13.01.2012, n. 176, la quale, peraltro, ha “differito” l’esame della domanda risarcitoria all’esito della adozione del provvedimento acquisitivo, laddove altro modulo decisionale, seguito inter alia da TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 23.02.2012, n. 428, da TAR Lombardia Brescia, Sez. II, 26.01.2012, n. 115 e  da TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 17.02.2012, n. 195, ritiene “assorbita” la domanda risarcitoria, sull’assunto che, adottato il provvedimento ex art. 42-bis, la disputa sul quantum della riconosciuta indennità spetterebbe ad altra sede e, plausibilmente, ad altra giurisdizione).
L'orientamento in questione e la prospettiva della condanna a provvedere ex art. 42-bis consentono in realtà, a favore del privato, di superare in radice ogni problematico rilievo del distinguo tra domanda restitutoria e domanda di risarcimento per equivalente, poiché, quale che sia l'esatto contenuto della domanda, soltanto nella suddetta condanna può risolversi il processo. Non a caso, possono ravvisarsi pronunce che hanno statuito la condanna a provvedere ex art. 42-bis non perché mosse dalla necessità di aggirare la domanda restitutoria (concretamente non inclusa nel petitum immediato), ma a partire dalla mera azione risarcitoria, pervenuta, magari tramite translatio judicii, al giudice amministrativo.
Il descritto escamotage giurisprudenziale (va, invero, onestamente riconosciuto che di questo si tratta) consente, quindi, di raggiungere l'obiettivo dell'art. 42-bis, con indubbi vantaggi anche per la tutela effettiva del privato, ma, specialmente nella versione della condanna specifica e non alternativa all'acquisizione sanante, al costo di un'interpretazione che porta a dissolvere anche un'apparenza di conformità ai principi europei: e ciò perché si finisce pregiudizialmente per escludere sempre e comunque la concessione della (primaria ed indefettibile) tutela restitutoria.
In tale contesto, una più recente (e, sia pure solo in parte, alternativa) pronunzia del Consiglio di Stato (la n. 1514 del 16.03.2012, resa dalla sez. IV) ha piuttosto (e, c’è da riconoscere, con maggior “franchezza”) argomentato nel senso:
a) che al privato è preclusa (in assenza di adozione del provvedimento acquisitivo) la tutela risarcitoria, in quanto anche l’irreversibile trasformazione delle aree non determina, come ampiamente chiarito, la perdita del diritto di proprietà;
b) nondimeno –e qui sta la novità della pronuncia– neppure può darsi luogo (quando, ovviamente, richiesta) alla tutela restitutoria: la quale, in thesi, eliderebbe di per sé ed automaticamente il potere (discrezionale e non conculcabile) di acquisizione sanante ex art. 42-bis (non esistendo più la c.d. acquisizione giudiziale consentita dal previgente art. 43, che autorizzava l’Amministrazione ad invocare ope exceptionis la limitazione della domanda alla erogazione del risarcimento del danno, nella prospettiva della futura e “preannunziata” determinazione acquisitiva);
c) di conseguenza la domanda (comunque formulata) è ritenuta accoglibile (avuto riguardo al c.d. principio di atipicità scolpito dall’art. 34 c.p.a.) nei (soli) sensi dalla condanna all’obbligo generico di provvedere ex art. 42-bis, restando impregiudicata la scelta discrezionale tra acquisizione sanante (unita al ristoro per la perdita della proprietà e per il periodo di occupazione illegittima) e restituzione (preceduta dalla restitutio in integrum e dal ristoro del solo periodo di occupazione illegittima).
Insomma: da un lato, l'accoglimento della mera azione risarcitoria si scontra con il mancato trasferimento della proprietà, d'altro lato, l'art. 42-bis avrebbe inequivocabilmente attribuito alla P.A. il potere discrezionale, valutati gli interessi in conflitto, di pervenire o meno al provvedimento di acquisizione, e siffatto potere (peraltro non già facoltativo, nella consueta guisa del procedimenti di secondo grado orientati alla sanatoria, sebbene doveroso nell’an giusta il principio generale scolpito all’art. 2 della l. n. 241/1990, in quanto preordinato alla salvaguardia, in prospettiva comparativa, di rilevanti interessi delle controparti private) non potrebbe essere preventivamente intaccato e vanificato (stante l’attuale impossibilità, a differenza del previgente art. 43, di attivazione post litem judicatam) da un vincolo giurisdizionale conseguente all’accoglimento della domanda restitutoria (né –è da precisare– da una condanna a provvedere tout court all’adozione del provvedimento acquisitivo, che lederebbe e pregiudicherebbe in altra direzione la discrezionalità della P.A. di scegliere, valutati gli interessi in conflitto, tra acquisizione e restituzione del bene).
La soluzione de qua (per quanto non esente da perplessità, di fatto disconoscendosi la tutela restitutoria nella immediatezza della sua sede naturale, id est nel giudizio di cognizione, di fatto condizionato dal successivo ed eventuale esercizio del potere amministrativo di acquisizione) ha trovato nondimeno apprezzamento in dottrina, poiché attenua, in qualche misura, il conflitto con i principi della CEDU, lasciando quantomeno ''astrattamente'' aperta la porta alla possibilità della restituzione. Anche se –si è criticamente osservato non senza qualche ragione– non deve dimenticarsi che nel nuovo art. 42-bis non è stata, come si ripete, riprodotta la facoltà processuale della P.A. di paralizzare la restituzione (di cui all'originario art. 43), proprio per ragioni di compatibilità con i principi europei, risultando così alquanto paradossale che si evochi proprio l'art. 42-bis per pervenire ad un opposto e ancor più estremo risultato, cioè di un'azione restitutoria che ex lege viene paralizzata d'ufficio dal giudice. Perplessità, come è ovvio, che non può sorgere quando la domanda sia formulata in termini risarcitori.
Va da sé, sulle esposte coordinate dogmatiche, che (una volta ritenuta, nei chiariti sensi, la “doverosità” di attivazione del procedimento di acquisizione sanante ex art. 42-bis) sarebbe preferibile strutturare recta via la tutela del privato nei sensi della condanna (pura) a provvedere, nelle forme del rito avverso il silenzio (in tal senso, per esempio, TAR Campania Napoli, sez. V, 11.01.2012, n. 86, confermata da Cons. Stato, sez. IV, 08.10.2012, n. 5207): il risultato —condanna generica a provvedere— è ovviamente del tutto identico a quello scaturente dall’orientamento precedente, ma con ulteriori apprezzabili conseguenze sia per il privato, sia per la stessa P.A:
a) dal punto di vista del privato, vi sono palesi vantaggi sui “'tempi” di definizione della vicenda (non essendo anzitutto da escludere che la P.A., sollecitata dall'istanza, decida senz’altro di provvedere, ed in ogni caso, di fronte all'inerzia, si potrà ottenere quel risultato della condanna generica a provvedere attraverso il rito “acceleratorio” del silenzio, in luogo delle lungaggini di un'azione risarcitoria);
b) per la stessa P.A., non è certo trascurabile che l'indotto accorciamento dei “tempi” eviterà un aggravamento degli oneri risarcitori per l'occupazione illegittima, interrotta dalla restituzione, che fa venir meno l'occupazione stessa, o dal provvedimento di acquisizione, che ne fa venir meno l'illegittimità;
c) in ogni caso, nell'ottica europea, si toglierebbe la giurisprudenza dall'imbarazzo di non poter direttamente accogliere le azioni restitutorie o di dover affermare, come l’orientamento illustrato precedentemente, che il giudice non può elidere il potere amministrativo di decidere o meno l'acquisizione del bene (e ciò in quanto la questione dell'esercizio di siffatto potere non costituirebbe più un impedimento paralizzante nel momento della tutela processuale dell'azione del proprietario, ma si consumerebbe a monte e in un percorso prima amministrativo e poi processuale, quello del silenzio, dall'oggetto limitato, che rimane estraneo formalmente all'esperimento in via principale della tutela dominicale, per quanto nella ''sostanza'' indirettamente già idoneo a soddisfare la pretesa risarcitoria o restitutoria).
La dottrina si è addirittura spinta a prospettare (ed auspicare) de jure condendo (pur nella consapevolezza della sua problematicità anche in termini costituzionali, trattandosi in tesi di strutturare tutele c.d. condizionate) l’introduzione del previo esperimento dell'istanza a provvedere ex art. 42-bis e dell'eventuale tutela giurisdizionale avverso il silenzio quali condizioni di procedi-bilità delle domande risarcitorie e/o restitutorie.
Tutto ciò premesso, va peraltro esaminata –sia in quanto espressamente formulata da parte resistente al preordinato fine di argomentare l’infondatezza della domanda risarcitoria formulata ex adverso, sia in quanto prospetticamente idonea ad evocare, ove fondata, ragione pregiudizialmente preclusiva, in presenza di idoneo titulus adquirendi originario a favore dell’Amministrazione, dell’esercizio del potere acquisitivo ex art. 42-bis T.U. n. 327/2001, stante la correlata carenza del relativo presupposto dell’alienità del bene ad acquisirsi (cfr., da ultimo, Cass., sez. I, 04.07.2012, n. 11147, riferita ad un caso di occupazione usurpativa ma con argomento generalizzabile)– l’eccezione intesa a valorizzare l’intervenuta usucapione delle aree oggetto del contestato intervento, che sarebbe maturata a favore dell’Amministrazione espropriante in virtù del possesso ultraventennale, non idoneamente interrotto da opportune e tempestive iniziative giudiziali in funzione recuperatoria.
L’eccezione di intervenuta usucapione (che questo giudice può accertare in via incidentale ex art. 8 c.p.a,. in quanto logicamente concretante questione pregiudiziale) è fondata.
Va, in proposito, osservato:
a) che, in caso occupazione originariamente valida non seguita, peraltro, da tempestiva adozione del decreto di esproprio, il decorso del termine ventennale utile ad usucapionem prende avvio solo dal momento in cui l’occupazione diventa contra legem, con il decorso del termine quinquennale (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. V, 08.10.2012, n. 4030 e TAR Salerno, sez. II, 09.07.2012, n. 1374): nella specie, a far data dal 15.03.1988 (con maturazione al 15.03.2008);
b) che, ai fini interruttivi, appaiono idonee (in virtù del combinato disposto degli artt. 1965 e 2943 c.c.) esclusivamente iniziative giudiziali in funzione recuperatoria del possesso, e non già intese alla mera condanna al risarcimento del danno: cfr., in termini, Cass. SS.UU. 19.10.2011, n. 21575, proprio argomentando dalla possibilità, per il privato, di attivarsi nel senso della reintegrazione del possesso indipendentemente dalla (non rilevante) trasformazione del bene ablato: con il che, nel caso di specie, non può dirsi giovevole alla ricorrente l’azione risarcitoria in concreto attivata dinanzi al giudice ordinario, con citazione notificata il 23.11.1999, conclusasi con statuizione declinatoria della giurisdizione depositata in data 16.09.2002, versata in atti;
c) che, per comune intendimento, la maturata usucapione (della quale ricorrono, in concreto, tutti i presupposti, avuto segnatamente riguardo al possesso ultraventennale non interrotto) fa venir meno (non soltanto, come è ovvio, la facoltà di esperire le tutele reali e recuperatorie, stante la correlativa perdita della situazione dominicale, ma anche) l'elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria (nonché, deve ritenersi, di quella indennitaria), consistente nell'illiceità della condotta lesiva della situazione giuridica soggettiva dedotta, non solo per il periodo successivo al decorso del termine, ma anche per quello anteriore, in virtù della retroattività degli effetti dell'acquisto, stabilita per garantire, alla scadenza del termine necessario, la piena realizzazione dell'interesse all'adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto (cfr. Cass., 19.10.2011, n. 21575; Cass.. sez. III. 26.06.2008, n. 17570; Cass. 08.09.2006, n. 19294; merita, peraltro, soggiungere che la soluzione sul punto non potrebbe essere diversa anche ad accogliere il minoritario orientamento, essenzialmente dottrinario, inteso ad argomentare l’irretroattività dell’effetto acquisitivo conseguente alla maturata usucapione);
d) che neppure, del resto, risulta concretamente possibile, ad usucapione maturata, condanna alla adozione (ad esito alternativo discrezionalmente apprezzabile) di provvedimento ex art. 42-bis del T.U. n. 327/2001 (giusta la regola decisoria prospettata in subiecta materia da Cons. Stato, sez. IV, 16.03.2012, n. 1514 sull’assunto della doverosità nell’an della attivazione del relativo procedimento), per la preclusiva ragione che l’usucapione costituisce già autonomo titolo di acquisto della proprietà e non potrebbe, con ogni evidenza, procedersi all’acquisto di cosa propria (Cass., sez. I, 04.07.2012, n. 11147) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 31.01.2013 n. 298 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L’art. 35, comma 3, lettera e), del d.lgs. n. 165/2001 stabilisce che le commissioni di concorso siano composte esclusivamente da “esperti di provata competenza nelle materie di concorso, scelti tra funzionari delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime, che non siano componenti dell'organo di direzione politica dell'amministrazione, che non ricoprano cariche politiche e che non siano rappresentanti sindacali o designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali”.
Della sussistenza del requisito della comprovata esperienza (che non può spingersi fino a richiedere che i membri della commissione siano titolari dello specifico insegnamento oggetto di selezione, essendo sufficiente una competenza specifica e sufficiente a valutare i candidati) non è, peraltro, necessario che venga espressamente dato atto con il provvedimento di nomina del componente della Commissione di concorso, in quanto è sufficiente che esso requisito sussista in concreto.

Quanto al primo motivo di appello con cui sono stati contestati gli assunti del Giudice di primo grado circa la carenza, in capo al Presidente della Commissione, di un livello di esperienza adeguato per un adeguato espletamento delle funzioni rivestite (in assenza di ogni indicazione al riguardo nell’impugnato atto di designazione, peraltro adottato nella forma della delibera di giunta e quindi nell’esercizio di una funzione di indirizzo politico-amministrativo), la Sezione condivide le censure formulate dal Comune di Vitulazio.
Invero l’art. 35, comma 3, lettera e), del d.lgs. n. 165/2001 stabilisce che le commissioni di concorso siano composte esclusivamente da “esperti di provata competenza nelle materie di concorso, scelti tra funzionari delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime, che non siano componenti dell'organo di direzione politica dell'amministrazione, che non ricoprano cariche politiche e che non siano rappresentanti sindacali o designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali”.
Della sussistenza del requisito della comprovata esperienza (che non può spingersi fino a richiedere che i membri della commissione siano titolari dello specifico insegnamento oggetto di selezione, essendo sufficiente una competenza specifica e sufficiente a valutare i candidati) non è, peraltro, necessario che venga espressamente dato atto con il provvedimento di nomina del componente della Commissione di concorso, in quanto è sufficiente che esso requisito sussista in concreto.
Nel caso di specie non può dubitarsi del fatto che lo svolgimento delle funzioni di consigliere comunale abbia comportato l’acquisizione di esperienza in materia giuridico-amministrativa sufficiente per presiedere la commissione di un concorso per la nomina di un Istruttore Amministrativo comunale, stante la non estrema specialità e complessità delle competenze da accertare ai fini della attribuzione della qualifica stessa.
Aggiungasi che è ininfluente la circostanza che la nomina in questione sia stata effettuata dalla Giunta Comunale, atteso che, come risulta dalla deliberazione della G.C. n. 87 del 07.10.2010 in atti (di nomina della commissione del concorso de quo), il non impugnato art. 113 del Regolamento sull’ordinamento degli Uffici e dei Servizi in vigore presso il Comune, prevedeva la competenza proprio della Giunta comunale alla nomina delle commissioni di concorso
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.01.2013 n. 574 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratta all'accesso, in quanto, se la denuncia è presentata dalla pubblica amministrazione nell'esercizio delle proprie istituzionali funzioni amministrative, non si ricade nell'ambito di applicazione dell'art. 329, c.p.p.;
Tuttavia se la pubblica amministrazione che trasmette all'autorità giudiziaria una notizia di reato non lo fa nell'esercizio della propria istituzionale attività amministrativa, ma nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuite dall'ordinamento, si è in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria, che, come tali, sono soggetti a segreto istruttorio ai sensi dell'art. 329 c.p.p. e conseguentemente sottratti all'accesso ai sensi dell'art. 24, l. n. 241 del 1990.
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Ai sensi dell’art. 27, comma 1, del testo unico sull’edilizia (approvato con il d.P.R. n. 380 del 2001), “il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale esercita, anche secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente, la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi”.
Pertanto, se del caso per il tramite dei suoi dipendenti, il dirigente o il responsabile dell’ufficio può disporre anche ad horas, informalmente e ‘a sorpresa’ l’accesso sui luoghi per verificare se sussista un illecito edilizio (avente o meno rilevanza penale), se vada emesso un ordine di sospensione dei lavori o se vada avviato un procedimento per l’emanazione di un atto di ritiro di un precedente atto abilitativo: solo in quest’ultimo caso è configurabile l’obbligo di trasmettere un formale avviso previsto dall’art. 7 della legge n. 241 del 1990.

Da quanto esposto in narrativa emerge che la signora B. fosse portatrice di una posizione giuridica soggettiva idonea a legittimare la proposizione del ricorso per l’accesso.
In particolare, come esposto in narrativa e chiarito in atti, l’odierna appellante è proprietaria di un appartamento –e delle relative pertinenze– sul quale, nel corso degli anni, sono stati effettuati interventi di manutenzione in relazione ai quali risulta che il Comune di Napoli abbia avviato un procedimento finalizzato alla verifica di presunti abusi edilizi ivi commessi.
Conseguentemente, l’odierna appellante vanta un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata, ad accedere agli atti del procedimento avviato dall’amministrazione comunale.
Al riguardo i primi Giudici hanno correttamente richiamato il principio secondo cui non ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratta all'accesso, in quanto, se la denuncia è presentata dalla pubblica amministrazione nell'esercizio delle proprie istituzionali funzioni amministrative, non si ricade nell'ambito di applicazione dell'art. 329, c.p.p.; tuttavia se la pubblica amministrazione che trasmette all'autorità giudiziaria una notizia di reato non lo fa nell'esercizio della propria istituzionale attività amministrativa, ma nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuite dall'ordinamento, si è in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria, che, come tali, sono soggetti a segreto istruttorio ai sensi dell'art. 329 c.p.p. e conseguentemente sottratti all'accesso ai sensi dell'art. 24, l. n. 241 del 1990 (in tal senso: Cons. Stato, VI, 09.12.2008, n. 6117).
Ebbene, nei suoi scritti difensivi (il cui contenuto è stato sostanzialmente condiviso dai primi Giudici) il Comune di Napoli si è limitato a dichiarare che gli ulteriori accertamenti (sic) sono stati compiuti nell’espletamento di compiti delegati dall’Autorità giudiziaria.
Da quanto rilevato dal Comune non è dato comprendere se gli atti finalizzati all’accertamento e alla repressione dei presunti abusi edilizi posti in essere nella proprietà dell’appellante:
a) siano stati delegati dall’A.G. (nel qual caso l’ostensione non sarebbe possibile);
b) coincidano con le notitiae criminis poste in essere dagli organi comunali nell’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria ad essi specificamente attribuite dall'ordinamento (nel qual caso parimenti l’ostensione non sarebbe possibile), ovvero
c) costituiscano atti di indagine e accertamento (se del caso, tradottisi in denunce all’A.G.) non compiuti nell’esercizio di funzioni di P.G., bensì nell'esercizio delle proprie istituzionali funzioni amministrative (nel qual caso, non sussistono impedimenti ad ammettere l’esercizio del diritto di accesso su tali atti).
Sono invece infondate le deduzioni dell’appellante che, incidentalmente, hanno lamentato che l’accesso sui luoghi poteva aver luogo solo previo avviso di avvio di un procedimento sanzionatorio.
Ai sensi dell’art. 27, comma 1, del testo unico sull’edilizia (approvato con il d.P.R. n. 380 del 2001), “il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale esercita, anche secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente, la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi”.
Pertanto, se del caso per il tramite dei suoi dipendenti, il dirigente o il responsabile dell’ufficio può disporre anche ad horas, informalmente e ‘a sorpresa’ l’accesso sui luoghi per verificare se sussista un illecito edilizio (avente o meno rilevanza penale), se vada emesso un ordine di sospensione dei lavori o se vada avviato un procedimento per l’emanazione di un atto di ritiro di un precedente atto abilitativo: solo in quest’ultimo caso è configurabile l’obbligo di trasmettere un formale avviso previsto dall’art. 7 della legge n. 241 del 1990.
Ciò comporta l’infondatezza della pretesa dell’interessata, di subordinare la propria collaborazione con l’ufficio al previo rilascio di un formale atto di avviso di avvio di un procedimento sanzionatorio: da un lato, ella può accedere ai verbali posti in essere dall’ufficio con riferimento alla sua posizione (purché, come sopra precisato, non siano stati posti in essere nell’esercizio di una delega trasmessa dalla autorità giudiziaria), dall’altro ella non può pretendere di visionare un atto formale di avvio di un procedimento sanzionatorio, che non va emesso per accertare la realtà di fatto caratterizzante un immobile (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.01.2013 n. 547 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Fra le cause di esclusione dalle gare pubbliche devono essere ricomprese, oltre alle ipotesi previste dall’art. 2359 del c.c., anche quelle non codificate di collegamento sostanziale le quali, attestando la riconducibilità dei soggetti partecipanti alla selezione ad un unico centro decisionale, causano o possono causare la vanificazione dei principi generali in tema di par condicio, segretezza delle offerte e trasparenza della competizione, risultando ininfluente che la rilevanza del collegamento sia stata o meno esplicitata nel bando di gara: in tal modo si intende evitare il rischio di ammettere alla gara soggetti che, in quanto legati da stretta comunanza di interessi caratterizzata da una certa stabilità, non sono ritenuti, proprio per tale situazione, capaci di formulare offerte caratterizzate dalla necessaria indipendenza, serietà ed affidabilità, coerentemente ai principi di imparzialità e buon andamento cui deve ispirarsi l'attività della pubblica amministrazione ai sensi dell'art. 97 della Costituzione.
Anche a prescindere dall'inserimento di un'apposita clausola nel bando, in presenza di indizi gravi, precisi e concordanti attestanti la provenienza delle offerte da un unico centro decisionale, è consentita l’esclusione delle imprese (benché non si trovino in situazione di controllo ex art. 2359 del c.c.) poiché altrimenti sarebbe facile eludere la descritta norma imperativa posta a tutela della concorrenza e della regolarità delle procedure di gara.
In linea di diritto, dunque, l’art. 10, comma 1-bis, della L. 109/1994 –applicabile ratione temporis alla fattispecie dedotta in giudizio (il quale vietava la partecipazione alle gare d'appalto per la realizzazione di lavori pubblici alle imprese in situazione di collegamento ai sensi dell'art. 2359 c.c.)– non può qualificarsi alla stregua di disposizione tassativa di stretta interpretazione, preclusiva dell'individuazione di fattispecie ulteriori di collegamento sostanziale tra imprese, che siano lesive del principio di segretezza delle offerte e dunque falsino la competizione e violino la par condicio tra le partecipanti alla gara.
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L’esistenza di un unico centro di interesse tra due (o più) soggetti distinti, tale da consentire uno scambio di informazioni, esige significativi elementi rilevatori di un collegamento sostanziale tra le imprese, da provare in concreto enucleando elementi oggettivi concordanti suscettibili di generare il pericolo per i principi di segretezza, serietà delle offerte e par condicio dei concorrenti.
Tale impostazione si rivela in linea con le statuizioni della Corte di giustizia, ad avviso della quale una normativa basata su una presunzione assoluta secondo cui le diverse offerte presentate per un medesimo appalto da imprese collegate si sarebbero necessariamente influenzate l’una con l’altra, viola il principio di proporzionalità, in quanto non lascia a tali imprese la possibilità di dimostrare che, nel loro caso, non sussistono reali rischi di insorgenza di pratiche atte a minacciare la trasparenza e a falsare la concorrenza tra gli offerenti.
Le amministrazioni aggiudicatrici hanno il compito di accertare se il rapporto di controllo in questione abbia esercitato un’influenza sul contenuto delle rispettive offerte depositate dalle imprese interessate nell’ambito di una stessa procedura selettiva: la constatazione di un’influenza siffatta, in qualunque forma, è sufficiente per escludere tali imprese dalla procedura di cui trattasi.

Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, fra le cause di esclusione dalle gare pubbliche devono essere ricomprese, oltre alle ipotesi previste dall’art. 2359 del c.c., anche quelle non codificate di collegamento sostanziale le quali, attestando la riconducibilità dei soggetti partecipanti alla selezione ad un unico centro decisionale, causano o possono causare la vanificazione dei principi generali in tema di par condicio, segretezza delle offerte e trasparenza della competizione, risultando ininfluente che la rilevanza del collegamento sia stata o meno esplicitata nel bando di gara (Consiglio di Stato, sez. V – 18/07/2012 n. 4189; sez. V – 06/04/2009 n. 2139): in tal modo si intende evitare il rischio di ammettere alla gara soggetti che, in quanto legati da stretta comunanza di interessi caratterizzata da una certa stabilità, non sono ritenuti, proprio per tale situazione, capaci di formulare offerte caratterizzate dalla necessaria indipendenza, serietà ed affidabilità, coerentemente ai principi di imparzialità e buon andamento cui deve ispirarsi l'attività della pubblica amministrazione ai sensi dell'art. 97 della Costituzione.
Anche a prescindere dall'inserimento di un'apposita clausola nel bando, in presenza di indizi gravi, precisi e concordanti attestanti la provenienza delle offerte da un unico centro decisionale, è consentita l’esclusione delle imprese (benché non si trovino in situazione di controllo ex art. 2359 del c.c.) poiché altrimenti sarebbe facile eludere la descritta norma imperativa posta a tutela della concorrenza e della regolarità delle procedure di gara (Consiglio di Stato, sez. VI – 17/02/2012 n. 844).
In linea di diritto, dunque, l’art. 10, comma 1-bis, della L. 109/1994 –applicabile ratione temporis alla fattispecie dedotta in giudizio (il quale vietava la partecipazione alle gare d'appalto per la realizzazione di lavori pubblici alle imprese in situazione di collegamento ai sensi dell'art. 2359 c.c.)– non può qualificarsi alla stregua di disposizione tassativa di stretta interpretazione, preclusiva dell'individuazione di fattispecie ulteriori di collegamento sostanziale tra imprese, che siano lesive del principio di segretezza delle offerte e dunque falsino la competizione e violino la par condicio tra le partecipanti alla gara (Consiglio di Stato, sez. VI – 08/05/2012 n. 2657).
La successiva evoluzione normativa e giurisprudenziale –seppur non direttamente applicabile ratione temporis– conferma la correttezza delle conclusioni raggiunte.
Il Codice dei contratti pubblici –che ha sostituito, tra l'altro, la L. 109/1994– ha recepito il consolidato orientamento della giurisprudenza in relazione al collegamento sostanziale, prevedendolo, inizialmente, come causa di esclusione che si aggiunge al collegamento formale di cui all’art. 2359, quando vi sia la prova, sulla base di univoci elementi, che due o più offerte siano riconducibili ad un unico centro decisionale (art. 34, comma 2). Attualmente il D.Lgs. 163/2006 contempla come causa di esclusione “una qualsiasi relazione, anche di fatto, se la situazione di controllo o la relazione comporti che le offerte sono imputabili ad un unico centro decisionale”, da accertare ad opera della stazione appaltante sulla base di “univoci elementi” (cfr. art. 38, comma 1, lett. m-quater, e comma 2 del D. Lgs. 163/2006, come modificato dal D.L. 25/09/2009 n. 135 conv. in L. 20/11/2009 n. 166).
L’esistenza di un unico centro di interesse tra due (o più) soggetti distinti, tale da consentire uno scambio di informazioni, esige significativi elementi rilevatori di un collegamento sostanziale tra le imprese, da provare in concreto enucleando elementi oggettivi concordanti suscettibili di generare il pericolo per i principi di segretezza, serietà delle offerte e par condicio dei concorrenti (Consiglio di Stato, sez. V – 19/06/2012 n. 3559).
Tale impostazione si rivela in linea con le statuizioni della Corte di giustizia (sentenza 19/05/2009 - causa C-538/2007), ad avviso della quale una normativa basata su una presunzione assoluta secondo cui le diverse offerte presentate per un medesimo appalto da imprese collegate si sarebbero necessariamente influenzate l’una con l’altra, viola il principio di proporzionalità, in quanto non lascia a tali imprese la possibilità di dimostrare che, nel loro caso, non sussistono reali rischi di insorgenza di pratiche atte a minacciare la trasparenza e a falsare la concorrenza tra gli offerenti (punto 30). Le amministrazioni aggiudicatrici hanno il compito di accertare se il rapporto di controllo in questione abbia esercitato un’influenza sul contenuto delle rispettive offerte depositate dalle imprese interessate nell’ambito di una stessa procedura selettiva: la constatazione di un’influenza siffatta, in qualunque forma, è sufficiente per escludere tali imprese dalla procedura di cui trattasi (punto 32) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 28.01.2013 n. 94 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 32, comma 26, lett. d), d.l. n. 269 del 2003, esclude dalla sanatoria le opere abusive realizzate su aree caratterizzate da determinate tipologie di vincoli (in particolare, quelli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali), subordinando peraltro l'esclusione a due condizioni costituite: a) dal fatto che il vincolo sia stato istituito prima dell'esecuzione delle opere abusive; b) dal fatto che le opere realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo risultino non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Da tale ricostruzione emerge un sistema che consente la sanatoria delle opere realizzate su aree vincolate solo in due ipotesi, previste disgiuntamente, costituite: a) dalla realizzazione delle opere abusive prima dell'imposizione dei vincoli; b) dal fatto che le opere oggetto di sanatoria, benché non assentite o difformi dal titolo abilitativo, risultino comunque conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Deve quindi ritenersi che la novità sostanziale della suddetta previsione normativa sia costituita proprio dall'inserimento del requisito della conformità urbanistica all'interno della fattispecie del condono edilizio (che, al contrario, prescinde di norma da un simile requisito), così dando vita ad un meccanismo di sanatoria che si avvicina fortemente all'istituto dell'accertamento di conformità previsto dall'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, piuttosto che ai meccanismi previsti dalle due leggi precedenti sul condono edilizio.

Tutto ciò premesso si rammenta innanzitutto che, per giurisprudenza costante, l’art. 32, comma 26, lett. d), d.l. n. 269 del 2003, esclude dalla sanatoria le opere abusive realizzate su aree caratterizzate da determinate tipologie di vincoli (in particolare, quelli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali), subordinando peraltro l'esclusione a due condizioni costituite: a) dal fatto che il vincolo sia stato istituito prima dell'esecuzione delle opere abusive; b) dal fatto che le opere realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo risultino non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Da tale ricostruzione emerge un sistema che consente la sanatoria delle opere realizzate su aree vincolate solo in due ipotesi, previste disgiuntamente, costituite: a) dalla realizzazione delle opere abusive prima dell'imposizione dei vincoli; b) dal fatto che le opere oggetto di sanatoria, benché non assentite o difformi dal titolo abilitativo, risultino comunque conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Deve quindi ritenersi che la novità sostanziale della suddetta previsione normativa sia costituita proprio dall'inserimento del requisito della conformità urbanistica all'interno della fattispecie del condono edilizio (che, al contrario, prescinde di norma da un simile requisito), così dando vita ad un meccanismo di sanatoria che si avvicina fortemente all'istituto dell'accertamento di conformità previsto dall'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, piuttosto che ai meccanismi previsti dalle due leggi precedenti sul condono edilizio (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VII, 14.01.2011, n. 164; TAR Campania Napoli, sez. IV, 19.01.2012, n. 247; TAR Campania Salerno, sez. II, 14.01.2011, n. 26)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.01.2013 n. 637 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non vi è dubbio che il provvedimento di diniego di condono edilizio costituisce espressione di potere vincolato rispetto ai presupposti normativi richiesti e dei quali deve farsi applicazione, sicché la mancata comunicazione del preavviso di rigetto … diviene irrilevante, stante l'applicabilità del disposto del comma 2, prima parte, dell'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990.
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Il difetto di motivazione relativo alla non conformità urbanistica non si riscontra in quanto in materia di condono edilizio vige il principio per cui è ammissibile anche una motivazione essenziale e sintetica.
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Tenuto conto della specialità del procedimento di condono rispetto all’ordinario procedimento di rilascio della concessione edilizia, nonché dell’assenza di una specifica previsione in ordine alla necessità del parere della Commissione Edilizia Integrata, l’acquisizione di tale parere, ai fini del rilascio della concessione edilizia in sanatoria, non è obbligatoria, bensì meramente facoltativa.
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Nell’attività repressiva in tema di opere edilizie abusive non è necessaria la previa comunicazione dell’avvio procedimentale di cui all’art. 7 l. 241/1990, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato.
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L’ordinanza di demolizione è sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera edilizia e, proprio in quanto atto vincolato, l’ordinanza medesima non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; né può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può giammai legittimare.
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Quanto alla omessa indicazione dell’area di sedime da acquisire nell’ipotesi di inottemperanza all’ordine di demolizione osserva il collegio come ciò non costituisca elemento essenziale dell’ordine di demolizione, né la sua mancanza causa di illegittimità dello stesso, in quanto tali indicazioni appartengono propriamente al successivo atto di accertamento dell’inottemperanza e di acquisizione gratuita al patrimonio comunale.

La violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 non sussiste. Il collegio ritiene al riguardo di aderire a quel dato orientamento giurisprudenziale secondo il quale “non vi è dubbio che il provvedimento di diniego di condono edilizio costituisce espressione di potere vincolato rispetto ai presupposti normativi richiesti e dei quali deve farsi applicazione, sicché la mancata comunicazione del preavviso di rigetto … diviene irrilevante, stante l'applicabilità del disposto del comma 2, prima parte, dell'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990” (cfr. TAR Puglia Bari, sez. III, 05.04.2012, n. 676).
Il difetto di motivazione relativo alla non conformità urbanistica non si riscontra in quanto in materia di condono edilizio vige il principio per cui è ammissibile anche una motivazione essenziale e sintetica (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 06.07.2012, n. 3969). In questa stessa direzione non è dunque neppure necessaria una specifica indicazione dell’interesse pubblico sotteso alle ragioni del suddetto diniego (al contrario di quanto evidenziato alla pag. 14 del ricorso introduttivo). Né d’altra parte la difesa della ricorrente ha fornito, in senso contrario, un sia pur minimo principio di prova in ordine alla ritenuta conformità urbanistica.
...
Sulla mancata acquisizione del parere della commissione edilizia si rammenta che, per giurisprudenza pressoché costante, “tenuto conto della specialità del procedimento di condono rispetto all’ordinario procedimento di rilascio della concessione edilizia, nonché dell’assenza di una specifica previsione in ordine alla necessità del parere della Commissione Edilizia Integrata, l’acquisizione di tale parere, ai fini del rilascio della concessione edilizia in sanatoria, non è obbligatoria, bensì meramente facoltativa” (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VIII, 05.09.2012, n. 3748). Lo specifico motivo non può dunque trovare ingresso.
Quanto all’omessa comunicazione di avvio del procedimento di demolizione si rammenta che per giurisprudenza costante “nell’attività repressiva in tema di opere edilizie abusive non è necessaria la previa comunicazione dell’avvio procedimentale di cui all’art. 7 l. 241/1990, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato” (cfr. TAR Campania Salerno, sez. II, 28.11.2012, n. 2161). Il motivo va dunque respinto.
Quanto alla demolizione della tettoia osserva il collegio come l’opera edilizia consistente nella realizzazione di tale elemento si caratterizza secondo la giurisprudenza più recente, anche di questo TAR (sez. III, 12.03.2012, n. 1246), in termini di “nuova costruzione”, tale da necessitare di previo rilascio di titolo abilitativo.
Interventi come quelli di specie, secondo la stessa giurisprudenza, innovano infatti il preesistente immobile in quanto si perviene ad un manufatto del tutto nuovo per consistenza e materiali utilizzati, come tale non riconducibile a quello già esistente che anzi viene alterato sia dal punto di vista morfologico che funzionale: dinanzi a tali significative modificazioni si impone di conseguenza la verifica di compatibilità delle opere a mezzo della previa concessione edilizia (cfr. TAR Toscana, sez. III, 26.02.2010, n. 516; Cons. Stato, sez. VI, 09.09.2005, n. 4668).
Opere siffatte –nella specie peraltro di rilevanti dimensioni, dato che essa sarebbe destinata a coprire un’intera area adibita a parcheggio– sono destinate in altre parole ad essere considerate quali importanti modificazioni del territorio e dunque alla stregua di nuove costruzioni, ai sensi dell’art. 3 del DPR n. 380 del 2001, in quanto tali suscettive di titolo abilitativo.
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Non sussiste neppure il difetto di motivazione dell’ordine demolitorio atteso che l’ordinanza di demolizione è sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera edilizia e, proprio in quanto atto vincolato, l’ordinanza medesima non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; né può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può giammai legittimare (cfr. TAR Campania Salerno, sez. II, 28.11.2012, n. 2161). Il motivo va dunque respinto.
Quanto alla omessa indicazione dell’area di sedime da acquisire nell’ipotesi di inottemperanza all’ordine di demolizione osserva il collegio come ciò non costituisca elemento essenziale dell’ordine di demolizione, né la sua mancanza causa di illegittimità dello stesso, in quanto tali indicazioni appartengono propriamente al successivo atto di accertamento dell’inottemperanza e di acquisizione gratuita al patrimonio comunale (TAR Liguria, sez. I, 26.11.2012, n. 1503)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.01.2013 n. 637 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Dopo l'adozione di un ordine demolitorio, l'acquisizione gratuita al patrimonio del Comune è conseguenza che si produce automaticamente ex lege per effetto della mancata spontanea ottemperanza dell'interessato, anche se il formale accertamento di tanto costituisce titolo necessario per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari.
Ne discende, altresì, che l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale, quale ulteriore sanzione edilizia, è atto dovuto, privo di contenuto discrezionale e che la stessa, qualora il presupposto ordine di demolizione non sia stato tempestivamente impugnato (ovvero se, proposta impugnazione, questa sia stata respinta), non può essere messa in discussione se non per vizi suoi propri.
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Il verbale di accertamento dell’inottemperanza alla precedente ordinanza di demolizione delle opere edilizie abusive redatto dal personale della Polizia Municipale ha valore endoprocedimentale e efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate con la conseguente necessità dell’adozione di un atto di accertamento da parte della competente autorità amministrativa che costituisca titolo necessario per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari.
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In assenza di un atto di accertamento dell’inottemperanza alle ordinanze di demolizione proveniente dalla competente autorità, il Collegio deve dichiarare che nel caso di specie non sussistevano i presupposti per procedere alla trascrizione dell’acquisizione gratuita del bene della società ricorrente al patrimonio comunale con conseguente obbligo per l’amministrazione comunale di adottare tutti i provvedimenti necessari per ripristinare lo status quo antecedente alla predetta trascrizione eseguita sine titulo, ferma restando la facoltà del Comune di riesercitare il proprio potere nel rispetto dell’iter procedimentale prescritto dal T.U. dell’Edilizia.

Tanto premesso deve essere evidenziato che dal chiaro tenore letterale dell'articolo 31, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 si desume che, dopo l'adozione di un ordine demolitorio, l'acquisizione gratuita al patrimonio del Comune è conseguenza che si produce automaticamente ex lege per effetto della mancata spontanea ottemperanza dell'interessato, anche se il formale accertamento di tanto costituisce titolo necessario per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari (cfr. TAR Campania, Napoli, IV, 12.12.2012, n. 5105; TAR Campania, Napoli, VII, 16.12.2009, n. 8816). Ne discende, altresì, che l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale, quale ulteriore sanzione edilizia, è atto dovuto, privo di contenuto discrezionale e che la stessa, qualora il presupposto ordine di demolizione non sia stato tempestivamente impugnato (ovvero se, proposta impugnazione, questa sia stata respinta), non può essere messa in discussione se non per vizi suoi propri.
Nel caso di specie dalla documentazione allegata si evince che il Comune di Pimonte ha proceduto alla trascrizione dell’acquisizione gratuita al patrimonio comunale del bene immobile della società ricorrente sulla base del verbale di accertamento redatto dalla Polizia Municipale n. 3 del 28.04.2011, come risulta dalla nota di trascrizione del 20.03.2012 registro generale n. 11963, registro particolare n. 9369 (depositata il 19.11.2012), senza avere previamente provveduto ad adottare un atto di accertamento che facesse proprio l’esito dell’attività della Polizia Municipale.
Occorre, allora, rammentare che secondo la consolidata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, il verbale di accertamento dell’inottemperanza alla precedente ordinanza di demolizione delle opere edilizie abusive redatto dal personale della Polizia Municipale ha valore endoprocedimentale e efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate con la conseguente necessità dell’adozione di un atto di accertamento da parte della competente autorità amministrativa che costituisca titolo necessario per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari. Tanto è vero che questa stessa Sezione, con la rammentata sentenza n. 3647/2011, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dalla società ricorrente avverso il verbale n. 3/2011 della Polizia Municipale ritenendolo atto endoprocedimentale e, come tale, non lesivo della sfera giuridica della Horses’s Funs Club s.a.s, in quanto inidoneo a consentire l’immissione nel possesso del bene e la trascrizione dell’acquisizione dello stesso.
Orbene in assenza di un atto di accertamento dell’inottemperanza alle ordinanze di demolizione proveniente dalla competente autorità, il Collegio deve dichiarare che nel caso di specie non sussistevano i presupposti per procedere alla trascrizione dell’acquisizione gratuita del bene della società ricorrente al patrimonio comunale con conseguente obbligo per l’amministrazione comunale di adottare tutti i provvedimenti necessari per ripristinare lo status quo antecedente alla predetta trascrizione eseguita sine titulo, ferma restando la facoltà del Comune di riesercitare il proprio potere nel rispetto dell’iter procedimentale prescritto dal T.U. dell’Edilizia (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.01.2013 n. 629 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di realizzazione di antenne per la telefonia mobile, il Comune che ravvisi la divergenza del titolo in formazione rispetto a disposizioni di rango nazionale o locale ben può intervenire, a mezzo del responsabile del procedimento, con richieste istruttorie (entro 15 giorni dalla presentazione della domanda) ovvero con esplicito diniego di autorizzazione (entro 90 giorni dalla presentazione della domanda), ma pur sempre nel rispetto dei termini procedimentali fissati nella disposizione nazionale, integrante un principio fondamentale di semplificazione della materia.
Altrimenti, ammettendo ad libitum l'intervento dell'autorità locale, anche al di fuori dei prescritti termini procedimentali e, quindi, dopo la formazione della fattispecie assentiva per silentium (cit. art. 87, comma 9, D.Lgs. n. 259/2003), si provocherebbe un'ingiustificabile anomalia, sul piano dell'aggravamento procedimentale, al suddetto principio fondamentale di semplificazione, apparendo invece coerente con il quadro normativo delineato che l'Amministrazione locale possa esercitare ogni proficuo controllo sulla formazione del titolo soltanto nel rispetto delle scansioni temporali imposte dalla legge sul procedimentale più volte citata (art. 87 D.Lgs. n. 259 del 2003, cit.).

Come già rilevato da questa Sezione l'art. 87 del Codice delle Comunicazioni prevede, per gli impianti di telefonia mobile, la D.I.A. ovvero il silenzio-assenso, conformemente alla ratio sottesa all'intero Codice delle Comunicazioni elettroniche, come desumibile dai criteri di delega contenuti nell'art. 41, L. n. 166 del 2002 e prima ancora nelle direttive comunitarie da recepire: previsione di procedure tempestive, non discriminatorie e trasparenti per la concessione del diritto di installazione di infrastrutture e ricorso alla condivisione delle strutture; riduzione dei termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi, nonché regolazione uniforme dei medesimi procedimenti anche con riguardo a quelli relativi al rilascio di autorizzazioni per l'installazione di infrastrutture di reti mobili, in conformità ai principi di cui alla L. 07.08.1990, n. 241 (cfr. Tar Campania, Napoli, VII, 27.01.2012, n. 426).
Tanto premesso l'atto diniego impugnato è illegittimo, in quanto intervenuto dopo il decorso del termine di novanta giorni, a decorrere dalla presentazione della domanda corredata dal progetto e finanche dalla nota prodotta da parte ricorrente in risposta alla ultima -e tardiva richiesta- di integrazione documentale (21.12.2011).
In tema di autorizzazione per la costruzione di una stazione radio-base il termine per la formazione del silenzio-assenso di cui all'art. 87, comma 9, D.Lgs. n. 259/2003 decorre dalla presentazione della domanda corredata dal progetto. Da ciò l'illegittimità del diniego, intervenuto solo il 17.07.2012, dopo la formazione del silenzio-assenso, non valendo a tal fine a interrompere ulteriormente il decorso del termine di 90 giorni il preavviso di rigetto adottato solo il 29.05.2012, a distanza di oltre 5 mesi dall’adempimento da parte della società ricorrente dell’ultima integrazione richiesta (21.12.2011). Ne discende che l'Amministrazione comunale poteva intervenire solo in autotutela.
Secondo la consolidata giurisprudenza, infatti, "in materia di realizzazione di antenne per la telefonia mobile, il Comune che ravvisi la divergenza del titolo in formazione rispetto a disposizioni di rango nazionale o locale ben può intervenire, a mezzo del responsabile del procedimento, con richieste istruttorie (entro 15 giorni dalla presentazione della domanda) ovvero con esplicito diniego di autorizzazione (entro 90 giorni dalla presentazione della domanda), ma pur sempre nel rispetto dei termini procedimentali fissati nella disposizione nazionale, integrante un principio fondamentale di semplificazione della materia. Altrimenti, ammettendo ad libitum l'intervento dell'autorità locale, anche al di fuori dei prescritti termini procedimentali e, quindi, dopo la formazione della fattispecie assentiva per silentium (cit. art. 87, comma 9, D.Lgs. n. 259/2003), si provocherebbe un'ingiustificabile anomalia, sul piano dell'aggravamento procedimentale, al suddetto principio fondamentale di semplificazione, apparendo invece coerente con il quadro normativo delineato che l'Amministrazione locale possa esercitare ogni proficuo controllo sulla formazione del titolo soltanto nel rispetto delle scansioni temporali imposte dalla legge sul procedimentale più volte citata (art. 87 D.Lgs. n. 259 del 2003, cit.)" (cfr. in termini Tar Campania, Napoli, VII, 27.01.2012, n. 426; Consiglio Stato, VI, 26.01.2009, n. 355) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.01.2013 n. 628 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per la costruzione di un’antenna o di un traliccio stabilmente ancorato al suolo, occorre il previo rilascio della concessione edilizia.
La costante giurisprudenza amministrativa ha, infatti, più volte osservato che ai sensi dell'art. 1 della legge n. 10/1977, è soggetta al rilascio della concessione edilizia ogni attività che comporti la trasformazione del territorio attraverso l'esecuzione di opere comunque attinenti agli aspetti urbanistici ed edilizi, ove il mutamento e l'alterazione abbiano un qualche rilievo ambientale ed estetico, o anche solo funzionale.
In particolare, il rilascio della concessione edilizia, e dunque il necessario riscontro di conformità, è richiesto quando si intenda realizzare un intervento sul territorio con la perdurante modifica dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo, pur in assenza di opere in muratura, anche quando si tratti di una "antenna saldamente ancorata al suolo e visibile dai luoghi circostanti", quale è quella per cui è causa.

Contrariamente a quanto sostenuto dalle società ricorrenti, per la costruzione di un’antenna o di un traliccio stabilmente ancorato al suolo, occorre il previo rilascio della concessione edilizia.
La costante giurisprudenza amministrativa ha, infatti, più volte osservato che ai sensi dell'art. 1 della legge n. 10/1977, è soggetta al rilascio della concessione edilizia ogni attività che comporti la trasformazione del territorio attraverso l'esecuzione di opere comunque attinenti agli aspetti urbanistici ed edilizi, ove il mutamento e l'alterazione abbiano un qualche rilievo ambientale ed estetico, o anche solo funzionale (cfr. in termini Tar Toscana, III, 09.07.2012, n. 1292 che a sua volta richiama Cons. Stato, V, 14.12.1994, n. 1486 ; Cons. Stato, V, 23.01.1991, n. 64).
In particolare, il rilascio della concessione edilizia, e dunque il necessario riscontro di conformità, è richiesto quando si intenda realizzare un intervento sul territorio con la perdurante modifica dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo, pur in assenza di opere in muratura (cfr. Cons. Stato, V, 01.03.1993, n. 319; Cons. Stato, V, 23.01.1991; Cons. Stato, VI, n. 5253/2001), anche quando si tratti di una "antenna saldamente ancorata al suolo e visibile dai luoghi circostanti" (Cons. Stato, V, 06.04.1998, n. 415), quale è quella per cui è causa.
Ne discende, pertanto, che vanno disattese tutte le censure con le quali le società ricorrenti asseriscono la non necessità del previo rilascio di titoli autorizzatori per l’esecuzione delle opere oggetto di demolizione, come del resto dimostra anche la successiva presentazione da parte delle stesse società di un’istanza ex art. 13 della legge n. 47/1985 (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.01.2013 n. 627 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATA: I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento, trattandosi di atti tipizzati e vincolati che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
Né d’altro è necessaria una specifica motivazione in merito all’interesse pubblico perseguito con l’ordinanza demolitoria giacché l’amministrazione, a fronte di opere prive dei prescritti titoli abilitativi e in corso di realizzazione, non può che emettere un provvedimento repressivo.
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La competenza all'emanazione di sanzioni demolitorie rese sino al giugno del 1998 deve reputarsi appartenente al Sindaco (o all'Assessore competente per materia), mentre la stessa è stata trasferita espressamente ai dirigenti ai sensi dell'art. 2, comma 12, della legge n. 191/1998.

Sono infondate e vanno disattese anche le ulteriori censure con le quali le società ricorrenti si dolgono dei vizi procedimentali di omessa comunicazione dell’avvio del procedimento e di carenza e difetto di motivazione sotto il profilo della mancata esplicitazione dell’interesse pubblico poiché i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento, trattandosi di atti tipizzati e vincolati che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime (cfr. TAR Campania, Napoli, III, 20.11.2012, n. 4655). Né d’altro era necessaria una specifica motivazione in merito all’interesse pubblico perseguito con l’ordinanza demolitoria giacché l’amministrazione, a fronte di opere prive dei prescritti titoli abilitativi e in corso di realizzazione, non poteva che emettere un provvedimento repressivo.
Va, infine, evidenziato che, a differenza di quanto affermato dalle società ricorrenti, al momento del sopralluogo dei vigili urbani il 29.09.1999 “era in fase di preparazione il montaggio delle tre unità radianti” e, quindi, i lavori o almeno parte degli stessi erano ancora in corso con conseguente reiezione anche della prima censura del ricorso proposto da Wind Telecomunicazioni s.p.a.
Deve essere rigettata anche l’eccezione di incompetenza del Dirigente ad emanare il provvedimento sanzionatorio, sollevata dalla Enel s.p.a., secondo la costante giurisprudenza, la competenza all'emanazione di sanzioni demolitorie rese sino al giugno del 1998 deve reputarsi appartenente al Sindaco (o all'Assessore competente per materia), mentre la stessa è stata trasferita espressamente ai dirigenti ai sensi dell'art. 2, comma 12, della legge n. 191/1998 (cfr. ex multis, Tar Campania, Napoli, VI, 05.06.2012, n. 2365; Tar Campania, Napoli, VI, 30.04.2008, n. 3072; Tar Toscana, III, 26.11.2010, n. 6627).
Ne discende, pertanto, che nel caso in esame non sussiste il vizio denunciato, essendo stata adottata l’ordinanza impugnata il 06.12.1999 (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.01.2013 n. 627 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' opportuno porre in luce che per consolidata giurisprudenza, l’installazione di stazioni radio base per la telefonia mobile risulta compiutamente disciplinata, con normativa speciale, dall’art. 87 Decr. Leg.vo 259/2003, il quale prevede che tutte le problematiche coinvolte, ivi comprese quelle edilizie, vengano valutate nell’ambito di un unico procedimento (attivato dall’interessato con istanza di autorizzazione o D.I.A.); ed altresì come, sempre il citato art. 87, al co. 9, stabilisca che “Le istanze di autorizzazione e le denunce di attività di cui al presente articolo, nonché quelle relative alla modifica delle caratteristiche di emissione degli impianti già esistenti, si intendono accolte qualora, entro novanta giorni dalla presentazione del progetto e della relativa domanda, fatta eccezione per il dissenso di cui al co. 8, non sia stato comunicato un provvedimento di diniego”, mentre al precedente co. 5 è precisato che “Il responsabile del procedimento può richiedere, per una sola volta, entro quindici giorni dalla data di ricezione dell’istanza, il rilascio di dichiarazioni e l’integrazione della documentazione prodotta. Il termine di cui al co. 9 inizia nuovamente a decorrere dal momento dell’intervenuta integrazione documentale”.
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Il nulla osta dell’ARPAC non condiziona il perfezionamento del titolo abilitativo, dovendo la sua acquisizione soltanto precedere l’attivazione dell’impianto di telecomunicazioni.
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Si è già posto in evidenza come l’art. 87 Decr. Leg.vo 259/2003 preveda uno specifico e unitario procedimento per l’installazione delle infrastrutture di telefonia mobile, nell’ambito del quale valutare tutti gli interessi coinvolti.
Approfondendo l’esame sul punto, va ora chiarito che, il termine di gg. 90 assegnato al co. 9 per la definizione del procedimento autorizzatorio è indiscutibilmente perentorio, in tal senso deponendo sia la formulazione letterale della disposizione (“Le istanze….si intendono accolte qualora entro novanta giorni dalla presentazione del progetto e della relativa domanda…non sia stato comunicato alcun provvedimento di diniego”), sia la sua interpretazione logico-sistematica (posto che le esigenze avute di mira dal legislatore nell’occasione sono certamente quelle acceleratorie e semplificatorie dell’iter): quindi, alla scadenza del termine suddetto, viene ex lege a formarsi un provvedimento silenzioso, autorizzatorio a tutti gli effetti e sul quale la P.A. potrà pure poi incidere negativamente, ma soltanto esercitando (in presenza dei necessari presupposti) i propri poteri di autotutela.

Così sommariamente delineato l’oggetto del giudizio, è, in punto di diritto, opportuno porre in luce che, per consolidata giurisprudenza (cfr. Cons. di Stato sez. VI, n. 5044 del 17.10.2008; Cons. di Stato sez. VI, n. 1767 del 21.04.2008; Cons. di Stato sez. VI, n. 889 del 28.02.2006; Cons. di Stato sez. VI, n. 4159 del 05.08.2005; TAR Abruzzo-Pescara n. 886 del 06.11.2008; TAR Basilicata n. 140 del 30.04.2008; TAR Campania-Napoli n. 1890 del 04.04.2008; TAR Campania-Napoli n. 1480 del 21.03.2008; TAR Campania-Napoli n. 9325 del 25.06.2008), l’installazione di stazioni radio base per la telefonia mobile risulta compiutamente disciplinata, con normativa speciale, dall’art. 87 Decr. Leg.vo 259/2003, il quale prevede che tutte le problematiche coinvolte, ivi comprese quelle edilizie, vengano valutate nell’ambito di un unico procedimento (attivato dall’interessato con istanza di autorizzazione o D.I.A.); ed altresì come, sempre il citato art. 87, al co. 9, stabilisca che “Le istanze di autorizzazione e le denunce di attività di cui al presente articolo, nonché quelle relative alla modifica delle caratteristiche di emissione degli impianti già esistenti, si intendono accolte qualora, entro novanta giorni dalla presentazione del progetto e della relativa domanda, fatta eccezione per il dissenso di cui al co. 8, non sia stato comunicato un provvedimento di diniego”, mentre al precedente co. 5 è precisato che “Il responsabile del procedimento può richiedere, per una sola volta, entro quindici giorni dalla data di ricezione dell’istanza, il rilascio di dichiarazioni e l’integrazione della documentazione prodotta. Il termine di cui al co. 9 inizia nuovamente a decorrere dal momento dell’intervenuta integrazione documentale”.
Altresì, va sottolineato come per giurisprudenza consolidata (cfr. TAR Basilicata n° 633 del 26.09.2008; TAR Campania-Salerno n° 1942 del 16.06.2008; TAR Sicilia-Catania n° 256 del 14.02.2008; TAR Campania-Napoli n° 1888 del 12.03.2008; TAR Veneto n° 1283 del 23.04.2007; TAR Campania-Napoli n° 10647 del 20.12.2006) il nulla osta dell’ARPAC non condizioni il perfezionamento del titolo abilitativo, dovendo la sua acquisizione soltanto precedere l’attivazione dell’impianto.
Ancora, va evidenziato come l’art. 86, co. 3, Decr. Leg.vo 259/2003 stabilisca che “Le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, di cui agli artt. 87 e 88, sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria cui all’art. 16, co. 7, del D.P.R. 06.06.2001 n° 380, pur restando di proprietà dei rispettivi operatori, e ad esse si applica la normativa vigente in materia”.
A tanto, va soggiunto che, con la propria ordinanza n° 40/2012 (confermata in sede di appello dal Consiglio di Stato con ordinanza n. 15601/2012), questo Tribunale, nell’accogliere l’istanza cautelare formulata dalla ricorrente, si è così espresso: “Considerato che sulla istanza di autorizzazione all’installazione di una stazione radio base per telefonia mobile (in località S. Venditto del Comune di Sessa Aurunca – codice sito CE208) presentata dalla Nokia Siemens Network Italia spa in data 2.2.2011 (prot. n. 2381) si è formato, con il decorso di gg. 90 e in assenza di tempestivi interventi amministrativi, il silenzio-assenso previsto dall’art. 87, co. 9, Decr. Leg.vo 259/2003 (posto che il parere ARPAC favorevole, peraltro intervenuto in data 16.03.2011, è necessario solo per l’attivazione dell’impianto – cfr. Cons. di Stato sez. VI, n° 7128 del 24.9.2010; TAR Basilicata n° 633 del 26.09.2008; TAR Sicilia-Catania n° 256 del 14.02.2008; TAR Sicilia-Palermo n° 9 del 9.1.2008; TAR Campania-Napoli n° 10647 del 20.12.2006; e che l’autorizzazione sismica, pure intervenuta in data 27.5.2011, condiziona soltanto la possibilità di eseguire i lavori – cfr. TAR Lazio-Latina n° 696 del 15.07.2009), la cui rimozione è possibile soltanto in sede di autotutela e a mezzo di un apposito atto che costituisca esplicazione del relativo potere; Considerato che gli impugnati provvedimenti del Comune di Sessa Aurunca non hanno tenuto in alcun conto tale circostanza, per cui risultano illegittimamente adottate la diffida prot. 1556 del 30.6.2011 e il successivo diniego dell’autorizzazione (prot. gen. n. 17794 del 18.09.2011) oggetto di gravame a mezzo di motivi aggiunti”; e che tali affermazioni vanno ribadite anche nella presente sede, di definizione del merito del giudizio.
Invero, risulta fondata l’assorbente censura incentrata su una pretesa tardività degli impugnati provvedimenti negativi, per essere questi intervenuti quando si era ormai formato il titolo autorizzatorio silenzioso ex lege, così che l’Amministrazione avrebbe potuto incidere sulla situazione determinatasi soltanto esercitando poteri di autotutela, e non certo mediante diffida a non continuare i lavori già in corso, ovvero opponendo un tardivo diniego all’originaria richiesta (come invece fatto).
In proposito, si è già posto in evidenza come l’art. 87 Decr. Leg.vo 259/2003 preveda uno specifico e unitario procedimento per l’installazione delle infrastrutture di telefonia mobile, nell’ambito del quale valutare tutti gli interessi coinvolti. Approfondendo l’esame sul punto, va ora chiarito che, il termine di gg. 90 assegnato al co. 9 per la definizione del procedimento autorizzatorio è indiscutibilmente perentorio, in tal senso deponendo sia la formulazione letterale della disposizione (“Le istanze….si intendono accolte qualora entro novanta giorni dalla presentazione del progetto e della relativa domanda…non sia stato comunicato alcun provvedimento di diniego”), sia la sua interpretazione logico-sistematica (posto che le esigenze avute di mira dal legislatore nell’occasione sono certamente quelle acceleratorie e semplificatorie dell’iter – cfr. TAR Campania-Napoli n° 21389/2008; TAR Campania-Napoli n° 5447/2007): quindi, alla scadenza del termine suddetto, viene ex lege a formarsi un provvedimento silenzioso, autorizzatorio a tutti gli effetti e sul quale la P.A. potrà pure poi incidere negativamente, ma soltanto esercitando (in presenza dei necessari presupposti) i propri poteri di autotutela (TAR Campania- Napoli, Sez. VII, sentenza 25.01.2013 n. 606 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe distinzioni normative tra strade private, pubbliche e di uso pubblico possono fornire un utile riferimento per l’individuazione dei contenuti delle nozioni tecniche definite dal citato art. 2 del d.m. nr. 236 del 1989 (ivi compresa quella di “spazio esterno”), ma non possono esaurire certo l’opera dell’interprete che sia chiamato a definire l’ambito di applicabilità della normativa in tema di abbattimento delle barriere architettoniche e dei correlativi obblighi solidaristici.
Si vuol dire, in definitiva, che, dalla ricordata ratio normativa e dalla stessa ampiezza della definizione contenuta nel citato art. 2, lettera f), del d.m. nr. 236 del 1989, discende che, perché uno spazio possa considerarsi rientrante nella nozione di “spazio esterno”, e quindi assoggettato alle prescrizioni tecniche a tutela dei portatori di handicap, è sufficiente che si tratti di un’area avvinta dall’immobile cui si deve accedere da un nesso di stretta pertinenzialità, e correlativamente che si tratti di spazio che occorre necessariamente percorrere per raggiungere l’immobile de quo provenendo dalla viabilità esterna (pubblica o privata che sia).

Al riguardo, le originarie censure di parte ricorrente si indirizzavano avverso le conclusioni del Comune, il quale aveva ritenuto nella specie non rispettata la normativa in materia di eliminazione delle barriere architettoniche, non avendo le società richiedenti provveduto a eseguire i lavori necessari ad agevolare l’accesso agli esercizi commerciali dei soggetti portatori di handicap mercé una rampa di collegamento fra l’immobile e la via de Gasperi.
Al contrario, le società ricorrenti hanno sempre negato di essere tenute a tale incombente sul rilievo che la “rampa” in questione non costituiva pertinenza esclusiva degli esercizi in questione, trattandosi di una vera e propria strada di pubblico passaggio, come testimoniato da una molteplicità di elementi (presenza di negozi, esistenza di numeri civici agli stessi etc.).
Sul punto, il TAR ha ritenuto di dover sollecitare al Comune un approfondimento istruttorio, concentrandosi il successivo contrasto inter partes sull’esatta qualificazione e sul conseguente regime da riconoscere al tracciato in questione.
La Sezione, nel concludere nel senso della correttezza delle originarie valutazioni dell’Amministrazione comunale, esprime l’avviso che queste ultime si sorreggano su una serie di considerazioni di ordine logico-giuridico che, almeno in parte, prescinde dai profili definitori su cui si è sviluppato il contrasto tra le parti nel presente giudizio.
Ed invero, la prescrizione di riferimento in ordine alle modalità tecniche da rispettare per l’eliminazione delle barriere architettoniche si rinviene nell’art. 4.2 del d.m. 14.06.1989, nr. 236, il cui precedente art. 3, alla lettera f) del comma 1, definisce gli “spazi esterni” come “l’insieme degli spazi aperti, anche se coperti, di pertinenza dell’edificio o di più edifici ed in particolare quelli interposti tra l’edificio o gli edifici e la viabilità pubblica o di uso pubblico”.
Tale disciplina regolamentare è attuativa della normativa già contenuta nella legge 09.01.1989, nr. 13, e oggi confluita negli artt. 77 e segg. del d.P.R. 06.06.2001, nr. 280, la quale a sua volta, come già altrove rilevato da questo Consiglio di Stato (cfr. sez. V, 08.03.2011, nr. 1437), risponde a valori di rango costituzionale riferibili agli artt. 2, 3 e 32 Cost.
Se questo è vero, se cioè si tratta di norme e disposizioni rispondenti alla ratio di garantire il massimo di tutela a soggetti disagiati e correlativamente a responsabilizzare in tal senso i soggetti pubblici e privati destinati a realizzare interventi incidenti sul territorio, ne consegue che la ricostruzione delle nozioni impiegate dalla normativa de qua non può basarsi sulla meccanicistica trasposizione di categorie e classificazioni ricavate da una disciplina avente finalità del tutto diverse, quale è quella sulla circolazione stradale.
In altre parole, le distinzioni normative tra strade private, pubbliche e di uso pubblico possono invero fornire un utile riferimento per l’individuazione dei contenuti delle nozioni tecniche definite dal citato art. 2 del d.m. nr. 236 del 1989 (ivi compresa quella di “spazio esterno”), ma non possono esaurire certo l’opera dell’interprete che sia chiamato a definire l’ambito di applicabilità della normativa in tema di abbattimento delle barriere architettoniche e dei correlativi obblighi solidaristici.
Si vuol dire, in definitiva, che, dalla ricordata ratio normativa e dalla stessa ampiezza della definizione contenuta nel citato art. 2, lettera f), del d.m. nr. 236 del 1989, discende che, perché uno spazio possa considerarsi rientrante nella nozione di “spazio esterno”, e quindi assoggettato alle prescrizioni tecniche a tutela dei portatori di handicap, è sufficiente che si tratti di un’area avvinta dall’immobile cui si deve accedere da un nesso di stretta pertinenzialità, e correlativamente che si tratti di spazio che occorre necessariamente percorrere per raggiungere l’immobile de quo provenendo dalla viabilità esterna (pubblica o privata che sia).
La presenza di tali presupposti, non contestata né contestabile nel caso che occupa, rende recessiva ogni considerazione circa il carattere pubblico o privato dell’area in questione, così come rende irrilevante il fatto che essa possa per avventura essere asservita anche ad altri immobili o esercizi; evidentemente il fatto che, fra i vari fruitori dell’area de qua, il legislatore abbia inteso porre gli obblighi di eliminazione delle barriere architettoniche a carico di colui che per primo realizzerà un intervento edilizio sull’immobile è frutto di una scelta ancora una volta ispirata dalla prevalenza dei richiamati obblighi solidaristici (e tale, peraltro, da non escludere che i connessi oneri economici possano essere poi regolati nei rapporti interni con gli altri e diversi soggetti che si trovino a trarre vantaggio dall’intervento posto in essere per eliminare le barriere architettoniche) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.01.2013 n. 489 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIGara senza mani. L'offerta si fa con raccomandata. Il Consiglio di stato: ok anche alla postacelere.
Esclusa dalla gara l'impresa che presenta l'offerta a mani direttamente presso gli uffici dell'amministrazione anziché utilizzare la raccomandata assicurata o postacelere del servizio postale nazionale, come richiesto dal bando.

È quanto ha stabilito la IV Sez. del Consiglio di Stato, con la sentenza 25.01.2013 n. 485.
Nel caso concreto, una impresa partecipante a una gara pubblica per l'affidamento della fornitura di vestiario della Guardia di finanza è stata esclusa dalla selezione per aver depositato la sua domanda direttamente a mani, anziché a mezzo raccomandata, assicurata o postacelere del servizio postale nazionale.
L'esclusione dalla gara, assieme all'aggiudicazione definitiva in favore dell'impresa prima classificata, è stata impugnata dalla società esclusa davanti al tribunale amministrativo regionale.
Secondo la ricorrente, il provvedimento emesso era illegittimo data la totale assenza, nella normativa comunitaria e in quella nazionale, della possibilità per la stazione appaltante di escludere l'impresa partecipante alla gara per il solo fatto di aver presentato l'offerta direttamente all'ufficio dell'amministrazione.
Il tribunale ha accolto il ricorso, di conseguenza annullando l'intera procedura di gara, compresa l'aggiudicazione disposta in favore dell'azienda risultata vincitrice.
Secondo il giudice amministrativo, infatti, la clausola del bando che vietava la presentazione diretta delle domande di partecipazione risultava illegittima se applicata nel senso di precludere la partecipazione all'impresa che non la rispetti.
La questione è stata sottoposta all'attenzione del Consiglio di stato, cui si è rivolta l'amministrazione insieme all'impresa spodestata dell'aggiudicazione. Nel contestare, sotto vari profili, la sentenza del Tar, l'amministrazione ha fatto valere la sua discrezionalità nello stabilire i criteri e le modalità di presentazione delle offerte da parte delle imprese partecipanti alla gara, così come il potere lei riconosciuto di precludere la partecipazione alla gara nel caso in cui le regole del bando vengano violate.
Palazzo Spada ha accolto l'appello proposto dall'amministrazione, chiarendo il valore della clausola oggetto della lite, anche in base a quanto prevede o, meglio, non prevede il diritto comunitario.
La sentenza ricorda come alla luce del disposto di cui all'articolo 77 del Codice dei contratti pubblici, il quale, come noto, prevede le diverse modalità di presentazione delle offerte, appaia legittima la scelta della stazione appaltante, indicata nel bando di gara, di escludere forme di autopresentazione dell'offerta.
Si osserva, in particolare, come il divieto della consegna diretta dei plichi presso gli uffici della stazione appaltante contribuisca ad assicurare la massima imparzialità dell'operato amministrativo, la parità di trattamento tra i partecipanti e la segretezza delle offerte, eliminando in radice il rischio di una dispersione di notizie riservate. Il Consiglio di stato ha poi affermato come tale interpretazione non contrasti affatto con il diritto europeo.
Infatti, il paragrafo 6 dell'articolo 42 della direttiva 2004/18/CE, il quale si limita a distinguere fra la trasmissione «per iscritto» e la forma orale, nulla afferma con riferimento alle possibili modalità (fra cui rientra anche la consegna a mano) con le quali la domanda formulata per iscritto deve essere presentata.
Pertanto, hanno concluso i giudici romani, l'amministrazione è libera di escludere dalla gara l'impresa che, in violazione del bando, abbia presentato la propria offerta a mani. Tale decisione, infatti, rientra nella sfera insindacabile della stazione appaltante (articolo ItaliaOggi del 09.02.2013).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di pertinenza urbanistica ha peculiarità sue proprie, che la differenziano da quella civilistica di cui all'art. 817 c.c., dal momento che il manufatto deve essere non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche sfornito di autonomo valore di mercato e dotato comunque di un volume modesto rispetto all'edificio principale in modo da evitare il c.d. carico urbanistico, sicché gli interventi che, pur essendo accessori a quello principale, incidono con tutta evidenza sull'assetto edilizio preesistente, determinando un aumento del carico urbanistico, devono ritenersi sottoposti a permesso di costruire.
Occorre quindi distinguere il concetto di pertinenza previsto dal diritto civile di cui all'art. 817 c.c. dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire.
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Non è possibile considerare il box una pertinenza in quanto “non risulta asservito ad alcuna edificio principale”; infatti manca la condizione principale per la configurazione di una pertinenza, essendo il ricorrente solo proprietario di un’area ove coltiva e vende fiori.
Inoltre, come rappresentato nello stesso provvedimento impugnato, il box per cui è causa, oltre a non essere coessenziale ad un bene principale, non può ritenersi di volume modesto e, date le sue dimensioni, mt. 5,08 x 3,50, deve ritenersi altresì suscettibile di utilizzazione anche in modo autonomo e separato.

Secondo una consolidata giurisprudenza, che questa Sezione ha già fatto propria e dalla quale non ha motivo di discostarsi, la nozione di pertinenza urbanistica ha peculiarità sue proprie, che la differenziano da quella civilistica di cui all'art. 817 c.c., dal momento che il manufatto deve essere non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche sfornito di autonomo valore di mercato e dotato comunque di un volume modesto rispetto all'edificio principale in modo da evitare il c.d. carico urbanistico, sicché gli interventi che, pur essendo accessori a quello principale, incidono con tutta evidenza sull'assetto edilizio preesistente, determinando un aumento del carico urbanistico, devono ritenersi sottoposti a permesso di costruire (cfr. TAR Bari, Sezione III, n. 429 del 10.03.2011).
Occorre quindi distinguere il concetto di pertinenza previsto dal diritto civile di cui all'art. 817 c.c. dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire.
Ne consegue che, condivisibilmente con quanto rappresentato dal Comune resistente nell’ordinanza impugnata, non è possibile considerare il box una pertinenza in quanto “non risulta asservito ad alcuna edificio principale”; infatti manca la condizione principale per la configurazione di una pertinenza, essendo il ricorrente solo proprietario di un’area ove coltiva e vende fiori; inoltre, come rappresentato nello stesso provvedimento impugnato, il box per cui è causa, oltre a non essere coessenziale ad un bene principale, non può ritenersi di volume modesto e, date le sue dimensioni, mt. 5,08 x 3,50, deve ritenersi altresì suscettibile di utilizzazione anche in modo autonomo e separato (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 25.01.2013 n. 99 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La pubblicazione dei titoli edilizi non fa decorrere i termini per l’impugnazione da parte del terzo occorrendo piuttosto la conoscenza cartolare del titolo e dei suoi allegati progettuali o, in alternativa, il completamento dei lavori, che disveli in modo certo e univoco le caratteristiche essenziali dell’opera, l’eventuale non conformità della stessa rispetto alla disciplina urbanistica, l’incidenza effettiva sulla posizione giuridica del terzo.
Ciò ovviamente non significa che il terzo sia libero di decidere, secondo propri calcoli e strategie, se e quanto accedere agli atti, o addirittura libero di attendere il completamento dell’opera per poi ottenerne la demolizione quale effetto dell’azione annullatoria: piuttosto la giurisprudenza, nel ricostruire la tutela del terzo alla luce dei principi di effettività e satisfattività, ha cercato un punto di equilibrio tra i menzionati principi e quello, antagonista ma ineludibile, della certezza degli atti amministrativi -sul quale basa, trovandovi al contempo i suoi limiti, il sistema di tutela degli interessi legittimi– ritenendo equo fissare il dies a quo del termine decadenziale, al momento in cui, in relazione allo stato dei lavori, sia oggettivamente apprezzabile lo scostamento dal paradigma legale.
Così, se ha un senso l’attesa, da parte del terzo, del completamento dell’opera quanto questi non sia in condizione, in un precedente stadio d’avanzamento, di apprezzare l’illegittimità del titolo abilitante, è per converso priva di giustificazione ove, ad es., l’azione annullatoria sia basata sull’inedificabilità dell’area o sull’esistenza di vincoli, ossia su vizi che emergono già al primo concreto cenno di attività edificatoria.
Ma vi è un ulteriore aspetto che struttura e conforma la tutela del terzo, ed è il principio di pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa concretantesi nel diritto di accesso agli atti amministrativi che in qualche modo possano incidere sulla sua sfera: trattasi di una posizione giuridica di vantaggio, strumentale alla tutela della situazione sostanziale finale protetta dall’ordinamento, in grado di consentire, grazie anche alla previsione di un procedimento e di un processo estremamente celere, la piena conoscenza del provvedimento e della documentazione istruttoria.
Il principio di trasparenza, cioè, sostanzia e rende effettiva la tutela del terzo attraverso il diritto alla “piena conoscenza” della documentazione amministrativa, ma tale diritto rimane uno strumento che il terzo ha l’onere di attivare non appena ha contezza od anche il ragionevole sospetto che l’attività materiale pregiudizievole, che si compie sotto i suoi occhi, sia sorretta da un titolo amministrativo abilitante, non conosciuto o non conosciuto sufficientemente.
Ovviamente qui, i risvolti sfavorevoli dell’onere, che l’istante tende ad evitare con la propria richiesta di ostensione, non riguardano la piena conoscenza della situazione amministrativa cristallizzata nel provvedimento abilitativo –essendo notorio che il diritto di accesso non è condizionato a termini decadenziali (lo è piuttosto l’azione tesa a contrastare il rifiuto)– quanto l’efficace tutela della situazione sostanziale di fondo che il richiedente intende tutelare a seguito ed in forza della piena conoscenza, questa sì soggetta a decadenza: in tal senso il diritto d’accesso è un onere.
Per restare in ambito edilizio, se lo stato di avanzamento dei lavori è già tale da indurre il sospetto di una possibile violazione della normativa urbanistica (non coincidente con l’an dell’edificazione ma con il quomodo), il ricorrente ha oltre che il diritto anche l’onere di documentarsi in ordine alle previsioni progettuali, in guisa da verificare la sussistenza di un vizio del titolo ed inibire l’ulteriore attività realizzativa che la ditta compie confidando nella presunzione di legittimità del titolo. Non può limitarsi ad attendere il completamento dell’opera omettendo di esercitare il diritto di accesso, ossia scegliendo di utilizzare lo strumento quale mero espediente per non far decorrere il termine di decadenza, poiché in tal modo agendo finisce per abusare di un diritto coniato per la sua tutela trasformandolo in uno per calibrare la futura azione giudiziaria in danno del beneficiario in buona fede, oltre che –deve aggiungersi- in danno dell’interesse pubblico ancora oggi presente nelle trame dell’intesse legittimo.
In sostanza, nel sistema delle tutele, il diritto di accesso e le modalità del suo esercizio, in mancanza di una completa ed esaustiva conoscenza del provvedimento, costituiscono fattori che, così come il completamento dei lavori ed il tipo dei vizi deducibili in relazione a tale completamento, concorrono ad individuare, con riferimento al caso concreto, il punto di equilibrio tra i principi di effettività e satisfattività da una parte, e quelli di certezza delle situazioni giuridiche e legittimo affidamento dall’altra.

In proposito la posizione della giurisprudenza è ferma nel ritenere che la pubblicazione dei titoli edilizi non fa decorrere i termini per l’impugnazione da parte del terzo (da ultimo CdS n. 3777/2012) occorrendo piuttosto la conoscenza cartolare del titolo e dei suoi allegati progettuali o, in alternativa, il completamento dei lavori, che disveli in modo certo e univoco le caratteristiche essenziali dell’opera, l’eventuale non conformità della stessa rispetto alla disciplina urbanistica, l’incidenza effettiva sulla posizione giuridica del terzo (Cfr. Consiglio di Stato, Ad. Pen. 29.07.2011, n. 15; sez. VI, 16.09.2011, n. 5170).
Ciò ovviamente non significa che il terzo sia libero di decidere, secondo propri calcoli e strategie, se e quanto accedere agli atti, o addirittura libero di attendere il completamento dell’opera per poi ottenerne la demolizione quale effetto dell’azione annullatoria: piuttosto la giurisprudenza, nel ricostruire la tutela del terzo alla luce dei principi di effettività e satisfattività, ha cercato un punto di equilibrio tra i menzionati principi e quello, antagonista ma ineludibile, della certezza degli atti amministrativi -sul quale basa, trovandovi al contempo i suoi limiti, il sistema di tutela degli interessi legittimi– ritenendo equo fissare il dies a quo del termine decadenziale, al momento in cui, in relazione allo stato dei lavori, sia oggettivamente apprezzabile lo scostamento dal paradigma legale. Così, se ha un senso l’attesa, da parte del terzo, del completamento dell’opera quanto questi non sia in condizione, in un precedente stadio d’avanzamento, di apprezzare l’illegittimità del titolo abilitante, è per converso priva di giustificazione ove, ad es., l’azione annullatoria sia basata sull’inedificabilità dell’area o sull’esistenza di vincoli, ossia su vizi che emergono già al primo concreto cenno di attività edificatoria.
Ma vi è un ulteriore aspetto che struttura e conforma la tutela del terzo, ed è il principio di pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa concretantesi nel diritto di accesso agli atti amministrativi che in qualche modo possano incidere sulla sua sfera: trattasi di una posizione giuridica di vantaggio, strumentale alla tutela della situazione sostanziale finale protetta dall’ordinamento, in grado di consentire, grazie anche alla previsione di un procedimento e di un processo estremamente celere, la piena conoscenza del provvedimento e della documentazione istruttoria.
Il principio di trasparenza, cioè, sostanzia e rende effettiva la tutela del terzo attraverso il diritto alla “piena conoscenza” della documentazione amministrativa, ma tale diritto rimane uno strumento che il terzo ha l’onere di attivare non appena ha contezza od anche il ragionevole sospetto che l’attività materiale pregiudizievole, che si compie sotto i suoi occhi, sia sorretta da un titolo amministrativo abilitante, non conosciuto o non conosciuto sufficientemente.
Ovviamente qui, i risvolti sfavorevoli dell’onere, che l’istante tende ad evitare con la propria richiesta di ostensione, non riguardano la piena conoscenza della situazione amministrativa cristallizzata nel provvedimento abilitativo –essendo notorio che il diritto di accesso non è condizionato a termini decadenziali (lo è piuttosto l’azione tesa a contrastare il rifiuto)– quanto l’efficace tutela della situazione sostanziale di fondo che il richiedente intende tutelare a seguito ed in forza della piena conoscenza, questa sì soggetta a decadenza: in tal senso il diritto d’accesso è un onere.
Per restare in ambito edilizio, se lo stato di avanzamento dei lavori è già tale da indurre il sospetto di una possibile violazione della normativa urbanistica (non coincidente con l’an dell’edificazione ma con il quomodo), il ricorrente ha oltre che il diritto anche l’onere di documentarsi in ordine alle previsioni progettuali, in guisa da verificare la sussistenza di un vizio del titolo ed inibire l’ulteriore attività realizzativa che la ditta compie confidando nella presunzione di legittimità del titolo. Non può limitarsi ad attendere il completamento dell’opera omettendo di esercitare il diritto di accesso, ossia scegliendo di utilizzare lo strumento quale mero espediente per non far decorrere il termine di decadenza, poiché in tal modo agendo finisce per abusare di un diritto coniato per la sua tutela trasformandolo in uno per calibrare la futura azione giudiziaria in danno del beneficiario in buona fede, oltre che –deve aggiungersi- in danno dell’interesse pubblico ancora oggi presente nelle trame dell’intesse legittimo.
In sostanza, nel sistema delle tutele, il diritto di accesso e le modalità del suo esercizio, in mancanza di una completa ed esaustiva conoscenza del provvedimento, costituiscono fattori che, così come il completamento dei lavori ed il tipo dei vizi deducibili in relazione a tale completamento, concorrono ad individuare, con riferimento al caso concreto, il punto di equilibrio tra i principi di effettività e satisfattività da una parte, e quelli di certezza delle situazioni giuridiche e legittimo affidamento dall’altra (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.01.2013 n. 322 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare, ok alla partecipazione con irregolarità fiscali ''pendenti''.
Ai fini della partecipazione alle gare pubbliche d'appalto non può essere considerata irregolare la posizione dell'impresa (partecipante) qualora sia ancora pendente il termine di sessanta giorni per l'impugnazione del provvedimento che imputa la commissione di violazioni gravi degli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse (o per l'adempimento) ovvero, qualora sia stata proposta impugnazione, non sia ancora passata in giudicato la pronuncia giurisdizionale.
L'adempimento o la contestazione nei termini decadenziali all'uopo fissati dalla legge implica che in precedenza le violazioni non potessero reputarsi definitivamente accertate.
Il Collegio ritiene, pertanto, che il giudice di primo grado abbia correttamente fatto applicazione dei condivisibili principi contenuti nella circolare n. 34/E del 25.05.2007, con la quale l'Agenzia delle entrate ha fornito gli indirizzi operativi ai propri uffici locali in merito alle modalità di attestazione della regolarità fiscale delle imprese partecipanti a procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, alla luce della nuova normativa introdotta dal codice dei contratti pubblici.
Secondo la menzionata circolare vi è regolarità fiscale quando, alternativamente:
- a carico dell'impresa, non risultino contestate violazioni tributarie mediante atti ormai definitivi per decorso del termine di impugnazione, ovvero, in caso di impugnazione, qualora la relativa pronuncia giurisdizionale sia passata in giudicato;
- in caso di violazioni tributarie accertate, la pretesa dell'amministrazione finanziaria risulti, alla data di richiesta della certificazione, integralmente soddisfatta, anche mediante definizione agevolata.
La circolare precisa inoltre che non può essere considerata irregolare la posizione dell'impresa partecipante qualora sia ancora pendente il termine di sessanta giorni per l'impugnazione (o per l'adempimento) ovvero, qualora sia stata proposta impugnazione, non sia passata ancora in giudicato la pronuncia giurisdizionale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.01.2013 n. 261 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'Amministrazione chiamata ad esprimersi in merito alle richieste di titoli abilitanti all'esercizio delle facoltà edificatorie deve sì compiere valutazioni di controllo della regolarità urbanistica, ma oggetto della valutazione dell'Autorità pubblica deve essere altresì la legittimazione soggettiva allo ius aedificandi ed i suoi limiti nei casi concreti (art. 11 D.P.R. n. 380 del 2001)
I ricorrenti, come già esposto in fatto, sono confinanti con l'area interessata dall'intervento per cui è causa e lamentano un pregiudizio correlato alla soppressione, prevista nel piano di lottizzazione impugnato, della preesistente stradella che in atto consente loro il passaggio pedonale e veicolare sulle particelle gravate dalla servitù, fino al congiungimento con la pubblica via.
Essi, perciò, hanno titolo ad intervenire nel procedimento di formazione della volontà amministrativa in ordine alla domanda di concessione per l’attuazione del predetto piano di lottizzazione sull’area confinante, su parte della quale grava la preesistente servitù di passaggio, e l'Amministrazione ha l'obbligo di garantire la loro partecipazione al procedimento e di valutare gli scritti e i documenti da essi presentati in merito all'oggetto del procedimento.
I ricorrenti rivestono infatti un interesse contrario alla realizzazione del piano di lottizzazione presentato dalla ditta controinteressata ed approvato dal Comune, per quanto concerne il tracciato della viabilità, che modificando l’originaria servitù di passaggio gravante su una parte dell’area da lottizzare ha di fatto determinato, con l’eliminazione dell’accesso alla via pubblica, l’interclusione del loro fondo, così come risulta dalla relazione di c.t.u. (allegato 4: “a seguito dell’approvazione del piano di lottizzazione il fondo dei ricorrenti sarebbe raggiungibile solo mediante passaggio da strade private e, a meno di una ridefinizione di una nuova servitù di passaggio, in punto di fatto il fondo è da ritenersi intercluso”) ; ed in tale posizione antitetica gli stessi avevano proposto al Comune di Vittoria l’opposizione del 24.12.2010,
L’esistenza della servitù, peraltro, era nello specifico immediatamente conoscibile da parte dell’Amministrazione comunale, atteso che la stessa risulta dal rogito di stipula della compravendita del terreno in questione da parte della società controinteressata, nel quale “la parte acquirente dichiara di essere a conoscenza che parte del suolo in oggetto rappresentato dalle particelle 851 e 1304 predette è attraversato, lungo il confine con la particella 1145, da stradella privata larga metri 5, che inizia dalla strada circonvallazione fino a immettersi nel lotto di terreno rappresentato in catasto dalle particelle 1305 e 62 del detto foglio 67;…” (quello di proprietà dei ricorrenti).
Il vincolo gravante sull’area interessata dalla realizzanda lottizzazione è inoltre riconosciuto dalla stessa controinteressata, che nelle proprie controdeduzioni all’opposizione dei ricorrenti riconosce espressamente che nel piano di lottizzazione la servitù risulta spostata rispetto al percorso originario, anche se nella prospettazione della controinteressata lo spostamento risulterebbe migliorativo per i ricorrenti.
Risulta, infine, dalla espletata c.t.u. che la preesistente servitù di passaggio è stata modificata attraverso un nuovo tracciato che, così come lamentato dai ricorrenti, rende impossibile agli stessi l’accesso alla strada pubblica, in quanto il piano prevede, al posto della stradella in atto esistente, una strada più larga di quella attuale, la quale “si collega non direttamente alla via pubblica ma tramite strade private di accesso ai vari lotti” (relazione di CTU sub punto 6). La C.T.U. conferma, dunque, che “la viabilità non rispecchia lo stato delle servitù private di passaggio e non sfrutta la via pubblica per il fondo dei ricorrenti”.
Risultano pertanto fondati i motivi di ricorso incentrati sulla violazione del contraddittorio procedimentale.
All’omessa partecipazione al procedimento dei ricorrenti confinanti non pone rimedio la risposta dell’Amministrazione comunale all’opposizione del 24.12.2010, intervenuta in corso di causa, né le deduzioni della società controinteressata alla quale il Comune, con nota del 19.01.2011, aveva trasmesso l’opposizione predetta, che erroneamente escludono che l'Amministrazione chiamata ad esprimersi in merito alle richieste di titoli abilitanti all'esercizio delle facoltà edificatorie debba compiere valutazioni diverse dal controllo della regolarità urbanistica, poiché oggetto della valutazione dell'Autorità pubblica deve essere altresì la legittimazione soggettiva allo ius aedificandi ed i suoi limiti nei casi concreti (art. 11 D.P.R. n. 380 del 2001) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 17.01.2013 n. 125 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICINell’ipotesi di opere realizzate in regime di concessione, la responsabilità per le indennità ed i risarcimenti nei confronti di terzi sono esclusivamente a carico del soggetto concessionario, qualora tale conclusione risulti conforme alle previsioni contenute nella disciplina del titolo concessorio.
In particolare, è stato affermato che in questi casi l’ente sostituto (cioè il concessionario) agisce per l’esecuzione dell’opera non in rappresentanza dell’Amministrazione sostituita, ma per competenza propria e spendendo il proprio nome di persona giuridica diversa, assumendo quindi di fronte all’espropriato o al titolare del bene occupato tutti gli obblighi relativi o derivanti dal procedimento (inclusi quelli risarcitori), con esclusione della legittimazione passiva del concedente, anche nel caso in cui quest’ultimo risulti il beneficiario delle opere realizzate.

La giurisprudenza di legittimità ha, infatti, chiarito, confermando sul punto un consistente indirizzo della giurisprudenza di merito, che, nell’ipotesi di opere realizzate in regime di concessione, la responsabilità per le indennità ed i risarcimenti nei confronti di terzi sono esclusivamente a carico del soggetto concessionario, qualora tale conclusione risulti conforme alle previsioni contenute nella disciplina del titolo concessorio.
In particolare, la Suprema Corte (cfr. Cass. Civ., Sez. I, n. 5630/2012; Cass. Civ., Sez. I, n. 26261/2007; Cass. Civ., Sez. I., n. 11139/2003 e Cass. Civ., Sez. Un., n. 388/2000) ha affermato che in questi casi l’ente sostituto (cioè il concessionario) agisce per l’esecuzione dell’opera non in rappresentanza dell’Amministrazione sostituita, ma per competenza propria e spendendo il proprio nome di persona giuridica diversa, assumendo quindi di fronte all’espropriato o al titolare del bene occupato tutti gli obblighi relativi o derivanti dal procedimento (inclusi quelli risarcitori), con esclusione della legittimazione passiva del concedente, anche nel caso in cui quest’ultimo risulti il beneficiario delle opere realizzate (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 17.01.2013 n. 79 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Bonifica ed obblighi del proprietario dell'area inquinata.
La decisione accoglie la tesi secondo la quale il proprietario di un sito contaminato, ancorché non direttamente responsabile dell'inquinamento dello stesso, ha comunque un obbligo di custodia sul proprio terreno in base all'art. 2051 del codice civile, e deve farsi carico di determinati oneri connessi alla bonifica (tra i quali i costi delle analisi Arpa) se non vuole perdere la piena disponibilità del proprio bene (TRIBUNALE Civile di Ferrara, sentenza 17.01.2013 n. 65 - link a www.lexambiente.it).

CONDOMINIO: Beni comuni, modifiche libere. Basta la maggioranza. Caso a parte è l'innovazione. Una sentenza della Cassazione chiarisce quali sono i poteri decisionali dell'assemblea.
L'assemblea condominiale può, a maggioranza, modificare o addirittura sopprimere un servizio comune, anche se questo è stato istituito e disciplinato dal regolamento, a patto che ciò non vada a incidere sui diritti dei singoli condomini. Rientra, infatti, nei poteri dell'assemblea disciplinare i beni e i servizi comuni per assicurarne una migliore e più razionale utilizzazione, anche quando ciò comporti la dismissione o il trasferimento degli stessi.
Lo ha stabilito la II Sez. civile della Corte di Cassazione nella sentenza 16.01.2013 n. 945.
Il caso concreto. Due condomini avevano citato dinanzi al tribunale il proprio condominio per impugnare la delibera con la quale era stato autorizzato a maggioranza il passaggio della tubazione del gas in facciata e l'uso dell'attuale pattumiera per alloggiare il nuovo contatore e l'eventuale caldaia di produzione di acqua calda. Il condominio aveva quindi resistito alla domanda sostenendo che i collettori condominiali dei rifiuti avevano da tempo perso la loro originaria destinazione comune e non ne avevano acquistata un'altra e che pertanto la delibera era stata assunta legittimamente, in quanto non aveva a oggetto un'innovazione ai sensi dell'art. 1120 c.c..
Il tribunale aveva rigettato la domanda e i condomini avevano quindi interposto appello, ottenendo la revisione della sentenza. La Corte di merito aveva infatti ritenuto che la decisione dell'assemblea di allocare nel vano destinato alla pattumiera il contatore e l'eventuale caldaia del gas costituisse certamente una innovazione, non vietata ma pur sempre implicante un utilizzo esclusivo, sia pure frazionato, della parte comune, radicalmente diverso da quello passato e da quello presente, ma non per questo irrilevante: la presenza ai piani inferiore e superiore delle caldaie a gas, il passaggio dei tubi, l'eventuale esecuzione dei lavori per la messa a norma degli impianti dovevano infatti considerarsi tutti atti innovativi, conseguenti alla delibera. Quest'ultima, pertanto, avrebbe dovuto essere approvata con la maggioranza dei due terzi del valore dell'edificio, che nella specie non era stata raggiunta. Di qui il ricorso in Cassazione da parte del condominio.
La decisione della Suprema corte. La seconda sezione civile della Cassazione, nell'accogliere il ricorso del condominio, ha in primo luogo chiarito come l'assemblea abbia il potere di decidere sull'intera gestione dei beni, degli impianti e dei servizi comuni. Poiché nella gestione delle parti comuni sulla base del criterio dell'unanimità la volontà contraria di un solo partecipante al condominio sarebbe sufficiente a impedire ogni decisione dell'assemblea, a parere della Suprema corte basta una deliberazione a maggioranza per modificare, sostituire o eventualmente sopprimere un servizio, purché si rimanga nei limiti della disciplina delle modalità di svolgimento del medesimo, senza incidere sui diritti dei singoli condomini.
Per quanto riguarda le innovazioni, i giudici di legittimità hanno quindi ricordato che, ai sensi dell'art. 1120 c.c., è da considerarsi tale non qualsiasi modificazione della cosa comune, ma solamente quelle che alterino l'entità materiale del bene operandone la trasformazione, ovvero determinino la trasformazione della sua destinazione, nel senso che detto bene presenti, a seguito delle opere eseguite, una diversa consistenza materiale ovvero sia utilizzato per fini diversi da quelli precedenti l'esecuzione delle opere. Ove invece la modificazione della cosa comune non assuma tale rilievo, ma risponda allo scopo di un uso del bene più intenso e proficuo, si versa nell'ambito di applicazione di quanto previsto dall'art. 1102 c.c. in tema di comunione.
Nel caso di specie è stato quindi ritenuto che la decisione dell'assemblea condominiale di sigillare le cosiddette canne pattumiere non comportasse l'approvazione di un'innovazione vietata, ma consistesse soltanto in una diversa modalità di svolgimento del servizio di smaltimento dei rifiuti, che può essere adottata dalla maggioranza dei condomini sulla base di valutazioni di opportunità che, come tali, rimangono insindacabili, quanto al merito, da parte dell'autorità giudiziaria (articolo ItaliaOggi Sette del 04.02.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Le ecopiazzole nella disciplina attuale.
E' evidente che, a seguito dell'introduzione nel d.lgs. 152/2006 della definizione di «centro di raccolta», non può più essere seguito l'orientamento che attribuiva in passato alle «ecopiazzole» la qualifica di centri di stoccaggio di rifiuti soggetti al corrispondente regime autorizzatorio, poiché tali aree sono ora normativamente individuate, ma è altrettanto evidente che, una volta determinata la nozione di «centro di raccolta», la soggezione alla relativa disciplina introdotta con i decreti ministeriali di cui si è detto in precedenza deve ritenersi riservata esclusivamente a quelle aree che presentino caratteristiche corrispondenti a quelle indicate nell'art. 183, lettera mm), del d.lgs. 152/2006.
Deve conseguentemente escludersi che, al di fuori dell'ipotesi contemplata dal legislatore, la predisposizione di aree attrezzate per il conferimento di rifiuti astrattamente riconducibili ad un generico concetto di «ecopiazzola» o «isola ecologica» possa ritenersi sottratta alla disciplina generale sui rifiuti, poiché l'intervento del legislatore ha ormai definitivamente delimitato tale nozione prevedendo, peraltro, una regime autorizzatorio e gestionale che, come si è visto, consente il conferimento ai centri di raccolta di un'ampia gamma di rifiuti in maniera controllata.
In tutti i casi in cui non vi sia corrispondenza con quanto indicato dal legislatore dovrà procedersi ad una valutazione dell'attività posta in essere secondo i principi generali in materia di rifiuti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.01.2013 n. 1690 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Modificazione strada preesistente in area vincolata.
La modificazione, in area sottoposta a vincolo paesaggistico, di una preesistente strada sterrata mediante innalzamento del piano e copertura del manto con massetto di cemento non rientra tra gli interventi di manutenzione straordinaria e deve essere preceduta dal rilascio del permesso di costruire e dalla autorizzazione dell'autorità proposta alla tutela del vincolo, in quanto comporta una modificazione ambientale di carattere stabile ed incide sull'assetto urbanistico a causa del potenziale incremento del traffico veicolare (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.01.2013 n. 1442 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATALa demolizione è inevitabile. Giù il tetto senza concessione.
Scatta l'abuso edilizio per chi realizza la tettoia senza prima chiedere al comune la concessione edilizia: inevitabile l'abbattimento dell'opera irregolare.

È quanto emerge dalla sentenza 11.01.2013 n. 265, emessa dalla VII Sez. del TAR Campania-Napoli.
Dovrà rassegnarsi il proprietario di un terreno nella Penisola sorrentina: è legittimo l'ordine di demolizione emanato dall'amministrazione locale. Risulta infatti infondata l'impugnazione proposta per violazione dell'articolo 38 della legge 47/1985, norma che dispone la sospensione di tutti i procedimenti sanzionatori, compresi gli ordini di demolizione, quando c'è l'istanza di condono. Né giova a chi ha realizzato l'intervento lamentare un'altra violazione da parte dell'ente, stavolta della legge 10/1977, sul rilievo che per la tettoia non sarebbe necessaria la concessione edilizia, dato il carattere precario dell'opera.
In realtà l'edificazione di una tettoia costituisce comunque una «nuova costruzione», cosa che impone il previo rilascio del titolo abilitativo. E ciò perché l'originario manufatto dopo la conclusione dell'opera si ritrova modificato nella forma e nella funzione. Si tratta, insomma, di un manufatto nuovo di zecca, per consistenza e materiali utilizzati, che dunque non può affatto essere ricondotto a quello preesistente.
Quando le modifiche introdotte sono significative s'impone la verifica di compatibilità delle opere mediante l'istruttoria necessaria al rilascio della concessione edilizia. Altrimenti, via libera alle ruspe. Nella specie la tettoia serve come copertura di un fondo destinato ad ampio parcheggio: ciò conferma la rilevanza della trasformazione posta in essere.
Inutile, poi, eccepire l'intervenuto condono senza mostrare la corrispondenza con le opere messe in regola. Oggetto della sanatoria è un manufatto un locale su due livelli, locale di circa metri quadrati, con ingresso indipendente. E ce ne sono altri due adibiti a cantina ricavati da un altro terrazzamento del fondo.
Insomma: nulla che abbia a che fare con la tettoia fuorilegge. La prova, precisano i giudici, non risulta fornita né in sede procedimentale, né nella presente fase giudiziale attraverso un'adeguata documentazione, anche fotografica (articolo ItaliaOggi del 06.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso agli atti della PA, basta un interesse ''potenziale''.
Per aversi un interesse qualificato ed una legittimazione ad accedere alla documentazione amministrativa è necessario trovarsi in una posizione differenziata ed avere una titolarità di posizione giuridicamente rilevante, che significa non titolarità di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo -ossia posizioni giuridiche soggettive piene e fondate- ma di una posizione giuridica soggettiva anche meramente potenziale.
Il parametro di riferimento ai fini della sollecitata delibazione in ordine al vantato diritto di accesso del ricorrente alla richiesta documentazione è costituito, ai sensi dell'art. 22, comma 1, della L. n. 241 del 1990, dalla sussistenza, in capo allo stesso, di un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata ai documenti per i quali è chiesto l'accesso, per tutelare posizioni differenziate e qualificate, e correlate a specifiche situazioni rilevanti per la legge.
Per aversi un interesse qualificato ed una legittimazione ad accedere alla documentazione amministrativa è difatti necessario trovarsi in una posizione differenziata ed avere una titolarità di posizione giuridicamente rilevante, che significa non titolarità di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo -ossia posizioni giuridiche soggettive piene e fondate- ma di una posizione giuridica soggettiva anche meramente potenziale (commento tratto da www.ispoa.it - TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 11.01.2013 n. 202 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

GIURISPRUDENZA

PUBBLICO IMPIEGO: Punteggio concorsi, titoli da allegare sempre: ''onere'' a carico dei candidati.
Nell'ambito del procedimento di concorso i titoli che il candidato intende sottoporre alla valutazione della commissione esaminatrice, onde ottenerne l'attribuzione del relativo punteggio, rientrano nella sua piena disponibilità, di modo che non possono essere attribuiti al candidato punteggi per titoli non allegati, anche se afferenti ad attività svolte presso la medesima amministrazione che ha indetto il concorso, né titoli il cui possesso è indicato, ma non documentato, a fronte di una prescrizione del bando che preveda un onere di allegazione documentale a carico del candidato.
Nell'ambito del procedimento di concorso, i titoli che il candidato intende sottoporre alla valutazione della commissione esaminatrice, onde ottenerne l'attribuzione del relativo punteggio, rientrano nella sua piena disponibilità, di modo che non possono essere attribuiti al candidato punteggi per titoli non allegati, anche se afferenti ad attività svolte presso la medesima Amministrazione che ha indetto il concorso, né titoli il cui possesso è indicato, ma non documentato, a fronte di una prescrizione del bando che preveda un onere di allegazione documentale a carico del candidato; e ciò a maggior ragione se si considera che la commissione esaminatrice non è organo ordinario dell'Amministrazione di modo che, facendo parte della sua stabile organizzazione, potrebbe essere intesa come depositaria dei relativi documenti, bensì organo straordinario, cui compete solo di sovrintendere alle prove, valutare le stesse e, nei concorsi che prevedono anche titoli valutabili, attribuire i punteggi a questi ultimi, secondo criteri predefiniti.
Infatti, laddove il bando di concorso preveda obbligatoriamente a carico dei candidati l'onere di allegazione di tutti quei documenti scientifici e di carriera che il candidato ritenga opportuno presentare agli effetti della valutazione di merito e della formazione della graduatoria, deve escludersi la possibilità di configurare in capo alla commissione esaminatrice un'attività istruttoria diretta all'acquisizione dei titoli, che l'interessato ha dichiarato di possedere, perché a tutela della "par condicio" tra i concorrenti di un pubblico concorso possono essere valutati i soli titoli prodotti dagli interessati entro il termine di presentazione della domanda stabilito dal bando (commento tratto da www.ispoa.it - TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 11.01.2013 n. 21 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Inammissibilità sequestro finalizzato alla demolizione.
In relazione a reati edilizi o paesaggistici, non è possibile disporre un sequestro preventivo finalizzato solo alla futura demolizione o rimessione in pristino dello stato dei luoghi che potranno eventualmente essere disposte con la sentenza di condanna.
E difatti, in primo luogo, con la sentenza di condanna per uno di tali reati possono essere disposte solo dette sanzioni amministrative, ma non anche la confisca del manufatto abusivo. In secondo luogo, il sequestro preventivo è funzionale al processo di merito e non può essere utilizzato per anticipare le sanzioni amministrative accessorie della demolizione o della acquisizione alla pubblica amministrazione della porzione di manufatto.
Invero, la misura cautelare del sequestro è finalizzata ad impedire la prosecuzione del reato o le conseguenze dannose dello stesso e prescinde dall'ordine di demolizione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.01.2013 n. 1262 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sviluppo sostenibile. Costruzione ed esercizio impianto fotovoltaico.
L’autorizzazione unica regionale è espressamente qualificata dall'art. 12, comma 3, d.lgs. 387/2003 (analoga disposizione reca ora l'art. 5, comma 1, d.lgs. 28/2011) come necessaria non solo per la costruzione degli impianti e delle opere ed infrastrutture connesse, ma altresì per l’esercizio degli impianti stessi.
E’ evidente che la ratio della norma è costituita dalla finalità che il controllo amministrativo da parte dell’ente regionale competente venga assicurato non solo nella fase della costruzione dell’impianto fotovoltaico, ma anche e soprattutto nella fase del suo esercizio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.01.2013 n. 1260 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ ben noto alla Sezione il principio più volte affermato secondo il quale una concessione edilizia può essere rilasciata in assenza del piano attuativo richiesto dalle norme di piano regolatore (o di p.d.f.) quando (e solo quando) in sede di istruttoria l’Amministrazione accerti che la zona in cui si inserisce il suolo destinato alla realizzanda costruzione sia pressoché completamente edificata, tale da rendere superflua un’opera di lottizzazione e , con riferimento al caso che ci occupa, ben può essere che il contesto urbanistico in cui si va collocare l’ulteriore costruzione risulti sufficientemente edificato.
Nondimeno, ben può configurarsi un’altra situazione in base alla quale pur in presenza di un avanzato stato di urbanizzazione, non può escludersi l’esistenza in capo all’Amministrazione di un apprezzamento tecnico discrezionale volto a richiedere la predisposizione di un preventivo piano esecutivo.
Invero, come altresì più volte affermato da questo Consiglio di Stato l’esigenza di un piano di lottizzazione quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia s’impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo , allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e quindi anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già urbanizzate che richiedono però una più dettagliata pianificazione.
In particolare, la necessità di un piano attuativo può rendersi indispensabile quando s’invera un’ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad un situazione che esige un piano attuativo idoneo a restituire efficienza all’abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona.
Tale evenienza può per esempio verificarsi allorché debba essere completato il sistema di viabilità secondaria nella zona o quando debba essere integrata l’urbanizzazione esistente garantendo il rispetto dei prescritti standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l’armonico collegamento con le zone contigue già asservite all’edificazione.

E’ ben noto alla Sezione il principio più volte affermato secondo il quale una concessione edilizia può essere rilasciata in assenza del piano attuativo richiesto dalle norme di piano regolatore (o di p.d.f.) quando (e solo quando) in sede di istruttoria l’Amministrazione accerti che la zona in cui si inserisce il suolo destinato alla realizzanda costruzione sia pressoché completamente edificata, tale da rendere superflua un’opera di lottizzazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 01.08.2007 n. 4276; Sez. V, 05.10.2011 n. 5450) e , con riferimento al caso che ci occupa, ben può essere che il contesto urbanistico in cui si va collocare l’ulteriore costruzione risulti sufficientemente edificato.
Nondimeno a fronte della situazione rappresentata dalle deduzioni formulate dall’interessato ben può configurarsi un’altra situazione in base alla quale pur in presenza di un avanzato stato di urbanizzazione, non può escludersi l’esistenza in capo all’Amministrazione di un apprezzamento tecnico discrezionale volto a richiedere la predisposizione di un preventivo piano esecutivo.
Invero, come altresì più volte affermato da questo Consiglio di Stato l’esigenza di un piano di lottizzazione quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia s’impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo , allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e quindi anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già urbanizzate che richiedono però una più dettagliata pianificazione (in tal senso, Cons. Stato, Sez. IV 01.10.2007 n. 5043; Sez. V 01.12.2003 n. 7799 e 06.10.2000 n. 5326).
In particolare, la necessità di un piano attuativo può rendersi indispensabile quando s’invera un’ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad un situazione che esige un piano attuativo idoneo a restituire efficienza all’abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (Cons. Stato,Sez. IV, 15.05.2002 n. 2592).
Tale evenienza può per esempio verificarsi allorché debba essere completato il sistema di viabilità secondaria nella zona o quando debba essere integrata l’urbanizzazione esistente garantendo il rispetto dei prescritti standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l’armonico collegamento con le zone contigue già asservite all’edificazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.01.2013 n. 26 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl proprietario di un fondo va ritenuto responsabile dei manufatti abusivi eseguiti sullo stesso, poiché si presume, fino a prova contraria, quanto meno corresponsabile dell’abuso, non avendo l’Amministrazione l’obbligo di compiere accertamenti giuridici circa l’esistenza di particolari rapporti interprivati, ma solo l’onere di individuare il proprietario catastale.
In primo luogo, il ricorrente afferma la propria estraneità alla realizzazione del predetto box, che sarebbe invece stato edificato da un'impresa appaltatrice delle Ferrovie Nord, unitamente alla recinzione, nell'ambito di una sistemazione dell'area di che trattasi, previa cessione bonaria di alcune porzioni di terreno da parte dello stesso ricorrente.
I predetti argomenti, in mancanza di qualunque allegazione volta a dimostrare, anche in via presuntiva, che il predetto box è stato effettivamente realizzato da parte di un'impresa all'uopo incarica da Ferrovie Nord, non hanno alcun pregio. Il proprietario di un fondo va infatti ritenuto responsabile dei manufatti abusivi eseguiti sullo stesso, poiché si presume, fino a prova contraria, quanto meno corresponsabile dell’abuso, non avendo l’Amministrazione l’obbligo di compiere accertamenti giuridici circa l’esistenza di particolari rapporti interprivati, ma solo l’onere di individuare il proprietario catastale (C.S. Sez. V 31.03.2010 n. 1878).
Inoltre, la lettera prot. n. 6798 del 26.07.1996, con cui le Ferrovie Nord S.p.a. hanno comunicato all'attuale ricorrente l'accertamento di un’infrazione a suo carico, consistente nella "costruzione di un box e locale a ridosso della recinzione" dell'area di proprietà della stessa, irrogando una sanziona pecuniaria, non risulta essere stata impugnata, né ritirata, ciò che conferma la debolezza delle predette affermazioni del ricorrente, che non ha ritenuto di contestare formalmente il detto provvedimento (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 09.01.2013 n. 61 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa nozione di pertinenza urbanistica, sottoposta in quanto tale al regime autorizzatorio in luogo di quello concessorio, ha peculiarità proprie che la distinguono da quella civilistica, dal momento che il manufatto deve essere non solo preordinato ad una oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve essere anche sfornito di autonomo valore di mercato, e dotato comunque di un volume modesto rispetto all'edificio principale, in modo da evitare il c.d. carico urbanistico. Integrano pertanto gli estremi dell'abuso edilizio strutture ancorate al suolo insediate definitivamente in loco, non potendo avere natura di pertinenza laddove vengano a gravare da sole sul fondo, senz'altra costruzione eretta con titolo idoneo alla quale collegare alcun vincolo.
Alle luce di quanto precede, il box ed il ricovero per gli animali realizzati dal ricorrente, non possono essere ricondotti alla nozione di pertinenza, trattandosi di opere che modificano l'assetto del territorio, e che occupano aree e volumi diversi rispetto alla "res principalis", indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa.
In materia di pertinenza edilizia, ciò che importa è infatti l'oggettiva idoneità del fabbricato ad incidere sullo stato dei luoghi, prescindendo dall'intenzione del proprietario in ordine alla sua utilizzabilità. A contrario, la giurisprudenza ha riconosciuto ascrivibili alla nozione di pertinenza fattispecie radicalmente differenti da quelle per cui è causa, come nel caso di un pergolato, di un muretto di recinzione, accompagnata dall'apposizione di ringhiere e cancelli metallici, o di una ringhiera protettiva e di scala in ferro per l'accesso ad un terrazzo, la cui incidenza sullo stato dei luoghi è ben minore rispetto a quanto riscontrabile nelle opere di che trattasi.

Secondariamente, il ricorrente sostiene che, quanto al box ed al ricovero di animali, si sarebbe in presenza di opere di modeste dimensioni e di natura pertinenziale, ricompresse nell'ambito di applicazione dell'art. 7 della L. 25.03.1982 n. 94, e come tali soggette a mera autorizzazione, rispetto alle quali non potrebbe applicarsi la normativa sanzionatoria di cui all'art. 7 della L. n. 47/1985, dettata invece per le opere abusive di maggiori entità.
Sul punto, il Collegio richiama l'orientamento giurisprudenziale secondo cui la nozione di pertinenza urbanistica, sottoposta in quanto tale al regime autorizzatorio in luogo di quello concessorio, ha peculiarità proprie che la distinguono da quella civilistica, dal momento che il manufatto deve essere non solo preordinato ad una oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve essere anche sfornito di autonomo valore di mercato, e dotato comunque di un volume modesto rispetto all'edificio principale, in modo da evitare il c.d. carico urbanistico (C.S. Sez. V 22.10.2007 n. 5515). Integrano pertanto gli estremi dell'abuso edilizio strutture ancorate al suolo insediate definitivamente in loco, non potendo avere natura di pertinenza laddove vengano a gravare da sole sul fondo, senz'altra costruzione eretta con titolo idoneo alla quale collegare alcun vincolo (TAR Liguria, Sez. I 25.11.2003 n. 1569).
Alle luce di quanto precede, il box ed il ricovero per gli animali realizzati dal ricorrente, non possono essere ricondotti alla nozione di pertinenza, trattandosi di opere che modificano l'assetto del territorio, e che occupano aree e volumi diversi rispetto alla "res principalis", indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa (C.S. Sez. IV 02.02.2012 n. 615). In materia di pertinenza edilizia, ciò che importa è infatti l'oggettiva idoneità del fabbricato ad incidere sullo stato dei luoghi, prescindendo dall'intenzione del proprietario in ordine alla sua utilizzabilità (TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. II 11.10.2007 n. 2286). A contrario, la giurisprudenza ha riconosciuto ascrivibili alla nozione di pertinenza fattispecie radicalmente differenti da quelle per cui è causa, come nel caso di un pergolato (TAR Liguria Sez. I, 27.01.2012 n. 195), di un muretto di recinzione, accompagnata dall'apposizione di ringhiere e cancelli metallici (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II 10.06.2008 n. 647), o di una ringhiera protettiva e di scala in ferro per l'accesso ad un terrazzo (TAR Piemonte, Sez. I, 25.03.2008 n. 505), la cui incidenza sullo stato dei luoghi è ben minore rispetto a quanto riscontrabile nelle opere di che trattasi (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 09.01.2013 n. 61 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mega-antenne. Il comune deve tacere. Lo dice il cds.
Non si può espellere la mega-antenna per cellulari dal centro abitato. Illegittima la delibera del comune che indica distanze minime per l'installazione delle stazioni radio base, che forniscono un servizio di interesse nazionale. È così che risulta illegittima la delibera dell'amministrazione che autorizza sì astrattamente la realizzazione degli impianti, ma a patto che ciò avvenga fuori dal centro abitato: l'ente locale deve adottare precisi criteri di localizzazione senza poter porre limiti generici.

È quanto emerge dalla sentenza 09.01.2013 n. 44, pubblicata dalla VI Sez. del Consiglio di stato, che dimostra come oggi più che mai la questione sia tutt'altro che pacifica in giurisprudenza.
Ha ragione la società che vuole installare la mega-antenna e ha ottenuto l'annullamento della delibera consiliare. Ai comuni è consentito individuare criteri localizzativi degli impianti di telefonia mobile, ad esempio il divieto di collocare antenne su specifici edifici, come ospedali, case di cura e altri fabbricati del genere. L'amministrazione, tuttavia, non può introdurre astratte limitazioni alla localizzazione, che consistono criteri distanziali generici.
In particolare risultano illegittime le norme che prescrivono distanze minime, da rispettare nell'installazione degli impianti, dal perimetro esterno di edifici destinati ad abitazioni, a luoghi di lavoro o ad attività diverse da quelle connesse all'esercizio degli impianti. E altrettanto vale per scuole, asili nido, immobili vincolati dalle soprintendenze e aree verdi. La copertura dei cellulari è interesse di tutti.
La pronuncia è in contrasto con una recente sentenza del Tar Puglia, la 1984/2012, secondo cui la mega-antenna nel centro storico non s'ha da fare perché l'impianto di quasi venti metri di altezza stonerebbe senz'altro a pochi metri da un luogo di culto di interesse storico. In quel caso i giudici hanno invece sottolineato che la giurisprudenza interpreta la normativa nel senso che l'ente locale ha senz'altro facoltà di disciplinare, con un suo regolamento, i divieti d'installazione di impianti (articolo ItaliaOggi del 09.02.2013).

PUBBLICO IMPIEGOVIGILI/ - La rotazione giustifica l'indennità.
Non basta organizzare il servizio di polizia municipale in turni per erogare la corrispondente indennità agli agenti. Occorre anche l'effettiva rotazione degli operatori.

Lo ha ribadito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 07.01.2013 n. 11.
Il comune di Torre Annunziata ha istituito e regolato il normale servizio di polizia locale su più turni giornalieri e per questo motivo alcuni agenti hanno richiesto indennità arretrate senza dimostrare l'effettiva rotazione degli stessi tra il servizio meridiano e antimeridiano. Contro il rigetto di questa richiesta gli interessati hanno proposto censure ai giudici amministrativi ma senza successo.
Per erogare l'indennità di turno alla polizia locale, specifica la sentenza, non è sufficiente appartenere a strutture attive per oltre 12 ore al giorno. Serve l'effettiva partecipazione individuale degli operatori alla turnazione. In buona sostanza se anche ci sono i turni ma i dipendenti lavorano sempre nello stesso arco temporale non scatta il diritto all'erogazione dell'indennità (articolo ItaliaOggi dell'08.02.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Consiglio di Stato. Va dimostrata l'articolazione. All'indennità di turno serve l'organizzazione preventiva.
LE CONDIZIONI/ Il personale in servizio deve partecipare in modo effettivo alla rotazione dell'orario di lavoro.
L'indennità di turno può essere riconosciuta solo se l'ente ha prima deliberato un modello organizzativo che la preveda, e se i dipendenti ruotano in misura equilibrata tra i vari turni.

Sono questi i principi affermati dal Consiglio di Stato, V Sez., con la sentenza 07.01.2013 n. 11.
La sentenza si caratterizza per il carattere vincolante che assume la preventiva attivazione del servizio, scelta che non può avere carattere retroattivo. Occorre inoltre aggiungere, come condizione per il riconoscimento di questo compenso, la non interruzione del servizio nell'arco temporale di almeno 10 ore.
I giudici amministrativi negano che «l'indennità di turnazione sarebbe dovuta per il solo e mero dato di fatto dello svolgimento dell'attività di servizio secondo, appunto, una turnazione». Occorre dimostrare «l'esistenza di una corrispondente organizzazione del relativo apparato amministrativo da parte degli organi di governo dell'ente: l'organizzazione delle prestazioni di lavoro deve avvenire attraverso la predisposizione di orari e turni, mediante la programmazione dei piani di lavoro e prescrivendo la loro verifica con sistemi obiettivi di controllo degli orari di servizio, tali da assicurare che dette prestazioni siano rese».
In altri termini, solo dopo che le Giunte hanno deliberato l'organizzazione di un servizio in modo da soddisfare i requisiti previsti dai contratti per la turnazione, matura il diritto alla erogazione di questo compenso. A rafforzamento di tale tesi viene chiarito che prima di questa deliberazione «le turnazioni eventualmente già esistenti sul mero piano fattuale sarebbero state prive di rilevanza giuridica».
La semplice presenza di un orario di servizio che si articola per almeno 10 ore giornaliere consecutive non giustifica la erogazione di questo compenso; occorre infatti verificare che le modalità di effettivo svolgimento di questa attività da parte dei singoli dipendenti siano rispondenti al requisito della rotazione in modo equilibrato nell'arco del mese. Viene chiarito che non è sufficiente la mera appartenenza a strutture che comportino un'erogazione continuativa di servizi per almeno dodici ore, occorrendo anche, e soprattutto, il presupposto dell'effettiva partecipazione individuale a delle turnazioni. In altre parole, l'indennità spetta solo se vi siano state rotazioni del personale interessato tra i turni predisposti dall'amministrazione.
Se, invece, un'amministrazione organizza un proprio servizio in più turni, ma i dipendenti assegnati ad esso non ruotano, bensì operano sempre nello stesso arco temporale, ai medesimi non può essere riconosciuta alcuna maggiorazione. Dal che se ne deve trarre la conclusione che, nell'ambito di un servizio che preveda l'articolazione in turni, ma non per tutti i dipendenti, la indennità di turnazione spetta solamente a coloro che ruotano in modo bilanciato tra la mattina, il pomeriggio e, eventualmente, la notte (articolo Il Sole 24 Ore del 04.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI SERVIZI: Sull'offerta anomala.
Di discrezionalità tecnica vera e propria può parlarsi solo nel caso in cui presupposto applicativo della norma attributiva del potere sia non già un fatto in sé considerato, ma la qualificazione che di esso ne dà la pubblica amministrazione assumendo a parametro valutativo l’interesse pubblico. In altre parole, vi è vera e propria discrezionalità (tecnica) quando la legge, ai fini dell’esercizio del potere, impone alla p.a. di attribuire ad un fatto una certa qualità, da apprezzare alla stregua dell’interesse pubblico primario perseguito dalla stessa.
Anche nella discrezionalità amministrativa la p.a. è chiamata ad operare una scelta sulla base dell’interesse pubblico, ma la discrezionalità tecnica si distingue da essa per due elementi: perché la seconda, a differenza della prima, è funzionale non già ad individuare il contenuto più opportuno da dare al provvedimento, ma ad individuare la sussistenza di un presupposto applicativo della norma attributiva del potere; e perché nella discrezionalità tecnica l’interesse pubblico assume rilievo in maniera isolata, e manca quindi quella attività di comparazione con gli interessi pubblici secondari e con gli interessi privati che caratterizza invece la discrezionalità amministrativa.
In ambito contrattuale, esempio di esercizio di discrezionalità tecnica si ha nella fattispecie contemplata dall’art. 38, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 163/2006, che impone l’esclusione dalle procedure di affidamento dei contratti pubblici dei soggetti che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, abbiano commesso gravi errori nell’esecuzioni di precedenti contratti.
In questa ipotesi il potere di esclusione è riservato ad un apprezzamento discrezionale della p.a. la quale deve qualificare, utilizzando quale parametro di valutazione anche l’interesse pubblico perseguito, l’inadempimento o l’errore in precedenza commessi dal concorrente, al fine di stabilire se essi siano di gravità tale da determinare la rottura del rapporto fiduciario che deve necessariamente intercorrere con il concorrente.
Secondo il Collegio, non viene al contrario in rilievo la discrezionalità tecnica quando presupposto applicativo della norma attributiva del potere sia il fatto in sé considerato.
In questo caso, pur se l’accertamento dipende dall’espletamento di operazioni complicate che possono dar luogo a risultati opinabili, la discrezionalità manca del tutto in quanto la p.a. è chiamata ad accertare la mera sussistenza di un fatto senza dover procedere alla sua qualificazione alla stregua dell’interesse pubblico perseguito: la Sezione ha definito tali accertamenti “valutazioni tecniche complesse non discrezionali”; ed ha affermato che, proprio in ragione dell’assenza di qualsiasi apprezzamento dell’interesse pubblico, per essi è possibile procedere ad un sindacato forte che consenta al giudice (per mezzo del consulente) di sostituirsi alla p.,a. nell’accertamento del fatto.
Ritiene il Collegio che la valutazione di anomalia dell’offerta possa essere ascritta a quest’ultima categoria.
Se si ritiene, come sembra fare la giurisprudenza prevalente, che tale valutazione consista unicamente nel verificare se i costi sostenuti dall’offrente siano o meno coperti dal prezzo proposto nell’offerta e, quindi, tali da generare un utile non irrisorio, si deve altresì ritenere che essa si risolva in sostanza in una mera operazione matematica e, dunque, in un’operazione valutativa, per quanto complessa, volta al mero accertamento della sussistenza di un fatto in sé considerato, che non involge alcun apprezzamento dell’interesse pubblico perseguito dalla stazione appaltante e che, per tali ragioni, non presenta i caratteri della discrezionalità.
Ne consegue che al provvedimento di esclusione per ritenuta anomalia dell’offerta presentata dal concorrente può ritenersi applicabile il primo periodo del secondo comma del citato art. 21-octies della legge n. 241/1990 (riguardante, come detto, gli atti vincolati); sicché una volta accertata dal giudice la sostanziale correttezza della scelta operata, non sarà possibile pronunciarne l’annullamento qualunque siano le violazioni procedimentali riscontrate.
In proposito la Sezione intende svolgere due considerazioni.
In primo luogo, intende verificare se effettivamente la valutazione di anomalia dell’offerta sia frutto di attività discrezionale.
Sul punto, va osservato che, in diverse pronunce, la Sezione ha rilevato che di discrezionalità tecnica vera e propria può parlarsi solo nel caso in cui presupposto applicativo della norma attributiva del potere sia non già un fatto in sé considerato, ma la qualificazione che di esso ne dà la pubblica amministrazione assumendo a parametro valutativo l’interesse pubblico. In altre parole, vi è vera e propria discrezionalità (tecnica) quando la legge, ai fini dell’esercizio del potere, impone alla p.a. di attribuire ad un fatto una certa qualità, da apprezzare alla stregua dell’interesse pubblico primario perseguito dalla stessa (cfr. TAR Lombardia Milano, Sez. III, 06.04.2009, n. 3153).
Anche nella discrezionalità amministrativa la p.a. è chiamata ad operare una scelta sulla base dell’interesse pubblico, ma la discrezionalità tecnica si distingue da essa per due elementi: perché la seconda, a differenza della prima, è funzionale non già ad individuare il contenuto più opportuno da dare al provvedimento, ma ad individuare la sussistenza di un presupposto applicativo della norma attributiva del potere; e perché nella discrezionalità tecnica l’interesse pubblico assume rilievo in maniera isolata, e manca quindi quella attività di comparazione con gli interessi pubblici secondari e con gli interessi privati che caratterizza invece la discrezionalità amministrativa.
In ambito contrattuale, esempio di esercizio di discrezionalità tecnica si ha nella fattispecie contemplata dall’art. 38, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 163/2006, che impone l’esclusione dalle procedure di affidamento dei contratti pubblici dei soggetti che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, abbiano commesso gravi errori nell’esecuzioni di precedenti contratti.
In questa ipotesi il potere di esclusione è riservato ad un apprezzamento discrezionale della p.a. la quale deve qualificare, utilizzando quale parametro di valutazione anche l’interesse pubblico perseguito, l’inadempimento o l’errore in precedenza commessi dal concorrente, al fine di stabilire se essi siano di gravità tale da determinare la rottura del rapporto fiduciario che deve necessariamente intercorrere con il concorrente (cfr. Cassazione civile, sez. un., 17.02.2012 n. 2312).
Secondo il Collegio, non viene al contrario in rilievo la discrezionalità tecnica quando presupposto applicativo della norma attributiva del potere sia il fatto in sé considerato.
In questo caso, pur se l’accertamento dipende dall’espletamento di operazioni complicate che possono dar luogo a risultati opinabili, la discrezionalità manca del tutto in quanto la p.a. è chiamata ad accertare la mera sussistenza di un fatto senza dover procedere alla sua qualificazione alla stregua dell’interesse pubblico perseguito: la Sezione ha definito tali accertamenti “valutazioni tecniche complesse non discrezionali”; ed ha affermato che, proprio in ragione dell’assenza di qualsiasi apprezzamento dell’interesse pubblico, per essi è possibile procedere ad un sindacato forte che consenta al giudice (per mezzo del consulente) di sostituirsi alla p.,a. nell’accertamento del fatto (cfr. TAR Lombardia Milano sent. n. 3153/2009 cit.).
Ritiene il Collegio che la valutazione di anomalia dell’offerta possa essere ascritta a quest’ultima categoria.
Se si ritiene, come sembra fare la giurisprudenza prevalente, che tale valutazione consista unicamente nel verificare se i costi sostenuti dall’offrente siano o meno coperti dal prezzo proposto nell’offerta e, quindi, tali da generare un utile non irrisorio, si deve altresì ritenere che essa si risolva in sostanza in una mera operazione matematica e, dunque, in un’operazione valutativa, per quanto complessa, volta al mero accertamento della sussistenza di un fatto in sé considerato, che non involge alcun apprezzamento dell’interesse pubblico perseguito dalla stazione appaltante e che, per tali ragioni, non presenta i caratteri della discrezionalità.
Ne consegue che al provvedimento di esclusione per ritenuta anomalia dell’offerta presentata dal concorrente può ritenersi applicabile il primo periodo del secondo comma del citato art. 21-octies della legge n. 241/1990 (riguardante, come detto, gli atti vincolati); sicché una volta accertata dal giudice la sostanziale correttezza della scelta operata, non sarà possibile pronunciarne l’annullamento qualunque siano le violazioni procedimentali riscontrate.
Ciò è quanto accaduto nella fattispecie di cui è causa, nella quale, come visto, è stata accertata in giudizio la sostanziale correttezza delle valutazioni operate dal Comune di Milano. Ne consegue la non annullabilità dell’atto impugnato.
Ritiene peraltro il Collegio (e qui si viene alla seconda considerazione) che, sulla base delle ragioni che verranno appresso sviluppate, l’annullamento non possa comunque pronunciarsi, anche volendo ritenere che il giudizio di congruità dell’offerta sia connotato da effettiva discrezionalità. La discrezionalità può ritenersi effettivamente sussistente se si ammette che il giudizio di anomalia non scaturisce in maniera automatica dall’accertata insostenibilità dei costi rilevati nell’offerta, ma anche da un apprezzamento della p.a. volto a valutare, alla luce dei propri interessi, se l’assenza o l’esiguità dell’utile ovvero, addirittura, la perdita siano o meno decisivi per minare l’affidamento circa la corretta esecuzione del contratto.
Come anticipato, il secondo periodo dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990, stabilisce che anche i provvedimenti discrezionali non possono essere annullati qualora sia verificata in giudizio la loro sostanziale correttezza. Tuttavia, in questa ipotesi, secondo la lettera della legge, l’effetto salvifico si produce solo in caso di omissione dall’avviso di avvio del procedimento.
La Sezione ha tuttavia di recente affermato che tale disposizione è applicabile, in via analogica, anche quando sia mancato l’inoltro, non già dell’avviso di avvio del procedimento, ma del preavviso di rigetto di cui all’art. 10 bis della legge n. 241/1990, stante l’omogeneità funzionale e strutturale dei due adempimenti procedimentali (cfr. TAR Milano Lombardia, sez. III, 13.09.2011 n. 2209).
A maggior ragione deve ammettersi l’applicazione analogica della stessa disposizione qualora la violazione riscontrata riguardi anch’essa un passaggio del procedimento, funzionale alla garanzia del contraddittorio, così come lo sono le due comunicazioni suindicate, ma abbia, rispetto a queste ultime, un impatto meno rilevate sugli interessi dell’amministrato. E’ invero assurdo, a parere del Collegio, consentire la salvezza di un provvedimento quando, prima della sua adozione, sia stato del tutto precluso al destinatario di far valere i propri interessi, non avendo questi, in ragione del mancato inoltro dell’avviso di avvio del procedimento, neppure avuto contezza della sussistenza dello stesso; e negarla quando il destinatario, pur avendo partecipato al procedimento, non abbia potuto fruire di alcuni passaggi procedimentali specifici che gli avrebbero consentito solo una migliore illustrazione dei propri interessi e delle proprie ragioni.
Nel caso concreto, come anticipato, il ricorrente ha partecipato attivamente al sub procedimento di verifica dell’anomalia; pertanto, la mancata effettuazione dell’audizione orale non gli ha precluso di far valere dinanzi alla p.a. i propri interessi. Ne consegue che, in applicazione dell’art. 21-ocites, comma 2, secondo periodo, della legge n. 241/1990, l’omissione di tale passaggio procedimentale non può ritenersi decisivo ai fini della pronuncia di annullamento dell’atto qui impugnato.
Preme al Collegio ribadire che persuadono della bontà delle argomentazioni teoriche sin qui sviluppate considerazioni eminentemente pratiche: si richiama in proposito quanto sopra rilevato circa l’inutilità per il ricorrente di una pronuncia di annullamento basata su rilievi aventi esclusivamente carattere formale
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 28.12.2012 n. 3239 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Ordinanza di sgombero di rifiuti rivolta al proprietario del fondo.
E illegittima l'ordinanza di sgombero di rifiuti rivolta al proprietario del fondo, in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente dell'imputabilità soggettiva della condotta, ancorché fondata su ragionevoli presunzioni o su condivisibili massime d'esperienza, atteso che, ai sensi dell'art. 192, d.lgs. 03.04.2006 n. 152, la responsabilità solidale del proprietario del fondo, non è di natura oggettiva, ma è ravvisabile soltanto se l'Amministrazione dimostri la sussistenza dell'elemento psicologico di dolo o colpa alla base della condotta omissiva o commissiva.
Nel caso di specie i rifiuti non sono peraltro stati rinvenuti sull'area di proprietà della ricorrente, ma come detto, nelle vicinanze di una piazzola ecologica il cui accesso non risultava adeguatamente regolamentato, ciò che induce ad applicare i detti principi di limitazione di responsabilità in termini maggiormente restrittivi (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 14.12.2012 n. 3042 - tratto da www.lexambiente.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOTribunale di Lecco. Indennità di disagio cumulabile con la vigilanza
L'indennità di disagio erogata ai vigili impegnati in turni stradali può essere cumulata a quella di vigilanza ordinariamente attribuita agli operatori di polizia locale.

Lo ha chiarito il TRIBUNALE di Lecco con la sentenza 14.12.2012 n. 239.
Il comune lombardo ha subito censure da parte degli organi di controllo per aver erogato alla polizia municipale l'indennità di disagio unitamente a quella di vigilanza. Per evitare responsabilità erariali l'amministrazione ha quindi richiesto agli operatori la restituzione degli importi versati e contro queste ingiunzioni di pagamento gli interessati hanno proposto con successo ricorso al giudice del lavoro.
L'indennità di disagio, specifica la sentenza, è stata prevista dall'art. 17/2° del ccnl 1999 «per compensare l'esercizio di attività svolte in condizioni particolarmente disagiate da parte del personale delle categorie a, b, e c». Spetta poi alla contrattazione decentrata integrativa disciplinare nel dettaglio l'indennità e in questo caso il comune di Lecco ha adottato un contratto aziendale favorevole al riconoscimento dell'indennità di disagio al personale di polizia locale «che presti servizio all'esterno e lavori su tre turni».
L'indennità di vigilanza è stata introdotta nell'ordinamento dal dpr n. 347/1983 con il quale è stata attribuito un particolare riconoscimento economico al personale dell'area vigilanza impegnato in attività esterna (articolo ItaliaOggi dell'08.02.2013).

PUBBLICO IMPIEGOa) in linea generale l’equipollenza fra titoli di studio in vista della partecipazione a pubblici concorsi, può essere stabilita dalle norme, primarie o secondarie, ma non dall’amministrazione o dal giudice;
b) quando un bando richiede tassativamente il possesso di un determinato titolo di studio per l’ammissione ad un pubblico concorso, senza prevedere il rilievo del titolo equipollente, non è consentita la valutazione di un titolo diverso, salvo che l’equipollenza non sia stabilita da una norma di legge; coerentemente si reputa illegittima la clausola del bando di concorso che disponga l’equipollenza fra titoli di studio in assenza di una norma di legge che fissi i contenuti, le caratteristiche e la durata dei corsi di studio in relazione alle distinte finalità formative che ciascuno di essi persegue, in tal modo prevenendosi il rischio di valutazioni casistiche rimesse alle singole amministrazioni;
c) ai sensi dell'art. 9, co. 6, l. n. 341 del 1990, il giudizio di equipollenza tra i titoli di studio ai fini dell'ammissione ai pubblici concorsi appartiene esclusivamente al legislatore e, di conseguenza, l'unico parametro cui fare corretto riferimento è quello fissato dalla legge e dall'ordinamento della pubblica istruzione, secondo il quale i titoli di studio sono diversi tra loro e le equipollenze costituiscono eccezioni non suscettibili di interpretazione estensiva ed analogica; in quest’ottica, un marginale ruolo di integrazione può essere riconosciuto all’amministrazione solo ove espressamente previsto dal bando di concorso, che dello stesso costituisce lex specialis;
d) più precisamente, ove il bando ammetta come requisito di ammissione un determinato diploma di laurea, o titolo equipollente tout-court, l’amministrazione potrà procedere ad una valutazione di equipollenza sostanziale; se invece il bando richiede (come nel caso di specie) un determinato titolo di studio o quelli ad esso equipollenti ex lege, siffatta determinazione deve essere intesa in senso tassativo, con riferimento alla valutazione di equipollenza formulata da un atto normativo e non può essere integrata da valutazioni di tipo sostanziale compiute ex post dall'amministrazione.
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Osserva la sezione, in relazione ai titoli di studio conseguibili a conclusione dei corsi di studio in ingegneria nel sistema ante-riforma (cfr. d.m. n. 509 del 1999 che lo ha messo a regime), che:
a) il corso di laurea quinquennale in <<ingegneria per l’ambiente e il territorio>>, operante presso svariate università già dai primi anni ’90 ha assicurato una formazione differenziata rispetto a quella del corso di laurea in <<ingegneria civile>>: mentre infatti il primo ha fornito (e fornisce) specifiche competenze di natura geologica, chimica ambientale e tecnologica su processi, macchine e tecniche di scavo ed intervento sul territorio, nonché conoscenze ed esperienze sulle tecniche di misura di parametri geologici ed ambientali, attribuendo al laureato specifiche competenze in materia di progettazione di un sistema complesso, costituito dall’opera e dalla sua interazione con l’ambiente circostante, la formazione dell’ingegnere civile è stata focalizzata (e si focalizza) sulla singola opera, si da consentire al laureato di risolvere le problematiche connesse alla progettazione, realizzazione e gestione di edifici civili ed industriali nonché di infrastrutture (ponti, strade, gallerie, ecc.) che rispondano alle esigenze di trasformazione e sviluppo della società;
b) oltre ai decreti interministeriali del 07.05.1992 e 25.05.1991, che hanno equiparato espressamente il corso di laurea in <<ingegneria per l’ambiente e il territorio>> ai corsi di laurea in <<ingegneria forestale e in ingegneria mineraria>>, non è dato rinvenire alcuna altra norma che, come sostenuto dall’appellante, abbia equiparato il corso di laurea in <<ingegneria civile>> a quello in <<ingegneria per l’ambiente e il territorio>>;
c) la laurea specialistica in <<ingegneria per l’ambiente o il territorio>>, classificata in classe 38/S si è aggiunta, e non ha sostituito il già esistente corso di laurea in <<ingegneria ambientale>>, di durata quinquennale, istituito con d.P.R. 20.05.1989 (tanto che, ancora oggi, è possibile conseguire il diploma di laurea in tale corso di studi e, in aggiunta, la laurea specialistica nella stessa materia); di conseguenza, non può in alcun modo ritenersi che, per il periodo precedente alla riforma, il corso di laurea in <<ingegneria civile>> potesse essere considerato un percorso di formazione onnicomprensivo o, detto in parole più semplici, una sorta di contenitore generale atto a recepire la preparazione e le competenze specifiche, successivamente andate a confluire nei singoli corsi di laurea specialistici e nelle c.d <<lauree magistrali>>.
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A diverse conclusioni non si perviene in relazione ai titoli di studio conseguibili a conclusione dei corsi di studio in ingegneria nel sistema post–riforma (successivamente, cioè al d.m. n. 509 del 1999); invero:
a) il d.m. 05.05.2004 ha stabilito la sola equipollenza fra:
   I) il diploma di laurea in <<ingegneria civile>> e la laurea specialistica appartenente alla classe 28/S (ovvero quella in <<ingegneria civile>>);
   II) il diploma di laurea in <<ingegneria per l’ambiente e il territorio>> e la classe delle lauree di livello specialistico 38/S, ovvero la laurea specialistica in <<ingegneria per l’ambiente e il territorio>>;
b) la medesima separazione si registra, in relazione alle lauree magistrali introdotte dal d.m. n. 270 del 22.10.2004, avuto riguardo alla laurea magistrale in <<ingegneria civile>> inserita nella classe di laurea magistrale LM 23 ed a quella ambientale divisata dalla classe di laurea LM 35 (cfr. parere del C.U.N. prot. n. 613 del 23.04.2009);
c) è irrilevante l’equiparazione dei due corsi di laurea effettuata con d.m. 04.08.2000; tale equiparazione, infatti può valere solo con riferimento ai due corsi di laurea (ora divenuti triennali) nella medesima classe e si giustifica in virtù della contemporanea introduzione di corsi di laurea specialistici, di durata biennale, da frequentare successivamente, atti a consentire agli studenti già laureati l’acquisizione di ulteriori e specifiche competenze (che nel sistema previgente potevano essere ottenuti –seppur a un livello “inferiore”- mediante la frequenza dei due diversi corsi di <<ingegneria civile e ingegneria per l’ambiente e il territorio>> ciascuno caratterizzato da proprie peculiarità); l’equiparazione, pertanto, non può estendersi alle lauree specialistiche quinquennali (il cui possesso è richiesto dal bando a pena di esclusione);
d) parimenti irrilevante è il richiamo al d.P.R. n. 328 del 2001 che, con riferimento all’iscrizione all’Albo degli ingegneri, accomuna nella sezione A, settore a), le lauree in <<ingegneria civile ed ambientale>>; si tratta all’evidenza di equiparazione operata, da una norma regolamentare, a fini del tutto diversi da quelli propri dell’ordinamento universitario unico abilitato a classificare il valore dei titoli di studio; invero, come si evince dal combinato disposto degli artt. 2, 7 e 47 del d.P.R. n. 328 cit.:
   I) per l’iscrizione alla sezione A degli Albi degli ingegneri è necessario superare specifico esame di Stato cui si accede solo dopo aver conseguito il titolo di laurea specialistica;
   II) per l’ammissione all’esame di Stato, i titoli universitari conseguiti al termine dei corsi di studio dello stesso livello hanno identico valore se appartenenti alla medesima classe;
   III) le classi 28/S – ingegneria civile e 38/S – ingegneria per l’ambiente e per il territorio sono diverse e sono accomunate nel superiore settore a) <<civile e ambientale>> (unitamente alla classe 4/S – architettura e ingegneria edile), ai soli fini dell’ammissione all’esame di Stato;
e) irrilevante, infine, deve ritenersi anche il parere di equipollenza espresso dal C.U.N. in quanto non solo si tratta di parere generico e di data antecedente a successive determinazioni del M.I.U.R sul medesimo concorso ma, in ogni caso, di mera valutazione proveniente da autorità amministrativa e non di fonte normativa, dotata della forza giuridica sufficiente ad integrare le prescrizioni della procedura di selezione come richiamate dal bando (che come è noto ha valore di lex specialis), il quale espressamente rinvia, nel caso in esame, a titoli equipollenti esclusivamente ex lege.

L’unica questione sottesa al gravame in trattazione consiste nello stabilire se la laurea specialistica (nel nuovo ordinamento universitario) o il diploma di laurea (nel previgente ordinamento universitario) in «ingegneria civile» siano equipollenti ex lege a quella in <<ingegneria per l’ambiente e il territorio>> in relazione all’accesso ai pubblici concorsi.
Si premette che in base al d.m. 28.11.2000 ed all’art. 4 del d.m. n. 509 del 1999, la laurea specialistica in <<ingegneria per l’ambiente e il territorio>> appartiene alla classe 38/S (G.U. 23.01.2001 n. 18), e quella in <<ingegneria civile>> alla classe 28/S; mentre il diploma di laurea in <<ingegneria per l’ambiente e il territorio>> era disciplinato dalla Tabella XXIX del r.d. n. 1652 del 30.09.1938, come modificata dal d.m. 22.05.1995, che lo distingueva dal diploma di laurea in <<ingegneria civile>>.
La tesi propugnata dall’odierno ricorrente -secondo cui il titolo del diploma di laurea in <<ingegneria civile>>, ancorché non menzionato dal bando di concorso, può ritenersi equipollente ex lege ai titoli puntualmente individuati da quest’ultimo- non è suscettibile di favorevole esame in base a consolidati principi elaborati dal Consiglio di Stato (cfr. Cons. St., sez. VI, 03.05.2010, n. 2494; sez. V, 19.08.2009, n. 4994; sez. II, 17.12.2007, n. 104/2007; sez. V, 24.01.2007, n. 247, cui si rinvia a mente del combinato disposto degli artt. 74, co.1, e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.), in forza dei quali:
a) in linea generale l’equipollenza fra titoli di studio in vista della partecipazione a pubblici concorsi, può essere stabilita dalle norme, primarie o secondarie, ma non dall’amministrazione o dal giudice;
b) quando un bando richiede tassativamente il possesso di un determinato titolo di studio per l’ammissione ad un pubblico concorso, senza prevedere il rilievo del titolo equipollente, non è consentita la valutazione di un titolo diverso, salvo che l’equipollenza non sia stabilita da una norma di legge; coerentemente si reputa illegittima la clausola del bando di concorso che disponga l’equipollenza fra titoli di studio in assenza di una norma di legge che fissi i contenuti, le caratteristiche e la durata dei corsi di studio in relazione alle distinte finalità formative che ciascuno di essi persegue, in tal modo prevenendosi il rischio di valutazioni casistiche rimesse alle singole amministrazioni;
c) ai sensi dell'art. 9, co. 6, l. n. 341 del 1990, il giudizio di equipollenza tra i titoli di studio ai fini dell'ammissione ai pubblici concorsi appartiene esclusivamente al legislatore e, di conseguenza, l'unico parametro cui fare corretto riferimento è quello fissato dalla legge e dall'ordinamento della pubblica istruzione, secondo il quale i titoli di studio sono diversi tra loro e le equipollenze costituiscono eccezioni non suscettibili di interpretazione estensiva ed analogica; in quest’ottica, un marginale ruolo di integrazione può essere riconosciuto all’amministrazione solo ove espressamente previsto dal bando di concorso, che dello stesso costituisce lex specialis;
d) più precisamente, ove il bando ammetta come requisito di ammissione un determinato diploma di laurea, o titolo equipollente tout-court, l’amministrazione potrà procedere ad una valutazione di equipollenza sostanziale; se invece il bando richiede (come nel caso di specie) un determinato titolo di studio o quelli ad esso equipollenti ex lege, siffatta determinazione deve essere intesa in senso tassativo, con riferimento alla valutazione di equipollenza formulata da un atto normativo e non può essere integrata da valutazioni di tipo sostanziale compiute ex post dall'amministrazione.
Tanto precisato in linea generale, osserva la sezione, in relazione ai titoli di studio conseguibili a conclusione dei corsi di studio in ingegneria nel sistema ante-riforma (cfr. d.m. n. 509 del 1999 che lo ha messo a regime), che:
a) il corso di laurea quinquennale in <<ingegneria per l’ambiente e il territorio>>, operante presso svariate università già dai primi anni ’90 ha assicurato una formazione differenziata rispetto a quella del corso di laurea in <<ingegneria civile>>: mentre infatti il primo ha fornito (e fornisce) specifiche competenze di natura geologica, chimica ambientale e tecnologica su processi, macchine e tecniche di scavo ed intervento sul territorio, nonché conoscenze ed esperienze sulle tecniche di misura di parametri geologici ed ambientali, attribuendo al laureato specifiche competenze in materia di progettazione di un sistema complesso, costituito dall’opera e dalla sua interazione con l’ambiente circostante, la formazione dell’ingegnere civile è stata focalizzata (e si focalizza) sulla singola opera, si da consentire al laureato di risolvere le problematiche connesse alla progettazione, realizzazione e gestione di edifici civili ed industriali nonché di infrastrutture (ponti, strade, gallerie, ecc.) che rispondano alle esigenze di trasformazione e sviluppo della società;
b) oltre ai decreti interministeriali del 07.05.1992 e 25.05.1991, che hanno equiparato espressamente il corso di laurea in <<ingegneria per l’ambiente e il territorio>> ai corsi di laurea in <<ingegneria forestale e in ingegneria mineraria>>, non è dato rinvenire alcuna altra norma che, come sostenuto dall’appellante, abbia equiparato il corso di laurea in <<ingegneria civile>> a quello in <<ingegneria per l’ambiente e il territorio>>;
c) la laurea specialistica in <<ingegneria per l’ambiente o il territorio>>, classificata in classe 38/S si è aggiunta, e non ha sostituito il già esistente corso di laurea in <<ingegneria ambientale>>, di durata quinquennale, istituito con d.P.R. 20.05.1989 (tanto che, ancora oggi, è possibile conseguire il diploma di laurea in tale corso di studi e, in aggiunta, la laurea specialistica nella stessa materia); di conseguenza, non può in alcun modo ritenersi che, per il periodo precedente alla riforma, il corso di laurea in <<ingegneria civile>> potesse essere considerato un percorso di formazione onnicomprensivo o, detto in parole più semplici, una sorta di contenitore generale atto a recepire la preparazione e le competenze specifiche, successivamente andate a confluire nei singoli corsi di laurea specialistici e nelle c.d <<lauree magistrali>>.
A diverse conclusioni non si perviene in relazione ai titoli di studio conseguibili a conclusione dei corsi di studio in ingegneria nel sistema post–riforma (successivamente, cioè al d.m. n. 509 del 1999); invero:
a) il d.m. 05.05.2004 ha stabilito la sola equipollenza fra:
   I) il diploma di laurea in <<ingegneria civile>> e la laurea specialistica appartenente alla classe 28/S (ovvero quella in <<ingegneria civile>>);
   II) il diploma di laurea in <<ingegneria per l’ambiente e il territorio>> e la classe delle lauree di livello specialistico 38/S, ovvero la laurea specialistica in <<ingegneria per l’ambiente e il territorio>>;
b) la medesima separazione si registra, in relazione alle lauree magistrali introdotte dal d.m. n. 270 del 22.10.2004, avuto riguardo alla laurea magistrale in <<ingegneria civile>> inserita nella classe di laurea magistrale LM 23 ed a quella ambientale divisata dalla classe di laurea LM 35 (cfr. parere del C.U.N. prot. n. 613 del 23.04.2009);
c) è irrilevante l’equiparazione dei due corsi di laurea effettuata con d.m. 04.08.2000; tale equiparazione, infatti può valere solo con riferimento ai due corsi di laurea (ora divenuti triennali) nella medesima classe e si giustifica in virtù della contemporanea introduzione di corsi di laurea specialistici, di durata biennale, da frequentare successivamente, atti a consentire agli studenti già laureati l’acquisizione di ulteriori e specifiche competenze (che nel sistema previgente potevano essere ottenuti –seppur a un livello “inferiore”- mediante la frequenza dei due diversi corsi di <<ingegneria civile e ingegneria per l’ambiente e il territorio>> ciascuno caratterizzato da proprie peculiarità); l’equiparazione, pertanto, non può estendersi alle lauree specialistiche quinquennali (il cui possesso è richiesto dal bando a pena di esclusione);
d) parimenti irrilevante è il richiamo al d.P.R. n. 328 del 2001 che, con riferimento all’iscrizione all’Albo degli ingegneri, accomuna nella sezione A, settore a), le lauree in <<ingegneria civile ed ambientale>>; si tratta all’evidenza di equiparazione operata, da una norma regolamentare, a fini del tutto diversi da quelli propri dell’ordinamento universitario unico abilitato a classificare il valore dei titoli di studio; invero, come si evince dal combinato disposto degli artt. 2, 7 e 47 del d.P.R. n. 328 cit.:
   I) per l’iscrizione alla sezione A degli Albi degli ingegneri è necessario superare specifico esame di Stato cui si accede solo dopo aver conseguito il titolo di laurea specialistica;
   II) per l’ammissione all’esame di Stato, i titoli universitari conseguiti al termine dei corsi di studio dello stesso livello hanno identico valore se appartenenti alla medesima classe;
   III) le classi 28/S – ingegneria civile e 38/S – ingegneria per l’ambiente e per il territorio sono diverse e sono accomunate nel superiore settore a) <<civile e ambientale>> (unitamente alla classe 4/S – architettura e ingegneria edile), ai soli fini dell’ammissione all’esame di Stato;
e) irrilevante, infine, deve ritenersi anche il parere di equipollenza espresso dal C.U.N. in quanto non solo si tratta di parere generico e di data antecedente a successive determinazioni del M.I.U.R sul medesimo concorso ma, in ogni caso, di mera valutazione proveniente da autorità amministrativa e non di fonte normativa, dotata della forza giuridica sufficiente ad integrare le prescrizioni della procedura di selezione come richiamate dal bando (che come è noto ha valore di lex specialis), il quale espressamente rinvia, nel caso in esame, a titoli equipollenti esclusivamente ex lege (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.12.2012 n. 6260 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' pur vero che secondo un certo orientamento la verifica sui requisiti necessari per legittimare la d.i.a. è riferita alla normativa vigente al momento di presentazione della stessa, anche in caso di modifiche successive.
Osserva però il Collegio che tale principio potrebbe al più valere per i casi di d.i.a. già perfezionatasi, e non per fattispecie, come quella per cui è causa, nelle quali il procedimento si è protratto per la mancanza di integrazioni documentali richieste al privato.

Infondato è anche il secondo motivo.
Va intanto ricordato quanto detto in narrativa, ovvero che l’amministrazione ha chiarito quali sarebbero state le norme a suo avviso violate, e che sulla violazione in quanto tale il privato nulla ha eccepito. Ciò posto, è pur vero che secondo un certo orientamento, espresso ad esempio da C.d.S. sez. V ord. 29.07.2003 n. 3234, la verifica sui requisiti necessari per legittimare la d.i.a. è riferita alla normativa vigente al momento di presentazione della stessa, anche in caso di modifiche successive.
Osserva però il Collegio che tale principio potrebbe al più valere per i casi di d.i.a. già perfezionatasi, e non per fattispecie, come quella per cui è causa, nelle quali il procedimento si è protratto per la mancanza di integrazioni documentali richieste al privato (doc.ti ricorrente 3 e 4, copie carteggio relativo).
In tal senso quindi, come correttamente osservato dal Comune nella relazione 18.07.2006, in presenza di modifiche nella normativa di riferimento, non era possibile tener per valida la dichiarazione di conformità alle stesse contenuta nella d.i.a. e riferita alle norme di legge e di piano previgenti
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.11.2012 n. 1852 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La valutazione di compatibilità (ambientale) richiesta nell’ambito del procedimento di condono ha invero ad oggetto specifico ed esclusivo opere abusive già esistenti, in ordine alle quali è domandata la sanatoria, e che vanno valutate per come sono, con le relative caratteristiche di forma, dimensioni, materiali costruttivi ecc., senza possibilità di considerare, se proposte dell’interessato, ovvero di prescrivere modifiche che ne migliorino l’inserimento ambientale. Si tratterebbe invero non più di una sanatoria, bensì di un diverso titolo di legittimazione, che per di più concretizzerebbe l’elusione dell’oggetto e dei termini perentori stabiliti dalla normativa sul condono.
Solo dopo il positivo esame di compatibilità dell’opera abusiva possono essere, con distinto procedimento, valutate le opere ulteriori e additive al fabbricato originario in completamento o miglioramento (nella specie, come riferito nella sentenza gravata: estensione della copertura a falde per la creazione di un porticato) e in tale ambito possono prescriversi correzioni al progetto relativo a dette innovazioni.

Vanno, quindi, condivisi i rilievi critici del Ministero appellante, che sostiene la piena legittimità del disposto annullamento dell’autorizzazione paesaggistica comunale rilasciata relativamente alle opere già eseguite e a quelle progettate dall’appellato.
Merita di essere posta in evidenza, per un verso, la violazione procedimentale compiuta da parte del Comune riducendo ad un’unica valutazione, solo formalmente espressa a norma dell’art. 7 l. 29.06.1939 n. 1497, giudizi di compatibilità che andavano espressi distintamente e ai sensi dell’art. 32 l. 28.02.1985, n. 47; e, per un altro verso, che la motivazione fornita dal Comune -nel senso che “l’intervento di modesta entità si inserisce nel contesto ambientale circostante caratterizzato da limoneti e terrazzamenti”- non appare idonea a dar contezza delle effettive ragioni di compatibilità paesaggistica che, in riferimento agli specifici valori tutelati, potevano consentire la realizzazione dell’intervento.
Invero è corretta l’affermazione del provvedimento ministeriale che l’atto di base non avrebbe potuto riguardare in modo unitario sia le opere abusivamente realizzate per le quali era chiesto il condono che i nuovi interventi progettati.
Si tratta di valutazioni distinte, la prima delle quali riguarda una compatibilità de praeterito, la seconda riguarda una compatibilità de futuro. La prima è logicamente prioritaria rispetto alla seconda. Sono valutazioni da operare con distinti procedimenti, tra loro in relazione di successione temporale, e richiedenti ciascuno un’autonoma motivazione. Queste valutazioni non possono fondersi ed irragionevolmente esaurirsi in un unitario giudizio di compatibilità del manufatto complessivo quale risulterebbe dalla (futura) esecuzione dei progettati interventi di completamento e miglioramento, con le correzioni progettuali prescritte.
La valutazione di compatibilità richiesta nell’ambito del procedimento di condono ha invero ad oggetto specifico ed esclusivo opere abusive già esistenti, in ordine alle quali è domandata la sanatoria, e che vanno valutate per come sono, con le relative caratteristiche di forma, dimensioni, materiali costruttivi ecc., senza possibilità di considerare, se proposte dell’interessato, ovvero di prescrivere modifiche che ne migliorino l’inserimento ambientale. Si tratterebbe invero non più di una sanatoria, bensì di un diverso titolo di legittimazione, che per di più concretizzerebbe l’elusione dell’oggetto e dei termini perentori stabiliti dalla normativa sul condono.
Solo dopo il positivo esame di compatibilità dell’opera abusiva possono essere, con distinto procedimento, valutate le opere ulteriori e additive al fabbricato originario in completamento o miglioramento (nella specie, come riferito nella sentenza gravata: estensione della copertura a falde per la creazione di un porticato) e in tale ambito possono prescriversi correzioni al progetto relativo a dette innovazioni.
Non pertinente risulta il richiamo, contenuto nella sentenza di primo grado, all’art. 35, comma 14, l. 28.02.1985, n. 47, non trattandosi di completamento funzionale dell’edificio abusivo ma di addizioni di rilevanza strutturale (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.11.2012 n. 5990 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI - INCARICHI PROGETTUALILe determinazioni con cui le pubbliche amministrazioni stabiliscono i criteri per selezionare i collaboratori costituisce manifestazione di ampia discrezionalità rientrante nel merito amministrativo, e possono quindi essere sindacate solo in caso di errore manifesto o manifesta irragionevolezza.
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Le competenze dei geometri in tema di ricognizione della viabilità sono limitate alle “operazioni di tracciamento di strade poderali e consorziali ed inoltre, quando abbiano tenue importanza, di strade ordinarie…” (art. 16, comma primo, lett. b] R.D. 274/1929).
Dalla competenza dei geometri esulano anche alcune delle attività richieste per l’incarico in questione, come le verifiche sulle condizioni di manutenzione e transitabilità delle strade nonché delle preclusioni al traffico esistenti, e la definizione della loro importanza dal punto di vista funzionale, storico e paesaggistico.
Coglie quindi nel segno la difesa dell’Amministrazione laddove evidenzia che l’oggetto dell’incarico da affidare è più ampio rispetto alle competenze legislativamente stabilite per la categoria dei geometri, ed è quindi logico che essi ne siano stati esclusi.

... per l'annullamento della determinazione dirigenziale n. 694 del 06.07.2009 della Comunità Montana Colline Metallifere, contenente l’avviso pubblico per il conferimento di un incarico esterno di collaborazione autonoma per la ricognizione e classificazione della viabilità extraurbana di pubblico interesse, nonché della determinazione n. 866 del 26.08.2009 di assegnazione dell’incarico, nonché infine di tutti gli atti presupposti e/o consequenziali tra cui, in particolare, i verbali di aggiudicazione in prima e seconda seduta rispettivamente del 24.07.2009 e del 14.08.2009, nonché gli artt. 11 e 11-bis del Regolamento di organizzazione degli uffici e dei servizi approvato con delibera della Giunta Esecutiva della Comunità Montana delle Colline Metallifere n. 87 del 25.9.2003 e modificato con successiva delibera della Giunta Esecutiva n. 1 del 20.01.2009, ovvero di tutte quelle norme regolamentari della Comunità Montana che disciplinano e limitano l’affidamento di incarichi a soggetti esterni.
...
Va rilevato in primo luogo che le determinazioni con cui le pubbliche amministrazioni stabiliscono i criteri per selezionare i collaboratori costituisce manifestazione di ampia discrezionalità rientrante nel merito amministrativo, e possono quindi essere sindacate solo in caso di errore manifesto o manifesta irragionevolezza.
Nel caso di specie non si rilevano tali vizi nella decisione di limitare l’accesso alla procedura in esame ai soli laureati escludendo, tra l’altro, la categoria ricorrente dei geometri poiché l’oggetto della gara è più ampio di quanto previsto dall’art. 16, R.D. 11.02.1929, n. 274 che regolamenta l’esercizio di tale professione.
Per quanto qui interessa, le competenze dei geometri in tema di ricognizione della viabilità sono limitate alle “operazioni di tracciamento di strade poderali e consorziali ed inoltre, quando abbiano tenue importanza, di strade ordinarie…” (art. 16, comma primo, lett. b] R.D. 274/1929). Dalla competenza dei geometri esulano anche alcune delle attività richieste per l’incarico in questione, come le verifiche sulle condizioni di manutenzione e transitabilità delle strade nonché delle preclusioni al traffico esistenti, e la definizione della loro importanza dal punto di vista funzionale, storico e paesaggistico. Coglie quindi nel segno la difesa dell’Amministrazione laddove evidenzia che l’oggetto dell’incarico da affidare è più ampio rispetto alle competenze legislativamente stabilite per la categoria dei geometri, ed è quindi logico che essi ne siano stati esclusi.
Non ha pregio il richiamo al diritto al libero esercizio della professione poiché i provvedimenti gravati non limitano in alcun modo l’esercizio libero professionale del mestiere di geometra (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 22.11.2012 n. 1890 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La ratio sottesa alla disposizione ex art. 84 dlgs 163/2006 costituisce espressione di principi generali, costituzionali e comunitari, volti ad assicurare il buon andamento e l'imparzialità dell'azione amministrativa.
Secondo la giurisprudenza, essa, in quanto espressiva di un principio generale è applicabile anche alle procedure di evidenza pubblica non disciplinate dal codice dei contratti pubblici.

Le doglianze proposte dalla Consip al detto capo di sentenza appaiono al Collegio infondate.
La disposizione che governa la fattispecie è quella di cui al citato art. 84, commi 1, 2, 3 ed 8 di cui è utile riportare il testo: ”Quando la scelta della migliore offerta avviene con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, la valutazione è demandata ad una commissione giudicatrice, che opera secondo le norme stabilite dal regolamento.
La commissione, nominata dall'organo della stazione appaltante competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto, è composta da un numero dispari di componenti, in numero massimo di cinque, esperti nello specifico settore cui si riferisce l'oggetto del contratto.
La commissione è presieduta di norma da un dirigente della stazione appaltante e, in caso di mancanza in organico, da un funzionario della stazione appaltante incaricato di funzioni apicali, nominato dall'organo competente.
I commissari diversi dal presidente sono selezionati tra i funzionari della stazione appaltante. In caso di accertata carenza in organico di adeguate professionalità, nonché negli altri casi previsti dal regolamento in cui ricorrono esigenze oggettive e comprovate, i commissari diversi dal presidente sono scelti tra funzionari di amministrazioni aggiudicatrici di cui all'art. 3, comma 25, ovvero con un criterio di rotazione tra gli appartenenti alle seguenti categorie:
a) professionisti, con almeno dieci anni di iscrizione nei rispettivi albi professionali, nell'ambito di un elenco, formato sulla base di rose di candidati fornite dagli ordini professionali;
b) professori universitari di ruolo, nell'ambito di un elenco, formato sulla base di rose di candidati fornite dalle facoltà di appartenenza
.”
La ratio sottesa alla disposizione in esame costituisce espressione di principi generali, costituzionali e comunitari, volti ad assicurare il buon andamento e l'imparzialità dell'azione amministrativa. Secondo la giurisprudenza, essa, in quanto espressiva di un principio generale è applicabile anche alle procedure di evidenza pubblica non disciplinate dal codice dei contratti pubblici (Consiglio Stato, sez. V, 04.03.2011, n. 1386) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.01.2012 n. 27 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa parziale recinzione del fondo e finanche lo sbancamento del terreno e l’esecuzione dei lavori di scavo non sono idonei ad integrare di per sé un valido inizio dei lavori.
Facendo applicazione dei richiamati criteri al caso in trattazione, il Collegio ritiene, dunque, che le modeste attività intraprese, non accompagnate dalla compiuta organizzazione del cantiere, sono state legittimamente considerate come non sufficienti a dimostrare l’effettivo intendimento del titolare del permesso di realizzare la costruzione assentita, giustificando così l’adozione del provvedimento in discussione.

Ad avviso del Collegio, l’assunto non può essere condiviso, essendo smentito, in punto di fatto, dalle risultanze istruttorie poste a base dell’azione amministrativa. In particolare, il personale incaricato del sopralluogo (cfr. relazione prot. n. 38/U.T. del 18.07.2007), dopo aver dato atto dello svolgimento di alcune attività preparatorie (taglio degli alberi, apertura di un varco di accesso al terreno, demolizione di parte di un muro di confine e realizzazione di una nuova recinzione, saggi geologici), ha rilevato che “[…] non esistono in sito opere di scavo o di getto di calcestruzzo relative all’immobile da realizzare, né materiali edili ed attrezzature di cantiere in deposito […]”.
Al riguardo, va osservato che, secondo la consolidata giurisprudenza, la parziale recinzione del fondo e finanche lo sbancamento del terreno e l’esecuzione dei lavori di scavo –nella specie insussistenti– non sono idonei ad integrare di per sé un valido inizio dei lavori (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sezione II, 08.03.2007 n. 372; TAR Campania, Napoli, Sezione IV, 05.01.2006 n. 59; TAR Lazio, Roma, Sezione II, 28.06.2005 n. 5370; Consiglio di Stato, Sezione IV, 03.10.2000, n. 5242).
Facendo applicazione dei richiamati criteri al caso in trattazione, il Collegio ritiene, dunque, che le modeste attività intraprese, non accompagnate dalla compiuta organizzazione del cantiere, sono state legittimamente considerate come non sufficienti a dimostrare l’effettivo intendimento del titolare del permesso di realizzare la costruzione assentita, giustificando così l’adozione del provvedimento in discussione (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 25.09.2008 n. 10890 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATALa previa comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 7 della l. n. 241/1990, non è richiesta quando il procedimento è stato attivato su istanza di parte.
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Non è condivisibile neanche la doglianza circa l’effettuazione senza preavviso, da parte dell’Amministrazione, di un sopralluogo sull’area di cantiere finalizzato ad accertare l’inizio o meno dei lavori, sia perché la ricorrente era ben consapevole della sussistenza di un procedimento per il rilascio della proroga, sia perché, comunque, si deve considerare legittima l’effettuazione di accertamenti a sorpresa da parte della P.A. qualora le circostanze lo impongano per garantire la genuinità di tali accertamenti.
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A fronte di ciò la difesa comunale ha sottolineato la diversità tra le fattispecie della proroga della concessione edilizia, ex art. 4, quarto comma, della l. n. 10/1977, e della decadenza di tale concessione, ex art. 31 della l. n. 1150/1942.
Ed invero, mentre l’art. 4 cit. consente la proroga della concessione edilizia qualora, ferma restando la capacità edificatoria dell’area interessata, nel corso dell’esecuzione dei lavori si siano verificati dei fatti non imputabili al titolare della concessione, che abbiano ritardato i suddetti lavori, onde non far ricadere sul soggetto incolpevole dei fatti a lui non attribuibili, l’art. 31 della l. n. 1150 cit. disciplina la diversa ipotesi della decadenza per fatti impeditivi discendenti dalle scelte del Legislatore o della P.A. in sede di pianificazione, che incidano sulla capacità edificatoria del terreno. In questa seconda ipotesi, allora, non ha alcun rilievo la non imputabilità del fatto al titolare della concessione, né vi è possibilità di proroga della concessione stessa, attesa la diversità degli interessi ivi tutelati rispetto alla fattispecie ex art. 4, comma quarto della l. n. 10/1977.
Con la comminatoria della decadenza ex art. 31 cit., infatti, il Legislatore ha inteso evitare che le costruzioni ancora da realizzare alterino l’assetto urbanistico stabilito con la nuova pianificazione. Nondimeno, la disposizione in esame impedisce che si addivenga alla pronuncia di decadenza quando i lavori siano iniziati e purché vengano completati entro tre anni dalla data di inizio.
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Per la giurisprudenza consolidata lo sbancamento del terreno non può, da solo, essere considerato quale inizio dei lavori, non essendo di per sé idoneo a dimostrare la volontà effettiva del titolare della concessione di realizzare il manufatto assentito.

Con il primo motivo di ricorso la società deduce la violazione delle regole sul procedimento amministrativo ed in specie dell’art. 7 della l. n. 241/1990, perché il Comune resistente non l’avrebbe avvisata dall’avvio del procedimento di diniego di proroga, né l’avrebbe avvertita dell’effettuazione del sopralluogo nel cantiere volto ad accertare l’inizio o meno dei lavori, in modo da consentirle di parteciparvi.
Il motivo è manifestamente infondato, atteso che il procedimento di proroga ha avuto avvio sulla base di apposita istanza dell’odierna ricorrente, la quale era, quindi, a conoscenza del procedimento stesso. Si rammenta in proposito che, secondo la costante giurisprudenza (cfr. ex plurimis, C.d.S., Sez. IV, 20.12.2005, n. 7257), la previa comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 7 della l. n. 241/1990, non è richiesta quando il procedimento è stato attivato su istanza di parte.
Non è, pertanto, condivisibile neanche la doglianza circa l’effettuazione senza preavviso, da parte dell’Amministrazione, di un sopralluogo sull’area di cantiere finalizzato ad accertare l’inizio o meno dei lavori, sia perché la ricorrente, come già detto, era ben consapevole della sussistenza di un procedimento per il rilascio della proroga, sia perché, comunque, si deve considerare legittima l’effettuazione di accertamenti a sorpresa da parte della P.A. qualora le circostanze lo impongano per garantire la genuinità di tali accertamenti (C.d.S., Sez. VI, 18.05.2004, n. 3190).
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A fronte di ciò la difesa comunale ha sottolineato la diversità tra le fattispecie della proroga della concessione edilizia, ex art. 4, quarto comma, della l. n. 10/1977, e della decadenza di tale concessione, ex art. 31 della l. n. 1150/1942.
Ed invero, mentre l’art. 4 cit. consente la proroga della concessione edilizia qualora, ferma restando la capacità edificatoria dell’area interessata, nel corso dell’esecuzione dei lavori si siano verificati dei fatti non imputabili al titolare della concessione, che abbiano ritardato i suddetti lavori, onde non far ricadere sul soggetto incolpevole dei fatti a lui non attribuibili, l’art. 31 della l. n. 1150 cit. disciplina la diversa ipotesi della decadenza per fatti impeditivi discendenti dalle scelte del Legislatore o della P.A. in sede di pianificazione, che incidano sulla capacità edificatoria del terreno. In questa seconda ipotesi, allora, non ha alcun rilievo la non imputabilità del fatto al titolare della concessione, né vi è possibilità di proroga della concessione stessa, attesa la diversità degli interessi ivi tutelati rispetto alla fattispecie ex art. 4, comma quarto della l. n. 10/1977.
Con la comminatoria della decadenza ex art. 31 cit., infatti, il Legislatore ha inteso evitare che le costruzioni ancora da realizzare alterino l’assetto urbanistico stabilito con la nuova pianificazione (TAR Basilicata, 20.07.1996, n. 163). Nondimeno, la disposizione in esame impedisce che si addivenga alla pronuncia di decadenza quando i lavori siano iniziati e purché vengano completati entro tre anni dalla data di inizio.
Sotto quest’ultimo profilo, pertanto, diventa decisivo stabilire se nella fattispecie in esame i lavori fossero o no iniziati.
Orbene, in proposito debbono essere sicuramente condivise le conclusioni cui è addivenuta l’Amministrazione Comunale in ordine al mancato inizio dei lavori. Per la giurisprudenza consolidata, infatti, lo sbancamento del terreno non può, da solo, essere considerato quale inizio dei lavori, non essendo di per sé idoneo a dimostrare la volontà effettiva del titolare della concessione di realizzare il manufatto assentito (cfr., ex plurimis, TARLazio, Roma, Sez. II, 11.05.2006, n. 3480; C.d.S., Sez. IV, 03.10.2000, n. 5242)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.03.2007 n. 372 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa decadenza dalla concessione edilizia per mancato inizio dei lavori nel termine prefissato, a norma dell'art. 4 della L. 28.01.1977 n. 10, è un istituto giuridico fondato sull'elemento oggettivo del decorso del tempo e, ai sensi dell'art. 4, 4º comma, della L. 28.01.1977 n. 10, i predetti termini indicati nell'atto sono intesi a dare certezza temporale all'attività edificatoria; detto istituto è rivolto, previo accertamento dello stato dell'attività costruttiva alla scadenza del termine suddetto, solo a dare certezza di una situazione già prodottasi al verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge.
Il termine per l'inizio dell'attività edificatoria non è suscettibile né di sospensione né di interruzione e non è, pertanto, prorogabile; se, infatti, scaduto il termine di validità del titolo autorizzatorio, l'attività di trasformazione edilizia non è ancora iniziata, prevale l'esigenza di consentire, nel preminente interesse pubblico, la rivalutazione della perdurante conformità dell'intervento assentito alla vigente normativa urbanistica, esigenza, che, invece, nell'ottica del legislatore, si attenua in presenza di un'attività edilizia già iniziata, benché non terminata per fatti indipendenti dalla volontà del costruttore.
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La decadenza dalla conseguita concessione edilizia si verifica automaticamente "ope legis" per effetto del semplice decorso dei termini stabiliti per l'inizio e l'ultimazione dei lavori, avendo una portata ricognitiva e dichiarativa del verificarsi dei presupposti richiesti dalla legge e non sanzionatoria.
La perdita di efficacia della concessione edilizia si collega infatti al mero decorso del termine indicato nell'atto concessorio, inteso a dare certezza temporale all'attività edificatoria; ne consegue che il provvedimento di decadenza serve solo a certificare una situazione già verificatasi al momento in cui sono venuti in essere i presupposti stabiliti dalla legge e, come tale, è un atto vincolato a carattere meramente dichiarativo.

Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce la violazione ed errata applicazione dell’art. 4 della legge 28.01.1977 n. 10 ed eccesso di potere per presupposto erroneo, atteso che nel caso concreto i lavori sarebbero stati iniziati entro un anno dal rilascio della concessione edilizia n. 76/82 del 14.09.1982.
Orbene, l'art. 4 della L. n. 10/1977 dispone testualmente che "nell'atto di concessione sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori. Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno; il termine di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere abitabile o agibile, non può essere superiore a tre anni e può essere prorogato, con provvedimento motivato, solo per fatti estranei alla volontà del concessionario, che siano sopravvenuti a ritardare i lavori durante la loro esecuzione. Un periodo più lungo per l'ultimazione dei lavori può essere concesso esclusivamente in considerazione della mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive; ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari. Qualora i lavori non siano ultimati nel termine stabilito, il concessionario deve presentare istanza diretta ad ottenere una nuova concessione; in tal caso la nuova concessione concerne la parte non ultimata.".
La decadenza dalla concessione edilizia per mancato inizio dei lavori nel termine prefissato, a norma dell'art. 4 della L. 28.01.1977 n. 10, è un istituto giuridico fondato sull'elemento oggettivo del decorso del tempo e, ai sensi dell'art. 4, 4º comma, della L. 28.01.1977 n. 10, i predetti termini indicati nell'atto sono intesi a dare certezza temporale all'attività edificatoria; detto istituto è rivolto, previo accertamento dello stato dell'attività costruttiva alla scadenza del termine suddetto, solo a dare certezza di una situazione già prodottasi al verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge (TAR Campania Napoli, sez. IV, 29.04.2004, n. 7513).
Il termine per l'inizio dell'attività edificatoria non è suscettibile né di sospensione né di interruzione e non è, pertanto, prorogabile; se, infatti, scaduto il termine di validità del titolo autorizzatorio, l'attività di trasformazione edilizia non è ancora iniziata, prevale l'esigenza di consentire, nel preminente interesse pubblico, la rivalutazione della perdurante conformità dell'intervento assentito alla vigente normativa urbanistica, esigenza, che, invece, nell'ottica del legislatore, si attenua in presenza di un'attività edilizia già iniziata, benché non terminata per fatti indipendenti dalla volontà del costruttore (TAR Sardegna, 06.08.2003, n. 1001).
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Oltretutto, la decadenza dalla conseguita concessione edilizia si verifica automaticamente "ope legis" per effetto del semplice decorso dei termini stabiliti per l'inizio e l'ultimazione dei lavori, avendo una portata ricognitiva e dichiarativa del verificarsi dei presupposti richiesti dalla legge e non sanzionatoria (Consiglio Stato, sez. IV, 13.04.2005, n. 1738).
La perdita di efficacia della concessione edilizia si collega infatti al mero decorso del termine indicato nell'atto concessorio, inteso a dare certezza temporale all'attività edificatoria; ne consegue che il provvedimento di decadenza serve solo a certificare una situazione già verificatasi al momento in cui sono venuti in essere i presupposti stabiliti dalla legge e, come tale, è un atto vincolato a carattere meramente dichiarativo (TAR Lazio, sez. II, 24.11.2004, n. 13996)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 05.01.2006 n. 59 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza è sostanzialmente univoca nel non riconoscere ai soli lavori di sbancamento, non accompagnati dalla compiuta organizzazione del cantiere e da altri indizi idonei a confermare l’effettivo intendimento del titolare della licenza (concessione) edilizia di addivenire al compimento dell’opera, la qualità di inizio dei lavori utile ai fini dell’applicazione del citato comma decimo dell’articolo 31 della legge 17.08.1942, n. 1150.
Invero le opere realizzate, pur di modesta entità, debbono risultare obiettivamente finalizzate alla realizzazione del manufatto assentito sicché i lavori non possano considerarsi fittizi o simbolici e, a questa stregua, non assumono univoca valenza edificatoria preordinata all’intervento edilizio specificamente assentito i semplici sbancamenti di terreno.

Risulta per tabulas, infatti, le uniche opere poste in essere prima della sospensione sindacale dei lavori edilizi fossero semplicemente degli sbancamenti, non seguiti da alcuna altra opera.
La giurisprudenza è sostanzialmente univoca nel non riconoscere ai soli lavori di sbancamento, non accompagnati dalla compiuta organizzazione del cantiere e da altri indizi idonei a confermare l’effettivo intendimento del titolare della licenza (concessione) edilizia di addivenire al compimento dell’opera, la qualità di inizio dei lavori utile ai fini dell’applicazione del citato comma decimo dell’articolo 31 della legge 17.08.1942, n. 1150.
Invero le opere realizzate, pur di modesta entità, debbono risultare obiettivamente finalizzate alla realizzazione del manufatto assentito sicché i lavori non possano considerarsi fittizi o simbolici e, a questa stregua, non assumono univoca valenza edificatoria preordinata all’intervento edilizio specificamente assentito i semplici sbancamenti di terreno (C.d.S., V, 11.10.1996, n. 1227; V 30.06.1995, n. 938; V, 22.11.1993, n. 1165; V, 18.05.1987, n. 300; IV, 17.12.1984, n. 921) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.10.2000 n. 5242 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 04.02.2013

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MOBILITA'

PUBBLICO IMPIEGO: il Comune di Cisano Bergamasco (BG) cerca con mobilità volontaria n. 1 geometra, cat. "C" a tempo pieno ed indeterminato, da destinare all'Ufficio Tecnico il cui avviso di mobilità prevede il termine di martedì 26.02.2013 entro cui inviare le domande di partecipazione.

dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: U. Grella, Alcune volte il “sonno urbanistico” provoca incubi (a proposito della recente L.R. lombarda n. 21/2012 in materia di P.G.T.) (01.02.2013).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L.R. n. 21 del 24.12.2012 – Decadenza PRG – Applicazione delle misure di salvaguardia (Fondazione de Iure Publico, Centro Studi Giuridici sulla Pubblica Amministrazione - tratto da www.deiurepublico.it).

EDILIZIA PRIVATA: P. L. Portaluri, PRIMAUTÉ DELLA PIANIFICAZIONE URBANISTICA E REGOLAZIONE DELLE ATTIVITÀ COMMERCIALI (link a www.giustizia-amministrativa.it).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Il foglio dei lavoratori della Funzione Pubblica (CGIL-FP di Bergamo, gennaio 2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Le istruzione del Ministero dell'Interno per il rimborso dello straordinario elettorale (CGIL-FP di Bergamo, nota 28.01.2013).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Modifiche concernenti il decreto legislativo 192/2005 sul rendimento energetico nell’edilizia (ANCE Bergamo, circolare 01.02.2013 n. 35).

APPALTI: Oggetto: Legge 221/2012: ulteriori modifiche al Codice 163/2006 (ANCE Bergamo, circolare 25.01.2013 n. 25).

CONSIGLIERI COMUNALI: Breve nota sulle problematiche applicative della nuova previsione relativa all'incompatibilità del sindaco nei comuni da 5 a 20 mila abitanti (ANCI, nota gennaio 2013).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 5 dell'01.02.2013 "Definizione dei criteri per l’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 8-bis, comma 1, della legge regionale 29.09.2003 n. 17" (deliberazione G.R. 30.01.2013 n. 4777).
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Riguarda l’obbligo (non rispettato) per il proprietario di comunicare (entro il 31.01.2013) all’ASL territorialmente competente la presenza di manufatto in amianto.

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 5 dell'01.02.2013 "Integrazione alla composizione del tavolo delle aree regionali protette (l.r. 86/1983, art. 6, commi 3 e 4)" (decreto D.U.O. 29.01.2013 n. 532).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: G.U. 01.02.2013 n. 27 "Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani" (Legge 14.01.2013 n. 10).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 01.02.2013 n. 27 "Indirizzi operativi volti ad assicurare l’unitaria partecipazione delle organizzazioni di volontariato all’attività di protezione civile" (direttiva P.C.M. 09.11.2012).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 30.01.2013 n. 25 "Regole tecniche relative agli impianti condominiali centralizzati d’antenna riceventi del servizio di radiodiffusione" (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 22.01.2013).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 25.01.2013 n. 21 "Modifica dell’Allegato A del decreto legislativo 19.08.2005, n. 192, recante attuazione della direttiva 2002/91/CE relativa al rendimento energetico nell’edilizia" (D.M. 22.11.2012).

UTILITA'

LAVORI PUBBLICI: APPALTI PUBBLICI: LINEE GUIDA PER LA GESTIONE DELL’OFFERTA ECONOMICAMENTE PIU’ VANTAGGIOSA E LA REDAZIONE DEGLI STUDI DI FATTIBILITA’.
La Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha approvato, nella riunione del 24.01.2013, la “Guida operativa per l’utilizzo del criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa negli appalti di lavori pubblici di sola esecuzione” e le “Linee guida per la redazione di studi di fattibilità”, realizzate entrambe nell'ambito del gruppo di lavoro interregionale contratti pubblici di ITACA.
Soddisfatto per l’approvazione delle due importanti guide messe a punto sui tavoli tecnici di ITACA con la preziosa collaborazione dei rappresentanti delle istituzioni pubbliche, ordini professionali, imprese e sindacati, a cui va tutto il nostro ringraziamento”. E’ quanto ha sottolineato Ugo Cavallera, Presidente di ITACA, organo tecnico della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome.
L’obiettivo del nostro lavoro” continua Cavallera “è quello di contribuire a migliorare qualitativamente il sistema della contrattualistica pubblica che assorbe gran parte spesa pubblica attraverso strumenti che possano aiutare concretamente l’operato dei tecnici delle stazioni appaltanti impegnati quotidianamente nella gestione di procedure sempre più complesse in un settore iper regolamentato. Inoltre, la crescente scarsità di risorse a disposizione delle pubbliche amministrazioni impone alle stesse di dotarsi di strumenti atti a consentirne una gestione ed una politica di investimenti pubblici che sia il più possibile razionale, efficiente ed economicamente sostenibile”.
La guida sul criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa rappresenta un valido supporto alle stazioni appaltanti nella delicata gestione degli affidamenti di appalti di lavori pubblici per la sola esecuzione.
Con l’applicazione di tale criterio, che comporta una elevata complessità tecnica nella gestione della procedura, l’amministrazione aggiudicatrice ha maggiore possibilità di rispondere più appropriatamente ai bisogni espressi dalla collettività pubblica su esigenze di tipo economico, ambientale, sociale, attivando un più efficace contrasto a fenomeni di infiltrazione della criminalità organizzata e del lavoro nero e garantendo, in maniera trasparente, una maggiore competizione tra gli operatori economici.
La guida, elaborata da tecnici che hanno piena conoscenza delle problematiche che occorre affrontare o che possono sopravvenire nel corso dell'aggiudicazione ed esecuzione dell'appalto, fornisce un contributo di tipo pratico sia per la fase di impostazione della procedura che per la fase di esecuzione del contratto attraverso suggerimenti per la stesura della documentazione di gara e dello stesso contratto.
La guida per la redazione degli studi di fattibilità nei procedimenti riguardanti opere pubbliche, origina, prioritariamente, dalla necessità di mettere a “fattor comune” le esperienze maturate a livello regionale che già oggi, pur in assenza di un obbligo normativo, utilizzano lo studio di fattibilità quale strumento di selezione dei progetti tramite verifica preventiva circa la fattibilità tecnica, economico-finanziaria, ambientale, amministrativa e procedurale dei diversi interventi per i quali si richiede un contributo regionale.
Le linee guida ITACA costituiscono pertanto un utile strumento di lavoro quale riferimento per la redazione degli studi di fattibilità di opere pubbliche o di interesse pubblico (tratto da www.itaca.org).

QUESITI & PARERI

SICUREZZA LAVORO: Duvri.
Domanda.
In quali situazioni è necessario predisporre il documento unico di valutazione dei rischi da interferenza (Duvri)?
Risposta.
L'articolo 26 del dlgs n. 81/2008, recante disposizioni in materia di «Obblighi connessi ai contratti d'appalto o d'opera o di somministrazione» prevede al comma 3 che «il datore di lavoro committente promuove la cooperazione e il coordinamento di cui al comma 2, elaborando un unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non è possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze. Tale documento è allegato al contratto di appalto o di opera e va adeguato in funzione dell'evoluzione dei lavori, servizi e fornitura. Ai contratti stipulati anteriormente al 25.08.2007 e ancora in corso alla data del 31.12.2008, il documento di cui al precedente periodo deve essere allegato entro tale ultima data. Le disposizioni del presente comma non si applicano ai rischi specifici propri dell'attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi. Nel campo di applicazione del decreto legislativo 12.04.2006 n. 163, e successive modificazioni, tale documento è redatto, ai fini dell'affidamento del contratto, dal soggetto titolare del potere decisionale e di spesa relativo alla gestione dello specifico appalto».
Il datore di lavoro committente deve, dunque, promuovere la cooperazione e il coordinamento in primo luogo elaborando un unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non è possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze (c.d. Duvri), che deve sempre riflettere lo stato attuale delle interferenze presenti durante i lavori, servizi e forniture. L'art. 26, comma 3, esclude l'obbligo di promuovere la cooperazione e il coordinamento per il datore di lavoro committente per i «rischi specifici delle attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi», ma questa esclusione va riferita non alle generiche precauzioni da adottarsi negli ambienti di lavoro per evitare il verificarsi di incidenti, ma alle regole che richiedono una specifica competenza tecnica settoriale -generalmente mancante in chi opera in settori diversi- nella conoscenza delle procedure da adottare nelle singole lavorazioni o nell'utilizzazione di speciali tecniche o nell'uso di determinate macchine (Cass. sez. IV, 17/05/2005, n. 31296, rv. 231658, Mogliani).
Va, per esempio, sottolineato, che «non può... considerarsi rischio specifico quello derivante dalla generica necessità di impedire crolli di solai dovuta alla fatiscenza delle strutture portanti, [essendo] questo pericolo, riconoscibile da chiunque indipendentemente dalle sue specifiche competenze» (Sez. 4, Sentenza n. 12348 del 29/1/2008 Ud. Rv. 239252); dunque i rischi «riconoscibili da chiunque indipendentemente dalle sue specifiche competenze» sono oggetto del Duvri. Nel campo di applicazione del dlgs. 163/2006 (codice dei contratti pubblici), il Duvri va redatto dal soggetto titolare del potere decisionale e di spesa relativo alla gestione dello specifico appalto, che resta dunque legalmente l'unico soggetto direttamente responsabile in caso di omessa predisposizione.
L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, con la determinazione n. 3 del 05.03.2008, recante disposizioni in materia di «Sicurezza nell'esecuzione degli appalti relativi a servizi e forniture. Predisposizione del documento unico di valutazione dei rischi (Duvri) e determinazione dei costi della sicurezza» (G.U. n. 64 del 15/03/2008 ) precisa quanto di seguito riportato: «si parla di interferenza nella circostanza in cui si verifica un «contatto rischioso» tra il personale del committente e quello dell'appaltatore o tra il personale di imprese diverse che operano nella stessa sede aziendale con contratti differenti. In linea di principio, occorre mettere in relazione i rischi presenti nei luoghi in cui verrà espletato il servizio o la fornitura con i rischi derivanti dall'esecuzione del contratto. Le Stazioni appaltanti hanno come unico riferimento per la redazione del Duvri l'art. 7 del citato decreto legislativo n. 626/1994 riguardante i contratti di appalto o contratti d'opera, che non fornisce indicazioni di dettaglio sulle modalità operative per la sua redazione. Dal dettato normativo, tuttavia, discende che il Duvri deve essere redatto solo nei casi in cui esistano interferenze. In esso, dunque, non devono essere riportati i rischi propri dell'attività delle singole imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi, in quanto trattasi di rischi per i quali resta immutato l'obbligo dell'appaltatore di redigere un apposito documento di valutazione e di provvedere all'attuazione delle misure necessarie per ridurre o eliminare al minimo tali rischi. In assenza di interferenze non occorre redigere il Duvri_».
È stato sottolineato dal Ministero del lavoro che «vi è la necessità, negli appalti pubblici o privati, di realizzare la cooperazione e il coordinamento tra committenti e appaltatori al fine della predisposizione della sicurezza «globale» delle opere e dei servizi da realizzare. Tale obiettivo risulta essere raggiungibile mediante l'elaborazione di uno specifico documento che formalizza tutta l'attività di cooperazione, coordinamento e informazione reciproca delle imprese coinvolte ai fini dell'eliminazione ovvero della riduzione dei possibili rischi legati all'interferenza delle diverse lavorazioni, tale obiettivo si raggiunge mediante la stesura del Duvri, la cui redazione deve essere effettuata con la stessa logica del Piano di sicurezza e coordinamento (Psc) previsto per i cantieri temporanei e mobili» (Titolo IV del dlgs n. 81/2008).
In questo modo, si estende a tutti i settori di attività l'obiettivo di lasciare una traccia precisa e puntuale delle «attività prevenzionistiche» poste in essere da tutti i soggetti che, a qualunque titolo, interagiscono nell'appalto. Il Duvri, elaborato a cura del committente-datore di lavoro, racchiude le linee guida operative che devono essere seguite dalle imprese e dai lavoratori autonomi coinvolti nelle attività oggetto di appalto. Viene poi indicato che nel contratto di appalto vanno identificati i costi relativi alla realizzazione delle misure adottate per eliminare o ridurre al minimo i rischi derivanti dalle interferenze delle lavorazioni a pena nullità del contratto stesso e che i Rappresentanti dei Lavoratori per la sicurezza (Rls) e gli organismi locali delle organizzazioni sindacali dei lavoratori hanno diritto di accesso ai dati relativi ai costi della sicurezza. La Circolare n. 5/2011 dell'11.02.2011 del Ministero del lavoro sul quadro giuridico degli appalti ha, inoltre, stabilito che i Rappresentanti dei lavoratori (Rls) hanno la possibilità di richiedere copia del Duvri stesso per l'espletamento della propria funzione».
La Cassazione ha precisato che «in materia di normativa antinfortunistica, il datore di lavoro [committente] è titolare di una posizione di garanzia e di controllo dell'integrità fisica anche dei lavoratori dipendenti dell'appaltatore e dei lavoratori autonomi operanti nell'impresa, poiché, ai sensi dell'art. 7, dlgs n. 626 del 1994 [ora art. 26 dlgs. n. 81/2008] è tenuto, tra l'altro, a cooperare all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione e a fornire alle imprese appaltatrici e ai lavoratori autonomi dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente di lavoro» [Cass. pen., Sez. 4, Sentenza n. 13917 del 17/01/2008 Ud. (dep. 3/4/2008 )].
La sentenza Cassazione penale, Sez. 4, 21.02.2012, n. 6857 ha fornito una accezione meglio definita di interferenza, e di conseguenti obblighi prevenzionali: l'accezione di interferenza tra impresa appaltante e impresa appaltatrice non può ridursi, ai fini della individuazione di responsabilità colpose penalmente rilevanti, al riferimento alle sole circostanze che riguardano «contatti rischiosi» tra il personale delle due imprese, ma deve fare necessario riferimento anche a tutte quelle attività preventive, poste in essere da entrambe antecedenti ai contatti rischiosi, destinate, per l'appunto, a prevenirli. In sostanza, ancorché il personale della ditta appaltatrice operi autonomamente nell'ambito del luogo di lavoro della ditta appaltante, deve esser messo in condizione di conoscere, a cura della appaltante, preventivamente i rischi cui può andare incontro in quel luogo di lavoro con riferimento, ovviamente, all'attività lavorativa che deve ivi svolgere.
Il principio generale in materia di interferenze tra ditta appaltante e appaltatrice, affermato con continuità da questa Corte è quello che, ove i lavori si svolgano nello stesso cantiere predisposto dall'appaltante in esso inserendosi anche l'attività dell'appaltatore per l'esecuzione di un'opera parziale e specialistica (ivi compresa, ovviamente, anche quella di cui ci si occupa), e non venendo meno l'ingerenza dell'appaltante e la diretta riconducibilità (quanto meno) anche a lui dell'organizzazione del comune cantiere, in quanto investito dei poteri direttivi generali inerenti alla propria qualità, sussiste la responsabilità di entrambi tali soggetti in relazione agli obblighi antinfortunistici, alla loro osservanza e alla dovuta sorveglianza al riguardo.
Un'esclusione della responsabilità dell'appaltante è configurabile solo qualora all'appaltatore sia affidato lo svolgimento di lavori, ancorché determinati e circoscritti, che svolga in piena e assoluta autonomia organizzativa e dirigenziale rispetto all'appaltante, e non nel caso in cui la stessa interdipendenza dei lavori svolti dai due soggetti escluda ogni estromissione dell'appaltante dall'organizzazione del cantiere. Nella ricorrenza delle anzidette condizioni, trattandosi di norme di diritto pubblico che non possono essere derogate da determinazioni pattizie, non potrebbero avere rilevanza operativa, per escludere la responsabilità dell'appaltante, neppure eventuali clausole di trasferimento del rischio e della responsabilità intercorse tra questi e l'appaltatore».
La sanzione penale contravvenzionale, che punisce la violazione dell'articolo 26, comma 3, del dlgs n. 81/2008, oblazionabile in via amministrativa col tramite degli ufficiali di polizia giudiziaria (u.p.g.) dei servizi ispettivi nei luoghi di lavoro delle Asl territorialmente competenti è dell'ammenda da 2 mila a 4 mila euro a carico del datore di lavoro o del dirigente eventualmente delegato in modo specifico per tal fine, per violazione dell'art. 18, lett. p), del dlgs n. 81/2008 (obbligo di elaborare il documento di cui all'articolo 26, comma 3) (articolo ItaliaOggi Sette del 28.01.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Anzio - Parere in merito all'applicabilità dell'art. 36 del d.P.R. 380/2001 ad abusi conformi alla legge regionale 21/2009 c.d. Piano Casa (Regione Lazio, parere 18.01.2013 n. 488227 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Sutri - Parere in merito al rilascio di un permesso di costruire per il completamento di un edificio a destinazione residenziale (Regione Lazio, parere 18.01.2013 n. 353373 di prot.).

CORTE DEI CONTI

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Parere in materia di personale in merito alla sottoposizione dei compensi aggiuntivi che un Ente intenderebbe corrispondere al personale dell'ufficio edilizia per lo svolgimento dell'istruttoria delle domande di concessione o di autorizzazione in sanatoria al momento pendenti nell’ambito dei vincoli al trattamento accessorio dei dipendenti imposti dall'art. 9, c. 2-bis, del D.L. 78/2010.
... il sindaco conclusivamente pone alla Sezione i seguenti quesiti:
1. se le risorse che si vorrebbe destinare ai sensi dell'art. 32, c. 40, del D.L. 269/2003 convertito nella L. 326/2003 a compensare l'attività, oltre l'orario di lavoro ordinario, del personale per l'espletamento delle istruttorie connesse al rilascio delle concessioni in sanatoria relativamente e specificamente riferite alle varie leggi statali e regionali inerenti il condono edilizio, possano ritenersi escluse dall'ambito applicativo dell'art. 9, c. 2-bis, del D.L.78/2010;
2. se, poiché sulla materia delle concessioni in sanatoria inerenti il condono edilizio il legislatore risulta essere intervenuto con disposizioni speciali, con vincoli di allocazione e di tipologia di impegno contabile e con previsioni puntuali destinate a finanziare l'incremento della produttività nello smaltimento dei carichi di lavoro relativi all'istruttoria "connessa al rilascio delle concessioni in sanatoria", tali somme possano essere erogate ai dipendenti senza transitare dal fondo della produttività rimanendo allocate al titolo Il della spesa come previsto dall'art. 2, c. 48, della L. n. 662/1996.

...
In merito al primo quesito prospettato dall’ente, giova premettere che sulla possibilità di considerare escluse dai vincoli di cui all’articolo 9, comma 2-bis, del DL /8/2010 le voci che alimentano il fondo risorse decentrate previste da specifiche disposizioni di legge ai sensi dell'art. 15, comma 1, lettera k), del CCNL 01/04/1999 e quelle previste dalla lettera d) del medesimo comma, ed in particolare i compensi ai sensi della Legge 24/11/2003 n. 326 destinati ad incentivare il personale dedicato all'istruttoria e definizione delle domande di condono edilizio questa Sezione si era già pronunciata con deliberazione n. 280/2012/PAR.
In quella sede si era affermato che “i criteri che sovraintendono le modalità per la valutazione delle voci da escludere o meno al fine della composizione del Fondo siano rinvenibili nella deliberazione delle Sezioni riunite (di seguito SS. RR.) n. 51/CONTR/2011 del 04.10.2011 resa in sede di nomofilachia e vertente sulla portata dei vincoli introdotti dall’articolo 9, comma 2-bis, del D.L. 31.05.2010 n. 78 convertito in Legge 30.07.2010 n. 122.
Per le SS.RR. la disposizione sopra richiamata è da considerarsi di stretta interpretazione; sicché, in via di principio, non sembra ammettere deroghe o esclusioni (cfr. anche delibera n. 285/2011/PAR di questa Sezione) in quanto la regola generale voluta dal legislatore è quella di porre un limite alla crescita dei fondi della contrattazione integrativa destinati alla generalità dei dipendenti dell’ente pubblico.
Al riguardo, questa Sezione ha avuto modo di sottolineare (deliberazioni n. 185/2012/PAR comune di Padova), che la Corte ha abbandonato il precedente criterio di esclusione della spesa del personale basato sulla circostanza che si tratti di compensi pagati con fondi che si autoalimentano con i frutti dell'attività svolta dai dipendenti e, di conseguenza, non comportano un effettivo aumento di spesa (Sez. Autonomie 16/2009; cfr. per l’applicazione di questo principio, questa Sezione delibera 57/2010/PAR) esprimendo, infatti, l’opzione per un criterio fondato sull’esclusione delle sole risorse di alimentazione dei fondi destinate a remunerare prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati o individuabili e che peraltro potrebbero essere acquisite attraverso il ricorso all’esterno dell’amministrazione pubblica con possibili costi aggiuntivi per il bilancio dei singoli enti (cfr. Corte dei conti SS.RR.QM 51/CONTR/11 del 04.10.2011).
Detta caratteristica ricorre per quelle risorse finalizzate a incentivare prestazioni poste in essere per la progettazione di opere pubbliche “…in quanto in tal caso si tratta all’evidenza di risorse correlate allo svolgimento di prestazioni professionali specialistiche offerte da personale qualificato in servizio presso l’amministrazione pubblica; peraltro, laddove le amministrazioni pubbliche non disponessero di personale interno qualificato, dovrebbero ricorrere al mercato attraverso il ricorso a professionisti esterni con possibili aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato”.
Deve aggiungersi, con specifico riferimento a tale tipologia di prestazione professionale, che essa afferisce ad attività sostanzialmente finalizzata ad investimenti. Per le Sezioni riunite caratteristiche analoghe presentano anche le risorse che affluiscono al fondo per remunerare le prestazioni professionali dell’avvocatura interna (comunale/provinciale), in quanto, pure in questo caso, si tratta di prestazioni professionali tipiche la cui provvista all’esterno potrebbe comportare aggravi di spesa a carico dei bilanci delle amministrazioni pubbliche.
Aggiunge ancora il Collegio che detto criterio, qualificante le ipotesi di deroga al divieto di superamento del tetto di spesa 2009 del Fondo, viene affiancato da un ulteriore criterio che concorre, in quanto contestualmente applicato, a delimitare le voci da includere od escludere qualora le stesse contribuiscano a determinare lo sforamento del limite posto dal legislatore. Affermano, infatti, le Sezioni riunite che “….diversamente le risorse che alimentano il fondo derivanti dal recupero dell’ICI o da contratti di sponsorizzazione non si sottraggono alla regola generale sopra indicata, nel senso cioè che esse devono essere computate ai fini della determinazione del tetto di spesa posto al fondo per la contrattazione integrativa dall’art. 9, comma 2-bis, citato, in quanto, a differenza delle risorse destinate ai progettisti interni e agli avvocati comunali/provinciali …sono potenzialmente destinabili alla generalità dei dipendenti dell’ente attraverso lo svolgimento della contrattazione integrativa
".
Proprio i due criteri, fissati dalle Sezioni Riunite nel parere 51/CONTR/2011 sopra richiamati che il comune di Sommacampagna mostra di ben conoscere forniscono, dunque, un valido strumento in base al quale le amministrazioni, tra le quali quella richiedente il parere, possono individuare le voci che concorrono alla determinazione dell’ammontare del fondo al fine dell’applicazione del tetto di spesa di cui al ricordato art. 9, comma 2-bis, del DL 78/2010.
Tuttavia, è dato evidenziare che la ricostruzione fornita dall’ente appare in parte persuasiva in relazione alla tesi della non riconducibilità delle risorse di cui trattasi al vincolo dell’articolo 2, comma 2-bis, del D.L. 7/2010. Invero, questa Sezione prima dell’entrata in vigore dell’art. 9 comma 2-bis, seppur in relazione alla riconducibilità o meno di dette spese a quelle di personale, aveva avuto modo di sostenere il carattere di specialità delle norme sui proventi da condono, anche attraverso una qualificazione giuridica delle risorse interessate, ritenendo che “dal momento che si tratta di norme speciali e derogatorie alla disciplina generale del trattamento accessorio del personale: si tratta, nella fattispecie, di compensi corrisposti con fondi che si autoalimentano con i diritti di segreteria che, di conseguenza, non comportano un effettivo aumento di spesa e inoltre si può certamente ipotizzare che la relativa attività possa essere svolta in tutto o in parte mediante incarico esterno.
La soluzione è corroborata dal fatto che essa presenta una ulteriore singolarità, rispetto alle altre considerate in precedenza, ovvero che la relativa attività deve essere svolta fuori orario di lavoro (v. art. 32, comma 40, del D.L. n. 269 del 2003, conv. L. n. 326 del 2003: “Per l'attività istruttoria connessa al rilascio delle concessioni in sanatoria i comuni possono utilizzare i diritti e oneri di cui al precedente periodo, per progetti finalizzati da svolgere oltre l'orario di lavoro ordinario”), e perciò del tutto assimilabile all’attività professionale, mentre le prime soggiacciono alla disciplina generale dell’orario di lavoro (ordinario o straordinario).
Ritiene pertanto la Sezione che la spesa relativa ai cc.dd. compensi per i condoni, in analogia a quanto statuito dalla delibera n. 16/2009 della Sezione Autonomie per i compensi per gli accertamenti ICI, a quelli di rogito e a quelli per la progettazione (art. 92 del d.lgs. 163/2006), non debba essere computata ai fini del rispetto del limite della spesa di personale
” (questa sezione deliberazione n. 57/2010/PAR).
Da detta deliberazione emerge chiaramente che l'attività istruttoria connessa al rilascio delle concessioni in sanatoria dei comuni appare “del tutto assimilabile all’attività professionale” ed in quanto tale qualificabile come servizio che potrebbe essere ben esternalizzato dal comune. Quando invece viene affidata a dipendenti dell’ente la stessa attività deve essere svolta “per progetti finalizzati da svolgere oltre l'orario di lavoro ordinario”.
La possibilità di esternalizzare detta attività si trae peraltro dalla stessa disposizione normativa. Infatti, la Legge 23-12-1996 n. 662 recante “Misure di razionalizzazione della finanza pubblica”, all’articolo 2, comma 48, dispone che “I comuni sono tenuti ad iscrivere nei propri bilanci le somme versate a titolo di oneri concessori per la sanatoria degli abusi edilizi in un apposito capitolo del titolo IV dell’entrata. Le somme relative sono impegnate in un apposito capitolo del titolo II della spesa. I comuni possono utilizzare le relative somme per far fronte ai costi di istruttoria delle domande di concessione o di autorizzazione in sanatoria, per anticipare i costi per interventi di demolizione delle opere di cui agli articoli 32 e 33 della legge 28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni, per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, per interventi di demolizione delle opere non soggette a sanatoria entro la data di entrata in vigore della presente legge, nonché per gli interventi di risanamento urbano ed ambientale delle aree interessate dall’abusivismo. I comuni che, ai sensi dell’articolo 39, comma 9, della legge 23.12.1994, n. 724, hanno adottato provvedimenti per consentire la realizzazione di opere di urbanizzazione con scorporo delle aliquote, possono utilizzare una quota parte delle somme vincolate per la costituzione di un apposito fondo di garanzia per l’autorecupero, con l’obiettivo di sostenere l’azione delle forme consortili costituitesi e di integrare i progetti relativi alle predette opere con progetti di intervento comunale”. Mentre, al successivo comma 49 si prevede che per “l'attività istruttoria connessa al rilascio delle concessioni in sanatoria i comuni possono utilizzare i fondi all'uopo accantonati, per progetti finalizzati da svolgere oltre l'orario di lavoro ordinario, ovvero nell'ambito dei lavori socialmente utili. I comuni possono anche avvalersi di liberi professionisti o di strutture di consulenze e servizi ovvero promuovere convenzioni con altri enti locali”.
Come evidenziato, la stessa legge prevede con il comma 48 una specifica destinazione delle somme versate a titolo di oneri concessori per la sanatoria degli abusi edilizi in apposito capitolo (del titolo IV dell’entrata): somme sulle quali si forma, in base alla medesima disposizione, un correlativo vincolo di destinazione delle spese effettuabili da iscriversi in un apposito capitolo (del titolo II della spesa). La norma prevede, altresì, la possibilità di considerare l’attività di trattazione delle pratiche di condono edilizio quale servizio e, pertanto al pari degli altri servizi, detta attività è esternalizzabile a professionisti o strutture di consulenza.
Da ciò emerge chiaramente la distinzione tra attività esternalizzabile qualificabile come servizio e attività non esternalizzabile che si appalesa quale funzione dell’ente, distinzione che questa Sezione aveva avuto modo di chiarire nel suo parere n. 185/2012/PAR, proprio in relazione all’operatività della deliberazione n. 51/CONTR/2011. In detto parere si affermava che “il nuovo indirizzo assunto dalla SSRR, decisamente più restrittivo del precedente, valorizza implicitamente infatti la antica ma sempre valida distinzione tra funzioni (essenzialmente dirette all'esplicazione di pubbliche potestà e che, per quel che riguarda gli Enti locali, vanno riservate almeno tendenzialmente ai loro organi e uffici istituzionali»: Tar Lazio 1512 - 30.09.1997) e servizi (consistenti precipuamente in attività di ordine tecnico o materiale), il cui connotato fondamentale è quello inerente a prestazioni professionali tipiche la cui provvista all’esterno potrebbe comportare aggravi di spesa a carico dei bilanci delle amministrazioni pubbliche mediante il ricorso al mercato (Corte dei conti SS.RR.QM 51/CONTR/11 del 04.10.2011).
La distinzione tra i «servizi pubblici» e le «pubbliche funzioni» -presa in considerazione dalla giurisprudenza anche di questa Corte (ex multis, Corte conti Lombardia/627/2011/PAR, sez. contr. Lazio, 14.02.2011, n. 15; Corte conti, sez. contr. 14.02.2011, n. 15; Sez. contr. Piemonte, 25.02.2010, n. 28; 15.04.2011, n. 47)- è peraltro nota non solo sul piano terminologico ma anche sostanziale anche al legislatore della legge sulle autonomie locali che, in varie disposizioni della legge stessa, ha fatto più volte uso sia del termine «funzioni» che di quello «servizi» (nello stesso senso, cfr. Tar Lazio 1512 - 30.09.1997).
La ratio è chiara: ove per l’espletamento di un determinato servizio si possa attingere al mercato attraverso il ricorso a professionisti esterni con possibili aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato (Corte dei conti SS.RR.QM 51/CONTR/11 del 04.10.2011), l’amministrazione può e deve effettuare una valutazione sull’economicità della spesa affidando tale servizio a risorse interne e compensandole in modo specifico, escludendo nel contempo che le risorse siano potenzialmente destinabili alla generalità dei dipendenti dell’ente attraverso lo svolgimento della contrattazione integrativa
" (Corte dei conti SS.RR.QM 51/CONTR/11 del 04.10.2011).
Applicando le coordinate interpretative sopra richiamate, sia derivanti dal dettato normativo che dalla lettura fornita dalla richiamata deliberazione n. 185/2012/PAR, emerge pacificamente come l’attività di disbrigo delle pratiche di condono possa essere qualificata come servizio anche perché affidabile all’esterno e detto affidamento può dunque involgere, proprio in applicazione delle coordinate ermeneutiche fissate nella deliberazione delle SS.RR n. 51/2011, professionisti od organi di consulenza esterni ma, anche dipendenti dell’ente che svolgano detta attività al di fuori dell’orario ordinario di lavoro. Di tal che, comunque, l’ente avrebbe la scelta se affidare il servizio, finalizzato all’espletamento delle pratiche di condono all’esterno o all’interno tramite progetto. Possibilità, quest’ultima, prevista specificamente dalla norma laddove l’articolo 32, comma 40, del DL 30.09.2003 n. 269 convertito in Legge 24.11.2003 n. 326 prevede che ”…….Per l'attività istruttoria connessa al rilascio delle concessioni in sanatoria i comuni possono utilizzare i diritti e oneri di cui al precedente periodo, per progetti finalizzati da svolgere oltre l'orario di lavoro ordinario”.
L’evidenziato approdo interpretativo trova una sua conferma nella posizione assunta dalla sezione regionale di controllo per la Campania che nel parere 166/2012/PAR, soffermandosi nel carattere speciale della normativa sul condono sopra richiamata ha affermato che “………..Le predette norme, oltre a classificare nell’alveo delle poste in conto capitale i proventi in argomento (introducendo l’obbligo di impegnare gli stessi “in un apposito capitolo del titolo II della spesa”, relativo, appunto, alle spese in conto capitale), conferiscono agli enti –sia pure nell’ambito delle tipologie indicate nel menzionato comma 48 e con le conseguenze derivanti dalla natura di tali poste- un’ampia discrezionalità in ordine alle effettive modalità di utilizzo di siffatti proventi, così come analoga discrezionalità è stata prevista dal legislatore –al fine di consentire l’ottimizzazione dell’attività istruttoria connessa al rilascio delle concessioni in sanatoria- nella particolare ipotesi normativa relativa al possibile utilizzo di fondi eventualmente accantonati, i quali possono essere destinati, per quello che rileva nel caso che ne occupa, anche a “progetti finalizzati da svolgere oltre l’orario di lavoro ordinario” (comma 49).…………Il legislatore appare aver così disciplinato –in particolare aggiungendo, in sede di conversione del menzionato decreto-legge, la previsione di cui all’ultimo periodo del menzionato comma 40- una specifica modalità di possibile utilizzazione delle risorse in questione, che l’Ente può infatti destinare (nelle forme ed alle condizioni di legge) al finanziamento proprio di quei “progetti finalizzati da svolgere oltre l’orario di lavoro ordinario ” testualmente previsti dall’art. 2, comma 49, della legge n° 662 del 1996; risorse che, per la specialità della suddetta disposizione normativa applicativa, nonché per la loro caratteristica strutturale, non appaiono soggette alla disciplina di cui all’art. 9, comma 2-bis, del decreto-legge n° 78 del 2010, cui fa riferimento l’Ente interpellante, pur rimanendo assoggettate all’inderogabile vincolo tipologico di impegno (e di destinazione) specificamente prescritto per “l’apposito capitolo” dal già menzionato, e tuttora vigente, comma 48 dell’art. 2 della legge n° 662 del 1996”. Conclude la Sezione campana affermando che “……..Ciò premesso, è evidente che, nell’esercizio della propria discrezionalità amministrativa, l’ente potrebbe, in astratto, anche prevedere di incentivare l’attività istruttoria finalizzata alla definizione delle domande di sanatoria mediante la “corresponsione di compensi aggiuntivi da destinare al personale dell’Ufficio tecnico tramite” l’utilizzazione (e non l’incremento rispetto all’anno precedente) “del fondo per la contrattazione decentrata” (ipotesi peraltro, mutatis mutandis, specificamente prospettata nella richiesta di parere de qua – pag. 2, righi 13-15), con ciò, però, da una parte, non potendo –ratione vinculorum– far rifluire in detto fondo le “somme versate a titolo di oneri concessori per la sanatoria degli abusi edilizi”, di cui al già menzionato comma 48, da iscriversi al titolo IV dell’entrata e da impegnarsi -ex lege- al titolo II della spesa (infatti, con l’utilizzo di detta modalità, l’Amm.ne si porrebbe al di fuori del contesto delle ipotesi tipizzate di possibile utilizzo dei diritti e degli oneri concessori di che trattasi, dettagliatamente elencate nella normativa speciale innanzi menzionata); dall’altra, ricadendo, conseguentemente, nell’obbligo dell’osservanza della disciplina generale che attualmente limita –senza alcuna distinzione finalistica- la possibilità di incremento dell’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, nel rispetto del vigente limite di cui al comma 2-bis dell’art. 9 innanzi citato”.
Dette considerazioni, che questa Sezione condivide consentono di dare risposta anche al secondo quesito prospettato dal comune di Sommacampagna.
Conclusivamente, alla luce di quanto evidenziato, il Collegio ritiene che
i proventi da diritti ed oneri da rilascio delle concessioni edilizie in sanatoria destinati a specifici progetti riguardanti la relativa attività di disbrigo delle pratiche, da svolgersi oltre l’ordinario (e straordinario orario di lavoro), sono esclusi (sterilizzati) dall’applicazione del vincolo di cui all’articolo 9, comma 2-bis, del DL 78/2010.
Ciò, purché sia stato costituito mediante apposito atto regolamentare un vincolo di destinazione delle relative somme (che non potranno assolutamente assorbire l’intera posta delle risorse collocate nell’apposito capitolo del titolo IV dell’entrata e che alimentano anche altre spese previste dal comma 48 richiamato) da iscrivere nell’apposito capitolo di spesa di bilancio ai sensi dell’articolo 2, comma 48, della Legge 662/1996
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 22.01.2013 n. 31).

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ENTI LOCALIUffici in vetrina. La p.a. ora può scegliere on-line. Il Demanio lancia il nuovo applicativo «Paloma».
Una bacheca immobiliare on-line per la pubblica amministrazione. Si chiama «Paloma» ed è il nuovo applicativo messo a punto dall'Agenzia del demanio per consentire alla p.a. di individuare gli immobili disponibili sul mercato, offerti in locazione e in vendita, funzionali alle proprie esigenze.
Tutti i proprietari (enti pubblici territoriali e non, ma anche i privati) interessati ad affittare e vendere immobili potranno registrarsi al sistema, compilando l'apposito modulo presente sul sito all'indirizzo http://paloma.agenziademanio.it  e inserendo tutti i dati e i documenti che verranno richiesti dalla piattaforma. Le inserzioni potranno essere visualizzate solo dal personale dell'Agenzia del demanio e delle amministrazioni interessate alla ricerca di immobili. Le offerte di locazione e vendita caricate sul sito avranno 6 mesi di validità (dalla data di inserimento) se l'utente è un privato o una persona giuridica.
Se la proposta proviene da enti pubblici la validità sarà di tre mesi. Dell'immobile bisognerà indicare ubicazione, epoca di costruzione, qualità delle finiture, tipologia costruttiva, stato di conservazione, classe energetica dell'edificio, canone di locazione richiesto o prezzo di vendita. Sarà inoltre obbligatorio allegare almeno una foto. Tra i campi non obbligatori, invece, figurano gli estratti delle mappe catastali, le planimetrie e il certificato di agibilità.
Come detto, in fase di prima applicazione del sistema, l'accesso sarà limitato alla sola Agenzia del demanio che potrà così avere una conoscenza dettagliata dell'offerta immobiliare e fornire alle Amministrazioni le informazioni sugli immobili. In una fase successiva, le p.a. potranno utilizzare direttamente il database per le proprie ricerche di mercato. Lo scopo è ovviamente quello di risparmiare.
«Paloma», scommette l'Agenzia, «consentirà di migliorare l'incontro tra domanda e offerta degli immobili sul mercato, e permetterà di valutare le migliori soluzioni allocative per le amministrazioni in termini di spazi e canone, in un'ottica di efficienza e contenimento dei costi». L'operatività della nuova piattaforma rischia però di essere fortemente limitata dalla legge di stabilità 2013 (legge n. 228/2012), almeno per quanto riguarda l'acquisto di immobili. Dall'anno prossimo, infatti, gli enti territoriali e gli enti del Servizio sanitario nazionale potranno acquistare immobili solo qualora sia «indispensabile» e «indilazionabile».
Dal 2013, invece, per le amministrazioni pubbliche inserite nell'elenco Istat sarà vietato acquistare immobili. Solo gli affitti saranno ammissibili, ma a condizione che si tratti di rinnovi di contratti, ovvero che la locazione sia stipulata a condizioni più vantaggiose. Alla stretta sfuggono solo gli acquisti destinati a soddisfare le esigenze allocative in materia di edilizia residenziale pubblica (articolo ItaliaOggi del 02.02.2013).

TRIBUTILe violazioni Tarsu si ripetono tutti gli anni.
L'obbligo di presentare la dichiarazione Tarsu si rinnova di anno in anno. Quindi, se viene omessa o è infedele la sanzione deve essere applicata anche per gli anni successivi al primo.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, con l'ordinanza 21.01.2013 n. 1334.
Per i giudici di piazza Cavour, nonostante la norma di legge consente al contribuente di limitarsi a denunciare le sole variazioni intervenute dopo la presentazione della dichiarazione originaria, senza dover assolvere all'obbligo tutti gli anni, «qualora la denunzia sia stata incompleta, infedele oppure omessa, l'obbligo di formularla si rinnova di anno in anno». Dunque, l'inottemperanza a questo obbligo deve essere sanzionata «anche per gli anni successivi al primo».
Questa regola è applicabile anche al nuovo tributo sui rifiuti e i servizi (Tares), istituito dal 2013, considerato che l'articolo 14 del dl 201/2011 dispone che a ogni annualità corrisponde un'obbligazione tributaria autonoma. Le sanzioni sono analoghe a quelle previste per la Tarsu anche nel quantum. La sanzione per omissione della dichiarazione è fissata in un minimo del 100% fino a un massimo del 200% del tributo evaso, mentre quella per infedeltà è stabilita entro le percentuali del 50% (minima) e del 100% (massima), sempre commisurata all'entità del tributo dovuto. In presenza di una violazione relativa alla dichiarazione (infedeltà o omissione), la sanzione deve essere irrogata per ciascuna annualità per la quale il contribuente l'ha commessa.
La Cassazione giudica infondata la tesi sostenuta dai giudici di merito, secondo cui la sanzione debba essere irrogata solo per il primo periodo d'imposta, mentre per quelli successivi, non sussistendo l'obbligo della dichiarazione, l'unica sanzione applicabile sarebbe quella del 30%, prescritta per i versamenti irregolari. Il fatto che sia previsto un unico obbligo dichiarativo non vuol dire che sia contestabile solo una volta la violazione. L'obbligo è unico nel momento in cui viene assolto.
Pertanto, fino a che non viene posto in essere l'adempimento richiesto dalla legge, sussiste sempre la violazione che si ripete nel corso dei vari anni d'imposta. Il fatto che il contribuente abbia il dovere giuridico di porre rimedio all'infedeltà o all'omissione determina una ripetizione dell'originaria violazione (articolo ItaliaOggi del 02.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

INCARICHI PROFESSIONALIP.a., incarichi al canto del cigno. No ai rinnovi. Sì alle proroghe ma il compenso non cambia. La legge di stabilità 2013 limita ancora la possibilità di conferire collaborazioni.
La legge di stabilità 2013 limita ulteriormente la possibilità di conferire incarichi di collaborazione da parte delle pubbliche amministrazioni: vengono vietati i rinnovi e sono di fatto rese assai poco appetibili le proroghe.
La disposizione è contenuta nel comma 147 dell'articolo 1 della legge n. 228/2012 e ha un carattere permanente, infatti è dettata come modifica all'articolo 7, comma 6, del dlgs n. 165/2001.
Essa si aggiunge ai vincoli procedurali e al tetto alla spesa introdotti dalla legislazione degli ultimi anni. Oltre al contenimento della spesa la nuova disposizione vuole obbligare le amministrazioni a scegliere i professionisti, rispettando i vincoli di pubblicità quanto il ricorso a criteri di selezione comparativa.
L'ambito di applicazione della disposizione è assai ampio: sono esclusi unicamente gli incarichi cosiddetti professionali, cioè quelli conferiti ai sensi del dlgs n. 163/2006, cioè il Testo unico sugli appalti. Ricordiamo che i principali incarichi professionali sono la rappresentanza in giudizio per gli avvocati e gli incarichi di progettazione, direzione lavori, collaudo ecc. per i lavori pubblici, nonché la progettazione di strumenti urbanistici. La disposizione non si applica neppure agli incarichi conferiti a società. Per cui sono compresi nell'ambito di applicazione della disposizione sia le collaborazioni coordinate e continuative sia gli incarichi di collaborazione occasionale sia gli incarichi di consulenza, studio e ricerca.
Il rinnovo degli incarichi di collaborazione conferiti a persone fisiche è seccamente vietato da parte del legislatore. Il carattere assai rigido della disposizione non ammette deroghe di sorta.
Di conseguenza, per esempio, l'eventuale finanziamento del conferimento di questi incarichi con risorse provenienti da altre amministrazioni o dalla Unione europea o da privati non apre la possibilità di rinnovo.
Il secondo precetto dettato dal legislatore è l'imposizione di drastici limiti alla possibilità di prorogare questi incarichi. In primo luogo, viene previsto che ciò sia possibile solamente in presenza di circostanze eccezionali. E cioè il progetto o l'obiettivo per il cui raggiungimento l'incarico è stato conferito non è stato raggiunto e ciò non deve essere in alcun modo imputabile al collaboratore. Si deve sottolineare che questa innovazione non ha un carattere stravolgente rispetto ai principi dettati dalla legislazione precedentemente in vigore: siamo in presenza di un rafforzamento dei vincoli che erano già in vigore.
L'innovazione di maggiore rilievo è la seguente: la proroga è consentita «ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di conferimento dell'incarico». La norma è quanto mai chiara: in caso di proroga non è possibile attribuire alcun nuovo compenso, si rimane nell'ambito di quello già fissato. È evidente la conseguenza che questa disposizione determinerà: la proroga degli incarichi di consulenza, collaborazione, studio e ricerca non sarà più ambita da parte dei professionisti privati. Pertanto, oltre alla spinta che si determinerà al completamento entro i termini previsti di tutte le attività connesse agli incarichi, le amministrazioni dovranno dare corso al conferimento di un nuovo incarico nel caso in cui intendano completare o intendano proseguire le attività per le quali hanno deciso di utilizzare risorse esterne.
Il che vuol dire in particolare che: l'incarico deve essere compreso nella programmazione adottata dall'ente, occorre dimostrare che non vi sono nell'ente risorse professionali in grado di svolgere quella attività, il collaboratore deve essere di norma in possesso della laurea, si deve garantire un'adeguata pubblicità preventiva alla volontà dell'ente di conferire incarichi, il compenso deve essere fissato sulla base di criteri oggettivi, l'incarico deve riguardare attività ulteriori rispetto a quelle ordinarie, il conferimento deve essere pubblicato sul sito internet, nel caso di compensi superiori a 5 mila euro occorre dare informazione alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti e occorre dare comunicazione al dipartimento della funzione pubblica (articolo ItaliaOggi dell'01.02.2013).

APPALTIAppalti, pubblicità doppia. Oltre ai bandi anche gli affidamenti a trattativa privata. Il dlgs attuativo della legge anticorruzione conferma gli obblighi di pubblicazione.
Fatti salvi tutti gli obblighi di pubblicità, anche sui quotidiani, per i bandi e avvisi di contratti pubblici, le amministrazioni dovranno pubblicare anche le delibere di affidamento per contratti a trattativa privata, i certificati di ultimazione dei lavori e il conto finale dei lavori. Obbligo di trasmissione dei dati pubblicati all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, la quale potrà denunziare alla Corte dei conti le amministrazioni inadempienti.
Introdotto il nuovo istituto del diritto di accesso civico. Previsto un piano triennale per la trasparenza. Sanzioni per la violazione degli obblighi di pubblicità.

Sono questi alcuni dei punti più rilevanti previsti nello schema di decreto legislativo attuativo dell'articolo 1, comma 35 della legge «anticorruzione» (190/2012) predisposto su proposta del ministro della pubblica amministrazione e semplificazione, che prevede anche l'obbligo di delle situazioni patrimoniali di politici, e parenti entro il secondo grado, degli atti dei procedimenti di approvazione dei piani regolatori e delle varianti urbanistiche.
Da indiscrezioni filtrate da ambienti ministeriali risulterebbe che il testo, approvato in via preliminare la scorsa settimana dal Consiglio dei ministri, è stato modificato e inviato, oltre alla Conferenza unificata anche ad altri enti competenti per materia ai quali è stato chiesto di esprimere un parere.
Il provvedimento non dovrebbe quindi andare alle commissioni parlamentari per i pareri e, nell'auspicio del governo, dovrebbe essere approvato entro la fine di febbraio.
Per i contratti pubblici lo schema di regolamento richiama, facendoli «fermi», «gli altri obblighi di pubblicità legale e, in particolare quelli sui siti web delle stazioni appaltanti relativi ai bandi e alle gare per affidamento di lavori, forniture e servizi»; ciò conferma, quindi, la vigenza di tutti gli obblighi di pubblicità previsti dal Codice dei contratti pubblici (artt. 66 e 124 del dlgs 163/2006), ivi compresa la pubblicità per estratto sui quotidiani di avvisi e bandi (vedi ItaliaOggi del 30.11.2012 e 25.01.2013).
Si introduce, in aggiunta agli usuali obblighi di pubblicità dei bandi e degli avvisi, l'obbligo di pubblicazione della determina di aggiudicazione definitiva dell'appalto, l'importo di aggiudicazione, il soggetto aggiudicatario, la base d'asta, la procedura di selezione, il numero degli offerenti, i tempi di completamento dell'appalto; l'importo delle somme liquidate, eventuali modifiche contrattuali le decisioni di ritiro e recesso dei contratti.
Per i contratti al di sotto dei 20 mila euro si potrà effettuare una pubblicazione in forma «integrata». Prevista anche la pubblicazione delle determine a contrarre per le procedure a trattativa privata senza bando di gara. Entro il 31 gennaio di ogni anno ciascuna amministrazione comunicherà i dati anche all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici che a sua volta le pubblicherà sul proprio sito rendendoli liberamente accessibili a tutti i cittadini.
L'organismo di vigilanza dovrà anche segnalare entro fine aprile di ogni anno alla Corte dei conti le amministrazioni che non avranno pubblicato le informazioni.
Lo schema prevede poi, in generale, il nuovo istituto del diritto di accesso civico che consentirà a tutti i cittadini hanno diritto di chiedere e ottenere che le p.a. pubblichino atti, documenti e informazioni che detengono e che, per qualsiasi motivo, non hanno ancora divulgato.
Infine viene disciplinato il Piano triennale per la trasparenza e l'integrità, che è parte integrante del Piano di prevenzione della corruzione, che dovrà indicare le modalità di attuazione degli obblighi di trasparenza e gli obiettivi collegati con il piano della performance. Previste sanzioni da 500 a 10 mila euro (articolo ItaliaOggi dell'01.02.2013 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTII pagamenti sprint mal si conciliano con l'obbligo del Durc. Nel recepire le norme europee il legislatore non le ha armonizzate con l'ordinamento italiano.
L'accelerazione dei termini di pagamento non si coordina con l'obbligo di acquisire il Durc. Risulta praticamente impossibile per le pubbliche amministrazione pagare gli appaltatori entro i 30 giorni previsti dal dlgs 192/2012, che ha integrato e modificato il dlgs 231/2002, recependo le direttive europee sui pagamenti.
La ragione fondamentale non consiste, tanto, nel termine per procedere, quanto nella circostanza che nel recepire le norme europee il legislatore italiano ha mancato di compiere l'opera essenziale, cioè l'armonizzazione della disciplina comunitaria, con l'ordinamento italiano. È proprio esclusivamente del nostro sistema, infatti, l'obbligo di acquisire un Durc regolare non solo per effettuare il pagamento, ma per la stessa fase preliminare alla procedura, cioè la liquidazione in quanto non risulta possibile considerare pagabile la prestazione, se non si verifica la regolarità della posizione dell'azienda.
In ogni caso, l'istruttoria tecnico-contabile è compiuta nella fase della liquidazione, visto che il pagamento consegue quasi meccanicamente all'ordine al tesoriere emesso dai servizi finanziari, in base ai controlli contabili sulle liquidazioni.
Il problema sorge dalla circostanza che il dlgs ha eliminato la possibilità per le parti di fissare nel contratto un termine diverso dai 30 giorni. Questi decorrono: dalla data di consegna delle merci o dall'effettuazione della prestazione se la fattura sia emessa prima o non risulti certa la data; dalla presentazione della fattura; o, infine, dalla data di effettuazione della verifica della correttezza del bene fornito o della prestazione svolta.
In assenza della possibilità di definire termini diversi, i 30 giorni disponibili per l'istruttoria sulla regolarità della fattura, l'ordinazione e il pagamento coincidono con l'eguale periodo previsto dalla disciplina del Durc per il rilascio del certificato. Avrebbe dovuto essere noto al legislatore che Inps, Inail e Cassa edile impiegano sostanzialmente sempre tutto il periodo di 30 giorni a loro disposizione, per il rilascio del certificato (per altro, il tutto in aperta violazione della disciplina sulla «decertificazione»).
Il dlgs 192/2012 non ha risolto questa difficoltà operativa, come avrebbe potuto stabilendo un termine ordinariamente più ampio per i pagamenti della pubblica amministrazione o, meglio, modificando la disciplina del Durc, con l'eliminazione dell'istanza e la possibilità per le amministrazioni di accedere direttamente alle banche dati dell'Inps per visualizzare in tempo reale la situazione previdenziale delle aziende.
I rischi della cattiva opera di recepimento e coordinamento sono almeno tre.
Il primo è l'abuso della possibilità, prevista dal nuovo articolo 4, comma 4, del dlgs 231/2002 di portare il termine di pagamento a 60 giorni.
Tale facoltà è condizionata «dalla natura o dall'oggetto del contratto o dalle circostanze esistenti al momento della sua conclusione». A meno di non considerare l'obbligo di acquisire il Durc una «circostanza» che giustifichi sempre il raddoppio dei termini, risulta in modo piuttosto evidente motivare l'esistenza di ragioni per il prolungamento dei termini del pagamento connesse alla natura e all'oggetto del contratto, elementi che, a ben vedere, con l'adempimento del debitore nulla hanno a che vedere.
Il secondo rischio è quello dell'inserimento nei contratti di clausole di deroga al termine ordinario di 30 giorni nulle, con il relativo contenzioso.
Il terzo, quello più grave, è la violazione diffusa dei termini, con le conseguenze anche di natura finanziaria potenzialmente derivanti, considerato l'elevato tasso di interesse di mora e la penale di 40 euro introdotta dal dlgs 192/2012.
Un sistema per evitare di raddoppiare senza effettive giustificazioni i termini di pagamento o sforarli è prevedere il pagamento entro 30 giorni dalle verifiche delle prestazioni, inoltrando la richiesta del Durc in coincidenza con la consegna del bene o del verbale di esecuzione del servizio o dello stato di avanzamento. In questo modo, vi sono a disposizione 30 giorni per compiere le verifiche e altri 30 per effettuare il pagamento: in questo lasso di tempo si dovrebbe riuscire a ottenere l'attestazione della regolarità contributiva.
Il sistema migliore, tuttavia, è una modifica normativa urgente, che elimini la confusione operativa determinata dalla riforma, fissi tempi certi per i pagamenti che, però, tengano conto degli adempimenti imposti alle pubbliche amministrazioni (articolo ItaliaOggi dell'01.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum, il sindaco conta. Per raggiungere la maggioranza di 2/3. La legge prevede espressamente quando il voto non va computato.
Il voto del sindaco può essere ricompreso tra quelli, espressi dai due terzi dei consiglieri, necessari per approvare la deliberazione volta ad avviare la procedura per l'istituzione di un nuovo comune a seguito di fusione, come stabilito da una legge regionale che rinvia all'art. 6 del dlgs n. 267/2000? Il sindaco deve essere computato ai fini del «quorum strutturale» del consiglio comunale per l'approvazione delle modifiche dello statuto comunale?

La legge regionale rinvia, per l'adozione delle deliberazioni in questione, alle «modalità e procedure» per l'approvazione dello statuto comunale disposte dall'art. 4, comma 3, della legge n. 142/1990, ora sussunto nell'art. 6 del dlgs n. 267/2000. Sull'argomento non si riscontrano orientamenti giurisprudenziali univoci (cfr Tar Puglia sent. 1301/2004, Tar Lazio, sez. II-ter, sentenza n. 497/2011 e Tar Lombardia sentenza n. 1604/2011); l'art. 6, comma 4, del Tuel n. 267/2000 dispone che «gli statuti sono deliberati dai rispettivi consigli con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati; le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche alle modifiche statutarie».
Tale normativa ha previsto un procedimento aggravato per l'approvazione delle norme statutarie, nonché delle relative modifiche, sia disponendo che, in caso di mancata approvazione dei due terzi dell'assemblea, si debba ripetere la votazione entro 30 giorni sia prescrivendo che lo statuto sia approvato se ottiene per due volte -in sedute successive- il voto favorevole della maggioranza assoluta dei membri assegnati al collegio. L'approvazione dello statuto, pertanto, attesa la natura di atto normativo «fondamentale» sua propria, comma 2 art. 6 cit., comporta che su di esso converga il più elevato numero di consensi attraverso un'ampia discussione e comparazione d'interessi da parte della maggioranza e dell'opposizione consiliare.
Tale particolare esigenza ha determinato, conseguentemente, la previsione di maggioranze speciali disponendo che i quorum, rispettivamente della prima e delle altre votazioni, siano ragguagliati ai due terzi o alla maggioranza assoluta non dei votanti, ma dei consiglieri assegnati.
Pertanto, l'iter deliberativo di approvazione dello statuto e delle sue modifiche comporta che in sede di prima votazione la delibera sia approvata con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati ivi compreso il sindaco, che è componente del consiglio comunale ai sensi dell'art. 37 del citato Testo unico. Infatti, l'ordinamento ha indicato espressamente le ipotesi in cui non ha inteso computare il sindaco o il presidente della provincia nel quorum richiesto per la validità di una seduta, usando la formula «senza computare a tal fine il sindaco e il presidente della provincia» (articolo ItaliaOggi dell'01.02.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ INCOMPATIBILITÀ/1
Sussistono le condizioni di ineleggibilità e/o incompatibilità, ai sensi degli artt. 60 e 63 del Tuel, nei confronti di un consigliere comunale in carica che risulta componente e capo della squadra antincendi boschivi della protezione civile comunale, formata esclusivamente da volontari?

Non sussistono le condizioni di ineleggibilità e/o incompatibili citate negli artt. 60 e 63 del decreto legislativo n. 267/2000, considerato che non è ammesso estendere l'ambito applicativo delle disposizioni in questione, in quanto le norme che restringono eccezionalmente diritti di status -come, nel caso di specie, il diritto di elettorato passivo riconosciuto dall'art. 51 della Costituzione- sono norme di stretta interpretazione, le cui previsioni non possono essere estese in via analogica, al di fuori dei casi espressamente indicati (cfr. ex multis, Consiglio di stato, I sezione, 22.10.2088, n. 3376).
INCOMPATIBILITÀ/2
Sussiste l'ipotesi dell'incompatibilità, ai sensi dell'art. 63 del Tuel, tra la carica di presidente di un'Unione di comuni e gli incarichi tecnici che lo stesso che svolge nei comuni facenti parte della Unione?

Secondo il Consiglio di stato, «le ipotesi di incompatibilità si applicano solo nei casi ivi testualmente menzionati (art. 63 del decreto legislativo n. 267/2000), in quanto il ricorso all'analogia non è consentito dal principio interpretativo generale per cui le norme che restringono eccezionalmente diritti di status sono di stretta interpretazione» (Consiglio di stato parere n. 5862/08 del 13-01-208). Trattandosi, quindi, di «principio interpretativo generale», va esclusa la sussistenza di incompatibilità nell'ipotesi in questione (articolo ItaliaOggi dell'01.02.2013).

CONSIGLIERI COMUNALILettera al ministero. Taglio indennità, giudici divisi. L'Anci chiede chiarimenti.
La riduzione del 10% dei gettoni degli amministratori locali è ancora in vigore, dicono le sezioni unite della Corte dei conti. Anzi no, perché si è applicata solo per il triennio 2006-2008, risponde la sezione autonomie. Sul punto insomma i giudici contabili si fronteggiano da anni e le sezioni regionali complicano le cose, come dimostrato da un recente parere della Corte conti Toscana (n. 259/2012).
Per questo l'Anci ha preso carta e penna e ha scritto al ministero dell'interno chiedendo un intervento chiarificatore «urgente» da parte del Viminale. I comuni, infatti, brancolano nel buio e continuano a inviare richieste di parere per conoscere l'esatta determinazione degli emolumenti da corrispondere agli amministratori locali.
La querelle si trascina dal 2005 quando il governo con la Finanziaria 2006 (legge n. 266/2005) ha disposto una riduzione del 10% per tre anni delle indennità degli organi elettivi degli enti locali. Nel 2009, interrogata sul punto dalla sezione di controllo per l'Emilia-Romagna, la sezione autonomie della Corte dei conti ha affermato che il taglio doveva considerarsi non più in vigore. E dello stesso avviso è sembrato essere il legislatore tanto che con il dl 78/2010 ha riproposto il taglio disponendo che con decreto del Mininterno gli importi fossero ridotti dal 3 al 10% a seconda della popolazione dell'ente.
Secondo l'Anci la base di partenza per calcolare le riduzioni deve essere quella originaria (il regolamento approvato con dm n.119/2000) e non la legge 266 perché in questo caso, la decurtazione sarebbe stata del 13, 17 e 20%. Il decreto del Viminale però non è mai stato emanato e questo sta creando molte incertezze nei comuni (articolo ItaliaOggi del 30.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGOAnticorruzione a 360°. Sanzionabili abusi penalmente irrilevanti. Le istruzioni della Funzione pubblica per applicare la legge 190/2012.
La legge n. 190/2012 «amplia» la nozione di corruzione. Nel senso che il suo concetto deve essere inteso «in senso lato», ovvero comprensivo di tutte quelle situazioni in cui, durante l'azione amministrativa, si riscontri l'abuso, da parte di un soggetto, del potere a lui affidato, al fine di ottenerne dei vantaggi.
Quindi, le fattispecie da affrontare sono più ampie di quelle disciplinate dal codice penale, comprendendo quelle situazioni che, a prescindere dalla loro rilevanza sul piano penale, fanno emergere un «malfunzionamento» dell'amministrazione a causa dell'uso privato dell'esercizio delle funzioni pubbliche.

È quanto si desume dalla lettura della circolare 25.01.2013 n. 1/2013, emanata pochi giorni fa dal dipartimento della funzione pubblica, con cui si forniscono i primi indirizzi operativi sulle disposizioni recate dalla legge sopra indicata, entrata in vigore lo scorso 28 novembre, soprattutto segnalando la tempestiva necessità di procedere alla nomina del dirigente responsabile della prevenzione.
Le prescrizioni contenute nella legge sopra indicata, poi, si applicano a tutte le pubbliche amministrazioni incluse nel dlgs n. 165/2001. Pertanto, il campo applicativo della norma comprende anche le regioni e gli enti locali. In questi enti, di regola, la figura del responsabile della prevenzione della corruzione deve essere rivestita dal segretario generale. Inoltre, nella scelta di tale figura, le p.a. dovranno valutare i soli dirigenti che non siano stati destinatari di provvedimenti giudiziali di condanna e che abbiano dato dimostrazione, nel tempo, di un comportamento integerrimo.
Sul versante dei soggetti destinatari delle disposizioni, poi, la circolare evidenzia che il comma 59 dell'articolo 1 della legge precisa che le disposizioni di prevenzione della corruzione sono attuazione diretta dell'articolo 97 della carta costituzionale. Pertanto, il campo attuativo comprende anche le regioni e gli enti locali che, entro il 28 marzo prossimo, attraverso le intese in Conferenza Unificata, dovranno mettere nero su bianco i loro adempimenti, anche prevedendo misure di flessibilità in materia di scadenze dei termini per gli adempimenti.
Sull'identikit del responsabile della prevenzione, il ministro Filippo Patroni Griffi non ha dubbi. Negli enti locali, la figura deve essere svolta dal segretario con provvedimento di nomina da parte dell'organo di vertice politico, mentre eventuali diverse soluzioni dovranno essere adeguatamente motivate. Per i ministeri, poi, la nomina spetta direttamente al ministro, mentre per gli altri enti, dovrà provvedere l'organo che ha le funzioni di indirizzo e controllo. Preferibilmente, la scelta dovrà ricadere sui dirigenti di prima fascia di ruolo, così da evitare che eventuali iniziative che lo stesso vorrà intraprendere nei confronti dell'amministrazione «possano essere compromesse dalla precarietà dell'incarico».
Infine, nei criteri di scelta dovrà essere tenuto in massima considerazione anche il fascicolo personale del soggetto da nominare. In pratica, scrive Patroni Griffi, chi dovrà svolgere la funzione di responsabile anticorruzione dovrà avere un curriculum e uno stato di servizio che non sia stato macchiato da provvedimenti di condanna o disciplinari e che, nel tempo, abbia sempre dato prova di un comportamento integerrimo (articolo ItaliaOggi del 29.01.2013).

APPALTI: Durc libero dai debiti dei soci. Le irregolarità non bloccano il rilascio del documento.  Il ministero del lavoro ha risposto a un interpello del Consiglio nazionale dell'ordine.
In risposta a interpello del Consiglio nazionale, il Ministero del lavoro ha affermato che nell'ambito della verifica della regolarità contributiva delle società di capitali non rileva la posizione contributiva dei singoli soci, con la conseguenza che le eventuali pregresse irregolarità dei versamenti contributivi riguardanti gli stessi non possono incidere sul rilascio del Durc.

L'accoglimento della tesi sostenuta dai consulenti del lavoro risolve positivamente una serie molto numerosa di casi bloccati dall'Inps. «Ci siamo attivati perché da tutto il territorio nazionale sono pervenute segnalazioni di mancata emissione del Durc a società regolari dal punto di vista contributivo ma con presenza di debiti individuali dei soci a volte anche per cifre irrilevanti, «precisa il vicepresidente del Consiglio nazionale Vincenzo Silvestri.
La risposta a interpello 24.01.2013 n. 2/2013, diramata dal Ministero del lavoro sentita la Direzione generale Inps, ribadisce e ripristina principi generali del diritto più volte e ripetutamente violati, sancendo -ove ve ne fosse bisogno- la palese differenza e autonomia giuridica tra persone fisiche e giuridiche. La disposizione è immediatamente operativa e opponibile nel caso di diverso orientamento amministrativo.
Il Consiglio nazionale dell'Ordine dei consulenti del Lavoro ha avanzato istanza di interpello a questa Direzione per conoscere se, in caso di richiesta di un Documento unico di regolarità contributiva (Durc) che preveda la verifica della posizione ai fini degli obblighi contributivi previdenziali nei confronti dell'Inps di una società di capitali, la stessa debba essere effettuata anche sulla posizione personale dei singoli soci e, in tal caso, in presenza di eventuali pregresse irregolarità contributive, se debba essere negata la regolarità contributiva della società.
Al riguardo, acquisito il parere della Direzione generale per le politiche previdenziali e assicurative e dell'Inps, si rappresenta quanto segue.
Va anzitutto precisato quali sono gli adempimenti e le verifiche da espletare in fase di rilascio del Durc in relazione alle diverse tipologie di imprese richiedenti.
In particolare, in merito alle società di capitali, trattandosi di persone giuridiche caratterizzate da autonomia patrimoniale «perfetta» e, quindi, dalla separazione completa tra il capitale sociale e il patrimonio personale dei soci, il controllo di regolarità nei versamenti contributivi deve essere effettuato sulla contribuzione dovuta dai datori di lavoro per i lavoratori con rapporto di lavoro subordinato e dai committenti/associanti che occupano lavoratori con rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, resa anche nella modalità a progetto, aventi per oggetto la prestazione di attività svolte senza vincolo di subordinazione.
Ciò in considerazione del fatto che, nelle società di capitali, l'irregolarità della posizione contributiva personale dei singoli soci non può rilevare ai fini dell'accertamento dell'irregolarità delle stesse società che, in ragione del regime patrimoniale civilistico che le regola, non possono essere chiamate a rispondere delle irregolarità contributive riferibili ai medesimi soci.
Le società di capitali, infatti, in quanto titolari di un proprio patrimonio del tutto autonomo e distinto da quello dei soci, rispondono delle obbligazioni sociali nei limiti del proprio patrimonio.
Ne deriva che sul patrimonio sociale non possono trovare soddisfazione i creditori personali del socio e, al contempo, i creditori sociali non possono escutere il patrimonio personale dei soci.
La posizione dei soci, pertanto, non deve essere oggetto di verifica al fine del rilascio del Durc che sia richiesto per effettuare il controllo di regolarità della società di capitali nella quale la stessa posizione è rivestita.
Tale verifica appare invece necessaria in caso di società di persone ed in relazione al versamento contributivo dovuto dal socio sulla propria posizione, così come del resto già evidenziato da questo ministero con circ. n. 5/2008.
In linea con l'orientamento sopra esplicitato si ritiene, pertanto, che nell'ambito della verifica della regolarità contributiva delle società di capitali non rileva la posizione contributiva dei singoli soci, con la conseguenza che le eventuali pregresse irregolarità dei versamenti contributivi riguardanti gli stessi non possono incidere sul rilascio del Durc (articolo ItaliaOggi del 29.01.2013).

PUBBLICO IMPIEGO:  «Pa». La Funzione pubblica: non affidare l'incarico a chi si occupa di contratti e patrimonio. Anticorruzione subito al via. Il responsabile va individuato fra dirigenti stabili «non a rischio».
LE ISTRUZIONI/ Ministeri ed enti territoriali devono individuare a breve il «guardiano della legalità» per inviare il piano triennale entro il 31 marzo.

Il «responsabile della prevenzione» dell'illegalità previsto dalla legge anti-corruzione va individuato tra i dirigenti «stabili» e lontani dagli uffici dove si annidano potenziali conflitti d'interesse. La scelta, a carico dell'«organo politico» (ministri, presidenti di Regione o di Provincia, sindaci), va compiuta subito, perché entro il 31 marzo ogni Pubblica amministrazione deve preparare e inviare alla Funzione pubblica il proprio piano anti-corruzione.
A dettare le istruzioni operative per tradurre in pratica le norme anticorruzione scritte nella legge 190/2012 è la Funzione pubblica, che nella circolare 25.01.2013 n. 1/2013 fissa tempi e calendario per le nuove procedure.
Il perno intorno a cui ruotano le attività di «prevenzione» di tangenti e affini previste dalla legge approvata il 6 novembre scorso è il «responsabile anti-corruzione», che va scelto fra i vertici di ogni amministrazione. Nel caso di Comuni e Province, è la stessa legge a indicare nel segretario generale la figura "tipica" a cui assegnare il compito (sindaci e presidenti possono comunque effettuare scelte diverse, se motivate).
Il quadro è più articolato nelle Pubbliche amministrazioni centrali, dove la legge spiega che il responsabile della legalità va individuato «di norma fra i dirigenti di prima fascia in servizio». Nelle Regioni, dove la dirigenza non è divisa in prima e seconda fascia, la nomina va indirizzata su chi guida un ufficio articolato al proprio interno in ulteriori strutture organizzative con un altro dirigente al vertice.
Il dato chiave è offerto dal peso dei compiti a carico del "prescelto", che potrà essere oggetto di sanzioni per responsabilità dirigenziale e disciplinare: se emerge un reato di corruzione negli uffici soggetti al suo controllo, il responsabile che non ha vigilato sull'attuazione delle procedure scritte nel piano anti-corruzione potrà essere sospeso dal servizio fino a un anno ed essere chiamato dalla Corte dei conti a rispondere per danno erariale e danno d'immagine nei confronti della Pubblica amministrazione.
Per questa ragione, Palazzo Vidoni sottolinea che il responsabile anti-corruzione dovrà avere "spalle robuste". Sono quindi banditi dalla scelta i dirigenti degli uffici di diretta collaborazione di ministri e dirigenti, perché titolari di un rapporto fiduciario con l'autorità politica, ma più in generale è sconsigliato affidare i galloni ai dirigenti a contratto: meglio i titolari di «posizioni di relativa stabilità», anche per non compromettere l'eventuale applicazione delle sanzioni.
Nella designazione, secondo la Funzione pubblica, è meglio inoltre stare alla larga da chi guida strutture come gli uffici che si occupano di contratti o di gestione del patrimonio, considerati dalla circolare settori «più esposti al rischio della corruzione», e il responsabile dell'ufficio procedimenti disciplinari, perché in conflitto d'interessi (articolo Il Sole 24 Ore del 29.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIPiccoli enti. Con il 2013 al via l'obbligo di riorganizzazione dei Comuni fino a 5mila abitanti.
Unioni a competenza ampia. Le gestioni associate devono riguardare anche personale e finanze.

I Comuni fino a 5mila abitanti devono associare tramite unione tra Comuni o convenzione le loro «funzioni fondamentali». Il percorso associativo deve essere avviato e completato entro il 2013 secondo le modalità definite dalla legge statale e regionale.
Non è pacifica, prima di tutto, la delimitazione della prima funzione indicata all'articolo 14, comma 27, del Dl 78/2010 («organizzazione generale dell'amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo»). Va segnalata anzitutto una posizione interpretativa più attenta al dato formale, che sembra in effetti restringere l'obbligo al semplice coordinamento dei servizi amministrativi oltre che alla gestione finanziaria e contabile.
D'altra parte occorre considerare lo spirito della legge: l'elenco comprende le «funzioni fondamentali» rilevanti per la definizione dei costi standard e dei fabbisogni finanziari delle autonomie locali. Sotto questo profilo, i servizi interni complessivamente intesi costituiscono una parte irrinunciabile, per cui l'obbligo associativo non può non comprendere la gestione dei servizi amministrativi oltre che di quelli contabili. Non avrebbe molto senso, del resto, mettere in piedi un'organizzazione complessa che unifica la gestione delle sole ragionerie e mantiene nei singoli enti gli altri servizi interni. È stato affermato allora che per una corretta definizione delle funzioni fondamentali occorre fare riferimento alla Funzione 1 del bilancio o, meglio ancora, alla Missione 1 del nuovo bilancio armonizzato che comprende una serie eterogenea di servizi interni, con un'impostazione che pare più convincente (si veda anche Corte dei conti, sezione di controllo Piemonte, parere n. 304/2012). Occorre dunque associare un'ampia serie di servizi, dalla segreteria alla gestione del personale, dal servizio finanziario all'economato (servizio acquisti), dalla gestione delle entrate ai controlli interni (articolo 147, comma 5, Tuel introdotto dal Dl 174/2012).
Tra i servizi da associare vi è certamente anche quello informatico, come precisato anche dall'articolo 14, comma 28, del Dl 78/2010. Questa gestione obbligatoria è da ricondurre alla forma associativa istituita per la generalità dei servizi interni; l'articolo 19, comma 7, del Dl 95/2012 ha abrogato i commi da 3-bis a 3-octies dell'articolo 15 del D.Lgs. 82/2005, superando così l'antinomia che si era determinata con la sovrapposizione delle due diverse previsioni normative sulla gestione associata delle funzioni Ict per i piccoli Comuni.
Altro servizio da associare è quello degli appalti per lavori pubblici e acquisizione di beni e di servizi; tali procedure devono essere accentrate secondo lo schema della «centrale unica di committenza» (articolo 33, comma 3-bis, del Dlgs 163/2006) con decorrenza 31.03.2013 (articolo 23, comma 5, Dl 201/2011; articolo 29, Dl 216/2011). È stato affermato che l'obbligo riguarda solo le procedure di gara: ogni ente rimane responsabile delle fasi a monte (programmazione/progettazione) e a valle (esecuzione), a parte le procedure eventualmente conferite ad altro ufficio associato (ad esempio, al servizio acquisti); ogni ente (o ufficio associato) provvede inoltre agli affidamenti diretti nei casi consentiti (Corte dei conti, sezione Piemonte, parere 271/2012).
Restano da chiarire gli obblighi sulla gestione di patrimonio e lavori pubblici, per le fasi che precedono e seguono la gara. Da un lato va richiamata la posizione più formale, in base alla quale i lavori pubblici e la manutenzione del patrimonio comunale non rientrerebbero tra le funzioni da associare in via obbligatoria; dall'altro lato, vi è chi considera essenziale l'unificazione dei servizi interni nella loro globalità (servizi amministrativi, finanziari, tecnici), per le ragioni sopra illustrate. Seguendo quest'ultima impostazione, i servizi tecnici devono essere computati tra i costi standard e quindi devono essere associati. Sulla questione si attende tuttavia un chiarimento ministeriale (articolo Il Sole 24 Ore del 28.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOPersonale. Restano congelati gli stipendi individuali ma riparte l'indennità di vacanza.
Il Governo «dimentica» il blocco dei contratti. Lo stop ai rinnovi scaduto nel 2012 non è stato prorogato.

Scompare dalla legge di stabilità il blocco dei contratti collettivi sia per la pubblica amministrazione che per le società partecipate. Per lo stesso motivo, da aprile 2013 dovrà essere riconosciuta –nelle more della sottoscrizione dei Ccnl– l'indennità di vacanza contrattuale. Su questo quadro quasi idilliaco, considerando il contesto macroeconomico, incombe la spada di Damocle dell'articolo 16 del Dl 98/2011 che potrebbe prorogare l'austerity per altri due anni.
La vicenda parte qualche anno fa quando, con il Dl 78/2010, venivano bloccati senza possibilità di recupero tutti i contratti collettivi del comparto pubblico per il triennio 2010-2012, riconoscendo esclusivamente l'indennità di vacanza contrattuale secondo le regole previste dagli accordi sul costo del lavoro del 1993 e del 2009. Con il decreto sulla spending review, i vincoli sono estesi anche alle società partecipate, alle aziende speciali ed alle istituzioni.
Nel disegno di legge di stabilità 2013, approvato dal Governo il 9 ottobre, il blocco dei contratti collettivi veniva prorogato anche al biennio 2013-2014 ovviamente senza possibilità di recupero. In sede di approvazione definitiva la previsione normativa scompare con l'evidente conseguenza che dal 01.01.2013 nulla vieta che il Governo, per il tramite dell'Aran, o i sindacati possano chiedere l'apertura di una nuova stagione contrattuale. Rimane da capire se e quante risorse sono o potranno essere disponibili. Nella stessa direzione si pone il ministero dello Sviluppo economico che, con parere condiviso dal Mef, consente alle associazioni di categoria delle società partecipate di sottoscrivere nuovi contratti collettivi.
Al contrario il blocco dei fondi per la contrattazione decentrata e quello relativo al trattamento economico individuale abbracciavano il triennio 2011-2013 e quindi non necessitano, per l'anno in corso, di alcun intervento normativo.
Più complessa la vicenda relativa all'indennità di vacanza contrattuale prevista nella finanziaria del 2009 per il biennio 2008-2009, successivamente riproposta dal Dl 78/2010 per il triennio 2010-2012 e infine confermata come norma a regime dalla riforma Brunetta che ha modificato l'articolo 47-bis del Dlgs 165/2001. Sempre il Ddl sulla legge di stabilità 2013 rinviava per un biennio anche l'erogazione dell'indennità di vacanza. In sostanza, il progetto di fondo, prevedeva un vuoto contrattuale per il 2013-2014, tanto è vero che il successivo triennio sarebbe decorso dal 2015 (e non dal 2016). Anche questa previsione si perde nell'iter parlamentare.
Quindi, da aprile 2013 i dipendenti della pubblica amministrazione dovrebbero vedersi riconoscere un aumento commisurato al 30% dell'Ipca (indice dei prezzi calcolato a livello europeo) che salirà al 50% a partire dal mese di luglio. L'Ivc per il triennio 2010-2012 era stata calcolata al tasso dell'1,50%. Il nuovo tasso da applicare, secondo le stime dell'Istat, sarà pari al 2 per cento. In pratica, da gennaio 2013 si deve confermare l'importo relativo al triennio precedente e da aprile, in aggiunta, scatterà la prima tranche per il periodo 2013-2015 che andrà a regime dalla mensilità di luglio.
Tuttavia, il Governo potrebbe stoppare l'aumento (mediamente 16 euro lordi al mese per il comparto degli enti locali) adottando l'atto regolamentare previsto dall'articolo 16 del Dl 98/2011, che consente la proroga a tutto il 2014 dei limiti in termini di crescita dei trattamenti economici del personale delle pubbliche amministrazioni. Con ogni evidenza, stante l'attuale situazione politica, la decisione verrà rinviata dal prossimo Governo e la decisione giungerà a ridosso del pagamento degli stipendi di aprile.
In conclusione, in sede di predisposizione del bilancio di previsione risulta opportuno prevedere un aumento pari all'indennità di vacanza contrattuale relativa al triennio 2013-2015. Un importo più elevato sembra non trovare fondamento nella legge di stabilità.
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In sintesi
01 | LA PREMESSA
Il blocco dei contratti collettivi sia per la pubblica amministrazione che per le società partecipate non è entrato nella legge di stabilità (legge 228/2012)
02 | LA CONSEGUENZA
Per effetto della cancellazione del blocco, in attesa della sottoscrizione dei contratti collettivi, da aprile 2013 dovrà essere versata l'indennità di vacanza contrattuale
03 | LA CONTROMISURA
Il Governo, sfruttando l'articolo 16 del Dl 98/2011, potrebbe prorogare di due anni il blocco dei contratti (articolo Il Sole 24 Ore del 28.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI: Pagamenti in 30-60 giorni senza alcuna discriminazione. La risposta ministeriale alle associazioni di settore: direttiva applicabile ai lavori pubblici.
I nuovi termini di pagamento nelle transazioni commerciali previsti del dlgs 192/2012 (entro 30 giorni, prorogabili fino a 60 solo in casi particolari) si applicano a tutti i settori produttivi. Lavori pubblici compresi.
Lo ha chiarito ufficialmente una nota congiunta 23.01.2013 n. 1293 di prot. dei ministeri dello sviluppo economico e delle infrastrutture e dei trasporti, emanata mercoledì scorso.
I dubbi riguardavano soprattutto il settore dei lavori pubblici, già escluso dalla portata della precedente direttiva europea in materia (la n. 2000/35/Ce, recepita nel nostro paese dal dlgs 231/2002). Tale lettura nasceva dall'espresso riferimento, operato tanto dalla fonte comunitaria quanto dal provvedimento interno di recepimento, quali possibili oggetto delle transazioni commerciali esclusivamente alla consegna di «merci» o alla prestazione di «servizi», il che portava a escludere i contratti di lavori. In tal senso, si era espressa anche l'Autorità garante dei lavori pubblici con la determinazione n. 5 del 27.03.2002. La stessa relazione illustrativa al dlgs 231/2002, del resto, demandava a un apposito intervento legislativo (finora mai effettuato) l'adeguamento della disciplina degli appalti pubblici di lavori.
Per superare questo «doppio binario», nella nuova direttiva (la n. 2011/7/Ue) è stato inserito un nuovo «considerando», che recita: «La fornitura di merci e la prestazione di servizi dietro corrispettivo a cui si applica la presente direttiva dovrebbero anche includere la progettazione e l'esecuzione di opere ed edifici pubblici, nonché i lavori di ingegneria civile».
Tuttavia, il dlgs 192 non ha espressamente accolto tale indicazione e, per di più, si è limitato a modificare il precedente dlgs 231, senza sostituirlo integralmente.
A sgombrare il campo da equivoci è ora intervenuta la circolare ministeriale, fortemente sollecitata dagli operatori del settore (fra i più colpiti dai ritardi nei pagamenti da parte della p.a.), anche con la presentazione, lo scorso mese di novembre, di un position paper. Nei giorni scorsi, sul tema era nuovamente intervenuta l'Ance con un proprio documento (si veda ItaliaOggi del 22 gennaio) che ha in gran parte anticipato i contenuti della stessa circolare.
Del resto, la tesi dell'applicazione generale della nuova disciplina è stata autorevolmente sostenuta anche dal commissario europeo per l'industria e l'imprenditoria (e vicepresidente della Commissione Ue) Antonio Tajani, che aveva formalmente chiesto al governo di intervenire sul punto. Nella lettera (inviata al ministro per lo sviluppo economico, Corrado Passera, poco prima di Natale), peraltro, si evidenziano anche altri aspetti critici della normativa italiana, che andranno corretti.
Oltre alla questione (ora risolta) dell'ambito di applicazione, infatti, Tajani ha anche contestato l'indebita estensione e la genericità delle deroghe all'obbligo per la p.a. di pagare a 30 giorni: secondo la direttiva, ciò potrebbe essere previsto solo a favore degli enti pubblici che forniscono assistenza sanitaria, solo a determinate condizioni e fino a un massimo di 60 giorni. Viceversa, il dlgs 192 lo consente a tutte le p.a. quando ciò sia giustificato dalla natura o dall'oggetto del contratto o dalle circostanze esistenti al momento della sua conclusione: una formulazione effettivamente troppo generica, che favorisce tentativi di elusione e quindi rischia di ingenerare contenzioso. Manca, inoltre, una previsione che precisi che i termini vanno computati in giorni di calendario, domeniche comprese. Da rivedere infine, le tutele giurisdizionali, anche con la previsione di procedure accelerate, a prescindere dall'importo del debito.
Su questi punti, la palla passa ora al prossimo governo, che dovrà intervenire con tempestività per scongiurare il rischio di incappare in una procedura di infrazione comunitaria.
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Gli effetti della direttiva sul codice contratti.
L'estensione del dlgs 192 al settore dei lavori pubblici, ora espressamente riconosciuta dal governo (si veda l'articolo nella pagina precedente), comporta alcune rilevanti modifiche al codice dei contratti (dlgs 163/2006) e al relativo regolamento di esecuzione e attuazione (dpr 207/2010).
Come noto, il nuovo art. 4, comma 2, del dlgs 231/2002 stabilisce per i pagamenti da parte della p.a. il termine di 30 giorni decorrenti, secondo le circostanze, dalla data della prestazione, ovvero dalla data di ricevimento della fattura o dalla data della verifica della prestazione. A questo proposito, il successivo comma 6 prevede che, laddove sia prevista una procedura diretta ad accertare il corretto adempimento del contratto, essa non può avere una durata superiore a 30 giorni dalla data della prestazione. In sostanza, dunque, la nuova normativa prevede un termine di 30 giorni per la verifica delle prestazioni effettuate e un termine di pari durata per le operazioni di pagamento.
Nel sistema delineato dal dpr 207/2010, la verifica della conformità della prestazione al contratto, che si esplicita essenzialmente nella verifica della conformità dei lavori eseguiti al progetto, viene effettuata progressivamente, ai sensi dell'art. 185, dal direttore dei lavori che li certifica sui libretti delle misure in contraddittorio con l'esecutore e li riporta successivamente sul registro di contabilità. Rispetto a tale attività di verifica, l'emanazione dello Stato avanzamento lavori (Sal) assume un carattere ricognitivo (art. 194). La fase di verifica si conclude con il rilascio da parte del responsabile del procedimento del certificato di pagamento che costituisce l'atto di liquidazione del credito (art. 195).
Al riguardo, la circolare ministeriale chiarisce che, in base alla normativa sopravvenuta, tale fase non può avere una durata superiore a 30 giorni dalla data della prestazione e cioè dalla data in cui dalla contabilizzazione risulta che i lavori hanno raggiunto l'importo contrattualmente previsto per il pagamento. Pertanto, il termine speciale di 45 giorni indicato dall'art. 143, comma 1, primo periodo, del regolamento è da intendersi sostituito con quello ordinario di 30 giorni.
Discorso analogo vale per il termine di 90 giorni dal collaudo fissato dall'art. 143, comma 2, del regolamento per il pagamento del saldo, anch'esso da ritenersi sostituito con quello ordinario di 30 giorni.
Secondo la circolare, è ancora possibile, tuttavia, pattuire contrattualmente termini più lunghi, purché non superiori, nel primo caso, a 45 giorni e nel secondo caso a 60. Di diverso avviso l'Ance, secondo cui un temine più elevato per la fase di verifica sarebbe ingiustificato e dunque iniquo per il creditore, giacché la verifica relativa alla conformità al progetto dei lavori eseguiti è effettuata in modo progressivo dal direttore dei lavori e sostanzialmente esaurita nel momento in cui i dati vengono riportati sul registro di contabilità e da questo viene estratto lo stato di avanzamento lavori, mentre le operazioni di verifica effettuate dal responsabile del procedimento si sostanziano essenzialmente nella richiesta del Durc. Più in generale, valgono le perplessità già evidenziate nell'articolo nella pagina precedente sulla legittimità delle deroghe previste dal diritto interno rispetto al testo della direttiva.
È invece ancora applicabile il termine di 30 giorni previsto dall'art. 143, comma 1, secondo periodo, del regolamento per il pagamento delle rate di acconto e decorrente dall'emissione del certificato di pagamento, in quanto coincidente con quello fissato da citato art. 4, comma 2, del dlgs 231.
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Sale il conto degli interessi.
In base al dlgs 192, in caso di ritardato pagamento, scatta (senza necessità di costituzione in mora) l'obbligo per il debitore di corrispondere gli interessi ad un saggio pari al tasso Bce (per il semestre in corso, lo 0,75%, come da comunicato del Mef pubblicato sulla G.U. n. 14 del 17.01.2013), maggiorato dell'8%.
Anche in tal caso, rispetto al settore dei lavori pubblici, la nuova disciplina ha tacitamente abrogato quella previgente, prevista dall'art. 144, commi 2 e 3, del dpr 207/2010. In base a tali disposizioni, nei primi 60 giorni di ritardo nel pagamento dell'acconto e del saldo si applicava il tasse legale (oggi pari al 2,5%), mentre dal sessantunesimo giorno il saggio stabilito annualmente con decreto interministeriale (da ultimo fissato al 5,27%). Nei fatti, con tempi medi di pagamento di circa 8 mesi, i ritardi si registrano sia sul certificato che sul mandato e quindi il tasso legale si applicava per i primi 4 mesi di ritardo.
Secondo la circolare ministeriale, sempre in virtù del principio del favor creditoris, dal 01.01.2013 si applica, invece, il (più elevato) tasso previsto dal dlgs 192 (oggi, come detto, l'8,75%), fatta eccezione per il caso (previsto dall'art. 144, comma 1, del regolamento) di ritardo nell'emissione del certificato di pagamento.
Si tratta di una novità importante, in grado di correggere almeno in parte la precedente distorsione che portava la p.a. (e specialmente gli enti locali) a dare precedenza ai pagamenti in altri settori, ai quali si applicava il tasso più pesante previsto dal vecchio dlgs 231 (Bce+7%) (articolo ItaliaOggi Sette del 28.01.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Detrazioni, tetti non cumulabili. Limiti sdoppiati (48 mila e 96 mila ) per lavori distinti. Il Consiglio nazionale del notariato interpreta le più recenti norme sul recupero edilizio.
Partenza con il dubbio per le detrazioni per il recupero edilizio del 50% spettanti alle cessioni di fabbricati ristrutturati dalle imprese costruttrici. L'agevolazione, introdotta nel 1998 e prorogata più volte, è stata resa permanente dal dl n. 201/2011 (il cosiddetto decreto Salva Italia).
La disciplina è stata di recente modificata con il dl n. 83/2012 (il cosiddetto decreto crescita), che ha elevato, anche se per un limitato periodo di tempo, la misura della detrazione e il limite massimo di spesa ammessa al beneficio. In particolare, per le spese sostenute dal 26.06.2012 (data di entrata in vigore del dl 83/2012) al 30.06.2013, la detrazione Irpef aumenta al 50% (in luogo di quella precedente del 36%) e raddoppia il limite massimo di spesa (96 mila euro per unità immobiliare).

Alla materia il Consiglio nazionale del notariato ha dedicato lo studio 21.09.2012 n. 129-2012/T, pubblicato lo scorso 08.01.2013, che esamina, in particolare, le novità di maggior interesse per l'esercizio dell'attività notarile, quali la possibilità di applicare le nuove disposizioni anche agli acquisti di unità immobiliari abitative cedute da imprese di costruzione che abbiano effettuato interventi di recupero e/o ristrutturazione edilizia dell'intero edificio.
Il regime delle detrazioni. Le agevolazioni finalizzate al recupero del patrimonio edilizio sono state potenziate dall'art. 3, comma 1 del dl n. 83/2012, secondo cui nel periodo compreso dalla data di entrata in vigore (26.06.2012) fino al 30.06.2013, sulle spese relative agli interventi di cui all'art. 16-bis, comma 1, del dpr n. 916/1986, spetta una detrazione di imposta del 50%, fino a un ammontare complessivo non superiore a 96 mila euro.
La disposizione non presenta in sé particolari difficoltà interpretative, ma i problemi maggiori trovano origine nella fase transitoria mancando un'espressa disciplina normativa.
Poiché vige il principio di cassa, è irrilevante che i lavori siano stati materialmente eseguiti anche prima del 26.06.2012, assumendo esclusivamente rilevanza la data di effettivo pagamento fatto tramite bonifico riportando sull'ordinativo inoltrato alla banca tutti i dati necessari al fine di conservare il diritto alla detrazione. Quindi, se il contribuente ha effettuato il pagamento dei lavori entro il 25.06.2012 in misura eccedente rispetto al precedente limite di 48 mila euro, non potrà fruire della maggiore detrazione prevista dal dl 83/2012. Il limite massimo sarà quello precedente come pure la percentuale di detrazione applicabile continuerà a essere quella del 36%.
La data di avvenuto pagamento assumerà rilevanza anche se i lavori sono ancora in corso al 26.06.2012, cioè alla data di entrata in vigore dell'intervento normativo. Tutti i bonifici effettuati a partire da tale data per interventi di manutenzione e ristrutturazione edilizia di abitazioni, relative pertinenze e parti comuni condominiali, possono fruire della maggiore detrazione.
I limiti. La somma massima su cui commisurare la detrazione, per i lavori iniziati prima e terminati dopo il 26 giugno 2012, non può mai superare il limite di 96 mila euro. In pratica non sarebbe corretto sommare il precedente limite di 48 mila euro, con quello nuovo (temporaneo) di 96 mila euro.
Il problema dell'applicabilità del «doppio» limite si è posto anche nel caso in cui sullo stesso fabbricato il contribuente avesse realizzato un duplice intervento, con un differente provvedimento urbanistico, laddove il secondo intervento fosse iniziato dopo il 25.06.2012. Il problema è stato risolto prontamente con un intervento chiarificatore del ministero dell'economia che rispondendo a un'interrogazione parlamentare dello scorso 03.07.2012 ha precisato che le spese detraibili anche per interventi plurimi sul medesimo fabbricato non possono in ogni caso superare l'importo di 96 mila euro. Secondo la risposta ministeriale anche in questo caso troverà applicazione la regola prevista per la prosecuzione dei lavori iniziati in anni precedenti. Pertanto in caso di prosecuzione dell'intervento non sarà mai possibile superare il limite massimo di 96 mila euro.
A tale proposito, il Notariato ritiene, però, che l'esecuzione di molteplici interventi di ristrutturazione sulla stessa unità immobiliare non determini automaticamente l'ipotesi di prosecuzione di un intervento iniziato in un periodo precedente. La valutazione dovrà essere effettuata di volta in volta avendo riguardo alle opere effettivamente eseguite, alla tipologia di lavori e tenendo in considerazione, quindi, anche i diversi provvedimenti urbanistici. Un utile elemento di indagine potrà al limite essere rappresentato anche dal tempo decorso dal termine di un intervento rispetto all'inizio di quello successivo. Per esempio se i lavori di rifacimento della facciata di un fabbricato fossero stati ultimati nel 2009 e successivamente, nell'anno 2012 (dopo il 26.06.2012), fosse realizzato un successivo intervento relativo alla impermeabilizzazione delle terrazze condominiali, non sembra possa sostenersi che il secondo intervento costituisca, di fatto, la prosecuzione del primo.
In questo caso sarà possibile beneficiare della detrazione del 36% fino a un massimo di 48 mila euro per il rifacimento della facciata e della detrazione del 50%, con il tetto massimo di 96 mila euro, per il secondo intervento. La possibilità di fruire della «doppia» detrazione risiede proprio nella ragionevole certezza dell'esecuzione di due distinti e autonomi interventi senza che il secondo costituisca, la mera prosecuzione del primo.
Sotto questo profilo il lasso temporale esteso rende sicuramente più agevole l'interpretazione, ma in alcuni casi potrebbe non essere agevole distinguere l'una dall'altra ipotesi (articolo ItaliaOggi Sette del 28.01.2013).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: L’obbligo di richiedere la licenza edilizia (ora permesso di costruire) per realizzare nuove edificazioni è stato introdotto dall'art. 31, legge urbanistica n. 1150 del 942 esclusivamente per gli immobili situati nei centri urbani.
Solo a seguito dell'approvazione della c.d. legge ponte n. 765 del 1967, tale obbligo di munirsi del titolo abilitativo ad edificare è stato esteso all'intero territorio comunale. Conseguentemente, è illegittima l'ordinanza demolitoria emessa in relazione ad un immobile realizzato in data antecedente al settembre 1967, ossia precedente all'introduzione dell'obbligo di ottenere la licenza edilizia per immobili siti al di fuori dei centri abitati.

Invero, come evidenziato da costante giurisprudenza (cfr. TAR Napoli, Sez. VI, n. 17416 del 15.09.2010), “l’obbligo di richiedere la licenza edilizia (ora permesso di costruire) per realizzare nuove edificazioni è stato introdotto dall'art. 31, legge urbanistica n. 1150 del 942 esclusivamente per gli immobili situati nei centri urbani. Solo a seguito dell'approvazione della c.d. legge ponte n. 765 del 1967, tale obbligo di munirsi del titolo abilitativo ad edificare è stato esteso all'intero territorio comunale. Conseguentemente, è illegittima l'ordinanza demolitoria emessa in relazione ad un immobile realizzato in data antecedente al settembre 1967, ossia precedente all'introduzione dell'obbligo di ottenere la licenza edilizia per immobili siti al di fuori dei centri abitati” (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 31.01.2013 n. 321 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini della legittimità della procedura di realizzazione di un parcheggio pertinenziale da realizzarsi ai sensi dell'articolo 9 della l. 122 del 1989 non è indispensabile che il numero dei proprietari di immobili siti nelle vicinanze del realizzando parcheggio sia individuato prima della costruzione di questo e che, quindi, il vincolo pertinenziale debba preesistere, richiedendosi solo che detto vincolo venga previsto e, poi, effettivamente costituito e trascritto nelle forme prescritte.
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Il comma 1 dell’articolo 9 della l. 122 del 1989 non limita in modo esclusivo ai proprietari degli immobili interessati la legittimazione a realizzare parcheggi di tipo pertinenziale. Ed infatti, il tenore stesso della disposizione in parola (la quale declina con formula impersonale il riferimento ai “parcheggi da destinare a pertinenza”) implica che i parcheggi collocati in aree esterne rispetto ai fabbricati interessati non debbano necessariamente essere realizzati dai proprietari dell’immobile, ma possano essere realizzati anche da parte di terzi soggetti.
Ai limitati fini che qui rilevano, si osserva che la più recente evoluzione normativa ha attenuato il vincolo della inalienabilità delle autorimesse realizzate avvalendosi delle previsioni derogatorie di cui all’articolo 9 della l. 122, cit.
Si richiama, al riguardo, l’articolo 10 del decreto-legge 09.02.2012, n. 5 (come modificato dalla relativa legge di conversione) il quale, novellando la previsione di cui al comma 5 dell’articolo 9, cit., ha previsto che “(…) la proprietà dei parcheggi realizzati a norma del comma 1 può essere trasferita, anche in deroga a quanto previsto nel titolo edilizio che ha legittimato la costruzione e nei successivi atti convenzionali, solo con contestuale destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso comune”.
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La realizzazione del parcheggio pertinenziale (in deroga ex lege Tognoli e sottostante ad un giardino vincolato) non risulta in contrasto con la destinazione a giardino della superficie soprastante: una siffatta incompatibilità non è sancita da alcuna delle disposizioni dinanzi richiamate, né è desumibile dalle concrete –e invero lievi, come ritenuto in sede amministrativa- modificazioni che la realizzazione del progetto apporterà allo stato estetico e funzionale del giardino.
Ciò che il decreto impositivo del vincolo è volto a tutelare è l’esistenza dell’area a giardino e la sua coessenzialità con l’unicum funzionale rappresentato dai due corpi di fabbrica e –appunto– dal giardino antistante. Al contrario –come correttamente rilevato dai primi Giudici– la sussistenza di un vincolo (anche) sul giardino non sta certo a significare che tale giardino sia vincolato sotto il profilo della sua assoluta immodificabilità per intero e nella sua configurazione e strutturazione attuale (a tacer d’altro, la relazione storico-artistica allegata al decreto impositivo del vincolo nulla riferisce in ordine alla struttura del giardino, alle essenze ivi impiantate e alla loro consistenza complessiva, in tal modo confermando che l’esistenza del vincolo sul giardino non sta a significare l’assoluta intangibilità di ogni singolo arbusto ivi esistente).
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La circostanza per cui il comma 1 dell’articolo 9 della l. 122 del 1989 richiami in modo espresso unicamente deroghe alla disciplina urbanistica e ai regolamenti edilizi, non sta a significare che la realizzazione di parcheggi pertinenziali interrati sia radicalmente preclusa nel caso di immobili sottoposti a vincolo.
Più semplicemente, il silenzio sul punto da parte del Legislatore deve essere inteso non già nel senso di impedire in toto il ricorso alle procedure di cui all’articolo 9, cit. nel caso di immobili sottoposti a vincolo, bensì nel senso di non ammettere procedure derogatorie rispetto a quelle ordinariamente esperibili in materia di gestione del vincolo (nel caso di specie: vincolo storico-monumentale e vincolo archeologico).

Al riguardo il Collegio ritiene di richiamare il condiviso orientamento secondo cui -ai fini della legittimità della procedura di realizzazione di un parcheggio pertinenziale da realizzarsi ai sensi dell'articolo 9 della l. 122 del 1989- non è indispensabile che il numero dei proprietari di immobili siti nelle vicinanze del realizzando parcheggio sia individuato prima della costruzione di questo e che, quindi, il vincolo pertinenziale debba preesistere, richiedendosi solo che detto vincolo venga previsto e, poi, effettivamente costituito e trascritto nelle forme prescritte (in tal senso: Cons. Stato, V, 26.05.2003, n. 2852).
Ora, una volta accertata la sussistenza del vincolo pertinenziale in questione nei confronti dal compendio immobiliare di ‘casa Cervi’, ciò non esclude che, sussistendone i presupposti, venga operato il trasferimento del vincolo stesso nei confronti di ulteriori unità immobiliari nei cui confronti, parimenti, un siffatto vincolo possa essere legittimamente istituito, conformemente alle previsioni di cui all’articolo 66 della L.R. 12 del 2005 (la disposizione in questione –emanata in base alla potestà legislativa regionale in materia di governo del territorio- consente, infatti, ai proprietari di immobili di realizzare, nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne, parcheggi i quali possono anche essere collocati esternamente al lotto di appartenenza, senza limiti di distanza rispetto alle unità immobiliari alle quali sono legati dal vincolo di pertinenzialità, purché nell’ambito del medesimo comune o di comuni contermini).
Al riguardo si osserva che la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha stabilito che il comma 1 dell’articolo 9 della l. 122 del 1989 non limita in modo esclusivo ai proprietari degli immobili interessati la legittimazione a realizzare parcheggi di tipo pertinenziale. Ed infatti, il tenore stesso della disposizione in parola (la quale declina con formula impersonale il riferimento ai “parcheggi da destinare a pertinenza”) implica che i parcheggi collocati in aree esterne rispetto ai fabbricati interessati non debbano necessariamente essere realizzati dai proprietari dell’immobile, ma possano essere realizzati anche da parte di terzi soggetti (in tal senso: Cons. Stato, IV, 31.03.2010, n. 1842).
Ai limitati fini che qui rilevano, si osserva che la più recente evoluzione normativa ha attenuato il vincolo della inalienabilità delle autorimesse realizzate avvalendosi delle previsioni derogatorie di cui all’articolo 9 della l. 122, cit.
Si richiama, al riguardo, l’articolo 10 del decreto-legge 09.02.2012, n. 5 (come modificato dalla relativa legge di conversione) il quale, novellando la previsione di cui al comma 5 dell’articolo 9, cit., ha previsto che “(…) la proprietà dei parcheggi realizzati a norma del comma 1 può essere trasferita, anche in deroga a quanto previsto nel titolo edilizio che ha legittimato la costruzione e nei successivi atti convenzionali, solo con contestuale destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso comune”.
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Del pari, è infondato il quinto motivo di appello (con cui si è lamentato che i primi Giudici abbiano omesso di rilevare come l’affermazione relativa alla salvaguardia del giardino antistante la ‘casa Cervi’ fosse basata più su mere affermazioni di principio, che non su dati concreti e dimostrati).
Ad avviso del Collegio, dagli atti di causa (e segnatamente, dall’esame degli elaborati di progetto riguardati in relazione al complessivo stato dei luoghi) non emerge alcuna violazione:
a) né del comma 1 dell’articolo 9 della l. 122 del 1989 (secondo cui la realizzabilità dei parcheggi in deroga è ammessa “tenuto conto dell’uso della superficie sovrastante (…)”);
b) né dell’articolo 67 della L.R. 12 del 2005 (secondo cui “la realizzazione dei parcheggi non può contrastare (…) con l’uso delle superfici sovrastanti”);
c) né del decreto impositivo del vincolo (il quale imponeva di evitare “improprie trasformazioni” dello stato dei luoghi).
Si osserva al riguardo che la realizzazione del parcheggio pertinenziale non risulta in contrasto con la destinazione a giardino della superficie soprastante: una siffatta incompatibilità non è sancita da alcuna delle disposizioni dinanzi richiamate, né è desumibile dalle concrete –e invero lievi, come ritenuto in sede amministrativa- modificazioni che la realizzazione del progetto apporterà allo stato estetico e funzionale del giardino.
Del resto, gli appellati hanno dimostrato in modo adeguato che la realizzazione delle rimesse interrate non comporterà alcuno stravolgimento dell’assetto del giardino, il quale verrà salvaguardato nella sua funzione, nelle sue dimensioni e nell’assetto di base delle essenze ivi esistenti (la relazione agronomica prodotta in atti conferma che le essenze arboree di maggior pregio verranno conservate).
Ad ogni modo, non appare irrilevante osservare che ciò che il decreto impositivo del vincolo è volto a tutelare è l’esistenza dell’area a giardino e la sua coessenzialità con l’unicum funzionale rappresentato dai due corpi di fabbrica e –appunto– dal giardino antistante. Al contrario –come correttamente rilevato dai primi Giudici– la sussistenza di un vincolo (anche) sul giardino non sta certo a significare che tale giardino sia vincolato sotto il profilo della sua assoluta immodificabilità per intero e nella sua configurazione e strutturazione attuale (a tacer d’altro, la relazione storico-artistica allegata al decreto impositivo del vincolo nulla riferisce in ordine alla struttura del giardino, alle essenze ivi impiantate e alla loro consistenza complessiva, in tal modo confermando che l’esistenza del vincolo sul giardino non sta a significare l’assoluta intangibilità di ogni singolo arbusto ivi esistente).
Per le medesime ragioni, non può ritenersi che il progetto approvato abbia comportato violazioni delle previsioni di cui all’articolo 63 delle N.T.A. al P.R.G. (secondo cui, nel comparto per cui è causa sono ammessi unicamente interventi di restauro e risanamento conservativo) e del successivo articolo 67 (secondo cui, per ciò che riguarda i giardini, è imposta la conservazione integrale e il mantenimento delle piantumazioni esistenti e delle pavimentazioni tradizionali).
Per ciò che riguarda, in particolare, la seconda delle richiamate disposizioni, si ritiene che la complessiva risistemazione del giardino –lo si ripete: rimasto intatto nella sua funzione e struttura di fondo– risulti compatibile con una lettura in senso sostanziale –e non meramente formalistico– delle pertinenti prescrizioni di piano.
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Il quarto motivo di appello (con cui si è lamentata l’erroneità della sentenza in epigrafe per la parte in cui ha respinto il motivo di ricorso con il quale si era affermato che la procedura derogatoria di cui all’articolo 9 della l. 122 del 1989 non sarebbe in radice applicabile nel caso di immobili sottoposti a vincolo) è infondato.
Si osserva al riguardo che la circostanza per cui il comma 1 dell’articolo 9 della l. 122 del 1989 cit. richiami in modo espresso unicamente deroghe alla disciplina urbanistica e ai regolamenti edilizi, non sta a significare che la realizzazione di parcheggi pertinenziali interrati sia radicalmente preclusa nel caso di immobili sottoposti a vincolo.
Più semplicemente, il silenzio sul punto da parte del Legislatore deve essere inteso (e correttamente è stato inteso dai primi Giudici):
- non già nel senso di impedire in toto il ricorso alle procedure di cui all’articolo 9, cit. nel caso di immobili sottoposti a vincolo, bensì nel senso di non ammettere procedure derogatorie rispetto a quelle ordinariamente esperibili in materia di gestione del vincolo (nel caso di specie: vincolo storico-monumentale e vincolo archeologico)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.01.2013 n. 539 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Dopo la sentenza della Corte costituzionale 14-27.07.2005, n. 336, pur non potendosi escludere un potere di localizzazione del Comune per le stazioni radio-base, tale possibilità è esclusa in Lombardia dall'art. 4, comma 7, della L.r. n. 11 del 2001, secondo il quale i detti impianti di telefonia mobile, se di potenza totale non superore a 300 watt, non sottostanno ad alcuna specifica regolamentazione urbanistica.
Ne consegue che sono illegittime le disposizioni pianificatorie comunali che introducano in termini assoluti divieti di installazione per simili impianti.

Venendo al merito del ricorso il primo motivo di ricorso è fondato, atteso che, dopo la sentenza della Corte costituzionale 14-27.07.2005, n. 336, pur non potendosi escludere un potere di localizzazione del Comune per le stazioni radio-base, tale possibilità è esclusa in Lombardia dall'art. 4, comma 7, della L.r. n. 11 del 2001, secondo il quale i detti impianti di telefonia mobile, se di potenza totale non superore a 300 watt, non sottostanno ad alcuna specifica regolamentazione urbanistica; ne consegue che sono illegittime le disposizioni pianificatorie comunali che introducano in termini assoluti divieti di installazione per simili impianti (TAR Lombardia Milano, sez. I, 13.01.2010, n. 23; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 27.05.2005, n. 1113) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 29.01.2013 n. 261 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di distanze nelle costruzioni, qualora gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine e nulla aggiungano sulla possibilità di costruire “in aderenza” od “in appoggio”, la preclusione di dette facoltà non consente l’operatività del principio della prevenzione; nel caso in cui, invece, tali facoltà siano previste, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dagli artt. 873 e segg. del c.c., con la conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza, ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico.
Di qui la funzione e la rilevanza della deroga, diretta a consentire l'esercizio delle predette facoltà che, diversamente, sarebbero precluse dalla regola ordinaria sulle distanze dal confine e tra fabbricati.
In definitiva, laddove il regolamento edilizio locale disponga la distanza minima dai confini con espressa ammissibilità dell'edificazione in aderenza, tale previsione deve essere intesa nel senso di fare salvo il principio della prevenzione previsto dagli art. 873 e 875 c.c., secondo i quali il proprietario che costruisce per primo ha la facoltà di scelta fra costruire alla distanza regolamentare ed erigere il proprio fabbricato sul confine, ponendo così il vicino che voglia a sua volta edificare nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e costruire in aderenza oppure di arretrare la sua costruzione fino a rispettare la maggior distanza imposta dal regolamento locale.

In tema di distanze nelle costruzioni, qualora gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine e nulla aggiungano sulla possibilità di costruire “in aderenza” od “in appoggio”, la preclusione di dette facoltà non consente l’operatività del principio della prevenzione; nel caso in cui, invece, tali facoltà siano previste, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dagli artt. 873 e segg. del c.c., con la conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza, ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico (Corte di Cassazione, sez. II civile – 12/10/2012 n. 17472). Di qui la funzione e la rilevanza della deroga, diretta a consentire l'esercizio delle predette facoltà che, diversamente, sarebbero precluse dalla regola ordinaria sulle distanze dal confine e tra fabbricati.
In definitiva, laddove il regolamento edilizio locale disponga la distanza minima dai confini con espressa ammissibilità dell'edificazione in aderenza, tale previsione deve essere intesa nel senso di fare salvo il principio della prevenzione previsto dagli art. 873 e 875 c.c., secondo i quali il proprietario che costruisce per primo ha la facoltà di scelta fra costruire alla distanza regolamentare ed erigere il proprio fabbricato sul confine, ponendo così il vicino che voglia a sua volta edificare nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e costruire in aderenza oppure di arretrare la sua costruzione fino a rispettare la maggior distanza imposta dal regolamento locale (TAR Puglia Lecce, sez. III – 05/05/2011 n. 806) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 29.01.2013 n. 102 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ vero da un lato che secondo la giurisprudenza il computo del limite di altezza –entro il quale è consentita l’edificazione– va effettuato prendendo come parametro l'originario piano di campagna, cioè il livello naturale del terreno di sedime e non la quota del terreno sistemato, salvo deroga del principio ad opera di normative regolamentari espresse.
Anche questo Tribunale ha rilevato che il piano di campagna da assumere come riferimento –al fine di delineare la posizione altimetrica del fabbricato edificando, con i riflessi che ne derivano sotto il profilo della relativa valutazione urbanistica– è quello non alterato da modifiche indotte dall'attività umana, avente scopo edificatorio o colturale: la quota naturale del terreno o piano di campagna, quale nozione tradizionalmente contemplata dagli strumenti urbanistici, si identifica con il livello dei suoli vergini (piano originario), residuo finale delle azioni di modellamento naturale, prima di qualsiasi intervento umano (piano artificiale) che contempli ad es. riporti o reinterri ovvero impianti di coltura.

E’ vero da un lato (come sostiene parte ricorrente) che secondo la giurisprudenza il computo del limite di altezza –entro il quale è consentita l’edificazione– va effettuato prendendo come parametro l'originario piano di campagna, cioè il livello naturale del terreno di sedime e non la quota del terreno sistemato, salvo deroga del principio ad opera di normative regolamentari espresse (Consiglio di Stato, sez. IV – 04/04/2011 n. 2106 che richiama sez. IV – 24/04/2009 n. 2579).
Anche questo Tribunale (cfr. sez. I – 10/04/2012 n. 597) ha rilevato che il piano di campagna da assumere come riferimento –al fine di delineare la posizione altimetrica del fabbricato edificando, con i riflessi che ne derivano sotto il profilo della relativa valutazione urbanistica– è quello non alterato da modifiche indotte dall'attività umana, avente scopo edificatorio o colturale: la quota naturale del terreno o piano di campagna, quale nozione tradizionalmente contemplata dagli strumenti urbanistici, si identifica con il livello dei suoli vergini (piano originario), residuo finale delle azioni di modellamento naturale, prima di qualsiasi intervento umano (piano artificiale) che contempli ad es. riporti o reinterri ovvero impianti di coltura.
Ad avviso del Collegio, tuttavia, si può accogliere la prospettazione avanzata dai resistenti in via subordinata, considerando i fronti dell’edificio emergenti dalla quota originaria di campagna, secondo il perimetro di tutto il fabbricato: detto calcolo (denominato B) è racchiuso nella scheda tecnica n. 2 al doc. 26, e contempla il computo di tutte le superfici dell’edificio.
Parte ricorrente, sottolinea come non sia corretto valorizzare anche la porzione di manufatto destinata a rimessa e deposito, e tuttavia il perimetro dell’ingombro esterno dei corpi di fabbrica preso in esame è quello che segue la sagoma e si sviluppa senza soluzione di continuità, cosicché il metodo descritto può considerarsi logicamente conforme alla normativa di piano
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 29.01.2013 n. 102 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La situazione “giuridicamente rilevante” disciplinata dalla legge 07.08.1990, n. 241, per la cui tutela è attribuito il diritto di accesso, è nozione diversa e più ampia rispetto all’interesse all’impugnativa e non presuppone necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo. Con la conseguenza che la legittimazione all’accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l’autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all’impugnativa dell’atto.
L’interesse giuridicamente rilevante che legittima all’esercizio del diritto di accesso è perciò da intendere in senso ampio ma deve essere non di meno collegato ad atti che “siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti” nei confronti di una specifica posizione giuridica dell’istante.

Il Collegio ha ritenuto di richiamare specificamente la sequenza degli atti poiché da essa emerge con chiarezza l’insussistenza in capo alla ricorrente del presupposto dell’interesse legittimante all’esercizio del diritto di accesso.
Infatti:
- questo Consiglio di Stato ha chiarito che “la situazione “giuridicamente rilevante” disciplinata dalla legge 07.08.1990, n. 241, per la cui tutela è attribuito il diritto di accesso, è nozione diversa e più ampia rispetto all’interesse all’impugnativa e non presuppone necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo. Con la conseguenza che la legittimazione all’accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l’autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all’impugnativa dell’atto” (VI, 09.08.2011, n. 4741);
- l’interesse giuridicamente rilevante che legittima all’esercizio del diritto di accesso è perciò da intendere in senso ampio ma deve essere non di meno collegato ad atti che “siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti” nei confronti di una specifica posizione giuridica dell’istante;
- nella specie il procedimento nel cui ambito è stato redatto il parere legale di cui è richiesto l’accesso non ha attinenza, diretta o indiretta, alla posizione giuridica attestata dalla ricorrente quale titolo della propria domanda;
- tale posizione giuridica è infatti asserita in quanto “concorrente giudiziale” all’incanto; riguardo perciò ad un procedimento antecedente e diverso da quello poi attivato dall’istanza di riapertura del condono da parte del signor A.; sul presupposto, quindi, di un’incidenza di questo secondo procedimento su quello antecedente che, al contrario, non si rinviene;
- la condonabilità o meno dei manufatti situati sui terreni venuti in proprietà del signor A. non ha infatti alcuna rilevanza sulla procedura di vendita all’asta cui la ricorrente ha dapprima partecipato, non potendosi individuare alcun effetto giuridico su tale procedura (in ipotesi peraltro di portata retroattiva) del distinto procedimento avviato dopo e ad altri fini, restando gli immobili di proprietà dell’Albarelli anche in caso di diniego del condono;
- per cui in conclusione: lo svolgimento del procedimento sulla domanda di condono non ha incidenza giuridica sulla previa e distinta procedura d’asta; la possibile attivazione e conclusione di un eventuale procedimento di condono avrebbe potuto assumere quindi rilevanza soltanto soggettiva tra i moventi personali della partecipazione all’asta; è insussistente, di conseguenza, una posizione giuridica propria della ricorrente rispetto al procedimento sul condono e manca dunque il collegamento giuridico legittimante il diritto all’accesso ai relativi atti, come correttamente ritenuto dal primo giudice;
- né il fatto che il Comune abbia rilasciato alla ricorrente copia della domanda del signor A. è di per sé sufficiente a superare le considerazioni sopra esposte, non potendo singole iniziative dell’Amministrazione, come la consegna di un atto o la comunicazione di informazioni, valere a costituire la titolarità di un asserito diritto all’accesso agli atti del procedimento (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.01.2013 n. 511 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento di repressione degli abusi edilizi costituisce un atto dovuto in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, circostanza, questa, che comporta che il provvedimento sanzionatorio non richiede particolare motivazione, essendo sufficiente la rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata, né previa espressa comparazione tra l’interesse pubblico alla rimozione dell’opera, che è in re ipsa, e quello privato alla relativa conservazione, e ciò anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso.
Quanto alla riproposta censura di carenza di motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico attuale alla rimozione dell’abuso molto tempo dopo la relativa realizzazione, questo Collegio reputa non vi siano ragioni per discostarsi dalla giurisprudenza dominante, anche di questa Sezione, (cfr., ad esempio, Cons. Stato, sez. IV, 20.07.2011, n. 4403; sez. VI, 11.05.2011, n. 2781; sez. V, 27.04.2011, n. 2526) secondo cui il provvedimento di repressione degli abusi edilizi costituisce un atto dovuto in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, circostanza, questa, che comporta che il provvedimento sanzionatorio non richiede particolare motivazione, essendo sufficiente la rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata, né previa espressa comparazione tra l’interesse pubblico alla rimozione dell’opera, che è in re ipsa, e quello privato alla relativa conservazione, e ciò anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.01.2013 n. 498 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e l’interessato non può dolersi del fatto che l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi.
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è «un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza». In questi caso il «fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse».

La giurisprudenza è costante nel ritenere che l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e l’interessato non può dolersi del fatto che l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (es. Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781).
In particolare, si è affermato che nel caso di abusi edilizi vi è «un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza». In questi caso il «fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse» (Cons. Stato, IV, 04.05.2012, n. 2592)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.01.2013 n. 496 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di pertinenzialità ai fini urbanistici ed edilizi ha connotati diversi da quelli civilistici.
In particolare, ha rilievo determinante non tanto il legame materiale tra pertinenza ed immobile principale quanto che:
1) la prima non abbia autonoma destinazione e autonomo valore di mercato e che esaurisca la propria destinazione d’uso nel rapporto funzionale con l’edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico;
2) vengano in rilievo «manufatti di dimensioni estremamente modeste e ridotte, inidonei, quindi, ad alterare in modo significativo l’assetto del territorio».

La giurisprudenza è costante nel ritenere che la nozione di pertinenzialità ai fini urbanistici ed edilizi ha connotati diversi da quelli civilistici.
In particolare, ha rilievo determinante non tanto il legame materiale tra pertinenza ed immobile principale quanto che:
1) la prima non abbia autonoma destinazione e autonomo valore di mercato e che esaurisca la propria destinazione d’uso nel rapporto funzionale con l’edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico (Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781);
2) vengano in rilievo «manufatti di dimensioni estremamente modeste e ridotte, inidonei, quindi, ad alterare in modo significativo l’assetto del territorio» (Cons. Stato, VI, 13.01.2010, n. 41)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.01.2013 n. 496 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La mera presentazione dell'istanza di condono non autorizza la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento delle opere oggetto della richiesta di sanatoria, le quali, fino al momento dell'eventuale accoglimento della domanda di condono, devono ritenersi comunque abusive.
Pertanto l'ingiunzione di demolizione è del tutto legittima atteso che "in presenza di manufatti abusivi non condonati né sanati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale, alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione. Ciò non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento della medesima sanzione prevista per l'immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell'art. 35, l. n. 47 del 1985".
Detta norma consente -in presenza dei richiesti presupposti, fra i quali che si tratti di opere di cui all'art. 31, non comprese tra quelle indicate nell'art. 33 - queste non suscettibili di sanatoria in quanto incidenti su aree gravate da vincoli di inedificabilità assoluta- il completamento "sotto la propria responsabilità" di quanto già realizzato e fatto oggetto di domanda di condono edilizio "solo al decorso del termine dilatorio di trenta giorni dalla notifica al Comune del proprio intendimento, con allegazione di perizia giurata ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi".

Infatti, per giurisprudenza costante, la mera presentazione dell'istanza di condono non autorizza la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento delle opere oggetto della richiesta di sanatoria, le quali, fino al momento dell'eventuale accoglimento della domanda di condono, devono ritenersi comunque abusive (TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999; TAR Campania Salerno, sez. II, 01.03.2011, n. 379; TAR Campania Napoli, sez. VII, 03.11.2010, n. 22302; in senso analogo TAR Campania Napoli, sez. IV, 24.11.2009, n. 7961 secondo cui inoltre "laddove poi si tratti di opere eseguite in area vincolata occorre che venga acquisito il parere delle autorità competenti ai sensi dell'articolo 32 della stessa legge ed è inapplicabile il meccanismo del silenzio assenso, alla luce delle disposizioni di cui alla legge summenzionata").
Pertanto l'ingiunzione di demolizione è del tutto legittima atteso che "in presenza di manufatti abusivi non condonati né sanati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale, alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione. Ciò non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento della medesima sanzione prevista per l'immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell'art. 35, l. n. 47 del 1985" (TAR Campania Napoli, sez. VI, 03.12.2010, n. 26788).
Detta norma consente -in presenza dei richiesti presupposti, fra i quali che si tratti di opere di cui all'art. 31, non comprese tra quelle indicate nell'art. 33 - queste non suscettibili di sanatoria in quanto incidenti su aree gravate da vincoli di inedificabilità assoluta- il completamento "sotto la propria responsabilità" di quanto già realizzato e fatto oggetto di domanda di condono edilizio "solo al decorso del termine dilatorio di trenta giorni dalla notifica al Comune del proprio intendimento, con allegazione di perizia giurata ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi" (TAR Campania Napoli, sez. VI, 12.11.2010, n. 24017).
Pertanto nell’ipotesi di specie l’ordinanza di demolizione è sufficientemente e legittimamente motivata in riferimento al carattere abusivo delle opere, realizzate -dopo la presentazione dell’istanza di condono e dopo la scadenza dei termini previsti per l’ultimazione dei lavori dalla L. 326/2003- venendo nella specie in rilievo un atto vincolato il cui presupposto è dato dal mero carattere abusivo delle opere realizzate, a prescindere dalla modestia delle medesime, in quanto le stesse ripetono le medesime caratteristiche di illegittimità dell’opera principale cui ineriscono, salvo che la stessa non sia stata previamente condonata (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.01.2013 n. 614 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAppalti, il volontariato può partecipare.
Le associazioni di volontariato possono concorrere all'aggiudicazione di appalti pubblici anche se non svolgono fini di lucro e se l'attività connessa alla partecipazione alla gara ha carattere «marginale»; la legittimazione deriva dalla legge sul volontariato e dalla disciplina sulle cosiddette imprese sociali di cui al decreto 155/2006.

È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 23.01.2013 n. 387 che riforma la sentenza del Tar Campania, Napoli, sezione I, n. 1666/2008 che non aveva riconosciuto legittima la partecipazione della associazione alla gara.
I giudici affermano infatti che le associazioni di volontariato possono essere aggiudicatarie di gare di pubblici appalti, in quanto l'assenza di fine di lucro non è di per sé ostativa della partecipazione ad appalti pubblici. Tale affermazione viene motivata in primo luogo con la nota giurisprudenza comunitaria del 2007 (in particolare sez. III, 29.11.2007, causa C-119/06), ma la parte più interessante della motivazione è quella in cui la legittimazione si lega a quanto prevede in Italia la legge quadro sul volontariato che, nell'elencare le entrate di tali associazioni, menziona anche le entrate derivanti da attività commerciali o produttive svolte a latere, con ciò riconoscendo la capacità di svolgere attività di impresa.
Il Consiglio di stato, infine, motiva la decisione riconducendo le associazioni di volontariato nel novero delle cosiddette «imprese sociali»: «esse possono essere ammesse alle gare pubbliche quali “imprese sociali”, a cui il dlgs 24.03.2006 n. 155 ha riconosciuto la legittimazione a esercitare in via stabile e principale un'attività economica organizzata per la produzione e lo scambio di beni o di servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità d'interesse generale, anche se non lucrativa». Infatti, si legge nella sentenza, l'art. 5 della legge n. 266/2001, nell'indicare le risorse economiche delle Onlus, menziona anche le «entrate derivanti da attività commerciali e produttive marginali», con ciò dimostrando di riconoscere la capacità delle Onlus di svolgere attività commerciali e produttive e, dunque, anche quella di partecipare a gare di appalto, quanto meno nei settori di specifica competenza.
È sì vero, dice il Consiglio di stato, che la norma fa riferimento ad attività imprenditoriali «marginali», ma occorrerebbe dimostrare che la partecipazione dell'associazione all'appalto non abbia il carattere di marginalità (articolo ItaliaOggi dell'01.02.2013).

APPALTI: E' ben possibile, ad opera della stazione appaltante, cumulare il compito di responsabile unico del procedimento con l’incarico di presidente della Commissione giudicatrice. Nessuna norma, infatti, neanche l’invocato art. 10, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006, impedisce espressamente tale cumulo; anzi il comma 4 dell'art. 84 del d.lgs. n. 163 del 2006 ne conferma, indirettamente, la legittimità allorché prevede limiti solo per i commissari diversi dal presidente.
E, d'altronde, la giurisprudenza ha avuto anche modo di precisare che non sussiste incompatibilità tra le funzioni di Presidente della Commissione di gara e quella di responsabile del procedimento-RUP, mentre, per altro verso, l'approvazione degli atti della Commissione non può essere ricompresa nella nozione di controllo, risolvendosi in una revisione interna, connessa alla responsabilità unitaria del procedimento.
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Pur nel doveroso rispetto di quanto prescritto dall’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006, a norma del quale, qualora la scelta della migliore offerta debba avvenire con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, tutti i componenti della commissione, ivi incluso il presidente, devono essere “esperti nello specifico settore cui si riferisce l’oggetto del contratto”– questa norma va opportunamente intesa nel senso che l’esperienza richiesta deve essere valutata, vieppiù con riferimento al presidente della commissione ed ai compiti a lui pertinenti, con riferimento non solo alle conoscenze prettamente tecniche, ma anche con riguardo a quelle più genericamente intese come gestionali ed organizzative, in rapporto alla necessità di garantire il coordinamento e la concentrazione del procedimento di gara.
Il comma 2 dell’art. 84 deve, infatti, necessariamente coordinarsi con il successivo comma 3 il quale affida la presidenza della commissione di gara ad un dirigente della medesima stazione appaltante ovvero, in mancanza, ad un funzionario incaricato di funzioni apicali, così legittimando anche la nomina di un funzionario non appartenente a ruoli tecnici specificamente specializzato nel settore. La garanzia dell’“adeguata professionalità”, per l’ipotesi di accertata carenza in organico, è peraltro mantenuta dal successivo comma 8 solo per i componenti della commissione diversi dal suo presidente, con ciò implicitamente confermando che la professionalità di quest’ultimo è già di per sé assicurata dal grado di apicalità (e, quindi, di connesse conoscenze, nonché di esperienza, di natura gestionale ed organizzativa) dal medesimo rivestito nell’ambito dell’amministrazione appaltante.
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Deve ritenersi condivisibile l’orientamento che, in proposito, è di gran lunga prevalente nella giurisprudenza amministrativa secondo cui “la mancata dettagliata indicazione nei verbali di gara delle specifiche modalità di custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la segretezza delle offerte non costituisce di per sé motivo di illegittimità dell'attività posta in essere dalla commissione di gara per garantire la custodia di plichi, in assenza di ulteriori elementi idonei a far ipotizzare che si siano verificate in concreto manomissioni o alterazione dei documenti”.
Ciò, sulla scorta dell’ulteriore osservazione secondo cui, in caso di mancata verbalizzazione, allorché non ci siano indizi di segno contrario, si deve presumere che la documentazione di gara sia sempre conservata, a cura del responsabile del procedimento o del presidente della Commissione, in modo tale da non essere accessibile a soggetti estranei: sul dipendente pubblico infatti grava, ratione muneris, l’obbligo del segreto d’ufficio.

Nel merito, non può anzitutto trovare accoglimento il primo motivo di gravame.
Secondo un consistente filone giurisprudenziale –già fatto proprio da questa Sezione sin dalla sentenza n. 459 del 2005 e che questo Collegio condivide– è ben possibile, ad opera della stazione appaltante, cumulare il compito di responsabile unico del procedimento con l’incarico di presidente della Commissione giudicatrice. Nessuna norma, infatti, neanche l’invocato art. 10, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006, impedisce espressamente tale cumulo; anzi il comma 4 dell'art. 84 del d.lgs. n. 163 del 2006 ne conferma, indirettamente, la legittimità allorché prevede limiti solo per i commissari diversi dal presidente.
E, d'altronde, la giurisprudenza ha avuto anche modo di precisare che non sussiste incompatibilità tra le funzioni di Presidente della Commissione di gara e quella di responsabile del procedimento-RUP, mentre, per altro verso, l'approvazione degli atti della Commissione non può essere ricompresa nella nozione di controllo, risolvendosi in una revisione interna, connessa alla responsabilità unitaria del procedimento (cfr., ex multis, di recente: TAR Basilicata, n. 100 del 2010; TAR Calabria, Reggio Calabria, sez. I, n. 474 del 2011; TAR Puglia, Bari, sez. I, n. 1183 del 2012).
Né è degno di positiva disamina l’altro profilo di censura, sollevato nell’ambito del primo motivo di gravame, e riguardante l’asserita inidoneità professionale dell’ing. Leli ad assumere la presidenza della Commissione di gara. Deve, in merito, anzitutto osservarsi che, come si evince dal curriculum vitae depositato in giudizio dalla S.C.R. (doc. n. 14), l’ing. Leli ha partecipato, in ambito sanitario, a diversi gruppi di lavoro nominati dalla Regione Piemonte per la definizione delle specifiche tecniche di diverse categorie merceologiche le quali risultano attinenti a quella per cui è stata bandito l’appalto de quo: “aghi e siringhe, ausili per incontinenza, farmaci, soluzioni infusionali, suturatrici, vaccini, ecc.”: donde deve darsi per appurata la sussistenza di una sua pur minima esperienza nel settore cui si riferiva l’oggetto del contratto per cui è causa (riguardante la fornitura di suturatrici).
Per altro verso, va poi osservato che –pur nel doveroso rispetto di quanto prescritto dall’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006, a norma del quale, qualora la scelta della migliore offerta debba avvenire con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, tutti i componenti della commissione, ivi incluso il presidente, devono essere “esperti nello specifico settore cui si riferisce l’oggetto del contratto”– questa norma va opportunamente intesa nel senso che l’esperienza richiesta deve essere valutata, vieppiù con riferimento al presidente della commissione ed ai compiti a lui pertinenti, con riferimento non solo alle conoscenze prettamente tecniche, ma anche con riguardo a quelle più genericamente intese come gestionali ed organizzative, in rapporto alla necessità di garantire il coordinamento e la concentrazione del procedimento di gara, aspetto che di certo risulta soddisfatto in presenza di un presidente –come nella specie– laureato in ingegneria gestionale nonché, già da diversi anni, responsabile dell’“Ufficio Acquisti e Commesse esterne” di S.C.R.
Il comma 2 dell’art. 84 deve, infatti, necessariamente coordinarsi con il successivo comma 3 il quale affida la presidenza della commissione di gara ad un dirigente della medesima stazione appaltante ovvero, in mancanza, ad un funzionario incaricato di funzioni apicali, così legittimando anche la nomina di un funzionario non appartenente a ruoli tecnici specificamente specializzato nel settore (cfr., analogamente, Cons. Stato, sez. V, n. 7353 del 2009). La garanzia dell’“adeguata professionalità”, per l’ipotesi di accertata carenza in organico, è peraltro mantenuta dal successivo comma 8 solo per i componenti della commissione diversi dal suo presidente, con ciò implicitamente confermando che la professionalità di quest’ultimo è già di per sé assicurata dal grado di apicalità (e, quindi, di connesse conoscenze, nonché di esperienza, di natura gestionale ed organizzativa) dal medesimo rivestito nell’ambito dell’amministrazione appaltante.
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Venendo ora al terzo motivo di gravame –concernente la mancata verbalizzazione delle modalità di conservazione dei plichi contenenti le offerte tecniche ed economiche– esso deve respingersi per le ragioni che seguono.
Come già statuito da questo TAR in recenti occasioni (sez. I, sentt. n. 569 e 1180 del 2012), deve ritenersi condivisibile l’orientamento che, in proposito, è di gran lunga prevalente nella giurisprudenza amministrativa secondo cui “la mancata dettagliata indicazione nei verbali di gara delle specifiche modalità di custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la segretezza delle offerte non costituisce di per sé motivo di illegittimità dell'attività posta in essere dalla commissione di gara per garantire la custodia di plichi, in assenza di ulteriori elementi idonei a far ipotizzare che si siano verificate in concreto manomissioni o alterazione dei documenti” (Cons. Stato, sez. V, nn. 3079, 4055 e 5456 del 2011; Cons. Stato, sez. III, n. 2908 del 2011 e n. 5050 del 2012; TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, n. 424 del 2011; TAR Sicilia, Catania, sez. III, n. 2003 del 2011; TAR Campania, Napoli, sez. I, n. 1496 del 2011).
Ciò, sulla scorta dell’ulteriore osservazione secondo cui, in caso di mancata verbalizzazione, allorché non ci siano indizi di segno contrario, si deve presumere che la documentazione di gara sia sempre conservata, a cura del responsabile del procedimento o del presidente della Commissione, in modo tale da non essere accessibile a soggetti estranei: sul dipendente pubblico infatti grava, ratione muneris, l’obbligo del segreto d’ufficio (così TAR Marche, n. 576 del 2011)
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 18.01.2013 n. 85 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADice il cds. Fotovoltaico vietato vicino ai parchi.
No alla realizzazione di un parco fotovoltaico nelle aree di protezione attorno alle riserve naturali. La realizzazione dell'impianto andrebbe ad arrecare danni all'ambiente. E la riserva naturale di Punta Aderci rientra tra i siti di importanza comunitaria ed è inserita nell'elenco ufficiale nazionale delle aree protette.
Questo è quanto stabilito dal Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 15.01.2013 n. 176.
Il fatto in sintesi: una società presentava ricorso contro la decisione del Tar Abruzzo che negava l'autorizzazione di un parco fotovoltaico in un'area attigua alla riserva naturale di Punta Aderci.
Il Consiglio di Stato ha però confermato il diniego affermando che il parco fotovoltaico, «è stato previsto nell'area di protezione esterna di una riserva naturale, cioè in un luogo ove è stata già effettuata la valutazione circa la preminenza dell'interesse alla salvaguardia dell'ambiente rispetto ad altri interessi, come quello alla gestione delle fonti di energia rinnovabile, che è insuscettibile di deroga anche in relazione all'eventuale modesto effettivo impatto ambientale delle opere di cui è prevista la realizzazione» (articolo ItaliaOggi del 29.01.2013).

APPALTI: Gare, trasparenza per tutti. Documenti in copia anche a chi non partecipa all'appalto. Il Consiglio di stato allarga la platea dei soggetti tutelati se vi sono interessi qualificati.
Appalti più trasparenti per tutti. Anche chi non ha partecipato alla gara può avere la copia dei documenti presentati dall'aggiudicatario. E non solo di quelli amministrativi sui requisiti di partecipazione, ma anche sui progetti relativi alle offerte tecniche.
La giurisprudenza del Consiglio di stato (Sez. VI sentenza 11.01.2013 n. 110, si veda ItaliaOggi del 16.01.2013) apre le porte a tutti, purché portatori di un interesse qualificato, senza riserva per le imprese concorrenti, nonostante il codice degli appalti sembri favorire i concorrenti alla gara a discapito degli altri.
Il problema è se deve ritenersi vincente la trasparenza degli atti che riguardano procedure pubbliche o se, invece, debba darsi prevalenza all'esigenza delle imprese di tenere segrete e riservate le informazioni sui processi produttivi, organizzazione del lavoro, know how e caratteristiche dei propri prodotti e servizi.
Non rappresenta un paradosso pensare a una strumentalizzazione delle disposizioni sulla trasparenza per lo scopo di copiare servizi, prodotti o progetti da proporre sul mercato, magari in altre pubbliche gare.
L'articolo 13 del codice dei contratti cerca di bilanciare gli opposti interessi. D'altra parte lo stesso Consiglio di stato, nella sentenza citata, ricorda che l'articolo 13 del Codice dei contratti contiene specifiche previsioni in materia di accesso ai documenti di gara, e prescrive l'inaccessibilità o l'accessibilità riservata ai soli ricorrenti, i documenti che costituiscono, con motivata e comprovata dichiarazione degli offerenti, segreti tecnici o commerciali.
Tuttavia, osservano i giudici di Palazzo Spada, l'articolo 13 del Codice degli appalti fa espresso rinvio alla legge n. 241 del 1990 ed in particolare dall'articolo 24, per il quale spetta ai richiedenti l'accesso ai documenti la cui conoscenza è necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici.
Inoltre si legge nella sentenza «la tutela del diritto di accesso assicura la trasparenza dell'attività della pubblica amministrazione, indipendentemente dall'effettiva lesione di una determinata situazione di diritto soggettivo o di interesse legittimo»: come dire anche chi non ha partecipato alla gara può vantare un interesse (qualificato) ad acquisire la documentazione.
Nel caso specifico si è trattato di una società che ha attivato un ricorso parallelo per impugnare la gara, alla quale non ha potuto partecipare.
La trasparenza si estende al massimo e ne beneficia anche un soggetto che non è stato concorrente nella procedura di appalto.
L'orientamento del Consiglio di stato è significativo in quanto supera un precedente indirizzo contrario. Il Tar Lazio Roma, sentenza Sez. III-ter, 10/05/2011, n. 4081 ha sostenuto che il comma 6 dell'articolo 13 del codice degli appalti consente l'accesso agli atti coperti da segreti tecnici e commerciali, contenuti nelle offerte, riservandolo, però «al concorrente che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto nell'ambito della quale viene formulata la richiesta di accesso».
Secondo il Tar Lazio l'articolo 13 collega l'interesse all'accesso alla posizione giuridica non di chiunque vi abbia interesse, ma del solo concorrente che abbia intrapreso un giudizio avente ad oggetto la procedura di gara in cui l'istanza di accesso è formulata.
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Limitazioni all'accesso per evitare pressioni o accordi illegittimi.
L'articolo 13 del codice degli appalti prevede una disciplina ad hoc, pur richiamando le regole generali della legge 241/1990.
Innanzi tutto la norma stabilisce un rinvio dell'accesso a determinate fasi della procedura. Nel dettaglio il diritto di accesso è differito: nelle procedure aperte, in relazione all'elenco dei soggetti che hanno presentato offerte, fino alla scadenza del termine per la presentazione delle medesime nelle procedure ristrette e negoziate, e in ogni ipotesi di gara informale, in relazione all'elenco dei soggetti che hanno fatto richiesta di invito o che hanno segnalato il loro interesse, e in relazione all'elenco dei soggetti che sono stati invitati a presentare offerte e all'elenco dei soggetti che hanno presentato offerte, fino alla scadenza del termine per la presentazione delle offerte medesime; ai soggetti la cui richiesta di invito sia stata respinta, è consentito l'accesso all'elenco dei soggetti che hanno fatto richiesta di invito o che hanno segnalato il loro interesse, dopo la comunicazione ufficiale, da parte delle stazioni appaltanti, dei nominativi dei candidati da invitare.
Inoltre si verifica il differimento, in relazione alle offerte, fino all'approvazione dell'aggiudicazione e, in relazione al procedimento di verifica della anomalia dell'offerta, fino all'aggiudicazione definitiva.
Le limitazioni all'accesso hanno l'obiettivo di preservare la correttezza della gara ed evitare accordi illegittimi o pressioni indebite.
Altra limitazione è rappresentata dai casi di esclusione del diritto di accesso. L'accesso e ogni forma di divulgazione sono vietati in relazione alle informazioni fornite dagli offerenti nell'ambito delle offerte ovvero a giustificazione delle medesime, che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell'offerente, segreti tecnici o commerciali; a eventuali ulteriori aspetti riservati delle offerte, da individuarsi in sede di regolamento; ai pareri legali acquisiti dai soggetti tenuti all'applicazione del presente codice, per la soluzione di liti, potenziali o in atto, relative ai contratti pubblici; alle relazioni riservate del direttore dei lavori e dell'organo di collaudo sulle domande e sulle riserve del soggetto esecutore del contratto.
C'è però un'eccezione al divieto di accesso ai segreti tecnici e commerciali e agli aspetti riservati delle offerte: lo stesso articolo 13 del codice appalti prevede che «è comunque consentito l'accesso al concorrente che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto nell'ambito della quale viene formulata la richiesta di accesso». Quest'ultima disposizione sembra limitare l'accesso alle offerte (motivato dal diritto di difesa) al solo concorrente, e non a terzi. Ma è su questo punto che la giurisprudenza amministrativa mostra un'apertura a una maggiore trasparenza.
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Resta protetto il know how industriale e commerciale.
Nelle gare pubbliche va tutelato anche il know how aziendale.
Non può, infatti, di regola essere data copia della documentazione sul know how industriale e commerciale contenuto nelle offerte delle imprese partecipanti. Questo per evitare che operatori economici in diretta concorrenza tra loro possano utilizzare l'accesso per giovarsi delle specifiche conoscenze possedute da altri al fine di conseguire un indebito vantaggio commerciale all'interno del mercato. Anche in questo caso, però, è consentito l'accesso al concorrente (ma anche ai terzi portatori di un interesse qualificato stando all'ultimo orientamento del consiglio di stato) che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei propri interessi (Tar Lazio Roma Sez. III, 21/03/2011, n. 2422).
Tra l'altro le imprese non devono dimenticarsi che per stendere un velo sulle proprie informazioni riservate devono farlo presente alla stazione appaltante: quando gli atti di gara cui l'interessato chieda di avere accesso concernano informazioni fornite dall'azienda partecipante nell'ambito dell'offerta, ma costituiscono nel contempo segreti tecnici o commerciali della stessa, l'esclusione del diritto di visionare ed estrarre copia degli atti amministrativi trova applicazione solo a condizione che l'impresa cui le informazioni si riferiscono abbia manifestato il proprio interesse alla non divulgazione delle stesse (Cons. di stato Sez. VI sent., 19/10/2009, n. 6393).
E le imprese non devono neppure dimenticarsi che a loro carico sussiste l'onere della prova della segretezza o riservatezza delle informazioni inserite nelle offerte presentate nelle gare pubbliche.
Il Codice degli appalti, spiega il Consiglio di stato (sentenza Sez. V, 21/11/2011, n. 6136), nel prevedere l'esclusione dall'accesso per «le informazioni fornite dagli offerenti nell'ambito delle offerte ovvero a giustificazione delle medesime», esige a tal fine che le medesime integrino segreti tecnici o commerciali «secondo motivata e comprovata dichiarazione dell'offerente». Quindi l'esclusione dall'accesso opera solo se il concorrente interessato adempie allo specifico onere di fornire motivata dichiarazione comprovante che effettivamente siano in questione informazioni integranti segreti tecnici o commerciali.
E comprovare non significa solo affermare, ma significa spiegare le ragioni per le quali si può parlare di segreto o riservatezza aziendale. Residua alla stazione appaltante anche una valutazione relativa alla congruità della motivazione e anche sull'idoneità delle giustificazioni. Anche un parere legale acquisito dalla stazione appaltante può essere acquisito. Purché il parere si riferisca ad una fase endoprocedimentale amministrativa (per esempio, al fine dell'adozione di successivi provvedimenti, che vi fanno espresso riferimento) e non riguardi una lite in atto o potenziale, ovvero una fase precontenziosa (Cons. di stato Sez. V, 23/06/2011, n. 3812) (articolo ItaliaOggi Sette del 28.01.2013).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Appalti, responsabilità doppia. Il direttore lavori risponde a titolo contrattuale ed extra. La Cassazione: tra gli obblighi del progettista c'è quello di evitare difetti costruttivi.
La responsabilità del direttore dei lavori nei confronti del committente è configurabile sia a titolo extracontrattuale sia a titolo contrattuale. E infatti, accanto alle responsabilità connessa all'ipotesi del crollo dell'edificio, è imputabile al professionista l'inadempimento contrattuale tutte le volte che questi non esegua correttamente le prestazioni alle quali è tenuto in virtù del conferimento dell'incarico di direttore dei lavori, agendo con imprudenza, imperizia, negligenza o non rispettando le norme tecniche.
Questo il principio stabilito dalla III Sez. civile della Corte di Cassazione nella recente sentenza 11.12.2012 n. 22643.
Il caso concreto. Nella specie il tribunale aveva condannato l'impresa appaltatrice di una serie di lavori a un fabbricato al pagamento dei danni in favore dei committenti, mentre aveva rigettato l'analoga domanda proposta nei confronti del progettista e direttore dei lavori. La parte danneggiata, premesso di avere appaltato a quest'ultimo il progetto, l'espletamento delle pratiche amministrative e la direzione dei lavori di ristrutturazione di un immobile e al primo l'esecuzione delle relative opere edili, aveva infatti denunciato il crollo parziale dell'edificio e, pertanto, aveva chiesto il risarcimento del danno conseguente. I committenti avevano quindi impugnato la sentenza in appello relativamente al mancato riconoscimento della responsabilità civile del direttore dei lavori. Ma anche la corte di merito aveva ritenuto corretta la scelta di escludere la responsabilità del progettista e direttore dei lavori, in quanto la sua mancanza di abilitazione a progettare edifici in cemento armato non poteva essere messa in correlazione causale con la rovina dell'edificio, tanto più che quest'ultimo aveva realizzato solo il progetto di massima e non anche quello esecutivo e neppure il calcolo delle opere strutturali in cemento armato. I giudici di secondo grado avevano escluso altresì l'addebito del difetto di vigilanza in qualità di direttore dei lavori, ritenendo che la responsabilità di tale figura possa essere solo di natura extracontrattuale, sulla base di quanto previsto dall'art. 1669 del codice civile. Di qui il ricorso in cassazione presentato sempre dai committenti.
La decisione della Suprema corte. I giudici della terza sezione civile della Cassazione hanno quindi accolto il ricorso in questione, evidenziando come il direttore dei lavori abbia un duplice titolo di responsabilità nei confronti del committente, extracontrattuale, ai sensi dell'art. 1669 c.c., e contrattuale, in base all'art. 1218 c.c. La Corte di legittimità ha, infatti, evidenziato come fra le obbligazioni del direttore dei lavori rientri l'accertamento della conformità, sia della progressiva realizzazione dell'opera al progetto sia delle modalità dell'esecuzione di essa, al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l'adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell'opera senza difetti costruttivi. Pertanto risponde civilmente il professionista incaricato della direzione dei lavori che ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni circa l'esecuzione dell'opera, nonché di controllarne l'ottemperanza da parte dell'appaltatore e di riferirne al committente. Infatti, secondo la Cassazione, l'attività del direttore dei lavori si concreta nell'alta sorveglianza delle opere che, pur non richiedendo la presenza continua e giornaliera sul cantiere né il compimento di operazioni di natura elementare, comporta il controllo della realizzazione dell'opera nelle sue varie fasi e pertanto l'obbligo del professionista di verificare, attraverso periodiche visite e contatti diretti con gli organi tecnici dell'impresa, se siano state osservate le regole dell'arte e la corrispondenza dei materiali impiegati.
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Il ruolo del tecnico che sovraintende all'opera.
Quando il committente incarica un'impresa edile di eseguire una determinata opera ha il diritto di nominare un tecnico di sua fiducia che sovraintenda ai lavori. Così se il condominio decide di rifare la facciata o il tetto è normale che l'assemblea, nella stessa riunione in cui viene scelta la ditta a cui affidare dette opere, deliberi pure di nominare un direttore lavori, cioè un professionista capace di tutelare gli interessi della collettività condominiale nei confronti dell'impresa e dei terzi, controllando la buona riuscita delle opere.
- I compiti del direttore lavori del committente. Il direttore dei lavori è il responsabile tecnico dell'opera e dei tempi tecnici di realizzazione dei lavori: in altre parole ha la direzione e la sorveglianza dei lavori, attività che comporta visite periodiche sul cantiere (nel numero necessario, a suo esclusivo giudizio) per accertare la progressiva realizzazione dell'opera e indicare alla ditta incaricata l'adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la buona realizzazione della stessa, segnalando le inesattezze dell'esecuzione del progetto o l'inosservanza delle regole tecniche o ulteriori inadempienze.
Si tratta dell'unica persona che può accedere al cantiere senza la presenza o l'autorizzazione di alcuno e senza l'obbligo di incontrare altri tecnici dell'appaltatore, quali il direttore del cantiere o il direttore tecnico dell'impresa, figure diverse dal direttore dei lavori, che hanno la responsabilità della rispondenza dell'opera al progetto, dell'osservanza delle prescrizioni di esecuzione di quest'ultimo, della qualità dei materiali impiegati e della sicurezza del cantiere.
In ogni caso, per adempiere ai suoi doveri, il direttore dei lavori deve compilare durante lo svolgimento dell'opera tutta una serie di documenti tecnici e contabili, ai quali si aggiungono i verbali, le disposizioni, le relazioni aggiuntive, i certificati necessari per far rispettare i termini e le disposizioni contrattuali.
- La responsabilità. Il potere di controllo e di vigilanza del direttore dei lavori preposto dal committente non annullano l'autonomia dell'appaltatore che, salvo patto contrario, rimane conseguentemente tenuto a rispettare, nell'esecuzione dell'appalto, le regole dell'arte, al fine di assicurare un risultato tecnico conforme alle esigenze del committente (e, perciò, ad esempio, questi deve controllare, tra l'altro, la qualità del materiale impiegato, rispondendo dei relativi vizi anche quando questo sia fornito dal committente o dal produttore da quest'ultimo indicato).
Di conseguenza se i lavori commissionati risultano difettosi la responsabilità è certamente dell'impresa incaricata. Tuttavia detta responsabilità non esclude o assorbe quella del direttore dei lavori che ometta di vigilare e di impartire le opportune istruzioni, nonché di controllarne il rispetto da parte della ditta e, in difetto, di riferirne al committente. Ne consegue che tale professionista deve adempiere all'incarico con la diligenza del buon padre di famiglia e risponde anche per colpa lieve, rapportandosi la sua responsabilità all'esistenza di errori determinati da ignoranza di cognizioni tecniche o da inesperienza professionale.
Così, per esempio, è chiaro che, in riferimento a un'opera di particolare delicatezza e complessità, come ad esempio il rifacimento del tetto di un edificio condominiale comportante lo scoperchiamento del fabbricato, ricorra la responsabilità del direttore dei lavori che ometta di stabilire le modalità dell'intervento, contribuendo a causare gravi infiltrazioni d'acqua piovana nelle scale per la mancanza di coperture. Lo stesso dicasi se, nell'ambito di lavori di rifacimento della facciata, il medesimo non controlli che la rimozione dell'intonaco preesistente avvenga secondo gli accordi o, nel certificato di regolare esecuzione dell'appalto, liquidi il compenso spettante per le lavorazioni più onerose nonostante queste non siano state eseguite.
Allo stesso modo ricorre detta responsabilità per la mancata coibentazione dei pilastri di un caseggiato, con conseguente condensazione di umidità all'interno degli appartamenti, anche se tale accorgimento non sia stato previsto dal progetto: il direttore dei lavori, infatti, come l'appaltatore (e a maggior ragione, considerata la sua preparazione tecnica), è tenuto all'individuazione e alla correzione di eventuali carenze progettuali che impediscano quella buona riuscita del lavoro per la quale egli è tenuto ad adoperarsi. In tali ipotesi si deve pertanto ritenere che il direttore lavori non abbia operato con la dovuta diligenza nell'espletamento dell'incarico affidatogli e sia pertanto responsabile, in solido con l'impresa appaltatrice, dei vizi riscontrati e dei conseguenti danni sopportati dal committente per la loro eliminazione.
Tuttavia la ditta incaricata non può essere ritenuta responsabile se, per accordi contrattuali, risulti passivo strumento nelle mani del committente e del suo direttore dei lavori, cioè se sia stata direttamente e totalmente condizionata dalle istruzioni ricevute da questi ultimi, senza alcuna possibilità di iniziativa e vaglio critico delle direttive impartite (articolo ItaliaOggi Sette del 28.01.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Circa la sanatoria, o meno, di una piscina privata scoperta in zona ambientalmente vincolata.
La tesi non persuade nella premessa in cui assume che l’edificazione dell’impianto natatorio rientra tra le opere “relative ad ampliamenti o tipologie d'abuso che non comportano aumento di superficie o di volume”.
La prospettazione difensiva non considera, infatti, che il vincolo richiamato dall’art. 32, 2° comma, L. 47/1985, facendo riferimento a immobili soggetti alla L. 29.06.1939, n. 1497 e al D.L. 27.06.1985, n. 312, è finalizzato a preservare nel tempo la configurazione di bellezze naturali o di zone di particolare interesse ambientale.
La previsione di interventi di minor impatto (non implicanti aumenti di superficie o di volume), rispetto ai quali si giustifica una modalità tacita di acquisizione del parere, va quindi interpretata in relazione all’esigenza di tutela dei beni ambientali, e quindi in termini compatibili con la loro necessaria salvaguardia.
Alla luce di questa esigenza primaria, la tipologia di intervento che viene in rilievo nel presente giudizio non appare armonizzabile nel dettato dell’art. 32, 2° comma, trattandosi di opera astrattamente idonea a creare un impatto ambientale significativo e permanente, anche se priva di volumi emergenti dal terreno o di superfici calpestabili; ciò in quanto essa presenta dimensioni non trascurabili, richiede scavi consistenti e prevede l'impiego di materiali difficilmente compatibili con il contesto in cui si pretende esso trovi inserimento.
Stando, quindi, ad un’interpretazione della norma che tenga conto dell’intendimento alla stessa sotteso, si deve concludere che l’intervento in oggetto esula dal novero delle opere assentibili in via tacita.
D’altra parte, vi è unanimità di vedute in giurisprudenza circa il principio, certamente pertinente al caso in esame, secondo il quale la nozione di volume rilevante a fini paesaggistici non può distinguere tra volumi esterni e volumi interrati, essendo anche questi ultimi idonei a determinare una modificazione del territorio e dell'assetto edilizio esistente: ciò in quanto lo stesso volume che a fini edilizi, per le sue caratteristiche, può non essere considerato rilevante e non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili, ad esempio perché ritenuto volume tecnico, ai fini paesaggistici può assumere una diversa rilevanza, laddove si ritenga che determini una possibile alterazione dello stato dei luoghi salvaguardato dalle apposite norme di tutela, le quali, al preordinato fine di conservare la sostanziale integrità di determinati ambiti territoriali, ben possono vietare anche la realizzazione di un volume edilizio tecnico od interrato, quand'anche irrilevante secondo le norme che regolano l'attività edilizia.
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Non sussiste l'eccesso di potere per disparità di trattamento per non avere l’autorità preposta alla tutela del vincolo formulato rilievi in sede di controllo di altri provvedimenti autorizzatori di analogo contenuto (relativi, cioè, a piscine costruite nella stessa zona).
Invero, ogni singolo intervento è soggetto a specifica valutazione, con particolare riguardo al suo inserimento nel contesto paesistico e ambientale già esistente. Ciò posto, la circostanza che in relazione ad altre istanze di sanatoria aventi ad oggetto immobili ricadenti nel medesimo contesto vincolato la Regione abbia ritenuto di avallare interventi conservativi, non determina disparità di trattamento in mancanza della prova -che incombeva al ricorrente fornire- della identità della situazione sostanziale qui in esame con quella oggetto di quelle diverse domande di concessione in sanatoria.
Pertanto, non può tradursi in vizio di legittimità del provvedimento la presenza, nell'area interessata dall'intervento edilizio, di altre costruzioni asseritamene omogenee a quella da assentire: e ciò sia perché ogni manufatto è diverso per consistenza, ubicazione, periodo di realizzazione; sia perché un eventuale pregresso comportamento illegittimo dell'amministrazione non può valere a sanare un'ulteriore illegittimità. Al contrario, una situazione di compromissione del panorama naturale da parte di preesistenti realizzazioni, anziché impedire, maggiormente richiede che ulteriori costruzioni non deturpino irreversibilmente l'ambiente protetto.
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In relazione a manufatti abusivi realizzati in ambiti soggetti a tutela paesaggistica, non è il diniego di sanatoria a dover essere rigorosamente motivato, ma semmai, l'eventuale provvedimento favorevole.
Ad integrare il profilo di incompatibilità ambientale, sinteticamente espresso nella relazione richiamata, concorrono le significative dimensioni della piscina, l’irreversibile alterazione dello spazio che essa occupa (non più recuperabile a verde) e la discontinuità panoramica che un manufatto cementizio determina nel contesto paesaggistico nel quale si situa.

... per l'annullamento:
- della deliberazione della Giunta Regionale n. 27-7518 del 03.04.1996 nella parte in cui esprime parere negativo ai sensi dell'art. 32 della L. n. 47/1985, in relazione ad una domanda presentata ai sensi dell'art. 39 L. 724/1994 per una piscina di uso privato realizzata abusivamente su aree protette dalla L. 1497/1939, in Comune di Ghiffa;
- della Relazione del servizio Beni Ambientali e Paesistici dell'Assessorato Regionale per i Beni Ambientali prot. n. 13606 del 26.03.1996 che costituisce motivazione del parere negativo anzidetto;
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La tesi non persuade nella premessa in cui assume che l’edificazione dell’impianto natatorio rientra tra le opere “relative ad ampliamenti o tipologie d'abuso che non comportano aumento di superficie o di volume”.
La prospettazione difensiva non considera, infatti, che il vincolo richiamato dall’art. 32, 2° comma, L. 47/1985, facendo riferimento a immobili soggetti alla L. 29.06.1939, n. 1497 e al D.L. 27.06.1985, n. 312, è finalizzato a preservare nel tempo la configurazione di bellezze naturali o di zone di particolare interesse ambientale.
La previsione di interventi di minor impatto (non implicanti aumenti di superficie o di volume), rispetto ai quali si giustifica una modalità tacita di acquisizione del parere, va quindi interpretata in relazione all’esigenza di tutela dei beni ambientali, e quindi in termini compatibili con la loro necessaria salvaguardia.
Alla luce di questa esigenza primaria, la tipologia di intervento che viene in rilievo nel presente giudizio non appare armonizzabile nel dettato dell’art. 32, 2° comma, trattandosi di opera astrattamente idonea a creare un impatto ambientale significativo e permanente, anche se priva di volumi emergenti dal terreno o di superfici calpestabili; ciò in quanto essa presenta dimensioni non trascurabili, richiede scavi consistenti e prevede l'impiego di materiali difficilmente compatibili con il contesto in cui si pretende esso trovi inserimento (cfr. TAR Torino Piemonte sez. I, 13.06.2007, n. 2599).
Stando, quindi, ad un’interpretazione della norma che tenga conto dell’intendimento alla stessa sotteso, si deve concludere che l’intervento in oggetto esula dal novero delle opere assentibili in via tacita.
D’altra parte, vi è unanimità di vedute in giurisprudenza circa il principio, certamente pertinente al caso in esame, secondo il quale la nozione di volume rilevante a fini paesaggistici non può distinguere tra volumi esterni e volumi interrati, essendo anche questi ultimi idonei a determinare una modificazione del territorio e dell'assetto edilizio esistente: ciò in quanto lo stesso volume che a fini edilizi, per le sue caratteristiche, può non essere considerato rilevante e non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili, ad esempio perché ritenuto volume tecnico, ai fini paesaggistici può assumere una diversa rilevanza, laddove si ritenga che determini una possibile alterazione dello stato dei luoghi salvaguardato dalle apposite norme di tutela, le quali, al preordinato fine di conservare la sostanziale integrità di determinati ambiti territoriali, ben possono vietare anche la realizzazione di un volume edilizio tecnico od interrato, quand'anche irrilevante secondo le norme che regolano l'attività edilizia (cfr. TAR Napoli Campania, sez. IV, 29.05.2012, n. 2529; TAR Salerno Campania, sez. I, 11.10.2011, n. 1642; Consiglio Stato, sez. IV, 28.03.2011, n. 1879).
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Le considerazioni che precedono rendono conto dell’infondatezza anche della doglianza di eccesso di potere per disparità di trattamento, per non avere l’autorità preposta alla tutela del vincolo formulato rilievi in sede di controllo di altri provvedimenti autorizzatori di analogo contenuto (relativi, cioè, a piscine costruite nella stessa zona).
Secondo quanto evidenziato nella stessa nota prot. 4329 del 06.08.93, ogni singolo intervento è soggetto a specifica valutazione, con particolare riguardo al suo inserimento nel contesto paesistico e ambientale già esistente. Ciò posto, la circostanza che in relazione ad altre istanze di sanatoria aventi ad oggetto immobili ricadenti nel medesimo contesto vincolato la Regione abbia ritenuto di avallare interventi conservativi, non determina disparità di trattamento in mancanza della prova -che incombeva al ricorrente fornire- della identità della situazione sostanziale qui in esame con quella oggetto di quelle diverse domande di concessione in sanatoria (TAR Torino Piemonte sez. I, 15.06.2012, n. 721).
Pertanto, non può tradursi in vizio di legittimità del provvedimento la presenza, nell'area interessata dall'intervento edilizio, di altre costruzioni asseritamene omogenee a quella da assentire: e ciò sia perché ogni manufatto è diverso per consistenza, ubicazione, periodo di realizzazione; sia perché un eventuale pregresso comportamento illegittimo dell'amministrazione non può valere a sanare un'ulteriore illegittimità (Cons. St., sez. VI, 09.06.2009, n. 3557 e 22.11.2010, n. 8117). Al contrario, una situazione di compromissione del panorama naturale da parte di preesistenti realizzazioni, anziché impedire, maggiormente richiede che ulteriori costruzioni non deturpino irreversibilmente l'ambiente protetto (Cons. St., sez. VI, 27.03.2012, n. 1813).
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Con un terzo motivo si censurano i provvedimenti impugnati per carenza di motivazione e di adeguata istruttoria.
In particolare, non sarebbe stato preso in adeguata considerazione il minimo impatto ambientale del manufatto. In particolare, la Regione non avrebbe considerato che la piscina è preclusa alla vista sia dal lago che dagli altri spazi pubblici; che la stessa è posizionata a raso prato, è completamente circondata da arbusti e alberi ed è stata costruita su un’area precedentemente lastricata e destinata ad ospitare sedie e ombrelloni, quindi già priva di alberi e verde.
Alla luce dei dati evidenziati, sarebbe vacua la manifestata esigenza di non aumentare l’antropizzazione dell’area situata tra la statale e la sponda del lago, trattandosi di valutazione del tutto avulsa da un’effettiva disamina degli elementi concreti caratterizzanti l’area in questione.
La motivazione addotta a fondamento del diniego è ricavabile per relationem dal parere regionale, ovvero dalla relazione istruttoria del competente Settore della Regione Piemonte (relazione del Servizio Beni Ambientali e Paesistici dell’Assessorato Regionale per i beni Ambientali, prot. n. 13606 del 26.03.1996), che si esprime nei seguenti termini: “... considerato che le opere realizzate appaiono tali da alterare le caratteristiche ambientali della località, si esprime parere negativo in merito alla conservazione ai sensi dell’art. 32 L. 47/1985, poiché si ritiene assolutamente inaccettabile l’inserimento di un ulteriore elemento di antropizzazione all’interno di un lotto posto tra la statale e la sponda del lago, dove gli spazi a verde necessitano di una attenta salvaguardia”.
A parere del Collegio, il documento in esame giustifica in modo certamente adeguato, benché succinto, le ragioni sottostanti al diniego - da individuarsi nell’evidente incompatibilità del manufatto con il pregevole contesto naturalistico e paesaggistico sottoposto a specifica tutela. La consistenza delle giustificazioni motivazionali deve essere valutata tenendo altresì conto che, secondo condivisibili principi giurisprudenziali, in relazione a manufatti abusivi realizzati in ambiti soggetti a tutela paesaggistica, non è il diniego di sanatoria a dover essere rigorosamente motivato, ma semmai, l'eventuale provvedimento favorevole (TAR Torino Piemonte sez. I, 15.06.2012, n. 721; TAR Toscana, sez. III, 13.05.2011, n. 843; Cons. Stato, sez. VI, 11.10.2007, n. 5330). Ad integrare il profilo di incompatibilità ambientale, sinteticamente espresso nella relazione richiamata, concorrono le significative dimensioni della piscina, l’irreversibile alterazione dello spazio che essa occupa (non più recuperabile a verde) e la discontinuità panoramica che un manufatto cementizio determina nel contesto paesaggistico nel quale si situa.
Tutti questi profili, benché non esplicitati, appartengono al concetto di “alterazione delle caratteristiche ambientali” e di “antropizzazione” degli spazi vincolati. Si tratta di locuzioni certamente indicative di una trasformazione dell’area protetta, incompatibile con la conservazione dei suoi peculiari caratteri morfologici e paesaggistici
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 11.12.2012 n. 1321 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: L’art. 42, comma 4, d.lgs. n. 163/2006, chiarisce che negli appalti di servizi e forniture (in cui non opera il sistema di qualificazione SOA), i requisiti prescritti nel bando possono essere provati, in sede di gara, mediante dichiarazione sostitutiva; tuttavia al concorrente aggiudicatario è chiesta la documentazione probatoria a conferma di quanto dichiarato in sede di gara.
A sua volta l’art. 74, comma 6, nello stabilire che le stazioni appaltanti non richiedono, in gara, documenti e certificati per i quali le norme vigenti consentono la presentazione di dichiarazioni sostitutive, fa tuttavia salvi i controlli successivi in corso di gara sulla veridicità delle dichiarazioni.
L’art. 48, relativo al controllo sul possesso dei requisiti, nei confronti del primo e secondo classificato, nonché del 10% dei concorrenti individuati mediante sorteggio pubblico, è disposizione di carattere generale, applicabile oltre che agli appalti di lavori, anche a quelli di servizi e forniture.
Esso consente alle stazioni appaltanti di esigere dai concorrenti di provare i requisiti speciali mediante la documentazione prescritta dalla lex specialis di gara.
Si tratta di una disposizione chiaramente derogatoria della l. n. 241/1990 e dei principi in materia di dichiarazioni sostitutive e autocertificazioni, a garanzia della serietà delle gare pubbliche.
Si deve anche osservare che mentre il possesso dei requisiti generali (di carattere morale) di cui all’art. 38, codice appalti, può essere provato mediante certificazioni pubbliche acquisibili agevolmente d’ufficio dalla stazione appaltante, il possesso dei requisiti speciali di capacità economico–finanziaria e tecnico-professionale attiene a fatti propri del concorrente, che da lui sono conosciuti e comprovabili. Non è invece esigibile che sia la stazione appaltante ad andare alla ricerca della prova del possesso dei requisiti, in relazione a dati che non sono nella sua disponibilità.
E’ perfettamente comprensibile, sul piano dei principi, che il codice appalti deroghi al principio di non aggravamento del procedimento amministrativo, e non vi è alcun contrasto con i generali principi di ragionevolezza e proporzionalità, che sono pienamente rispettati, perché esigere dal concorrente la prova di fatti propri del concorrente medesimo non viola alcun canone di proporzionalità e ragionevolezza.
Non senza considerare, poi, che i principi di ragionevolezza e proporzionalità vanno coniugati con quello di speditezza della gara di appalto (sicché non si possono imporre alla stazione appaltante oneri esorbitanti e doveri di soccorso non necessari) e con quelli di lealtà e buona fede dei concorrenti, che, secondo un modello di concorrente diligente, devono partecipare alle gare di appalto con l’adeguata preparazione e predisposizione di tutta la documentazione necessaria, che non può non essere in loro possesso.
Un concorrente che dichiara in gara di aver svolto pregressi servizi per committenti pubblici e privati, deve diligentemente precostituirsi la prova delle sue dichiarazioni, acquisendo tempestivamente la certificazione di tali servizi (che in realtà dovrebbe procurarsi non appena concluso l’espletamento del servizio) senza attendere di essere sorteggiato per il controllo a campione, e poi dolersi di avere solo dieci giorni di tempo per fornire una prova che dovrebbe essere già in suo possesso.
In questa logica l’art. 48 codice appalti, laddove fissa un termine di 10 giorni entro cui i concorrenti devono fornire la prova dei requisiti dichiarati, non impone alcun onere sproporzionato o esorbitante: esso esige che entro dieci giorni il concorrente “fornisca” la prova, non già che entro dieci giorni il concorrente “si procuri” la prova. Infatti è ragionevole presumere che il concorrente, già nel momento in cui presenta la domanda di partecipazione e l’offerta, abbia la prova di ciò che dichiara, e dunque nei dieci giorni deve solo inviare una documentazione già predisposta.
Giova osservare che l’Autorità di vigilanza dei lavori pubblici ha ritenuto l’art. 48 codice appalti derogatorio dell’art. 18, l. n. 241/1990, e ha statuito che la stazione appaltante ben può esigere che il concorrente produca documentazione in possesso di pubbliche amministrazioni diverse dalla stazione appaltante (delibera n. 15/2000 e determinazione n. 5/2009).
Anche secondo la giurisprudenza la disciplina sul controllo a campione è speciale e successiva rispetto alla normativa sulla semplificazione documentale (l. n. 127/1997 e d.P.R. n. 403/1998), sicché è prevalente nel senso di imporre alle imprese un onere di documentazione in deroga alla disciplina della semplificazione documentale.
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Quanto all’ambito di applicazione dell’art. 48 codice appalti, erra l’appellante a sostenere che esso si applica solo in caso di false dichiarazioni; al contrario, esso si applica interamente anche nel caso di mancata produzione tempestiva dei prescritti documenti; in entrambe le ipotesi conseguono l’esclusione, l’incameramento della cauzione provvisoria, la segnalazione all’Autorità di vigilanza.
Anche di recente la giurisprudenza della Sezione ha ribadito che l’art. 48 codice appalti prevede un termine perentorio per la produzione documentale, decorso il quale conseguono inevitabilmente i tre effetti previsti dalla legge, vale a dire l’esclusione, l’incameramento della cauzione e la segnalazione all’Autorità; l’eventuale produzione tardiva dei documenti può acquisire rilevanza, sempre che i documenti siano veritieri, al solo diverso fine dei provvedimenti sanzionatori dell’Autorità di vigilanza.
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L’art. 48 codice appalti, nel prevedere un termine perentorio per la prova dei requisiti in sede di controllo a campione, prevede, quali automatiche conseguenze dell’inosservanza del termine:
- l’esclusione dalla gara;
- l’incameramento della cauzione provvisoria;
- la segnalazione del fatto all’Autorità di vigilanza per i provvedimenti sanzionatori e per la sospensione della partecipazione alle procedure di affidamento da uno a dodici mesi.
Le misure in questione conseguono automaticamente e senza possibilità di apprezzamento discrezionale, sia al caso di mancata produzione della documentazione richiesta, sia al caso di produzione tardiva, sia al caso di produzione di documenti inidonei, incompleti, o addirittura falsi.
Tutte tale ipotesi integrano la fattispecie che si denomina, unitariamente e omnicomprensivamente, come inosservanza dell’obbligo documentale sancito dall’art. 48, codice.
Non è consentita all’amministrazione una graduazione o una scelta tra le tre misure, a seconda della gravità della violazione e del tipo di violazione (inosservanza pura e semplice dell’obbligo, risposta tardiva, risposta incompleta o falsa).
La possibile diversa gravità dei fatti -omissione, ritardo, documentazione incompleta o falsa- è suscettibile di apprezzamento solo in sede di irrogazione delle sanzioni da parte dell’Autorità di vigilanza.
In quella sede, in funzione della maggiore o minore gravità del fatto, potrà essere comminata una sanzione pecuniaria di importo più o meno elevato, e una sanzione interdittiva di maggiore o minore durata.

Quanto alle ulteriori censure articolate con il primo motivo di appello, il Collegio osserva che occorre distinguere, nelle gare di appalto, la fase di presentazione delle domande di partecipazione e delle offerte (che riguarda tutti i concorrenti), dalla fase successiva di verifica del possesso dei requisiti dichiarati in gara (che si svolge ineluttabilmente nei confronti del primo e secondo classificato, e per sorteggio nei confronti del 10% dei partecipanti alla gara).
Nella fase di presentazione delle domande di partecipazione e delle offerte, è consentito, per ragioni di speditezza del procedimento, il ricorso alle autocertificazioni (art. 42, comma 4; art. 74, comma 7).
Le disposizioni invocate da parte appellante, e in particolare l’art. 42, comma 4, e l’art. 74, comma 7, codice appalti, laddove richiamano le dichiarazioni sostitutive, e l’art. 18, l. n. 241/1990 si riferiscono solo a tale fase di presentazione delle domande di partecipazione e delle offerte.
Nella fase di verifica del possesso dei requisiti, vuoi in sede di controllo a campione, vuoi in sede di controllo nei confronti del primo e secondo classificato, è invece necessario che i concorrenti forniscano la documentazione probatoria vera e propria, proveniente da enti pubblici e privati, non essendo più sufficiente l’autocertificazione, né essendo prescritto che le stazioni appaltanti acquisiscano d’ufficio la documentazione probatoria dei requisiti di capacità tecnico-economica.
Tanto si desume da puntuali disposizioni normative e dai principi generali sottesi al codice appalti.
L’art. 42, comma 4, d.lgs. n. 163/2006, chiarisce che negli appalti di servizi e forniture (in cui non opera il sistema di qualificazione SOA), i requisiti prescritti nel bando possono essere provati, in sede di gara, mediante dichiarazione sostitutiva; tuttavia al concorrente aggiudicatario è chiesta la documentazione probatoria a conferma di quanto dichiarato in sede di gara.
A sua volta l’art. 74, comma 6, nello stabilire che le stazioni appaltanti non richiedono, in gara, documenti e certificati per i quali le norme vigenti consentono la presentazione di dichiarazioni sostitutive, fa tuttavia salvi i controlli successivi in corso di gara sulla veridicità delle dichiarazioni.
L’art. 48, relativo al controllo sul possesso dei requisiti, nei confronti del primo e secondo classificato, nonché del 10% dei concorrenti individuati mediante sorteggio pubblico, è disposizione di carattere generale, applicabile oltre che agli appalti di lavori, anche a quelli di servizi e forniture.
Esso consente alle stazioni appaltanti di esigere dai concorrenti di provare i requisiti speciali mediante la documentazione prescritta dalla lex specialis di gara.
Si tratta di una disposizione chiaramente derogatoria della l. n. 241/1990 e dei principi in materia di dichiarazioni sostitutive e autocertificazioni, a garanzia della serietà delle gare pubbliche.
Si deve anche osservare che mentre il possesso dei requisiti generali (di carattere morale) di cui all’art. 38, codice appalti, può essere provato mediante certificazioni pubbliche acquisibili agevolmente d’ufficio dalla stazione appaltante, il possesso dei requisiti speciali di capacità economico–finanziaria e tecnico-professionale attiene a fatti propri del concorrente, che da lui sono conosciuti e comprovabili. Non è invece esigibile che sia la stazione appaltante ad andare alla ricerca della prova del possesso dei requisiti, in relazione a dati che non sono nella sua disponibilità.
E’ perfettamente comprensibile, sul piano dei principi, che il codice appalti deroghi al principio di non aggravamento del procedimento amministrativo, e non vi è alcun contrasto con i generali principi di ragionevolezza e proporzionalità, che sono pienamente rispettati, perché esigere dal concorrente la prova di fatti propri del concorrente medesimo non viola alcun canone di proporzionalità e ragionevolezza.
Non senza considerare, poi, che i principi di ragionevolezza e proporzionalità vanno coniugati con quello di speditezza della gara di appalto (sicché non si possono imporre alla stazione appaltante oneri esorbitanti e doveri di soccorso non necessari) e con quelli di lealtà e buona fede dei concorrenti, che, secondo un modello di concorrente diligente, devono partecipare alle gare di appalto con l’adeguata preparazione e predisposizione di tutta la documentazione necessaria, che non può non essere in loro possesso.
Un concorrente che dichiara in gara di aver svolto pregressi servizi per committenti pubblici e privati, deve diligentemente precostituirsi la prova delle sue dichiarazioni, acquisendo tempestivamente la certificazione di tali servizi (che in realtà dovrebbe procurarsi non appena concluso l’espletamento del servizio) senza attendere di essere sorteggiato per il controllo a campione, e poi dolersi di avere solo dieci giorni di tempo per fornire una prova che dovrebbe essere già in suo possesso.
In questa logica l’art. 48 codice appalti, laddove fissa un termine di 10 giorni entro cui i concorrenti devono fornire la prova dei requisiti dichiarati, non impone alcun onere sproporzionato o esorbitante: esso esige che entro dieci giorni il concorrente “fornisca” la prova, non già che entro dieci giorni il concorrente “si procuri” la prova. Infatti è ragionevole presumere che il concorrente, già nel momento in cui presenta la domanda di partecipazione e l’offerta, abbia la prova di ciò che dichiara, e dunque nei dieci giorni deve solo inviare una documentazione già predisposta.
Giova osservare che l’Autorità di vigilanza dei lavori pubblici ha ritenuto l’art. 48 codice appalti derogatorio dell’art. 18, l. n. 241/1990, e ha statuito che la stazione appaltante ben può esigere che il concorrente produca documentazione in possesso di pubbliche amministrazioni diverse dalla stazione appaltante (delibera n. 15/2000 e determinazione n. 5/2009).
Anche secondo la giurisprudenza la disciplina sul controllo a campione è speciale e successiva rispetto alla normativa sulla semplificazione documentale (l. n. 127/1997 e d.P.R. n. 403/1998), sicché è prevalente nel senso di imporre alle imprese un onere di documentazione in deroga alla disciplina della semplificazione documentale (Cons. St., sez. V, 09.12.2002 n. 6768).
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Il motivo è in parte ripetitivo del primo motivo di appello e va respinto in parte qua sulla scorta degli argomenti esposti in relazione al primo motivo: ciò in relazione alle censure inerenti la possibilità dell’autocertificazione in sede di prova del possesso dei requisiti, la non imputabilità della mancanza di prova, la asserita irragionevolezza dell’allegato 19 al c.s.a., la pretesa che la stazione appaltante acquisisse d’ufficio la documentazione probatoria.
Nel resto il motivo va respinto, salvo che per un limitato profilo che non modifica tuttavia l’esito complessivo del giudizio.
Non vi erano i presupposti per l’esercizio del potere di soccorso della stazione appaltante ai sensi dell’art. 46 codice appalti.
Tale disposizione presuppone che le parti abbiano presentato i documenti, certificati e dichiarazioni prescritti, e che siano solo necessari chiarimenti.
La disposizione non mira a supplire a omissioni di documenti e dichiarazioni la cui presentazione è imposta entro un termine perentorio.
Nel caso di specie il concorrente sapeva sin dalla pubblicazione del bando di gara che in corso di gara poteva essere richiesto della prova dei requisiti dichiarati; ha omesso di presentare i documenti nel termine perentorio indicato dalla stazione appaltante; vi è dunque una omissione imputabile al concorrente, si fa questione di mancata produzione di documenti, non di necessità di chiarimenti su documenti prodotti.
Va ribadito che la mancata produzione della certificazione dei servizi è imputabile a negligenza del concorrente. L’imprenditore che esegue servizi per committenti pubblici e privati ha l’onere di farsi rilasciare un certificato/dichiarazione di regolare esecuzione, chiedendolo sin dalla fase di ultimazione del servizio, e non solo in occasione di una gara successiva.
Quanto all’ambito di applicazione dell’art. 48 codice appalti, erra l’appellante a sostenere che esso si applica solo in caso di false dichiarazioni; al contrario, esso si applica interamente anche nel caso di mancata produzione tempestiva dei prescritti documenti; in entrambe le ipotesi conseguono l’esclusione, l’incameramento della cauzione provvisoria, la segnalazione all’Autorità di vigilanza.
Anche di recente la giurisprudenza della Sezione ha ribadito che l’art. 48 codice appalti prevede un termine perentorio per la produzione documentale, decorso il quale conseguono inevitabilmente i tre effetti previsti dalla legge, vale a dire l’esclusione, l’incameramento della cauzione e la segnalazione all’Autorità; l’eventuale produzione tardiva dei documenti può acquisire rilevanza, sempre che i documenti siano veritieri, al solo diverso fine dei provvedimenti sanzionatori dell’Autorità di vigilanza (Cons. St., sez. VI, 28.09.2012 n. 5138).
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L’art. 48 codice appalti, nel prevedere un termine perentorio per la prova dei requisiti in sede di controllo a campione, prevede, quali automatiche conseguenze dell’inosservanza del termine:
- l’esclusione dalla gara;
- l’incameramento della cauzione provvisoria;
- la segnalazione del fatto all’Autorità di vigilanza per i provvedimenti sanzionatori e per la sospensione della partecipazione alle procedure di affidamento da uno a dodici mesi.
Le misure in questione conseguono automaticamente e senza possibilità di apprezzamento discrezionale, sia al caso di mancata produzione della documentazione richiesta, sia al caso di produzione tardiva, sia al caso di produzione di documenti inidonei, incompleti, o addirittura falsi.
Tutte tale ipotesi integrano la fattispecie che si denomina, unitariamente e omnicomprensivamente, come inosservanza dell’obbligo documentale sancito dall’art. 48, codice.
Non è consentita all’amministrazione una graduazione o una scelta tra le tre misure, a seconda della gravità della violazione e del tipo di violazione (inosservanza pura e semplice dell’obbligo, risposta tardiva, risposta incompleta o falsa) (Cons. St., sez. V, 17.04.2003 n. 2081; Cons. St., sez. V, 08.05.2002 n. 2482).
La possibile diversa gravità dei fatti -omissione, ritardo, documentazione incompleta o falsa- è suscettibile di apprezzamento solo in sede di irrogazione delle sanzioni da parte dell’Autorità di vigilanza.
In quella sede, in funzione della maggiore o minore gravità del fatto, potrà essere comminata una sanzione pecuniaria di importo più o meno elevato, e una sanzione interdittiva di maggiore o minore durata.
Nel caso di specie, pertanto, correttamente la stazione appaltante ha proceduto all’adozione di tutte e tre le misure, esclusione, segnalazione, incameramento della cauzione
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 22.11.2012 n. 5921 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Vero è che l'art. 192 del dlgs 152/2006, ai fini del coinvolgimento del proprietario delle aree nell’opera di rimozione dei rifiuti e di ripristino dello stato dei luoghi, richiede che la violazione sia a costui imputabile per dolo o per colpa (così come, del resto, già prevedeva l’art. 14 del d.lgs. n. 22 del 1997, che ne costituisce il precedente normativo).
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Le esigenze di tutela ambientale sottese alla norma di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006 rendono evidente che il riferimento a chi è titolare di diritti reali o personali di godimento va inteso in senso lato, essendo destinato a comprendere qualunque soggetto si trovi con l'area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli –e per ciò stesso imporgli– di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l'area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente; per altro verso, il requisito della colpa postulato da detta norma ben può consistere proprio nell'omissione degli accorgimenti e delle cautele che l'ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un'efficace custodia e protezione dell'area, così impedendo che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi.
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Vero è che l’art. 242, comma 2, in caso di potenziale contaminazione di un sito, pone in capo al “responsabile dell’inquinamento” la realizzazione degli interventi di natura preventiva (successivi all’adozione delle misure di prevenzione immediate da attuarsi nelle prime ventiquattr’ore), tra i quali anche la predisposizione di un’indagine preliminare sui parametri oggetto dell’inquinamento: con ciò allineandosi al principio, di origine comunitaria, che accolla al soggetto che ha dato causa all’inquinamento il dovere di intervenire per eliminarlo (“chi inquina paga”: art. 191, comma 2, del Trattato sul Funzionamento dell’U.E.; direttiva n. 2004/35/CE).
Ma è anche vero che quel principio comunitario è direttamente connesso al profilo della necessità di un elevato livello di tutela ambientale e sanitaria, obiettivo parimenti perseguito dal diritto dell'Unione Europea e che risulta fondato sui principi della precauzione, dell'azione preventiva e della correzione in via prioritaria alla fonte dei danni causati all'ambiente; in tale contesto, e solo quale misura di chiusura, vi è infine l'invocato principio secondo cui il responsabile dell'inquinamento è responsabile per le obbligazioni ripristinatorie e risarcitorie.
Ne consegue che le misure di tutela necessarie ed urgenti che vengano poste a carico del proprietario del sito non hanno natura né sanzionatoria né risarcitoria, bensì di salvaguardia ambientale e sanitaria, nel superiore interesse pubblico generale ambientale ed ai fini della tutela dell'inviolabile diritto alla salute della popolazione esposta, come si ricava sia dagli artt. 2, 9 e 32 della Costituzione sia dal diritto europeo, fermi restando l'obbligo dell'Amministrazione di procedere all'individuazione del responsabile e la facoltà del proprietario di rivalersi nei suoi confronti.
Tale ricostruzione, del resto, appare altresì pienamente conforme al principio generale del nostro ordinamento relativo alla funzione sociale della proprietà (art. 42 Cost.), che giustifica anche la conformazione, imposizione di pesi o oneri, ed infine la stessa estinzione per espropriazione del diritto.
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Mentre la responsabilità dell’autore dell’inquinamento costituisce una forma di responsabilità oggettiva per gli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale conseguenti alla contaminazione delle aree, sensibilmente diversa si presenta, invece, la posizione del proprietario del sito per la responsabilità del quale occorre fare riferimento ai commi 1 e 2 dell’art. 253 d.lgs. n. 152 del 2006: chi è proprietario o chi subentra nella proprietà o possesso del bene subentra anche negli obblighi connessi all’onere reale ivi previsto, indipendentemente dal fatto che ne abbia avuto preventiva conoscenza.
Quella posta in capo al proprietario è pertanto una responsabilità “da posizione”, non solo svincolata dai profili soggettivi del dolo o della colpa, ma che non richiede neppure l’apporto causale del proprietario responsabile al superamento o pericolo di superamento dei valori limite di contaminazione.
È quindi evidente che il proprietario del suolo –che non abbia apportato alcun contributo causale, neppure incolpevole, all’inquinamento– non si trova in alcun modo in una posizione analoga od assimilabile a quella dell’inquinatore, essendo tenuto a sostenere i costi connessi agli interventi di bonifica esclusivamente in ragione dell’esistenza dell’onere reale sul sito.

Non fondata è, anzitutto, la doglianza concernente l’asserita erronea individuazione del soggetto destinatario della contestazione ex art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006.
Vero è, in proposito, che tale norma, ai fini del coinvolgimento del proprietario delle aree nell’opera di rimozione dei rifiuti e di ripristino dello stato dei luoghi, richiede che la violazione sia a costui imputabile per dolo o per colpa (così come, del resto, già prevedeva l’art. 14 del d.lgs. n. 22 del 1997, che ne costituisce il precedente normativo): ma è anche vero che, nel caso di specie, non vi è dubbio che l’amministrazione abbia richiamato proprio tale ipotesi di coinvolgimento colposo, come è stato chiarito nella (parimenti impugnata) nota n. 16772 del 23.11.2011 (con la quale si respingeva l’istanza di riesame in autotutela della precedente ordinanza n. 40).
L’amministrazione ha, infatti, chiamato in causa la ditta ricorrente, pur solo proprietaria delle aree, “sotto il profilo del mancato controllo”, ossia per l’omessa vigilanza (che senz’altro ad essa spettava in quanto avente la giuridica disponibilità dei luoghi) in ordine ai materiali che erano stati depositati presso la cava. Anche ammesso, pertanto, che risponda al vero quanto sostenuto dalla ricorrente –ossia che i materiali sarebbero stati depositati da un terzo, in violazione degli obblighi contrattuali intercorrenti tra le parti (sul punto, si vd. comunque infra, par. n. 4.4)– ciò che tuttavia conta, ai fini della corretta applicazione dell’art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006, è che l’amministrazione, in modo non manifestamente irragionevole, abbia rinvenuto un coinvolgimento colposo della ditta Ricciardo nell’abbandono dei rifiuti: ciò, in particolare, in considerazione della qualifica di “operatore professionale” della ricorrente (come è correttamente notato dalla difesa della Provincia di Novara), qualifica che, in base al diritto comunitario dell’ambiente, fa sorgere una particolare posizione di controllo ambientale sull’attività svolta (cfr. la definizione offerta dall’art. 2, par. n. 6, della direttiva n. 2004/35/CE).
Va del resto ricordato che, come sostenuto di recente dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, le esigenze di tutela ambientale sottese alla norma di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006 rendono evidente che il riferimento a chi è titolare di diritti reali o personali di godimento va inteso in senso lato, essendo destinato a comprendere qualunque soggetto si trovi con l'area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli –e per ciò stesso imporgli– di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l'area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente; per altro verso, il requisito della colpa postulato da detta norma ben può consistere proprio nell'omissione degli accorgimenti e delle cautele che l'ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un'efficace custodia e protezione dell'area, così impedendo che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi (così Cassaz., sez. un., sent. n. 4472 del 2009).
Né, per tornare al caso di specie, può ragionevolmente sostenersi che i materiali rinvenuti fossero classificabili come terre e rocce da scavo riutilizzabili per reinterri, riempimenti o rimodellazioni, ai sensi degli artt. 186, 192 e 183 del d.lgs. n. 152 del 2006. A norma dell’(allora vigente) art. 186 cit., infatti, condizione per cui possa affermarsi ciò è che sia accertata la provenienza del materiale da siti non contaminati e che non risultino rischi per la salute: condizione qui senz’altro non ricorrente perché, al momento dell’adozione dell’atto impugnato, c’era già stato il pronunciamento dell’ARPA che aveva accertato la nocività del materiale rinvenuto.
In quanto non utilizzate nel rispetto delle condizioni di cui all’art. 186, pertanto, le terre e rocce da scavo rinvenute dovevano considerarsi “rifiuti”, ai sensi del comma 5 dell’art. 186 (quale vigente all’epoca dei fatti). Non ha nessuna rilevanza, in proposito, la circostanza –evidenziata dalla ricorrente– che gli accertamenti dell’ARPA siano stati condotti in assenza di contraddittorio e che –al momento della redazione del ricorso– si fosse ancora in attesa di una loro “revisione”: al fine di qualificare giuridicamente come rifiuti il materiale rinvenuto, ai sensi dell’art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006 (oggetto di applicazione con l’ordinanza impugnata), erano infatti senz’altro sufficienti le risultanze scientifiche fino a quel momento disponibili.
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Venendo ora all’esame della parte dell’ordinanza impugnata, con la quale l’amministrazione ha intimato alla ditta ricorrente di presentare un progetto di indagine ambientale, deve respingersi la censura di violazione degli artt. 242 e 245 d.lgs. n. 152 del 2006.
Vero è che l’art. 242, comma 2, in caso di potenziale contaminazione di un sito, pone in capo al “responsabile dell’inquinamento” la realizzazione degli interventi di natura preventiva (successivi all’adozione delle misure di prevenzione immediate da attuarsi nelle prime ventiquattr’ore), tra i quali anche la predisposizione di un’indagine preliminare sui parametri oggetto dell’inquinamento: con ciò allineandosi al principio, di origine comunitaria, che accolla al soggetto che ha dato causa all’inquinamento il dovere di intervenire per eliminarlo (“chi inquina paga”: art. 191, comma 2, del Trattato sul Funzionamento dell’U.E.; direttiva n. 2004/35/CE).
Ma è anche vero che –come sostenuto da un recente filone giurisprudenziale, al quale il Collegio aderisce– quel principio comunitario è direttamente connesso al profilo della necessità di un elevato livello di tutela ambientale e sanitaria, obiettivo parimenti perseguito dal diritto dell'Unione Europea e che risulta fondato sui principi della precauzione, dell'azione preventiva e della correzione in via prioritaria alla fonte dei danni causati all'ambiente; in tale contesto, e solo quale misura di chiusura, vi è infine l'invocato principio secondo cui il responsabile dell'inquinamento è responsabile per le obbligazioni ripristinatorie e risarcitorie (così TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, n. 4215 del 2011).
Ne consegue che le misure di tutela necessarie ed urgenti che vengano poste a carico del proprietario del sito non hanno natura né sanzionatoria né risarcitoria, bensì di salvaguardia ambientale e sanitaria, nel superiore interesse pubblico generale ambientale ed ai fini della tutela dell'inviolabile diritto alla salute della popolazione esposta, come si ricava sia dagli artt. 2, 9 e 32 della Costituzione sia dal diritto europeo, fermi restando l'obbligo dell'Amministrazione di procedere all'individuazione del responsabile e la facoltà del proprietario di rivalersi nei suoi confronti.
Tale ricostruzione, del resto, appare altresì pienamente conforme al principio generale del nostro ordinamento relativo alla funzione sociale della proprietà (art. 42 Cost.), che giustifica anche la conformazione, imposizione di pesi o oneri, ed infine la stessa estinzione per espropriazione del diritto (così, ancora, TAR Lazio, sent. n. 4215 del 2011).
Del resto, come pure affermato, recentemente ed a più riprese, dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. VI, 15.07.2010, n. 4561; sez. II, parere n. 2038 del 30.04.2012), mentre la responsabilità dell’autore dell’inquinamento costituisce una forma di responsabilità oggettiva per gli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale conseguenti alla contaminazione delle aree, sensibilmente diversa si presenta, invece, la posizione del proprietario del sito per la responsabilità del quale occorre fare riferimento ai commi 1 e 2 dell’art. 253 d.lgs. n. 152 del 2006: chi è proprietario o chi subentra nella proprietà o possesso del bene subentra anche negli obblighi connessi all’onere reale ivi previsto, indipendentemente dal fatto che ne abbia avuto preventiva conoscenza.
Quella posta in capo al proprietario è pertanto una responsabilità “da posizione”, non solo svincolata dai profili soggettivi del dolo o della colpa, ma che non richiede neppure l’apporto causale del proprietario responsabile al superamento o pericolo di superamento dei valori limite di contaminazione.
È quindi evidente che il proprietario del suolo –che non abbia apportato alcun contributo causale, neppure incolpevole, all’inquinamento– non si trova in alcun modo in una posizione analoga od assimilabile a quella dell’inquinatore, essendo tenuto a sostenere i costi connessi agli interventi di bonifica esclusivamente in ragione dell’esistenza dell’onere reale sul sito
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 22.11.2012 n. 1257 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISocietà semplici in gara. Attestazioni Soa e partecipazione agli appalti. Ordinanza della Corte di giustizia europea boccia la legge italiana.
Anche le società semplici devono poter essere attestate Soa e partecipare alle gare di appalto pubblico.

È quanto si desume dall'ordinanza 04.10.2012 n. C-502/11, pubblicata sulla Guce del 12.01.2013, della Corte di giustizia europea che ha dichiarato non conforme al diritto comunitario la legge italiana che vieta a una società semplice di partecipare a gare di appalto; per le direttive appalti si tratta di società qualificabile come «imprenditore», che non può essere discriminata in base alla sua forma giuridica.
La questione sulla quale la Corte ha emesso l'ordinanza (che ribalta anche l'orientamento del Consiglio di stato del 2010, sez. VI, decisione 08 giugno n. 3638) riguardava una società semplice che operava nel settore agricolo e che, durante il periodo in cui l'ordinamento italiano prevedeva, ai fini della partecipazione alle gare per appalti pubblici di lavori, l'iscrizione all'Albo nazionale dei costruttori (legge n. 57/1962), aveva ottenuto l'iscrizione nella categoria S1 (opere di «movimento terra, demolizioni, sterri, sistemazione agraria e forestale, verde pubblico e relativo arredo urbano», oggi OS 24).
Dopo l'entrata in vigore del dpr 34/2000 che ha istituito il nuovo sistema di qualificazione delle imprese di costruzioni, sostituendo l'Anc, con comunicazione n. 42/04, del 24.11.2004, l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici ha vietato alle Soa di rilasciare l'attestazione per la partecipazione alle gare d'appalto in favore delle società semplici. Da qui la revoca dell'attestazione alla società agricola e l'inizio di un contenzioso prima presso il Tar del Lazio e poi di fronte al Consiglio di stato che ha chiesto alla Corte europea di pronunciarsi sulla compatibilità del nostro sistema rispetto alle direttive europee.
La Corte ha preliminarmente affermato qual è l'obiettivo della normativa dell'Unione in materia di appalti pubblici: l'apertura alla concorrenza nella misura più ampia possibile e la garanzia che sia assicurata la partecipazione più ampia possibile di offerenti, non soltanto con riguardo all'interesse dell'Unione alla libera circolazione dei prodotti e dei servizi, bensì anche nell'interesse stesso dell'amministrazione aggiudicatrice, la quale disporrà così di un'ampia scelta circa l'offerta più vantaggiosa e più rispondente ai bisogni della collettività pubblica interessata.
Per la giurisprudenza della Corte Ue l'approccio è di tipo sostanziale, quindi, e non formale: deve essere ammesso a partecipare alle gare di appalto «qualsiasi soggetto o ente che, considerati i requisiti indicati nel bando di gara, si reputi idoneo a garantire l'esecuzione di un appalto, in modo diretto oppure facendo ricorso al subappalto, indipendentemente dal suo status e dal fatto di essere attivo sul mercato in modo sistematico oppure soltanto occasionale».
Nel nostro ordinamento le società semplici si caratterizzano per l'assenza di un capitale minimo, per la responsabilità, in linea di principio, limitata ai soci che hanno agito in nome e per conto della società, nonché per essere escluse dalle procedure fallimentari. Ma per il diritto Ue la forma giuridica non può rappresentare un ostacolo alla partecipazione alle gare di appalto pubblico. Da ciò la necessità di consentire alle Soa di attestare anche le società semplici (articolo ItaliaOggi del 30.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

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