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AGGIORNAMENTO AL 25.02.2013 |
ã |
QUESITI & PARERI |
ANCHE IN
LOMBARDIA SI DEVE COSTITUIRE IL S.U.E. !! |
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Obbligo o meno di costituzione, anche in
Lombardia, dello sportello unico per l’edilizia (S.U.E.) a
far data dal 12.02.2013 (Regione Lombardia, Direzione
Generale Territorio e Urbanistica,
risposta e-mail del 21.02.2013). |
Nonostante la corposa modificazione/integrazione
dell'art. 5 DPR n. 380/2011, ad opera del comma 2, lett. a),
dell'art. 13 della L. 134/2012, avevamo speranza che in Lombardia
l'obbligo di costituire il S.U.E. non sussistesse, poiché il
suddetto art. 5 è stato formalmente disapplicato
ad opera dell'art. 103, comma 1, della L.R. n. 12/2005. Purtroppo, così non è !!
Quindi, dal 12.02.2013 anche in Lombardia i comuni devono
aver già costituito il S.U.E. ... Ed in sé e per sé, non è
tanto l'ulteriore burocrazia che si aggiunge in capo al
responsabile del procedimento amministrativo a spaventare
quanto la questione dell'inoltro delle istanze edilizie in
formato digitale (on-line mediante internet) poiché, in
questo caso, occorrono risorse economiche (e di questi tempi
è dura per tutti ...) per necessariamente attrezzarsi in
maniera adeguata (software, hardware, PEC dedicata, ecc.).
Comunque, volenti o nolenti,
già bisogna applicare la
procedura istruttoria ex art. 5 del DPR n. 380/2001 poiché,
altrimenti, è serio il rischio di vedersi inficiata la
legittimità della procedura di rilascio del titolo
abilitativo richiesto.
25.02.2013 - LA SEGRETERIA PTPL |
NOVITA' NEL SITO |
Inserito il nuovo bottone
dossier CANNE FUMARIE. |
CONVEGNI |
LAVORI PUBBLICI:
Si segnala n. 1 convegno gratuito
organizzato dalla PROVINCIA DI MILANO che si terrà
giovedì 14.03.2013 sull'argomento "LA
MANUTENZIONE STRADALE - Tradizione, innovazione e aspetti
ambientali collegati all'uso del fresato d'asfalto".
Maggiori dettagli e la locandina possono essere letti
cliccando qui. |
SINDACATI |
PUBBLICO
IMPIEGO:
VISITE SPECIALISTICHE E MALATTIA NEL PUBBLICO
IMPIEGO (CGIL-FP
di Bergamo,
nota 16.02.2013). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: Definiti gli standard formativi per gli
installatori di impianti a fonti rinnovabili (ANCE
Bergamo,
circolare 22.02.2013 n. 49). |
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI:
Oggetto: Elezioni politiche e regionali del
24–25.02.2013. Permessi elettorali per i lavoratori chiamati
a svolgere funzioni presso i seggi (ANCE Bergamo,
circolare 22.02.2013 n. 48). |
APPALTI - EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: DURC. Trasmissione tramite PEC dei certificati
emessi dall'INAIL e dall'INPS alle stazioni appaltanti e
alle amministrazioni procedenti
(INAIL di Bergamo,
nota 18.02.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: acque di balneazione (D.Lgs. 30.05.2008, n. 116
"Attuazione della direttiva 2006/7/CE relativa alla gestione
della qualità delle acque di balneazione e abrogazione della
direttiva 76/160/CEE"). Elenco dei punti monitorati"
(Regione Lombardia, Direzione Generale Sanità, Governo della
Prevenzione e Tutela Sanitaria,
nota 14.02.2013 n. 5590 di prot.). |
UTILITA' |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA:
Aggiornamento su censimento presenza amianto edifici
territorio lombardo (ASL di Bergamo, 20.02.2013). |
URBANISTICA:
Lombardia,
MONITORAGGIO DEI COMUNI CHE NON HANNO APPROVATO IL PGT ENTRO
IL 31.12.2012 (link a
www.territorio.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
“Fisco sulla casa”, aggiornata la guida 'Annuario
del contribuente' dell’Agenzia delle Entrate.
L’Agenzia delle Entrate ha aggiornato a febbraio 2013 la
sezione Fisco sulla casa dell’Annuario del Contribuente, in
virtù delle ultime disposizioni normative.
La guida al Fisco sulla Casa tratta i seguenti
argomenti:
● la tassazione sugli immobili
●
le imposte sulle compravendite
●
le locazioni
●
la successione e la donazione di immobili
●
le detrazioni fiscali del 50 e del 55%
Di seguito riportiamo le novità della versione 2013.
In particolare, nel primo capitolo, dedicato alla “tassazione
degli immobili”, sono stati aggiornati i seguenti
argomenti:
●
IVIE, l’imposta dovuta dalle persone fisiche che possiedono
immobili all’estero (la nuova disciplina è stata riscritta
dalla Legge di Stabilità 2013)
●
IMU, l’imposta municipale propria
●
IRPEF sugli immobili
Nel secondo capitolo, “Le imposte sulle compravendite”,
sono stati riassunti e semplificati i chiarimenti contenuti
in due importanti risoluzioni dell’Agenzia (Risoluzione n.
105/2011 e Risoluzione n. 112/2012) in tema di decadenza
dalle agevolazioni previste per l’acquisto della “prima
casa”.
Nel capitolo terzo, dedicato alle locazioni dei fabbricati,
è stato integrato il paragrafo sul regime della cedolare
secca (immobili interessati e opzione) e aggiornata la parte
dedicata al regime ordinario di tassazione.
Nel quarto capitolo, infine, trova spazio l’ultima novità,
quella contenuta nella risoluzione n. 11 del 13.02.2013, con
la quale l’Agenzia ha precisato che non è più necessario
allegare alla dichiarazione di successione gli estratti
catastali degli immobili
(21.02.2013 - tratto da www.acca.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U.
21.02.2013 n. 44 "Sesto elenco aggiornato dei siti di
importanza comunitaria per la regione biogeografica alpina
in Italia" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela
del Territorio e del Mare,
decreto 31.01.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U.
21.02.2013 n. 44 "Sesto elenco aggiornato dei siti di
importanza comunitaria per la regione biogeografica
continentale in Italia" (Ministero dell'Ambiente e
della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 31.01.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U.
21.02.2013 n. 44 "Sesto elenco aggiornato dei siti di
importanza comunitaria per la regione biogeografica
mediterranea in Italia" (Ministero dell'Ambiente e
della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 31.01.2013). |
LAVORI PUBBLICI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 7 dell'11.02.2013, "Approvazione
dell’invito a presentare proposte per l’accesso ai
finanziamenti a fondo perduto del fondo costituito presso
Finlombarda s.p.a. e riservato ad interventi di rimozione di
manufatti contenenti amianto dal patrimonio di edilizia
residenziale pubblica dei comuni lombardi" (decreto
D.U.O. 05.02.2013 n. 782). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA
PRIVATA:
M. Bottone,
IL DPR 139/2010 CHE VERRA' - A proposito dello ...
schema di DPR concernente regolamento di modifica del DPR
09.07.2010 n. 139 recante procedimento semplificato di
autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve
entità, a norma dell'art. 146, comma 9, del D.Lgs.
22.01.2004 n. 42 e successive modificazioni (22.02.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
D. Logozzo,
Le ondivaghe pronunce in materia di volumi tecnici: il
problema irrisolto delle canne fumarie (Urbanistica
e appalti n. 2/2013). |
ENTI LOCALI:
D. F. G. Trebastoni,
Identificazione degli enti pubblici, e relativa disciplina
(link a www.giustizia-amministrativa.it). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO
IMPIEGO:
Oggetto: Art. 4, comma 24, della l. n. 92 del 2012
(Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una
prospettiva di crescita) - congedo obbligatorio e
congedo facoltativo del padre lavoratore - voucher alla madre
lavoratrice - chiarimenti applicativi (nota
20.02.2013 n. 8629 di prot.).
---------------
Niente
congedo di paternità per gli statali
Niente congedo di paternità per i dipendenti pubblici. La
chance prevista dalla legge Fornero, che dallo scorso 13
febbraio (data di pubblicazione in G.U. del decreto
ministeriale di attuazione) consente ai neopapà di godere di
un giorno di congedo obbligatorio e fino a due di congedo
facoltativo (tutti pagati al 100% della retribuzione) fino
al quinto mese di vita del figlio, resterà una prerogativa
del settore privato. Almeno fino a quando il ministero della
funzione pubblica non interverrà per adeguare i princìpi
della riforma del lavoro (legge n. 92/2012) alla pubblica
amministrazione.
Lo ha precisato lo stesso dipartimento
guidato da Filippo Patroni Griffi rispondendo al comune di
Reggio Emilia.
Nella nota
20.02.2013 n. 8629 di prot., palazzo Vidoni ha
replicato alla richiesta di chiarimenti del comune inviata
qualche giorno dopo l'adozione del decreto interministeriale
Lavoro-Mef (avvenuta il 22.12.2012, anche se per la
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale si è dovuto attendere il
13 febbraio).
La risposta del ministero della funzione
pubblica è stata tranciante: le norme sul congedo di
paternità (obbligatorio e facoltativo) non sono
«direttamente applicabili» al pubblico impiego, «atteso che
tale applicazione è subordinata all'approvazione di apposita
normativa su iniziativa del ministro per la pubblica
amministrazione e semplificazione». Con la conseguenza che
fino a quando Patroni Griffi, o molto più probabilmente il
suo successore, non interverrà a definire, sentite le
organizzazioni sindacali, «gli ambiti, le modalità e i tempi
di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti
delle amministrazioni pubbliche», nulla cambierà per gli
statali. A cui continueranno ad applicarsi le norme sui
congedi previste dal Testo unico sul pubblico impiego (dlgs
n. 151/2001) e dai Contratti collettivi del comparto.
La
materia dei congedi di paternità rientra così di diritto tra
i temi che saranno oggetto di trattativa con i sindacati nei
prossimi mesi. E affianca lo spinoso dossier della
regolamentazione dei contratti a termine nella p.a. su cui
il ministro ha inviato un atto di indirizzo all'Aran (si
veda ItaliaOggi di ieri) per avviare un tavolo di confronto.
Cosa prevede il dm 22 dicembre. Il dm stabilisce che per
usufruire dei congedi il padre deve comunicare per iscritto
al datore di lavoro i giorni in cui intende fruirne, dando
non meno di 15 giorni di anticipo, «ove possibile, in
relazione all'evento nascita sulla base della data presunta
del parto».
Il congedo obbligatorio di un giorno spetta al padre di
diritto. Quello facoltativo (uno o due giorni) è invece
subordinato alla dichiarazione della madre di non fruire del
proprio congedo di maternità per un numero di giorni
equivalenti a quelli chiesti dal padre. I congedi non
potranno essere frazionati a ore
(articolo ItaliaOggi del
21.02.2013). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Congedo dei padri in stand by nel pubblico.
Bloccati i voucher alternativi alla maternità facoltativa.
Per il momento il congedo obbligatorio e quello facoltativo
del lavoratore in occasione della nascita di un figlio non
si applica ai dipendenti della pubblica amministrazione.
Allo stesso modo le madri che non utilizzano il congedo
parentale non possono partecipare all'assegnazione dei
voucher con cui pagare la baby sitter o l'asilo.
A
precisarlo è la nota
20.02.2013 n. 8629 di prot. del dipartimento della Funzione
pubblica in risposta a un quesito presentato dal Comune di
Reggio Emilia.
L'amministrazione comunale aveva chiesto chiarimenti in
merito all'applicazione ai dipendenti pubblici di quanto
previsto dal comma 24 dell'articolo 4 della legge 92/2012.
Il dipartimento ha precisato che «la normativa in questione
non è direttamente applicabile ai rapporti di lavoro dei
dipendenti delle pubbliche amministrazioni» perché, come
precisato dai commi 7 e 8 dell'articolo 1 della legge
92/2012, «tale applicazione è subordinata all'approvazione
di apposita normativa su iniziativa del ministro per la
Pubblica amministrazione e semplificazione».
Dunque, finché quanto previsto dalla legge 92 non sarà
recepito formalmente dal ministero per la Pubblica
amministrazione, i dipendenti del comparto pubblico non
potranno usufruire delle misure introdotte a titolo
sperimentale per il triennio 2013-2015. Si tratta di un
giorno di congedo obbligatorio per il lavoratore che diventa
padre da usufruire nei primi cinque mesi dalla nascita del
figlio e di altri due giorni facoltativi a disposizione
sempre nello stesso periodo. Tutte le astensioni dal lavoro
saranno retribuite al 100% ma mentre quella obbligatoria non
incide sul congedo obbligatorio della madre, le due
facoltative, se usufruite, comportano una corrispondente
riduzione dell'assenza della madre.
Per quest'ultima, inoltre, è stata prevista la possibilità
di beneficiare di un contributo economico alternativo alla
fruizione del congedo parentale, fino a 300 euro al mese per
un massimo di sei mesi, con cui pagare l'asilo o la baby
sitter. Per l'erogazione di questa misura, però, sarà
necessario fare domanda all'Inps secondo le modalità e i
tempi che verranno definiti da quest'ultima. L'istituto di
previdenza provvederà a stilare una graduatoria sulla base
dell'Isee, con priorità per i nuclei familiari con
indicatore più basso.
Il decreto ministeriale attuativo del 22.12.2012
prevede che al bando possa partecipare chi ha già avuto un
figlio e le donne con data presunta del parto entro quattro
mesi dalla scadenza del bando. Quindi, poiché nel 2013 è
previsto un solo bando, lo stesso probabilmente si dovrebbe
chiudere non prima della fine di agosto, in modo da coprire
tutto l'anno.
Poiché i padri devono-possono usufruire del congedo entro i
cinque mesi di vita del figlio, e la misura si applica dal
01.01.2013, per non discriminare i dipendenti statali
nei confronti dei privati, per i quali la misura è già
operativa, la novità dovrebbe essere recepita dalla Pa al
più tardi all'inizio di maggio
(articolo Il Sole 24 Ore del
22.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
QUESITI & PARERI |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il protocollo informatico.
DOMANDA:
Il nostro comune riceve un numero sempre maggiore di istanze
in formato elettronico (PEC). Attualmente tali istanze,
congiuntamente agli allegati, si stampano e si appone sulla
copia cartacea il numero di protocollo.
Nella considerazione che alcune PEC sono firmate
digitalmente (quindi l’originale è il file ricevuto e non la
copia cartacea stampata) si chiede come bisogna procedere
per abbandonare tale procedura che prevede l’utilizzo del
supporto cartaceo ed adottare una gestione esclusivamente
informatica della Posta Elettronica Certificata nel
rispetto:
- dell’obbligo di garantire la conservazione nel tempo dei
documenti informatici trasmessi al comune;
- della vigente normativa riguardante il protocollo in
ingresso dei comuni e dell’identificabilità del documento
(in quanto non vi sarebbe più un supporto cartaceo che
riporta gli estremi del protocollo attribuito).
RISPOSTA:
Il quesito posto verte in materia di gestione del protocollo
informatico con riferimento alle comunicazioni pervenute
agli indirizzi elettronici dell’Ente (in particolare, posta
elettronica certificata). La prassi descritta nel quesito in
esame può ritenersi corretta, almeno per un duplice ordine
di ragioni:
a) da un lato, la stampa dei messaggi frustrerebbe le
esigenze di dematerializzazione connesse all’utilizzo degli
strumenti telematici nella PA (e dei risparmi che ne
derivano);
b) dall’altro, comprometterebbe l’affidabilità e completezza
di fascicoli ed archivi (la stampa della PEC costituisce
solo una copia della comunicazione originale).
Appare dunque corretto affermare il principio per cui
l’intera gestione delle comunicazioni che pervengono
all’Ente in modalità telematica deve avvenire senza l’uso
degli strumenti cartacei, in omaggio alle disposizioni
dettate dal Codice dell’Amministrazione Digitale (D.Lgs. n.
82/2005) che ormai prescrivono l’obbligatorietà della
gestione dei procedimenti amministrativi mediante le
tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Con specifico riferimento al quesito, la protocollazione del
documento informatico ricevuto via PEC deve essere
assicurata dalle soluzioni di protocollo informatico che gli
Enti sono tenuti ad usare dal 01.01.2004 e che devono
ovviamente rispettose delle regole tecniche dettate dal Dpcm
31.10.2000 (le nuove regole tecniche, di futura emanazione,
sono consultabili in bozza
cliccando qui).
Naturalmente, non è possibile delineare un’unica modalità
con cui rispettare le norme citate, in quanto le diverse
soluzioni (acquisibili sul mercato o grazie al riuso)
possono adottare soluzioni tecniche diverse. Di conseguenza,
all’Ente è fatto obbligo di dotarsi degli strumenti
tecnologici di protocollazione e gestione dei fascicoli
informatici (art. 41) in relazione ai quali dovrà essere
verificata –di volta in volta– la rispondenza alle
prescrizioni normative (e ai loro aggiornamenti). Infatti,
visto il valore ormai riconosciuto al protocollo e al
documento informatico, l’uso di questi strumenti è l’unico
che può assicurare una corretta gestione documentale e di
identificare correttamente ciascun atto.
Dal punto di vista organizzativo, il Comune dovrà operare
poi nella redazione del Manuale di Gestione (obbligatorio ai
sensi dell’art. 5 Dpcm 31.10.2000) le scelte relative alla
descrizione del flusso di lavorazione dei documenti
ricevuti, spediti o interni, incluse le regole di
registrazione per i documenti pervenuti secondo particolari
modalità di trasmissione, tra i quali, in particolare,
documenti.
In conclusione, deve ricordarsi che –ovviamente– i
documenti, fascicoli e registri (incluso quello di
protocollo) andranno sottoposti a conservazione secondo le
regole contenute nella deliberazione CNIPA n. 11/2004
contenente le “Regole tecniche per la riproduzione e
conservazione di documenti su supporto ottico idoneo a
garantire la conformità dei documenti agli originali” (21.02.2013
- tratto da www.ancirisponde.ancitel.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Responsabilità funzionario Arpa.
Domanda
In tema di smaltimento illecito di rifiuti, esiste una
responsabilità penale del funzionario Arpa per culpa in
vigilando?
Risposta
La Corte di cassazione, con la sentenza del 15.12.2010, numero 3634, relativa a responsabilità omissiva
impropria per mancato impedimento di condotte altrui
penalmente illecite, ha affermato che l'Agenzia regionale
per la protezione dell'ambiente (Arpa) è un Ente di diritto
pubblico, preposto all'esercizio delle funzioni e delle
attività tecniche per la vigilanza e il controllo
ambientale, delle attività di ricerca e di supporto
tecnico-scientifico, nonché alle erogazioni di prestazioni
analitiche di rilievo sia ambientale, sia sanitario.
Pertanto, il pubblico ufficiale Arpa, preposto alla
vigilanza e al controllo ambientale, che venga a conoscenza
dell'esistenza di rifiuti interrati e partecipi alle
operazioni di rimozione, viene ad assumere, secondo la
Suprema corte, una posizione di garanzia.
Ora, poiché tra i compiti posti in capo alle regioni e alle
province vi è la predisposizione dei piani regionali di
gestione dei rifiuti, con l'obbligo del controllo periodico
su tutte le attività di gestione, intermediazione e
commercio dei rifiuti medesimi, compreso l'accertamento
delle violazioni, sussiste la responsabilità penale, sempre
secondo la Suprema corte di cassazione, in capo al
funzionario dell'Arpa, (ente di cui le regioni si avvalgono)
se non ha eseguito o fatto eseguire il controllo o i
controlli che aveva l'obbligo giuridico di eseguire, pur
avendo avuto notizia dell'attività illecita posta in essere
dal soggetto smaltitore dei rifiuti.
Nella fattispecie, per la Corte di cassazione, si applica la
clausola espansiva generale di cui al secondo comma
dell'articolo 40, codice penale, per stabilire l'astratta
configurazione della responsabilità per i reati di cui
all'articolo 256 del decreto legislativo numero 152, del
2006 (gestione non autorizzata di rifiuti e traffico
illecito di rifiuti) in capo ai funzionari dell'Agenzia
regionale per la protezione dell'ambiente (Arpa) (articolo ItaliaOggi Sette del
18.02.2013). |
APPALTI:
Appalti e subappalti.
Domanda
Nel vigente sistema per gli appalti la responsabilità
solidale tra appaltante e subappaltante deve intendersi
estesa anche nei confronti del commissionario col proprio
committente?
Risposta
L'attuale
normativa prevede la responsabilità solidale
dell'appaltatore e del committente per il versamento delle
ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e dell'Iva
dovuta dal subappaltatore e dall'appaltatore con riferimento
alle prestazioni rese nell'ambito contrattuale (contratti
d'appalto e subappalto di opere, forniture e servizi
conclusi dagli operatori che li stipulano nell'ambito di
attività aventi rilevanza Iva).
Per quel che concerne il contratto di commissione, stante il
fatto che la stessa costituisce una fattispecie negoziale
diversa dall'appalto, non è ritenibile possa trovarvi
ingresso la responsabilità solidale di cui all'articolo
13-ter del dl n. 83 del 2012 (cosiddetto «decreto
Crescita»), che ha modificato, a decorrere dal
12.08.2012, la disciplina in materia di responsabilità
fiscale nell'ambito dei contratti d'appalto e subappalto di
opere e servizi (articolo ItaliaOggi Sette del
18.02.2013). |
CORTE DEI CONTI |
CONSIGLIERI
COMUNALI - ENTI LOCALI: Proposta
shock della Corte conti Lombardia all'inaugurazione
dell'anno giudiziario. Sfori il Patto? È danno erariale.
Sanzioni non incisive. Corruzione sconcertante nella p.a..
Il mancato rispetto del patto di stabilità potrebbe presto
costare ai comuni una condanna per danno erariale. Troppo
poco incisive sono infatti le sanzioni oggi previste per il
mancato rispetto degli obiettivi di bilancio (blocco delle
assunzioni a qualsiasi titolo, comprese le co.co.co. e
taglio al fondo di riequilibrio).
Al punto che gli enti inadempienti spesso continuano ad
assumere come se niente fosse. Lo ha fatto per esempio il
comune di Cremona che pur avendo sforato il Patto nel 2009
ha assunto 32 dipendenti, beccandosi una condanna per danno
erariale di oltre un milione di euro.
Per questo, la Corte conti Lombardia, che da sempre si
caratterizza per essere una delle più innovative sezioni
regionali, ha deciso di porre un freno a un'interpretazione
troppo permissiva delle norme contabili. L'obiettivo è
fissare una regola aurea che stabilisca che «gli equilibri
di bilancio sono un valore da tutelare» e rappresentano
«limiti cogenti che non possono essere violati con
leggerezza». Da qui ad arrivare a configurare un'ipotesi di
danno erariale per mancato rispetto degli obiettivi il passo
potrebbe essere breve.
La
relazione 21.02.2013 tenuta dal procuratore regionale della Corte
conti Lombardia, Antonio Caruso, nel corso
dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, è un duro atto di
accusa contro la mala gestione degli enti locali che nel
2012 hanno dato fondo a un vasto campionario di irregolarità
in diversi settori: dagli appalti agli strumenti
urbanistici, dai debiti fuori bilancio agli incarichi
professionali e alle consulenze.
Un lungo elenco di cattiva amministrazione che si innesta in
un contesto, quale quello lombardo, oggi più che mai
interessato da «una serie sconcertante di fenomeni
corruttivi e concussivi della pubblica amministrazione»,
rispetto alla quale Mani pulite sembra poca cosa. Di questo
Caruso non ha dubbi: «La piaga della corruzione in Lombardia
è ben più grave rispetto a 20 anni fa perché alimenta una
mentalità sempre più incline a considerare lo spazio
pubblico come preda degli interessi personali».
E la Corte
conti si trova oberata di fascicoli: 7.325 sono le vertenze
pendenti al 31/12/2012, in pratica mille a testa per ogni
magistrato della procura. Mentre il complessivo ammontare
del pregiudizio erariale che la Corte ha chiesto indietro ha
raggiunto quota 11,6 milioni di euro. Un risultato ottenuto
anche grazie al protocollo d'intesa sottoscritto con le
procure penali di Milano, Como e Pavia (e presto anche con
le altre procure lombarde) che consente un più rapido
scambio dei fascicoli tra i tribunali e la Corte conti e
quindi una quantificazione più veloce del danno erariale
anche in corso di indagini.
È quanto potrebbe presto
accadere per esempio al governatore lombardo uscente,
Roberto Formigoni (che parlando a margine, nel corso
dell'inaugurazione ha ribadito la propria estraneità ai
fatti), coinvolto negli scandali su sanità e rimborsi. «I
risultati arriveranno a maturazione in tempi brevissimi», ha
assicurato Caruso.
L'esecuzione delle sentenze. Una nota dolente arriva invece
dall'esecuzione delle sentenze di condanna, ossia
dall'attività di recupero delle somme che i responsabili per
danno erariale sono tenuti a versare all'amministrazione
danneggiata. La p.a., infatti, continua a fare fatica nel
recuperare quanto dovuto per mancanza di «idonei apparati
organizzativi, professionalità e dotazioni organiche».
«Le
amministrazioni», ha lamenta il procuratore regionale, «non
sempre hanno capacità di stare in giudizio e di seguire le
procedure esecutive e le eventuali fasi di opposizione delle
stesse» e spesso sono costrette a fare ricorso ad avvocati
esterni con ulteriori costi aggiuntivi. Nonostante queste
indubbie difficoltà, nel quinquennio 2008-2012 la Corte
conti Lombardia ha recuperato 17,2 milioni di euro, di cui
2,5 solo nel 2012.
Enti locali spreconi. Oltre alla corruzione dilagante,
l'altro aspetto che preoccupa i giudici erariali è la
ritrosia degli enti locali a ridurre lo spreco di risorse
nonostante i tagli degli ultimi anni. Le consulenze e i
finanziamenti a pioggia ai privati sono, secondo la procura,
i rivoli in cui si perdono più facilmente i soldi pubblici.
Mentre i settori in cui si registrano le maggiori
irregolarità sono le politiche del personale, gli appalti e
la gestione urbanistica.
Nel 2012 la Corte ha dovuto
affrontare un ampio spettro di casi di mala amministrazione:
affidamenti senza gara di servizi comunali (Segrate),
consulenze senza oggetto e che non hanno prodotto nulla, a
parte, ovviamente lo spreco di risorse pubbliche (Sesto San
Giovanni), incarichi esterni pur in presenza di risorse
umane interne (Gerenzano), progressioni verticali
interamente riservate al personale dipendente, debiti fuori
bilancio illegittimamente contabilizzati.
Ma è sul Patto, soprattutto, che secondo la Corte occorre
operare una stretta. Perché gli enti che più o meno
volontariamente non rispettano gli obiettivi contabili sono
in continua crescita. Nel 2010 erano 48, nel 2011 sono
saliti a 119 di cui 24 nella sola Lombardia (il 20% del
totale). Numeri che sarebbero indici di gravi difficoltà
economiche se fossero accompagnati da politiche di austerity
a livello locale. Cosa che invece, accusa la procura
contabile lombarda, non accade nei fatti perché i comuni «continuano
a lamentarsi per i tagli, ma poi sprecano con leggerezza
soldi pubblici»
(articolo ItaliaOggi del
22.02.2013 - tratto da www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI - ENTI LOCALI: Enti
territoriali.
Rischio condanna per chi sfora il Patto di stabilità
LA PROSPETTIVA/
La Procura di Corte conti della Lombardia studia la
possibilità di chiedere risarcimenti agli amministratori.
Gli amministratori locali che sforano il Patto di stabilità
rischiano di essere chiamati a rispondere di danno erariale.
Su questa prospettiva sta lavorando la Procura della
magistratura contabile in Lombardia, che ieri ha inaugurato
a Milano l'anno giudiziario (si veda anche l'articolo a
pagina 16 sull'allarme corruzione) e ha spiegato,
nella relazione 21.02.2013, di aver
messo sotto esame il quadro di diversi enti locali usciti
dai binari di finanza pubblica: nella sola Lombardia, del
resto, a mancare gli obiettivi di bilancio nel 2011 sono
stati 22 Comuni, cioè il 17% degli enti che a livello
nazionale hanno sforato il Patto. La questione non è
comunque solo lombarda, perché un eventuale processo che si
concludesse con una condanna al rimborso del danno erariale
costituirebbe un precedente importante a livello nazionale.
Una maxi-condanna legata allo sforamento dei vincoli di
finanza pubblica in realtà c'è già stata, ed è stata
comminata dalla sezione giurisdizionale del Piemonte agli ex
amministratori di Alessandria (sindaco, assessori e
maggioranza in consiglio), chiamati in primo grado a
restituire 7,6 milioni di euro (si veda Il Sole 24 Ore del
18 gennaio). La vicenda alessandrina, però, ha un peso
specifico particolare, perché ad accendere le indagini
(anche della Procura della Repubblica) sono stati gli
«artifici contabili» che hanno nascosto lo sforamento
effettivo dei vincoli del Patto, hanno ritardato
l'applicazione delle sanzioni ordinarie e hanno finito per
portare il Comune al "dissesto obbligato" da parte della
stessa Corte dei conti.
Sui possibili risvolti giurisdizionali dello sforamento del
Patto, come sempre accade per i lavori in itinere sui tavoli
della Procura contabile, i magistrati sono abbottonatissimi,
ma è ovvio che per produrre eventuali conseguenze penali il
mancato rispetto del Patto di stabilità dovrà essere
accompagnato da altri fattori. «Occorre valutare la
situazione complessiva dell'ente –spiegavano ieri i
magistrati– perché non bisogna sottovalutare che ci sono
Comuni che lamentano l'impossibilità di rispettare i vincoli
di finanza pubblica, ma allo stesso tempo continuano a
sprecare risorse in consulenze o in altre spese inutili».
In quest'ottica, il mancato rispetto del Patto potrebbe
rappresentare la spia-chiave per andare a spulciare i conti
dell'amministrazione alla ricerca di eventuali danni
erariali. Tra gli enti inadempienti in Lombardia, per
esempio, c'è il caso del Comune di Adro (Brescia), che non è
riuscito a centrare gli obiettivi di finanza pubblica ma ha
trovato le risorse per "ornare" scuole e panchine con il
Sole delle Alpi leghista (e per questo il sindaco è già
stato chiamato a rispondere di danno erariale). A Cremona,
invece, il Patto è stato sforato nel 2009, ma l'anno dopo il
Comune ha comunque assunto 32 persone e ora si vede
contestato un danno da 1,2 milioni.
(articolo Il Sole 24 Ore del
22.02.2013 - tratto da www.corteconti.it). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
Non vi sono dubbi sull’impossibilità, da parte
dell’ente locale, di liquidare l’incentivo alla
progettazione nella misura del 2%, qualora non sia stato
adeguato il regolamento interno, il quale continui a
prevedere, quale misura massima del premio, lo 0,50%.
La Corte dei Conti, sezione di controllo Emilia-Romagna, con
il
parere 15.02.2013 n. 62,
ritiene “… che non vi siano dubbi sull’impossibilità, da
parte dell’ente locale, di liquidare l’incentivo alla
progettazione nella misura del 2%, qualora non sia stato
adeguato il regolamento interno, il quale continui a
prevedere, quale misura massima del premio, lo 0,50%”.
Le motivazioni:
- la norma pone il 2% quale limite massimo e demanda alla
fonte regolamentare la scelta della percentuale erogabile;
- l’ente non può liquidare compensi incentivanti in misura
superiore a quella stabilita nel proprio regolamento;
- la modifica normativa non si sostituisce in alcun modo, in
via automatica, alla fonte regolamentare;
- una decisione a posteriori di incremento della percentuale
(attività oggetto di premio già svolte) non troverebbe
alcuna giustificazione nella finalità di incentivazione del
personale interno con maggiore economia di spesa,
risulterebbe in deroga al principio di onnicomprensitivà
della retribuzione e foriera di comportamenti illeciti
produttivi di danno erariale (tratto da
www.gianlucabertagna.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Rimborso spese viaggio agli amministratori.
La Corte dei Conti, sezione regionale Campania, con il
parere 14.02.2013 n. 21, si occupa del
rimborso spese spettante agli amministratori locali per
missioni svolte con l'utilizzo del mezzo proprio.
La sezione, tratta la richiesta di parere ai soli fini
dell'interpretazione del quadro normativo vigente che
ricostruisce in modo puntuale (senza entrare nel merito
delle specifiche ipotesi rappresentate dall'ente istante),
coordina le disposizioni con quelle prescritte per i
dipendenti (in particolare di qualifica dirigenziale) e,
sinteticamente, esprime il proprio avviso come segue:
- "Tali considerazioni (quelle riferite ai
dipendenti/dirigenti), in virtù del rinvio di cui al citato
art. 2 del D.M. 04.08.2011, valgono anche per gli
amministratori pubblici che per il rimborso delle spese di
viaggio sono destinatari dei medesimi limiti previsti per i
dirigenti degli enti locali. L'amministratore che intenda
avvalersi del mezzo proprio, al fine di rendere più agevole
il proprio spostamento, sarà abilitato a farlo, previa
autorizzazione del Sindaco o del Presidente del consiglio
comunale, ma con il limitato effetto di ottenere la
copertura assicurativa dovuta in base alle vigenti
disposizioni";
- "... le Sezioni Riunite della Corte dei conti con la
recente Delibera n. 21 del 16.02.2011 depositata in data
05.04.2011, hanno riconosciuto: '... possibile il ricorso a
regolamentazioni interne volte a disciplinare, per i soli
casi in cui l'utilizzo del mezzo proprio risulti
economicamente più conveniente per l'Amministrazione, forme
di ristoro del dipendente dei costi dallo stesso sostenuti
che, però, dovranno necessariamente tenere conto delle
finalità di contenimento della spesa introdotte con la
manovra estiva e degli oneri che in concreto avrebbe
sostenuto l'Ente per le sole spese di trasporto in ipotesi
di utilizzo dei mezzi pubblici...' ... Pertanto, osserva il
Collegio che sussiste, nei limiti suindicati, un alveo
operativo entro il quale riconoscere il rimborso delle spese
di viaggio agli amministratori locali che fanno uso del
mezzo proprio nell'espletamento del mandato istituzionale" (tratto da www.publika.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Password
decrittabile, paga danni il dipendente dell'Agenzia entrate.
Il dipendente dell'amministrazione finanziaria deve usare la
massima cautela nell'utilizzo delle proprie credenziali di
accesso al sistema informatico. Soprattutto se la sua
funzione in seno all'ufficio è in grado di annullare o
modificare gli importi delle somme già iscritte a ruolo. In
caso di indebiti sgravi di cartelle di pagamento, infatti,
se non è provato l'illecito utilizzo da parte di terzi delle
chiavi di accesso, allo stesso dipendente deve essere
ascritto il relativo danno causato all'Agenzia delle
entrate.
Così la sezione giurisdizionale della Corte dei
conti Siciliana (pres. Pagliaro, rel. Brancato) che, con la
sentenza
04.02.2013 n. 494, ha condannato una dipendente
dell'ufficio delle entrate di Acireale, poiché, con le sue
chiavi di accesso al sistema, sono state impropriamente
annullate cartelle di pagamento per oltre un milione di
euro. Danno, poi, ridimensionato a poco più di 68 mila euro,
in quanto con successive emissioni di cartelle, l'Erario ha
potuto incassare la maggior parte di quanto dovuto.
Secondo il collegio della Corte siciliana, l'utilizzo di
procedure informatiche, in grado di modificare la posizione
debitoria dei contribuenti implica, per l'importanza e la
delicatezza dei compiti gestionali e per le conseguenze sul
piano erariale, l'adozione da parte di ciascun operatore, di
misure idonee a escludere qualsiasi possibilità di utilizzo
illecito delle procedure. È fondamentale l'osservanza della
massima diligenza nella custodia delle credenziali di
accesso al sistema informatico, in relazione alle
prevedibili conseguenze che possono derivare dall'eventuale
uso illecito delle stesse.
Ne è prova che la stessa Agenzia ha diramato specifiche
istruzioni, sottolineando l'importanza di formare la propria
password in modo tale da rendere difficile ogni tentativo
per carpirla, raccomandando, tra l'altro, l'inserimento di
un minimo di otto caratteri alfanumerici, da cambiare ogni
due mesi. In ogni caso, la custodia e la scelta di una
password «difficile da utilizzare impropriamente» è
una fondamentale regola di comportamento, a cui ciascun
soggetto abilitato ad effettuare gli sgravi deve
rigorosamente attenersi, al fine di evitare l'intrusione nel
sistema di soggetti non autorizzati
(articolo ItaliaOggi del
22.02.2013 - tratto da www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Indennità amministratori locali.
La Corte dei Conti, sezione regionale Puglia, con il
parere 01.02.2013 n. 19, in
ordine al calcolo degli abbattimenti percentuali delle
indennità degli amministratori locali, precisa quanto segue:
- il taglio del 10% previsto dall'art. 1, comma 54, della
legge 266/2005 andava operato sulle somme riconosciute alla
data del 30.09.2005 tenendo conto di eventuali decurtazione
già facoltativamente disposte dall'ente (non,
automaticamente, con riferimento agli importi fissati dal
D.M. 119/2000) ;
- in caso di deliberazione di diminuzione (volontaria)
inferiore al 10% le indennità dovevano essere ridotte fino a
detta percentuale, mentre -per diminuzioni superiori o pari
a questa- l'ente non doveva operare ulteriori tagli;
- l'indennità dimezzata spettante ai lavoratori dipendenti
non collocatisi in aspettativa deve essere conteggiata su
quella determinata per gli altri amministratori dopo aver
applicato il taglio del 10%, secondo le modalità predette;
- qualora siano state erogate somme in misura superiore a
quella dovuta, l'ente deve ripeterle, con contestuale
costituzione in mora, dagli amministratori, per indebito
oggettivo ex art. 2033 codice civile (tratto da
www.publika.it). |
AUTORITA' VIGILANZA
CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI: Contratti
pubblici: arrivano i chiarimenti sulla modalità elettronica
obbligatoria dal primo gennaio 2013.
Il Decreto Sviluppo-bis (D.L. 179/2012) ha modificato
l’articolo 11, comma 13, del Codice dei Contratti,
stabilendo che dal primo gennaio 2013 i contratti devono
essere stipulati “con atto pubblico notarile informatico,
ovvero, in modalità elettronica…”.
L’AVCP (Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici), con
la
determinazione 13.02.2013 n. 1, ha fornito chiarimenti a
Stazioni Appaltanti e operatori economici che hanno
lamentato difficoltà legate all’applicazione delle nuove
disposizioni e ha specificato i casi in cui è obbligatorio
utilizzare la modalità elettronica per la stipula dei
contratti di lavori, servizi e forniture.
Secondo l'Autorità, le nuove disposizioni si applicano ai
contratti pubblici regolati dall’art.3 del Codice dei
Contratti; pertanto ne sono esclusi contratti di
compravendita e locazione immobiliare stipulati dalle
pubbliche amministrazioni.
Inoltre, per la scrittura privata è ancora consentita la
forma cartacea.
In definitiva, la stipulazione del contratto può assumere, a
seconda delle disposizioni applicabili di caso in caso, tre
diverse forme:
►
atto pubblico notarile informatico, ai sensi della legge
sull'ordinamento del notariato e degli archivi notarili;
►
forma pubblica amministrativa, con modalità elettronica
secondo le norme vigenti per ciascuna stazione appaltante, a
cura dell'Ufficiale rogante dell'amministrazione
aggiudicatrice;
►
scrittura privata, per la quale resta ammissibile la forma
cartacea e le forme equipollenti ammesse dall'ordinamento.
Infine, l’AVCP afferma che, come previsto anche dall’art. 25
del Codice dell'Amministrazione Digitale, la “modalità
elettronica” può essere assolta anche attraverso la sola
acquisizione digitale della firma autografa
(commento tratto da www.acca.it). |
APPALTI: I
chiarimenti dell'Autorità. Contratti online secondo il
codice.
L'USO DEL WEB/ Nessun obbligo per affitti e compravendite
della Pa. Ai privati basterà l'acquisizione digitale
dell'intestazione autografa.
L'obbligo di stipulare i contratti
pubblici invia telematica vale solo per gli appalti
disciplinati dal codice, dunque niente compravendite o
affitti della Pa. Il vincolo non riguarda le scritture
private che potranno sopravvivere in forma cartacea. Agli
operatori privati non serve chiedere la firma elettronica:
basta una semplice acquisizione digitale della
sottoscrizione autografa, con attestazione sull'autenticità
della firma da parte di un pubblico ufficiale.
Sono alcune delle precisazioni contenute nella
determinazione 13.02.2013 n. 1, diffusa ieri dall'Autorità di
Vigilanza, con l'obiettivo di chiarire le implicazioni
derivanti dall'obbligo di stipulare i contratti pubblici in
forma digitale previsto dal decreto sull'Agenda digitale (Dl
179/2012). Un vincolo imposto con una delle oltre 100
modifiche apportate dal Governo Monti al Codice degli
appalti(Dlgs 163/2006) e in vigore dal primo gennaio 2013.
Come ammette la stessa Autorità in premessa, l'obbligo sta
creando non pochi problemi alle stazioni appaltanti, «che
lamentano la sussistenza di incertezze applicative»,
anche perché la sanzione è severa: l'inadempimento si paga
con la nullità del contratto.
Con la determinazione l'Autorità prova a dare una bussola
alle amministrazioni, «in attesa di un pur auspicabile
chiarimento normativo», che è già stato annunciato e
dovrebbe prendere la forma di una circolare congiunta
Funzione Pubblica-Infrastrutture. Il primo passaggio è la
definizione dei confini dell'obbligo di stipula in modalità
elettronica. L'Autorità segna un limite netto tra i
contratti disciplinati dal Codice (appalti o concessioni per
acquisire servizi, forniture o eseguire lavori pubblici) e
quelli che invece ne restano fuori, come i «contratti di
compravendita o locazione immobiliare stipulati dalle
amministrazioni».
Secondo punto: quando scattano le modalità elettroniche?
Sicuramente quando si ricorre a un notaio per stipulare un
atto notarile informatico. In questo caso non si dovrebbero
incontrare difficoltà visto che i notai hanno investito per
tempo in un sistema capace di supportare la firma e la
conservazione dei contratti in modalità digitale. I problemi
si incontrano nella seconda delle opzioni: la «forma
pubblica amministrativa», vale a dire un contratto
firmato alla presenza di un «Ufficiale rogante della
stazione appaltante». Anche in questo caso c'è l'obbligo
della stipula telematica. Esclusa, invece, l'eventualità che
vadano siglate con modalità elettroniche le scritture
private, quando ammesse dalle norme sugli appalti. In caso
di cottimo fiduciario, ad esempio, è ancora possibile
ricorrere alla carta.
L'ultima notazione riguarda l'acquisizione della firma delle
parti. Secondo l'Autorità, l'obbligo deve essere inteso nel
senso che «per la forma pubblica amministrativa, è
ammesso il ricorso all'acquisizione digitale della
sottoscrizione autografa, ferma restando l'attestazione da
parte dell'Ufficiale rogante, dotato di firma digitale, che
la firma dell'operatore è stata apposta in sua presenza,
previo accertamento della sua identità personale»
(articolo Il Sole 24 Ore del
20.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI: Contratti
pubblici, la carta resiste ancora.
Per la stipula dei contratti pubblici, anche dopo il primo
gennaio 2013, è ancora ammessa la scrittura privata in forma
cartacea e non c'è obbligo di stipula con «modalità
elettronica», anche se le parti sono comunque libere di
sottoscrivere il contratto con firma digitale; per la
stipula con atto pubblico amministrativo è obbligatoria la
sola «modalità elettronica» che può consistere anche
nell'acquisizione digitale della sottoscrizione autografa ai
sensi del codice dell'amministrazione digitale; sempre
previsto l'atto pubblico notarile informatico, ai sensi
della legge sull'ordinamento del notariato e degli archivi
notarili.
È quanto chiarisce l'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici con la
determinazione 19.02.2013 n. 1 con la quale si danno
indicazioni interpretative concernenti la forma dei
contratti pubblici ai sensi dell'art. 11, comma 13, del
codice.
Sulla norma è infatti intervenuto di recente l'articolo 6,
comma 3, del dl 18.10.2012, n. 179, convertito con
modificazioni dalla legge 17.12.2012, n. 221 (cosiddetto
decreto sviluppo-bis) che, a partire dal primo gennaio 2013,
dispone che «il contratto è stipulato, a pena di nullità,
con atto pubblico notarile informatico, ovvero, in modalità
elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione
appaltante, in forma pubblica amministrativa a cura
dell'ufficiale rogante dell'amministrazione aggiudicatrice o
mediante scrittura privata».
La determina precisa in primis che la norma si
applica a tutti i contratti previsti dall'art. 3 del codice
(«contratti aventi per oggetto l'esecuzione di lavori, la
fornitura di prodotti e la prestazione di servizi»), con
esclusione dei contratti sottratti all'applicazione del
codice stesso (per esempio, i contratti di compravendita o
di locazione immobiliare stipulati dalle pubbliche
amministrazioni. Per quel che riguarda, in secondo luogo, la
forma elettronica, la determina specifica che «dall'esegesi
letterale delle due disposizioni succedutesi nel tempo,
detto obbligo appare circoscritto alla stipulazione in forma
pubblica amministrativa, non essendovi una analoga
specificazione con riguardo all'utilizzo della scrittura
privata, nei casi in cui detto utilizzo è consentito».
Di ciò ne è prova l'impiego della congiunzione avversativa
«o», prima dell'espressione «mediante scrittura privata»,
che per l'Authority presieduta da Sergio Santoro «non depone
nel senso di poter ritenere estendibile l'inciso in modalità
elettronica anche alla stipulazione per scrittura privata».
Quindi la modalità elettronica costituisce «una modalità
attuativa obbligatoria della forma pubblica amministrativa e
non una forma alternativa alla stessa»: se la stipula
dell'atto contrattuale avviene in forma amministrativa
pubblica, la «forma elettronica» è l'unica modalità
ammessa e la forma cartacea resta legittima soltanto in caso
di scrittura privata.
Quando è ammessa la stipulazione per scrittura privata,
l'Autorità chiarisce che è comunque facoltà delle parti
sottoscrivere il contratto con firma digitale. Per «modalità
elettronica» l'Autorità afferma che, anche in relazione
a quanto prevede l'articolo 25 del codice
dell'amministrazione digitale, l'espressione utilizzata
dall'articolo 11, comma 13 del dlgs 163/2006, «può essere
intesa anche nel senso che, per la forma pubblica
amministrativa, è ammesso il ricorso all'acquisizione
digitale della sottoscrizione autografa, ferma restando
l'attestazione, da parte dell'ufficiale rogante, dotato di
firma digitale, che la firma dell'operatore è stata apposta
in sua presenza, previo accertamento della sua identità
personale»
(articolo ItaliaOggi del
20.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it).. |
NEWS |
CONDOMINIO: Riforma
forense. Il Cnf cambia linea sull'incompatibilità. Per
l'avvocato è compatibile amministrare il condominio.
L'avvocato potrà continuare serenamente ad amministrare
condomini.
Con il
parere 20.02.2013 espresso dalla Commissione consultiva
del Consiglio nazionale forense è stata ribaltata la
risposta alla faq. n. 32 (poi scomparsa dal sito) sulla
riforma forense.
L'accurata disamina della questione, che prendeva le mosse
dall'articolo 18 della legge 247/2012, esclude
l'incompatibilità in tutte le ipotesi in cui venga svolta
l'attività di amministratore di condominio: anzitutto quella
in cui sia un lavoro dipendente, dato che non si può
instaurare un rapporto di questo tipo tra amministratore e
condominio. Poi quella dell'assunzione della qualità di
socio o amministratore di una società commerciale: il
condominio è assimilabile alla figura del consumatore e
quindi l'amministratore non potrà mai assumere tale
qualifica.
L'amministratore è un mandatario, afferma la Commissione,
quindi questo basta a escludere l'incompatibilità indicata
nell'articolo 18 della legge 247/2012 relativamente
all'esercizio di attività commerciale svolta in nome proprio
o altrui: «l'amministratore, non agendo in proprio, non
esercita nemmeno attività di impresa commerciale in nome
altrui se è vero che nemmeno i mandanti l'esercitano».
Rimane il caso più frequente, quello dell'esercizio di
lavoro autonomo svolta continuativamente o
professionalmente. Secondo la Commissione, proprio perché
l'attività «si riduce, alla fine, all'esercizio di un
mandato con rappresentanza conferito da persone fisiche, in
nome e per conto delle quali egli agisce e l'esecuzione di
mandati, consistenti nel compimento di attività giuridica
per conto ed (eventualmente) in nome altrui è esattamente
uno dei possibili modi di svolgimento dell'attività
professionale forense sicché la circostanza che essa sia
svolta con continuità non aggiunge né toglie nulla alla sua
legittimità di fondo quale espressione, appunto, di
esercizio della professione».
Assoluzione piena, quindi, per gli avvocati amministratori
condominiali, dopo che la precedente faq. n. 32 aveva
suscitato una levata di scudi (si veda Il Sole 24 Ore del 19
febbraio scorso).
La Commissione ha anche approfondito la questione esaminando
la riforma del condominio (legge 220/2012, che entrerà in
vigore il 18.06.2013), chiarendo che non «ha innovato la
figura dell'amministratore perché se ne ha ampliato, sotto
certi profili, poteri e responsabilità, non ha trasformato
l'esercizio della relativa attività in professione vera e
propria, o quanto meno in professione regolamentata» (articolo Il
Sole 24 Ore del 23.02.2013). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Convenzioni, grana personale.
Serve il consenso dei dipendenti trasferiti. Nell'unione no.
Il problema si acuirà quando i
comuni dovranno associare le funzioni più pesanti.
Nelle convezioni costituite dai piccoli comuni per
l'esercizio associato delle funzioni fondamentali la
ricollocazione del personale è resa problematica da una
normativa lacunosa e contraddittoria, che rischia di
generare contenziosi.
Come noto, i comuni con meno di 5 mila abitanti (soglia che
scende a 3 mila per quelli appartenenti o appartenuti a
comunità montane) sono obbligati, entro la fine del 2013, a
gestire in forma associata tutte le proprie funzioni
fondamentali (escluse solo quelle concernenti anagrafe,
stato civile e servizi elettorali), conferendole ad unioni
oppure stipulando apposite convenzioni.
È evidente che tale processo avrà un impatto significativo
anche sulle risorse umane che finora hanno curato
l'esercizio di tali funzioni da parte dei singoli comuni e
che dovranno essere in gran parte ricollocate presso le
nuove forme associative.
Per le unioni, ciò è espressamente previsto dall'art. 32,
comma 5, del Tuel (novellato dall'art. 19 del dl 95/2012),
ai sensi del quale «all'unione sono conferite dai comuni
partecipanti le risorse umane e strumentali necessarie
all'esercizio delle funzioni loro attribuite».
Analogamente dispone l'art. 16, comma 3, del dl 138/2011
(anch'esso novellato dal dl 95) per le unioni speciali
riservate ai comuni sotto i 1000 abitanti e che possono
essere istituite, in alternativa agli altri due modelli, per
esercitare la totalità delle funzioni degli enti aderenti.
Nel caso delle convenzioni, i comuni possono individuare un
capofila cui delegare le funzioni oppure, ai sensi dell'art.
30, comma 4, del Tuel, prevedere la costituzione di uffici
comuni, «che operano con personale distaccato dagli enti
partecipanti».
Il trasferimento di personale dai comuni alle
unioni rientra pacificamente nell'ambito di applicazione
dell'art. 31 del dlgs 165/2001, che dispone, in caso di
trasferimento o conferimento di attività, svolte da
pubbliche amministrazioni, enti pubblici o loro aziende o
strutture, ad altri soggetti, pubblici o privati,
l'applicazione al personale che passa alle dipendenze di
tali soggetti dell'art. 2112 del codice civile. Tale
disposizione, a sua volta, prevede, in caso di trasferimento
d'azienda o di ramo d'azienda, una speciale forma di
cessione di contratto di lavoro, la quale non necessita, per
il relativo perfezionamento, del consenso dei lavoratori
interessati.
Per le convenzioni, al contrario, l'art. 14 del Ccnl del
comparto regioni-enti locali (quadriennio 2002-2005)
prevede, al comma 1, che gli enti locali possano utilizzare
personale assegnato da altri enti. Ciò sulla base di
apposita «convenzione» (da non confondersi con quella
relativa a funzioni e servizi), previo assenso dell'ente di
appartenenza e soprattutto «con il consenso dei lavoratori
interessati». Tale istituto è alternativo al «distacco»
previsto, come detto, nel caso di costituzione di uffici
comuni. Entrambi, tuttavia, a differenza della «mobilità» ex
art. 31 del dlgs 165, presuppongono che i lavoratori
interessati assentano al trasferimento.
Da qui il problema che sta cominciando ad emergere in alcune
realtà e che è destinato ad acuirsi nei prossimi mesi,
allorché i comuni dovranno associare le funzioni più pesanti
e quindi ridistribuire il personale ad esse addetto. Le
naturali resistenze dei dipendenti pubblici al cambiamento
rischiano di trovare facile sponda nei ricordati appigli
normativi, pur in presenza di un preciso obbligo di legge
(sanzionabile mediante esercizio del potere statale
sostitutivo) in capo alle amministrazioni. Si tratta di
un'evidente contraddizione (oltre che di un ulteriore
elemento di debolezza delle convenzioni rispetto alle
unioni; si veda ItaliaOggi del 14 dicembre), che meriterebbe
di essere risolto a livello normativo o almeno con una
chiarimento interpretativo ufficiale, al fine di
disinnescare il rischio di contenziosi.
Ricordiamo, infine, che rimane ferma la possibilità per i
comuni di avvalersi di dipendenti di altri enti ai sensi
dell'art. 1, comma 557, della legge 311/2004. Tuttavia,
l'applicazione di tale istituto (ovviamente più gradito ai
dipendenti) alle gestioni associate trova un forte ostacolo
nell'obbligo, sancito dalla legge e della giurisprudenza
contabile (cfr Corte dei conti Piemonte, parere n.
287/2012), di garantire la progressiva riduzione delle spese
di personale
(articolo ItaliaOggi del
22.02.2013 - tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI: L'Antitrust
può bacchettare gli enti sulla concorrenza.
Non c'è alcuna violazione dei principi costituzionali posti
a presidio delle autonomie locali se all'Autorità antitrust
viene riconosciuto il potere di intervenire su tutti gli
atti amministrativi generali, i regolamenti e i
provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica,
statale, regionale o locale, che ritenga emanati in
violazione delle norme a tutela della concorrenza e del
mercato.
Sulla nuova competenza attribuita all'Autorità
garante della concorrenza e del mercato dall'art. 35 del
decreto legge 06.12.2011, n. 201, si è pronunciata la
Corte costituzionale con la sentenza 14.02.2013 n. 20, dichiarando l'inammissibilità delle
questioni poste nel ricorso presentato dalla Regione Veneto.
Ciò in quanto nessuna lesione alla Carta costituzionale è
collegata al fatto che all'Antitrust, in base alle
sopraindicate disposizioni è stata assegnata la possibilità
di intervenire, in una prima fase a carattere consultivo
(parere motivato nel quale sono indicati gli specifici
profili delle violazioni riscontrate), e in una seconda
(eventuale) fase di impugnativa in sede giurisdizionale,
qualora la pubblica amministrazione non si conformi al
parere stesso Non si è in presenza, pertanto, ha osservato
il Giudice delle leggi, di nessun nuovo e generalizzato
controllo di legittimità, su iniziativa di un'autorità
statale, analogo al controllo che era previsto dal
previgente art. 125, primo comma, Cost., norma
successivamente abrogata con la legge costituzionale n. 3
del 2001 che ha modificato il Titolo V della Cost..
Il parere
del Garante, infatti, è finalizzato esclusivamente a
contribuire ad una più completa tutela della concorrenza e
del corretto funzionamento del mercato (art. 21, comma 1,
della legge 287/1990) e, comunque, certamente non
generalizzato, perché operante soltanto in ordine agli atti
amministrativi «che violino le norme a tutela della
concorrenza e del mercato».
La disposizione, quindi, che la
Regione Veneto considerava limitativa delle proprie
prerogative ed in contrasto con il principio della leale
collaborazione, ha un perimetro ben individuato (quello, per
l'appunto, della concorrenza), che è compreso in una materia
appartenente alla competenza legislativa esclusiva dello
stato (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.),
concernente anche la potestà regolamentare, ai sensi
dell'art. 117, sesto comma, primo periodo, Cost.
(articolo ItaliaOggi del
22.02.2013). |
APPALTI:
Pubblicità legale a costo
zero.
Inserzioni sui giornali rimborsate da chi vince la gara.
È l'effetto combinato del decreto crescita bis e
della legge anticorruzione (legge 190/2012).
Confermati tutti gli obblighi di pubblicità legale previsti
dal Codice dei contratti pubblici, ivi compresa la
pubblicità sui quotidiani che verrà rimborsata dagli
aggiudicatari alle stazioni appaltanti ai sensi del decreto
crescita-bis.
Le stazioni appaltanti dovranno mettere sui propri siti web
i principali elementi caratterizzanti i contratti stipulati
e inviarli all'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici; da pubblicare anche le delibere per affidamenti a
trattativa privata senza bando di gara (in particolare per
lavori fino a 500 mila euro e per di servizi di ingegneria
fra 40 mila e 100 mila euro).
È quanto si desume dalla lettura combinata delle norme della
legge 190/2012 e del decreto legislativo approvato in via
definitiva dal consiglio dei ministri del 19 febbraio scorso
in materia di disciplina degli obblighi di pubblicità,
trasparenza e diffusione delle informazioni da parte delle
p.a.
Per quel che riguarda i contratti pubblici il provvedimento
declina i principi di trasparenza e pubblicità come obbligo
di pubblicazione delle informazioni sui siti istituzionali
di ciascuna amministrazione pubblica in modo da rendere
conoscibili ed accessibili gli elementi delle procedure di
affidamento.
Il contenuto degli elementi da rendere pubblici non viene
specificato dalla norma ma si deve ritenere che si tratti di
quelli riguardanti la struttura proponente, l'oggetto del
bando, l'elenco degli offerenti, l'aggiudicatario, l'importo
di aggiudicazione, i tempi di completamento dell'opera,
servizio o fornitura; l'importo delle somme liquidate citati
al comma 32 dell'articolo 1 della legge 06.11.2012
(pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 13 novembre n.
265).
Questi elementi andranno poi ogni anno trasmessi
all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici secondo
appositi format.
Anche al fine di chiarire definitivamente ogni questione in
ordine alla vigenza degli adempimenti che fanno capo alle
stazioni appaltanti, l'articolo 37 del decreto delegato
richiama, attraverso una formula omnicomprensiva, tutti gli
obblighi di pubblicazione in materia di contratti pubblici
derivanti dalla normativa nazionale, citando espressamente
anche le norme che impongono alle stazioni appaltanti la
pubblicazione sui quotidiani per estratto degli avvisi e
bandi di gara, oltre a tutte le altre norme che prevedono la
pubblicazione sulla gazzetta ufficiale, sui siti
istituzionali e sui siti delle singole amministrazioni
(avvisi di preinformazione, pubblicità dei sistemi di
qualificazione nei cosiddetti settori speciali, ecc.
previsti quindi agli articoli 63, 65, 66, 122, 124, 206 e
223 del Codice dei contratti pubblici).
Due di queste disposizioni (il comma 7 dell'articolo 66 e il
comma 5 dell'articolo 122 del Codice) sono a loro volta
espressamente citate dal comma 35 dell'articolo 34 del
decreto-legge legge 179/2012 convertito nella legge 221/2012
per imputare, dal primo gennaio 2013, a carico
dell'aggiudicatario del contratto, l'obbligo di rimborso
alle stazioni appaltanti delle spese di pubblicazione per
estratto sui quotidiani (locali e nazionali, a secondo
dell'importo) degli avvisi e bandi di gara.
Il richiamo espresso di tutte le norme in materia di
pubblicità previste dal Codice risulta del tutto coerente e
conforme a quanto prevede il comma 31, dell'articolo 1 della
legge 190/2012 che, da una parte, prevede la delega al
ministro della funzione pubblica per l'emanazione di uno o
più decreti cui siano definite, fra le altre, le
informazioni rilevanti da pubblicare sui siti web, e «le
relative modalità di pubblicazione» e dall'altro lato,
prevede la disposizione «di salvezza» delle norme in materia
di pubblicità contenute nel Codice dei contratti pubblici
(«Restano ferme le disposizioni in materia di pubblicità
previste dal codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163»).
Il decreto legislativo delegato prevede anche un rilevante
obbligo di pubblicità che riguarda la delibera a contrarre
inerente i contratti affidati con procedura negoziata senza
bando di gara.
Si tratta delle «trattative private» con invito ad almeno
tre soggetti ammessa per lavori pubblici fino a 500 mila
euro, ai sensi dell'articolo 122, comma 7-bis del dlgs
12.04.2006, n. 163 (nel prosieguo, Codice), come novellato
dalla legge 22.12.2008, n. 201, e per i servizi di
ingegneria e architettura compresi fra 40 mila e 100 mila
euro, ma con invito ad almeno cinque soggetti. Infine va
segnalato come l'articolo 38 del decreto stabilisca
l'obbligo per le pubbliche amministrazioni di pubblicare
anche, le informazioni relative ai tempi, a i costi unitari
e agli indicatori di realizzazione delle opere pubbliche
completate
(articolo ItaliaOggi del
22.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Contributi
pubblici, trasparenza nella scelta dei destinatari.
Vanno adottati criteri e modalità per determinare
l'entità dell'importo.
La legge anticorruzione e il decreto legislativo sulla
trasparenza impongono l'evidenza pubblica per la concessione
dei contributi.
Da sempre, in effetti, l'articolo 12 della legge 241/1990
spinge le amministrazioni pubbliche a selezionare i
destinatari di contributi, sulla base di una procedura
pubblica.
Infatti, tale norma prevede che «la concessione di
sovvenzioni, contributi, sussidi e ausili finanziari e
l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a
persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla
predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle
amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai
rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le
amministrazioni stesse devono attenersi».
Peraltro, nei provvedimenti di concessione deve essere
evidenziata l'effettiva osservanza dei criteri e modalità di
selezione adottati.
Nella pratica, tuttavia, le amministrazioni operano
discostandosi molto dal sistema previsto dal legislatore. I
criteri di selezione sono molto vaghi e generalmente si
pubblicano solo le disponibilità finanziarie. Di fatto, i
contributi vengono concessi a seguito di un'iniziativa del
privato che chiede il sostegno finanziario ad una propria
iniziativa. Peraltro, in generale la decisione è assunta
dall'organo di governo (la giunta) che decide in modo
totalmente discrezionale se concedere il sostegno e per
quale ammontare.
L'articolo 26 del decreto sulla trasparenza, che sostituisce
l'articolo 18 del dl 83/2012, convertito in legge 134/2012,
rafforza le indicazioni della legge 241/1990; infatti,
stabilisce che occorre pubblicare «la modalità seguita per
l'individuazione del beneficiario».
Il riferimento a un confronto competitivo-selettivo non è
esplicitato, ma emerge piuttosto chiaramente. Occorre dare
conto, insomma di come si è giunti a scegliere una certa
iniziativa da sostenere, tra una serie di altre.
Eventuali residui dubbi sulla possibilità che continui a
considerarsi regolare un sistema di assegnazione dei
contributi solo basato su una scelta discrezionale e non
motivabile se non in relazione a valutazioni discrezionali
(se non arbitrarie) sono risolti, comunque, dalla legge la
legge 190/2012.
Ai sensi dell'articolo 1, commi 9, lettera a) e 16, lettera
c), sono considerate attività a elevato rischio di
corruzione la «concessione ed erogazione di sovvenzione,
contributi, sussidi, ausili finanziari, nonché
l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a
persone ed enti pubblici e privati». Inoltre, le
amministrazioni sono chiamate ad approvare un piano
obbligatorio di prevenzione della corruzione, che, tra gli
altri compiti, deve «monitorare i rapporti tra
l'amministrazione e i soggetti che con la stessa stipulano
contratti o che sono interessati a procedimenti di
autorizzazione, concessione o erogazione di vantaggi
economici di qualunque genere, anche verificando eventuali
relazioni di parentela o affinità sussistenti tra i
titolari, gli amministratori, i soci e i dipendenti degli
stessi soggetti e i dirigenti e i dipendenti
dell'amministrazione».
Appare evidente, allora, alla luce delle nuove norme e dalla
combinazione tra esse, che il legislatore intenda imporre
che l'erogazione di contributi avvenga non solo, ovviamente,
in violazione delle regole etiche e anticorruzione, ma anche
mediante sistemi di scelta dei destinatari trasparenti ed
ispirati a principi di evidenza pubblica, cioè con sistemi
di selezione, rispetto ai quali il caso dell'assegnazione
«discrezionale» risulti del tutto marginale.
Comunque, almeno criteri e modalità per determinare l'entità
dell'importo da assegnare andrebbero adottati, così come
difficilmente può continuare la prassi di non respingere con
provvedimento formale e motivato le istanze per le quali non
si ritiene di dare contributi
(articolo ItaliaOggi del
22.02.2013). |
LAVORI PUBBLICI: Lombardia, 1 mln per bonificare edifici dall'amianto.
Beneficiari i comuni.
Parte il sostegno per la bonifica ambientale negli edifici
pubblici. È aperto lo sportello per l'erogazione di
contributi a fondo perduto ai comuni lombardi per la
bonifica del proprio patrimonio abitativo da manufatti
contenenti amianto.
Il fondo di 1 milione di euro è gestito
da Finlombarda spa. Possono presentare proposta di accesso
al finanziamento a fondo perduto esclusivamente i comuni
lombardi per interventi di rimozione dei materiali
contenenti amianto presenti negli edifici destinati a
edilizia residenziale pubblica. I contributi verranno
concessi secondo la modalità «a sportello», vale a dire fino
a esaurimento dello stanziamento assegnato.
Sono da
considerarsi ammissibili i costi per spese tecniche di
progettazione al massimo 8% del totale costi ammissibili,
spese per l'allestimento del cantiere, ponteggi e sicurezza,
limitatamente al periodo necessario per le operazioni di
rimozione dei manufatti contenenti amianto, spese per
rimozione, trasporto, conferimento e smaltimento dei
materiali contenenti amianto presso gli impianti
autorizzati. È ammessa la cumulabilità con eventuali altri
contributi di provenienza regionale, nazionale ed europea
previsti per la realizzazione degli interventi di
riqualificazione energetica e produzione di energia da fonte
solare.
Il finanziamento a fondo perduto è concesso a
copertura dei costi ammissibili dell'intervento nella misura
massima del 100%, fino ad un massimo di 150 mila euro Iva
inclusa. I comuni possono presentare anche più di una
domanda, fino a una richiesta massima di 300 mila euro
(articolo ItaliaOggi del
22.02.2013). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Incompatibilità limitate.
Sindaco ok se parente ha incarico intellettuale.
Il conflitto di interessi scatta solo per
gli appalti di lavori e servizi.
Sussiste una causa di incompatibilità ai sensi dell'art. 61,
comma 1-bis, del decreto legislativo n. 267/2000, nel caso
in cui il fratello del sindaco abbia ricevuto dal comune
l'incarico di redigere un dizionario regionale in lingua
minoritaria, considerando altresì che lo stesso, in qualità
di geometra, ha ricevuto dall'ente locale alcuni incarichi
di progettazione e direzione lavori espletati nella quasi
totalità?
Ai sensi dell'art. 61, comma 1-bis, del Tuel, non può
ricoprire la carica di sindaco chi ha ascendenti o
discendenti ovvero parenti o affini fino al secondo grado
che coprono il posto di appaltatore di lavori o di servizi
comunali.
Il citato articolo, nel disciplinare la suddetta
causa di incompatibilità fa esplicito riferimento soltanto
agli appaltatori di lavori o servizi comunali senza alcun
richiamo a incarichi che sono palesemente da ricondurre a
contratto di prestazione d'opera intellettuale. Pertanto,
non sembrano sussistere, nel caso in esame le condizioni che
possano dar luogo ad ipotesi di incompatibilità nei
confronti del sindaco.
Resta comunque fermo, in capo a tutti
gli amministratori locali, il rispetto dei principi di cui
all'art. 78, commi 1 e 2 del Tuel, laddove, nel disciplinare
lo status di questi ultimi e i loro doveri, è sancito che il
loro comportamento, «nell'esercizio delle funzioni, deve
essere improntato all'imparzialità e al principio di buona
amministrazione» e che «devono astenersi dal prendere parte
alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti
interessi propri o di loro parenti i affini sino al quarto
grado»
(articolo ItaliaOggi del
22.02.2013). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Commissione di indagine.
Il consiglio comunale può abrogare la deliberazione
istitutiva di una commissione di indagine, ex art. 44, comma
2, del dlgs n. 267 del 2000, prima che siano scaduti i
termini per la conclusione dei lavori a essa affidati con
l'atto istitutivo?
La norma, rubricata «garanzia delle minoranze e controllo
consiliare», al primo comma prevede l'istituzione
facoltativa delle commissioni consiliari aventi funzioni di
controllo e garanzia, attribuendo alle opposizioni, a tutela
delle minoranze, la presidenza delle stesse, ed è
indirizzata a rafforzare quanto già previsto dall'art. 6,
comma 2, del testo unico, che demanda allo statuto
dell'ente, tra l'altro, la specificazione delle forme di
garanzia e partecipazione delle minoranze.
Il comma 2 del
citato art. 44 del dlgs n. 267/2000 stabilisce che il
consiglio possa istituire, al fine di garantire il controllo
consiliare, commissioni di indagine sull'attività
dell'amministrazione. Nel caso di specie, lo statuto del
comune dispone che «con deliberazione a maggioranza assoluta
dei consiglieri assegnati, su proposta del presidente, del
sindaco o di almeno un quarto dei consiglieri, il consiglio
può istituire al proprio interno commissioni consiliari di
indagine incaricate di effettuare accertamenti su fatti,
atti, provvedimenti e comportamenti tenuti dai componenti
gli organi istituzionali e dai responsabili di uffici e
servizi, relativamente allo svolgimento dei propri compiti
di ufficio».
Ai sensi della citata fonte statutaria è,
inoltre, previsto che nel provvedimento istitutivo delle
commissioni di indagine «viene precisato l'ambito
dell'inchiesta, i tempi per concluderla e per riferire al
Consiglio, nonché i poteri di cui dispone la commissione per
l'espletamento dell'incarico».
Tali disposizioni sono ripetute, con identica formulazione,
nel regolamento del funzionamento del consiglio comunale
recante «commissioni consiliari di indagine». Non si
rinvengono, nelle norme statutarie e regolamentari,
disposizioni relative alle vicende successive
all'istituzione della commissione di indagine, ovvero se una
volta istituita essa debba necessariamente portare a
conclusione l'incarico indicato dal consiglio o se sia
possibile, come nel caso di specie, interromperne i lavori
previa, ovviamente delibera adottata con la medesima
maggioranza prevista dall'art. 44, comma 2, del dlgs n.
267/2000. Peraltro, la materia concernente le commissioni
consiliari è interamente demandata allo statuto e al
regolamento del consiglio, nell'ambito della propria
autonomia funzionale ed organizzativa (art. 38, comma 3 dlgs
n. 267/2000).
Ciò implica, pertanto, che soltanto il consiglio comunale,
nella sua sovranità ed in quanto titolare della competenza a
dettare le norme cui uniformarsi in tale materia, sia
abilitato a fornire un'interpretazione autentica delle norme
statutarie e regolamentari, pronunciandosi in merito a
quanto richiesto
(articolo ItaliaOggi del
22.02.2013). |
APPALTI: Tempi negoziabili sui pagamenti.
Senza ordini o commesse il B2B può derogare ai 30 giorni.
Il dlgs che recepisce la direttiva Ue concede una via d’uscita
con la indicazione in fattura.
Si deve ritenere sufficiente l’indicazione in fattura di un
termine di pagamento dei beni o di prestazioni di servizi fissato oltre i 30 giorni, come prescritti dalla disciplina
sui pagamenti nelle transazioni commerciali, in assenza di
un ordine o di una commessa.
Con il decreto legislativo 09.11.2012 n. 192, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
15.11.2012 n. 267, il legislatore è intervenuto, in
grande anticipo rispetto al termine fissato per il
recepimento della Direttiva comunitaria n. 2011/7/Ue
(31/03/2013) per modificare il precedente decreto
legislativo n. 231/2002, introducendo tempi più certi e più
brevi nella riscossione dei crediti di natura commerciale.
Le nuove disposizioni, che si aggiungono a quelle introdotte
dall’art. 62, del decreto legge n. 1/2012 destinate ai soli
prodotti agro-alimentari, sono molto meno rigorose, stante
la mancata previsione di sanzioni in caso di ritardato
pagamento, con la possibilità di derogare ai termini di
pagamento fissati ex lege.
Com’è noto la disciplina si
applica alle transazioni «concluse» a partire dal 01.01.2013, con la conseguenza che per le cessioni
eseguite nel mese di dicembre 2012, ancorché fatturate nel
2013, in ossequio alla disciplina Iva, le nuove regole non
si rendono applicabili, potendo mantenere i pagamenti nei
termini già concordati tra le parti. Restano escluse le
transazioni commerciali eseguite nell’ambito di procedure
concorsuali o di ristrutturazione del debito e nelle ipotesi
di risarcimento del danno, compresi i pagamenti effettuati a
titolo di risarcimento assicurativo.
L’art. 4, del dlgs
231/2002, nella nuova versione, prevede l’applicazione degli
interessi moratori al semplice decorso del termine di
pagamento (cosiddetta «mora automatica») stabilito in 30
giorni (termini raddoppiati in presenza di imprese pubbliche
o di enti riconosciuti che operano nell’ambito
dell’assistenza sanitaria) dal ricevimento della fattura o
della richiesta di pagamento, dal ricevimento dei beni o
della prestazione di servizi, dall’accettazione della verifica (se prevista dalla legge o dal contratto) della
conformità dei lavori eseguiti.
Risulta possibile, però, la definizione di un pagamento anche superiore a 60 giorni al
rispetto di due condizioni: che il termine non sia
«gravemente iniquo» e sia giustificato dalla natura o
dall’oggetto del contratto e che la relativa previsione sia
fornita «per iscritto». Da qui i problemi di natura
operativa, posto che il regime non ha previsto particolari
sanzioni ma solo l’obbligo (e non la facoltà) posta a carico
del debitore inadempiente, di effettuare il pagamento degli
interessi e di una indennità di 40 euro, a titolo di
rimborso per l’attività di recupero del credito, giacché
come detto è indecifrabile la situazione di iniquità e
s’implementano gli adempimenti per le imprese, al fine di
produrre la prova scritta (onere probatorio) del diverso
termine di pagamento concordato tra le parti.
Si ricorda,
innanzitutto, che in base all’articolo 1321 c.c. «il
contratto è l’accordo di due o più parti per costituire,
regolare o estinguere fra loro un rapporto giuridico
patrimoniale», che lo stesso può essere sviluppato non
necessariamente in forma scritta e che, nel commercio,
spesso il compratore si reca spesso presso l’azienda, decide
quali sono i beni di interesse, concorda il pagamento e se
ne va via con ddt o fattura alla mano. Stante il fatto che
per la deroga del pagamento oltre i 30 giorni si richiede
che l’accordo sia «provato per iscritto», si rende
necessario che il cedente (o prestatore) e il cessionario (o
committente) si trovino d’accordo e, in assenza di un
preventivo ordine di acquisto o di un contratto, si deve
ritenere valida l’indicazione in fattura della modalità di
pagamento (per esempio: bonifico bancario a 90 giorni fine
mese) e il termine di scadenza relativo (31.05.2013).
È
pur vero che, trattandosi di «accordo», si potrebbe eccepire
la mancanza della manifestazione di volontà della
controparte, ma quest’ultima non può non essere a conoscenza
del termine derogato, ricevendo la fattura integrata di
detti dati, potendo anche sottoscrivere e rispedire al
cedente (prestatore) una copia del documento per
l’accettazione; per gli edili operanti nell’ambito dei
lavori pubblici è intervenuto recentemente il ministero
dello sviluppo economico (nota n. 1293/2013). La situazione
di «grave iniquità», sancita dal legislatore in presenza di
clausole contrattuali che escludono il pagamento degli
interessi (e, si ritiene, dell’indennità), si presta a
un’ampia discrezionalità, poiché in certi settori i termini
di pagamento commerciali sono, per prassi consolidata,
notevolmente lunghi (in agricoltura si paga a fine campagna
– 1 anno).
Infine, almeno due certezze: la prima
concernente la messa in «mora automatica» del debitore al
decorso del termine fissato e la seconda riguardante
l’obbligo (non facoltà) di pagamento degli interessi
moratori, legati al tasso della Bce maggiorato di otto punti
e dell’importo forfetario (40 euro)
(articolo ItaliaOggi del
22.02.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA: Ace, la competenza non paga.
La certificazione energetica sarà alla portata di tutti.
Dura presa di posizione del Cnpi sul decreto del ministero dello
sviluppo economico.
Certificatori per tutte le stagioni. Per tutte le tasche e
per tutti i gusti. D'ora in poi infatti sarà sufficiente
essere laureati o diplomati, e magari seguire un corso di
formazione ad hoc, per diventare certificatori. Altro che
iscrizione all'albo.
È solo uno dei diversi paradossi
contenuti nella bozza di decreto che il ministero dello
sviluppo economico ha messo a punto (dopo un attesa di oltre
tre anni) sui requisiti professionali e i criteri di
accreditamento dei certificatori energetici.
Insomma a breve a poter certificare il bollino verde di un
immobile ci saranno, accanto alle tradizionali figure di
periti industriali, per esempio, i laureati in fisica, in
matematica, oppure in scienze della natura o in modellistico
matematico-fisica per l'ingegneria.
Il provvedimento,
approvato al consiglio dei ministri dello scorso 15 febbraio
(in attuazione del decreto legislativo 19.08.2005 e
successive modificazioni concernente attuazione della
direttiva 2002/91 sul Rendimento energetico in edilizia),
infatti, se da una parte restringe il campo d'azione solo a
quei tecnici abilitati «all'esercizio della professione
relativa alla progettazione di edifici e impianti asserviti
agli edifici stessi», dall'altra, la estende a molti altri
professionisti che di progettazione di edifici e impianti
non hanno niente a che vedere. E quando nel primo caso, «il
tecnico non sia competente in tutti i campi sopra citati»
(cioè progettazione di edifici e impianti, ndr) dovrà
operare in collaborazione con un altro tecnico abilitato «in
modo che il gruppo costituito copra tutti gli ambiti
professionali su cui sia richiesta la competenza». Poi,
nella seconda parte della norma, si specifica che, «ai fini
della sola certificazione energetica» i tecnici non solo
dovranno essere laureati ma dovranno possedere un attestato
di frequenza «relativo a specifici corsi di formazione per
la certificazione energetica degli edifici con superamento
di esami finali».
Dunque, ha spiegato Renato D'Agostin
rappresentante della commissione termotecnica del Cnpi, «in
base a una logica distorta, un regolamento ha deciso di
togliere e di aggiungere competenze a suo piacimento,
considerando la laurea e non la professione esercitata
condizione necessaria per svolgere questa attività,
scardinando nello stesso tempo, sistema ordinistico e logica
delle classi di laurea». Il testo stabilisce poi che i
tecnici debbano frequentare specifici corsi di formazione
per la certificazione energetica e, per assicurare la loro
indipendenza, i certificatori dovranno dichiarare l'assenza
di conflitto di interessi con i progettisti, i costruttori e
i produttori di materiali coinvolti nella costruzione o
nella ristrutturazione dell'edificio certificato.
L'Attestato (Ace) ha valenza di atto pubblico, con la
responsabilità diretta del tecnico che lo firma.
«Dunque è
evidente», continua ancora D'Agostin, «come il ministero si
arroghi il diritto di stabilire quali sono i corsi di
formazione necessari, privando gli ordini di una competenza
propria. Il tutto, sostanzialmente inventando una nuova
professione. Forse dimenticandosi che gli esperti in materia
già ci sono e operano sul territorio con professionalità e
competenza.
Se il provvedimento non dovesse fare la necessaria
chiarezza, ci saranno quindi certificatori esperti, cioè
professionisti, iscritti agli albi e accanto soggetti
improvvisati che verranno abilitati dopo un semplice corso
di formazione. La sperequazione che si realizzerà tra le due
figure sarà enorme: il professionista che è iscritto agli
albi, infatti, (a differenza di chi opera al di fuori del
sistema ordinistico) è tenuto a osservare una disciplina
deontologica, pena la sanzione, praticare la formazione e
l'aggiornamento permanenti, pena la sanzione e a dotarsi di
assicurazione per responsabilità professionale, pena la
sanzione.
È quindi evidente che, mentre si pone in essere una sorta di
concorrenza sleale tra due figure con caratteristiche
sostanzialmente diverse.
Ma la cosa ancora più grave è il principio di fondo: hanno
trasformato lo strumento per il risparmio energetico, cioè
la certificazione legata alla diagnosi, in un obiettivo
finale che diventa così un mero adempimento formale,
burocratico e quindi commerciale, che nulla a che vedere con
l'analisi del comportamento energetico dell'edificio. A
questo punto sarebbe più fruttuoso fare una semplice
fotocopia delle bollette degli ultimi anni. Perché la
certificazione energetica imposta in questo modo non è altro
che fumo negli occhi»
(articolo ItaliaOggi del
22.02.2013). |
ENTI LOCALI: CONTROLLI/
È ufficiale: il sindaco «prevale» sul revisore.
Con puntualità, rispetto alla stagione dei bilanci, e
chiarezza il ministero dell'Economia ha definito i casi in
cui il revisore può essere revocato ricorrendo "giusta
causa".
Si tratta, per la maggior parte, di ipotesi già
contemplate nei Tribunali, anche se soggette a una lunga
procedura. Infatti, per poter "cambiare" il revisore, oltre
alla delibera dell'assemblea, occorre una dichiarazione da
parte del revisore "uscente" di accettazione della revoca.
Dal 7 marzo, però, non sarà più necessario ricorrere a tale
procedura ma sarà sufficiente richiamare nella delibera
assembleare l'ipotesi prevista di giusta causa. E la
decisione non dovrà più passare dal Tribunale. La
semplificazione consente, dunque, alle società di sostituire
in modo celere il revisore.
Tra le ipotesi di giusta causa il legislatore ha
individuato, ad esempio, il cambio dell'azionista di
riferimento o del revisore di gruppo: l'incarico di
revisione è pur sempre di tipo fiduciario, anche se il
revisore deve essere, oltre che apparire, indipendente. Il
legislatore, inoltre, facilita la revoca nel caso in cui la
società entri a far parte di un gruppo: in questa ipotesi
l'affidamento dell'incarico a un medesimo soggetto permette
di conseguire sinergie e quindi economie di scala.
Altra
norma da apprezzare è quella che chiarisce in modo
definitivo la prevalenza della carica di sindaco
sull'incarico di revisione. Se la funzione di revisione
legale dei conti è esercitata dal collegio sindacale non si
applicano le ipotesi di giusta causa individuate dal Dm
261/2012 ma occorre rifarsi al Codice civile: quindi il
verificarsi della giusta causa dovrà essere sottoposta al
vaglio del Tribunale.
Questa scelta era già stata indicata
dal Consiglio nazionale dei commercialisti nel febbraio
2012: il collegio sindacale è un organo della società a cui
è affidato il controllo di legalità mentre al revisore viene
demandato il compito di verificare la correttezza del
bilancio di esercizio. Pertanto ben si comprende la tutela
che il legislatore offre al primo rispetto al secondo
(articolo Il Sole 24 Ore del
22.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
VARI: Nessun estraneo nella
foto autovelox. Provvedimento del
Garante privacy ribadisce le regole.
Nessun estraneo sulla foto dell'autovelox.
È quanto
stabilito dal Garante con il provvedimento 13.12.2012 n. 408.
Il codice della privacy, infatti, vieta di
riportare immagini di soggetti non coinvolti nella
documentazione fotografica comprovante violazioni in materia
di circolazione stradale. Nel caso specifico un
automobilista ha ricevuto una multa per eccesso di velocità
e ha chiesto le foto dell'infrazione. Quando le ha ricevute,
ha notato che le stesse riproducevano un'altra auto, che
viaggiava in corsia opposta, estranea alla contravvenzione,
e che erano visibili, seppure usando una lente di
ingrandimento, conducente e passeggeri nonché il numero di
targa. E quindi potevano essere identificati.
Il comune si è
giustificato richiamando la normativa sulla
videosorveglianza e sulla rilevazione delle immagini con
autovelox; contemporaneamente ha inviato nuove immagini
oscurate e ha diffidato il trasgressore dall'utilizzare e
divulgare le immagini precedentemente inviate.
Il Garante ha ritenuto illecita la condotta del comune. Il
codice della privacy, infatti, vieta la trasmissione di
documentazione fotografica nella quale sono visualizzabili
anche soggetti non coinvolti nel procedimento amministrativo
di accertamento di una violazione del codice della strada.
Inoltre il «Provvedimento in materia di videosorveglianza»
dell'08.04.2010 del Garante ha previsto che gli impianti
elettronici di rilevamento devono circoscrivere la
conservazione dei dati alfanumerici contenuti nelle targhe
automobilistiche ai soli casi in cui risultino non
rispettate le disposizioni in materia di circolazione
stradale e che le risultanze fotografiche o le riprese video
possono individuare unicamente gli elementi previsti dalla
normativa di settore per la predisposizione del verbale di
accertamento delle violazioni.
Lo stesso provvedimento ha
specificato che deve essere mascherata, per quanto
possibile, la porzione delle risultanze video/fotografiche
riguardanti soggetti non coinvolti nell'accertamento
amministrativo e, infine, che sulla documentazione
video-fotografica, messa a disposizione del destinatario del
verbale, dovranno essere opportunamente oscurati o resi
comunque non riconoscibili i passeggeri presenti a bordo del
veicolo. Lo stesso ministero dell'interno (nella Direttiva
300/A/10307/09/144/5/20/3 del 14.08.2009) ha previsto
che non devono essere memorizzate immagini che permettono di
identificare persone estranee
(articolo ItaliaOggi del
21.02.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA: Sportelli
unici, un avvio lento. La scadenza per i comuni era il 12
febbraio, ma le città sono in affanno.
Enti locali. La criticità è soprattutto nella
gestione di grandi flussi di informazione per il «front
office» unico.
TECNOLOGIA CERCASI/ Senza sistemi online adeguati, i nuovi
obblighi rischiano di mandare in tilt gli uffici
trasformando la semplificazione in boomerang.
È ancora in
gran parte scritta su un pezzo di carta la riforma dello
Sportello unico edilizia introdotta dall'articolo 13 del
decreto sviluppo dell'estate scorsa (Dl 83/2012), la cui
attuazione da parte dei Comuni doveva scattare entro il 12
febbraio.
In prevalenza gli sportelli unici (Sue) sono operativi, ma
ora, con le nuove disposizioni, sono in molti (tecnici
comunali e professionisti) a temere un sovraccarico degli
uffici, mentre la vera innovazione che sarebbe in grado di
farli funzionare, le piattaforme informatiche per i permessi
di costruire, è attiva in poche decine di Comuni.
Dall'inchiesta condotta da «Edilizia e Territorio»
(www.ediliziaeterritorio.ilsole24ore.com) su 12 capoluoghi
di provincia (Torino, Milano, Brescia, Verona, Padova,
Bologna, Rimini, Ancona, Firenze, Roma, Bari, Napoli) emerge
che senza i sistemi on-line, i nuovi obblighi del Sue
rischiano di mandare in tilt gli uffici, trasformando così
la semplificazione in un boomerang.
Due sono infatti le novità: lo sportello edilizia deve
diventare l'unico «front office» per le pratiche
edilizie, obbligando così i Comuni ad attivarlo e ad
accorpare i vari uffici; e questo in gran parte dei Comuni è
stato fatto. Ma soprattutto deve essere lo sportello stesso
a raccogliere tutti i pareri, nulla osta o atti tecnici,
interni o da enti terzi (Vigili del fuoco, Asl, genio
vivile, Regione, Soprintendenze, ecc.) necessari ai fini del
rilascio del permesso di costruire (ristrutturazioni
edilizie, ampliamenti, nuove costruzioni).
In teoria è una notevole semplificazione, perché mentre
prima il tecnico incaricato (geometra, architetto,
ingegnere) doveva girare come una trottola a cercare atti e
nulla osta, ora deve fare tutto il responsabile del Sue, e
se entro i 90 giorni di legge (120 nei Comuni sopra 100mila
abitanti) lo sportello non rilascia (o rigetta) il permesso
di costruire, scatta il silenzio-assenso (Dl 70/2011).
Tuttavia responsabili dei Sue e professionisti sono
d'accordo nel temere che gli uffici non riusciranno a
reggere il sovraccarico, anche perché i tempi dipendono
molto da enti terzi. E d'altra parte il silenzio-assenso, in
vigore da un anno e mezzo, non viene praticamente mai
utilizzato dal proponente privato, perché le banche senza
permesso “esplicito” difficilmente finanziano.
Quale sarebbe allora la vera semplificazione? Tecnici
comunali e professionisti sono d'accordo: la creazione di
piattaforme informatiche on-line, da parte dei Comuni, per
gestire l'invio di progetti e tutta la procedura, compresi
atti e pareri di enti terzi (Asl, Soprintendenze, ecc.). «Se
però gli enti terzi non aderiscono –spiegano ad esempio
tecnici comunali di Bari– il privato presenta on-line al
Sue, e poi noi dobbiamo stampare montagne di carte e
portarle a destra e a manca».
Il Dl 70/2011 stabiliva già l'obbligo dei Comuni di
attrezzarsi per l'invio telematico allo Sportello, e per
l'invio a enti terzi, ma tutto (o quasi) è rimasto lettera
morta. Tuttavia molti grandi Comuni, seppure in affanno,
stanno sperimentando queste piattaforme on-line (tra questi
Torino, Bologna, Padova, Verona, Bari), e contano di
renderle operative entro l'anno.
«Saranno non più di alcune decine in tutta Italia –spiega
Paolo Teti, Ad di Ancitel– i Comuni dotati di una
piattaforma informatica completa per gestire le pratiche del
Sue. I costi vanno da 1.000 l'euro l'anno per i micro-Comuni
a decine di migliaia di euro l'anno per i grandi. Più le
spese di formazione del personale. Ma oltre ai costi pesa la
scarsa cultura informatica da parte dei Comuni».
«C'è anche un'inerzia da parte dei professionisti” – ammette
Fausto Savoldi, presidente dell'Ordine dei Geometri. «Molti
tecnici preferiscono andare allo sportello, parlare con i
funzionari comunali. Noi cerchiamo di spingere per
l'informatizzazione, che significherebbe da una parte
semplificazione, e d'altra anche più standardizzazione e
meno discrezionalità degli uffici»
(articolo Il
Sole 24 Ore del
20.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Calamità.
Mini enti, rimborsi inutili.
I comuni fra 1.001 e 5.000 abitanti che negli anni passati
hanno effettuato interventi di ripristino conseguenti a
calamità naturali finanziandoli con risorse proprie devono
escludere dal saldo del Patto i rimborsi che lo stato o le
regioni erogheranno nel corso del 2013.
Lo ha chiarito il Mef in risposta a un quesito posto da un
comune piemontese che negli anni scorsi si era sobbarcato
buona parte degli oneri necessari a fronteggiare le
conseguenze sul proprio territorio dell'alluvione del 1994 e
che ora attende di ricevere l'ultima tranche di contributi
regionali.
Tali entrate, secondo via XX Settembre, non saranno valide
ai fini del Patto. Quest'ultimo prevede bensì una deroga
specifica per le entrate e le spese relative a calamità
naturali, le quali, se di fonte statale, possono essere
escluse. Spesso, tuttavia, le entrate tardano ad arrivare,
costringendo i sindaci ad anticipare le spese di tasca
propria.
In tali casi, vale la regola della simmetria, specificata
anche dalla recente circolare n. 5/2013 (si veda ItaliaOggi
del 12 febbraio): se hai detratto le spese, devi fare lo
stesso con le entrate sopravvenute. Il meccanismo ha una sua
logica per gli enti già soggetti al Patto, ma non per i
comuni sotto i 5.000 abitanti, cui esso si applica solo da
quest'anno. Pur non avendo detratto alcuna spesa, essi
dovranno comunque escludere le entrate previste per questo o
per i prossimi anni. Secondo il Mef, una diversa lettura
comprometterebbe gli equilibri complessivi di finanza
pubblica, assicurati dalla compensazione degli effetti
negativi indotti dall'esclusione delle spese con quelli
positivi connessi alla simmetrica esclusione delle entrate.
Si tratta di un'ulteriore tegola per i piccoli comuni, che
in molti casi rischiano la paralisi gestionale. La soluzione
indicata dal Mef è il Patto regionalizzato, il quale,
tuttavia, rischia di non essere sufficiente ad affrontare
tutte le criticità
(articolo ItaliaOggi del
20.02.2013). |
TRIBUTI: Le
linee guida delle Finanze. Tares, sconti solo sulla parte
fissa
Le agevolazioni Tares si applicano sulla parte fissa e su
quella variabile della tariffa. Questa regola vale per le
utenze domestiche e non domestiche. Le riduzioni tariffarie
possono essere riconosciute anche alle occupazioni
stagionali, purché la loro durata non superi i 183 giorni
nel corso dello stesso anno solare. Per le attività
commerciali e industriali è invece richiesto che l'uso
stagionale degli immobili risulti da licenza rilasciata
dall'autorità competente o da dichiarazione
dell'interessato.
Lo ha chiarito il ministero delle finanze
nelle
linee guida al prototipo di regolamento Tares che
possono adottare i comuni.
Secondo il ministero, contrariamente a quello che ritiene la
dottrina, le riduzioni tariffarie, anche per le utenze
domestiche, si applicano sia sulla parte fissa che sulla
parte variabile della tariffa. Nelle linee guida, inoltre,
viene precisato che per attività stagionale si intende
quella di durata non superiore a 183 giorni nel corso dello
stesso anno solare. Mentre, per le utenze non domestiche la
natura stagionale dell'attività deve essere comprovata dalla
licenza rilasciata dagli organi competenti o deve risultare
«da dichiarazione rilasciata dal titolare a pubbliche
autorità».
Le riduzioni tariffarie, per il ministero, vanno
riconosciute «dalla data di effettiva sussistenza delle
condizioni di fruizione se debitamente dichiarate e
documentate nei termini di presentazione della dichiarazione
iniziale o di variazione». Tuttavia, per i residenti nel
comune, la riduzione deliberata per l'occupante unico
dell'immobile spetta anche in mancanza di specifica
dichiarazione.
In effetti, i comuni hanno il potere di concedere, con
regolamento, riduzioni tariffarie per particolari situazioni
espressamente individuate dalla legge. Il consiglio
comunale, tra l'altro, può deliberare agevolazioni Tares,
oltre quelle già previste, purché l'ente abbia le risorse
economiche per finanziarle. I benefici fiscali concessi dal
comune si applicano non solo alla tassa, ma anche alla
maggiorazione dovuta dai contribuenti sui servizi
indivisibili. L'articolo 14 del dl 201/2011 disciplina le
agevolazioni tariffarie, riconoscendo al comune la facoltà
di stabilire riduzioni del tributo dovuto in presenza di
determinate situazioni in cui si presume che vi sia una
minore capacità di produzione di rifiuti.
A queste riduzioni
viene però fissato un tetto massimo. La riduzione della
tariffa non può superare il limite del 30%. In particolare,
questo beneficio può essere concesso per: abitazioni con
unico occupante; abitazioni tenute a disposizione per uso
stagionale o altro uso limitato e discontinuo; locali e aree
scoperte adibiti a uso stagionale; abitazioni occupate da
soggetti che risiedono o hanno la dimora, per più di 6 mesi
all'anno, all'estero; fabbricati rurali a uso abitativo.
Tutte le agevolazioni, dunque, si applicano anche alla
maggiorazione, destinata alla copertura dei servizi
indivisibili prestati dall'amministrazione comunale. Questa
previsione, però, non ha senso perché tra i due tributi che
convivono all'interno della Tares non c'è alcun legame e i
presupposti sono del tutto diversi. L'estensione alla
maggiorazione può costituire un freno per i comuni nella
scelta di deliberare eventuali agevolazioni. Considerato che
il gettito della maggiorazione standard (0,30 euro al metro
quadrato) comporta una corrispondente riduzione dei
trasferimenti erariali. Quindi, minori risorse per gli enti
(articolo ItaliaOggi del
19.02.2013). |
APPALTI: Oneri
a carico delle imprese. Da oggi trasparenza per la p.a..
Indicazioni chiare e puntuali circa gli oneri a carico delle
imprese e mai più anarchia nella pubblica amministrazione
(statale). E
se l'obbligo della trasparenza non sarà rispettato, ne
pagheranno le conseguenze i dirigenti di tasca propria,
perché se ne terrà conto ai fini della loro valutazione.
Lo
prevede il decreto del presidente del Consiglio dei ministri
252/2012 che, in G.U. lo scorso 4 febbraio, entra in vigore
oggi, 19.02.2013.
Per raggiungere l'obiettivo di
uniformare, a livello nazionale, l'elenco degli obblighi, lo
Statuto delle imprese (legge 180/2011) ha previsto la
pubblicazione online, nei siti istituzionali, di tutti gli
«oneri informativi» che gravano sui cittadini e sulle
imprese. E ciò al fine di prevenire l'introduzione o il
mantenimento di oneri sproporzionati o non necessari
rispetto alle esigenze di tutela degli interessi pubblici ma
anche per rendere immediatamente conoscibili gli adempimenti
prescritti dalle relative discipline, in modo da assicurare
anche unitarietà nelle interpretazioni delle disposizioni
adottate.
Le linee guida - In vista del termine del 31/3, che prevede
la predisposizione di una relazione, il Dipartimento della
funzione pubblica ha emanato le linee guida delle modalità
che devono essere rispettate dai diversi dipartimenti. In
particolare dovranno essere compilate delle specifiche
schede all'interno delle quali saranno indicati oneri
eliminati e introdotti, con il riferimento alla relativa
disposizione contenuta in regolamenti o provvedimenti che,
rispettivamente, regolano l'esercizio dei poteri autorizzatori o certificatori, nei confronti di cittadini e
imprese; disciplinano l'accesso ai servizi pubblici da parte
degli utenti e, infine, disciplinano la concessione di
benefici, come quelli fiscali o monetari. In tale categoria,
precisano le linee guida, rientrano le circolari e in genere
gli atti di indirizzo, mentre rimangono esclusi i bandi per
gli appalti pubblici.
L'onere informativo
- In base alla definizione riconosciuta a livello
internazionale, un onere informativo, (molto spesso si
utilizza anche il termine «obbligo») si configura
ogniqualvolta una norma impone di raccogliere, produrre,
elaborare, trasmettere o conservare informazioni e
documenti.
Perché scaturisca l'onere, in pratica, non è
necessario l'invio delle informazioni alla p.a. Perché, a
volte, come è il caso della tenuta dei registri, detto onere
impone soltanto agli interessati di raccogliere notizie,
dati, informazioni e documenti da conservare ed esibire su
richiesta degli organi di controllo
(articolo ItaliaOggi del
19.02.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Ricognizione di ItaliaOggi Sette: tra le carenze la mancata
realizzazione del catasto Ace. Certificazione energetica, metà
evade perché si controlla poco.
Pochi e per di più «col trucco», dal momento che non sono
previste sanzioni per chi emette attestati di
classificazione energetica (Ace) non veritieri. Che
attribuiscono, cioè, agli edifici una classe energetica
migliore di quella effettiva. In Piemonte, un certificato su
quattro presenta elementi di irregolarità tali da
invalidarlo, secondo i risultati, appena diffusi, relativi
ai primi controlli effettuati: su 8.993 certificati, 2.214
sono risultati non conformi, pari al 25,4%, secondo il Cresme, Centro studi specializzato in edilizia diretto da
Lorenzo Bellicini.
Se poi si va a vedere quanti annunci immobiliari rispettano
l'obbligo di riportare la classe energetica si scopre che
sono poco più della metà. Soltanto il 58,30% per la vendita
di case (erano il 37% a gennaio 2012, quando la legge ne
introdusse l'obbligatorietà). Percentuale aumentata anche
per gli avvisi di locazione immobiliare: 41,70% a gennaio
2013, cresciuta rispetto al 35% dello stesso mese 2012,
secondo i dati, che forniscono un quadro nazionale, forniti
da Casa.it, portale immobiliare con 700 mila annunci e quasi
5,3 milioni di visitatori al mese (5.268.483, per
l'esattezza) certificati da Nielsen SiteCensus a gennaio
2013. Amministrato da Daniele Mancini, anche general
manager, Casa.it fa capo al gruppo Rea Ltd quotato a Sidney
e controllato da News Corp di Rupert Murdoch. La notizia che
soltanto poco più della metà degli annunci complessivi di
vendita case in Italia riporti la classificazione energetica
è confermata anche dall'indagine del portale Immobiliare.it
(800 mila annunci disponibili ogni giorno) anche se con un
leggero scostamento: «solo il 53% degli immobili in vendita
è in regola», ha sostenuto l'a.d., Carlo Giordano, «peggio
per gli affitti: certificato solo il 24% dell'offerta.
Eppure il 24% di chi cerca casa seleziona in base ai
consumi». Ancora: «su oltre 60 mila annunci dei privati,
considerati nell'indagine campione di Immobiliare.it,
soltanto l'11% ha una certificazione valida. La percentuale
sale al 46% se gli annunci di vendita sono gestiti dalle
agenzie immobiliari indipendenti, e cresce ancora, fino al
58% se le immobiliari fanno parte di gruppi dotati di
proprie agenzie interne di certificazione. In regola,
invece, il 97% degli appartamenti venduti direttamente dai
costruttori che sono tenuti a fornire l'Ace per legge già
dal 2007. Se poi si va a vedere la classe di appartenenza
energetica degli edifici si scopre che ancora oggi a fare la
parte del leone è quella più scarsa, la classe G: 35.907 su
97.169 proposte immobiliari residenziali di Tecnocasa a
febbraio 2013. Un fenomeno che si spiega bene se si pensa
che fino a dicembre 2012 era possibile autocertificare
l'appartenenza alla classe G. Pratica abolita da gennaio
2013 (si veda articolo a pagina 7).
Ancora pochi, per
Tecnocasa, gli immobili residenziali di classe A, la
migliore in senso di efficienza e risparmio energetico:
1.525 sul totale di 86.369 annunci di vendita, che diventano
soltanto 29 su 10.800 proposte di alloggi in affitto. Il
quadro si riflette anche per gli immobili industriali: la
maggior parte, 2.024 sono in classe G, la più costosa in
bolletta, sul totale di 8.344 annunci proposti da Tecnocasa
a febbraio 2013. Sono 41 in classe A e 1.588 non dichiarano
la classe di appartenenza, salvo mettersi in regola al
momento della vendita. Del resto sono ancora scarsi i
controlli che competono alle regioni chiamate anche a
istituire il catasto energetico, ancora, per lo più
disatteso. Un ruolo di apripista spetta alla Lombardia,
regione più avanzata in materia di controlli e sanzioni,
secondo l'Enea, l'agenzia nazionale per l'energia, che le
riconosce anche un ruolo pioneristico in fatto di formazione
e certificazione dei certificatori, attività condotte
coinvolgendo ordini e collegi di professionisti e tecnici.
Inoltre, a complicare la situazione è la frammentazione
regionale relativa a criteri e sistemi di classificazione (Casaclima
in per lo più in Alto Adige, Leed valido sui mercati
internazionali), nonostante la pubblicazione delle linee
guida nazionali. E nonostante Bruxelles spinga per creare un
sistema unico europeo di certificazione obbligatoria degli
immobili. Anche i costi sono una Babele, differenti regione
per regione. A denunciare le criticità del sistema che,
nelle intenzioni del legislatore, offre al consumatore uno
strumento nuovo, l'Ace appunto, importante per capire
l'importo della bolletta elettrica, e al tempo stesso
strumento di lotta agli sprechi quale driver per aumentare
l'efficienza energetica in edilizia, è stato il Cresme.
L'analisi ha trovato conferma nel Rapporto 2012
sull'attuazione della certificazione energetica in Italia
che l'Enea ha presentato a fine gennaio. Un focus che
evidenzia, tra l'altro, come la certificazione energetica
venga vissuta dai privati come un adempimento di legge
oneroso che i più effettuano soltanto in caso di vendita.
Non comprendendo, invece, come ha sottolineato l'Enea, che
costituisce, invece, un'opportunità per migliorare
l'efficienza energetica del patrimonio immobiliare privato e
pubblico contribuendo, così al raggiungimento da parte delle
p.a. degli obiettivi Ue di riduzione delle emissioni del 20%
nel 2020 (articolo ItaliaOggi Sette del
18.02.2013). |
APPALTI:
La crisi non blocca il Durc.
Unica condizione: prevedere l'assolvimento dei debiti.
Ottiene il documento unico di regolarità
contributiva anche l'impresa in concordato.
Sì al Durc anche se l'azienda è in crisi. Se l'impresa è in
fase di concordato preventivo con continuità dell'attività
lavorativa, infatti, può ottenere il documento unico di
regolarità contributiva a patto che il piano concordatario
preveda, entro dodici mesi, l'integrale assolvimento dei
debiti previdenziali e assistenziali.
La regolarità contributiva.
Il Durc, che sta per documento unico di regolarità
contributiva, è l'attestazione dell'assolvimento, da parte
di un'impresa, di tutti gli obblighi legislativi e
contrattuali nei confronti di Inps, Inail e cassa edile per
i lavoratori dipendenti. Il Durc occorre in tutti gli
appalti e subappalti di lavori pubblici (per la verifica dei
requisiti per la partecipazione alle gare, per
l'aggiudicazione alle gare, per l'aggiudicazione
dell'appalto, per la stipula del contratto, per gli stati
d'avanzamento lavori, per le liquidazioni finali); nei
lavori privati soggetti al rilascio della concessione
edilizia o alla Dia; nelle attestazioni Soa.
Nell'ambito dei
lavori edili privati, il Durc non è autocertificabile e,
pertanto, deve essere presentato all'amministrazione
concedente prima dell'avvio dei lavori edili, oggetto di
permesso di costruire o di denuncia d'inizio attività.
Nell'ambito degli appalti pubblici, invece, limitatamente ai
soli contratti di forniture e servizi fino a 20 mila euro,
le imprese possono sostituire il Durc con una
autodichiarazione (per la validità del documento nelle
specifiche ipotesi, si veda la tabella in pagina).
Se l'azienda è in crisi. Il consiglio nazionale dell'ordine
dei consulenti del lavoro ha avanzato istanza di interpello
per conoscere il parere del ministero del lavoro in materia
di requisiti necessari ai fini del rilascio del Durc nel
caso di imprese in concordato preventivo con continuità
dell'attività lavorativa (in base all'articolo 186-bis della
legge Fallimentare (rd n. 267/1942).
In particolare, i
consulenti hanno chiesto di sapere se sia possibile ottenere
l'attestazione della regolarità contributiva nell'ipotesi in
cui l'impresa sia sottoposta a una procedura di concordato
preventivo, nella modalità di continuazione dell'attività
aziendale, in virtù di un piano, omologato dal competente
Tribunale, che prevede l'integrale soddisfazione delle
situazioni debitorie previdenziali e assistenziali, sorte
precedentemente al deposito della domanda di ammissione alla
procedura medesima.
Sì al Durc «condizionato». Il ministero risponde
affermativamente alla richiesta dei consulenti del lavoro
(interpello n. 41/2012). Al fine di fornire la soluzione,
muove dall'analisi della disciplina afferente all'istituto
del concordato preventivo con continuazione dell'attività
aziendale, di cui agli articoli 161 e seguenti della legge
fallimentare, alla luce delle modifiche apportate dal
decreto sviluppo (dl n. 83/2012 convertito dalla legge n.
134/2012).
Innanzitutto, dalla lettura di queste
disposizioni, spiega il ministero, emerge che la procedura
concorsuale (concordato preventivo con la continuazione
dell'attività), da un lato, risulta finalizzata al
risanamento di imprese che versano in uno stato di crisi
«non strutturale»; dall'altro, presupponendo la prosecuzione
dell'attività aziendale, si incentra necessariamente su di
un piano, che viene validato da un professionista e
omologato dal competente Tribunale, mediante il quale
l'azienda «si accorda» con i creditori riguardo alle
tempistiche e alle modalità di pagamento dei debiti, sorti
precedentemente alla presentazione della domanda di
concordato.
Nello specifico, aggiunge il ministero,
l'articolo 186-bis della legge fallimentare dispone che il
piano concordatario può prevedere una moratoria fino a un
anno dall'omologazione del Tribunale per il pagamento dei
crediti muniti di privilegio, pegno o ipoteca, tra i quali
sono ricompresi dunque i contributi previdenziali e
assistenziali. Si prevede inoltre che:
●
i contratti in corso di esecuzione alla data del deposito
del ricorso, tra i quali anche quelli stipulati con le
pubbliche amministrazioni, non si risolvono per effetto
dell'apertura della procedura;
●
l'ammissione al concordato preventivo non impedisce la
continuazione dei contratti pubblici sottoscritti, nella
misura in cui il professionista designato ne abbia attestato
la conformità al piano, unitamente alla ragionevole capacità
di adempimento dell'azienda debitrice.
L'ammissione alla procedura comporta per la compagine
aziendale interessata, pertanto, la sospensione ex lege
delle situazioni debitorie sorte antecedentemente al
deposito della relativa domanda e la conseguente preclusione
delle azioni esecutive dei creditori. È proprio alla luce di
tale disciplina, argomenta il ministero del lavoro, che la
fattispecie prospettata dai consulenti del lavoro
sembrerebbe rientrare nel campo di applicazione della
disciplina del Durc (nello specifico nell'articolo 5 del dm
24.10.2007, recante l'elencazione dei requisiti utili
ai fini del rilascio di un Durc ovvero delle condizioni in
presenza delle quali l'Istituto previdenziale attesta la
correntezza nei pagamenti e negli adempimenti contributivi).
In particolare, sembrerebbe rientrare nella norma (comma 2,
lettera b) del citato articolo 5) secondo il quale «la
regolarità contributiva sussiste inoltre in caso di
sospensione di pagamento a seguito di disposizioni
legislative».
Peraltro, non ammettere la possibilità del rilascio del Durc
contrasterebbe la ratio della procedura concorsuale la
quale, come evidenzia il ministero, è finalizzata a
garantire la prosecuzione dell'attività aziendale e alla
salvaguardia dei livelli occupazionali; infatti, sarebbe
disattesa qualora si riconoscesse un'incidenza negativa alle
situazioni debitorie sorte antecedentemente all'apertura
della procedura stessa. Ciò in quanto l'impresa sottoposta a
concordato non avrebbe la possibilità di ottenere un Durc,
se non alla chiusura del piano di risanamento, con
conseguente e inevitabile pregiudizio per il superamento
della crisi.
In conclusione, il ministero precisa che per
l'azienda ammessa al concordato preventivo, ex articolo
186-bis della legge fallimentare è possibile ottenere il
rilascio di un Durc nell'ipotesi in cui il piano, omologato
dal Tribunale, contempli l'integrale assolvimento dei debiti
previdenziali e assistenziali contratti prima
dell'attivazione della procedura concorsuale. Tuttavia
precisa che, in tal caso, la sospensione dei pagamenti che,
ai sensi della normativa (articolo 5, comma 2, lettera b, del
dm 24.10.2007) non osta al rilascio del Durc deve
necessariamente riferirsi a quelle obbligazioni che sono
state prese in considerazione o comunque rientrano
nell'ambito del concordato.
Pertanto, gli enti previdenziali potranno attestare la
regolarità contributiva soltanto qualora lo specifico piano
di risanamento preveda la cosiddetta moratoria indicata
dall'articolo 186-bis, comma 2, lettera c) della legge
Fallimentare ed esclusivamente per un periodo non superiore
a un anno dalla data dell'omologazione. Trascorso detto
periodo, infatti, la sospensione cessa di avere effetto e
l'impresa, in mancanza di soddisfazione dei crediti
assicurativi, deve essere «attestata» come irregolare (articolo ItaliaOggi Sette del
18.02.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI/ Riformulato l'elenco degli esempi illustrativi
previsto dalla direttiva 94/62/Ce. Imballaggi, conta la
funzione.
Dalle grucce ai cd: dal 30/9 nuovo regime di raccolta.
Sarà sempre di più la funzione effettiva dei beni a
determinarne la natura di imballaggi o meno. Così le spine
di contenimento dei compact disc (meglio note come «spindle»)
saranno imballaggi se vendute insieme agli stessi (poiché
finalizzate a manipolazione e consegna dei dischi) ma
saranno semplici beni se vendute vuote (poiché destinate a
contenere i supporti ottici durante il loro ciclo di vita).
Stessa sorte per le grucce degli indumenti ed i vasi da
fiore, il cui inquadramento varierà in base all'essere
ceduti per il semplice trasporto dei beni principali o in
funzione del loro ricovero permanente.
A precisare il confine tra imballaggi e non imballaggi è la
Commissione europea, che con la nuova direttiva 2013/2/Ue ha
dettato il nuovo «elenco di esempi illustrativi» dei casi
critici, elenco destinato a sostituire l'omonimo indice
recato dall'allegato I alla direttiva madre in materia (la
94/62/Ce).
Le nuove regole. Le indicazioni dell'Ue (pubblicate sulla
Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea dell'08.02.2013,
n. L37) costituiscono una guida all'interpretazione
armonizzata sul territorio comunitario della definizione di
«imballaggio» recata dall'articolo 3 della citata direttiva
94/62/Ce, a tenore del quale sono tali «tutti i prodotti (_)
adibiti a contenere e a proteggere determinate merci, (_) a
consentire la loro manipolazione e la loro consegna dal
produttore al consumatore o all'utilizzatore, e ad
assicurare la loro presentazione» e rispondenti, inoltre, ai
«criteri funzionali» dettati in prosieguo dalla stessa
norma, ossia: la destinazione dei prodotti al contenimento
temporaneo di un bene (e non, dunque, per tutto il ciclo di
vita dello stesso); l'essere tali prodotti naturalmente
separati dal bene che contengono; l'avere gli stessi
prodotti funzione principale di presentazione di un bene nel
punto vendita; il loro carattere «usa e getta»; il
costituire parti integranti di altro prodotto rientrante
nella definizione di imballaggio.
Ed è proprio al fine di chiarire ulteriormente la corretta
applicazione di tali criteri funzionali che il nuovo
catalogo recato dalla direttiva 2013/2/Ue presenta
(riprendendo la scansione per tipologia prevista dalla
direttiva 94/62/Ce) un più capillare elenco degli articoli
(generici, destinati ad essere riempiti, usa e getta,
accessori) che devono essere considerati imballaggi e di
quelli che, invece, tali non sono.
Tra le «new entry», oltre ai prodotti già citati (spine per
compact disc, grucce e vasi da fiore per vendita e
trasporto), vi sono i pizzi per torte venduti insieme alle
stesse, i macinapepe non ricaricabili, i sistemi di barriera
sterili, le bottiglie di vetro per soluzioni iniettabili, le
capsule per sistemi erogatori di bevande (come caffè,
cioccolata e latte) che sono lasciate vuote dopo l'uso, le
pellicole di plastica per indumenti lavati nelle lavanderie.
Tra i prodotti che resteranno invece fuori dal regime degli
imballaggi (ma, è utile ricordarlo, non da quello generale
sulla gestione dei rifiuti, una volta diventati tali) vi
sono le cartucce per stampanti, le bustine solubili per
detersivi, i lumini per tombe, le capsule per sistemi
erogatori di caffè, sacchetti di alluminio per caffè e
bustine di carta per caffè filtro che si gettano insieme al
caffè usato, la carta da imballaggio (se venduta
separatamente dal prodotto destinato a contenere), le posate
monouso (laddove gli esempi illustrativi dell'originaria
versione della direttiva 94/62/Ce citavano tra gli articoli
esclusi la più generica categoria dei «cucchiaini di
plastica»).
Le ricadute operative. Il nuovo elenco Ue degli «esempi
illustrativi» dovrà dagli stati membri essere tradotto negli
ordinamenti interni entro la deadline del 30.09.2013
imposta dalla stessa direttiva 2013/2/Ue.
Una volta recepite (in Italia attraverso la necessaria
riformulazione del Titolo IV del dlgs 152/2006, c.d. «Codice
ambientale», che reca già attuazione dell'originaria
direttiva madre 94/62/Ce) le nuove norme comunitarie si
intersecheranno naturalmente con il particolare sistema di
gestione dei «rifiuti di imballaggio» (ossia degli
imballaggi e dei materiali di imballaggio rientranti nella
definizione di rifiuto (oggi recata dall'articolo 183 del dlgs 152/2006).
Tale sistema, previsto a monte dalla direttiva 94/62/Ce e
poi tradotto sul piano nazionale sempre dallo stesso «Codice
ambientale», pone a carico dei produttori dei
particolari beni (quali fornitori, fabbricanti,
trasformatori, importatori di imballaggi vuoti) e dei
relativi utilizzatori (ossia commercianti, distributori,
addetti al riempimento, utenti, importatori di imballaggi
pieni) gli oneri organizzativi e finanziari della loro
gestione una volta giunti a fine vita, e ciò al fine di
garantirne riciclaggio o recupero (articolo ItaliaOggi Sette del 18.02.2013). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: La
sforbiciata della PA. Per i dipendenti in esubero pensione
anche con i criteri ante riforma
(articolo Il
Sole 24 Ore del
18.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI:
Raccolta rifiuti, rischio paralisi in tutta Italia.
Le aziende incasseranno dopo luglio la prima rata della
Tares: in molti casi non è esclusa l'interruzione del
servizio.
EFFETTI COLLATERALI/
Le nuove regole fanno anche saltare milioni di Rid e
addebiti automatici finora utilizzati dagli utenti delle
multiutility.
Mentre le nuove regole sui pagamenti imporrebbero ai privati
di onorare i propri debiti in 30 giorni e ai soggetti
pubblici di pagare le fatture in 60, la disciplina Tares
impone alle aziende che raccolgono e smaltiscono i rifiuti
di effettuare gratis un servizio essenziale per almeno 8-9
mesi. Anche se in ritardo, gli obblighi di pagamento
complicheranno la vita di milioni di utenti, che in questi
anni hanno attivato i Rid automatici o pagato in un'unica
bolletta i servizi diversi (per esempio rifiuti ed energia)
offerti loro dalle multiutility. Le nuove regole prevedono
infatti solo l'F24 o il bollettino postale, con incasso
diretto al Comune, per cui milioni di versamenti automatici
o multipli sono destinati a saltare.
Se la complicazione per gli utenti emergerà solo con
l'estate, il corto-circuito degli incassi sta già
determinando in queste settimane la paralisi amministrativa
nella gestione ambientale delle città italiane, e nelle
prossime settimane rischia di moltiplicare i casi
dell'emergenza rifiuti.
L'origine è nella sequela di rinvii elettorali della prima
rata Tares, il nuovo tributo che da quest'anno deve
sostituire le tasse e tariffe sui rifiuti andate in pensione
a fine 2012. Il decreto salva-Italia ha infatti abrogato le
vecchie discipline a partire dallo scorso 1° gennaio, ma la
Tares che dovrebbe intervenire al loro posto è stata
rinviata prima ad aprile e poi a luglio da un Parlamento in
scadenza desideroso di spostare le richieste tributarie ai
cittadini lontano dalle elezioni politiche di febbraio e
dalle amministrative di maggio. Per i bilanci degli utenti
in realtà cambia poco. La cifra da pagare nel 2013 sarà in
ogni caso superiore a quella versata nel 2012 per due
ragioni: i costi di raccolta e smaltimento vanno coperti
integralmente con il tributo -secondo un criterio che fino
a ieri era stato raggiunto in modo universale nei soli
Comuni a tariffa Tia, 1.300 su 8.100- e a questo si
aggiunge una maggiorazione comunale (30 centesimi a metro
quadro, elevabili a 40) per finanziare i «servizi
indivisibili» come la manutenzione delle strade e
l'illuminazione pubblica. Proprio la maggiorazione, che ha
permesso allo Stato di tagliare preventivamente un miliardo
di euro ai fondi dei Comuni scaricandone i costi sui
cittadini, ha impedito di prorogare nel 2013 la tassa e la
tariffa ambientale rimaste in vigore fino a dicembre.
La pioggia dei rinvii, quindi, non ha effetti pratici sui
portafogli dei cittadini, ma tira una bordata praticamente
mortale ai conti delle imprese, che in queste settimane
stanno cominciando ad affrontare una crisi di liquidità
difficilmente gestibile. I mezzi e gli impianti vanno fatti
girare tutti i giorni, gli stipendi devono essere pagati
tutti i mesi, ma l'intera macchina dovrebbe viaggiare
"gratis" fino alla fine di luglio, o meglio fino a
settembre-ottobre quando le prime bollette si tradurranno in
incassi effettivi. Con il classico effetto a catena:
l'assenza di liquidità si scaricherà sui fornitori, cioè le
aziende in genere private che ai gestori dell'igiene urbana
vendono i mezzi e le attrezzature. A questo anello della
catena scattano gli interessi di mora dell'8,75% a carico
dei debitori che non pagano entro i 30-60 giorni previsti
dalla normativa (il Dlgs 192/2012) che ha tradotto in
italiano la direttiva europea.
L'ultima proroga è stata approvata dal Parlamento contro il
parere del Governo Monti, e nelle scorse settimane il
sottosegretario all'Ambiente Tullio Fanelli ha ipotizzato il
varo di un nuovo decreto governativo che anticipi la prima
rata della Tares, ma solo il nuovo Parlamento uscito dalle
urne potrebbe convertirlo. «In questi giorni –spiega
Daniele Fortini, il presidente di Federambiente
(l'Associazione italiana servizi pubblici ambientali)–
abbiamo inviato una lettera al presidente del Consiglio e ai
ministri dell'Ambiente e dello Sviluppo economico, e dai
contatti avuti con i vertici ministeriali ci aspettiamo un
incontro a breve. I tempi però sono strettissimi e l'urgenza
dei problemi non ammette timidezze».
Ma come accennato i problemi della Tares non sono solo di
calendario: la nuova disciplina che prevede solo pagamenti
con F24 o bollettino postale costringerà a rivedere i
meccanismi di versamento attuati in particolare da parecchie
multiutility come per esempio Hera, perché farà saltare i
versamenti automatici con Rid e quelli elettronici con i Mav.
Una complicazione in più, che farà "apprezzare" anche
agli utenti, oltre che alle aziende, tutta la tortuosità del
nuovo tributo ambientale (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Spending review. Ancora in una fase preliminare la riduzione
del personale degli enti locali
Taglio organici a rilento.
Difficile la ricognizione degli addetti delle società
controllate.
CORSA CONTRO IL TEMPO/
Per riorganizzarsi con procedure semplificate i ministeri
hanno tempo fino alla fine del mese ma sono in ritardo.
Avviata la partita della riduzione delle dotazioni organiche
delle amministrazioni centrali e degli enti pubblici –voluta dal decreto legge 95/2012 sulla
spending review– si
apre ora quella del personale degli enti locali.
La prima mossa è stata giocata martedì scorso, con
l'insediamento del tavolo tecnico presso la conferenza
Stato-città, tavolo intorno al quale si sono seduti i
ministeri della Pubblica amministrazione, dell'Economia e
dell'Interno, nonché i rappresentanti di Anci e Upi.
L'obiettivo è l'individuazione dei parametri di virtuosità –da mettere a punto tenendo soprattutto conto del rapporto
tra dipendenti e popolazione residente– sulla base dei
quali procedere al taglio degli organici.
E se l'intervento sul personale di ministeri, enti pubblici
non economici, enti parco, Inps ed enti di ricerca –effettuato con tre Dpcm messi a punto dalla Pubblica
amministrazione a fine gennaio e ora al vaglio della Corte
dei conti- ha portato all'individuazione di 7.416 eccedenze
su un totale di 120mila dipendenti (tra personale
dirigenziale e non), dalla partita degli enti locali si
aspettano numeri ben più significativi, visto che si tratta
di mettere a fuoco il fabbisogno di amministrazioni che
danno lavoro a circa 600mila persone.
I tempi, tuttavia, si annunciano lunghi. Anche perché la
predisposizione dei criteri di virtuosità si prospetta non
semplice. A cominciare dal fatto che quei parametri dovranno
prendere in considerazione anche i dipendenti delle società
controllate dagli enti locali, una galassia di cui non si
dispone di dati precisi. Altamente probabile, pertanto, che
l'operazione del taglio degli organici non si concluderà nei
tempi previsti per le amministrazioni centrali.
Queste ultime, infatti, dovranno ora mettere mano –sulla
base delle eccedenze individuate con i decreti della
Pubblica amministrazione– ai processi di riorganizzazione
interna, con eventuale taglio di direzioni e accorpamento di
uffici. Operazione che dovrà essere chiusa entro la fine di
luglio, ma sulla quale al momento pesa la fase di
transizione indotta dalla fine della legislatura, con
prossimo cambio al vertice delle amministrazioni interessate
dalla risistemazione. Il problema riguarda, in particolare,
i ministeri, i quali perderanno l'occasione di procedere
alla riorganizzazione utilizzando una procedura accelerata.
Il decreto legge 95 (articolo 2, comma 10-bis), infatti, ha
previsto che i dicasteri possano riorganizzarsi con Dpcm,
sui quali è necessario il controllo preventivo di
legittimità della Corte dei conti, ma non il parere del
Consiglio di Stato, che diventa facoltativo. Procedura
snella che, però, deve essere utilizzata entro la fine di
febbraio. Al momento, però, solo i ministeri dell'Ambiente,
Salute, Agricoltura, Istruzione e Giustizia hanno presentato
alla Pubblica amministrazione proposte di riorganizzazione,
che dovranno ora essere istruite. I tempi non solo sono
strettissimi, ma c'è l'incognita su come si muoverà il nuovo
Governo.
Diverso il discorso per gli enti pubblici, che potranno
riorganizzarsi con regolamenti propri e per i quali, dunque,
la scadenza di fine febbraio non ha valore.
Dalla partita è escluso Palazzo Chigi, che ha già ridotto le
dotazioni organiche con un decreto di metà giugno 2012. Così
come restano esclusi –per espressa previsione di legge– i
comparti della scuola, della sicurezza, dei Vigili del
fuoco, della giustizia. Diversa la situazione per il
ministero dell'Economia e per le Agenzie fiscali, che
dovevano ridurre le dotazioni organiche sulla base di altre
disposizioni (articolo 23-quinquies del Dl 95) e vi hanno
già provveduto. Così come ha fatto il ministero della
Difesa, ponendo le basi per tagliare i militari da 190mila a
170mila (resta la riduzione degli organici civili, a cui
provvede uno dei tre Dpcm ora alla Corte dei conti). Non
restano, dunque, che gli enti locali (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Trasparenza amministrativa. L'incisività delle nuove regole.
Sull'accesso ai documenti l'Italia è un passo avanti.
Il primato della trasparenza. È un titolo di cui si potrà
fregiare il nostro Paese se saranno tradotte in pratica le
indicazioni contenute nel decreto approvato venerdì in via
definitiva dal Consiglio dei ministri.
Si tratta delle
regole che danno attuazione a una parte della legge
anticorruzione (la 190/2012) e che obbligano le pubbliche
amministrazioni –tutte: dal grande ministero al più piccolo
comune– a pubblicare sui siti istituzionali tutta una serie
di informazioni: la retribuzione e i redditi dei politici,
gli stipendi e i curricula dei dirigenti e dei consulenti, i
dati sulle dotazioni organiche e sul personale
effettivamente in servizio, i premi di produttività
distribuiti, l'elenco delle società controllate, i
provvedimenti adottati, le sovvenzioni elargite, la lista
dei controlli sulle imprese. E via di questo passo.
Un lungo elenco di comunicazioni che le amministrazioni sono
tenute a dare ai cittadini in forma completa, aggiornata,
facilmente consultabile (deve essere creata nell'home page
una sezione chiamata "Amministrazione trasparente"),
scaricabile, riutilizzabile.
Un bel salto in avanti dopo la breccia aperta dalla legge
sul diritto di accesso (la 241 del 1990) nel velo di
omissioni che spesso contraddistingue il comportamento degli
uffici pubblici. E che ci pone un passo avanti rispetto a
molti Paesi. Anche degli stessi Stati Uniti, il cui Freedom
of information act, che garantisce l'accessibilità di
ciascun cittadino ai documenti in possesso della Pa
(esclusi, ovviamente, gli atti coperti da segreto), ha
ispirato il nostro legislatore.
La trasparenza italiana, infatti, si dimostra, almeno sulla
carta, più incisiva. Un buon metro di paragone è la
conoscibilità delle informazioni relative a curricula,
retribuzioni, incarichi di politici e dirigenti pubblici,
che sono quelle su cui la resistenza degli uffici ha sempre
avuto particolare vigore. Sotto un certo punto di vista
anche comprensibile, perché, come ha rilevato il Garante
della privacy in un recente parere dato al decreto, è più
alto il rischio di rendere pubblici dati sensibili. Per
esempio, nella dichiarazione dei redditi possono essere
riportate agevolazioni legate a particolari condizioni di
salute. È, però, sufficiente, «rendere non intellegibili –dice il decreto alla luce dei rilievi dell'Authority– i
dati personali non pertinenti o, se sensibili e giudiziari,
non indispensabili rispetto alle specifiche finalità di
trasparenza della pubblicazione».
Ebbene, riguardo alla conoscibilità da parte dei cittadini
di tali informazioni il nostro Paese si è spinto ben più in
là di tanti altri. Anche di quelli –come Usa, Finlandia,
Norvegia e Svezia– che pure pongono molta attenzione alla
trasparenza (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Impugnazioni. Dai giudici di Roma le istruzioni agli
avvocati sulla motivazione «pesante» richiesta dalla legge
134/2012
Appello, serve un ricorso blindato.
L'atto deve indicare tutte le parti contestate della
sentenza e proporre le modifiche.
IL REQUISITO AGGIUNTIVO/
Bisogna specificare le circostanze da cui deriva la
violazione della legge e la loro rilevanza ai fini della
decisione.
L'appello è inammissibile, in base al nuovo articolo 434 del
Codice di procedura civile, se non specifica le parti del
provvedimento impugnato da riesaminare, né indica le
modifiche da effettuare nella sentenza di primo grado.
Lo
sottolinea la sezione lavoro della Corte d'appello di Roma
(presidente e relatore Torrice) in una sentenza del 15
gennaio.
I giudici applicano così le nuove regole sull'atto di
appello introdotte dalla legge 134/2012, di conversione del
decreto legge sullo sviluppo (Dl 83/2012). Secondo le nuove
norme (che valgono sia per le cause civili, sia per quelle
di lavoro), chi si rivolge al giudice di secondo grado non
può più limitarsi a esporre i motivi dell'impugnazione, ma
deve presentare un atto con una motivazione che, a pena di
inammissibilità, contenga «l'indicazione delle parti del
provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che
vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal
giudice di primo grado».
Questo significa –secondo il giudice di Roma– che il
ricorso (o la citazione) in appello deve essere redatto «in
modo più organico e strutturato rispetto al passato, quasi
come una sentenza». In sostanza, non basta più riferirsi
alle sole statuizioni del dispositivo. Bisogna considerare
anche le singole parti della motivazione che non si
condividono e che il primo giudice ha messo a fondamento
della decisione. Per ciascuna di quelle parti, poi, occorre
«suggerire le modifiche che dovrebbero essere apportate»
alla sentenza impugnata. Le parti del provvedimento, dunque,
sono non solo i «capi» in cui si articola la decisione vera
e propria, ma «anche tutti i singoli segmenti» che assumono
rilievo autonomo (cioè di causalità) rispetto alle
statuizioni finali.
Ma non basta. Sempre a pena di inammissibilità, nella
motivazione dell'appello è richiesta anche «l'indicazione
delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e
della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata». Un
requisito, questo, che, secondo la Corte romana, impone
all'appellante di chiarire il rapporto di causa ed effetto
che esiste tra l'ipotetica violazione della norma di diritto
e l'esito della lite.
Nella sentenza si legge ancora che questa interpretazione
della nuova normativa è l'unica idonea ad assicurare la
garanzia della ragionevole durata del processo (articolo 111
della Costituzione), essendo assai più probabile che il
giudice d'appello arrivi in tempi accettabili alla
definizione del processo quanto più i motivi
dell'impugnazione siano conformi allo schema imposto dal
nuovo articolo 434 (e 342) del Codice di rito civile.
Questi principi sono stati affermati nell'ambito di una
causa intentata da un lavoratore per il pagamento di
differenze retributive. La sentenza del tribunale aveva
accertato il livello attribuito da una società al lavoratore
attraverso le attestazioni delle buste-paga, messe a
confronto con le dichiarazioni dei testi.
Aveva poi effettuato un dettagliato conteggio delle
retribuzioni dovute dalla società al lavoratore con
riferimento ai minimi tabellari fissati per il suo livello,
alle ore di lavoro effettive, ai permessi orari dichiarati
ma non realmente fruiti.
Quindi, disattendendo ogni singola contestazione mossa dalla
società ai calcoli delle differenze retributive richiesti
dal lavoratore, aveva accolto il ricorso.
Il datore di lavoro condannato ha presentato un atto di
appello nel quale trascriveva i contenuti della memoria di
costituzione nel giudizio di primo grado.
Aveva descritto lo svolgimento del processo e aveva infine
riproposto le stesse contestazioni già formulate contro i
conteggi proposti dal lavoratore, limitandosi ad affermare
che la decisione impugnata era destituita di fondamento
perché non aveva tenuto conto di quanto dedotto dalla
società a dimostrazione dell'erroneità dei conteggi.
Secondo la corte romana, l'appellante ha indicato le
statuizioni che non condivide, ma «ha omesso di indicare
le modifiche proposte con riferimento a ciascuna parte della
sentenza». Dunque, non ha rispettato il nuovo articolo
434 del Codice di procedura civile (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2013). |
TRIBUTI: Rifiuti. Nelle istruzioni dell'Economia la disciplina
speciale prevale sulle regole del Dl Sviluppo-bis.
Il Comune decide la tariffa.
Le linee guida sulla Tares «ignorano» la competenza degli
Ato.
Dal 1° gennaio è entrata in vigore la Tares, ma sono ancora
pochi i Comuni che hanno approvato il regolamento, e ancor
di meno quelli che hanno approvato le tariffe, complici
anche la proroga a giugno del termine di approvazione del
bilancio di previsione e la scadenza a luglio della prima
bolletta.
Un valido supporto per la predisposizione delle delibere
comunali sono le «Linee guida» per l'applicazione della Tares diffuse dal ministero dell'Economia (si veda anche Il
Sole 24 Ore dell'8 febbraio), nelle quali si analizzano
anche due punti molto controversi: il soggetto competente ad
approvare le tariffe e la definizione di «misurazione
puntuale», nel caso di applicazione della tariffa
corrispettivo.
Sul soggetto legittimato ad approvare le tariffe Tares si
erano create alcune incertezze a causa dell'articolo 34 del
Dl 179/2012, il quale prevede che anche nel settore dei
rifiuti urbani, la «determinazione delle tariffe all'utenza
per quanto di competenza» spetti unicamente agli enti di
governo degli Ato.
Questa disposizione è però completamente ignorata dal
ministero dell'Economia che valorizza invece esclusivamente
la disciplina speciale contenuta nell'articolo 14 del Dl
201/2011, dove si individua come soggetto attivo d'imposta
il Comune e si attribuisce al consiglio comunale la
competenza ad approvare tariffe e regolamento per
l'applicazione del tributo. D'altro canto, sarebbe stato
difficile ipotizzare una scissione tra soggetto che approva
le tariffe e soggetto che approva il regolamento, visto che
le scelte regolamentari, come le riduzioni e le esenzioni,
inevitabilmente si riflettono sulle tariffe.
Sulla tempistica, il ministero ribadisce che la delibera di
approvazione delle tariffe costituisce un atto autonomo e
precedente rispetto all'approvazione del bilancio, non
risultando configurabile un'approvazione implicita delle
tariffe con il varo del bilancio. Le affermazioni,
condivisibili in punto di diritto, non considerano però che
le tariffe devono essere approvate sulla base di un piano
finanziario redatto dal gestore e approvato dall'Ato; se i
due soggetti, in assenza di un termine fissato per legge,
non redigono e non approvano il piano, il Comune è
impossibilitato ad approvare le tariffe.
In questa
situazione, dando atto dell'impossibilità di approvare le
tariffe per assenza del piano finanziario, sarebbe legittimo
approvare il bilancio preventivando un'entrata pari al costo
presunto del servizio, rinviando a un secondo momento
l'approvazione delle tariffe, fermo restando che queste
dovranno comunque essere approvate entro il 30.06.2013.
È evidente poi che in sede di approvazione delle tariffe,
eventuali scostamenti tra entrate o costi inizialmente
iscritti in bilancio andranno corretti con una delibera di
variazione di bilancio.
Altra importante precisazione contenuta nelle linee guida
riguarda la tariffa corrispettivo. Il Comune, se ha
realizzato sistemi di misurazione puntuale della quantità di
rifiuti conferiti al servizio pubblico, può prevedere
l'applicazione di una tariffa corrispettivo. Il ministero ha
condivisibilmente ritenuto che l'aggettivo «puntuale»
comporti il riferimento ai rifiuti «effettivamente
prodotti -o meglio conferiti- dalla singola utenza».
Eventuali altri criteri di misurazione medi o presuntivi non
legittimano la tariffa corrispettivo (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI:
L'Imu dei rurali spetta ai sindaci
L'«INFORTUNIO»/
La riserva statale sostenuta dalle Finanze nelle risposte di
Telefisco non trova giustificazioni nella normativa.
La riserva d'imposta statale dell'Imu, pari allo 0,2% sui
fabbricati rurali di categoria D, non è prevista da nessuna
norma di legge e pertanto non può essere applicata. Né allo
scopo è sufficiente una risposta delle Finanze a un quesito
di Telefisco (si veda Il Sole 24 Ore del 1° febbraio). Il
dipartimento, per quanto autorevole, non è legibus solutus.
Il problema nasce dal comma 380 dell'articolo unico della
legge di stabilità 2013 (legge 228/2012). In forza di tale
norma, l'Imu è interamente attribuita ai Comuni, con la sola
eccezione di una quota di imposta in favore dello Stato,
calcolata in misura pari allo 0,76% sui soli fabbricati di
categoria D. Per evitare di creare eccessivi cali di gettito
nei Comuni ad alta intensità industriale o ricettiva, è
inoltre previsto che le amministrazioni possano elevare
dello 0,3% l'aliquota base, introitando l'intera eccedenza
deliberata.
Si è posto il quesito se la riserva in esame fosse
applicabile anche ai fabbricati rurali strumentali,
classificati nella categoria D10, atteso che per questi la
legge impone l'aliquota massima dello 0,2%. Stante la
chiarezza della disposizione di legge, è tuttavia evidente
che le soluzioni al quesito possono essere solo due: o la
quota statale dello 0,76% si applica oppure non si applica.
Non pare proprio che possa neppure prospettarsi una terza
via, che individui una quota diversa da quella di legge.
Si è dell'avviso che la risposta corretta è quella di
escludere i rurali strumentali dalla riserva statale, per
una pluralità di ragioni. In primo luogo, l'aliquota massima
di legge è in questo caso dello 0,2%, ed è evidente che una
compartecipazione statale al gettito del tributo comunale
non può mai risolversi in una surrettizia elevazione
dell'aliquota legale.
La legge di stabilità individua la misura della riserva
statale richiamando il comma 6 dell'articolo 13, D.L. n.
201/2011, mentre i rurali strumentali sono nel comma 8.
La risposta data dalle Finanze ai quesiti di Telefisco
appare pertanto spiazzante e priva di supporto normativo.
Secondo il Dipartimento delle politiche fiscali, infatti,
per i fabbricati rurali di categoria D la riserva statale
sussiste ma opera nei limiti dello 0,2%. La risposta sembra
per di più adombrare la possibilità che il comune intervenga
sull'aliquota, riducendola allo 0,1%. È però evidente che
una delibera comunale non può mai avere effetto su di una
quota statale.
Ne deriva che sugli immobili D rurali l'intero gettito deve
essere attribuito ai comuni.
Quanto ai controlli sui fabbricati D, premesso che potrebbe
dubitarsi dell'estensione della quota erariale anche al
gettito da accertamento, è ovvio che essi spettino agli enti
locali. L'interesse del Comune potrebbe consistere
nell'acquisizione del gettito afferente alle sanzioni, posto
che la riserva dello Stato riguarda unicamente l'imposta (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA:
Dalla L. 28.01.1977 n.
10, la comunicazione del parere favorevole della Commissione
edilizia -atto tipicamente endoprocedimentale del tutto
privo di una propria autonomia funzionale e strutturale- non
ha più né formalmente, né sostanzialmente valore
provvedimentale di atto di assentimento della concessione
edilizia richiesta.
Il parere della C.E. e gli atti endoprocedimentali non
possono essere considerati equivalenti e non possono avere,
anche implicitamente, un rilievo autorizzatorio in quanto
solo il perfezionamento dell’iter normativo avrebbe
consentito l’edificazione legittima.
In linea preliminare si osserva che, dalla L. 28.01.1977 n.
10, la comunicazione del parere favorevole della Commissione
edilizia -atto tipicamente endoprocedimentale del tutto
privo di una propria autonomia funzionale e strutturale- non
ha più né formalmente, né sostanzialmente valore
provvedimentale di atto di assentimento della concessione
edilizia richiesta (cfr. Consiglio di Stato sez. IV
10.05.2011 n. 2759; Consiglio di Stato sez. IV 07.02.2011 n.
813; Consiglio Stato sez. V 04.03.2008 n. 881).
Il parere della C.E. e gli atti endoprocedimentali non
possono essere considerati equivalenti e non possono avere,
anche implicitamente, un rilievo autorizzatorio in quanto
solo il perfezionamento dell’iter normativo avrebbe
consentito l’edificazione legittima.
In tale prospettiva anche l’eventuale inerzia del Comune è
del tutto inconferente in quanto una costruzione eseguita
senza che sia stato emesso il permesso è, in ogni caso,
abusiva anche in presenza di un parere favorevole della
C.E.C. .
Devono poi essere del tutto disattese le insinuazioni sul
comportamento contraddittorio e sviatorio
dell’amministrazione dato che l’intervento realizzato era
solo l’ultimo di una lunga serie di abusi che avevano dato
luogo ad un’estesa lottizzazione abusiva materiale. Al
riguardo basti ricordare le considerazioni sulla complessiva
vicenda di cui alle sentenze infra partes, decise in
data odierna in senso sfavorevole agli appellanti, sulle
sentenze del TAR che ritenevano legittimi i provvedimenti di
annullamento in autotutela dei provvedimenti di sanatoria
(es. rispettivamente sui ricorsi riuniti n. 7959/2008; n.
7960/ 2008; n. 7961/2008, n. 7962/2008; n. 7963/2008; n.
7967/ 2008; n. 7964/2008) e sulla lottizzazione (n.
7964/2008 ).
Né ha alcun rilievo l’asserita inattività
dell’Amministrazione in quanto, in caso di inerzia
dell’Amministrazione, si sarebbe semmai dovuto esperito il
rimedio avverso l’inerzia della P.A., (cfr. Consiglio Stato
sez. V 03.12.2010 n. 8404).
Non può ravvisarsi né alcuna violazione dell’art. 7 della
legge n. 47/1985, né si rinviene un intento sviatorio o
persecutorio da parte del Comune. L'esercizio del potere
repressivo degli abusi edilizi costituisce attività
obbligatoria per legge della p.a. con la conseguenza che i
relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione,
costituiscono atti vincolati (cfr. Consiglio di Stato Sez. V
06.06.2012 n. 3337) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.02.2013 n. 1111 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L’accesso ai documenti amministrativi costituisce
“principio generale dell’attività amministrativa, al fine di
favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e
la trasparenza”, pur richiedendosi per l’accesso un
“interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad
una situazione giuridicamente tutelata, collegata al
documento al quale è chiesto l’accesso”, con inammissibilità
delle istanze di accesso “preordinate ad un controllo
generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”,
essendo tale controllo estraneo alle finalità, perseguite
attraverso l’istituto di cui trattasi (artt. 22, commi 3,
lettera b, e 24, comma 3 L. n. 241/1990 cit.).
A norma del già ricordato art. 24, comma 7 della legge n. 241/1991,
infatti, “deve…essere garantito ai richiedenti l’accesso ai
documenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria
per curare o per difendere i propri interessi giuridici”;
nel caso di “documenti contenenti dati sensibili e
giudiziari”, poi, la medesima norma precisa che l’accesso è
consentito solo “nei limiti in cui sia strettamente
indispensabile” (in esito ad un sostanziale bilanciamento di
interessi, operato già a livello legislativo).
Il tenore letterale e la ratio della disposizione
legislativa in questione impongono un’attenta valutazione –da effettuare caso per caso– circa la stretta funzionalità
dell’accesso alla salvaguardia di posizioni soggettive
protette, che si assumano lese, con ulteriore salvaguardia,
attraverso i limiti così imposti, degli altri interessi
coinvolti, talvolta rispondenti a principi di pari rango
costituzionale rispetto al diritto di difesa.
In tale ottica
solo una lettura rigorosa –che escluda la prevalenza
acritica di esigenze difensive genericamente enunciate, ma
riconosca tali esigenze come prevalenti, ove realmente
funzionali al diritto di difesa– appare idonea a sottrarre
la medesima norma a dubbi di costituzionalità, per
irragionevole sacrificio di interessi protetti di rilevanza
costituzionale e comunitaria (cfr. al riguardo, per il
principio, Cons. St., Ad. Plen. 04.02.1997, n. 5; Cons.
St., sez. VI, 24.03.1998, n. 498, 26.01.1999, n. 59,
20.04.2006, n. 2223; 27.10.2006, n. 6440, 13.12.2006, n. 7389; Cons. St., sez. V, 21.10.1998,
n. 1529).
L’accesso ai documenti amministrativi, d’altra parte,
costituisce “principio generale dell’attività
amministrativa, al fine di favorire la partecipazione e di
assicurarne l’imparzialità e la trasparenza”, pur
richiedendosi per l’accesso un “interesse diretto,
concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata, collegata al documento al quale è
chiesto l’accesso”, con inammissibilità delle istanze di
accesso “preordinate ad un controllo generalizzato
dell’operato delle pubbliche amministrazioni”, essendo
tale controllo estraneo alle finalità, perseguite attraverso
l’istituto di cui trattasi (artt. 22, commi 3, lettera b, e
24, comma 3 L. n. 241/1990 cit.) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 22.02.2013 n. 1095 - link a
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EDILIZIA
PRIVATA:
Si intendono per volumi tecnici esclusi dal
calcolo della volumetria ammissibile i locali completamente
privi di una propria autonomia funzionale, anche potenziale,
i quali risultano esclusivamente destinati a contenere
impianti serventi alla costruzione principale, che per
esigenze di funzionalità non possono essere inglobati nel
corpo della costruzione.
Rileva il Collegio che appare nella specie decisivo l’esame
della “Relazione tecnica descrittiva” presentata
dalla società ricorrente in sede di istanza per
l’accertamento di conformità e di compatibilità
paesaggistica, la quale dà compiuta descrizione dei 19
interventi realizzati senza titolo edilizio dalla società
medesima.
Siamo in presenza di interventi di “ampliamento di
ufficio esistente” “il tutto per una superficie utile
di mq 14.34 e una volumetria di mc 38.22”; di “ampliamento
di laboratorio” “per una superficie utile di mq 44.00
e una volumetria di mc 187.72”; nonché di realizzazione
di tettoie, recinzioni, porticati, ampliamenti di capannoni,
realizzazione di w.c. oltre che di locali per il ricovero di
legname e altro.
Dunque non sussistono dubbi che nella specie siano stati
realizzati interventi edilizi con realizzazione di nuove
superficie utili e nuova volumetria, ciò risultando dalla
stessa relazione tecnica promanante dalla società
ricorrente. La tesi difensiva di parte ricorrente è tuttavia
che nella specie si sarebbe in presenza di <volumi
tecnici>, come tali esclusi dal calcolo della volumetria
ammissibile. Ma la tesi non convince.
Si intendono per volumi tecnici esclusi dal calcolo della
volumetria ammissibile i locali completamente privi di una
propria autonomia funzionale, anche potenziale, i quali
risultano esclusivamente destinati a contenere impianti
serventi alla costruzione principale, che per esigenze di
funzionalità non possono essere inglobati nel corpo della
costruzione (da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 08.01.2013, n.
32).
Nella specie non risulta affatto provato che gli interventi
edilizi realizzati avessero quelle caratteristiche (essere
destinati in via esclusiva a contenere impianti serventi non
altrimenti collocabili nell’immobile) ed anzi la descrizione
contenuta nella relazione tecnica allegata all’istanza
amministrativa, cui sopra si è fatto riferimento, mostra
chiaramente come nella fattispecie in esame si trattai
palesemente di superficie realizzate con autonoma
funzionalità e quindi estranee al concetto di <volume
tecnico> (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 22.02.2013 n. 288 - link a
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INCARICHI
PROFESSIONALI: I
giudici contabili possono sindacare sulle consulenze.
Danno erariale a carico dei manager pubblici che affidano
incarichi a professionisti esterni a meno che non sussista
«impossibilità oggettiva» di svolgere l'attività all'interno
dell'ente. Quindi la Corte dei conti può sindacare sulla
necessità dei consulenti esterni.
Lo hanno stabilito le
Sezioni unite civili della Corte di Cassazione che, con la
sentenza
21.02.2013 n. 4283, hanno confermato la
condanna per danno erariale a carico di alcuni
amministratori pubblici che avevano conferito incarichi di
assistenza legale nonostante l'attività potesse essere
svolta all'interno.
Il Collegio esteso è stato quindi chiamato a decidere sui
limiti della Corte dei conti in caso di scelte discrezionali
della pubblica amministrazione. E, se per certi versi ha
ribadito l'insindacabilità di tali scelte per altri ha
ammesso l'ingerenza: sul punto –dice espressamente la
Cassazione– il giudice contabile non vìola i limiti esterni
della sua giurisdizione quando sottopone a giudizio di
responsabilità chi ha conferito incarichi professionali
senza determinazione specifica di contenuto, durata, criteri
e compenso.
Insomma, ad avviso del Massimo consesso di piazza Cavour,
che ha respinto integralmente il ricorso della difesa, non
eccede la giurisdizione contabile non solo la verifica se
l'amministratore abbia compiuto l'attività per il
perseguimento di finalità istituzionali dell'ente, ma anche
se nell'agire amministrativo ha rispettato dette norme e
principi giuridici e dunque la Corte dei conti non viola il
limite giuridico della «riserva di amministrazione» –da
intendere come preferenza tra alternative, nell'ambito della
ragionevolezza, per il soddisfacimento dell' interesse
pubblico– sancito dall'art.1, comma 1, della legge 14
gennaio 1994 n. 20, come modificato dall'art. 3 della legge
23.10.1993 n. 546.
Ferma restando, dicono le stesse
norme, l'insindacabilità nel merito delle scelte
discrezionali nel controllare anche la giuridicità
sostanziale, e cioè l'osservanza dei criteri di razionalità,
nel senso di correttezza e adeguatezza dell'agire, logicità,
e proporzionalità tra costi affrontati e obbiettivi
conseguiti, costituenti al contempo indici di misura del
potere amministrativo e confini del sindacato
giurisdizionale, dell'esercizio del potere discrezionale.
La vicenda riguarda alcuni ex vertici della Unire che
avevano affidato a legali esterni di seguire un contenzioso
di fronte al Tar e poi al Consiglio di stato. La consulenza
era costata all'ente oltre 200 mila euro. Per questo il
procuratore presso la Corte dei conti ha contestato ai
manager il danno erariale. La difesa ha sostenuto che il
giudice contabile non può invadere la sfera discrezionale
dell'ente. Ma la Cassazione non ha condiviso la tesi e ha
respinto integralmente il ricorso.
Se da un lato Piazza Cavour ribadisce che non si può entrare
nel merito delle decisioni degli enti pubblici dall'altro
sostiene che se la consulenza poteva essere fatta da un
interno si configura il danno erariale
(articolo ItaliaOggi del
22.02.2013). |
COMPETENZE
PROGETTUALI: Sentenza
della Corte Ue. Ingegneri con le mani legate.
Attività preclusa sugli immobili di interesse artistico.
Una normativa nazionale sull'esercizio di un'attività
professionale non può aggiungere titoli diversi rispetto a
quelli stabiliti da una direttiva comunitaria. E quindi, nel
caso specifico italiano, le competenze degli ingegneri
civili non possono essere estese alle attività che
riguardano gli immobili di interesse artistico che restano
prerogativa degli architetti.
A stabilirlo, la Corte di giustizia Europea che, con la
sentenza 21.02.2013 n. C-111/12, V Sez., cerca di
dirimere un annoso contenzioso che ha visto coinvolti il
Consiglio nazionale degli ingegneri e quello degli
architetti e ha portato a due pronunce contrastanti del Tar
Veneto, ad altrettanti ricorsi davanti al Consiglio di stato
e a un'ordinanza del 2004 della Corte di giustizia europea.
Il punto di partenza è che in Italia, la normativa contenuta
nel regio decreto n. 2537 del 1925, stabilisce che gli
ingegneri italiani non sono equiparati agli architetti, in
materia di immobili di interesse artistico, in apparente
contrasto con le regole comunitarie. La sentenza, però, su
questo punto è chiara sottolineando come la direttiva 85/384
non si propone di disciplinare le condizioni di accesso alla
professione né la natura delle attività svolte. Spetta
quindi allo stato ospitante individuare le attività
rientranti in tale settore, anche se, da tale competenza
dello stato ospitante, «non può dedursi che la direttiva
85/384 gli consenta di subordinare l'esercizio delle
attività su immobili di interesse artistico alla verifica
delle qualifiche degli interessati in questo settore».
Se, dunque, si stabilisce il principio che lo stato membro
ospitante non può imporre condizioni aggiuntive per
l'esercizio delle attività rientranti nel settore della
professione di architetto, così la Corte europea apre agli
stranieri ingegneri che arrivano in Italia. Per questi,
infatti, l'accesso alle attività riguardanti immobili di
interesse artistico non può essere negato alle persone in
possesso di un diploma di ingegneria civile o di un titolo
analogo rilasciato in uno stato membro diverso dall'Italia.
Ogni paese membro è tenuto, infatti, a riconoscere i diplomi
di laurea rilasciati dagli altri paesi membri, in base alla
direttiva.
E non è possibile, in questo caso, «subordinare
l'esercizio delle attività su immobili di interesse
artistico alla verifica delle qualifiche degli interessati».
Agli ingegneri stranieri, in questo modo, viene riconosciuta
una competenza più ampia rispetto al passato. L'unica
limitazione consiste nel fatto che il loro diploma di laurea
deve essere menzionato nell'elenco della direttiva. Una
pronuncia che, però, crea una situazione contraddittoria
perché di fatto agli ingegneri provenienti da altri paesi
membri vengono, riconosciute prerogative delle quali gli
ingegneri italiani non godono. Gli stranieri, quindi,
potranno lavorare sugli immobili di interesse artistico,
mentre ai professionisti italiani questa possibilità è
ancora negata
(articolo ItaliaOggi del
22.02.2013). |
APPALTI - ATTI
AMMINISTRATIVI:
Attraverso l'istituto
della revoca, ancor prima dell’emanazione dell’art.
21-quinquies della legge 241/1990, l’amministrazione
esercitava il potere di ritiro dei propri provvedimenti per
sopravvenuti motivi di pubblico interesse nonché per
successivi mutamenti della situazione di fatto.
Con l'entrata in vigore dell'art. 21-quinquies della l. n.
241/1990, il legislatore ha accolto una nozione ampia di
revoca del provvedimento amministrativo, prevedendo tre
presupposti alternativi che ne legittimano l'adozione:
a) per sopravvenuti motivi di pubblico interesse;
b) per mutamento della situazione di fatto;
c) per nuova valutazione dell'interesse pubblico originario
(c.d. jus poenitendi).
La revoca di provvedimenti amministrativi è, quindi, oggi
consentita non solo in base a sopravvenienze, ma anche per
una nuova valutazione dell'interesse pubblico originario.
---------------
Costituisce ius receptum il principio secondo cui anche
l’eventuale legittimità dell'atto di revoca
dell'aggiudicazione di una gara, non elimina il profilo
relativo alla valutazione del comportamento della P.A., con
riguardo al rispetto dei canoni di buona fede e correttezza
in senso oggettivo nelle trattative che conducono alla
conclusione del contratto di appalto.
La responsabilità precontrattuale per la revoca della gara è
infatti sempre configurabile, qualora il fine pubblico venga
attuato attraverso un comportamento obbiettivamente lesivo
dei doveri di lealtà, sicché, anche dalla revoca legittima
degli atti di gara, può scaturire l'obbligo di risarcire il
danno, nel caso di affidamento suscitato nell'impresa.
In particolare, l'accertamento della responsabilità
precontrattuale della P.A. non è escluso dalla dichiarata
legittimità del provvedimento di annullamento o di revoca
assunto in via di autotutela, posto che la revoca
dell'aggiudicazione pone al riparo l'interesse pubblico, ma
non quello privato. Permane infatti il legittimo affidamento
suscitato nel privato dagli atti della procedura di evidenza
pubblica, poi rimossi dalla P.A., quando la ricorrente non
poteva non confidare, con correttezza e buona fede, durante
il procedimento di evidenza pubblica, sulla "possibilità" di
diventare affidataria del contratto.
--------------
Nelle gare di appalto il risarcimento danni derivanti da
responsabilità precontrattuale riguarda il solo interesse
negativo, ossia le spese inutilmente sostenute in previsione
della conclusione del contratto e le perdite sofferte per
non aver usufruito di ulteriori occasioni contrattuali,
mentre non è risarcibile il mancato utile relativo alla
specifica gara d'appalto revocata.
In linea con l'inquadramento di tale responsabilità
nell'ambito della responsabilità aquiliana, la prova di tali
danni spetta alla parte lesa.
Ciò posto, è necessario precisare che l’atto di ritiro del predetto
Bando, impugnato con il presente ricorso, al di là del nomen
juris deve intendersi quale “revoca” del medesimo atto.
Ed invero attraverso tale istituto, ancor prima
dell’emanazione dell’art. 21-quinquies della legge 241/1990,
l’amministrazione esercitava il potere di ritiro dei propri
provvedimenti per sopravvenuti motivi di pubblico interesse
nonché per successivi mutamenti della situazione di fatto.
Con l'entrata in vigore dell'art. 21-quinquies della l. n.
241/1990, il legislatore ha accolto una nozione ampia di
revoca del provvedimento amministrativo, prevedendo tre
presupposti alternativi che ne legittimano l'adozione:
a)
per sopravvenuti motivi di pubblico interesse;
b) per
mutamento della situazione di fatto;
c) per nuova
valutazione dell'interesse pubblico originario (c.d. jus
poenitendi).
La revoca di provvedimenti amministrativi è,
quindi, oggi consentita non solo in base a sopravvenienze,
ma anche per una nuova valutazione dell'interesse pubblico
originario (TAR Puglia Lecce Sez. III, 25-01-2012, n.
139).
---------------
Ed invero, costituisce ius receptum il principio secondo cui anche l’eventuale
legittimità dell'atto di revoca dell'aggiudicazione di una
gara, non elimina il profilo relativo alla valutazione del
comportamento della P.A., con riguardo al rispetto dei
canoni di buona fede e correttezza in senso oggettivo nelle
trattative che conducono alla conclusione del contratto di
appalto.
La responsabilità precontrattuale per la revoca della gara è
infatti sempre configurabile, qualora il fine pubblico venga
attuato attraverso un comportamento obbiettivamente lesivo
dei doveri di lealtà, sicché, anche dalla revoca legittima
degli atti di gara, può scaturire l'obbligo di risarcire il
danno, nel caso di affidamento suscitato nell'impresa. In
particolare, l'accertamento della responsabilità
precontrattuale della P.A. non è escluso dalla dichiarata
legittimità del provvedimento di annullamento o di revoca
assunto in via di autotutela, posto che la revoca
dell'aggiudicazione pone al riparo l'interesse pubblico, ma
non quello privato. Permane infatti il legittimo affidamento
suscitato nel privato dagli atti della procedura di evidenza
pubblica, poi rimossi dalla P.A., quando la ricorrente non
poteva non confidare, con correttezza e buona fede, durante
il procedimento di evidenza pubblica, sulla "possibilità" di
diventare affidataria del contratto (Cons. Stato Sez. IV,
07-02-2012, n. 662; TAR Puglia Bari Sez. I, 19-10-2011,
n. 1552).
Orbene, se è vero che nel caso in esame, anche ad accedere
alla tesi dell’amministrazione (cfr. punto 4 del verbale
n. 101del 19.06.2009, pubblicato sull’albo scolastico, in cui
si da atto che “al bando…..hanno risposto due ditte”), la
ricorrente aveva quantomeno il 50% delle chances di
aggiudicazione della gara, ciò non può ritenersi sufficiente
per determinare l’accoglimento della relativa pretesa.
Ed
invero, nelle gare di appalto –a cui la presente può
assimilarsi- il risarcimento danni derivanti da
responsabilità precontrattuale riguarda il solo interesse
negativo, ossia le spese inutilmente sostenute in previsione
della conclusione del contratto e le perdite sofferte per
non aver usufruito di ulteriori occasioni contrattuali,
mentre non è risarcibile il mancato utile relativo alla
specifica gara d'appalto revocata. In linea con
l'inquadramento di tale responsabilità nell'ambito della
responsabilità aquiliana, la prova di tali danni spetta alla
parte lesa (TAR Campania Napoli Sez. VIII, 03-10-2012, n.
4017; TAR Abruzzo L'Aquila Sez. I, 29-03-2012, n. 198;
TAR Piemonte Torino Sez. I, 02-03-2012, n. 289; TAR
Veneto Venezia Sez. II, 08-09-2011, n. 1372; Cass. civ. Sez.
III, 29-07-2011, n. 16735). Orbene, nel caso in esame la
ricorrente non ha dimostrato la perdita di ulteriori
occasioni favorevoli, né l’ammontare effettivo delle spese
sostenute per partecipare alla gara
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis,
sentenza 20.02.2013 n. 1874 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Con riguardo alla
questione della disciplina urbanistica da far valere in
occasione del riesame di un progetto edilizio, conseguente
all’annullamento del diniego di concessione o alla
declaratoria del silenzio-rifiuto serbato
dall’Amministrazione, nella ricerca di un punto di giusto
equilibrio tra due principi di eguale valore (da un lato,
effettività della tutela giurisdizionale, dalla quale
discende la regola che gli effetti della sentenza risalgono
al momento della proposizione della domanda; dall’altro,
preminenza dell’interesse pubblico sugli interessi privati,
seppur meritevoli di tutela), l’Adunanza plenaria ha
ritenuto che:
● restano inopponibili all’interessato le modificazioni
della normativa di piano intervenute successivamente alla
notificazione della sentenza di accoglimento del ricorso;
● quando la nuova normativa sia opponibile, deve
riconoscersi al privato, che abbia ottenuto un giudicato
favorevole, un interesse pretensivo a che l’Amministrazione
valuti la possibilità di introdurre una variante che
recuperi, in tutto o in parte, l’originaria previsione del
piano abrogato, posta a suo tempo a base della domanda di
concessione.
---------------
Lo jus aedificandi, quale facoltà compresa nel diritto di
proprietà dei suoli, rappresenta un interesse sottoposto a
conformazione da parte della legge e della Pubblica
amministrazione, in funzione dei molteplici interessi
-pubblici e privati- diversi da quelli del proprietario del
suolo, che sono coinvolti dall'edificazione privata, e che
tale conformazione discende non solo dalla normativa di
carattere urbanistico-edilizio, ma anche da altre normative
settoriali.
Di conseguenza l’Amministrazione, nel nuovo esercizio del
proprio potere, dovrà tenere conto degli eventuali vincoli e
limiti diversi e ulteriori rispetto alla disciplina
urbanistica in senso stretto che, in quanto siano
applicabili anche se sopravvenuti (quali, in linea di
massima, le prescrizioni sanitarie, anti-sismiche, i vincoli
a tutela delle bellezze naturali e di beni di interesse
storico e artistico), debbano essere valutati al momento in
cui la domanda viene esaminata.
La sentenza impugnata, l’appello e la contrapposta difesa ruotano tutti
attorno al tema della concreta applicazione dei principi
enunciati dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con
la sentenza 08.01.1986, n. 1, con riguardo alla
questione della disciplina urbanistica da far valere in
occasione del riesame di un progetto edilizio, conseguente
all’annullamento del diniego di concessione o alla
declaratoria del silenzio-rifiuto serbato
dall’Amministrazione.
Nella ricerca di un punto di giusto equilibrio tra due
principi di eguale valore (da un lato, effettività della
tutela giurisdizionale, dalla quale discende la regola che
gli effetti della sentenza risalgono al momento della
proposizione della domanda; dall’altro, preminenza
dell’interesse pubblico sugli interessi privati, seppur
meritevoli di tutela), l’Adunanza plenaria ha ritenuto che:
●
restano inopponibili all’interessato le modificazioni della
normativa di piano intervenute successivamente alla
notificazione della sentenza di accoglimento del ricorso;
●
quando la nuova normativa sia opponibile, deve riconoscersi
al privato, che abbia ottenuto un giudicato favorevole, un
interesse pretensivo a che l’Amministrazione valuti la
possibilità di introdurre una variante che recuperi, in
tutto o in parte, l’originaria previsione del piano
abrogato, posta a suo tempo a base della domanda di
concessione.
L’insegnamento dell’Adunanza generale ha trovato, da allora
in poi, puntuale applicazione (si vedano ad es. Cons. Stato,
30.06.2004, n. 4804; Id., sez. IV, 24.12.2008, n.
6535).
Nel caso di specie, la sentenza n. 3 del 1992 ha annullato
il diniego per essere questo fondato su una disciplina
urbanistica non ancora in vigore.
Il successivo provvedimento di diniego, impugnato in questa
sede, rinvia al P.R.G. del 1994-1995, dunque a uno strumento
di programmazione urbanistica entrato in vigore
successivamente alla sentenza prima ricordata (il dato di
fatto non è in discussione).
Su queste premesse, la circostanza su cui si fonda la difesa
del Comune (cioè la mancata presentazione di un’istanza di
variante) non è conclusiva, posto che, nel quadro
concettuale elaborato dall’Adunanza plenaria, il nuovo Piano
non era comunque opponibile al privato.
---------------
Per completezza, va
ricordato che lo jus aedificandi, quale facoltà compresa nel
diritto di proprietà dei suoli, rappresenta un interesse
sottoposto a conformazione da parte della legge e della
Pubblica amministrazione, in funzione dei molteplici
interessi -pubblici e privati- diversi da quelli del
proprietario del suolo, che sono coinvolti dall'edificazione
privata, e che tale conformazione discende non solo dalla
normativa di carattere urbanistico-edilizio, ma anche da
altre normative settoriali.
Di conseguenza –come già chiariva la più volte citata
decisione dell’Adunanza plenaria n. 1 del 1986–
l’Amministrazione, nel nuovo esercizio del proprio potere,
dovrà tenere conto degli eventuali vincoli e limiti diversi
e ulteriori rispetto alla disciplina urbanistica in senso
stretto che, in quanto siano applicabili anche se
sopravvenuti (quali, in linea di massima, le prescrizioni
sanitarie, anti-sismiche, i vincoli a tutela delle bellezze
naturali e di beni di interesse storico e artistico),
debbano essere valutati al momento in cui la domanda viene
esaminata
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.02.2013 n. 1007 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
La circostanza che il
dipendente abbia effettuato prestazioni eccedenti l'orario
d'obbligo non è da sola sufficiente a radicare il suo
diritto alla retribuzione e l'obbligo dell'amministrazione
di corrisponderla; ciò dal momento che, altrimenti, si
determinerebbe l'equiparazione del lavoro straordinario
autorizzato con quello per il quale non è intervenuto alcun
provvedimento autorizzativo, compensando attività lavorative
svolte in via di fatto, ma non rispondenti ad alcuna
riconosciuta necessità, mentre invece la retribuibilità del
lavoro straordinario è in via di principio condizionata
all'esistenza di una formale autorizzazione allo svolgimento
di prestazioni eccedenti l'ordinario orario di lavoro, la
quale svolge una pluralità di funzioni, tutte riferibili
alla concreta attuazione dei principi di legalità,
imparzialità e buon andamento, cui, ai sensi dell'art. 97
cost., deve essere improntata l'azione della p.a.; solo in
via eccezionale si consente l'espletamento di esso senza
preventiva autorizzazione in caso di improcrastinabili
esigenze di servizio, purché intervenga autorizzazione
postuma a sanatoria.
E’ noto invero come, nell'ambito del rapporto di pubblico impiego, la
circostanza che il dipendente abbia effettuato prestazioni
eccedenti l'orario d'obbligo non sia da sola sufficiente a
radicare il suo diritto alla retribuzione e l'obbligo
dell'amministrazione di corrisponderla; ciò dal momento che,
altrimenti, si determinerebbe l'equiparazione del lavoro
straordinario autorizzato con quello per il quale non è
intervenuto alcun provvedimento autorizzativo, compensando
attività lavorative svolte in via di fatto, ma non
rispondenti ad alcuna riconosciuta necessità, mentre invece
la retribuibilità del lavoro straordinario è in via di
principio condizionata all'esistenza di una formale
autorizzazione allo svolgimento di prestazioni eccedenti
l'ordinario orario di lavoro, la quale svolge una pluralità
di funzioni, tutte riferibili alla concreta attuazione dei
principi di legalità, imparzialità e buon andamento, cui, ai
sensi dell'art. 97 cost., deve essere improntata l'azione
della p.a.; solo in via eccezionale si consente
l'espletamento di esso senza preventiva autorizzazione in
caso di improcrastinabili esigenze di servizio, purché
intervenga autorizzazione postuma a sanatoria (cfr., tra le
più recenti, Cons. St., sez. VI, 09.12.2010, n. 8626) (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 19.02.2013 n. 996 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Cassazione.
La lite non giustifica.
L'ordinanza di demolizione va rispettata.
I comproprietari rischiano la condanna penale se
disobbediscono al sindaco lasciando in rovina un edificio,
anche se è in corso una lite ereditaria.
La Corte di
Cassazione (sentenza 18.02.2013 n. 7908, I Sez. penale) ha
così richiamato la piena responsabilità di chi non si cura
dell'incolumità pubblica, nascondendosi dietro i dubbi sulle
quote proprietarie.
La questione non è di poco conto: secondo l'accusa i due
proprietari (padre e figlio) di un fabbricato abitativo in
precarie condizioni statiche, non avevano ottemperato a
un'ordinanza del sindaco del 2005, che imponeva loro di
provvedere alla demolizione di una tettoia in legno
precaria, alla demolizione e consolidamento di altre parti
dell'edificio, alla transennatura e alla presentazione entro
30 giorni dell'asseverazione dei lavori effettuati.
Nella motivazione dell'ordinanza il sindaco, però, parlava
di «igiene» e non di «incolumità» ed è su questo che i
ricorrenti hanno puntato il ricorso in Cassazione, dopo la
condanna subita nel 2009 dal Tribunale di Montevarchi a 150
euro di ammenda per la violazione dell'articolo 650 del
Codice penale (inosservanza dei provvedimenti
dell'Autorità). L'altro motivo di ricorso era basato sul
mancato riconoscimento dell'impossibilità per gli imputati
di ottemperare all'ordinanza per la pendenza di un
contenzioso sulla divisione del bene a seguito di
successione.
La Cassazione ha respinto il ricorso, definendolo
manifestamente infondato: la sostanziale legittimità
dell'ordinanza deriva, infatti, dalla legge 142/1990, che
prevede che il sindaco, adotti provvedimenti urgenti anche
in materia di sanità e igiene per prevenire minacce
all'incolumità. La violazione dell'ordinanza, che peraltro
riguarda tutti i coeredi (per gli altri il processo è ancora
sospeso) per la Cassazione è palese e non giova trincerarsi
dietro la «pretesa impossibilità di adempiere per
l'opposizione dei materiali possessori dell'immobile (...).
Qualsivoglia materiale impedimento andava rimosso
rivolgendosi al giudice civile (...).»
(articolo Il Sole 24 Ore del
19.02.2013). |
APPALTI:
In materia di gare
d'appalto, il dies a quo del termine di prescrizione
quinquennale delle domande di risarcimento dei danni va
individuato non nella data di conoscenza della avvenuta
aggiudicazione, ma dal momento del passaggio in giudicato
della sentenza di annullamento che fa nascere in capo
all'interessato il diritto di chiedere il ristoro del
giudizio derivato dal provvedimento poi annullato.
Secondo la più recente giurisprudenza di questo Consiglio, che il Collegio
condivide, "in materia di gare d'appalto, il dies a quo del
termine di prescrizione quinquennale delle domande di
risarcimento dei danni va individuato non nella data di
conoscenza della avvenuta aggiudicazione, ma dal momento del
passaggio in giudicato della sentenza di annullamento che fa
nascere in capo all'interessato il diritto di chiedere il
ristoro del giudizio derivato dal provvedimento poi
annullato" (Sez III, 12.04.2012 n. 2082; Sez. V,
02.09.2005, n. 4461) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 18.02.2013 n. 966 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’ammissibilità in via di principio dell’avvalimento
interno non implica anche avvalimento implicito, nel senso
che il ricorso all’avvalimento possa avvenire prescindendo
dalle formalità previste dalla disciplina in materia (art.
49 del d. lgs. n. 163 del 2006).
Poiché l’avvalimento integra una mera facoltà, l’impresa che
ha interesse ad avvalersi dell’istituto deve far constare
con la necessaria chiarezza, all’atto di partecipazione alla
singola gara, tale volontà con indicazione del soggetto
sulla cui capacità intende fare affidamento, come pure
specificando i requisiti che di siffatto affidamento
formeranno oggetto e, soprattutto, dovrà rendere di tutto
ciò necessariamente edotta l’amministrazione interessata al
singolo appalto.
In definitiva, evidenti ragioni di certezza non consentono
che l’istituto dell’avvalimento possa operare in mancanza di
dichiarazione esplicita dell’ausiliata e dell’ausiliaria,
non essendo possibile un avvalimento implicito o postumo.
---------------
Il contratto di avvalimento, nell’ambito della disciplina
dei contratti pubblici, essendo un accordo pattizio, assume
rilievo nei confronti della stazione appaltante, ove l’ausiliata
e l’ausiliaria rendano apposita e precisa dichiarazione di
volersi avvalere dell’avvalimento e, quindi, l’una dei
requisiti posseduti da altro soggetto, anche facente parte
del medesimo raggruppamento e quest’ultimo soggetto dichiari
di mettere a disposizione dell’ausiliata detti requisiti.
L’ammissibilità in via di principio dell’avvalimento interno non implica
anche avvalimento implicito, nel senso che il ricorso all’avvalimento
possa avvenire prescindendo dalle formalità previste dalla
disciplina in materia (art. 49 del d. lgs. n. 163 del 2006).
E’ incontestato che SCT non ha dichiarato di volersi
avvalere dei requisiti di Aimeri Ambiente, né è intercorso
tra l’ausiliata e l’ausiliaria alcun accordo in tal senso.
Poiché l’avvalimento integra una mera facoltà, l’impresa che
ha interesse ad avvalersi dell’istituto deve far constare
con la necessaria chiarezza, all’atto di partecipazione alla
singola gara, tale volontà con indicazione del soggetto
sulla cui capacità intende fare affidamento, come pure
specificando i requisiti che di siffatto affidamento
formeranno oggetto e, soprattutto, dovrà rendere di tutto
ciò necessariamente edotta l’amministrazione interessata al
singolo appalto (Cons. Stato, V, 19.09.2011, n. 5279; III, 16.11.2011, n. 6048).
In definitiva, come rilevato dal TAR, evidenti ragioni di
certezza non consentono che l’istituto dell’avvalimento
possa operare in mancanza di dichiarazione esplicita dell’ausiliata
e dell’ausiliaria, non essendo possibile un avvalimento
implicito o postumo.
Assume l’appellante che l’avvalimento nel caso sarebbe
desumibile dal contratto di costituzione del raggruppamento.
Invero, seppure è ammissibile in via di principio che un
contratto contenga una pluralità di negoziazioni, qualora
siano presenti gli elementi essenziali che
contraddistinguono ciascun negozio, sta di fatto, che nel
caso non risulta sia stato ancora sottoscritto il contratto
di costituzione del raggruppamento, trattandosi di
raggruppamento costituendo e, comunque, non risulta provata
l’esistenza di siffatta negoziazione.
Comunque, il contratto di avvalimento, nell’ambito della
disciplina dei contratti pubblici, essendo un accordo
pattizio, assume rilievo nei confronti della stazione
appaltante, ove l’ausiliata e l’ausiliaria rendano apposita
e precisa dichiarazione di volersi avvalere dell’avvalimento
e, quindi, l’una dei requisiti posseduti da altro soggetto,
anche facente parte del medesimo raggruppamento e
quest’ultimo soggetto dichiari di mettere a disposizione
dell’ausiliata detti requisiti (Cons. Stato, sezione VI, 29.12.2010,
n. 9577)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 18.02.2013 n. 965 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’impresa concorrente, che sia stata
legittimamente esclusa dalla gara, non ha legittimazione né
interesse a contestare l’ammissione di altra concorrente,
posto che non è titolare di una posizione maggiormente
qualificata di quella che si può riconoscere in capo ad un
qualunque altro soggetto che non abbia partecipato alla
gara.
L’impresa concorrente,
che sia stata legittimamente esclusa dalla gara, non ha
legittimazione né interesse a contestare l’ammissione di
altra concorrente, posto che non è titolare di una posizione
maggiormente qualificata di quella che si può riconoscere in
capo ad un qualunque altro soggetto che non abbia
partecipato alla gara (Cons. Stato, ad plen. 07.04.2011,
n. 4; sez. VI, 21.09.2011, n. 5308; IV, 16.11.2011, n. 6053;
sez. V, 28.11.2011, n. 6394)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 18.02.2013 n. 965 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
In tema di azione avverso il silenzio, l’art. 31,
co. 3, cod. proc. amm. dispone: “il giudice può pronunciare
sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo
quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che
non residuano ulteriori margini di esercizio della
discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori
che debbano essere compiuti dall’amministrazione”.
La norma, che cristallizza l’orientamento giurisprudenziale
formatosi in materia sulla base della disciplina di cui
all’art. 2 della legge 07.08.1990, n. 241, vieta perciò al
giudice amministrativo di andare oltre la declaratoria di
illegittimità dell’inerzia e l’ordine di provvedere; di
conseguenza, resta precluso al medesimo giudice il potere di
accertare direttamente la fondatezza della pretesa fatta
valere dal richiedente, sostituendosi all’amministrazione
stessa.
Le uniche deroghe a siffatta regola, in cui nell'ambito del
giudizio sul silenzio il giudice potrà conoscere del merito
sostanziale dell'istanza restata inevasa, sono stabilite
nelle ipotesi di fondatezza o infondatezza manifesta
derivante dal carattere strettamente vincolato e dovuto
dell’atto da adottare, ovvero quando non residuino ulteriori
margini di esercizio della discrezionalità e non siano
necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti
dall’amministrazione; in ogni altra ipotesi la potestà del
giudice non può sovrapporsi alle valutazioni riservate a
quest’ultima.
In tema di azione avverso il silenzio, l’art. 31, co. 3, cod. proc. amm.
dispone: “il giudice può pronunciare sulla fondatezza della
pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di
attività vincolata o quando risulta che non residuano
ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non
sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere
compiuti dall’amministrazione”.
Nei giudizi in parola la norma, che cristallizza
l’orientamento giurisprudenziale formatosi in materia sulla
base della disciplina di cui all’art. 2 della legge 07.08.1990, n. 241, vieta perciò al giudice amministrativo di
andare oltre la declaratoria di illegittimità dell’inerzia e
l’ordine di provvedere; di conseguenza, resta precluso al
medesimo giudice il potere di accertare direttamente la
fondatezza della pretesa fatta valere dal richiedente,
sostituendosi all’amministrazione stessa (cfr. Cons. Stato,
Sez. IV, 24.05.2010, n. 3270).
Le uniche deroghe a siffatta regola, in cui nell'ambito del
giudizio sul silenzio il giudice potrà conoscere del merito
sostanziale dell'istanza restata inevasa, sono stabilite
nelle ipotesi di fondatezza o infondatezza manifesta
derivante dal carattere strettamente vincolato e dovuto
dell’atto da adottare, ovvero quando non residuino ulteriori
margini di esercizio della discrezionalità e non siano
necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti
dall’amministrazione; in ogni altra ipotesi la potestà del
giudice non può sovrapporsi alle valutazioni riservate a
quest’ultima.
A fronte di un’attività adempitiva di sentenza passato in
giudicato, ogni iniziativa sostitutiva dell’organo rimasto
ulteriormente inerte spetta solo al commissario ad acta,
da nominarsi in sede di giudizio di ottemperanza (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 18.02.2013 n. 953 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La disciplina nazionale
relativa all’installazione di impianti di carburante e, in
particolare, quella relativa agli obblighi di distanze
minime (D.lgs. n. 32 del 1998 e legislazione regionale
attuativa cui è rimessa ai sensi dell’art. 1, comma 2, del
medesimo decreto, l’adozione di norme di indirizzo
programmatico attraverso le quali sono introdotti gli
obblighi di rispetto delle distanze minime) è stata
sottoposta ad un severo scrutinio del giudice comunitario in
relazione alle norme ed ai principi posti a tutela della
libertà di stabilimento.
L’art. 43 CE (ora art. 49 TFUE), letto in combinato disposto
con l’art. 48 CE (ora art. 54 TFUE), è stato interpretato
nel senso che una normativa di diritto interno, come quella
italiana, che prevede distanze minime obbligatorie fra gli
impianti stradali di distribuzione di carburanti,
costituisce una restrizione della libertà di stabilimento
sancita dal trattato; una disciplina del genere, infatti,
applicandosi unicamente ad impianti nuovi e non ad impianti
già esistenti prima della sua entrata in vigore, pone
condizioni all’accesso all’attività della distribuzione di
carburanti e, favorendo gli operatori già presenti sul
territorio italiano, è idonea a scoraggiare, se non ad
impedire, l’accesso al mercato da parte di imprenditori
comunitari.
Ed invero, secondo il recente insegnamento della Sezione che il Collegio
pienamente condivide, la disciplina nazionale relativa
all’installazione di impianti di carburante e, in
particolare, quella relativa agli obblighi di distanze
minime (D.lgs. n. 32 del 1998 e legislazione regionale
attuativa cui è rimessa ai sensi dell’art. 1, comma 2, del
medesimo decreto, l’adozione di norme di indirizzo
programmatico attraverso le quali sono introdotti gli
obblighi di rispetto delle distanze minime) è stata
sottoposta ad un severo scrutinio del giudice comunitario in
relazione alle norme ed ai principi posti a tutela della
libertà di stabilimento (cfr. Corte Giustizia Unione
Europea, 11.03.2010, n. 384/08, Attanasio Group).
L’art. 43 CE (ora art. 49 TFUE), letto in combinato disposto
con l’art. 48 CE (ora art. 54 TFUE), è stato interpretato
nel senso che una normativa di diritto interno, come quella
italiana, che prevede distanze minime obbligatorie fra gli
impianti stradali di distribuzione di carburanti,
costituisce una restrizione della libertà di stabilimento
sancita dal trattato; una disciplina del genere, infatti,
applicandosi unicamente ad impianti nuovi e non ad impianti
già esistenti prima della sua entrata in vigore, pone
condizioni all’accesso all’attività della distribuzione di
carburanti e, favorendo gli operatori già presenti sul
territorio italiano, è idonea a scoraggiare, se non ad
impedire, l’accesso al mercato da parte di imprenditori
comunitari.
Né sono stati riconosciuti seriamente applicabili i motivi
imperativi di interesse generale idonei a giustificare
restrizioni alla concorrenza e ciò per diversi ordini di
ragioni.
È stato, infatti, evidenziato che:
a) i limiti rinvenibili nella normativa italiana a tutela
della salute, dell’ambiente, della sicurezza stradale non
sono adeguati e proporzionati posto che si applicano solo ai
nuovi impianti di distribuzione e non a quelli preesistenti;
b) i controlli per la tutela dei su indicati interessi
pubblici possono essere efficacemente demandati al concreto
riscontro dell’autorità competente, senza inadeguate
limitazioni generali basate sul calcolo delle distanze;
c) la tutela dei consumatori, sub specie di
<<razionalizzazione del servizio reso agli utenti della rete
distributiva>>, costituisce un motivo economico e non un
motivo imperativo di interesse generale;
d) in ogni caso tale <<razionalizzazione>> si rivela,
su piano pratico, un espediente per favorire gli operatori
già presenti sul territorio (cfr. in termini sez. V,
23.05.2011, n. 3084) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 15.02.2013 n. 940 - link a
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EDILIZIA
PRIVATA:
Ai fini della
riliquidazione o meno degli oneri di urbanizzazione, l’unico
legittimo presupposto imponibile è costituito dalla
sussistenza o meno dell’eventuale maggiore carico
urbanistico provocato dalla variante, introdotta in un
fabbricato già autorizzato, sicché è illegittima la
richiesta di pagamento solo se non si verifica la variazione
del carico urbanistico, che invece nella specie è pienamente
riscontrabile poiché muta la destinazione dell’intero
fabbricato.
In diritto costituisce giurisprudenza pacifica (così Cons. Stato, V, 20.06.2001, n. 3251) che ai fini della riliquidazione o meno
degli oneri di urbanizzazione, l’unico legittimo presupposto
imponibile è costituito dalla sussistenza o meno
dell’eventuale maggiore carico urbanistico provocato dalla
variante, introdotta in un fabbricato già autorizzato, sicché
è illegittima la richiesta di pagamento solo se non si
verifica la variazione del carico urbanistico, che invece
nella specie è pienamente riscontrabile poiché muta la
destinazione dell’intero fabbricato (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.02.2013 n. 918 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Il vicino
controinteressato non è un soggetto contemplato tra quelli a
cui va inviata la comunicazione di avvio del procedimento
per il rilascio di un titolo edilizio, ai sensi dell'art. 7,
l. n. 241 del 1990, pur se lo stesso già risulti essersi
opposto in precedenti occasioni all'attività edilizia
dell'altro soggetto confinante.
Non vi è, infatti, identità tra le posizioni di coloro che
siano legittimati ad impugnare il provvedimento finale di
concessione e coloro che possono intervenire o hanno titolo
a ricevere l'avviso di avvio del procedimento.
Infatti, ove sia stata proposta una domanda di concessione
edilizia o di altro titolo abilitativo, che tra l’altro
viene rilasciato con espressa salvezza dei diritti dei
terzi, il vicino del richiedente o il soggetto legittimato
possono intervenire nel procedimento ed impugnare il
provvedimento che accoglie l'istanza, ma non hanno titolo a
ricevere l'avviso di avvio del procedimento.
E’ infondato altresì il vizio dedotto in appello con cui si lamenta il
difetto di comunicazione dell’avvio del procedimento e
quindi la mancanza di partecipazione dell’appellante al
procedimento concessorio, al di là dei profili di interesse
a ricorrere.
In generale, il vicino controinteressato non è un soggetto
contemplato tra quelli a cui va inviata la comunicazione di
avvio del procedimento per il rilascio di un titolo
edilizio, ai sensi dell'art. 7, l. n. 241 del 1990, pur se
lo stesso già risulti essersi opposto in precedenti
occasioni all'attività edilizia dell'altro soggetto
confinante.
Non vi è, infatti, identità tra le posizioni di coloro che
siano legittimati ad impugnare il provvedimento finale di
concessione e coloro che possono intervenire o hanno titolo
a ricevere l'avviso di avvio del procedimento.
Infatti, ove sia stata proposta una domanda di concessione
edilizia o di altro titolo abilitativo, che tra l’altro
viene rilasciato con espressa salvezza dei diritti dei
terzi, il vicino del richiedente o il soggetto legittimato
possono intervenire nel procedimento ed impugnare il
provvedimento che accoglie l'istanza, ma non hanno titolo a
ricevere l'avviso di avvio del procedimento (Cons. St., sez.
VI, 14.03.2002 n. 1533) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.02.2013 n. 916 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
In base al principio
dell'economia dei mezzi giuridici, se l'amministrazione
riscontra vizi nel modus procedendi, che non travolgono
l'intero procedimento ma coinvolgono solo singole fasi,
legittimamente può far ricorso alla regola cardine della
conservazione degli atti validi e di conseguenza, può
limitare l'esercizio dell'autotutela agli atti
effettivamente incisi dalle accertate illegittimità e,
quindi, circoscrivere la rinnovazione del procedimento alle
sole fasi viziate e a quelle successive, conservando
l'efficacia dei precedenti atti legittimi del procedimento.
In linea di principio deve ricordarsi che in base al principio
dell'economia dei mezzi giuridici, se l'amministrazione
riscontra vizi nel modus procedendi, che non travolgono
l'intero procedimento ma coinvolgono solo singole fasi,
legittimamente può far ricorso alla regola cardine della
conservazione degli atti validi e di conseguenza, può
limitare l'esercizio dell'autotutela agli atti
effettivamente incisi dalle accertate illegittimità e,
quindi, circoscrivere la rinnovazione del procedimento alle
sole fasi viziate e a quelle successive, conservando
l'efficacia dei precedenti atti legittimi del procedimento
(tra tante, Consiglio di Stato sez. IV, 26.07.2012, n. 4257)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.02.2013 n. 915 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
L'esercizio del potere di annullamento d'ufficio
di un titolo edilizio deve rispondere ai requisiti di
legittimità codificati nell'art. 21-nonies, l. 07.08.1990 n.
241, consistenti nell'illegittimità originaria del titolo e
nell'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua
rimozione diverso dal mero ripristino della legalità,
comparato con i contrapposti interessi dei privati.
L'esercizio del potere di
annullamento d'ufficio di un titolo edilizio, che
paradossalmente la parte appellante invoca contro i suoi
interessi, deve rispondere ai requisiti di legittimità
codificati nell'art. 21-nonies, l. 07.08.1990 n. 241,
consistenti nell'illegittimità originaria del titolo e
nell'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua
rimozione diverso dal mero ripristino della legalità,
comparato con i contrapposti interessi dei privati (così,
Consiglio di Stato sez. III, 09.05.2012, n. 2683) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.02.2013 n. 915 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'ordine di demolizione di opere edilizie abusive
non deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7, l. n. 241
del 1990, trattandosi di un atto dovuto, che viene emesso
quale sanzione per l'accertamento dell'inosservanza di
disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura
vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e
rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi
di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge
in virtù di un presupposto di fatto, ossia, l'abuso , di cui
il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza,
rientrando nella propria sfera di controllo.
In linea di principi, l'avviso di avvio del procedimento non
è dovuto nel caso di procedimento volto all'irrogazione
della sanzione della demolizione di costruzione eseguita
senza alcun titolo, od attinente ad abusi che non
necessitano di particolari valutazioni discrezionali, ma
comportano un mero accertamento di natura tecnica sulla
consistenza delle opere.
L'ordine di demolizione
di opere edilizie abusive non deve essere preceduto
dall'avviso ex art. 7, l. n. 241 del 1990, trattandosi di un
atto dovuto, che viene emesso quale sanzione per
l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni
urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata
precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente
disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto
volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di
un presupposto di fatto, ossia, l'abuso , di cui il
ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza,
rientrando nella propria sfera di controllo.
In linea di principi, l'avviso di avvio del procedimento non
è dovuto nel caso di procedimento volto all'irrogazione
della sanzione della demolizione di costruzione eseguita
senza alcun titolo, od attinente ad abusi che non
necessitano di particolari valutazioni discrezionali, ma
comportano un mero accertamento di natura tecnica sulla
consistenza delle opere
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.02.2013 n. 915 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
Per un atto c.d. "plurimotivato", anche
l'eventuale fondatezza di una delle argomentazioni addotte
non potrebbe in ogni caso condurre all'annullamento
dell'impugnato provvedimento sindacale, che rimarrebbe
sorretto dal primo versante motivazionale risultato immune
ai vizi lamentati.
---------------
Nel caso di provvedimento di esclusione da una gara
d'appalto "plurimotivato", la riconosciuta legittimità di
una delle ragioni dell'atto è sufficiente a reggere il
provvedimento di estromissione.
----------------
Nel caso in cui il provvedimento impugnato sia fondato su di
una pluralità di autonomi motivi (c.d. provvedimento
plurimotivato), il rigetto della doglianza volta a
contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la
carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle
ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni
giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure
si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe
comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad
ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che
resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto
sussistente.
E’ infatti noto come in presenza di atto plurimotivato anche
la legittimità di una delle motivazioni è da solo idonea a
sorreggerlo, con la conseguenza che alcun rilievo avrebbero
le ulteriori censure volte a contestare gli ulteriori
profili motivazionali (giurisprudenza costante, cfr. TAR
Campania Salerno, sez. II, 17.01.2011, n. 63 secondo
cui “Per un atto c.d. "plurimotivato", anche l'eventuale
fondatezza di una delle argomentazioni addotte non potrebbe
in ogni caso condurre all'annullamento dell'impugnato
provvedimento sindacale, che rimarrebbe sorretto dal primo
versante motivazionale risultato immune ai vizi lamentati";
TAR Campania Napoli, sez. VIII, 14.01.2011, n. 139
secondo cui “Nel caso di provvedimento di esclusione da una
gara d'appalto "plurimotivato", la riconosciuta legittimità
di una delle ragioni dell'atto è sufficiente a reggere il
provvedimento di estromissione”; TAR Campania Napoli,
sez. VII, 14.01.2011, n. 164 secondo cui “Nel caso in
cui il provvedimento impugnato sia fondato su di una
pluralità di autonomi motivi (c.d. provvedimento plurimotivato), il rigetto della doglianza volta a
contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la
carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle
ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni
giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure
si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe
comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad
ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che
resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto
sussistente”) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 08.02.2013 n. 824 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Vanno annoverati fra gli
interventi di nuova costruzione, necessitanti di permesso di
costruire, gli interventi di ricostruzione non fedele della
preesistenza, ovvero diversi nella volumetria e/o nella
sagoma, occorrendo la coincidenza sia della superficie che
della sagoma ai fini della configurabilità di un intervento
di ristrutturazione edilizia, assentibile a mezzo d.i.a..
Infatti per giurisprudenza costante sono interventi di
ristrutturazione edilizia, assentibili a mezzo d.i.a., i
soli interventi di ricostruzione fedele della preesistenza -quanto a volumetria e/o sagoma- in forza della previsione
di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), D.P.R. 380/2001, ultima
parte, secondo cui “Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le
sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica”.
Ne consegue che vanno annoverati fra gli interventi di nuova
costruzione, necessitanti di permesso di costruire, gli
interventi di ricostruzione non fedele della preesistenza,
ovvero diversi nella volumetria e/o nella sagoma, occorrendo
la coincidenza sia della superficie che della sagoma ai fini
della configurabilità di un intervento di ristrutturazione
edilizia, assentibile a mezzo d.i.a..
Lo stesso Consiglio di Stato, con la richiamata sentenza
sez. VI, 15.05.2012 n. 2782, si è inoltre pronunciato
sulla necessità del permesso di costruire, e quindi sulla
configurabilità, nella fattispecie sottoposta alla sua
attenzione, del divieto di cui all’art. 5 l.r. 35/1987, in
relazione ad un intervento di demolizione e ricostruzione
per il quale non risultava provata la fedeltà rispetto alla
preesistenza (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 08.02.2013 n. 824 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Per il soppalco serve il
permesso
Per la realizzazione di un soppalco all'interno di un
immobile è necessario il permesso di costruire. Gli
interventi che vanno a aumentare la superficie utile
dell'immobile sono vere e proprie ristrutturazioni e
richiedono il titolo abilitativo e cioè del permesso di
costruire.
È quanto contenuto nella
sentenza 08.02.2013 n. 720 del Consiglio
di Stato, Sez. VI, che si è espresso su un ricorso
contro l'ordinanza comunale di demolizione.
Il caso: il comune aveva accertato la realizzazione di un
intervento abusivo di ristrutturazione in un immobile del
centro storico. L'intervento consisteva nella realizzazione
di un soppalco in ferro e nel cambio di destinazione d'uso
da magazzino ad abitazione con angolo cottura senza titolo
abilitativo. Per queste ragioni l'amministrazione ha
ordinato la demolizione delle opere abusive e il pagamento
di una somma, a titolo di sanzione 15 mila euro.
Contro
questa decisione gli interessati presentavano ricorso al Tar
e poi al Cds. Di parere opposto il Consiglio di stato, che
ha ricordato come per gli interventi di ristrutturazione
edilizia sia sempre richiesto il permesso di costruire (art.
10, dpr 380/2001). Sono qualificati tali quelli che
comportano aumento di superfici o che, per immobili in zone
omogenee A comportino mutamenti di destinazione d'uso.
L'art. 33 del dpr 380/2001 prevede che, nel caso in cui
vengano eseguiti interventi in assenza di permesso di
costruire, la sanzione irrogata è rimozione o demolizione
(articolo ItaliaOggi del
22.02.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA: Per
la realizzazione di un soppalco è necessario il Permesso di
Costruire.
Lo ha ribadito il Consiglio di Stato - Sez. VI, con la
sentenza 08.02.2013 n. 720, precisando che questo tipo
di intervento produce un aumento di superficie e rientra,
quindi, tra i lavori di ristrutturazione edilizia.
Nel caso specifico, il Comune aveva accertato la
realizzazione di un soppalco abusivo (per la sua struttura e
funzione) all’interno di un immobile del centro storico e il
cambio di destinazione d’uso da magazzino ad abitazione,
senza il permesso di costruire.
L’amministrazione aveva ordinato la demolizione del
manufatto e il pagamento di una sanzione pecuniaria di euro
15.000. Il cittadino aveva presentato ricorso al Tar e poi
appello al Consiglio di Stato sostenendo che il soppalco non
aveva un piano d’appoggio calpestabile e quindi non
comportava un aumento di superficie.
I giudici del CDS, confermando la Sentenza del Tribunale
Amministrativo, rigettano il ricorso dei titolari dei lavori
che avevano ampliato e danno ragione al Comune che chiede la
demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi
(commento tratto da www.acca.it).
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L’art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001 dispone che sono
subordinati al rilascio del permesso di costruire «gli
interventi di ristrutturazione edilizia».
Sono espressamente qualificati tali quelli che, tra l’altro,
comportino un aumento di superfici ovvero che, limitatamente
agli immobili compresi nelle zone omogenee A –come nel caso
in esame– comportino mutamenti della destinazione d’uso. Si
tratta di una previsione di particolare rigore per i centri
storici, finalizzata ad evitare indebite alterazioni dei
loro delicati equilibri abitativi e funzionali.
L’art. 33 prevede che, nel caso in cui vengano eseguiti, tra
l’altro, i suddetti interventi in assenza di permesso di
costruire o in totale difformità da esso, la sanzione
irrogata è quella della rimozione o demolizione, cioè –in
coerenza con detti obiettivi– senz’altro quella
ripristinatoria.
Nel caso in esame la fattispecie contestata rientra
nell’ambito applicativo delle disposizione riportate.
Per quanto attiene al soppalco, lo stesso, per la sua
struttura e funzione, ha comportato un aumento della
superficie utile. Non vale obiettare che in concreto gli
appellanti avrebbero realizzato soltanto una mera
intelaiatura priva del «piano di calpestio». Anche ad
ammettere che questo corrisponda alla reale situazione dei
luoghi, rimane incontestato, come risulta anche dalla stessa
perizia di parte (redatta, peraltro, sulla base di «documentazione
fotografica fornita dalla proprietà»), che fossero state
già realizzate «travi in ferro ad una altezza di circa
due metri con scala in ferro per accesso». Questi
interventi delineano gli elementi strutturali essenziali di
un soppalco.
La circostanza che l’intervento non è stato completato
mediante il piano di copertura non assume rilevanza. In
presenza, infatti, di lavori in corso, sospesi con apposita
ordinanza comunale (nella specie adottata in data
24.01.2012), non è possibile, pena una intrinseca
contraddizione del sistema di repressione degli abusi, fare
leva sul forzoso mancato completamento degli interventi per
dedurne la loro non riconducibilità alle categorie
giuridiche descritte dal d.P.R. n. 380 del 2001. In altri
termini, è sufficiente che, al momento dell’accertamento,
risulti chiaramente, come nella specie, che la finalità
perseguita con gli interventi allora in corso di
espletamento sia quella di realizzare un soppalco affinché
l’amministrazione possa ordinare, come è legittimamente
avvenuto nella fattispecie, la sospensione dei lavori e il
ripristino dello stato dei luoghi.
Per quanto poi attiene all’angolo cottura, lo stesso è pieno
indice, come correttamente posto in rilievo dal primo
giudice, dell’intervenuto mutamento di destinazione da
magazzino ad uso abitativo nell’ambito della detta zona
omogenea A. Né ancora una volta possono assumere rilevanza
la mancanza delle «piastre di cottura e piano di lavoro
munito di lavello, allacci ecc.». E’ sufficiente, per le
ragioni indicate, che gli interventi edilizi eseguiti
delineino la struttura essenziale che si intende realizzare.
Si tenga conto, inoltre, che entrambi gli interventi in
esame (soppalco e angolo cottura) costituiscono elementi
indici di una complessiva attività edilizia volta al
mutamento della destinazione d’uso. Del resto, gli stessi
appellanti, come risulta dalla documentazione prodotta dalla
difesa dell’amministrazione comunale, hanno chiesto il
rilascio del permesso di costruire in esame per gli
interventi eseguiti sull’immobile in esame (link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il diritto di accesso non
è meramente strumentale alla proposizione di una azione
giudiziale, ma ha carattere autonomo rispetto a essa,
cosicché il giudice dell’accesso deve accertare solo
l’esistenza dei presupposti che legittimano la richiesta di
accesso e non anche la necessità di utilizzare gli atti
richiesti in un altro giudizio, ad es. dinanzi al giudice
civile, fermo restando però che la disciplina sull’accesso
non può essere rivolta a tutelare l’interesse a eseguire un
controllo generico e generalizzato sull’attività della
pubblica amministrazione.
Detto altrimenti, la necessaria sussistenza di un interesse
diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
a cui è chiesto l’accesso, alla quale fa riferimento l’art.
22, comma 1, lett. b), della legge 07.08.1990, n. 241, non
significa che l’accesso sia stato configurato dal
legislatore con carattere meramente strumentale rispetto
alla difesa in giudizio della situazione sottostante; esso
assume invece una valenza autonoma, non dipendente dalla
sorte del processo principale e dalla stessa possibilità di
instaurazione di tale processo. In questa prospettiva, il
collegamento tra l’interesse giuridicamente rilevante del
soggetto che richiede l’accesso e la documentazione oggetto
della relativa istanza, sancito dalla norma citata, non può
che essere inteso in senso ampio, posto che la
documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo
utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante,
e non strumento di prova diretta della lesione di tale
interesse.
Si è costituito in giudizio la Società deducendo
l’infondatezza del ricorso.
La ricorrente, a sostegno delle proprie ragioni, richiama la
sentenza della Sezione V del Consiglio di Stato 02.02.2012, n. 554 con la quale si è affermato che “il diritto di
accesso non è meramente strumentale alla proposizione di una
azione giudiziale, ma ha carattere autonomo rispetto a essa,
cosicché il giudice dell’accesso deve accertare solo
l’esistenza dei presupposti che legittimano la richiesta di
accesso e non anche la necessità di utilizzare gli atti
richiesti in un altro giudizio, ad es. dinanzi al giudice
civile, fermo restando però che la disciplina sull’accesso
non può essere rivolta a tutelare l’interesse a eseguire un
controllo generico e generalizzato sull’attività della
pubblica amministrazione. Detto altrimenti, la necessaria
sussistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento a cui è chiesto l’accesso, alla quale
fa riferimento l’art. 22, comma 1, lett. b) della legge 07.08.1990, n. 241, non significa che l’accesso sia stato
configurato dal legislatore con carattere meramente
strumentale rispetto alla difesa in giudizio della
situazione sottostante; esso assume invece una valenza
autonoma, non dipendente dalla sorte del processo principale
e dalla stessa possibilità di instaurazione di tale
processo. In questa prospettiva, il collegamento tra
l’interesse giuridicamente rilevante del soggetto che
richiede l’accesso e la documentazione oggetto della
relativa istanza, sancito dalla norma citata, non può che
essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione
richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la
difesa dell’interesse giuridicamente rilevante, e non
strumento di prova diretta della lesione di tale interesse”.
La sentenza richiamata a sostegno delle proprie ragioni, in
realtà, dimostra l’infondatezza del ricorso proposto dal
dott. R.B..
L’affermazione di principio, contenuta nel precedente
richiamato e dalla quale questo Collegio non intende
discostarsi, è che l’interesse diretto, concreto ed attuale
all’acquisizione del documento prescinde dalla avvenuta
instaurazione di un processo dove utilizzare gli atti.
L’instaurazione del successivo giudizio, che è fatto
meramente eventuale, non è invero un presupposto di un
siffatto interesse (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 08.02.2013 n. 716 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La legittimazione ad
agire in giudizio della singola impresa in associazione –sia
essa mandante o mandataria e sia che il raggruppamento sia
stato già costituito al momento dell'offerta o debba
costituirsi all'esito dell'aggiudicazione– è riconosciuta
dal consolidato e pressoché univoco indirizzo della
giurisprudenza amministrativa.
Il raggruppamento temporaneo di imprese non
istituzionalizza, invero, un soggetto diverso dalle singole
imprese che aggregano le proprie potenzialità economiche,
con capacità di rappresentanza degli interessi del gruppo a
mezzo di organi all'uopo costituiti. La singola impresa è,
quindi, titolare in corso di gara di una posizione di
interesse legittimo al regolare svolgimento della procedura,
che può tutelare anche in caso di inerzia delle altre
imprese associate a proporre congiunta impugnativa.
Ed invero, diversamente da quanto sostiene l’appellante, la
legittimazione ad agire in giudizio della singola impresa in
associazione –sia essa mandante o mandataria e sia che il
raggruppamento sia stato già costituito al momento
dell'offerta o debba costituirsi all'esito
dell'aggiudicazione– è riconosciuta dal consolidato e
pressoché univoco indirizzo della giurisprudenza
amministrativa (cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 05.06.2012, n. 3314; Cons. Stato, sez. VI,
08.10.208,
n. 4931).
Il raggruppamento temporaneo di imprese non
istituzionalizza, invero, un soggetto diverso dalle singole
imprese che aggregano le proprie potenzialità economiche,
con capacità di rappresentanza degli interessi del gruppo a
mezzo di organi all'uopo costituiti. La singola impresa è,
quindi, titolare in corso di gara di una posizione di
interesse legittimo al regolare svolgimento della procedura,
che può tutelare anche in caso di inerzia delle altre
imprese associate a proporre congiunta impugnativa.
Il gravame proposto dalla singola impresa in associazione
non è, inoltre, sfornito di interesse al ricorso. La
presentazione dell’offerta da parte del raggruppamento da
costituire reca l’impegno reciproco delle imprese in
associazione, in caso di aggiudicazione della gara, a
conferire mandato ad una di esse, qualificata come
capogruppo, alla stipula il contratto. Si tratta di
posizione di obbligo il cui assolvimento è esigibile nei
confronti delle altre imprese associate in caso di esito
favorevole dell'impugnativa e che, in caso di inadempimento,
espone l’impresa cha aveva prestato il consento alla
costituzione dell’a.t.i. ATI a possibili pretese
risarcitorie. Tanto basta a suffragare la tesi della
legittimazione della singola impresa in associazione a
reagire nei confronti di della violazione di regole che
presiedono il procedimento di aggiudicazione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 08.02.2013 n. 714 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La violazione delle forme prescritte dall’art. 38
d.P.R. n. 445 del 2000 non integra una mera irregolarità ma,
anche in forza del richiamo a tale disposizioni
espressamente contenuto nella lex specialis, si traduce
nella violazione di una regola di gara espressamente
sanzionata a pena di esclusione.
Va evidenziato che l’art. 38 d.P.R. n. 445 del 2000 prevede
che: “Le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di
notorietà da produrre agli organi della amministrazione
pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi sono
[…] sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica
non autenticata di un documento di identità del
sottoscrittore”.
E’ palese evidente, quindi, che in assenza di sottoscrizione
la dichiarazione sostitutiva non produce effetti perché
risulta priva di un elemento essenziale.
Nel caso di specie, la
lettera di invito, al punto n. 3, richiedeva, da parte delle
imprese partecipanti alla gara, la presentazione, a pena di
esclusione, di una dichiarazione (attestante, in sostanza,
la mancanza delle cause di esclusione), da rendersi, sotto
forma di dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà,
nelle forme previste dall’art. 38 d.P.R. 28.12.2000,
n. 445 del 2000.
La violazione delle forme prescritte dall’art. 38 d.P.R. n.
445 del 2000 non integra, quindi, una mera irregolarità, ma,
anche in forza del richiamo a tale disposizioni
espressamente contenuto nella lex specialis, si traduce
nella violazione di una regola di gara espressamente
sanzionata a pena di esclusione.
Non è corretto, a tal riguardo, sostenere che la lex
specialis sanzionasse a pena di esclusione solo la mancata
presentazione della dichiarazione sostitutiva e non anche la
sua incompletezza o la violazione delle forme previste per
la sua presentazione.
In primo luogo, qui il punto n. 3 della lettera di invito
richiedeva, a pena di esclusione, che la dichiarazione fosse
resa nelle forme di cui all’art. 38 d.P.R. n. 445 del 2000,
con la conseguenza che la violazione dell’art. 38 d.P.R.
cit. integra pienamente, in virtù dell’espresso richiamo
contenuto nella lettera di invito, la violazione di una
prescrizione sanzionata espressamente a pena di esclusione.
Inoltre, nel caso di specie, risulta dirimente la
circostanza che la violazione “formale” di cui si discute
consiste nella mancanza di un elemento essenziale di ogni
dichiarazione, ovvero della sua sottoscrizione, la quale che
rappresenta un insostituibile strumento di imputazione della
dichiarazione al soggetto che ne è autore. In mancanza di
sottoscrizione, quindi, la dichiarazione non può dirsi
semplicemente incompleta o “irregolare”, ma è radicalmente
inesistente.
Va evidenziato, del resto, che l’art. 38 d.P.R. n. 445 del
2000 prevede che: “Le istanze e le dichiarazioni sostitutive
di atto di notorietà da produrre agli organi della
amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di
pubblici servizi sono […] sottoscritte e presentate
unitamente a copia fotostatica non autenticata di un
documento di identità del sottoscrittore”.
E’ palese evidente, quindi, che in assenza di sottoscrizione
la dichiarazione sostitutiva non produce effetti perché
risulta priva di un elemento essenziale.
Non si tratta, in definitiva, di una semplice dichiarazione
incompleta: la mancanza della sottoscrizione, anche se
relativa solo al secondo dei due fogli di cui essa si
compone, rende la dichiarazione presentata inimputabile e
dunque totalmente inidonea ad attestare le circostanze in
essa menzionate. Con riferimento a tali attestazioni,
quindi, essa la dichiarazione deve considerarsi mancante e
tale, pertanto, da determinare l’esclusione dalla gara
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 08.02.2013 n. 714 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'autorizzazione
regionale, riferita all’impianto fotovoltaico, assorbe nel
procedimento unico tutti i permessi, nulla osta e altri atti
di assenso e costituisce titolo unico per la realizzazione
dell’impianto di produzione elettrica, <<delle opere
connesse e delle infrastrutture indispensabili>>.
Pertanto, non è concettualmente corretto affermare –come fa
il Comune nel provvedimento demolitorio impugnato– che dette
strutture (cioè la tettoia fotovoltaica e il sottostante
manufatto in lamiera) siano sfornite di assenso edilizio: è
vero che il Comune non le ha assentite, ma è altresì vero
che l’autorizzazione unica regionale sostituisce ogni altra
forma di autorizzazione o assenso, compreso quello
paesaggistico ed edilizio, e copre anche le opere connesse e
le infrastrutture indispensabili.
Il Comune di Venafro (Is) ha ingiunto alla ricorrente la
demolizione di opere edilizie, senza approfondire la natura,
le caratteristiche e la funzione delle medesime. Invero, la
ricorrente cooperativa ha realizzato due tettoie mobili, una
che sorregge pannelli solari e una consistente in struttura
d’acciaio coperta da telone plastificato.
La prima tettoia –unitamente a un piccolo manufatto in
lamiera, che risulta pure verbalizzato come abusivo- è parte
integrante di un impianto fotovoltaico, regolarmente
autorizzato dalla Regione Molise, con determina dirigenziale
n. 28 del 15.05.2008. Tale autorizzazione regionale,
riferita all’impianto fotovoltaico, assorbe nel procedimento
unico tutti i permessi, nulla osta e altri atti di assenso e
costituisce titolo unico per la realizzazione dell’impianto
di produzione elettrica, <<delle opere connesse e delle
infrastrutture indispensabili>>. Pertanto, non è
concettualmente corretto affermare –come fa il Comune nel
provvedimento impugnato– che dette strutture (cioè la
tettoia fotovoltaica e il sottostante manufatto in lamiera)
siano sfornite di assenso edilizio: è vero che il Comune non
le ha assentite, ma è altresì vero che l’autorizzazione
unica regionale sostituisce ogni altra forma di
autorizzazione o assenso, compreso quello paesaggistico ed
edilizio, e copre anche le opere connesse e le
infrastrutture indispensabili.
La seconda tettoia è situata in zona adiacente a un
preesistente edificio in muratura e serve a coprire un
piazzale dove viene accumulata la sansa prodotta all’interno
dell’oleificio, di cui la ricorrente è titolare, ubicato in
zona E (agricola) del vigente P.R.G. di Venafro. Le capriate
di metallo che sorreggono il telone plastificato scorrono su
binari e consentono la scomparsa della copertura, a fine
stagione, senza che essa sia smontata. Si tratta di un’opera
pertinenziale all’opificio, avente un relativo impatto
visivo, realizzata in esecuzione dell’ordinanza sindacale n.
5 del 23.02.2001, che ha ingiunto alla ricorrente
cooperativa di prevenire l’inquinamento da residui di
lavorazione dell’olio vegetale e ha stabilito che siano
adottati accorgimenti per quanto attiene lo stoccaggio della
sansa sul piazzale, <<che dovrà essere opportunamente
ricoperta e isolata dal piano di calpestio, in modo da
evitare eventuali dilavamenti sul piazzale, conseguenti a
precipitazioni atmosferiche>>. Se è vero che la seconda
tettoia non è stata assentita dal Comune, è altresì vero che
essa è stata realizzata su ordine del Comune, la qual cosa
la rende del tutto legittima, sul piano formale.
I motivi del ricorso sono, pertanto, fondati.
Gli interventi oggetto di provvedimento demolitorio
ineriscono all’esercizio di attività di produzione agricola,
non comportano alterazioni permanenti dello stato dei
luoghi, non alterano l’assetto idrogeologico del territorio.
La prima tettoia ha la funzione di produzione di energia da
fonte alternativa per autoconsumo di un opificio agricolo,
la seconda ha la funzione precipua di evitare l’inquinamento
della falda acquifera da infiltrazioni di percolato di
sansa.
Pertanto, detti interventi s’inquadrano tra le pertinenze
dell’azienda agricola e la loro compatibilità paesaggistica
è resa possibile dalla previsione dell’art. 149, lett. b),
del D.Lgs. 22.01.2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del
paesaggio). In ogni caso, non si può dire che siano
interventi abusivi, poiché il primo è stato autorizzato
dalla Regione Molise, il secondo è stato “ordinato”
dal Sindaco di Venafro.
Sono, dunque, fondate le censure di travisamento, difetto di
istruttoria, difetto di motivazione (TAR Molise,
sentenza 07.02.2013 n. 91 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Condominio. Le norme del regolamento.
Decoro, ok a limiti più severi del Codice.
L'ECCEZIONE/
I vincoli di tipo contrattuale possono superare anche le
previsioni di legge modificate dalla riforma.
Il regolamento condominiale può vietare qualunque
alterazione del decoro architettonico dell'edificio purché
sia di natura contrattuale.
Lo sottolinea la Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
nella
sentenza
24.01.2013 n. 1748.
Alcuni proprietari pro indiviso di
un'unità immobiliare in un edificio, avevano citato in
giudizio il proprietario di una costruzione limitrofa con
giardino, sul quale era stata edificata una struttura in
aderenza all'immobile di loro proprietà, sino all'altezza
del lastrico solare. L'obiettivo era quello di ottenere la
demolizione della struttura, perché questa aveva alterato il
decoro architettonico del complesso edilizio, in violazione
dell'articolo 1120 del Codice civile, della normativa del
Regio decreto 1165 del 1938 e del regolamento condominiale.
Mentre il tribunale accoglieva la domanda, condannando il
convenuto a demolire l'edificazione e a pagare le spese di
lite, la corte di appello, con una decisione basata
sull'articolo 1120 del Codice civile, escludeva la lesione
del decoro architettonico dell'edificio, ritenendo che il
manufatto vi si inserisse perfettamente, non solo perché
riproduceva analoghe strutture, ma perché presentava la
stessa tipologia di immagine, di materiali, di finiture e di
colorazioni dell'intero complesso.
La Cassazione, nell'accogliere parzialmente il ricorso, ha
invece stabilito che in materia di condominio «l'autonomia
privata consente alle parti di stipulare convenzioni che
pongano limitazioni, nell'interesse comune, ai diritti dei condòmini, sia relativamente alle parti comuni, sia riguardo
al contenuto del diritto dominicale sulle parti di loro
esclusiva proprietà, senza che rilevi che l'esercizio del
diritto individuale su di esse si rifletta o meno sulle
strutture o sulle parti comuni. Ne discende che
legittimamente le norme di un regolamento di condominio –aventi natura contrattuale, in quanto predisposte dall'unico
originario proprietario dell'edificio e accettate con i
singoli atti di acquisto dai condomini ovvero adottate in
sede assembleare con il consenso unanime di tutti i
condomini– possono derogare od integrare la disciplina
legale ed in particolare possono dare del concetto di decoro
architettonico una definizione più rigorosa di quella
accolta dall'articolo 1120 del Codice civile».
Questo principio, esposto in precedenti sentenze e ribadito
nella sentenza 1748/2013, è sempre fatto salvo, nonostante
la legge di riforma del condominio, nel modificare
l'articolo 1122 del Codice civile, abbia disposto che,
nell'unità immobiliare di sua proprietà o destinata all'uso
individuale, il condòmino non può eseguire opere che
danneggino le parti comuni o determino pregiudizio alla
stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico
dell'edificio.
Il richiamo allo stesso «pregiudizio» è previsto in
altri due articoli di nuova formulazione: l'articolo
1117-ter (modifica delle destinazioni d'uso delle parti
comuni), e l'articolo 1122-bis (installazione di impianti
non centralizzati di ricezione radiotelevisiva e di
produzione di energia da fonti rinnovabili). Poiché tutti
gli articoli citati sono derogabili, il regolamento di
condominio di natura contrattuale può riportare un concetto
più o meno rigoroso di «decoro architettonico» al
quale ogni condomino dovrà attenersi (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2013). |
APPALTI SERVIZI: Niente
proroga per la gestione di lampade votive.
Non ha alcun diritto alla proroga, fino al 2031, l'impresa
che nel 1971 ha vinto l'appalto concorso per la costruzione
e la gestione dell'impianto di illuminazione votiva del
cimitero. Ciò in quanto, alla fattispecie, si devono
applicare gli artt. 113, comma 15-bis, del dlgs n. 267/2000
e 23-bis, comma 8, del dl n. 112/2008, che prevedono
l'automatica cessazione delle concessioni di servizi
pubblici locali rilasciate con procedure diverse
dall'evidenza pubblica.
La questione è stata posta
all'attenzione del Consiglio di stato, Sez. V, il quale,
con la
sentenza 24.01.2013 n. 435.
Il Collegio ha ricordato come in caso di prestazioni
eterogenee, «vanno individuate quali prestazioni siano
prevalenti e quale sia il nesso direzionale che regola il
rapporto di strumentalità tra le diverse componenti,
stabilendo se la gestione delle opere e degli impianti sia
funzionale e strumentale alla loro realizzazione o alla
gestione del servizio». Nel caso specifico ha avuto
ragione, quindi, il Tar, ad affermare la accessorietà della
componente lavori, rispetto la gestione del servizio, perché
di rilevanza economica non considerevole.
La questione era sorta a seguito dell'affidamento, nato come
concessione di costruzione e gestione perché il Comune non
disponeva di impianto di illuminazione votiva cimiteriale,
attribuendo al concessionario, quale controprestazione per
la realizzazione e gestione dell'impianto e per l'esecuzione
delle lavorazioni richieste, il diritto di gestire
l'impianto e le opere realizzate, che sarebbero rimaste di
proprietà del concessionario sino alla scadenza della
concessione
(articolo ItaliaOggi del
22.02.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Appello, filtro non troppo rigido.
Inammissibile l'impugnazione se palesemente infondata.
Così la giurisprudenza interpreta e applica le
disposizioni del decreto legge sviluppo.
La porta dell'appello è chiusa solo per le impugnazioni
pretestuose. E il giudice di secondo grado non deve basarsi
su impressioni superficiali per sbarrare le porte a chi
vuole ribaltare la sentenza di primo grado.
La Corte di appello di Roma, Sez. III civile, con
l'ordinanza 23.01.2013, ha chiarito la portata
dell'articolo 348-bis del codice di procedura civile: il
filtro agli appelli, introdotto dal decreto legge 83/2012,
non può trasformarsi in una forca caudina, ma serve solo a
scoraggiare chi, avendo torto pieno, strumentalizza la
giustizia, costringendola a occuparsi di vicende ormai
correttamente definite.
Viene così accolta l'esigenza di evitare che il filtro
diventi un ostacolo insormontabile all'esercizio dei diritti
in nome di un processo veloce sì, ma ingiusto.
Il filtro. L'articolo 348-bis del codice di procedura civile
dispone che l'impugnazione deve essere dichiarata
inammissibile dal giudice competente quando non ha una
ragionevole probabilità di essere accolta. Preventivamente,
dunque, il giudice deve valutare se ci sono probabilità di
accoglimento dell'appello. Se la risposta è negativa, rimane
sempre la possibilità del ricorso in Cassazione, anche se si
tratta di un rimedio a metà, considerando che la Cassazione
giudica solo sulla esatta interpretazione della legge e non
giudica quasi mai sul fatto.
Nel dettaglio all'udienza di trattazione, il giudice, prima
di procedere alla trattazione, sentite le parti, dichiara
inammissibile l'appello, con ordinanza succintamente
motivata, anche mediante il rinvio agli elementi di fatto
riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a
precedenti conformi. La decisione sull'ammissibilità
dell'appello deve, dunque, essere preceduta da una
discussione tra i soggetti coinvolti, che possono dire la
loro opinione: il giudice deve, infatti, sentire le parti.
Inoltre il giudice provvede sulle spese di regola
condannando la parte appellante, autore dell'appello
inammissibile. L'ordinanza di inammissibilità è pronunciata
solo quando, sia per l'impugnazione principale sia per
quella incidentale, ricorrono i presupposti di ragionevole
infondatezza. Quando è pronunciata l'inammissibilità, contro
il provvedimento di primo grado può essere proposto ricorso
per Cassazione. In tal caso il termine per il ricorso per
Cassazione avverso il provvedimento di primo grado decorre
dalla comunicazione o notificazione, se anteriore,
dell'ordinanza che dichiara l'inammissibilità.
Quando l'inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni,
inerenti alle questioni di fatto, poste a base della
decisione impugnata, il ricorso per Cassazione è limitato a
motivo di diritto.
Il filtro non si applica a numero ristretto di giudizi
(quelli caratterizzati dall'intervento del pubblico
ministero). Altra eccezione al filtro riguarda i processi
sommari di cognizione, per i quali l'appello sarà deciso
senza una preliminare verifica di ammissibilità.
Nessun arbitrio del giudice. La novità ha suscitato critiche
per la discrezionalità della valutazione del giudice, che
potrebbe anche portare a pronunce ingiuste sulla base di una
veloce lettura degli atti. In questo caso l'esigenza di fare
in fretta e di smaltire il lavoro giudiziario sarebbe state
tutelate a discapito dei diritti delle persone.
Questo pericolo è scongiurato se avrà seguito l'impostazione
della corte di appello di Roma.
Secondo l'ordinanza citata, il giudizio di ragionevole
probabilità di accoglimento dell'appello a norma dell'art.
348-bis cpc non è il risultato di una valutazione sommaria e
superficiale (come invece capita per i provvedimenti di
urgenza di natura cautelare) e neppure di una valutazione a
cognizione parziale, come quella che si riscontra nel caso
dei procedimenti a contraddittorio eventuale (per esempio
nel procedimento di richiesta di decreto ingiuntivo).
Nella cognizione superficiale, effettivamente, si deve
andare in fretta e in nome dell'urgenza si possono
considerare i fatti senza l'approfondimento tipico di un
giudizio ordinario; nella cognizione parziale si sente una
campana (per esempio il richiedente del decreto ingiuntivo)
e il contraddittorio pieno si realizza solo se c'è
opposizione dell'interessato.
Nulla di tutto questo si verifica nel filtro all'appello.
Secondo la corte capitolina l'appello non ha ragionevoli
probabilità di accoglimento quando è a prima vista
infondato, anzi così palesemente infondato da non meritare
che siano sprecate energie del servizio giustizia, che non
sono illimitate. Secondo l'ordinanza della corte di appello
di Roma il filtro all'appello si inserisce, quindi, in un
ampio intervento legislativo volto a sanzionare l'abuso del
processo, abuso in cui si risolve l'esercizio del diritto di
interporre appello in un quadro di plateale infondatezza.
Non si tratta di scoraggiare l'appello di chi ha fondate
ragioni, ma di colpire chi ci tenta pur avendo torto marcio.
L'ordinanza romana è chiara nel sottolineare che l'appello
privo di probabilità di accoglimento non è quello che tale
appare al giudice secondo la sua soggettiva percezione, a
seguito di una sbrigativa lettura degli atti, ma è quello
oggettivamente tale, perché palesemente infondato. Certo un
margine di discrezionalità giudiziale rimane sempre, ma si
mantiene (si deve mantenere) nei limiti fisiologici di
qualsiasi giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del
18.02.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
-a) anche per il procedimento di condono edilizio
di opere realizzate su aree sottoposte a vincolo, l'articolo
32 della legge n. 47 del 1985 (anche da applicare ai sensi
dell’art. 39 della legge n. 724 del 1994) dispone che "il
rilascio della concessione o dell'autorizzazione in
sanatoria ... è subordinato al parere favorevole delle
amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso";
-b) “sotto il profilo funzionale il parere ex art. 32 è
assimilabile all'autorizzazione paesaggistica intesa come
strumento di gestione del vincolo, per cui l'annullamento
ministeriale, posto ad estrema difesa del vincolo, non può
non comprendere anche la valutazione di compatibilità
paesistica da effettuare in sede di condono edilizio”;
-c) per questo è evidente il valore prioritario della
verifica della compatibilità dell'opera rispetto al vincolo,
con la conseguenza che tale valutazione è pregiudiziale ad
ogni altra poiché, se sfavorevole, rende impossibile la
sanatoria dell'opera;
-d) si deve perciò applicare alla fattispecie in esame
quanto definito in giurisprudenza, in linea generale,
riguardo all’esercizio del potere di riesame dell’organo
statale sull’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla
Regione, o dall’ente sub delegato, per l’esecuzione di opere
in area protetta, non essendovi motivo per l’individuazione
di speciali procedure e parametri di valutazione nel
procedimento di sanatoria di abuso edilizio in una tale
area.
---------------
Sui limiti dell’esame da parte della Soprintendenza
dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione
(o da un ente subdelegato), si richiama la giurisprudenza
costante di questo Consiglio di Stato, per la quale:
a) l’autorità delegata preposta alla tutela del vincolo deve
esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla
compatibilità con il vincolo paesaggistico dell’opera
specificamente assentita, in relazione a tutte le
circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in
caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o
di istruttoria;
b) il potere di annullamento della Soprintendenza non
consente il riesame nel merito delle valutazioni compiute
dalla Regione, o dall’ente subdelegato, ma si esprime in un
sindacato di legittimità, esteso a tutte le ipotesi
riconducibili all'eccesso di potere, anche per difetto di
motivazione o di istruttoria e dunque riguardante anche la
compiuta presa in considerazione delle circostanze concrete
e rilevanti per il giudizio di compatibilità;
c) l’autorità statale, con un tale potere di cogestione del
vincolo, dato dalla legge ad estrema difesa del vincolo
stesso, se ravvisa nell’atto oggetto del suo riesame un
vizio di difetto di motivazione o di istruttoria, nel
proprio provvedimento può motivare sulla non compatibilità
degli interventi progettati rispetto ai valori paesaggistici
compendiati nel vincolo.
---------------
Nei singoli casi è anzitutto necessario verificare se alla
base dell’annullamento dell’autorizzazione esaminata da
parte della Soprintendenza competente si riscontri
l’incompiutezza o l’inadeguatezza della valutazione di
compatibilità paesaggistica resa dalla Regione o dall’ente
locale delegato, essendo l’autorizzazione, in questa
ipotesi, viziata per difetto di istruttoria o di motivazione
e risultando legittimo, perciò, il provvedimento statale di
annullamento.
La valutazione di compatibilità paesaggistica in concreto
resa è a sua volta adeguata se le caratteristiche
dell’intervento vi risultano individuate, raffrontate e
giustificate con i valori riconosciuti e protetti dal
vincolo, dovendo essere esposta l’analisi eseguita sulle
ragioni di compatibilità o incompatibilità effettiva che, in
riferimento a tali valori, rendano o meno compatibile
l’opera progettata, non essendo quindi sufficiente, allo
scopo, l’asserzione generica della compatibilità
paesaggistica.
Nella specie la valutazione di compatibilità resa con
l’autorizzazione comunale n. 18931 del 2006 non reca alcuna
analisi delle caratteristiche dell’intervento edilizio in
questione in raffronto a quelle del paesaggio tutelato in
cui si inseriscono, venendo assunto, ad unica motivazione
della favorevole valutazione di compatibilità, il fatto che
si tratta di manufatto “in zona urbanizzata il cui progetto
di completamento non si discosta dalla tipologia edilizia
dei fabbricati circostanti”.
E’ così espressa, in sostanza, una valutazione di mera
assentibilità dell’intervento in alcun modo motivata, non
essendo sufficiente allo scopo il richiamo dell’intensa
attività edilizia intervenuta poiché, come chiarito in
giurisprudenza, la motivazione della già intervenuta
urbanizzazione di un’area vincolata non “appare idonea a
legittimare interventi edilizi non rispettosi degli
interessi sottesi ai vincoli imposti nella zona, in quanto
il nuovo edificato contribuisce, comunque, ad aggravare,
sotto il profilo quantitativo e qualitativo, il danno
arrecato dalle costruzioni non rispettose di tali finalità,
rafforzando, pertanto, la necessità di provvedere alla
tutela dei luoghi”.
Premesso che dagli atti il
manufatto in questione non appare “ultimato” al
rustico, come richiesto dalla normativa per la fruizione
della sanatoria, in base alla quale si considera tale il
manufatto dotato almeno della muratura portante e della
copertura (art. 31, comma 2, della legge n. 47 del 1985, da
applicare nella specie ai sensi dell’art. 39 della l.
23.12.1994, n. 724), in ogni caso, quanto al rapporto tra i
poteri della Soprintendenza e quelli dell’autorità comunale
in sede di procedimento di sanatoria di abuso commesso in
area protetta, si rileva che:
-a) anche per il procedimento di condono edilizio di opere
realizzate su aree sottoposte a vincolo, l'articolo 32 della
legge n. 47 del 1985 (anche da applicare ai sensi dell’art.
39 della legge n. 724 del 1994) dispone che "il rilascio
della concessione o dell'autorizzazione in sanatoria ... è
subordinato al parere favorevole delle amministrazioni
preposte alla tutela del vincolo stesso";
-b) “sotto il profilo funzionale il parere ex art. 32 è
assimilabile all'autorizzazione paesaggistica intesa come
strumento di gestione del vincolo, per cui l'annullamento
ministeriale, posto ad estrema difesa del vincolo, non può
non comprendere anche la valutazione di compatibilità
paesistica da effettuare in sede di condono edilizio”
(Cons. Stato, VI, 28.01.1998, n. 114);
-c) per questo è evidente il valore prioritario della
verifica della compatibilità dell'opera rispetto al vincolo,
con la conseguenza che tale valutazione è pregiudiziale ad
ogni altra poiché, se sfavorevole, rende impossibile la
sanatoria dell'opera (Cons. Stato, V, 29.05.2006, n. 3216);
-d) si deve perciò applicare alla fattispecie in esame
quanto definito in giurisprudenza, in linea generale,
riguardo all’esercizio del potere di riesame dell’organo
statale sull’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla
Regione, o dall’ente sub delegato, per l’esecuzione di opere
in area protetta, non essendovi motivo per l’individuazione
di speciali procedure e parametri di valutazione nel
procedimento di sanatoria di abuso edilizio in una tale
area.
Sui limiti dell’esame da parte della Soprintendenza
dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione
(o da un ente subdelegato), si richiama la giurisprudenza
costante di questo Consiglio di Stato, per la quale:
a) l’autorità delegata preposta alla tutela del vincolo deve
esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla
compatibilità con il vincolo paesaggistico dell’opera
specificamente assentita, in relazione a tutte le
circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in
caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o
di istruttoria;
b) il potere di annullamento della Soprintendenza non
consente il riesame nel merito delle valutazioni compiute
dalla Regione, o dall’ente subdelegato, ma si esprime in un
sindacato di legittimità, esteso a tutte le ipotesi
riconducibili all'eccesso di potere, anche per difetto di
motivazione o di istruttoria e dunque riguardante anche la
compiuta presa in considerazione delle circostanze concrete
e rilevanti per il giudizio di compatibilità;
c) l’autorità statale, con un tale potere di cogestione del
vincolo, dato dalla legge ad estrema difesa del vincolo
stesso (Corte cost., 27.06.1986, n. 151; 18.10.1996, n. 341;
25.10.2000, n. 437), se ravvisa nell’atto oggetto del suo
riesame un vizio di difetto di motivazione o di istruttoria,
nel proprio provvedimento può motivare sulla non
compatibilità degli interventi progettati rispetto ai valori
paesaggistici compendiati nel vincolo (Cons. Stato, Ad. plen.,
14.12.2001, n. 9; VI, 11.06.2012, n. 3401; 22.06.2011, n.
3767; 26.07.2010, n. 4861; 22.03.2007, n. 1362).
---------------
Nei singoli casi è quindi anzitutto necessario verificare se
alla base dell’annullamento dell’autorizzazione esaminata da
parte della Soprintendenza competente si riscontri
l’incompiutezza o l’inadeguatezza della valutazione di
compatibilità paesaggistica resa dalla Regione o dall’ente
locale delegato, essendo l’autorizzazione, in questa
ipotesi, viziata per difetto di istruttoria o di motivazione
e risultando legittimo, perciò, il provvedimento statale di
annullamento.
La valutazione di compatibilità paesaggistica in concreto
resa è a sua volta adeguata se le caratteristiche
dell’intervento vi risultano individuate, raffrontate e
giustificate con i valori riconosciuti e protetti dal
vincolo, dovendo essere esposta l’analisi eseguita sulle
ragioni di compatibilità o incompatibilità effettiva che, in
riferimento a tali valori, rendano o meno compatibile
l’opera progettata, non essendo quindi sufficiente, allo
scopo, l’asserzione generica della compatibilità
paesaggistica.
Nella specie la valutazione di compatibilità resa con
l’autorizzazione comunale n. 18931 del 2006 non reca alcuna
analisi delle caratteristiche dell’intervento edilizio in
questione in raffronto a quelle del paesaggio tutelato in
cui si inseriscono, venendo assunto, ad unica motivazione
della favorevole valutazione di compatibilità, il fatto che
si tratta di manufatto “in zona urbanizzata il cui
progetto di completamento non si discosta dalla tipologia
edilizia dei fabbricati circostanti”.
E’ così espressa, in sostanza, una valutazione di mera
assentibilità dell’intervento in alcun modo motivata, non
essendo sufficiente allo scopo il richiamo dell’intensa
attività edilizia intervenuta poiché, come chiarito in
giurisprudenza, la motivazione della già intervenuta
urbanizzazione di un’area vincolata non “appare idonea a
legittimare interventi edilizi non rispettosi degli
interessi sottesi ai vincoli imposti nella zona, in quanto
il nuovo edificato contribuisce, comunque, ad aggravare,
sotto il profilo quantitativo e qualitativo, il danno
arrecato dalle costruzioni non rispettose di tali finalità,
rafforzando, pertanto, la necessità di provvedere alla
tutela dei luoghi” (Cons. Stato, Sez. VI, 01.07.2009, n.
4238).
In questo quadro si deve concludere per la legittimità
dell’impugnato provvedimento di annullamento della
Soprintendenza, in quanto basato sul riscontro del mancato
accertamento di compatibilità nell’autorizzazione comunale
(penultimo “Considerato”), a sua volta rapportato,
nelle stesse premesse del provvedimento, alla previa
ricognizione delle caratteristiche dell’area quali
compendiate nell’apposizione del vincolo con la valutazione
del contrasto con esse del manufatto in questione in
relazione nella sua dimensione e struttura (secondo e terzo
“Considerato”)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 11.01.2013 n. 115 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Mentre il preveniente
deve attenersi, nella prosecuzione in altezza del
fabbricato, della scelta operata originariamente, di guisa
che ogni parte dell’immobile risulti conforme al criterio di
prevenzione adottato sulla base di esso, a ciò non può
frapporre ostacoli il confinante (prevenuto) che, se a sua
volta abbia costruito in aderenza fino all’altezza
inizialmente raggiunta dal preveniente, ha diritto di
sopraelevare soltanto sul confine, ovvero a distanza da
questo (e, quindi, dalla eventuale sopraelevazione del
preveniente) pari a quella globale minima di legge o dei
regolamenti.
---------------
Mentre quando gli strumenti urbanistici locali fissino senza
alternativa le distanze delle costruzioni dal confine, salva
soltanto la possibilità di costruzione in aderenza, non può
farsi luogo all’applicazione del principio di prevenzione,
quando, al contrario, essi prevedono, riguardo ad edifici
preesistenti, la facoltà di costruire in deroga alle
prescrizioni contenute nel piano regolatore sulle distanze,
si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata
dall’art. 873 c.c., “con la conseguenza che è consentito al
preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che
intenda a sua volta edificare, nell'alternativa di chiedere
la comunione del muro e di costruire in aderenza ovvero di
arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore
intera distanza imposta dallo strumento urbanistico.
Gli art. 2.04 e 19 n.t.a. del piano regolatore generale, nello stabilire
le distanze tra costruzioni, ammettono interventi
ampliativi, anche tramite sopraelevazione, sugli edifici
esistenti in contrasto con dette distanze, purché nel
rispetto delle norme del codice civile.
In effetti, il provvedimento di annullamento d’ufficio,
riguardante immobili preesistenti non rispettosi delle
distanze introdotte dalla normativa urbanistica, è motivato
sulla violazione dell’art. 873 c.c. in materia di distanza
tra edifici .
Considera, tuttavia, il Collegio che la corretta
applicazione dei principi civilistici in materia di distanza
tra edifici, richiamati dalle norme tecniche di attuazione
del piano regolatore, involga anche quello di prevenzione,
data la circostanza (non contestata) che l’edificio che il
ricorrente intende sopraelevare preesiste rispetto a quello
del vicino, costruito ad una distanza inferiore a tre metri.
Detto principio, in caso di sopraelevazione, comporta che
“mentre il preveniente deve attenersi, nella prosecuzione in
altezza del fabbricato, della scelta operata
originariamente, di guisa che ogni parte dell’immobile
risulti conforme al criterio di prevenzione adottato sulla
base di esso, a ciò non può frapporre ostacoli il confinante
(prevenuto) che, se a sua volta abbia costruito in aderenza
fino all’altezza inizialmente raggiunta dal preveniente, ha
diritto di sopraelevare soltanto sul confine, ovvero a
distanza da questo (e, quindi, dalla eventuale
sopraelevazione del preveniente) pari a quella globale
minima di legge o dei regolamenti” (Cass. civ. Sez. III,
27.08.1990, n. 8849).
La possibilità, nella specie, di fare applicazione di detto
principio trova conferma nel consolidato orientamento per
cui, mentre quando gli strumenti urbanistici locali fissino
senza alternativa le distanze delle costruzioni dal confine,
salva soltanto la possibilità di costruzione in aderenza,
non può farsi luogo all’applicazione del principio di
prevenzione, quando, al contrario, essi prevedono, riguardo
ad edifici preesistenti, la facoltà di costruire in deroga
alle prescrizioni contenute nel piano regolatore sulle
distanze, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella
disciplinata dall’art. 873 c.c., “con la conseguenza che è
consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il
vicino, che intenda a sua volta edificare, nell'alternativa
di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza
ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la
maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico
(Cassazione civile, sez. II, 09.04.2010, n. 8465)”
(Cons. St. Sez. IV, 09.05.2011, n. 2749; analogamente, Cons.
St. Sez. IV, 31.03.2009, n. 1998).
Dalle suesposte considerazioni discende la fondatezza
dell’appello in punto di erronea applicazione dell’art. 873
c.c., richiamato dalle n.t.a., non essendosi tenuto conto
della prevenzione (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 10.01.2013 n. 53 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Lo scopo del preavviso di
diniego previsto dall’art. 10-bis della legge 241/1990, a
mente del quale prima di adottare il provvedimento negativo
in caso di procedimento ad istanza di parte
l’Amministrazione è tenuta a comunicare le ragioni ostative
all’adozione del provvedimento favorevole, è quello di
ricercare una composizione di interessi quanto più efficace,
una volta conclusa l’istruttoria, quindi una volta che il
richiedente conosca l’avviso dell’Amministrazione, e ciò al
fine di evitare quanto più possibile inutili contenziosi su
aspetti che potrebbero essere definiti previamente in sede
amministrativa.
Il difetto di preventiva comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento di un’istanza è peraltro assimilabile
all’assenza di comunicazione di avvio del procedimento in
quanto entrambi gli atti, seppure con riferimento a due
distinte fasi sub-procedurali, hanno lo scopo di permettere
un effettivo confronto tra l’Amministrazione e i privati
anteriormente all’adozione di un provvedimento negativo in
modo che non siano trascurati elementi istruttori utili per
la decisione finale; sicché, a tale identità di funzione
consegue che anche la mancanza della comunicazione ai sensi
dell’art. 10-bis L. 241/1990 incide sulla validità dell’atto
conclusivo nei soli limiti previsti dall’art. 21-octies,
comma 2, della stessa legge, ossia quando si sia determinato
un deficit istruttorio e quindi soltanto quando il soggetto
non avvisato provi che, ove avesse avuto la possibilità di
partecipare, avrebbe potuto presentare osservazioni ed
opposizioni, anche solo eventualmente idonee ad incidere, in
termini a lui favorevoli, sull’atto conclusivo del
procedimento.
---------------
La motivazione dell’atto può essere anche data “per
relationem”, nel senso che la motivazione può essere
espressa anche con riferimento ad atti del procedimento
amministrativo, come ad esempio pareri o valutazioni
tecniche.
Priva di fondamento è la censura di cui al primo motivo di violazione e
falsa applicazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990,
con cui la ricorrente lamenta che il provvedimento del
12.07.2010 non è stato preceduto dal preavviso di rigetto
con l’indicazione dei motivi ostativi all’accoglimento
dell’istanza.
In proposito è sufficiente osservare che lo scopo del
preavviso di diniego previsto dall’art. 10-bis della legge
241/1990, a mente del quale prima di adottare il provvedimento
negativo in caso di procedimento ad istanza di parte
l’Amministrazione è tenuta a comunicare le ragioni ostative
all’adozione del provvedimento favorevole, è quello di
ricercare una composizione di interessi quanto più efficace,
una volta conclusa l’istruttoria, quindi una volta che il
richiedente conosca l’avviso dell’Amministrazione, e ciò al
fine di evitare quanto più possibile inutili contenziosi su
aspetti che potrebbero essere definiti previamente in sede
amministrativa.
Il difetto di preventiva comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento di un’istanza è peraltro assimilabile
all’assenza di comunicazione di avvio del procedimento in
quanto entrambi gli atti, seppure con riferimento a due
distinte fasi sub-procedurali, hanno lo scopo di permettere
un effettivo confronto tra l’Amministrazione e i privati
anteriormente all’adozione di un provvedimento negativo in
modo che non siano trascurati elementi istruttori utili per
la decisione finale; sicché, a tale identità di funzione
consegue che anche la mancanza della comunicazione ai sensi
dell’art. 10-bis L. 241/1990 incide sulla validità dell’atto
conclusivo nei soli limiti previsti dall’art. 21-octies,
comma 2, della stessa legge, ossia quando si sia determinato
un deficit istruttorio e quindi soltanto quando il soggetto
non avvisato provi che, ove avesse avuto la possibilità di
partecipare, avrebbe potuto presentare osservazioni ed
opposizioni, anche solo eventualmente idonee ad incidere, in
termini a lui favorevoli, sull’atto conclusivo del
procedimento.
---------------
Altresì priva di pregio è
la censura di cui al secondo motivo di violazione dell’art.
3 della legge 241/1990 e di eccesso di potere.
È infatti principio giurisprudenziale consolidato e
condiviso da questo Collegio che la motivazione dell’atto
può essere anche data “per relationem”, nel senso che la
motivazione può essere espressa anche con riferimento ad
atti del procedimento amministrativo, come ad esempio pareri
o valutazioni tecniche
(TAR Basilicata,
sentenza 10.01.2013 n. 6 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La mancata dettagliata
indicazione, nel verbale di gara, delle specifiche modalità
di custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati per
garantire la segretezza delle offerte non costituisce di per
sé motivo di illegittimità dell’attività posta in essere
dalla Commissione per garantire siffatta custodia, in
assenza di ulteriori elementi realmente idonei a far
ritenere verificate in concreto manomissioni o alterazione
dei documenti.
Sul punto, la Sezione non
ravvisa ragioni per discostarsi dall’indirizzo secondo cui
la mancata dettagliata indicazione, nel verbale di gara,
delle specifiche modalità di custodia dei plichi e degli
strumenti utilizzati per garantire la segretezza delle
offerte non costituisce di per sé motivo di illegittimità
dell’attività posta in essere dalla Commissione per
garantire siffatta custodia, in assenza di ulteriori
elementi realmente idonei a far ritenere verificate in
concreto manomissioni o alterazione dei documenti (cfr.
Cons. Stato, sez. III, 02.08.2012, nr. 4422; Cons. Stato,
sez. VI, 24.11.2010, nr. 8224)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.01.2013 n. 4 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: DIFFERENZE TRA ORDINE DI DEMOLIZIONE ‘‘COMUNALE’’
ED ORDINE DI DEMOLIZIONE ‘‘PENALE’’.
L’ordine di demolizione adottato dal Comune
è distinto
e autonomo rispetto all’ordine di demolizione penale,
con la conseguenza che la sua eventuale illegittimità,
anche qualora accertata dal giudice amministrativo, non
rileva di per sé ai fini dell’esecuzione penale.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Corte di
Cassazione
con la decisione in esame verte sulla differente natura
giuridica dell’ordine di demolizione adottato dal Comune
rispetto
all’omologo ordine adottato, invece, in via di supplenza
dal giudice penale all’esito del giudizio di condanna per il
reato edilizio.
La vicenda processuale trae origine
dall’ordinanza
del Tribunale, quale giudice dell’esecuzione, che aveva
revocato il beneficio della sospensione condizionale della
pena concesso al condannato con sentenza irrevocabile,
non essendosi verificata, nel termine prescritto, la
condizione
della demolizione dell’immobile abusivamente edificato
alla quale detto beneficio era subordinato.
Avverso
l’ordinanza,
veniva proposto, tramite il difensore, ricorso per
cassazione,
deducendo, per quanto di interesse in questa sede,
l’erronea interpretazione dell’art. 36 del D.P.R. n. 380 del
2001, in quanto il Tribunale non avrebbe tenuto conto del
fatto che l’interessato aveva proposto ricorso al TAR
avverso
l’ordinanza di demolizione emessa dal Comune e che tale
giudice aveva accolto la domanda di sospensione cautelare
di detta ordinanza.
La tesi non ha avuto fortuna davanti ai giudici della
Suprema
Corte i quali hanno, infatti, respinto il ricorso. In
particolare,
da un lato, secondo la Cassazione non sarebbero state
specificate le ragioni per le quali il TAR aveva disposto la
richiamata sospensione cautelare, la quale ha, del resto,
per oggetto non un provvedimento di diniego di sanatoria
edilizia, ma un’ordinanza comunale di demolizione. In
secondo
luogo, ed è questo l’aspetto di maggiore interesse
della decisione, secondo i giudici di Piazza Cavour non vale
richiamare sul punto gli orientamenti giurisprudenziali di
legittimità
che ammettono che l’ordine di demolizione divenga
inapplicabile nel caso di rilascio del condono edilizio
intervenuto
dopo l’irrevocabilità della sentenza di condanna
o, ancora, che lo stesso rimanga sospeso nel caso di attuale
inconciliabilità con atti amministrativi che abbiano sanato
l’abuso.
Tali orientamenti, infatti, secondo gli Ermellini,
non
trovano applicazione nel caso in esame, perché si
riferiscono
al solo procedimento di condono edilizio e non anche alla
fattispecie della sospensione dell’ordine di demolizione
adottato dal Comune che è distinto e autonomo rispetto
all’ordine
di demolizione penale, con la conseguenza che la
sua eventuale illegittimità, anche qualora accertata dal
giudice
amministrativo, non rileva di per sé ai fini
dell’esecuzione
penale (v., sul punto: Cass. pen., sez. III, 14.03.2012, n. 27308, inedita)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.12.2012 n. 46735
- commento tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
DIFFERENZE TRA RISANAMENTO E RESTAURO,
RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA
E MANUTENZIONE STRAORDINARIA.
In materia edilizia occorre distinguere tra interventi di
risanamento
e restauro, interventi di ristrutturazione edilizia
ed interventi di manutenzione straordinaria:
a) la
ristrutturazione
edilizia, anzitutto, non è vincolata al rispetto
degli elementi tipologici, formali e strutturali
dell’edificio
esistente, comprendendo il ripristino o la sostituzione
di alcuni elementi costitutivi dell’edificio,
l’eliminazione,
la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed
impianti;
b) gli interventi di manutenzione straordinaria
non possono, invece, comportare aumento della superficie
utile o del numero delle unità immobiliari, né la modifica
della sagoma o mutamento della destinazione d’uso;
c) il restauro ed il risanamento conservativo, infine,
non possono modificare in modo sostanziale l’assetto
edilizio preesistente e consentono soltanto variazioni
d’uso ‘‘compatibili’’ con l’edificio conservato.
Di particolare interesse la decisione qui commentata con cui
la Corte, traendo spunto da una fattispecie concreta assai
comune, coglie l’occasione per fare il punto della
situazione
tra diverse tipologie di interventi edilizi che,
apparentemente,
presentano aspetti comuni ma che, ad un’attenta analisi,
presentano aspetti differenziali che incidono, ovviamente,
sui titoli abilitativi richiesti per la loro realizzazione.
La vicenda
processuale trae origine da una sentenza con cui la Corte
di appello ha riformato la decisione, appellata dal
Procuratore
Generale presso la medesima Corte, con la quale, il
Tribunale
aveva assolto l’imputato da alcune violazioni previste dalla
normativa edilizia ed antisismica per la realizzazione di un
intervento
di innalzamento del cordolo su tre lati di un preesistente
fabbricato per cm. 30 circa e la messa in opera di
due file di tegole, con ulteriore innalzamento di circa cm.
50.
Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per
cassazione
la difesa dell’imputato, sostenendo che i giudici
d’appello avrebbero erroneamente qualificato gli interventi
eseguiti, correttamente inquadrati dal primo giudice
nell’ambito
della mera ristrutturazione, non avendo determinato
mutamento
di destinazione d’uso di locali con diversa distribuzione
o la creazione di nuovi volumi, cosicché per la loro
realizzazione
non sarebbe stato necessario il permesso di costruire.
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che, infatti,
hanno
respinto il ricorso.
In particolare, osserva la Corte che gli interventi di
manutenzione
straordinaria, cui il ricorrente assumeva dovessero
ricondursi
gli interventi eseguiti, sono descritti all’art. 3, lett.
b), del D.P.R. n. 380 del 2001, come «le opere e le
modifiche
necessarie per rinnovare e sostituire parti anche
strutturali
degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi
igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i
volumi
e le superfici delle singole unità immobiliari e non
comportino
modifiche delle destinazioni di uso». Orbene, precisano
i giudici di legittimità, perché possa configurarsi la
manutenzione
straordinaria, gli interventi edilizi devono essere
contenuti in opere di accomodamento o anche di rinnovazione
e sostituzione di parti degli elementi costitutivi
dell’edificio
(compresi i servizi tecnologici ed igienico sanitari), ma
nel rispetto degli elementi tipologici, non solo strutturali
ma
anche formali, dell’edificio stesso nella loro originaria
configurazione
(v., ad es., da ultimo: Cass. pen., sez. III, 23.03.2011, n. 25017, in Ced Cass. n. 250602).
Inoltre, soggiunge
la Corte, dev’essere posta in evidenza anche la differenza
tra gli interventi di risanamento e restauro, quelli di
ristrutturazione
edilizia e di manutenzione straordinaria, in quanto la
ristrutturazione edilizia non è vincolata al rispetto degli
elementi
tipologici, formali e strutturali dell’edificio esistente,
comprendendo il ripristino o la sostituzione di alcuni
elementi
costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e
l’inserimento
di nuovi elementi ed impianti; gli interventi di
manutenzione
straordinaria non possono invece comportare aumento
della superficie utile o del numero delle unità
immobiliari,
né la modifica della sagoma o mutamento della destinazione
d’uso, mentre il restauro ed il risanamento conservativo
non possono modificare in modo sostanziale l’assetto
edilizio preesistente e consentono soltanto variazioni d’uso
‘‘compatibili’’ con l’edificio conservato (sul punto: Cass.
pen., sez. III, 14.05.2008, n. 35897, in Riv. Giur. Edil.,
2009, 1, I, 346, con nota di Dello Sbarba Gli elementi
distintivi
della ristrutturazione edilizia).
La giurisprudenza della Cassazione ha anche individuato
alcuni
interventi di ristrutturazione edilizia di portata minore,
che determinano una semplice modifica dell’ordine in cui
sono
disposte le diverse parti che compongono la costruzione,
in modo che, pur risultando complessivamente innovata,
questa conserva la sua iniziale consistenza urbanistica. La
stessa giurisprudenza ricorda che, al contrario, le
ristrutturazioni
edilizie che comportano integrazioni funzionali e
strutturali
dell’edificio esistente, ammettendosi limitati incrementi
di superficie e di volume, necessitano del permesso di
costruire
ovvero della denunzia di inizio attività alternativa al
permesso (v., in tema: Cass. pen., sez. III, 19.12.2007, n. 47046, in Ced Cass. n. 238461).
Orbene, nella
fattispecie,
risulta dalla semplice descrizione delle opere realizzate
che le stesse non possono rientrare nella tipologia della
manutenzione straordinaria o della ristrutturazione ‘‘leggera’’
o ‘‘minore’’, avendo determinato un sostanziale innalzamento
dell’edificio e la modifica della sagoma originaria. Come
correttamente osservato dai giudici d’appello, dunque, per
l’esecuzione di detto intervento era richiesto il permesso
di
costruire (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.11.2012 n. 45959
- commento
tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
RAPPORTI DI VICINATO E LEGITTIMAZIONE
AL RISARCIMENTO DANNI.
Il privato confinante è legittimato a costituirsi parte
civile,
quando la realizzazione dell’abuso edilizio da parte
del vicino non violi solo le norme poste a tutela del
regolare
assetto del territorio, ma anche le norme che impongono
limiti al diritto di proprietà, che stabiliscono distanze,
volumetria ed altezza delle costruzioni, previste
dal codice civile e dai piani regolatori, violazioni
produttive
di un danno patrimoniale.
Il tema affrontato dalla Cassazione nella sentenza in esame
verte sulla questione della legittimazione attiva del
vicino,
che asserisca di aver subito una lesione patrimoniale per il
‘‘comportamento’’ edilizio illegittimo del proprietario
confinante,
di agire giudizialmente nei suoi confronti per ottenere
il risarcimento del danno sofferto.
La vicenda processuale
segue alla condanna, inflitta in sede di appello in riforma
della
sentenza assolutoria in primo grado, per violazioni edilizie
e per reati di falso, ascritti al committente ed al
progettista e
direttore dei lavori, per aver eseguito interventi di
ristrutturazione
edilizia di un edificio preesistente sulla base di un
permesso
di costruire ritenuto illegittimo, riguardando gli
interventi
parti del fabbricato già costruite abusivamente negli anni
settanta e mai condonate, nonché per avere, in concorso
tra loro, redatto una relazione tecnica allegata alla
domanda
di permesso di costruire, attestante falsamente la
preesistenza
degli interventi di ampliamento dell’edificio all’epoca
di effettiva realizzazione.
Contro la sentenza di condanna
proponevano ricorso per cassazione gli interessati. Tra i
diversi
motivi di censura rileva, per quanto qui d’interesse,
quello -comune ad entrambi i ricorrenti- con cui si
contesta
la violazione di legge con riferimento alla condanna al
risarcimento
dei danni in favore del proprietario confinante che,
secondo la difesa, può fare seguito solo alla violazione di
norme urbanistiche e non anche alla declaratoria di
illegittimità
del titolo edilizio per ragioni diverse.
La tesi è stata favorevolmente accolta dai giudici della
Suprema
Corte che, sul punto, hanno richiamato il principio di
diritto secondo il quale, nei procedimenti per violazioni
urbanistico-edilizie, il privato confinante e` legittimato a costituirsi
parte civile, quando la realizzazione dell’abuso edilizio da
parte del vicino non violi solo le norme poste a tutela del
regolare
assetto del territorio, ma anche le norme che impongono
limiti al diritto di proprietà, che stabiliscono distanze,
volumetria ed altezza delle costruzioni, previste dal codice
civile e dai piani regolatori, violazioni produttive di un
danno
patrimoniale (v., tra le tante: Cass. pen., sez. III, 25.11.2009, n. 45295, in Ced Cass. n. 245270).
Ed infatti, hanno
aggiunto i giudici di legittimità, ai fini
dell’accoglimento
della domanda di risarcimento danni proposta dalla parte
civile
costituitasi in un processo per reato urbanistico, è
necessario
che il giudice accerti la lesione di un diritto soggettivo
della parte, a seguito della violazione di norme poste a
tutela dello statuto proprietario di questa, non essendo
idonea
a tale effetto la violazione di norme che disciplinano la
sfera della potestà amministrativa, e quindi rilevanti
esclusivamente
nei rapporti tra comune e privato (in termini: Cass.
pen., sez. III, 18.12.1991, n. 12766, in Ced Cass. n.
188735). Orbene, nel caso in esame, osservano gli Ermellini,
è stata esclusa l’illegittimità dei permessi di costruire
quale conseguenza della violazione di norme edilizie di
carattere
generale ovvero stabilite dagli strumenti urbanistici
locali, ma esclusivamente per essere afferente quello
‘‘incriminato’’
a interventi di ristrutturazione di parti di un immobile
preesistente realizzate abusivamente negli anni settanta.
Tale profilo d’illegittimità del provvedimento e dei lavori
consequenziali non si palesa, però, ad avviso della Corte,
lesivo dei diritti della costituita parte civile, né dalla
motivazione
della sentenza emergono elementi indicativi dell’esistenza
di un danno subito dalla stessa quale conseguenza
dell’intervento edilizio ritenuto abusivo. Da qui, dunque,
l’accoglimento del ricorso
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.11.2012 n. 45942
- commento tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
VARIANTI NON ESSENZIALI E CONDIZIONI
DI ASSENTIBILITA` MEDIANTE DIA.
La richiesta di esecuzione di lavori in variante,
ancorché
non essenziale, di un’opera oggetto di precedente permesso
di costruire, purché non incidenti su alcuno dei
parametri indicati nell’art. 32, ove sia proposta nel corso
dei lavori (art. 34, D.P.R. n. 380 del 2001) è assentibile
mediante semplice DIA; diversamente, se la DIA in sanatoria
venga inoltrata a lavori completati, l’intervento
eseguito non può essere considerato come mera variante
rispetto al titolo abilitativo, bensì quale difformità
vera
e propria, assoggettata alla procedura del permesso
in sanatoria.
Decisione di particolare interesse quella della Suprema
Corte.
Gli Ermellini si occupano, infatti, nel caso in esame, di un
tema in realtà non molto approfondito in giurisprudenza,
inerente
l’individuazione del titolo abilitativo necessario in caso
di esecuzione di varianti non essenziali rispetto al
progetto
approvato.
La vicenda processuale segue alla condanna
dell’imputato
per il reato di cui all’art. 44, lett. a), D.P.R. n. 380/2001 per violazioni alle normative sulle edificazioni in
cemento
armato e sismica. Contro tale sentenza, in particolare,
proponeva ricorso per Cassazione l’imputato, adducendo
diversi
motivi tra cui, per quanto di interesse in questa sede,
rileva quello secondo cui -ad avviso dell’interessato- gli
interventi
in variante non necessitano della concessione edilizia
(rectius, permesso di costruire).
La tesi non ha avuto fortuna davanti ai giudici della
Suprema
Corte i quali hanno, infatti, respinto il ricorso muovendo,
anzitutto,
dal rilievo per cui, nel caso di specie, si è trattato di
lavori in variante, ancorché di certo non essenziale,
dell’opera
oggetto del permesso di costruire. Tale variante -per i
giudici di legittimità- avrebbe, però, potuto e dovuto
essere
richiesta nel corso dei lavori, ex art. 34 D.P.R. n. 380 del
2001, con una DIA, trattandosi appunto di variazioni non
essenziali,
concernenti le medesime opere già autorizzate con
il predetto permesso a costruire, non incidenti su alcuno
dei
parametri indicati nell’art. 32.
Ma, poiché la domanda di
DIA
in sanatoria -aggiungono gli Ermellini- è stata inoltrata
a lavori
completati, l’intervento eseguito non poteva essere
considerato come mera variante rispetto al titolo
abilitativo,
bensì quale difformità vera e propria, assoggettata alla
procedura
del permesso in sanatoria, donde la configurabilità
del reato in esame.
La soluzione appare condivisibile,
soprattutto
laddove si consideri che, secondo un orientamento
giurisprudenziale ormai consolidato, mentre le ‘‘varianti
in senso proprio’’, ovvero le modificazioni qualitative o
quantitative di non rilevante consistenza rispetto al
progetto
approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale
mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di
approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in
variante,
complementario ed accessorio, anche sotto il profilo
temporale della normativa operante, rispetto all’originario
permesso a costruire, le ‘‘varianti essenziali’’, ovvero
quelle
caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il
progetto
edificatorio originario rispetto ai parametri indicati
dall’art.
32 del D.P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al rilascio
di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto
a quello originario e per il quale valgono le disposizioni
vigenti al momento di realizzazione della variante (Cass.
pen., sez. III, 24.06.2010, n. 24236, in Ced Cass. n.
247686) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.11.2012 n. 45940
- commento
tratto da Urbanistica e appalti n. 2/2013). |
EDILIZIA
PRIVATA: Per
quanto concerne la canna fumaria il Collegio condivide la
giurisprudenza amministrativa alla luce della quale la canna
fumaria deve ritenersi un volume tecnico e, come tale,
un’opera priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale,
che non risulta particolarmente pregiudizievole per il
territorio e, pertanto, la sua realizzazione rientra tra
quelle opere per le quali non è necessario il permesso di
costruire e, conseguentemente, non è soggetta alla sanzione
della demolizione.
Lo stesso dicasi per i due serbatoi idrici e relativo
autoclave che, essendo impianti tecnologici, innanzitutto
non sviluppano nuovo volume e devono ritenersi privi di
autonoma rilevanza urbanistico-funzionale; inoltre, per
quanto riguarda in particolare quelli di cui alla
fattispecie oggetto di gravame, seppure posizionati
all’esterno dell’appartamento, data la loro specifica
ubicazione nella facciata interna del condominio, non
risultano particolarmente pregiudizievoli per il territorio.
Il Collegio ritiene, tuttavia, che per entrambe le opere di
cui si contesta la mancanza del titolo edilizio, trattandosi
rispettivamente di impianti tecnologici e di volume tecnico,
non occorreva per la loro realizzazione il permesso di
costruire che determina la sanzione della demolizione
prevista dall’art. 31 del d.p.r. n. 380 del 2001, ma era
sufficiente la denuncia di inizio di attività la cui
mancanza non è sanzionabile con la rimozione o demolizione
ma solo con l’irrogazione della sanzione pecuniaria prevista
dall’art. 37 del d.p.r. n. 380 del 2001, come prospettato da
parte ricorrente; pertanto l’ordinanza oggetto di
impugnazione deve ritenersi illegittimamente adottata.
In particolare per quanto concerne la canna fumaria il
Collegio condivide, infatti, la giurisprudenza
amministrativa alla luce della quale la canna fumaria deve
ritenersi un volume tecnico e, come tale, un’opera priva di
autonoma rilevanza urbanistico-funzionale, che non risulta
particolarmente pregiudizievole per il territorio e,
pertanto, la sua realizzazione rientra tra quelle opere per
le quali non è necessario il permesso di costruire e,
conseguentemente, non è soggetta alla sanzione della
demolizione (cfr. ex multis TAR Campania Napoli, Sez.
VII, 15.12.2010, n. 27380); lo stesso dicasi per i due
serbatoi idrici e relativo autoclave che, essendo impianti
tecnologici, innanzitutto non sviluppano nuovo volume e
devono ritenersi privi di autonoma rilevanza
urbanistico-funzionale; inoltre, per quanto riguarda in
particolare quelli di cui alla fattispecie oggetto di
gravame, seppure posizionati all’esterno dell’appartamento,
data la loro specifica ubicazione nella facciata interna del
condominio, non risultano particolarmente pregiudizievoli
per il territorio.
Si ritiene di dover precisare che, anche nella ipotesi che
sembrerebbe emergere nella fattispecie per cui è causa, di
un vincolo paesaggistico dell’area ove è ubicato l’immobile,
peraltro non indicato nell’ordinanza dal Comune ma solo
genericamente rappresentato nella memoria prodotta in
giudizio come “vincolo architettonico”, esso non
sarebbe di ostacolo ad ottenere una autorizzazione
paesaggistica in sanatoria, su richiesta dell’avv.
Ferlicchia, per gli interventi contestati nell’ordinanza di
rimozione .
Ciò in quanto l’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42 del
2004, alla lettera a) prevede la possibilità del versamento
di una indennità pecuniaria “per i lavori, realizzati in
assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che
non abbiano determinato creazione di superfici utili o
volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”,
fattispecie applicabile alla fattispecie oggetto di gravame
(cfr. TAR Campania Napoli, Sez. VII, 15.12.2010, n. 27380
cit.)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 30.10.2012 n. 1859 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Si
tratta, nella specie, di una semplice canna fumaria,
relativa ad un impianto eco-compatibile a basso impatto
ambientale alimentato con materiali biodegrabili, opera
comunque priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale
e che non risulta particolarmente pregiudizievole per il
territorio, costituendo peraltro volume tecnico.
Ma anche a ritenere la necessità di un titolo abilitativo,
comunque non si sarebbe trattato del permesso di costruire,
con conseguente ipotetica irrogazione della sola sanzione
pecuniaria.
Espone l’odierno ricorrente di essere proprietario di un
fabbricato con area di pertinenza nel Comune di Catanzaro.
Su detta unità immobiliare lo stesso ha installato una canna
fumaria. Il settore Igiene ambientale del Comune ha, quindi,
con nota del 22.12.2010 notiziato di detta installazione il
settore Edilizia privata. Con ordinanza n. 44 del
07.04.2011, il Comune di Catanzaro ha quindi ordinato la
demolizione dell’opera di che trattasi poiché abusivamente
realizzata.
Avverso la detta ordinanza di demolizione è quindi proposto
il presente ricorso a sostegno del quale si argomenta la non
necessità del previo conseguimento di titolo abilitativo per
la installazione di una canna fumaria.
Si è costituito in giudizio il Comune di Catanzaro
affermando la infondatezza del proposto ricorso e
concludendo perché lo stesso venga respinto.
Alla pubblica udienza del 09.03.2012 il ricorso è stato
trattenuto in decisione.
Il ricorso è fondato e va, pertanto, accolto.
Osserva, infatti, il Collegio che si tratta, nella specie,
di una semplice canna fumaria, relativa ad un impianto
eco-compatibile a basso impatto ambientale alimentato con
materiali biodegrabili, opera comunque priva di autonoma
rilevanza urbanistico-funzionale e che non risulta
particolarmente pregiudizievole per il territorio,
costituendo peraltro volume tecnico (cfr. TAR Napoli, VII
Sezione, 15.12.2010 n. 27380). Ma anche a ritenere la
necessità di un titolo abilitativo, comunque non si sarebbe
trattato del permesso di costruire, con conseguente
ipotetica irrogazione della sola sanzione pecuniaria.
Ne consegue, pertanto, la illegittimità dell’avversata
ordinanza di demolizione che, in accoglimento del proposto
ricorso, deve essere annullata
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 17.04.2012 n. 391 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Si tratta di una semplice
canna fumaria, opera priva di autonoma rilevanza
urbanistico-funzionale e che non risulta particolarmente
pregiudizievole per il territorio.
Inoltre, si tratta di volume tecnico, e secondo la
giurisprudenza di questa Sezione sarebbe possibile ottenere
l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria ex art. 167
d.lgs. 42/2004: “l’interpretazione teleologica induce
inevitabilmente a ritenere che, nonostante l’utilizzo della
particella disgiuntiva “o” nella frase “che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi”, il
duplice riferimento alle nuove superfici utili e ai nuovi
volumi costituisca un’endiadi, ossia una modalità di
esprimere un concetto unitario con due termini coordinati.
In altri termini, la necessità di interpretare le eccezioni
al divieto di rilasciare l’autorizzazione paesistica in
sanatoria (previste dall’articolo 167, comma 4, del decreto
legislativo n. 42/2004) in coerenza con la ratio
dell’introduzione di tale divieto induce il Collegio a
ritenere che esulino dalla eccezione prevista dall’articolo
167, comma 4, lettera a), gli interventi che abbiano
contestualmente determinato la realizzazione di nuove
superfici utili e di nuovi volumi e che, di converso, siano
suscettibili di accertamento della compatibilità paesistica
anche i soppalchi, i volumi interrati ed i volumi tecnici”,
atteso che i volumi tecnici, proprio in ragione dei
caratteri che li contraddistinguono (già evidenziati in
precedenza), sono inidonei ad introdurre un impatto sul
territorio eccedente la costruzione principale.
La parte ricorrente impugnava i provvedimenti in epigrafe
per i seguenti motivi: 1) carenza di motivazione, atteso che
non vengono spiegate le ragioni di interesse pubblico a
sostegno della demolizione; la canna fumaria era stata
realizzata già nel 1973; 2) eccesso di potere per
contraddittorietà perché la stessa Amministrazione aveva
ingiunto alla ricorrente il controllo della canna fumaria;
3) eccesso di potere perché l’ordinanza persegue uno scopo
diverso dalla tutela del territorio, e cioè gli interessi
privati di altri condomini; 4) difetto di istruttoria.
Il ricorso è fondato e va accolto per i motivi di seguito
precisati.
Infatti, come già osservato in fase cautelare, si tratta di
una semplice canna fumaria, opera priva di autonoma
rilevanza urbanistico-funzionale e che non risulta
particolarmente pregiudizievole per il territorio. Inoltre,
si tratta di volume tecnico, e secondo la giurisprudenza di
questa Sezione sarebbe possibile ottenere l’autorizzazione
paesaggistica in sanatoria ex art. 167 d.lgs. 42/2004: “l’interpretazione
teleologica induce inevitabilmente a ritenere che,
nonostante l’utilizzo della particella disgiuntiva “o” nella
frase “che non abbiano determinato creazione di superfici
utili o volumi”, il duplice riferimento alle nuove superfici
utili e ai nuovi volumi costituisca un’endiadi, ossia una
modalità di esprimere un concetto unitario con due termini
coordinati. In altri termini, la necessità di interpretare
le eccezioni al divieto di rilasciare l’autorizzazione
paesistica in sanatoria (previste dall’articolo 167, comma
4, del decreto legislativo n. 42/2004) in coerenza con la
ratio dell’introduzione di tale divieto induce il Collegio a
ritenere che esulino dalla eccezione prevista dall’articolo
167, comma 4, lettera a), gli interventi che abbiano
contestualmente determinato la realizzazione di nuove
superfici utili e di nuovi volumi e che, di converso, siano
suscettibili di accertamento della compatibilità paesistica
anche i soppalchi, i volumi interrati ed i volumi tecnici”,
atteso che i volumi tecnici, proprio in ragione dei
caratteri che li contraddistinguono (già evidenziati in
precedenza), sono inidonei ad introdurre un impatto sul
territorio eccedente la costruzione principale (Tar
Campania, Napoli, VII, 1748/2009).
Per altro, la stessa Soprintendenza, in data 02.09.2010, con
parere n. 17796 prot., ha espresso parere di compatibilità
paesaggistica sulla canna fumaria, proprio ai sensi
dell’art. 167, co. 4, d.lgs. 42/2004, e lo stesso Comune,
con nota del 14.10.2010, ha preso atto di tale parere
invitando la ricorrente a presentare la perizia giurata al
fine di determinare la sanzione di cui all’art. 167, co. 5;
tali sviluppi amministrativi confermano la riconducibilità
dell’opera tra quelle per la realizzazione delle quali non è
necessario il permesso di costruire e, in quanto tali, non
soggette alla sanzione della demolizione
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 15.12.2010 n. 27380 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Interventi
sulla canna fumaria esterna consistenti in intonacatura con
posa di retina plasticata e malta fibrorinforzata,
istallazione di chiave di ritenuta in acciaio, inserimento
all’interno della canna fumaria di tubazione in acciaio sono
da considerarsi quali opere di manutenzione straordinaria e,
come tali, non abbisognano della preventiva autorizzazione
paesaggistica (in area sottoposta a vincolo ambientale).
Con il provvedimento impugnato il Dirigente del Comune di
Venezia ha ordinato la rimozione delle seguenti opere:
- interventi sulla canna fumaria esterna consistenti in
intonacatura con posa di retina plasticata e malta
fibrorinforzata, istallazione di chiave di ritenuta in
acciaio, inserimento all’interno della canna fumaria di
tubazione in acciaio.
La motivazione del provvedimento impugnato fa riferimento
alla circostanza che le opere eseguite sono ritenute non
rientranti nella manutenzione ordinaria e ricadono in area
sottoposta a vincolo paesaggistico ambientale senza che sia
stata ottenuta la preventiva autorizzazione paesaggistica.
La controinteressata interviene nel presente giudizio per
sostenere la legittimità del provvedimento impugnato.
Il ricorso è fondato.
Infatti l’art. 149 del D.Lgs. n. 42 del 2004 stabilisce che
l’autorizzazione paesaggistica non è prescritta per gli
interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di
consolidamento statico e di restauro conservativo.
L’Amministrazione ha errato nel considerare che, non
trattandosi di manutenzione ordinaria, dovesse essere
richiesta l’autorizzazione paesaggistica, perché anche gli
interventi di manutenzione straordinaria, di consolidamento
statico e di restauro conservativo non richiedono il
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
Il Comune di Venezia non ha valutato se trattasi di opere di
manutenzione straordinaria, di consolidamento statico e di
restauro conservativo, che non richiedono il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica.
Il ricorso deve pertanto essere accolto (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 08.01.2010 n. 35 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Gli
atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente
e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di
titolo per l'avvenuta trasformazione del territorio), con la
conseguenza che, non essendo richiesti apporti partecipativi
del soggetto destinatario, non devono essere preceduti da
alcuna comunicazione di avvio del relativo procedimento.
Secondo giurisprudenza consolidata di questo Tribunale, “Gli
atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente
e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di
titolo per l'avvenuta trasformazione del territorio), con la
conseguenza che, non essendo richiesti apporti partecipativi
del soggetto destinatario, non devono essere preceduti da
alcuna comunicazione di avvio del relativo procedimento”:
TAR Campania Napoli, sez. IV, 01.08.2008, n. 9710
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 03.06.2009 n. 3039 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
canna fumaria, di palese evidenza rispetto alla costruzione
e alla sua sagoma, “non può considerarsi un elemento
meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva
destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato
dalla preesistente struttura dell'immobile, occorrendo
pertanto, per la stessa, la concessione edilizia”.
Con il secondo mezzo si critica
l’amministrazione per la ritenuta carenza della istruttoria.
In sintesi, la ricorrente critica la scelta demolitoria
osservando che, nella fattispecie in esame, ci si era
limitati alla sostituzione di un preesistente “fatiscente
tubo di plastica” con la canna di acciaio contestata.
Proprio la differente consistenza, materialità ed impatto
visivo rende la sostituzione necessitante un titolo
abilitante specifico: trattasi infatti di intervento che
ricade in zona di particolare pregio secondo la normazione
evidenziata nell’epigrafe dell’atto impugnato.
La censura innesta, del resto, il punto principale di causa,
costituito dalla verifica giudiziale della tutela sul piano
paesaggistico che il Comune ha inteso appontare: in termini
legittimi, secondo questo Tribunale.
In argomento, si ricorda che, ai sensi dell’art. 67 del
regolamento edilizio del Comune di Ischia, “Le canne
fumarie non possono essere esterne alle murature o
tamponature se non costituenti una soddisfacente soluzione
architettonica”. La norma si inserisce dunque in una
meditata valorizzazione del paesaggio urbano dell’isola, già
nella sua interezza vincolata paesisticamente, che ha
riscontri precisi nella adozione di alcuni atti quali il
regolamento sull’ornato urbano, ovvero sulle tonalità
cromatiche degli edifici ischitani (cfr., delibera del
13/03/2007 n. 54 verbale di deliberazione del commissario
straordinario – “oggetto: l.r.c. n. 26/2002. approvazione
piano del colore di alcuni ambiti urbani”), nonché,
evidentemente, nel rispetto della sottoposizione dell’isola
al regime vincolistico disciplinato dal Piano Territoriale
Paesistico approvato con Decreto Ministeriale dell’08.02.1999, pubblicato sulla G.U. n. 94 del 23.04.1999.
E’ evidente allora che l’esigenza espressa dal provvedimento
gravato è eminentemente paesistica, e sul piano
sanzionatorio si collega alla “straordinaria importanza
della tutela «reale» dei beni paesaggistici ed ambientali”
(cfr., C. Cost. ord.za 12/20.12.2007 nr. 439). In
particolare, si concreta nella previsione della rimessione
in pristino come consentita dall’art. 167 del Dlgs 42/2004:
vale su punto ricordare che lo stesso articolo 1° del DPR
380/2001 afferma testualmente al secondo comma che “Restano
ferme le disposizioni in materia di tutela dei beni
culturali ed ambientali”, sicché le due tutela devono
considerarsi autonome e operative su basi differenti.
Sempre in termini generali, la necessità della
autorizzazione paesistica, nella presente fattispecie, si
rinviene agevolmente dal testo dell’art. 149 Dlgs n. 42/2004
ove si esclude tale esigenza “per gli interventi di
manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento
statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato
dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”.
In quest’ultima proposizione (“aspetto esteriore degli
edifici”) è agevole riscontrare un evidente
compromissione della identità del luogo nella sostituzione
di una fatiscente canna fumaria con altra di acciaio e la
pari evidente necessità –connessa ad una dinamica “tutela
attiva” del paesaggio”– della intermediazione della verifica
dialettica (per il tramite del procedimento autorizzatorio)
con l’amministrazione pubblica al fine di pervenire ad una
ponderata e non invasiva sistemazione del quadro d’insieme
dei luoghi, degradabile anche con l’incontrollata
manipolazione esteriore degli edifici, con riferimento ad
impianti tecnologici di varia specie che, se non
“impegnativi” sul piano strettamente edilizio, ben possono
essere tali, su quella della vulnerazione dei valori
paesaggistici.
Ma anche sul piano rigorosamente edilizio, la sanzione non
appare sproporzionata. Come ha notato la giurisprudenza, la
canna fumaria, di palese evidenza rispetto alla costruzione
e alla sua sagoma, “non può considerarsi un elemento
meramente accessorio ovvero di ridotta e aggiuntiva
destinazione pertinenziale, come tale assorbito o occultato
dalla preesistente struttura dell'immobile, occorrendo
pertanto, per la stessa, la concessione edilizia”: Tar
Lazio n. 4246 - 18.05.2001 (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 03.06.2009 n. 3039 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Per quanto concerne la
canna fumaria installata dalla ricorrente sull’edificio di
sua proprietà risulta evidente, per le dimensioni della
stessa e la conformazione, in particolare del comignolo, di
eccessiva e sproporzionata mole e consistenza ponderale e
per la conseguente alterazione, di palese evidenza, che
arreca alla costruzione su cui è stata installata ed alla
sua sagoma, che la stessa si presenta, nello spazio
interessante la sua apposizione ed elevazione in altezza,
come un visibile prolungamento completativo degli elementi
costituenti la sagoma di una fiancata e della sovrastante
copertura a tetto spiovente dell’edificio preesistente, già
realizzato.
La stessa canna fumaria non può perciò considerarsi, come
sostiene la ricorrente, un elemento meramente accessorio
ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale,
come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura
dell’immobile.
Va precisato al riguardo che nel sistema di cui alla legge
n. 47/1985, che tipicizza le violazioni edilizie in ragione
della natura, finalità e caratteristiche degli interventi
eseguiti prevedendo la applicazione di distinte e
corrispondenti misure sanzionatorie per la repressione dei
rispettivi abusi, devono ritenersi sottratte al regime della
concessione edilizia soltanto quelle opere che siano
riconducibili (anche in applicazione di previsioni normative
dettate da disposizioni diverse da quelle della citata legge
n. 47/1985) o al regime della autorizzazione comunale ovvero
a quello, estremamente semplificato, della c.d. “denuncia
di inizio di attività” che consente la esecuzione di
particolari interventi su edifici preesistenti mediante la
presentazione della medesima d.i.a. al Comune.
Sono dunque solo tali interventi che possono essere
realizzati senza concessione edilizia poiché a giudizio del
legislatore nella ipotesi di esecuzione degli stessi in
preesistenti edifici e posti in un rapporto di stretto
collegamento con la costruzione cui accedono, può ritenersi
proprio dalla presenza dell’edificio principale, assorbito
l’impatto o la alterazione (sempre che sia di modesta
proporzione) che il nuovo intervento arreca al preesistente
assetto edilizio.
Ora, per quanto concerne la canna fumaria installata dalla
ricorrente sull’edificio di sua proprietà risulta evidente,
per le dimensioni della stessa e la conformazione, in
particolare del comignolo, di eccessiva e sproporzionata
mole e consistenza ponderale e per la conseguente
alterazione, di palese evidenza, che arreca alla costruzione
su cui è stata installata ed alla sua sagoma, che la stessa
si presenta, nello spazio interessante la sua apposizione ed
elevazione in altezza, come un visibile prolungamento
completativo degli elementi costituenti la sagoma di una
fiancata e della sovrastante copertura a tetto spiovente
dell’edificio preesistente, già realizzato.
La stessa canna fumaria non può perciò considerarsi, come
sostiene la ricorrente, un elemento meramente accessorio
ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale,
come tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura
dell’immobile
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 18.05.2001 n. 4246 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 18.02.2013 |
ã |
MOBILITA' |
PUBBLICO
IMPIEGO: il
Comune di Cisano Bergamasco (BG) cerca con mobilità
volontaria n. 1 geometra, cat. "C" a tempo pieno ed indeterminato, da
destinare all'Ufficio Tecnico
il cui
avviso di mobilità prevede il termine di martedì
26.02.2013 entro cui inviare le domande di
partecipazione. |
UTILITA' |
SICUREZZA
LAVORO: Guida
interattiva per il committente e il responsabile dei lavori:
obblighi e responsabilità.
Il committente viene definito dal D.Lgs. 81/2008 (Testo
Unico sulla Sicurezza) come il “soggetto per conto del
quale l’intera opera viene realizzata, indipendentemente da
eventuali frazionamenti della sua realizzazione …”.
Assume automaticamente la funzione di committente chi, ad
esempio:
●
in qualità di proprietario di una villetta affida i lavori
di tinteggiatura interna od esterna
●
in qualità di locatario di un appartamento, affida i lavori
di rifacimento del bagno
●
in qualità di amministratore di condominio, affida i lavori
di rifacimento del manto di copertura o di isolamento a
cappotto dei muri
●
in qualità di titolare d’impresa, affida i lavori di
sistemazione degli uffici o di ampliamento della zona
produttiva del suo capannone aziendale;
●
in qualità di proprietario di un lotto edificabile, affida i
lavori di costruzione della sua nuova casa
Il committente ha precise responsabilità penali ed
amministrative attribuitegli dalla legislazione vigente,
come ad esempio:
►
designare il coordinatore per la sicurezza se necessario
►
accertare i requisiti del coordinatore
►
trasmettere il P.S.C. a tutte le imprese invitate a
presentare l’offerta
►
etc.
Il Comune di Reggio Emilia, in collaborazione con i vari
ordini professionali, ha pubblicato qualche tempo fa una
guida interattiva molto utile, con l'intento di fornire
ai Committenti e ai Responsabili dei Lavori uno strumento
operativo basato su domande e risposte, che li supporti
negli adempimenti e negli obblighi previsti dalla legge.
Il documento è strutturato in forma interattiva, con domande
e risposte e fornisce informazioni sui ruoli e le
responsabilità del committente sia in caso di lavori
pubblici che privati.
Sarà sufficiente rispondere ai semplici quesiti e seguire
l’iter proposto, per essere in regola con gli adempimenti.
Alla fine della guida sono presenti modelli utili al
committente, quali:
● notifica preliminare
● comunicazione
dell'avvenuta verifica dell'idoneità tecnico-professionale
●
comunicazione nominativi del Coordinatore per la sicurezza
●
modelli di incarico professionale
(14.02.2013 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Dai
VV.F. il manuale di prevenzione incendi, utile anche alla
formazione degli addetti alla lotta antincendio.
L’art. 18 del Testo Unico sulla Sicurezza (D.Lgs.
81/2008 - aggiornato a gennaio 2013), obbliga il datore
di lavoro a “designare preventivamente i lavoratori
incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione
individuale e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi
di lavoro in caso di pericolo grave e immediato, di
salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione
dell’emergenza”.
La designazione “deve tenere conto della natura dell’
attività, delle dimensioni dell’azienda o dell’unità
produttiva, e del numero delle persone presenti”.
Lo stesso TUS prevede la possibilità per i datori di lavoro
delle aziende che occupano fino a cinque lavoratori di
svolgere direttamente i compiti di prevenzione incendi e di
evacuazione.
Inoltre, il datore di lavoro ha l’obbligo di formare i
lavoratori incaricati dell'attività di prevenzione incendi e
lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro.
Al fine di favorire la formazione degli addetti alla lotta
antincendio, il Comando Provinciale dei VV.F. di Ascoli
Piceno ha pubblicato il “Manuale
di prevenzione incendi”.
Il documento affronta, in maniera chiara e semplice, i
concetti base legati all’incendio e alla sua prevenzione, le
tipologie di protezione e le procedure da adottare in caso
di emergenza.
Un intero capitolo è dedicato ad esercitazioni pratiche,
come l’utilizzo degli estintori, delle maschere antigas, e
dei dispositivi di protezione individuale.
In appendice sono disponibili esempi di piani di evacuazione
ed emergenza
(14.02.2013 - link a www.acca.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA
PRIVATA: G.U.
14.02.2013 n. 38 "Regolamento recante attività di
competenza del Ministero della difesa in materia di
sicurezza della navigazione aerea e di imposizione di
limitazioni alla proprietà privata nelle zone limitrofe agli
aeroporti militari e alle altre installazioni aeronautiche
militari"
(Ministero della Difesa,
decreto 19.12.2012 n. 258). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI: F.
Grilli,
Sono nulli i contratti in forma pubblica amministrativa non
elettronica?
(13.02.2013 - link a www.leggioggi.it). |
APPALTI:
M. Gnes,
La nuova disciplina sui ritardi dei pagamenti (D.Lgs.
09.11.2012 n. 192)
(Giornale di diritto amministrativo n. 2/2013 -
tratto da www.ipsoa.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
L. Carbone,
“PASSAGGIO” DALLA TARIFFA FORENSE AI PARAMETRI:
LE PROBLEMATICHE DELLA DISCIPLINA TRANSITORIA (Il
corriere giuridico n. 11/2012 - tratto da www.ipsoa.it). |
CORTE DEI CONTI |
EDILIZIA
PRIVATA - TRIBUTI: Il catasto è
gratis.
Banca dati aperta per i comuni.
Corte conti Emilia: da pagare solo i servizi extra.
L'accesso dei Comuni alla banca dati catastale deve essere
totalmente gratuito. All'amministrazione richiedente deve
restare a carico solo l'eventuale costo collegato alla
richiesta di servizi specifici e prestazioni straordinarie.
È quanto ribadisce la sezione regionale di controllo della
Corte dei Conti per l'Emilia Romagna, nel testo del
parere
31.01.2013 n. 37.
Nei fatti, il Comune di Anzola dell'Emilia comunicava che,
per necessità di implementare il proprio sistema informativo
territoriale, per l'esecuzione di controlli in materia di
tributi comunali e per attuare le disposizioni in materia di
partecipazione dei comuni alle attività di accertamento
fiscale, richiedeva all'ufficio provinciale dell'Agenzia del
territorio l'accesso alla banca dati catastali, ricevendo il
nulla osta subordinato alla richiesta di un corrispettivo.
Pertanto, il primo cittadino del comune istante ha sollevato
dubbi sulla legittimità dei corrispettivi pretesi in tal
senso dall'ufficio del Territorio.
La Corte rispondeva rilevando che, sul punto, soccorrono
numerose disposizioni legislative. In primo luogo,
l'articolo 50, comma 2, del dlgs n. 82/2005, ove si prevede
che qualunque dato trattato dalle pubbliche amministrazioni,
nel rispetto delle norme sulla privacy, è reso accessibile e
fruibile alle altre amministrazioni, qualora l'utilizzazione
del dato sia necessaria per lo svolgimento di compiti
istituzionali delle amministrazioni richiedenti.
In più, ha rimarcato la Corte nella sua attenta disamina,
nel testo del decreto legge n. 78/2010 (artt. 18 e 19), che
disciplina la collaborazione dei comuni all'accertamento
tributario e contributivo, è espressamente sancito che ai
comuni viene garantito l'acceso gratuito all'Anagrafe
Immobiliare, così da permettere alle stesse amministrazioni
comunali la «piena accessibilità e interoperabilità»
con le banche dati dell'Agenzia del territorio.
Pertanto, da questo corollario normativo, si legge nel
parere della Corte, emerge inequivocabilmente un generale
principio di gratuità per l'accesso dei comuni alla banca
dati catastale.
A carico del comune richiedente può ricadere soltanto il
costo legato all'effettuazione di servizi connessi a
particolari e straordinarie esigenze
(articolo ItaliaOggi del 16.02.2013
- link a www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Condono con
limiti temporali. Delibera della
corte conti Campania sui tributi locali.
Sono illegittimi i condoni dei tributi locali adottati dai
comuni per le annualità successive al 2002.
Lo ha affermato
la Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la
Campania, con il
parere 17.01.2013 n.
10.
Per i giudici contabili, sono illegittimi i condoni «a
catena» che i comuni hanno deliberato per gli anni
successivi al 2002.
La norma che ha previsto la sanatoria, infatti, «deve essere
oggetto di stretta interpretazione», in quanto ha «natura di
evento eccezionale nell'ambito dell'ordinamento giuridico» e
«non consente alcuna interpretazione estensiva». Non è
possibile, secondo la Corte, fare ricorso al condono per «un
arco temporale indefinito». Dunque, deve essere limitato ai
periodi di imposta antecedenti al 01.01.2003, data di
entrata in vigore dell'articolo 13 della legge 289/2002 che
lo ha istituito.
Questa interpretazione, però, si pone in contrasto con
quanto sostenuto dal ministero dell'economia e delle
finanze, il quale più volte ha sostenuto che la facoltà dei
comuni di istituire, con regolamento, la definizione
agevolata delle violazioni tributarie non fosse soggetta a
limiti temporali. Peraltro, anche la Cassazione non si è
espressa in maniera univoca sulla questione. Sebbene con la
sentenza 12679/2012 ha giudicato illegittima la delibera del
comune di Roma che aveva istituito il condono delle liti
pendenti instaurate dopo l'entrata in vigore della
Finanziaria 2003 e ha ritenuto l'amministrazione comunale
priva del potere di deliberare la sanatoria a distanza di
anni da quando il legislatore gli ha riconosciuto questa
facoltà.
Si legge nella motivazione della sentenza che la
possibilità per il contribuente di conseguire la sospensione
del giudizio in corso, in seguito alla presentazione
dell'istanza di condono, è ancorata dall'articolo 13 alla
presenza di due presupposti: che si tratti di obblighi
tributari sorti prima della sua entrata in vigore, vale a
dire fino al 31.12.2002, e che, alla stessa data, la
procedura di accertamento o i procedimenti contenziosi in
sede giurisdizionale fossero già stati instaurati. Mancando
questi requisiti il condono è illegittimo, in quanto il
potere non è esercitabile sine die.
In realtà, molti comuni hanno adottato la sanatoria anche
per gli anni successivi al 2002, considerato che l'articolo
13 è tuttora vigente e non pone dei limiti temporali. La
Finanziaria 2003 ha attribuito agli enti locali la facoltà
di prevedere eventuali forme di condono sui tributi di loro
competenza. Quindi, il potere di disciplinare con
regolamento la riduzione dell'ammontare delle imposte e
tasse loro dovute, escludendo o riducendo gli interessi e le
sanzioni a carico del contribuente.
L'unico obbligo imposto ex lege, nel rispetto dello Statuto del contribuente (legge
212/2000), riguarda il termine minimo che deve intercorrere
tra l'entrata in vigore del regolamento e la scadenza degli
adempimenti a carico degli interessati. E' stata infatti
lasciata agli enti la facoltà di fissare autonomamente il
termine per regolarizzare le violazioni commesse, purché non
inferiore a 60 giorni dalla data di pubblicazione dell'atto
regolamentare
(articolo ItaliaOggi del 15.02.2013
- link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
Locazioni della PA, adeguamenti Istat
''congelati' fin dal 07.07.2012.
La recenti disposizioni in materia di
contenimento della spesa pubblica, laddove prevedono che, in
considerazione dell'eccezionalità della situazione economica
e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento
degli obiettivi di ''risparmio'', per gli anni 2012, 2013 e
2014, l'aggiornamento relativo alla variazione degli indici
ISTAT, previsto dalla normativa vigente, non si applica al
canone dovuto dalle Amministrazioni inserite nel conto
economico consolidato della Pubblica Amministrazione a
decorre dal 7 luglio 2012 e, quindi, esplica efficacia
contenitiva dei canoni a far tempo da tale data.
Il parere in rassegna, pronunciato dalla Corte dei
Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, giusto
parere
14.11.2012 n. 472, a fronte dell'interpello di un
Sindaco formulato ex art. 7, comma 8, L. 05.06.2003, n. 131,
ritiene che l'art. 3, comma 1, D.L. 06.07.2012, n. 95,
convertito nella L. 07.08.2012, n. 135, laddove prevede che
"In considerazione dell'eccezionalità della situazione
economica e tenuto conto delle esigenze prioritarie di
raggiungimento degli obiettivi di contenimento della spesa
pubblica, a decorrere dalla data di entrata in vigore del
presente provvedimento, per gli anni 2012, 2013 e 2014,
l'aggiornamento relativo alla variazione degli indici ISTAT,
previsto dalla normativa vigente, non si applica al canone
dovuto dalle Amministrazioni inserite nel conto economico
consolidato della Pubblica Amministrazione (...)",
decorre dal 07.07.2012 e, quindi, esplica efficacia
contenitiva dei canoni a far tempo da tale data.
E' di tutta evidenza la ratio della disposizione,
ovvero la riduzione delle spese per acquisti di beni e
servizi (tra cui quelle per locazioni passive), da parte dei
soggetti pubblici citati nel preambolo del decreto, e posta
alla base di altre previsioni normative, tra cui proprio
l'art. 3, il quale dispone, in particolare, che
l'aggiornamento relativo alla variazione degli indici ISTAT,
previsto dalla normativa in relazione alle locazioni
passive, non si applichi al canone dovuto dalle
amministrazioni inserite nel conto economico consolidato
della p.a..
Si tratta, in altri termini di un blocco degli aggiornamenti
ISTAT dei canoni dovuti per le locazioni passive delle P.A.
per gli anni 2012, 2013 e 2014, in forza del quale,
sostanzialmente, in deroga a quanto pattuito per i contratti
in essere, dal 07.07.2012 (data di entrata in vigore del
decreto), gli aggiornamenti annuali ISTAT non sono
applicabili.
In merito, dubbi interpretativi sono immediatamente sorti
sul perimetro d'applicazione del blocco dell'aggiornamento
ISTAT, stante un'imprecisione normativa dovuta al
riferimento del comma 1, in commento, all'annualità 2012, e
contemporaneamente all'espressa previsione di decorrenza
dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento
(07.07.2012).
E' per questo che il Comune istante chiede al magistrato
contabile di conoscere se il mancato adeguamento ISTAT valga
retroattivamente dal primo gennaio 2012, o piuttosto decorra
dal 07.07.2012: il pagamento di canoni al lordo
dell'adeguamento ISTAT costituirebbe, infatti, danno
patrimoniale arrecato all'ente per aver sostenuto spese in
violazione della legge.
L'interpellata Corte dei Conti-Emilia Romagna, col parere 14.11.2012 n. 472,
risolve il quesito svolgendo due considerazioni di fondo:
- in primo luogo, emerge la chiara formulazione della norma
che esplicitamente introduce e individua sul piano letterale
la propria dimensione, circoscrivendo, formalmente, da un
lato l'orizzonte applicativo temporale ("per gli anni
2012, 2013, 2014") e, dall'altro, individuando
apertamente l'avvio della portata prescrittiva, esprimendosi
con la formula: "a decorrere dall'entrata in vigore del
presente provvedimento";
- in secondo luogo, conferma compiutamente tale
convincimento la relazione tecnica all'art. 3, comma 1, D.L.
n. 95 del 2012 in analisi, relazione autorevolmente ripresa
e, per questa parte, avvalorata in sede di resoconti
Parlamentari, dalla quale si evince che il risparmio di
spesa corrente, stimato, programmaticamente, per il 2012, a
seguito dell'introduzione del provvedimento in esame,
risulta notevolmente contenuto in rapporto alle previsioni
relative al 2013, 2014, proprio a motivo della diversità
temporale del riferimento applicativo.
Tutto ciò premesso, la Corte, sul piano logico-giuridico,
ricava necessariamente una decorrenza della norma in esame a
far tempo dal 07.07.2012 e, quindi, un'efficacia contenitiva
dei canoni, indotta dal prescritto non aggiornamento
dell'indice ISTAT, a far tempo dalla predetta data (commento
tratto da www.ipsoa.it). |
NEWS |
CONSIGLIERI
COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: CONSIGLIO
DEI MINISTRI/ Ok definitivo al decreto con i nuovi obblighi
per gli uffici. La p.a. ora non ha più segreti.
Trasparenti patrimoni, rendiconti, contratti, incarichi.
In attuazione del principio di accessibilità totale delle
informazioni, previsto l'obbligo di pubblicità delle
situazioni patrimoniali di politici e parenti entro il
secondo grado; pubblici anche i rendiconti dei gruppi
consiliari regionali e provinciali; accessibili e da
pubblicare i dati sui premi del personale pubblico e sul
trattamento accessorio; ampliata la sfera di dati relativi
ai contratti pubblici di lavori, forniture e servizi che
devono essere resi pubblici; trasparenza anche sugli
incarichi dei dipendenti pubblici; previsto il previsto il
Piano triennale per la trasparenza e l'integrità, che detta
gli obblighi di trasparenza e gli obiettivi collegati con il
piano della performance.
Queste le novità più rilevanti del
decreto con la disciplina degli obblighi di pubblicità,
trasparenza e diffusione delle informazioni da parte delle
p.a. approvato ieri in via definitiva dal consiglio dei
ministri.
L'articolato conferma in larga parte la versione
approvata in via preliminare e recepisce le osservazioni
contenute nei pareri del Garante della privacy e di Regioni,
province e Comuni che hanno partecipato alla Conferenza
unificata.
Le modifiche
Fra le modifiche apportate a valle della Conferenza
unificata si segnala la previsione per cui le Regioni a
statuto speciale e le Province di Trento e Bolzano possano
individuare specifiche forme di applicazione della nuova
disciplina in ragione della peculiarità dei loro
ordinamenti. Inoltre , su richiesta delle Regioni, è stata
introdotta la pubblicazione dei dati relativi al livello del
benessere organizzativo interno alle pubbliche
amministrazioni e la pubblicazione dei risultati delle
indagini di «customer satisfaction» effettuati.
Data la
definizione del principio generale di trasparenza come
accessibilità totale delle informazioni che riguardano
l'organizzazione e l'attività delle p.a., allo scopo di
favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle
funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse
pubbliche, venendo al contenuto dei principali obblighi, per
quel che riguarda i politici, il regolamento stabilisce
l'obbligo di pubblicità delle situazioni patrimoniali di
politici, e parenti entro il secondo grado. Dovranno essere
resi pubblici poi gli atti dei procedimenti di approvazione
dei piani regolatori e delle varianti urbanistiche; i dati,
in materia sanitaria, relativi alle nomine dei direttori
generali, oltre che agli accreditamenti delle strutture
cliniche.
Rendiconti e incarichi
Evidenza pubblica anche per la pubblicazione dei rendiconti
dei gruppi consiliari regionali e provinciali, nonché per
gli atti e le relazioni degli organi di controllo, da parte
delle regioni, delle province autonome e delle province,
evidenziando, in particolare, le risorse trasferite a
ciascun gruppo, con indicazione del titolo di trasferimento
e dell'impiego delle risorse utilizzate.
Trasparenza
assoluta per gli incarichi dei dipendenti pubblici: si
prevede infatti che siano pubblicati sul sito
dell'amministrazione di appartenenza del dipendente l'elenco
di tutti gli incarichi autorizzati, con l'indicazione della
durata e del compenso spettante per ogni incarico, in
aggiunta alla pubblicazione del singolo incarico sul sito
dell'amministrazione conferente, diversa da quella di
appartenenza. Per i soggetti esterni all'amministrazione
rimane fermo l'elenco complessivo degli incarichi affidati
consultabile sulla banca dati del Dipartimento della
funzione pubblica.
I premi
Da pubblicare anche i dati relativi all'ammontare
complessivo dei premi stanziati per la performance dei
dipendenti pubblici e l'ammontare dei premi effettivamente
distribuiti. Inoltre le amministrazioni dovranno pubblicare
i dati relativi all'entità del premio mediamente
conseguibile dal personale, i dati relativi alla
distribuzione del trattamento accessorio, in forma
aggregata. Lo scopo da perseguire con questa pubblicazione è
quello di dare conto del livello di selettività utilizzato
nella distribuzione dei premi e degli incentivi.
Per quel
che riguarda i contratti pubblici il provvedimento declina i
principi di trasparenza e pubblicità come obbligo di
pubblicazione delle informazioni sui siti istituzionali di
ciascuna amministrazione pubblica in modo da rendere
conoscibili ed accessibili gli elementi delle procedure di
affidamento (l'oggetto del band, l'elenco degli offerenti,
l'aggiudicatario, l'importo di aggiudicazione, i tempi di
completamento dell'opera, servizio o fornitura; l'importo
delle somme liquidate).
Entro il 31 gennaio di ogni anno,
tali informazioni, relativamente all'anno precedente,
dovranno essere pubblicate in tabelle riassuntive rese
liberamente scaricabili in un formato digitale standard
aperto) per un maggior controllo sull'imparzialità degli
affidamenti, nonché una maggiore apertura degli appalti
pubblici alla concorrenza.
Obblighi di pubblicazione
Opportunamente la norma richiama, attraverso una formula
omnicomprensiva, tutti gli obblighi di pubblicazione, in
materia di contratti pubblici, derivanti dalla normativa
nazionale, citando espressamente anche le norme che
impongono alle stazioni appaltanti la pubblicazione sui
quotidiani per estratto degli avvisi e bandi di gara, oltre
a tutte le altre norme che prevedono la pubblicazione sulla
gazzetta ufficiale, sui siti istituzionali e sui siti delle
singole amministrazioni (avvisi di preinformazione,
pubblicità dei sistemi di qualificazione nei cosiddetti
settori speciali ecc.).
Di particolare rilievo anche
l'obbligo di pubblicare la delibera a contrarre che dispone
il ricorso all'affidamento con procedura negoziata senza
bando e invito ad almeno tre soggetti (o cinque per i
servizi di ingegneria e architettura). Prevista anche la
pubblicità dei processi di pianificazione, realizzazione e
valutazione delle opere pubbliche. Viene disciplinato il
Piano triennale per la trasparenza e l'integrità –che è
parte integrante del Piano di prevenzione della corruzione– e che deve indicare le modalità di attuazione degli obblighi
di trasparenza e gli obiettivi collegati con il piano della
performance.
Nel piano dovranno anche essere indicati gli
obiettivi collegati con il piano della performance previsto
dal dlgs n. 150/2009, dal momento che il perseguimento di
obiettivi di maggiore trasparenza deve costituire area
strategica organizzativa e individuale della pubblica
(articolo ItaliaOggi del 16.02.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: CONSIGLIO
DEI MINISTRI/ Ultimo sì per la semplificazione degli adempimenti. L'ambiente alleggerisce le pmi.
Autorizzazione unica. E la regione potrà snellire ancora.
Meno adempimenti in materia ambientale per le imprese.
Arriva l'autorizzazione unica ambientale (Aua) che
sostituisce fino a sette procedure diverse (ad esempio:
l'autorizzazione allo scarico di acque reflue industriali,
l'autorizzazione alle emissioni in atmosfera, la
documentazione previsionale di impatto acustico ecc.).
Basterà un'unica domanda da presentare per via telematica
allo Sportello unico per le attività produttive per
richiedere l'unica autorizzazione necessaria. Le Regioni
potranno estendere ulteriormente il numero di atti compresi
nell'Aua (si veda ItaliaOggi di ieri).
Il consiglio dei
ministri ha approvato ieri in via definitiva il regolamento
che disciplina l'Aua e la semplificazione degli adempimenti
amministrativi in materia ambientale per le imprese e gli
impianti non soggetti ad autorizzazione integrata
ambientale.
L'Aua, spiega una nota di palazzo Chigi,
costituisce il primo blocco della semplificazione delle
procedure di autorizzazione ambientali, peraltro già
previste nel decreto semplificazioni, con particolare
riferimento ad Autorizzazione integrata ambientale e
Valutazione d'impatto ambientale. La piena applicazione
dell'Aua, secondo l'esecutivo, garantirà un risparmio
complessivo di 700 milioni di euro all'anno per le pmi.
Vediamo le altre novità.
Detenuti. Il presidente del Consiglio ha riferito di aver
firmato il decreto, proposto dal ministro della giustizia,
che destina 16 milioni di euro agli interventi per favorire
l'attività lavorativa dei detenuti, in attuazione della
legge n. 193 del 2000.
Sisma. Il Consiglio, a seguito della richiesta delle regioni
Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto ha deliberato una deroga
al limite (previsto dalla legge di Stabilità 2013) del 20%
all'acquisto di beni mobili e all'affitto di beni immobili a
favore dei comuni colpiti dal sisma del maggio 2012. La
deroga garantirà ai comuni danneggiati di far fronte alle
spese di allestimento degli immobili destinati a servizi di
pubblica utilità, in particolare le scuole e i municipi.
Incompatibilità. Il Consiglio ha avviato l'esame di un
decreto legislativo che attua la legge anti-corruzione nella
parte relativa alla inconferibilità e incandidabilità di
incarichi nelle p.a. e negli enti controllati (si veda
ItaliaOggi di ieri).
Enti locali. Ok via preliminare a un regolamento sulla
composizione e sulle modalità di funzionamento della
Commissione per la stabilità finanziaria degli enti locali.
Esso riduce di quattro unità il numero di componenti della
Commissione (da 15 a 11); prevede che la partecipazione alle
sedute sia svolta a titolo gratuito e non dia diritto ad
alcun rimborso spese a carico del ministero; disciplina la
sottocommissione, costituita da otto rappresentanti statali
e quattro rappresentanti Anci.
Vigili del fuoco. Approvato in via preliminare anche il
regolamento che disciplina i tempi e le modalità di
attuazione del trasferimento della flotta aerea antincendio
della Protezione civile al Dipartimento dei vigili del
fuoco. Le operazioni di trasferimento dovranno terminare
entro i 30 giorni che precedono l'inizio della campagna
antincendio boschivo 2013. In caso contrario il regolamento
prevede che vengano sospese e completate entro i 30 giorni
successivi alla fine della campagna.
Ozono.
Varato in via preliminare il decreto legislativo che
disciplina le sanzioni per la violazione delle norme europee
sulle sostanze che riducono lo strato di ozono (Regolamento
Ce n. 1005 del 2009 del Parlamento europeo e del Consiglio).
La normativa europea ha l'obiettivo di contribuire alla
riduzione delle emissioni di ozono inquinante prevista dal
Protocollo di Montreal e stabilisce le norme in materia di
produzione, importazione, esportazione, immissione sul
mercato, uso, recupero, riciclo rigenerazione e distruzione
delle sostanze che riducono lo stato di ozono.
Il regolamento attribuisce agli stati membri di disciplinare
le sanzioni nel rispetto dei principi di efficacia,
proporzionalità e dissuasione. Il decreto approvato dal
Consiglio disciplina pertanto le sanzioni amministrative e
pecuniarie per tutte le violazioni alle norme del
Regolamento
(articolo ItaliaOggi del 16.02.201). |
EDILIZIA
PRIVATA: Impianti
termici, ispezioni indipendenti.
Ispezioni per gli impianti termici effettuate in maniera
indipendente da esperti qualificati o riconosciuti.
Semplificazioni amministrative per i cittadini e le p.a. in
tema di controlli e ispezioni dei sistemi di condizionamento
dell'aria.
Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri due
regolamenti che attuano il decreto legislativo n. 192 del
2005 e uniformano le norme italiane alla direttiva europea
sul rendimento energetico in edilizia (direttiva n.
2002/91/Ce).
Il primo regolamento (si veda ItaliaOggi di
ieri) riguarda l'esercizio, la conduzione, il controllo, la
manutenzione e l'ispezione degli impianti termici per la
climatizzazione invernale ed estiva degli edifici e per la
preparazione dell'acqua calda per usi igienici sanitari.
Il
secondo regolamento definisce i requisiti professionali e i
criteri di accreditamento necessari per assicurare la
qualificazione professionale e l'indipendenza dei tecnici
esperti e degli organismi abilitati a rilasciare la
certificazione energetica degli edifici.
Scioperi. Disco verde in via preliminare a un regolamento
che modifica le norme per l'amministrazione e la contabilità
della Commissione di garanzia per l'attuazione della legge
sullo sciopero nei servizi pubblici. In particolare il
regolamento attribuisce in via esclusiva al Coordinatore
generale i compiti di gestione dell'Ufficio e riserva al
presidente della Commissione le funzioni di indirizzo e
controllo. Tra i compiti di gestione sono inclusi
l'individuazione e la ripartizione dei fondi in entrata e in
uscita in appositi capitoli, le variazioni al bilancio di
previsione, la predisposizione dei mandati di pagamento
delle spese e la stipula dei contratti.
Norme Ue: gas serra e sicurezza lavoro. Approvati in via
definitiva due decreti che recepiscono la normativa
comunitaria. Il primo provvedimento recepisce le
significative modifiche introdotte dalla direttiva
2009/29/Ce al sistema comunitario per lo scambio delle quote
di emissione di CO2 - ETS. Definisce in maniera più puntuale
il campo di applicazione per quanto riguarda gli impianti di
combustione ed ha esteso il sistema ad altri gas diversi
dalla CO2. E disciplina il metodo di assegnazione delle
quote prevedendo che le quote vengano assegnate mediante
asta.
Più precisamente, per gli impianti termoelettrici e
per gli impianti per la cattura e lo stoccaggio del carbonio
l'assegnazione sarà, salvo qualche eccezione, totalmente a
titolo oneroso («full auctioning»), mentre per gli impianti
dei settori diversi dal termoelettrico è prevista una
transizione graduale verso il «full auctioning». Il decreto
definisce anche le modalità per la gestione delle aste, che
avverranno a livello nazionale con regole armonizzate
stabilite a livello comunitario, prevedendo che una cospicua
parte dei proventi derivanti dalle aste vengano destinati al
Ministero dell'ambiente per politiche di mitigazione e per
favorire gli adattamenti ai cambiamenti climatici (ad
esempio la riduzione delle emissioni dei gas a effetto
serra, lo sviluppo delle fonti rinnovabili e dell'efficienza
energetica, l'incentivazione della cattura e lo stoccaggio
geologico ambientalmente sicuri di CO2).
Il secondo
provvedimento attua le norme europee in materia di
semplificazione e razionalizzazione delle relazioni
all'Unione europea sull'attuazione pratica in materia di
salute e sicurezza sul lavoro. La semplificazione consiste
nell'invio di una relazione unica all'Unione europea sullo
stato di attuazione di tutte le direttive in materia di
salute e sicurezza sul lavoro (confronta comunicato stampa
n. 56 del 30.11.2012)
Militari stranieri.
Varata in via preliminare una modifica al regolamento n.
1666 del 1956, concernente le modalità di esercizio della
rinuncia alla giurisdizione penale italiana nei confronti di
militari stranieri nell'ambito Nato, che adegua per il
futuro le vecchie disposizioni alle norme del codice di
procedura penale e consente l'esercizio della rinuncia
coerentemente con la precisazione dei fatti nel corso del
processo
(articolo ItaliaOggi del 16.02.2013). |
APPALTI: I
certificati antimafia ora li rilascia solo la prefettura.
Dal 13 febbraio stop al rilascio dei certificati antimafia
da parte della Camera di commercio. I soggetti che hanno
rapporti contrattuali o di natura autorizzatoria con
pubbliche amministrazioni devono richiedere la
certificazione antimafia presso le prefetture.
Questo in
seguito all'entrata in vigore del dlgs del 15/11/2012 n. 218
che ha abrogato il dpr del 03/06/1998 n. 252 e ha stabilito
che la Camera di commercio non è più competente al rilascio
dei certificati del registro delle imprese integrati con la
dicitura antimafia né al privato che si presenta allo
sportello né alle pubbliche amministrazioni o privati
gestori di servizi pubblici. Le nuove disposizioni antimafia
(dlgs 15.11.2012, n. 218) comportano anche l'aumento
del numero di soggetti e operatori economici soggetti alle
verifiche antimafia necessarie per il rilascio delle
informative.
Tra questi ora ci sono anche i gruppi europei
di interesse economico, i membri dei collegi sindacali di
società ed associazioni anche prive di personalità
giuridica, chi esercita poteri di amministrazione,
rappresentanza o direzione dell'impresa per le società
costituite all'estero prive di sede secondaria con
rappresentanza stabile in Italia, le società concessionarie
nel settore dei giochi pubblici. Si rammenta che, ai sensi
dell'art. 15 della legge 183/2011, le Pubbliche
amministrazioni nonché i gestori di pubblici servizi non
possono più richiedere ai cittadini alcun tipo di
certificato (compreso quello antimafia), ma solo
dichiarazioni sostitutive di certificazione.
Pertanto,
esclusivamente gli enti pubblici e i soggetti equiparati
potranno rivolgersi alle prefetture per la verifica delle
autocertificazioni ricevute. La documentazione antimafia
deve essere richiesta alla prefettura dalle pubbliche
amministrazioni e gli enti pubblici, anche costituiti in
stazioni uniche appaltanti, dagli enti e dalle aziende
vigilati dallo Stato o da altro ente pubblico e dalle
società o imprese comunque controllate dallo Stato o da
altro ente pubblico nonché dai concessionari di opere
pubbliche e dai contraenti generali di cui all'art. 76 del dlgs.
163/2006
(articolo ItaliaOggi del 16.02.2013
- link a www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: Incompatibilità.
Primo sì del Consiglio dei ministri al decreto attuativo
sulle cause di «inconferibilità» nelle pubbliche
amministrazioni e nelle Asl.
Altolà ai condannati nella Pa.
Non potrà essere ministro, assessore o manager pubblico chi
ha sentenza anche non definitiva.
EX MINISTRI/
Incarichi in enti o società controllate vietati per un anno
Via libera definitivo del Cdm al decreto sulla trasparenza
negli uffici pubblici.
Stop alle "porte girevoli" tra politica e amministrazione.
Il Consiglio dei ministri di ieri –che ha dato l'ok
definitivo al decreto sulla trasparenza nella Pa– ha
esaminato anche in via preliminare il decreto attuativo
della legge anticorruzione che impone l'alt di un anno agli
ex membri di governo che vogliono assumere incarichi nelle
amministrazioni statali in cui hanno esercitato la carica
oppure in Spa finanziate o vigilate dallo Stato o da enti
locali. Il divieto varrà anche per chi ha subito una
sentenza di condanna (anche non definitiva) per reati contro
la pubblica amministrazione.
Il Governo Monti prova dunque a esercitare la delega della
legge Severino sulla prevenzione dei fenomeni di corruzione
e malamministrazione dello Stato. Il Dlgs discusso a Palazzo
Chigi stabilisce in primo luogo, che i condannati per reati
contro la Pa con una pronuncia non passata in giudicato
(oppure per chi ha patteggiato), non possano ricoprire:
posizioni di vertice nelle amministrazioni statali regionali
e locali (ministri, viceministri, sottosegretari,
consiglieri, assessori, sindaci eccetera); ruoli
dirigenziali e di amministratori di enti pubblici nazionali,
regionali e locali; cariche dirigenziali, sia interne che
esterne, nella Pa e negli enti di diritto privato in
controllo pubblico (nazionali, regionali e locali);
incarichi di direttore generale, direttore sanitario e
amministrativo nelle Asl. E ciò per un periodo massimo di 5
anni. Il divieto diventa perpetuo se la condanna è passata
in giudicato e se è accompagnata dall'interdizione
permanente dai pubblici uffici.
Lo stesso provvedimento fissa inoltre i criteri per l'«inconferibilità»
di mandati nelle amministrazioni statali, regionali e locali
a soggetti che provengono da enti di diritto privato
regolati o finanziati. Stop anche agli incarichi per chi
nell'anno precedente è stato premier, ministro o
sottosegretario. Tutti questi soggetti per un anno non
potranno avere incarichi amministrativi di vertice e
dirigenziali nelle Pa in cui hanno esercitato la carica,
così come non potranno diventare amministratori di enti
pubblici o di un ente di diritto privato in regime di
controllo pubblico di livello nazionale, controllati,
vigilati o finanziati dallo Stato, che operano
prevalentemente nei settori connessi con la carica
ricoperta.
Nuove regole anche per gli incarichi direttivi nel comparto
sanità. I candidati, non eletti, «in elezioni europee,
nazionali, regionali e locali, in collegi elettorali che
comprendano il territorio di competenza della asl» non
potranno guidare le aziende sanitarie locali per 5 anni.
Stop che sarà invece di due anni per gli ex membri di
governo o di uno per gli ex parlamentari. Accanto all'«inconferibilità»
il Dlgs sancisce poi le cause d'«incompatibilità» per le
stesse categorie di soggetti. E applicando le disposizioni
citate poc'anzi.
Il Cdm di ieri ha dato poi l'ok definitivo al nuovo
regolamento sulla trasparenza amministrativa e sull'obbligo
di pubblicazione dei dati sulle situazioni patrimoniali di
politici, e parenti entro il secondo grado. Adeguando il
testo licenziato dal Governo in prima lettura il 22 gennaio
scorso alle indicazioni del garante della privacy. In tal
senso le Pa non potranno rendere noti i dati identificativi
delle persone fisiche destinatarie di sussidi e ausili
finanziari, se da questi è possibile ricavare informazioni
relative allo stato di salute o alla situazione di disagio
economico-sociale degli interessati. Su richiesta delle
Regioni, l'Esecutivo ha anche previsto che le Pa potranno
pubblicare i dati relativi al livello del benessere
organizzativo interno alle pubbliche amministrazioni e i
risultati delle indagini di customer satisfaction.
Confermato in blocco il resto del provvedimento. In primis
l'obbligo di pubblicazione degli atti dei procedimenti di
approvazione dei piani regolatori e delle varianti
urbanistiche, nonché dei dati, in materia sanitaria,
relativi alle nomine dei direttori generali, oltre che agli
accreditamenti delle strutture cliniche. Spazio al principio
della totale accessibilità delle informazioni sulla falsa
riga del Freedom of Information Act statunitense, che
garantisce l'accessibilità di chiunque lo richieda a
qualsiasi documento o dato in possesso delle Pa, salvo i
casi in cui la legge lo esclude espressamente.
Degno di nota inoltre il diritto di accesso civico agli atti
dell'amministrazione in base al quale tutti i cittadini
hanno diritto di chiedere e ottenere che le amministrazioni
pubbliche rendano noti atti, documenti e informazioni che
detengono e che, per qualsiasi motivo, non hanno ancora
divulgato. E non mancano misure ad hoc sui concorsi
pubblici. Oltre al rispetto degli obblighi di pubblicità
legale, gli uffici pubblici dovranno rendere noti i bandi
per il reclutamento a qualsiasi titolo di personale.
Previsti infine gli obblighi di aggiornamento costante
dell'elenco dei bandi e di indicazione on-line di quelli
svolti negli ultimi due anni. Con tanto di report su
dipendenti assunti e spese sostenute
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.02.2013
- link a www.ecostampa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Controlli
sulle caldaie con intervalli ridotti.
ESTATI MENO FRESCHE/
Fissato a 26 gradi –con 2° di tolleranza– il limite sotto
il quale non è consentito in estate abbassare la temperatura.
Nuove regole per gli impianti termici domestici e per il
loro utilizzo, d'inverno come d'estate. Il Consiglio dei
ministri ha approvato ieri i regolamenti che attuano il
decreto legislativo 192 del 2005 e uniformano le norme
italiane alla direttiva europea sul rendimento energetico in
edilizia (2002/91/CE), resi necessari proprio dalla
procedura d'infrazione europea in corso per il non completo
recepimento.
Il primo regolamento riguarda l'esercizio, la conduzione, il
controllo, la manutenzione e l'ispezione degli impianti
termici per la climatizzazione invernale ed estiva degli
edifici e per la preparazione dell'acqua calda per usi
igienici sanitari. La nuova normativa interviene sui
controlli e sulle ispezioni degli impianti di
climatizzazione estiva, che integra quella già esistente per
gli impianti di climatizzazione invernale. Le ispezioni per
gli impianti termici saranno effettuate in maniera
indipendente da esperti qualificati o riconosciuti, nel
contesto di semplificazioni amministrative per i cittadini e
per la pubblica amministrazione anche per controlli e
ispezioni dei sistemi di condizionamento dell'aria.
Il secondo regolamento approvato dal Cdm fissa i requisiti
professionali e i criteri di accreditamento necessari per
assicurare la qualificazione professionale e l'indipendenza
dei tecnici esperti e degli organismi abilitati a rilasciare
la certificazione energetica degli edifici.
Dall'entrata in vigore del Dpr la cadenza dei controlli
sull'efficienza energetica sarà ogni due anni per gli
impianti a combustibile liquido o solido e di quattro anni
per quelli a gas, metano o gpl. Solo se la potenza termica è
maggiore o uguale a 100 kW i tempi si dimezzano. Di fatto è
una rivoluzione, perché quelli con potenza inferiore sono la
quasi totalità. I limiti attuali, fissati dai decreti
legislativi 192/2005 e 311/2006, sono più severi: per le
caldaie sotto i 35 kW di potenza, i controlli sono annuali
se il combustibile è liquido o solido, ogni due anni se
l'impianto è a gas, è all'interno o supera gli otto anni di
età, ogni quattro se la caldaia è di tipo B o C ed è a gas.
Tutti gli altri impianti si verificano una volta l'anno.
Novità anche in condominio o negli edifici con unico
proprietario ma più unità immobiliari: il proprietario unico
o l'amministratore dovranno esporre una tabella con indicati
il periodo di accensione e orario di attivazione
giornaliera, le generalità e il recapito del responsabile
dell'impianto, il codice dell'impianto assegnato dal Catasto
territoriale degli impianti termici.
Cambiano invece la figura e le mansioni del responsabile
dell'impianto (infatti viene abrogato l'articolo 11 del Dpr
412/1993): la delega al "terzo responsabile" diventerà sempre
possibile, tranne nel caso di impianti autonomi in singole
unità immobiliari che non siano installati in locali tecnici
dedicati (come spesso accade nelle villette). I responsabili
rispondono del mancato rispetto delle norme relative
all'impianto, anche sotto il profilo della sicurezza e della
tutela ambientale. Viene anche fissato il limite dei gradi
(media ponderata dei singoli ambienti) sotto i quali non è
consentito, nei mesi estivi, abbassare ulteriormente la
temperatura: 26 gradi (con -2° di tolleranza).
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Le novità
01 | I CONTROLLI
I controlli sugli impianti energetici saranno ogni 2 anni
per quelli a combustibile liquido o solido e di 4 anni per
quelli a gas, metano o gpl. Solo se la potenza termica è
maggiore o uguale a 100 kW i tempi si dimezzano. Quelli con
potenza inferiore sono la quasi totalità degli impianti
esistenti
02 | LA PUBBLICITÀ
Novità anche in condominio o negli edifici con unico
proprietario ma più unità immobiliari: il proprietario unico
o l'amministratore dovranno esporre una tabella con indicati
il periodo di accensione e orario di attivazione
giornaliera, le generalità e il recapito del responsabile
dell'impianto, il codice dell'impianto assegnato dal Catasto
territoriale degli impianti termici
03 I TECNICI INDIPENDENTI
Il nuovo regolamento prevede che le ispezioni per gli
impianti termici vengano effettuate in maniera indipendente
da esperti qualificati o riconosciuti (articolo Il Sole 24 Ore del 16.02.2013). |
APPALTI
FORNITURE: Nelle
forniture responsabilità solidale esclusa. Attesa la
circolare dell'Agenzia.
IL PRINCIPIO/ L'analisi della norma porta a considerare
fuori dal vincolo anche le prestazioni dei professionisti.
La nuova responsabilità solidale negli
appalti (articolo 13-ter del Dl 83/2012) non si applica né
alle prestazioni dei professionisti né ai contratti di
semplice fornitura di beni o servizi (come trasporto e
noleggio).
Questo principio, che deriva da un'interpretazione letterale
della norma e dalle regole che informano la disciplina degli
appalti, non sembra essere stato ancora metabolizzato dalle
imprese committenti, che continuano a inondare di richieste
consulenti e prestatori per ottenere da questi ultimi
l'agognata autocertificazione che li "esclude"
dall'applicazione delle relative sanzioni.
A dire il vero anche negli ultimi convegni in cui sono
intervenuti esponenti del l'agenzia delle Entrate le
risposte hanno sempre rinviato a una circolare di prossima
pubblicazione che dovrebbe definitivamente chiarire il
punto.
La specifica normativa va comunque riportata necessariamente
nell'ambito giuridico del contratto di appalto. Questa
lettura della portata della norma discende dal dettato della
disposizione, che espressamente si rivolge ai contratti di
appalto di opere e servizi e, sul piano soggettivo individua
come destinatari delle nuove regole l'appaltatore, il
subappaltatore e il committente.
L'appalto si caratterizza per la presenza di un fare, e
questo sin dalla definizione normativa dell'articolo 1655
del Codice civile: «L'appalto è il contratto col quale
una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e
con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o
di un servizio verso un corrispettivo in danaro». Questo
esclude tutti quei contratti in cui invece abbia una
prevalenza l'aspetto del dare (compravendita,
somministrazione, locazione, eccetera).
La definizione normativa di appalto fa specifico riferimento
a «opere» o «servizi»; il fatto che nell'ambito della
normativa comunitaria (e poi nazionale) sui contratti
pubblici sia comunemente assimilata anche la «fornitura»,
non può fare sorgere alcun dubbio in ordine al l'esclusione
dei contratti privati di fornitura dalla norma in questione.
Ciò sia perché la norma in questione esclude espressamente i
contratti pubblici dal proprio spettro applicativo, sia
perché il nuovo comma 28 recita: «In caso di appalto di
opere o di servizi», non includendovi le forniture (si
deve registrare l'incongruità della menzione agli «appalti
di opere, forniture e servizi» operata al comma 28-ter,
mutuata dalla terminologia degli appalti pubblici, e
incoerente con il comma 28 che invece chiaramente delinea
l'ambito applicativo della solidarietà ai soli appalti di
opere o servizi): in assenza di un'interpretazione autentica
del legislatore, non può che prevalere la prima
disposizione, la quale individua l'ambito applicativo
sostanziale della norma, rispetto alla seconda che ne fa un
mero –ed erroneo– richiamo al solo fine di specificare che
deve trattarsi di appalti soggetti a regime Iva). La stessa
agenzia delle Entrate, nella circolare n. 40/E
dell'08.10.2012, avvalora tale impostazione laddove
riconosce che tale ultima disposizione normativa «ha
modificato la disciplina in materia di responsabilità
fiscale nell'ambito dei contratti d'appalto e subappalto di
opere e servizi».
Andrebbero parimenti esclusi quei contratti che
costituiscono locazione d'opera professionale, rispetto ai
quali sia la Corte dei conti (Sezione regionale di controllo
per la Lombardia - deliberazione n. 37 del 04.03.2008) che
il Consiglio di Stato (IV sezione, 29.01.2008 n. 263) hanno
segnato una chiara differenza rispetto all'appalto, in
particolare per l'inesistenza di una «organizzazione di
impresa» che caratterizza invece l'appalto
(articolo Il
Sole 24 Ore del 15.02.2013
- link a www.corteconti.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Certificatori indipendenti per il risparmio
energetico.
Abilitati ingegneri e tecnici iscritti all'albo, enti
pubblici operanti in edilizia e impiantistica.
Al vaglio dell'esecutivo il regolamento sui
requisiti professionali.
Abilitati come certificatori energetici i professionisti
tecnici iscritti all'albo e le società di ingegneria e di
servizi, le Esco, gli enti pubblici operanti nei settori
dell'energia e dell'edilizia e gli organismi di ispezione
operanti nel settore edile, dell'ingegneria e civile e
dell'impiantistica; previsti requisiti di indipendenza e
imparzialità; necessario il superamento di un esame a
seguito di apposito corso di formazione; l'attestato di
certificazione energetica avrà natura di atto pubblico.
È quanto prevede la
bozza di regolamento sui requisiti
professionali e i criteri di accreditamento dei
certificatori energetici che sarà discusso oggi dal
consiglio dei ministri. Si tratta del provvedimento che
attua l'art. 4, comma 1, lettera c), del dlgs n. 192/2005 che
a sua volta ha attuato la direttiva 2002/91/Ce sul
rendimento energetico in edilizia e che dovrebbe porre fine
alla procedura d'infrazione avviata dalla Commissione
europea per il mancato recepimento della direttiva europea.
Potranno essere abilitati e riconosciuti come certificatori
in primo luogo i tecnici abilitati operanti sia in veste di
dipendenti di enti e organismi pubblici o di società di
servizi pubbliche o private, comprese le società di
ingegneria, sia come professionista libero o associato.
In
questo caso si deve trattare di laureati o diplomati di
istruzione tecnica, settore tecnologico, iscritti ai
relativi ordini e collegi professionali, ove esistenti, e
abilitati all'esercizio della professione relativa alla
progettazione di edifici e impianti asserviti agli edifici
stessi. Saranno poi abilitati come certificatori gli enti
pubblici e gli organismi di diritto pubblico operanti nel
settore dell'energia e dell'edilizia, che esplicano
l'attività con un tecnico, o con un gruppo di tecnici
abilitati, in organico, con gli stessi requisiti dei tecnici
abilitati; gli organismi pubblici e privati qualificati a
effettuare attività di ispezione nel settore delle
costruzioni edili, opere di ingegneria civile in generale e
impiantistica connessa, accreditati sulla base delle norme
Uni Cei En Iso/Iec 17020 e infine le società di servizi
energetici (Esco). Non basterà però essere in possesso di
questi requisiti perché le quattro categorie di
certificatori dovranno anche acquisire un attestato di
frequenza, con superamento dell'esame finale, relativo a
specifici corsi di formazione per la certificazione
energetica degli edifici.
Richiesta anche una dichiarazione sull'«assoluta
imparzialità e indipendenza» del certificatore rispetto
all'incarico da acquisire: si dovrà dichiarare l'assenza di
conflitto di interessi, tra l'altro espressa attraverso il
non coinvolgimento diretto o indiretto nel processo di
progettazione e realizzazione dell'edificio da certificare o
con i produttori dei materiali e dei componenti in esso
incorporati, nonché rispetto ai vantaggi che possano
derivarne al richiedente, che in ogni caso non deve essere
né il coniuge né un parente fino al quarto grado.
Saranno poi le regioni a dettare le norme di attuazione per
adottare un sistema di riconoscimento dei soggetti abilitati
come certificatori energetici, per la formazione e
l'aggiornamento e per verificare la correttezza e la qualità
dei servizi resi all'utenza. Il regolamento prevede anche
che l'attestato di certificazione energetica rilasciato dai
certificatori abbia natura di atto pubblico
(articolo ItaliaOggi del 15.02.2013). |
PUBBLICO
IMPIEGO: PRIVACY/
Provvedimento del garante riconosce i diritti dell'azienda,
ma con limiti. Pc dei dipendenti, non si tocca.
Controlli previa informazione e nel rispetto della dignità.
Una società non può controllare il contenuto del pc di un
dipendente senza averlo prima informato di questa
possibilità e senza il pieno rispetto della libertà e della
dignità del lavoratore.
Lo ha affermato, con il
provvedimento
18.10.2012 n. 307, il garante
privacy.
Decidendo un ricorso di un dipendente il garante ha
stabilito che nel caso specifico un dipendente è stato
licenziato sulla base dei documenti presenti in una cartella
personale del pc portatile aziendale, consegnato per il
periodico back up. Nella cartella personale si trovavano
documenti relativi a una attività svolta dal dipendente in
concorrenza con il suo datore di lavoro. La società, secondo
il garante, ha violato la privacy del lavoratore in quanto
non ha informato il lavoratore sui limiti di utilizzo del
bene aziendale e sulla modalità di analisi e verifica sulle
informazioni contenute nel pc stesso.
In altre parole l'azienda non ha inserito nella policy
aziendale un esplicito riferimento alle operazioni di
controllo su tutte le cartelle archiviate nella memoria del
computer. Il garante ha, comunque, ribadito che il datore di
lavoro può effettuare controlli mirati al fine di verificare
l'effettivo e corretto adempimento della prestazione
lavorativa e, se necessario, il corretto utilizzo degli
strumenti di lavoro. Quanto all'utilizzo dei dati in sede
giudiziaria (nel processo sul licenziamento) è il giudice
che deve decidere l'utilizzabilità nel procedimento civile
già in corso della documentazione acquisita agli atti.
Punti patente
Estratto conto dettagliato dei punti patente. Si devono
indicare tutti i movimenti, in più e in meno, e non solo il
saldo finale. Il garante della privacy, con il provvedimento
n. 25 del 24.01.2013, ha imposto al ministero delle
infrastrutture e dei trasporti di aggiornare sul web il «portale
dell'automobilista» in modo da consentire
all'interessato di conoscere tutta la movimentazione dei
punti patente. La stessa cautela deve essere osservata
nell'invio agli automobilisti di estratti cronologici.
Il trattamento delle informazioni relativi ai punti patente
costituisce un trattamento di dati personali, soggetto al
codice della privacy. È per questo che i dati devono essere
esatti e aggiornati. Tuttavia il garante ha accertato che
gli estratti cronologici disponibili all'automobilista non
contengono, nel dettaglio e cronologicamente, la totalità
delle stesse variazioni, traendone la conseguenza che i dati
non sono esatti e completi. L'automobilista, in particolare,
deve essere messo in grado di capire anche quando le
maggiorazioni dei punti, dapprima attribuite per assenza di
violazioni, a posteriori vengono cancellate per successive
registrazioni di infrazioni da cui deriva la perdita di
punti.
Per ripristinare la correttezza delle informazioni il
garante ha prescritto al ministero di cambiare entro sei
mesi le procedure. In futuro le comunicazioni dovranno
contenere i dati relativi alla totalità delle variazioni dei
punti della patente, anche se effettuate in modo
automatizzato, comprese l'attribuzione di punti che,
successivamente, si è rivelata non legittimamente
effettuata, in modo che la relativa operazione di
annullamento risulti conoscibile all'interessato; questo
vale anche per il portale online dell'automobilista.
Il garante suggerisce inoltre di inserire una avvertenza con
una dicitura dalla quale si deduca che l'attribuzione dei
punti non è definitiva ma è subordinata all'assenza di una
violazione di una norma di comportamento da cui derivi la
decurtazione del punteggio, per il periodo di due anni. Per
il passato il dettaglio dei movimenti deve essere reso
disponibile su specifica richiesta dell'interessato
(articolo ItaliaOggi del 15.02.2013
- link a www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi politici e dirigenziali,
condannati bloccati.
Corruzione, concussione e altri reati contro la p.a. rendono
impossibile il conferimento. Oggi in
consiglio dei ministri lo schema di decreto attuativo della
legge anticorruzione.
Un freno agli incarichi politici e dirigenziali a coloro che
siano condannati per reati contro la pubblica
amministrazione e alla commistione tra politica e gestione.
Il Governo ha elaborato
lo schema di decreto legislativo,
attuativo della delega contenuta nella legge 190/2012
«anticorruzione», allo scopo di fissare i casi di
incompatibilità ed inconferibilità sia di cariche elettive,
sia degli incarichi dirigenziali nelle pubbliche
amministrazioni. Oggi il testo sarà all'esame del consiglio
dei ministri.
Reati contro la pubblica amministrazione
Nel caso di reati come corruzione, concussione e le altre
fattispecie di reati contro la pubblica amministrazione, il
decreto prevede l'assoluta preclusione ad incarichi
amministrativi di vertice nelle amministrazioni statali,
regionali e locali, come quelli di amministratore di ente,
quelli dirigenziali, interni e esterni, comunque denominati,
e quelli di direttore generale, direttore sanitario e
direttore amministrativo nelle aziende sanitarie locali del
servizio sanitario nazionale.
L'inconferibilità scatta anche nel caso di sentenze non
ancora passate in giudicato, e diviene perpetua, laddove vi
sia anche la condanna all'interdizione perpetua dai pubblici
uffici.
Ai dirigenti di ruolo, per la durata del periodo di
inconferibilità, si potranno assegnare incarichi diversi da
quelli che comportino l'esercizio delle competenze di
amministrazione e gestione.
La situazione di inconferibilità cessa di diritto ove venga
pronunciata, per il medesimo reato, sentenza anche non
definitiva, di proscioglimento.
Commistione tra politica e gestione
Lo schema di decreto legislativo contiene un complesso
reticolo di disposizioni finalizzato a garantire un maggior
grado di autonomia della dirigenza dalla politica.
In sostanza, si tende ad impedire che coloro che abbiano
rivestito incarichi nell'ambito di organi di indirizzo
politico nell'anno o biennio precedente, possano essere
destinatari di incarichi dirigenziali sia nelle
amministrazioni pubbliche, sia negli enti di diritto privato
partecipati o comunque finanziati dalla pubblica
amministrazione.
Il conferimento di incarichi dirigenziali, tanto a
dipendenti di ruolo, quanto a soggetti esterni, deve essere
motivato da ragioni di competenza, non di appartenenza
politica.
Il governo, forse memore del fatto che è in larga parte
composto da ex appartenenti ai vertici dirigenziali dello
Stato, ha, però, previsto che i divieti non si applicano ai
dipendenti della stessa amministrazione, ente pubblico o
ente di diritto privato in controllo pubblico che, all'atto
di assunzione della carica politica, erano già titolari di
incarichi.
Gli incarichi amministrativi di vertice, poi, non sono
compatibili con l'assunzione di cariche politiche nei
territori degli enti locali interessati. Un alto funzionario
regionale, ad esempio, non potrà assumere la carica in un
consiglio comunale con popolazione superiore ai 15 mila
abitanti o provinciale.
Conflitto di interessi
Similmente, le amministrazioni pubbliche non potranno
conferire incarichi dirigenziali di qualsiasi tipo a coloro
che nei due anni precedenti abbiano svolto funzioni
manageriali all'interno di enti di diritto privato regolati
o finanziati dall'amministrazione, dall'ente pubblico o
dall'ente di diritto privato in controllo pubblico che
conferisce l'incarico ovvero abbiano svolto in proprio
attività professionali, se queste sono regolate, finanziate
o comunque retribuite dall'amministrazione o ente che
conferisce l'incarico.
Simmetricamente, i dirigenti pubblici non potranno nel corso
dell'incarico incarichi e cariche in enti di diritto privato
regolati o finanziati dall'amministrazione, ente pubblico o
ente di diritto privato in controllo pubblico che conferisce
l'incarico. Lo scopo è sia evitare il cumulo di troppe
funzioni e remunerazioni in capo al medesimo soggetto, ma,
soprattutto, di scongiurare il pericolo di conflitti di
interessi o, comunque, di confusione tra controllore e
controllato.
Nullità
Gli incarichi conferiti in violazione delle previsioni del
decreto legislativo saranno nulli e in conseguenza di
sentenze dichiarative della loro nullità coloro che li hanno
conferiti ne rispondono sul piano della responsabilità
amministrativa.
Sulla correttezza e rispondenza degli incarichi alle
incompatibilità previste dal decreto dovrà vigilare il
responsabile della prevenzione della corruzione, che avrà il
compito di segnalare le violazioni alla Civit nella veste di
Autorità nazionale anti corruzione (che avrà penetranti
poteri di controllo e sanzione) e alla Corte dei conti. o
schema precisa che le sue disposizioni valgono non solo per
coloro che rivestono la qualifica di dirigente, ma, negli
enti locali, anche per i funzionari incaricati di funzioni
dirigenziali e per i dirigenti extra dotazione organica.
Tutti gli alti funzionari, comunque, dovranno dichiarare di
non incorrere nei casi di inconferibilità o incompatibilità
sia all'atto di assunzione dell'incarico, sia annualmente,
come conferma del permanere del proprio status
(articolo ItaliaOggi del 15.02.2013
- link a www.corteconti.it). |
TRIBUTI: La Tares non si autoliquida.
Necessari avvisi di pagamento da parte del comune.
Chiarezza dalle linee guida delle Finanze sul
prototipo di regolamento. L'Anci: rinviare.
La Tares non va versata dai contribuenti in
autoliquidazione. Deve invece essere pagata solo in seguito
alla spedizione degli avvisi di pagamento da parte dei
comuni, che devono specificare in dettaglio per ogni utenza
le somme dovute per tributo, maggiorazione e tributo
provinciale.
Questo importante chiarimento è contenuto nelle
linee guida ministeriali sul prototipo di regolamento Tares.
Il tutto mentre ieri l'Anci ha chiesto di spostare la
partenza della tares al prossimo anno. «La previsione di
luglio della Tares è insostenibile», pertanto «sia cambiata
o sia posticipata al 2014, altrimenti avremo un ulteriore
aggravio per le casse dei comuni», ha detto il presidente
dell'Anci, Graziano Delrio, durante la conferenza stampa sui
dati del gettito effettivo dell'Imu (si veda altro articolo
in pagina).
Tornando alle linee guida, vengono dunque confermate le
vecchie modalità di pagamento, che per tanti anni sono state
utilizzate per la riscossione sia della Tarsu che della Tia.
Nelle linee guida viene precisato che, pur essendo
«scomparso il sistema di riscossione ordinario tramite ruoli
che caratterizzava la Tarsu», è stato ritenuto opportuno,
«per ragioni di continuità», mantenere la prassi che prevede
l'invio ai contribuenti di «inviti di pagamento», che devono
indicare le somme da versare e le relative modalità e
termini. Pertanto, il comune riscuote il tributo comunale
sui rifiuti e i servizi inviando ai contribuenti, «anche per
posta semplice», inviti di pagamento che specificano per
ogni utenza le somme dovute per tributo, maggiorazione e
tributo provinciale, suddividendo l'ammontare complessivo
nel numero di rate previste dalla legge o deliberate
dall'ente stesso.
Per il 2013 la prima rata si verserà a
luglio, in seguito alle modifiche apportate all'articolo 14
del decreto «salva Italia» (201/2011) dall'articolo 1, comma
387, della legge 228/2012. Non è escluso un ulteriore
intervento normativo che anticipi la scadenza ad aprile. I
comuni, però, possono posticipare ulteriormente la scadenza.
Hanno inoltre il potere di variare sia i termini che il
numero delle rate di versamento. La legge di stabilità,
infatti, ha introdotto modifiche alla disciplina della Tares
sul fronte della riscossione.
Fino al 31.12.2013 la
gestione del tributo o della tariffa puntuale possono essere
affidati ai soggetti che hanno gestito lo smaltimento
rifiuti e le attività di accertamento e riscossione di Tarsu,
Tia1 e Tia2. Tributo e maggiorazione possono essere pagati
con l'F24 o con bollettino di conto corrente postale. Le
somme vanno versate direttamente al comune, in quattro rate
trimestrali scadenti nei mesi di gennaio, aprile, luglio e
ottobre. Fino alla determinazione delle nuove tariffe le
somme dovute vanno pagate in acconto, commisurato
all'importo versato nel 2012. Per le nuove occupazioni
effettuate a partire dal 2013, invece, la tassa va calcolata
tenendo conto delle tariffe deliberate nell'anno precedente.
Il conguaglio dovrà essere effettuato con la rata da pagare
dopo la determinazione delle tariffe.
Anche la maggiorazione
va pagata nella misura standard, fissata in 0,30 euro al
metro quadrato, senza applicazione di sanzioni e interessi,
contestualmente al tributo o alla tariffa, alla scadenza
delle prime tre rate. Con l'ultima rata potrà essere operato
il conguaglio, qualora il comune dovesse decidere di
aumentarla fino a 0,40 euro. È consentito il pagamento in
unica soluzione entro il mese di giugno di ciascun anno. In
caso di omesso o insufficiente versamento, come per le altre
entrate tributarie, si applica la sanzione del 30% prevista
dall'articolo 13 del decreto legislativo 471/1997.
Naturalmente il versamento con l'F24, alternativo al
pagamento del tributo con il bollettino di conto corrente
postale, consente di operare le compensazioni con altri
debiti fiscali del contribuente. Nella relazione
ministeriale viene posto in rilievo che l'obbligo di
riscossione spontanea da parte del comune è in linea con le
recenti modifiche in materia di riscossione delle entrate
degli enti locali. Mentre per la riscossione coattiva
l'articolo 14 fa salva la scelta regolamentare dell'ente di
affidare l'incarico a Equitalia o ad altro concessionario
iscritto all'albo ministeriale
(articolo ItaliaOggi del 15.02.2013
- link a www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Personale, chiuso il borsellino.
Nei bilanci nessuna risorsa aggiuntiva per i contratti.
È l'effetto prodotto dalla mancata previsione di
coperture nella legge di Stabilità.
I comuni, le province e le regioni non devono prevedere nei
propri bilanci preventivi risorse aggiuntive né per il
rinnovo dei contratti nazionali né per la tutela
retributiva, istituto che ha preso il posto della indennità
contrattuale.
È questo il principale effetto determinato
dalla mancanza nella legge di stabilità dello stanziamento
di risorse aggiuntive destinate al rinnovo dei contratti
nazionali e di specifiche disposizioni sul superamento della
spesa per il salario accessorio.
Le amministrazioni devono invece dare corso da subito alla
approvazione del fondo per le risorse decentrate: non è
necessario attendere l'adozione del bilancio preventivo e
non sono attese modifiche alle regole per la sua
costituzione.
Lo scorso 31.12.2012 è scaduto il blocco della
contrattazione collettiva nazionale prevista per il triennio
2010/2012 dal dl n. 78/2010. Ricordiamo che questo doveva
essere il primo contratto di durata triennale, sia per la
parte normativa che per la parte economica, sulla base delle
previsioni della legge Brunetta. Con la scadenza del blocco
si sarebbero dovute avviare le trattative per il rinnovo
contrattuale. Il che è però impedito, per le amministrazioni
statali, dalla mancanza di risorse aggiuntive destinate a
questo scopo. E per gli enti locali e le regioni, dalla
mancanza di una autorizzazione alla possibilità di stanziare
risorse aggiuntive per il rinnovo contrattuale. Peraltro,
sulla base del dl n. 98/2011, il governo è autorizzato a
disporre il blocco della contrattazione collettiva nazionale
quanto meno per il 2013.
Con il dlgs n. 150/2009 la indennità di vacanza contrattuale
è stata sostituita dalla tutela retributiva. Essa opera in
assenza di rinnovo contrattuale in uno dei seguenti due
modi. In primo luogo, con la erogazione entro il mese di
aprile degli aumenti previsti dalla legge di stabilità.
Ovvero, con la erogazione di un compenso che deve coprire
gli aumenti del costo della vita calcolati con la nuova
metodologia europea, sulla base delle indicazioni dettate da
una specifica intesa nazionale. Per cui, al momento attuale,
non è possibile prevedere la erogazione di alcun compenso
aggiuntivo per tutela retributiva dei dipendenti. Non si
deve considerare in alcun modo in discussione la indennità
di vacanza contrattuale erogata nel 2010 in luogo del
mancato rinnovo del contratto nazionale del triennio
2010/2012.
Le amministrazioni locali possono costituire il fondo per le
risorse decentrate, anche se non è stato approvato il
bilancio preventivo, facendo riferimento alle risorse
previste nel bilancio pluriennale. Il fondo deve essere
costituito dal dirigente con una determinazione, previa
deliberazione dell'organo di governo dell'eventuale
inserimento di risorse aggiuntive. Le relazioni sindacali
sono limitate alla semplice informazione.
Nella costituzione del fondo occorre prevedere in primo
luogo l'applicazione integrale delle regole dettate dai Ccnl
in vigore; in esse sono comprese l'inserimento nella parte
stabile sia della Ria dei dipendenti cessati dal servizio
sia dell'importo degli aumenti delle varie posizioni di
progressione orizzontale disposti dai contratti nazionali.
Successivamente occorre verificare che il fondo così
costituito non sia superiore all'importo di quello del 2010.
Nel caso in cui ciò avvenga, ad esempio per il recupero di
risorse derivanti dalla Ria dei cessati, il fondo deve
essere tagliato in modo da restare nel tetto del 2010.
In
tale calcolo non vanno considerate le risorse escluse da
tale tetto (incentivazione della realizzazione di opere
pubbliche, incentivazione degli avvocati, risorse che
l'Istat ha destinato alla incentivazione del personale di
comuni per il censimento del personale, risparmi che l'ente
ha conseguito nel fondo per la contrattazione decentrata
dell'anno precedente). Infine occorre verificare il numero
dei dipendenti in servizio e, nel caso in cui sia inferiore,
rispetto al 2010: nel caso di diminuzione si deve tagliare
in misura proporzionale il fondo
(articolo ItaliaOggi del 15.02.2013
- link a www.corteconti.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - VARI: Residenza
anche senza l'ok sanitario. Idoneità alloggi a maglie larghe.
La mancanza dei requisiti igienico-sanitari di un'abitazione
non preclude la possibile fissazione della residenza
anagrafica da parte dell'interessato. Le uniche
pregiudiziali in tal senso sono infatti previste solo per i
cittadini stranieri che richiedono il ricongiungimento
familiare.
Lo ha evidenziato il ministero dell'interno con la
circolare 14.01.2013 n. 1.
Il pacchetto sicurezza Maroni 94/2009 ha riformulato molte
disposizioni di interesse comunale introducendo, tra
l'altro, con l'art. 1/18° la possibilità che l'iscrizione
anagrafica dei cittadini possa dar luogo alla verifica
comunale delle condizioni igienico sanitarie dell'immobile.
Per cercare di interpretare correttamente questa
disposizione è stato quindi richiesto un parere al Consiglio
di stato che si è espresso con la nota n. 4849/2012.
In particolare al collegio sono stati evidenziati i dubbi di
alcuni sindaci sulla possibilità di richiedere ai cittadini
interessati all'iscrizione anagrafica (e in particolare agli
stranieri) documentazione integrativa attestante la
sussistenza dei requisiti igienico sanitari dell'immobile. A
parere del Consiglio di stato la vicenda igienico sanitaria
è estranea alle funzioni dell'ufficiale d'anagrafe. In buona
sostanza gli organi di vigilanza hanno facoltà di effettuare
anche controlli igienico sanitari ma l'esito di queste
verifiche non può ordinariamente interferire con
l'iscrizione anagrafica dei richiedenti. A maggior ragione
non si può certo limitare questo tipo di accertamento
condizionato agli stranieri.
Per quanto riguarda la disciplina di questa categoria di
soggetti occorre fare riferimento al comma 19 dello stesso
articolo 1della legge 94/2009 il quale dispone che «lo
straniero che richiede il ricongiungimento deve dimostrare
la disponibilità di un alloggio conforme ai requisiti
igienico-sanitari, nonché di idoneità abitativa, accertati
dai competenti uffici comunali».
In pratica per ottenere il nulla osta dalla questura lo
straniero che intende ricongiungersi con un proprio parente
o con il coniuge deve dimostrare la disponibilità di un
alloggio idoneo sia dal punto di vista dimensionale che
strutturale
(articolo ItaliaOggi del 15.02.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: P.a., vietato respingere le
email.
Il cittadino può inviare istanze alla posta certificata.
Dalla legge anticorruzione ecco una decisa spinta
alla semplificazione dei rapporti.
Vietato respingere le istanze rivolte alle pubbliche
amministrazioni, se inviate via mail alla posta elettronica
certificata indicata nei siti istituzionali.
L'articolo 1, comma 29, della legge 190/2012, meglio nota
come legge anticorruzione, dà una spinta estremamente decisa
verso la semplificazione dei rapporti e dei contatti tra
cittadini e imprese, da una parte, e amministrazioni
dall'altra, puntando sulla telematica.
La norma dispone che ogni amministrazione pubblica deve
rendere noto, tramite il proprio sito web istituzionale,
almeno un indirizzo di posta elettronica certificata, al
quale il cittadino potrà trasmettere istanze ai sensi
dell'articolo 38 del dpr 445/2000 e ricevere informazioni
circa i provvedimenti e i procedimenti amministrativi che lo
riguardano.
Per un verso, si introduce un sistema di relazioni semplici
tra amministrazione e cittadino.
Chi non disponga, ad esempio, di strumentazioni idonee per
navigare nel sito ed autenticarsi per avvalersi degli
eventuali servizi online offerti, anche con un semplice
telefonino che si connetta al web può comunque chiedere
informazioni sull'andamento delle pratiche di proprio
interesse, avendo il diritto a ottenere una risposta, sol
che rivolga la mail alla posta elettronica certificata
indicata dall'amministrazione.
Soprattutto, la disposizione afferma un principio: le
amministrazioni non possono pretendere la forma cartacea o
un documento informatico sottoscritto con firma digitale,
per avviare i procedimenti amministrativi. L'istanza di
parte deve essere comunque accettata e costituisce
presupposto per dare il via all'iter amministrativo.
Le amministrazioni hanno, di conseguenza, l'obbligo di
dotarsi di almeno una casella di posta elettronica
certificata, che è il punto di snodo per la ricezione delle
istanze. I sistemi di protocollazione informatica dovranno,
poi, assicurare lo smistamento delle mail provenienti da
cittadini e imprese verso gli uffici responsabili delle
istruttorie.
Quanto previsto dalla legge anticorruzione è estremamente
utile per la semplificazione dei rapporti tra
amministrazione ed amministrati, ma in parte incompleto. Non
si obbliga, infatti, il mittente a utilizzare, a sua volta,
una casella di Pec per inviare l'istanza. Manca, così, la
possibilità di attribuire certezza giuridica piena sulla
provenienza, assicurata, invece, dallo scambio di
informazioni Pec su Pec.
A questo proposito, allora, non pare né inopportuno, né in
contrasto con lo spirito della norma, richiedere che
l'istanza inviata tramite mail sia accompagnata dalla
scansione di un documento di identità o, quanto meno,
dall'indicazione del numero e della data di scadenza, così
che sia possibile ricondurre il documento inviato via mail
alla sfera giuridica del mittente. Tale precisazione
potrebbe essere contenuta nel regolamento sui procedimenti
amministrativi, che, in alternativa, visto che non è
semplice per tutti scannerizzare il documento di identità o
individuare esattamente i dati identificativi del documento
stesso, potrebbe prevedere l'obbligo del rilascio di un
recapito telefonico, per ricontattare il mittente, a fini di
verifica dell'effettiva provenienza.
Per quanto riguarda le imprese, poiché esse sono obbligate a
dotarsi di una casella di Pec, il problema non dovrebbe
porsi: si dovrebbe dare per scontato che le loro istanze
siano trasmesse tramite posta elettronica certificata. Resta
il problema del bollo, qualora, come spesso accade,
l'istanza debba scontare l'imposta. Occorre che il portale
dell'amministrazione indichi al richiedente come inserire i
dati per l'assoluzione in modo virtuale, comunicando il
numero identificativo (seriale) della marca da bollo
utilizzata, specificando che essa deve essere annullata e
conservata
(articolo ItaliaOggi del 15.02.2013
- link a www.corteconti.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Codice
di comportamento. Niente premi a chi sgarra.
Niente premio di produttività per i dipendenti che vìolino
il codice di comportamento. Tra le maggiori novità dello
schema di codice di comportamento recentemente approvato dal
consiglio dei ministri, c'è la previsione espressa che chi
«sgarra» non può aspirare ad avere incentivi individuali.
L'attuale testo dell'articolo 15, comma 3, dello schema di
regolamento stabilisce che «la grave o reiterata violazione,
debitamente accertata, delle regole contenute nel codice,
esclude la corresponsione di qualsiasi forma di premialità
comunque denominata, a favore del dipendente».
Per la prima volta si innesta nell'ordinamento giuridico un
collegamento diretto tra l'esclusione dalla produttività e i
comportamenti. Si tratta di una sorta di responsabilità
oggettiva: anche laddove il dipendente abbia espletato la
propria attività in modo produttivo, ma in violazione delle
regole di comportamento, rimane escluso da qualsiasi tipo di
incentivazione.
È una conseguenza molto forte sullo status giuridico dei
lavoratori. La norma in parte prevede delle prudenze, per
evitarne un'applicazione indiscriminata.
Non basterà una semplice violazione del codice di condotta,
ma ne occorreranno molteplici «debitamente» accertate.
Poiché l'inadempimento agli obblighi del codice comporterà
anche responsabilità disciplinare, occorrerà un accertamento
probabilmente conseguente alla conclusione di procedimenti
disciplinari che si concludano col riconoscimento della
responsabilità.
In alternativa, potrebbe essere sufficiente anche una sola
violazione, ma qualificabile come «grave», particolarmente
incidente, dunque, sia sulla responsabilità disciplinare,
sia comportante anche responsabilità civili e
amministrative.
Ovviamente, occorrerà una specifica motivazione da parte del
dirigente competente, che dovrà rendere evidente il
collegamento tra l'esclusione dal premio e l'evento che lo
giustifica.
La norma parla di qualsiasi forma di premialità, comunque
denominata. Si deve intendere, allora, che essa si estenda a
tutti i sistemi premianti attualmente regolati dalla norma,
compresa la –per ora comunque congelata– progressione
orizzontale, che per quanto determini un aumento economico
stabile dello stipendio, è pur sempre originata da una
valutazione selettiva e, quindi, costituisce anch'essa uno
strumento premiale
(articolo ItaliaOggi del 15.02.2013
- link a www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Il sindaco nel quorum.
L'esclusione è da indicare espressamente. C'è giurisprudenza non univoca sul
regolamento del consiglio.
Ai fini della determinazione del quorum strutturale,
previsto dal regolamento di un consiglio comunale, il voto
del sindaco com' è computato?
Il legislatore statale (art. 38, comma 2, del Tuel n.
267/2000) ha demandato alla fonte regolamentare, nel quadro
dei principi stabiliti dallo statuto, il funzionamento dei
consigli e la determinazione del numero legale per la
validità delle sedute, con il limite che detto numero non
può, in ogni caso, essere inferiore al «terzo dei
consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a
tal fine il sindaco_».
Premesso che sulla questione non si riscontrano orientamenti
univoci giurisprudenziali (cfr. Tar Puglia sent. 1301/2004,
Tar Lazio, sez. II-ter, sentenza n. 497/2011 e Tar Lombardia
sentenza n. 1604/2011), si ritiene che il quorum debba
essere calcolato includendo il sindaco.
In genere, infatti, le ipotesi in cui, nel quorum richiesto
per la validità della seduta non deve essere computato il
voto del sindaco o del presidente della provincia, vengono
indicate espressamente usando la formula «senza computare a
tal fine il sindaco e il presidente della provincia»
(articolo ItaliaOggi del 15.02.2013
- link a www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Commissioni consultive.
Può essere modificato un Regolamento comunale, al fine di
ridurre il numero dei componenti delle commissioni
consultive consiliari, ovvero tale riduzione potrebbe
compromettere le regole del gioco democratico, non
rispecchiando il peso numerico e di voto? Se la delibera
fosse già stata adottata dall'ente, a chi spetta l'eventuale
pronuncia di legittimità della stessa?
Ai sensi dell'articolo 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000, le
commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di
una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate
dall'apposito regolamento comunale con l'inderogabile
limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del
criterio proporzionale nella composizione. Ciò significa che
le forze politiche presenti in consiglio devono essere il
più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo
che in ciascuna di esse ne sia riprodotto il peso numerico e
di voto.
La proporzionalità, quindi, è volta ad assicurare in seno
alle commissioni la maggiore rappresentatività possibile.
Tuttavia, il legislatore non ha precisato in che modo debba
essere applicato il citato criterio di proporzionalità. È da
ritenersi che spetti al regolamento, cui sono demandate la
determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la
disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità
dei lavori, stabilire i meccanismi idonei a garantirne il
rispetto.
Secondo un orientamento giurisprudenziale, il criterio
proporzionale può dirsi rispettato ove sia assicurata la
presenza in ogni commissione di ciascun gruppo presente in
consiglio, in modo che se una lista è rappresentata da un
solo consigliere, questi deve essere presente in tutte le
commissioni costituite (v. Tar Lombardia, Brescia, 04/07/1992,
n. 796; Tar Lombardia Milano, 03/05/1996, n. 567), assicurando
una composizione delle commissioni proporzionata all'entità
di ciascun gruppo consiliare.
In ogni caso è rimessa all'autonomia organizzativa del
comune interessato l'individuazione, anche mediante
opportune integrazioni del vigente regolamento, del
meccanismo tecnico (quale voto plurimo, voto ponderato o
altro) reputato maggiormente idoneo ad assicurare a ciascun
commissario un peso corrispondente a quello del gruppo che
rappresenta.
Infatti, come precisato dalla stessa giurisprudenza
richiamata, il criterio proporzionale «è posto dal
legislatore come direttiva suscettibile di svariate opzioni
applicative, egualmente legittime purché coerenti con la ratio che quel principio sottende, e che consiste
nell'assicurare in seno alle commissioni la maggiore
rappresentatività possibile» (Tar Lombardia, n. 567/1996).
In ogni caso, qualora l'ente avesse già adottato la delibera
di variazione del regolamento comunale, spetterà al giudice
amministrativo ogni eventuale pronuncia sulla legittimità
della stessa
(articolo ItaliaOggi del 15.02.2013
- link a www.corteconti.it). |
APPALTI: Gare.
Spese a carico delle imprese.
Bandi e appalti da rendere pubblici sui quotidiani.
Alle imprese di costruzione e alle società di ingegneria e
progettazione vincere le gare di appalto dei lavori pubblici
può costare, complessivamente, 75 milioni di euro.
Si tratta dell'onere che dovranno sostenere per
l'applicazione del comma 35 dell'articolo 34 del decreto
legge 179/2012 (cosiddetto crescita 2). Esso stabilisce che
«a partire dai bandi e dagli avvisi pubblici pubblicati
successivamente al 01.01.2013, le spese per la
pubblicazione di cui al secondo periodo del comma 7
dell'articolo 66 e al secondo periodo del comma 5
dell'articolo 122 del decreto legislativo 12.04.2006, n.
163, sono rimborsate alla stazione appaltante
dall'aggiudicatario entro 60 giorni dall'aggiudicazione».
In sostanza, chi vince una gara d'appalto deve rimborsare il
comune, l'università o qualunque altro ente che l'ha
indetta, della spesa di pubblicità sostenuta per cercare chi
gli realizzasse l'opera o gli prestasse il servizio.
Gli avvisi e i bandi relativi a contratti di progettazione
del valore di almeno 500mila euro oltre che sulla «Gazzetta
Ufficiale» e sui siti informatici del ministero delle
Infrastrutture e su quello dell'osservatorio dei lavori
pubblici, devono essere pubblicati (per estratto) su almeno
uno dei principali quotidiani a diffusione nazionale e su
almeno uno dei quotidiani a maggiore diffusione locale nel
luogo ove si eseguono i lavori (comma 5, articolo 122 del
decreto legislativo 163/2006).
Tanto quelli nazionali quanto quelli locali diventano due
nel caso di bandi di rilevanza comunitaria, cioè relativi a
contratti che superano specifiche soglie di valore (comma 7,
articolo 66 del decreto legislativo 163/2006).
In una primissima versione del decreto legge 06.07.2012,
n. 95 (quello sulla spending review confezionato da Bondi)
fu prevista l'eliminazione della pubblicità dei bandi sui
giornali, con un risparmio di spesa stimato, nella relazione
tecnica di accompagnamento del decreto, in 25 milioni di
euro per il 2012 e di 75 all'anno a partire dal 2013. Prima
ancora che iniziasse la discussione del decreto la norma
(era il comma 5 dell'articolo 1) che prevedeva
l'eliminazione di questa forma di pubblicità fu cassata.
Nel maxiemendamento al decreto legge 179/2012 presentato dal
Governo spuntò una soluzione che salvava capra e cavoli: i
bandi di gara avrebbero continuato a essere pubblicati anche
sui giornali ma a spese di ingegneri e costruttori che si
aggiudicano i contratti.
L'Ance e l'Oice, le associazioni delle imprese di
costruzioni e delle società di ingegneria, lo giudicarono un
blitz negativo per le imprese. Paolo Guzzetti e Luigi Iperti,
i presidenti delle due associazioni, chiesero, senza
successo, il ritiro di quella parte dell'emendamento,
partendo dall'assunto che «è assolutamente incredibile e
fuori dalla realtà che il Governo, in un provvedimento che
dovrebbe favorire la crescita, abbia potuto inserire un
ulteriore balzello a carico delle società, degli studi
professionali e di tutte le imprese che partecipano a gare
pubbliche. È una misura iniqua per tutto il settore delle
costruzioni».
Proteste che non avuto alcun esito, visto che ora, per
legge, le spese di pubblicità devono essere rimborsate alla
stazione appaltante entro 60 giorni dall'aggiudicazione,
mentre i vincitori delle gare non ricevono i pagamenti con
la stessa sollecitudine. Proprio per questo, per imprese e
professionisti sarebbe stato più semplice se fosse stato
previsto di scontare il rimborso delle spese delle pubblici
sui giornali dal pagamento, effettuato al vincitore della
gara da parte della stazione appaltante, dell'anticipo o del
primo saldo i avanzamento dei lavori.
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La regola
01|IL RIMBORSO
Chi vince una gara d'appalto deve rimborsare il comune o
qualunque altro ente che l'ha indetta, della spesa di
pubblicità sostenuta per cercare chi gli realizzasse l'opera
o gli prestasse il servizio.
Gli avvisi e i bandi relativi a contratti di progettazione
del valore di almeno 500mila euro oltre che sulla «Gazzetta
Ufficiale» e sui siti informatici del ministero delle
Infrastrutture e su quello dell'osservatorio dei lavori
pubblici, devono essere pubblicati (per estratto) su almeno
uno dei principali quotidiani a diffusione nazionale e su
almeno uno dei quotidiani a maggiore diffusione locale nel
luogo ove si eseguono i lavori
02|NUOVI COSTI
Le imprese di costruzione e le società di ingegneria e
progettazione che vinceranno le gare di appalto dei lavori
pubblici dovranno spendere 75 milioni di euro per l'onere
che dovranno sostenere per l'applicazione del comma 35
dell'articolo 34 del decreto legge 179/2012 (cosiddetto
crescita 2)
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.02.2013
- link a www.corteconti.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Ambiente, semplificazioni in arrivo per le
imprese. In Consiglio dei ministri regolamento sui vincoli
amministrativi.
Semplificazioni in arrivo per gli adempimenti
delle imprese in materia ambientale. Con obblighi che
saranno proporzionati alle dimensioni dell'impresa e alla
sua capacità di farvi fronte.
Domani il consiglio dei ministri esaminerà un
regolamento
presidenziale avente a oggetto «Disciplina
dell'autorizzazione unica ambientale e semplificazione di
adempimenti amministrativi in materia ambientale gravanti
sulle imprese e sugli impianti non soggetti ad
autorizzazione integrata ambientale, a norma dell'articolo
23 del decreto-legge n. 5 del 2012».
La norma in questione prevede che l'autorizzazione
sostituisca ogni atto di comunicazione, notifica ed
autorizzazione previsto dalla legislazione vigente in
materia ambientale; venga rilasciata da un unico ente; il
procedimento debba essere improntato al principio di
proporzionalità degli adempimenti amministrativi in
relazione alla dimensione dell'impresa e al settore di
attività, nonché all'esigenza di tutela degli interessi
pubblici e non dovrà comportare l'introduzione di maggiori
oneri a carico delle imprese.
In sostanza, adempimenti a misura d'impresa. Tra gli altri
provvedimenti all'esame dell'esecutivo, spicca, in via
preliminare, un decreto legislativo attuativo della legge
anticorruzione, recante «Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le
pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in
controllo pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50,
della legge n. 190 del 2012».
Tra gli altri provvedimenti all'esame, due decreti
legislativi di attuazione delle seguenti direttive:
2007/30/CE che modifica talune direttive ai fini della
semplificazione e della razionalizzazione delle relazioni
all'Unione europea sull'attuazione pratica in materia di
salute e sicurezza sul lavoro; 2009/29/CE che modifica la
direttiva 2003/87/CE al fine di perfezionare ed estendere il
sistema comunitario per lo scambio di quote di emissione di
gas a effetto serra, un regolamento presidenziale su «Composizione
e modalità di funzionamento della Commissione per la finanza
e gli organici degli enti locali, a norma dell'articolo 155,
comma 2, del dlgs n. 267 del 2000», un regolamento
presidenziale di attuazione dell'articolo 4, comma 1,
lettere a), e c), del dlgs n. 192 del 2005, in materia di
definizione dei criteri generali in materia di esercizio,
conduzione, controllo, manutenzione e ispezione degli
impianti termici per la climatizzazione invernale ed estiva
degli edifici e per la preparazione dell'acqua calda per usi
igienici sanitari, più un altro che attiene invece alla
disciplina dei criteri di accreditamento per assicurare la
qualificazione e l'indipendenza degli esperti e degli
organismi a cui affidare la certificazione energetica degli
edifici e l'ispezione degli impianti di climatizzazione (articolo
ItaliaOggi del 14.02.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Dal 13/2 servizi integrati sul Suap. La pratica
edilizia allo Sportello unico.
Le pratiche edilizie dal 13 febbraio viaggiano sul Suap, lo
sportello unico delle attività produttive.
Nell'ottica di consolidare l'esperienza del Suap e
diffonderne sempre di più l'impiego, InfoCamere, Cassa
italiana di previdenza e assistenza dei Geometri liberi
professionisti, Groma e Ancitel hanno raggiunto un accordo
per fornire servizi integrati a tutti i professionisti
tecnici: geometri, architetti, periti e ingegneri
all'interno dello sportello unico delle attività produttive.
Il primo importante risultato dell'accordo è l'integrazione
della piattaforma Sipem, la soluzione telematica che
permette la gestione delle pratiche edilizie su internet, e
lo sportello unico delle attività produttive. Il dialogo tra
i due applicativi e cioè Sipem e sportello unico attività
produttive, sviluppati rispettivamente da Groma, Ancitel e
da InfoCamere, consentirà all'utenza professionale la
predisposizione di pratiche di competenza del Suap, che
includano adempimenti in materia di edilizia produttiva. La
base per la sperimentazione di questa nuova soluzione
saranno tutti i 3 mila Comuni, distribuiti su tutto il
territorio nazionale, che operano con le camere di commercio
attraverso uno schema operativo di sportello unico standard.
I lavori di integrazione e sperimentazione si svilupperanno
per tutto il 2013. La cooperazione con Sipem è solo il primo
esempio del programma di «apertura» della piattaforma
camerale verso l'integrazione con front office
specialistici utilizzati da un'utenza professionale.
Dobbiamo ricordare che lo sportello unico dell'edilizia è
debuttato il 12 febbraio. Esso costituisce l'unico punto di
accesso per il privato interessato a tutte le vicende
amministrative riguardanti il titolo abilitativo e
l'intervento edilizio.
Questo è quanto previsto dall'art. 13 del dl 22/06/2012, n.
83 convertito dalla l. 07.08.2012, n.134, che ha introdotto
importanti misure di semplificazione per l'attività edilizia
che hanno riguardato lo sportello unico per l'edilizia (articolo
ItaliaOggi del 14.02.2013). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Il ricorso all'avvalimento,
avente ad oggetto il fatturato o l'esperienza pregressa è
legittimo, atteso che la disciplina dell'art. 49 del Codice
dei contratti non pone alcuna limitazione, se non per i
requisiti strettamente personali di carattere generale, di
cui agli artt. 38 e 39 del Codice stesso.
---------------
Se può configurarsi ex art. 38 del Codice degli appalti un
obbligo in capo ai concorrenti di dichiarare anche gli
amministratori cessati nel triennio precedente, ivi compresi
quelli che nel medesimo periodo amministravano società
incorporate dalla concorrente prima della pubblicazione del
bando di gara, tale obbligo non è rinvenibile nella ipotesi
dell'avvalimento di cui all'art. 49 del medesimo Codice.
---------------
E’ noto come la questione della cessione d'azienda ai fini
della dichiarazione ex art. 38 del Codice degli appalti,
oggetto di contrastanti indirizzi giurisprudenziali, sia
stata di recente risolta dalla Adunanza Plenaria di questo
Consiglio con la decisione n. 10 del 04.05.2012.
Con detta decisione, l'Adunanza ha precisato che deve
"ritenersi la sussistenza in capo al cessionario dell'onere
di presentare la dichiarazione relativa al requisito di cui
all'art. 38, comma 1, lett. c), del D.Lgs n. 163 del 2006,
anche in riferimento agli amministratori ed ai direttori
tecnici che hanno operato presso la cedente nell'ultimo
triennio (ora nell'ultimo anno)".
Premette il Collegio, in linea generale, come la riconducibilità
del contratto di avvalimento alla categoria degli atti di
ordinaria amministrazione piuttosto che a quella degli atti
di straordinaria amministrazione, nella assenza di
specifiche indicazioni normative, debba necessariamente
farsi dipendere dalla tipologia dei requisiti che l'impresa
ausiliaria si impegna a mettere a disposizione dell'impresa
ausiliata.
Se, infatti, gli atti di ordinaria amministrazione
posseggono una valenza di tipo conservativo del patrimonio
sociale, mentre quelli di straordinaria amministrazione sono
suscettibili per la loro intrinseca rischiosità di
diminuirne l'entità economica, è consequenziale che con
riferimento all'avvalimento la distinzione vada compiuta
tenendo conto dell'importanza, della finalità ovvero della
eccezionalità dell'atto compiuto in confronto a quelli che
possono considerarsi eventi normali in un'impresa, in
rapporto alla natura e all'oggetto sociale della stessa,
nonché in relazione ai rapporti che intercorrono tra
ausiliaria e ausiliata.
Pertanto, è attraverso l'individuazione del requisito che
l'impresa ausiliaria si è impegnata a mettere a disposizione
dell'impresa ausiliata che andrà verificato se tale impegno
possa in qualche modo comportare il rischio di una
diminuzione del patrimonio ovvero alterare l'organizzazione
sociale dell'ausiliaria medesima, e quindi rientrare o meno
tra gli atti di straordinaria amministrazione.
Ciò posto, osserva il Collegio come nella specie l'impresa
ausiliaria, che è totalmente partecipata e controllata dalla
società ausiliata, abbia messo a disposizione esclusivamente
la propria pregressa esperienza.
Essa non ha, quindi, messo a disposizione mezzi, uomini o
altre risorse aziendali, quale ad esempio la propria
attestazione SOA, né si è impegnata a svolgere attività in
subappalto nell'ambito del servizio pubblico posto a gara.
Se, dunque, l'impegno assunto dall'ausiliaria è
rappresentato unicamente dalla messa a disposizione
dell'esperienza maturata nel tempo nello specifico ambito
del servizio di igiene pubblica, non può ragionevolmente
ritenersi che lo stesso possa comportare il rischio di una
diminuzione del patrimonio aziendale o un'alterazione
dell'organizzazione sociale.
Peraltro, che l'impresa ausiliaria possa legittimamente
conferire in avvalimento anche la sola propria referenza
maturata in passato non è contestabile, in quanto detta
possibilità non trova alcun divieto espresso nella
disciplina comunitaria e di diritto interno.
Al riguardo, del resto, la giurisprudenza di questo
Consiglio ha già avuto modo di precisare più volte che il
ricorso all'avvalimento, avente ad oggetto il fatturato o
l'esperienza pregressa è legittimo, atteso che la disciplina
dell'art. 49 del Codice dei contratti non pone alcuna
limitazione, se non per i requisiti strettamente personali
di carattere generale, di cui agli artt. 38 e 39 del Codice
stesso.
---------------
Ed invero, se può
configurarsi ex art. 38 del Codice degli appalti un obbligo
in capo ai concorrenti di dichiarare anche gli
amministratori cessati nel triennio precedente, ivi compresi
quelli che nel medesimo periodo amministravano società
incorporate dalla concorrente prima della pubblicazione del
bando di gara, tale obbligo non è rinvenibile nella ipotesi
dell'avvalimento di cui all'art. 49 del medesimo Codice.
Infatti, la disposizione in parola stabilisce al riguardo
che, in sede di presentazione dell'offerta, il concorrente
debba semplicemente allegare "una dichiarazione sottoscritta
dall'impresa ausiliaria attestante il possesso da parte di
quest'ultima dei requisiti generali di cui all'art. 38".
Ben diverso e ben più stringente, quindi, è il tenore della
disposizione di cui all'art. 38 relativamente alla
dichiarazione che deve essere resa dai concorrenti in gara,
laddove, per questi ultimi, specifica che "in ogni caso
l'esclusione e il divieto operano anche nei confronti dei
soggetti cessati dalla carica nell'anno (prima della recente
modifica "nel triennio") antecedente la data di
pubblicazione del bando di gara ...".
Del resto , la ratio della differente formulazione delle
norme in esame va rinvenuta nella diversa posizione dei
soggetti coinvolti, poiché ai sensi dell'art. 49, comma 10,
solo il concorrente aggiudicatario è chiamato ad eseguire il
servizio e solo ad esso è rilasciato il certificato di
esecuzione.
Orbene, stante il principio di tipicità e tassatività delle
cause di esclusione, non v'è dubbio che la norma recata
dall'art. 38, co. 1, lett. c), di cui si controverte, non sia
suscettibile di interpretazione tale da introdurre ulteriori
e non previste cause ostative.
Ne consegue che all'ausiliario non possano estendersi i
rigorosi criteri limitativi propri del concorrente.
---------------
E’ noto come la questione
della cessione d'azienda ai fini della dichiarazione ex art.
38 del Codice degli appalti, oggetto di contrastanti
indirizzi giurisprudenziali, sia stata di recente risolta
dalla Adunanza Plenaria di questo Consiglio con la decisione
n. 10 del 04.05.2012.
Con detta decisione, l'Adunanza ha precisato che deve
"ritenersi la sussistenza in capo al cessionario dell'onere
di presentare la dichiarazione relativa al requisito di cui
all'art. 38, comma 1, lett. c), del D.Lgs n. 163 del 2006,
anche in riferimento agli amministratori ed ai direttori
tecnici che hanno operato presso la cedente nell'ultimo
triennio (ora nell'ultimo anno)".
A tanto, la medesima è pervenuta sul presupposto che il
contenuto della norma di cui al richiamato art. 38 "già di
per sé" comprenda ipotesi non testuali, ma pur sempre ad
essa riconducibili sotto il profilo della sostanziale
continuità del soggetto imprenditoriale a cui si
riferiscono, sicché il soggetto cessato dalla carica sia
identificabile quale interno al concorrente, così come "ben
può verificarsi.... in ipotesi di cessione di azienda o di
ramo d'azienda".
Ciò posto, l'Adunanza ha però precisato che "resta altresì
fermo -tenuto conto della non univocità delle norme circa
l'onere del cessionario- che in caso di mancata
presentazione della dichiarazione e sempre che il bando non
contenga al riguardo una espressa comminatoria di
esclusione, quest'ultima potrà essere disposta soltanto là
dove sia effettivamente riscontrabile l'assenza del
requisito in questione".
E ciò in quanto, a ben vedere, lo scopo della preclusione di
legge è da individuarsi sicuramente in quello di impedire la
partecipazione alle procedure di affidamento dei pubblici
appalti, "di soggetti di cui sia accertata la mancanza di
rigore comportamentale con riguardo a circostanze gravemente
incidenti sull'affidabilità morale e professionale"
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.02.2013 n. 911 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
La nozione di servizio pubblico prescelta dal
legislatore, quella oggettiva, si fonda su due elementi: 1)
la preordinazione dell'attività a soddisfare in modo diretto
esigenze proprie di una platea indifferenziata di utenti; 2)
la sottoposizione del gestore ad una serie di obblighi, tra
i quali quelli di esercizio e tariffari, volti a conformare
l'espletamento dell'attività a regole di continuità,
regolarità, capacità tecnico- professionale e qualità.
Ne consegue che, fermi gli elementi essenziali sopra
menzionati, la configurazione del servizio pubblico è
compatibile con diversi schemi giuridici e con differenti
modalità di remunerazione della prestazione. A nulla quindi
rileva che oggetto dell'affidamento fosse soltanto la
raccolta dei rifiuti e non l'intero servizio dell'igiene
ambientale, così come non rileva che il gestore fosse
remunerato dal soggetto aggiudicatore: quel che conta,
infatti, è che l'attività del gestore fosse diretta ad una
platea indifferenziata di utenti e che esso fosse
destinatario di obblighi funzionali alla destinazione al
pubblico dell'attività dovuta.
Ed invero, con
riferimento al primo profilo, va rilevato che l'art. 23-bis,
comma 9, del D.L. n. 112/2008, convertito in L. n. 113 del
2008 e modificato dall'art. 15 del D.L. n. 135/2009, nella
sostanza, vieta l'acquisizione della gestione di servizi
ulteriori, con o senza gara, alle società che gestiscono
servizi pubblici locali ad esse affidati senza il rispetto
dei principi dell'evidenza pubblica, anche per il tramite di
società controllanti o da esse controllate.
La "ratio" della predetta disposizione, come correttamente
rilevato dal Tar, va senz'altro ravvisata nell'esigenza di
impedire alterazioni del mercato concorrenziale che
deriverebbero dalla partecipazione alle gare per
l'affidamento di ulteriori servizi pubblici locali di quei
soggetti che, in quanto già affidatari diretti di tali
servizi nel medesimo o in altri ambiti territoriali, si
trovano in una posizione di privilegio acquisita al di fuori
dei meccanismi dell'evidenza pubblica.
Se tant'é sotto il profilo funzionale, appare allora
irrilevante, sempre come esattamente rilevato dal primo
giudice, la modalità di affidamento prescelta dalla stazione
appaltante (appalto o concessione), atteso che il divieto
posto dal legislatore riguarda genericamente
"l'acquisizione" della gestione di servizi ulteriori.
In altri termini, le modalità di remunerazione delle
attività, pur idonee a far ascrivere la gara nella categoria
dell'appalto anziché in quella della concessione, non
possono influire sulla natura delle prestazioni oggetto
della procedura in esame.
Al riguardo, peraltro, la giurisprudenza della Sezione ha
già avuto modo di precisare che "La nozione di servizio
pubblico prescelta dal legislatore, quella oggettiva, si
fonda su due elementi: 1) la preordinazione dell'attività a
soddisfare in modo diretto esigenze proprie di una platea
indifferenziata di utenti; 2) la sottoposizione del gestore
ad una serie di obblighi, tra i quali quelli di esercizio e
tariffari, volti a conformare l'espletamento dell'attività a
regole di continuità, regolarità, capacità tecnico-
professionale e qualità (sez. V, 12.10.2004, n. 6574).
Ne consegue che, fermi gli elementi essenziali sopra
menzionati, la configurazione del servizio pubblico è
compatibile con diversi schemi giuridici e con differenti
modalità di remunerazione della prestazione. A nulla quindi
rileva che oggetto dell'affidamento fosse soltanto la
raccolta dei rifiuti e non l'intero servizio dell'igiene
ambientale, così come non rileva che il gestore fosse
remunerato dal soggetto aggiudicatore: quel che conta,
infatti, è che l'attività del gestore fosse diretta ad una
platea indifferenziata di utenti e che esso fosse
destinatario di obblighi funzionali alla destinazione al
pubblico dell'attività dovuta" (cfr. sentenza n. 1651 del
22.03.2010)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.02.2013 n. 911 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Sussiste
la necessità, anche prima
dell’entrata in vigore del testo unico dell’edilizia, della
concessione edilizia per l'attività di spargimento di
ghiaia, su di un'area che ne era precedentemente priva,
allorché sia preordinata alla modifica della precedente
destinazione d'uso.
---------------
L'art. 3 comma 5, d.P.R. n. 380/2001 annovera tra gli
interventi edilizi di «nuova costruzione» (per i quali è,
quindi, necessario il permesso di costruire) anche
l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e
di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers,
cose mobili, imbarcazioni, che siano utilizzate come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili e che non siano diretti a soddisfare
esigenze meramente temporanee, e la realizzazione di
depositi di merci o di materiali, la realizzazione di
impianti per attività produttive all'aperto ove comportino
l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione
permanente del suolo inedificato.
La posa di containers è da ritenersi riconducibile a tale
previsione normativa, né può ritenersi che, nel caso di
specie, essa abbia natura precaria, essendo funzionale ad
una utilizzazione perdurante nel tempo e non ad un uso
realmente precario e temporaneo per fini specifici,
contingenti e limitati nel tempo, con conseguente
possibilità di successiva e sollecita eliminazione.
---------------
Non può qualificarsi quale attività edilizia libera, ai
sensi dell’art. 6, d.P.R. n. 380/2001 la realizzazione di un
manufatto in legno, di 20 mq. atteso che tale intervento non
rientra tra le opere di c.d. manutenzione ordinaria. Viene,
piuttosto, in rilievo la diversa previsione di cui all’art.
3, c. 5, lett. e, d.P.R. n. 380/2001.
15. Con il quinto motivo, la ricorrente ne
contesta la legittimità per violazione dell’art. 1, l. n.
10/1977 ed afferma la compatibilità dell’uso a parcheggio e
deposito merci con la destinazione agricola dell’area.
Il motivo è infondato.
Al riguardo, è sufficiente rinviare a quanto affermato al
punto 10 della sentenza n. 2086/2012 circa la necessità,
anche prima dell’entrata in vigore del testo unico
dell’edilizia, della concessione edilizia per l'attività di
spargimento di ghiaia, su di un'area che ne era
precedentemente priva, allorché sia preordinata alla
modifica della precedente destinazione d'uso (cfr.
Cassazione penale, sez. III, 09.06.1982).
D’altro canto, di tale necessità ne era consapevole la
stessa ricorrente, la quale ha, difatti, domandato
all’amministrazione comunale il rilascio di un provvedimento
di condono.
16. Con il sesto ed il settimo motivo di ricorso –che
possono essere trattati congiuntamente perché strettamente
connessi sul piano logico e giuridico- la ricorrente
lamenta il vizio dell’eccesso di potere in quanto
l’ordinanza di remissione in pristino si porrebbe in
contraddizione con precedenti manifestazioni di volontà.
I motivi sono infondati.
Il provvedimento impugnato costituisce, difatti, espressione
di un potere vincolato, con la conseguenza che in ordine ad
esso non possono venire in rilievo profili di eccesso di
potere, propri dell'esercizio del potere discrezionale (cfr.
Consiglio Stato sez. V, 16.03.2011, n. 1623; TAR
Cagliari Sardegna sez. II, 13.01.2012, n. 18; TAR
Perugia Umbria, sez. I, 02.11.2011, n. 354).
In ogni caso, quanto alla installazione di quattro
containers, non possono condividersi le affermazioni dalla
ricorrente circa il carattere non permanente di tali
strutture.
L'art. 3 comma 5, d.P.R. n. 380/2001 annovera tra gli
interventi edilizi di «nuova costruzione» (per i quali è,
quindi, necessario il permesso di costruire) anche
l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e
di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers,
cose mobili, imbarcazioni, che siano utilizzate come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili e che non siano diretti a soddisfare
esigenze meramente temporanee, e la realizzazione di
depositi di merci o di materiali, la realizzazione di
impianti per attività produttive all'aperto ove comportino
l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione
permanente del suolo inedificato.
La posa di containers è da ritenersi riconducibile a tale
previsione normativa, né può ritenersi che, nel caso di
specie, essa abbia natura precaria, essendo funzionale ad
una utilizzazione perdurante nel tempo e non ad un uso
realmente precario e temporaneo per fini specifici,
contingenti e limitati nel tempo, con conseguente
possibilità di successiva e sollecita eliminazione.
Di è ciò è riprova la presenza di tali opere quantomeno dal
2004, allorché la ricorrente presentò l’istanza di condono.
17. Parimenti infondato è l’ottavo motivo di ricorso.
Non può, difatti, qualificarsi quale attività edilizia
libera, ai sensi dell’art. 6, d.P.R. n. 380/2001 la
realizzazione di un manufatto in legno, di 20 mq. atteso che
tale intervento non rientra tra le opere di c.d.
manutenzione ordinaria. Viene, piuttosto, in rilievo la
diversa previsione di cui all’art. 3, c. 5, lett. e, d.P.R.
n. 380/2001
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.02.2013 n. 435 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: E'
legittimo l’ordine di rimessione in pristino del deposito a
cielo aperto di materiale ferroso e rottami stante l’obbligo
di rimozione in forza della normativa di cui al d.P.R. n.
380/2001.
---------------
E' orientamento consolidato di questa Sezione che la vetustà
dell'opera non escluda il potere di controllo e il potere
sanzionatorio del Comune in materia urbanistico-edilizia,
perché l'esercizio di tale potere non è soggetto a
prescrizione o decadenza; ne consegue che l'accertamento
dell'illecito amministrativo e l'applicazione della relativa
sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo
dalla commissione dell'abuso, senza che il ritardo
nell'adozione della sanzione comporti sanatoria o il sorgere
di affidamenti o situazioni consolidate.
I provvedimenti di repressione degli abusi edilizi, in
quanto atti vincolati, sono, poi, sufficientemente motivati
con l'affermazione dell'accertata irregolarità
dell'intervento, essendo in re ipsa l'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso -anche se risalente nel tempo-
senza necessità di una motivazione su puntuali ragioni di
interesse pubblico e di una specifica comparazione con gli
interessi privati coinvolti.
Né sussiste infine un obbligo per l’amministrazione di
indicare nel provvedimento di ripristino dello stato dei
luoghi l’epoca di realizzazione delle opere abusive.
---------------
Quanto alla mancata indicazione
dell’area di sedime da acquisire al patrimonio comunale,
nell'ipotesi di inottemperanza all'ordine di demolizione,
essa non costituisce causa di illegittimità dell'ingiunzione
a demolire: la giurisprudenza maggioritaria è difatti
dell’avviso che tale indicazione può essere contenuta nel
successivo atto di accertamento dell'inottemperanza e di
acquisizione gratuita al patrimonio comunale.
18. Il nono motivo di ricorso contesta la legittimità
dell’ordine di rimessione in pristino del deposito a cielo
aperto di materiale ferroso e rottami: la ricorrente afferma
che esso non può qualificarsi tale, essendo limitato ad una
porzione di 500 mq. laddove l’area su cui la stessa svolge
la propria attività, è pari a 44.000 mq.
La ricorrente contesta, poi, l’applicabilità del d.lgs. n.
152/2006.
La censura è infondata.
Le dimensioni del deposito realizzato, pari a 500 mq., non
sono affatto irrilevanti, né assume alcun rilievo, ai fini
della valutazione della loro incidenza sull’assetto del
territorio, l’ampiezza dell’area su cui è esercitata
l’attività della ricorrente.
Al contrario, in considerazione dell’entità del deposito,
dell’ingombro dei materiali presenti (evincibili dalle
fotografie scattate in occasione del sopralluogo eseguito
dall’amministrazione comunale in data 10.05.2011 e depositate
agli atti del giudizio), della stabilità dell’utilizzazione
dell’area come deposito (è la stessa ricorrente ad avere
richiesto nel 2004 il titolo abilitativo in sanatoria per il
deposito di materiali), è da ritenersi realizzata una
trasformazione permanente dell’assetto edilizio del
territorio, necessitante il rilascio di permesso di
costruire.
La censura con cui viene contestata l’applicabilità del
d.lgs. n. 152/2006 è, invece, inammissibile per genericità
non indicando alcun elemento a supporto della contestazione
della natura di rifiuto dei materiali oggetto dell’ordinanza
di ripristino. In ogni caso, essa non inficerebbe la
legittimità del provvedimento impugnato, stante l’obbligo di
rimozione in forza della normativa di cui al d.P.R. n.
380/2001.
19. Anche il decimo motivo di ricorso è infondato.
È, difatti, orientamento consolidato di questa Sezione che
la vetustà dell'opera non escluda il potere di controllo e
il potere sanzionatorio del Comune in materia
urbanistico-edilizia, perché l'esercizio di tale potere non
è soggetto a prescrizione o decadenza; ne consegue che
l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione
della relativa sanzione può intervenire anche a notevole
distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che il
ritardo nell'adozione della sanzione comporti sanatoria o il
sorgere di affidamenti o situazioni consolidate (cfr. fra le
tante Tar Lombardia, Milano, sez. II, 17.06.2008, n.
2045; cfr. anche Cons. Stato, sez. V, 11.01.2011, n.
79).
I provvedimenti di repressione degli abusi edilizi, in
quanto atti vincolati, sono, poi, sufficientemente motivati
con l'affermazione dell'accertata irregolarità
dell'intervento, essendo in re ipsa l'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso -anche se risalente nel tempo-
senza necessità di una motivazione su puntuali ragioni di
interesse pubblico e di una specifica comparazione con gli
interessi privati coinvolti (TAR Lombardia Milano, sez. II, 19.02.2009, n. 1318).
Né sussiste infine un obbligo per l’amministrazione di
indicare nel provvedimento di ripristino dello stato dei
luoghi l’epoca di realizzazione delle opere abusive.
20. Con l’ultimo motivo viene contestata la violazione
dell’art. 31, d.P.R. n. 380/2001.
Anche questa censura è infondata.
Non sussiste, invero, alcuna incertezza in ordine a quali
siano le opere oggetto dell’ordine di remissione in
pristino: l’amministrazione ha compiutamente descritto le
opere in questione e ne ha altresì precisato gli
identificativi catastali.
Quanto alla mancata indicazione dell’area di sedime da
acquisire al patrimonio comunale, nell'ipotesi di
inottemperanza all'ordine di demolizione, essa non
costituisce causa di illegittimità dell'ingiunzione a
demolire: la giurisprudenza maggioritaria è difatti
dell’avviso che tale indicazione può essere contenuta nel
successivo atto di accertamento dell'inottemperanza e di
acquisizione gratuita al patrimonio comunale (cfr. Consiglio
Stato sez. IV, 26.09.2008, n. 4659)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.02.2013 n. 435 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Una procura alle liti sottoscritta con crocesegno
o priva del tutto di sottoscrizione non è suscettibile di
autenticazione né da parte del difensore, ove rilasciata in
calce o a margine dell’atto giudiziale, né, ove rilasciata
con atto separato, da alcun pubblico ufficiale (nella
specie, impiegato comunale), atteso che la sottoscrizione,
essendo indispensabile ai fini dell’individuazione
dell’autore del documento e costituendo un elemento
essenziale dello stesso, deve risultare da segni grafici che
indichino, anche in forma abbreviata, purché decifrabile, le
generalità del soggetto che conferisce la procura e non è
integrata, pertanto, da un segno di croce vergato, ancorché
in presenza di testimoni, al posto della firma.
Sotto un primo profilo pregiudiziale, appare corretta la
statuizione relativa alla nullità della procura speciale, e
quindi la rilevata carenza di valido mandato ad litem,
poiché secondo orientamento condivisibile della Suprema
Corte il c.d. crocesegno non è suscettibile di
autenticazione da parte del difensore (secondo Cass. Sez.
Lav., 16.04.2004, n. 7305, secondo cui “Una procura alle
liti sottoscritta con crocesegno o priva del tutto di
sottoscrizione non è suscettibile di autenticazione né da
parte del difensore, ove rilasciata in calce o a margine
dell’atto giudiziale, né, ove rilasciata con atto separato,
da alcun pubblico ufficiale (nella specie, impiegato
comunale), atteso che la sottoscrizione, essendo
indispensabile ai fini dell’individuazione dell’autore del
documento e costituendo un elemento essenziale dello stesso,
deve risultare da segni grafici che indichino, anche in
forma abbreviata, purché decifrabile, le generalità del
soggetto che conferisce la procura e non è integrata,
pertanto, da un segno di croce vergato, ancorché in presenza
di testimoni, al posto della firma”; nello stesso senso,
Sez. Lavoro, 19.08.2004, n. 16226, e per più risalente
affermazione Cass., Sez. II, 14.05.1994, n. 4178) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.02.2013 n. 908 - link a
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URBANISTICA:
I vincoli c.d. strumentali, procedimentali o
d’attesa, proprio perché privi di contenuto ed effetti
ablatori, non rientrano nel novero dei vincoli assoggettati
a decadenza quinquennale.
Orbene, è del tutto evidente che il vincolo introdotto dal combinato
disposto degli artt. 7 e 25 delle N.T.A. è vincolo
strumentale e/o procedimentale e/o di “attesa”, che
subordina l’edificazione all’approvazione di uno strumento
urbanistico esecutivo, ma non incide su determinati beni
assoggettandoli ad espropriazione, e che quindi rimane del
tutto insensibile ed estraneo all’effetto decadenziale
riveniente dall’art. 2 della legge 19.11.1968, n.
1187, testualmente e inequivocamente riferito alle sole
previsioni di piano regolatore generale “…nella parte in cui
incidono su beni determinati ed assoggettano i beni stessi a
vincoli preordinati all'espropriazione od a vincoli che
comportino l'inedificabilità…”.
Nel caso di specie non solo l’area dell’interessata non è
assoggettata ad alcun vincolo espropriativo, ma
l’edificabilità non era affatto esclusa, essendo consentita
con i.f. di 3 mc/mq e secondo percentuali di utilizzazione
che ex se spiegavano e giustificavano l’esigenza del piano
urbanistico esecutivo.
E’ giurisprudenza del tutto consolidata che i vincoli c.d.
strumentali, procedimentali o d’attesa, proprio perché privi
di contenuto ed effetti ablatori, non rientrano nel novero
dei vincoli assoggettati a decadenza quinquennale (cfr. tra
le tante, e le più recenti, Cons. Stato, Sez. IV, 04.01.2013, n. 5).
Né può sostenersi che nella specie, il riferimento della
normativa tecnica attuativa al piano particolareggiato di
esecuzione comportasse, in modo irrefutabile, che dovesse
trattarsi di piano esecutivo a iniziativa pubblica,
piuttosto che di piano esecutivo a iniziativa privata, in
disparte la possibilità dell’interessato, rimasta
inesplorata, di attivarsi per ottenere la formazione e
approvazione di piano esecutivo, secondo quanto
apoditticamente opinato dal giudice amministrativo campano
(i cui riferimenti giurisprudenziali attengono, infatti,
all’evenienza che sia positivamente esclusa la possibilità
di piani esecutivi a iniziativa privata -vedi al riguardo
tra le più recenti Cons. Stato, Sez. IV. 24.03.2009, n.
1765-, nella specie per nulla prevista e stabilita dall’art.
7 e dall’art. 25 N.T.A.) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.02.2013 n. 907 - link a
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EDILIZIA
PRIVATA:
E' illegittima la realizzazione
di un soppalco (ad uso deposito, di superficie pari ad
appena mq. 10, ad altezza di ml. 2,60 dal pavimento e con
altezza pari a ml. 2,00 dal solaio di copertura) che
concretizza (riducendola) un'altezza inferiore a quella di
legge (mt. 2,70) del locale sottostante.
L’appello in epigrafe è fondato e deve essere accolto, onde
in riforma della sentenza impugnata deve essere rigettato il
ricorso proposto in primo grado.
Anche seguendo la prospettazione dell’appellato, secondo la
quale, nel caso di specie, doveva trovare applicazione
l’art. 16 del regolamento edilizio vigente alla data di
presentazione della denuncia d’inizio attività (29.05.1996) -con divieto realizzazione di soppalchi con altezze
interne inferiori a ml. 1,80 e con altezza interna minima
dei vani non inferiore a ml. 2,40-, nondimeno l’art. 43,
comma 2, lettera b), della legge 05.08.1978, n. 457
(recante “Norme per l'edilizia residenziale”), prescriveva
“altezze nette degli ambienti abitativi e dei vani accessori
delle abitazioni, misurate tra pavimento e soffitto...non
inferiori a metri 2,70 per gli ambienti abitativi, e metri
2,40 per i vani accessori”, ammettendo deroga soltanto per
“…eventuali inferiori altezze previste da vigenti
regolamenti edilizi”, e quindi salvaguardando soltanto le
prescrizioni anteriori alla sua entrata in vigore.
Peraltro, l’art. 1, comma 1, del d.m. 05.07.1975 (recante
“Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20.06.1896
relativamente all'altezza minima ed ai requisiti
igienico-sanitari principali dei locali di abitazione”) ha
fissato l’altezza minima dei locali adibiti ad abitazione,
senza alcuna distinzione, in ml. 2,70, consentendo di
derogarvi, con altezza minima pari a ml. 2,40, soltanto per
“…per i corridoi, i disimpegni in genere, i bagni, i
gabinetti ed i ripostigli”.
Nel caso di specie è incontestato che l’altezza del vano
sottostante il soppalco, a seguito della realizzazione del
medesimo, è pari a ml. 2,60 e quindi inferiore a quella
minima prescritta pari a ml. 2,70.
Ne consegue che l’intervento edilizio, indipendentemente dal
regime autorizzativo (ossia se assoggettato a d.i.a. o a
concessione edilizia), non poteva essere comunque realizzato
perché in contrasto con disposizioni legislative e
regolamentari statali prevalenti sulle disposizioni di
regolamento edilizio invocate dall’appellato (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.02.2013 n. 905 - link a
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APPALTI:
In tema di appalti
pubblici l’atto che costituisce la prestazione di garanzia
non può presentare contraddizioni o ambiguità tali che il
garante possa opporre alla stazione appaltante limitazioni
alla garanzia prestata ovvero eccezioni tali da frustrare la
finalità stessa della previsione normativa; pertanto, quando
la polizza non consenta con immediatezza di ritenere assolta
la garanzia di cui all’art. 75 cit. (cioè senza che si renda
necessario un lavorio interpretativo in ordine alla
individuazione della esatta portata soggettiva ed oggettiva
del patto contrattuale), deve ritenersi violata la relativa
prescrizione della legge di gara.
Come noto, in tema di appalti pubblici l’atto che costituisce la
prestazione di garanzia non può presentare contraddizioni o
ambiguità tali che il garante possa opporre alla stazione
appaltante limitazioni alla garanzia prestata ovvero
eccezioni tali da frustrare la finalità stessa della
previsione normativa; pertanto, quando la polizza non
consenta con immediatezza di ritenere assolta la garanzia di
cui all’art. 75 cit. (cioè senza che si renda necessario un
lavorio interpretativo in ordine alla individuazione della
esatta portata soggettiva ed oggettiva del patto
contrattuale), deve ritenersi violata la relativa
prescrizione della legge di gara (cfr. da ultimo Cons. St.,
sez. IV, 17.10.2012, n. 5340) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.02.2013 n. 861 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le osservazioni
presentate in occasione dell'adozione di un nuovo strumento
di pianificazione del territorio costituiscono un mero
apporto dei privati nel procedimento di formazione dello
strumento medesimo, con conseguente assenza in capo
all'Amministrazione a ciò competente di un obbligo puntuale
di motivazione oltre a quella evincibile dai criteri desunti
dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle
proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione
delle singole aree, tranne i casi di affidamenti
qualificati, non ricorrenti certo nella specie.
La presentazione di osservazioni, costituente una forma di
apporto critico o collaborativo nel procedimento di
formazione del Piano Regolatore, non muta l'ambito e
l'estensione dell'obbligo di motivazione, né comporta
l'esigenza di un'analitica confutazione con riferimento alle
singole situazioni evidenziate dai privati, anche di
sacrificio, essendo al contrario sufficiente che le
rispettive osservazioni siano state esaminate e ritenute,
sia pure succintamente e collettivamente, in contrasto con
le linee guida del piano e con gli interessi pubblici che
richiedano il sacrificio di tali contrapposti interessi
privati coinvolti.
---------------
Con riguardo alla pretesa di una ripubblicazione del piano
una volta approvato (della approvazione, non della adozione
o della riadozione, si deve intendere), costituisce
principio generale e acquisito di questo Consesso che non
sussiste l'obbligo di riadozione del piano regolatore
adottato dal comune (previo annullamento o revoca del
precedente) né quello di ripubblicazione, ex art. 9 l.
17.08.1942 n. 1150, del piano stesso, qualora le modifiche
apportate dal comune d'ufficio, o su richiesta della
regione, non abbiano determinato un mutamento essenziale del
suo contenuto, traducendosi in un nuovo progetto di piano.
Inoltre, vale il generale principio per cui le osservazioni
presentate in occasione dell'adozione di un nuovo strumento
di pianificazione del territorio costituiscono un mero
apporto dei privati nel procedimento di formazione dello
strumento medesimo, con conseguente assenza in capo
all'Amministrazione a ciò competente di un obbligo puntuale
di motivazione oltre a quella evincibile dai criteri desunti
dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle
proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione
delle singole aree, tranne i casi di affidamenti
qualificati, non ricorrenti certo nella specie (tra le
tante, Consiglio di Stato sez. IV, 11.09.2012, n.
4806).
La presentazione di osservazioni, costituente una forma di
apporto critico o collaborativo nel procedimento di
formazione del Piano Regolatore, non muta l'ambito e
l'estensione dell'obbligo di motivazione, né comporta
l'esigenza di un'analitica confutazione con riferimento alle
singole situazioni evidenziate dai privati, anche di
sacrificio, essendo al contrario sufficiente che le
rispettive osservazioni siano state esaminate e ritenute,
sia pure succintamente e collettivamente, in contrasto con
le linee guida del piano e con gli interessi pubblici che
richiedano il sacrificio di tali contrapposti interessi
privati coinvolti.
Con riguardo alla pretesa di una ripubblicazione del piano
una volta approvato (della approvazione, non della adozione
o della riadozione, si deve intendere), costituisce
principio generale e acquisito di questo Consesso (tra le
tante, Consiglio Stato sez. IV, 16.03.1998, n. 437) che
non sussiste l'obbligo di riadozione del piano regolatore
adottato dal comune (previo annullamento o revoca del
precedente) né quello di ripubblicazione, ex art. 9 l.
17.08.1942 n. 1150, del piano stesso, qualora le modifiche
apportate dal comune d'ufficio, o su richiesta della
regione, non abbiano determinato un mutamento essenziale del
suo contenuto, traducendosi in un nuovo progetto di piano (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.02.2013 n. 845 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'art. 35, comma 18, della legge n. 47/1985
prevede testualmente che "fermo il disposto del primo comma
dell'art. 40 e con l'esclusione dei casi di cui all'art. 33,
decorso il termine perentorio di ventiquattro mesi dalla
presentazione della domanda, quest'ultima si intende accolta
ove l'interessato provveda al pagamento di tutte le somme
eventualmente dovute a conguaglio ed alla presentazione
all'ufficio tecnico erariale della documentazione necessaria
all'accatastamento. Trascorsi trentasei mesi si prescrive
l'eventuale diritto al conguaglio o al rimborso spettanti".
Quindi, il richiamato termine di trentasei mesi decorre
dalla presentazione della domanda di condono, ove completa
di tutti gli elementi, ovvero, dall'avvenuto adempimento
della richiesta integrazione documentale.
L''omessa presentazione della documentazione prescritta per
la domanda di condono impedisce il decorso sia del termine
di ventiquattro mesi per la formazione del silenzio assenso
sia di quello di trentasei mesi per la prescrizione di
eventuali crediti a rimborso o a conguaglio dell' oblazione
versata.
Muovendo da questa ricostruzione interpretativa, il Collegio
ritiene che, anche per il conguaglio dell'oblazione dovuta
in caso di condono edilizio, il dies a quo non possa
coincidere con la presentazione della domanda, qualora
questa sia sfornita della documentazione tecnica ed
istruttoria prescritta dalla normativa. La decorrenza del
termine di prescrizione di cui si discorre presuppone (tanto
in favore dell'amministrazione per l'eventuale conguaglio,
quanto in favore del privato per l'eventuale rimborso) che
la pratica di sanatoria edilizia sia definita in tutti i
suoi aspetti e siano, per l'effetto, precisamente
determinabili, alla stregua dei parametri stabiliti dalla
legge, l'"an" ed il "quantum" dell'obbligazione gravante sul
privato; ciò che riflette puntualmente la "ratio" sottesa
all'art. 2935 cod. civ. secondo il quale, in generale, la
prescrizione non può decorrere se non "... dal giorno in cui
il diritto può essere fatto valere".
---------------
L'obbligo del pagamento degli interessi al tasso legale, ai
sensi dell'art. 1282 c.c., costituisce principio di
carattere generale, applicabile, in mancanza di una
specifica disciplina di settore, in caso di ritardato
pagamento di somme dovute. Peraltro l'art. 35, comma 12,
della legge n. 47/1985, prevede che: "Entro centoventi
giorni dalla presentazione della domanda, l'interessato
integra, ove necessario, la domanda a suo tempo presentata e
provvede a versare la seconda rata dell'oblazione dovuta,
pari ad un terzo dell'intero, maggiorato del 10 per cento,
in ragione d'anno. La terza e ultima rata, maggiorata del 10
per cento, è versata entro i successivi sessanta giorni.".
Accertato, quindi, l’obbligo di corresponsione degli
interessi legali, secondo la giurisprudenza condivisa dal
Collegio, lo stesso decorre dalla data di presentazione
della domanda nel caso in cui, come nella fattispecie in
esame, il richiedente la sanatoria abbia commesso un errore
in sede di autoliquidazione dell’oblazione.
L'art. 35, comma 18, della legge n. 47/1985 prevede testualmente
che "fermo il disposto del primo comma dell'art. 40 e con
l'esclusione dei casi di cui all'art. 33, decorso il termine
perentorio di ventiquattro mesi dalla presentazione della
domanda, quest'ultima si intende accolta ove l'interessato
provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute
a conguaglio ed alla presentazione all'ufficio tecnico
erariale della documentazione necessaria all'accatastamento.
Trascorsi trentasei mesi si prescrive l'eventuale diritto al
conguaglio o al rimborso spettanti".
Secondo l’orientamento della giurisprudenza condiviso
dal Collegio, il richiamato termine di trentasei mesi
decorre dalla presentazione della domanda di condono, ove
completa di tutti gli elementi, ovvero, dall'avvenuto
adempimento della richiesta integrazione documentale (cfr.
Cfr. TAR Campania, Salerno, I, 26.11.2012, n. 2138).
La giurisprudenza ha, peraltro, evidenziato, anche
di recente, che l'omessa presentazione della documentazione
prescritta per la domanda di condono impedisce il decorso
sia del termine di ventiquattro mesi per la formazione del
silenzio assenso sia di quello di trentasei mesi per la
prescrizione di eventuali crediti a rimborso o a conguaglio
dell' oblazione versata (cfr. Consiglio Stato, IV, 07.08.2012,
n. 4525; TAR Campania, Napoli, II, 28.05.2012, n. 2497;
TAR Sicilia, Palermo, III, 29.09.2006, n. 1996).
Muovendo da questa ricostruzione interpretativa, il
Collegio ritiene che, anche per il conguaglio dell'oblazione
dovuta in caso di condono edilizio, il dies a quo non possa
coincidere con la presentazione della domanda, qualora
questa sia sfornita della documentazione tecnica ed
istruttoria prescritta dalla normativa. La decorrenza del
termine di prescrizione di cui si discorre presuppone (tanto
in favore dell'amministrazione per l'eventuale conguaglio,
quanto in favore del privato per l'eventuale rimborso) che
la pratica di sanatoria edilizia sia definita in tutti i
suoi aspetti e siano, per l'effetto, precisamente
determinabili, alla stregua dei parametri stabiliti dalla
legge, l'"an" ed il "quantum" dell'obbligazione gravante
sul privato; ciò che riflette puntualmente la "ratio"
sottesa all'art. 2935 cod. civ. secondo il quale, in
generale, la prescrizione non può decorrere se non "... dal
giorno in cui il diritto può essere fatto valere".
---------------
Il Collegio osserva che
l'obbligo del pagamento degli interessi al tasso legale, ai
sensi dell'art. 1282 c.c., costituisce principio di
carattere generale, applicabile, in mancanza di una
specifica disciplina di settore, in caso di ritardato
pagamento di somme dovute. Peraltro l'art. 35, comma 12,
della legge n. 47/1985, prevede che: "Entro centoventi
giorni dalla presentazione della domanda, l'interessato
integra, ove necessario, la domanda a suo tempo presentata e
provvede a versare la seconda rata dell'oblazione dovuta,
pari ad un terzo dell'intero, maggiorato del 10 per cento,
in ragione d'anno. La terza e ultima rata, maggiorata del 10
per cento, è versata entro i successivi sessanta giorni.".
Accertato, quindi, l’obbligo di corresponsione degli
interessi legali, secondo la giurisprudenza condivisa dal
Collegio, lo stesso decorre dalla data di presentazione
della domanda nel caso in cui, come nella fattispecie in
esame, il richiedente la sanatoria abbia commesso un errore
in sede di autoliquidazione dell’oblazione (cfr. TAR Puglia,
Bari, III, 13.04.2011, n. 581)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 08.02.2013 n. 832 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
L'aver partecipato ad una procedura concorsuale
comporta il diritto a conoscere gli atti relativi al
curriculum degli altri partecipanti, atti in relazione ai
quali non vi è alcuna contrapposta esigenza di riservatezza.
... a prescindere dalla proposizione del ricorso al TAR (di cui aveva
comunque documentato la pendenza), la Dott.ssa Ventura, in
quanto partecipante alla procedura selettiva, vanta il
diritto a conoscere gli atti relativi al curriculum degli
altri partecipanti, atti in relazione ai quali non vi è
alcuna contrapposta esigenza di riservatezza (Consiglio
Stato, sez. VI, 21.05.2009, n. 3147) (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 08.02.2013 n. 731 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’acquisizione gratuita
non rappresenta un atto provvedimento di autotutela, ma
costituisce una misura di carattere sanzionatorio che
consegue automaticamente all’inottemperanza dell’ordine di
demolizione.
In senso ostativo all’acquisizione non può assumere quindi
rilevanza né il tempo trascorso dalla realizzazione
dell’abuso, né l’affidamento eventualmente riposto
dall’interessato sulla legittimità delle opere realizzare,
né l’assenza di motivazione specifica sulle ragioni di
interesse pubblico perseguite attraverso l’acquisizione.
Come la giurisprudenza ha spesso in più occasioni ricordato, infatti,
l’acquisizione gratuita non rappresenta un atto
provvedimento di autotutela, ma costituisce una misura di
carattere sanzionatorio che consegue automaticamente
all’inottemperanza dell’ordine di demolizione.
In senso
ostativo all’acquisizione non può assumere quindi rilevanza
né il tempo trascorso dalla realizzazione dell’abuso, né
l’affidamento eventualmente riposto dall’interessato sulla
legittimità delle opere realizzare, né l’assenza di
motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico
perseguite attraverso l’acquisizione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 08.02.2013 n. 718 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’inutile decorso del
termine (di trenta giorni, qualora non diversamente
previsto) indicato nell’art. 12, I comma del codice dei
contratti comporta non già l’aggiudicazione definitiva, ma
soltanto l’approvazione dell’aggiudicazione provvisoria
della gara (adempimento, questo, che ai sensi del citato
art. 11, V comma, è preliminare all’adozione del
provvedimento finale di aggiudicazione definitiva): in altre
parole, scaduto il termine di trenta giorni
dall’aggiudicazione provvisoria, quest’ultima, in difetto di
un provvedimento espresso, si ha per approvata tacitamente,
e l’aggiudicatario provvisorio può esigere, chiedendola
formalmente, l’emissione del provvedimento di aggiudicazione
definitiva, quale atto conclusivo della procedura
concorsuale.
Ma anche qualora si aderisse alla tesi della ricorrente –e
cioè che il silenzio serbato dall’Amministrazione avrebbe
trasformato l’aggiudicazione provvisoria in definitiva-, la
situazione non muterebbe, in quanto l’art. 11, VIII comma
subordina comunque l’efficacia dell’aggiudicazione
definitiva alla positiva verifica del possesso, in capo
all’aggiudicataria, dei prescritti requisiti, che, se
riscontrati assenti (come nel caso in esame), consentono
l’esercizio dell’autotutela, ovvero, se non riscontrati per
inerzia, consentono all’interessata di sciogliersi da ogni
vincolo mediante atto notificato alla stazione appaltante
(art. 11 cit., IX comma).
La verifica dei requisiti di ammissione è, dunque, in ogni
caso un adempimento che la stazione appaltante deve
espletare sia in sede di approvazione dell’aggiudicazione
provvisoria, sia –in caso di inutile decorso del termine per
provvedere all’approvazione– in sede di aggiudicazione
definitiva, quale condizione di efficacia.
... ritenuto
che il ricorso è infondato per i motivi di seguito esposti:
-
l’inutile decorso del termine (di trenta giorni, qualora non
diversamente previsto) indicato nell’art. 12, I comma del
codice dei contratti comporta non già l’aggiudicazione
definitiva, ma soltanto l’approvazione dell’aggiudicazione
provvisoria della gara (adempimento, questo, che ai sensi
del citato art. 11, V comma, è preliminare all’adozione del
provvedimento finale di aggiudicazione definitiva): in altre
parole, scaduto il termine di trenta giorni
dall’aggiudicazione provvisoria, quest’ultima, in difetto di
un provvedimento espresso, si ha per approvata tacitamente,
e l’aggiudicatario provvisorio può esigere, chiedendola
formalmente, l’emissione del provvedimento di aggiudicazione
definitiva, quale atto conclusivo della procedura
concorsuale (cfr. CdS, III, 16.10.2012 n. 5282; IV,
26.03.2012 n. 1766, citata dalla stessa ricorrente).
Ma anche qualora si aderisse alla tesi della ricorrente –e
cioè che il silenzio serbato dall’Amministrazione avrebbe
trasformato l’aggiudicazione provvisoria in definitiva-, la
situazione non muterebbe, in quanto l’art. 11, VIII comma
subordina comunque l’efficacia dell’aggiudicazione
definitiva alla positiva verifica del possesso, in capo
all’aggiudicataria, dei prescritti requisiti, che, se
riscontrati assenti (come nel caso in esame), consentono
l’esercizio dell’autotutela, ovvero, se non riscontrati per
inerzia, consentono all’interessata di sciogliersi da ogni
vincolo mediante atto notificato alla stazione appaltante
(art. 11 cit., IX comma).
La verifica dei requisiti di ammissione è, dunque, in ogni
caso un adempimento che la stazione appaltante deve
espletare sia in sede di approvazione dell’aggiudicazione
provvisoria, sia –in caso di inutile decorso del termine
per provvedere all’approvazione– in sede di aggiudicazione
definitiva, quale condizione di efficacia.
Orbene, nel caso di specie l’Amministrazione ha riscontrato in capo alla
ricorrente la (sopravvenuta) assenza del requisito della
capacità economica e finanziaria, requisito questo che la
concorrente doveva possedere sia al momento di presentazione
dell’offerta (ed ivi lo possedeva, tramite l’impresa di cui
si era avvalsa ai sensi dell’art. 49 del codice), sia
durante lo svolgimento del servizio e fino alla sua
conclusione, in quanto requisito garantista
dell’affidabilità dell’aggiudicataria e, conseguentemente,
della corretta esecuzione del contratto: ma requisito di
cui, invece, la ricorrente in tale fase sarebbe stata priva,
atteso che la sopravvenuta contestazione del contratto di avvalimento (portata a conoscenza della stazione appaltante,
peraltro, prima dell’aggiudicazione definitiva o, comunque,
prima che l’aggiudicazione definitiva divenisse efficace) ha
inevitabilmente compromesso la certezza dell’Amministrazione
in merito all’affidabilità dell’impresa aggiudicataria,
certezza che l’Amministrazione ha inteso, appunto, collegare
al possesso della capacità economico-finanziaria nei termini
evidenziati nella legge di gara, e affidabilità che ha
stimato sussistere proprio in ragione dell’incontestato
godimento della predetta capacità, individuata quale
requisito di ammissione alla gara.
Giacché, premesso che
ausiliaria ed ausiliata sono solidalmente responsabili in
relazione alla prestazione dedotta nel contratto da
aggiudicare, l'avvalimento dispiega la funzione di
assicurare alla stazione appaltante un “partner” commerciale
che garantisca una capacità imprenditoriale –nella
fattispecie, sotto il profilo economico e finanziario-
proporzionata ai rischi dell'inadempimento o dell’inesatto
adempimento della prestazione dedotta nel contratto di
appalto: garanzia che, nel caso in cui il contratto di avvalimento
venga contestato dall’impresa ausiliaria – come nel caso di
specie -, viene certamente meno (TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 08.02.2013 n. 178 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Buoni pasto ai dipendenti pubblici, se non c'e'
la mensa.
Sussiste il diritto dei dipendenti pubblici a ottenere la
corresponsione dei buoni pasto giornalieri per ogni giorno
di rientro pomeridiano, nel caso in cui vi sia una
comprovata impossibilità o difficoltà, per il personale
interessato, di utilizzare le più vicine mense di servizio.
Alcuni agenti della Polizia di Stato hanno adito il TAR di
Roma al fine di ottenere la declaratoria del diritto a
vedersi corrispondere buoni pasto giornalieri per ogni
giorno di rientro pomeridiano.
Hanno esposto che la direzione centrale per le risorse umane
del Ministero dell’interno aveva chiesto al competente
dipartimento di P.S. l’erogazione al personale in servizio
di buoni pasto giornalieri, quale controvalore del pasto
dovuto ai dipendenti, ai sensi della L. n. 203/1989, per i
giorni di rientro pomeridiano, tenuto conto
dell’impossibilità per il personale di recarsi nelle più
vicine mense di servizio in relazione all’entità del lasso
temporale concesso per la consumazione del pasto.
L’Amministrazione interessata aveva respinto l’istanza,
all’uopo provvedendo all’istituzione di buoni pasto
utilizzabili presso un unico esercizio convenzionato.
Annullata in sede giurisdizionale siffatta determinazione, i
deducenti hanno chiesto al G.A. capitolino il riconoscimento
del diritto a ottenere buoni pasto quale controvalore del
pasto dovuto ai medesimi.
Il ricorso è stato accolto.
Il Collegio di Roma ha rammentato che la L. n. 203/1989 (“Disposizioni
per i servizi di mensa delle forze di polizia"),
disciplinando le cc.dd. “mense obbligatorie di servizio”,
prevede la possibilità per il personale dipendente di fruire
del pasto gratuito nei casi in cui lo stesso, dovendo
permanere nel luogo di servizio, non può recarsi presso il
proprio domicilio per il tempo necessario a consumare il
pasto.
Inoltre, ha precisato che la medesima legge ammette la
possibilità di ricorrere alla stipula di convenzioni con
enti pubblici o con esercizi privati di ristorazione qualora
presso l’organismo interessato o presso altri uffici o
reparti della Polizia di Stato sia impossibile assicurare,
direttamente o mediante appalti, il funzionamento delle
suddette mense obbligatorie.
Inoltre, l’adito G.A. ha osservato che il successivo D.P.R.
n. 254/1999 (Recepimento dell’accordo sindacale per le forze
di Polizia) ha sancito che l’Amministrazione, al fine di
garantire il beneficio agli aventi diritto ai sensi
dell’art. 1, comma 1, lett. b), L. n. 203/1989, può erogare
al personale dipendente un buono pasto giornaliero in
alternativa alle convenzioni con esercizi privati di
ristorazione di importo pari a quello stabilito da tali atti
convenzionali.
Ragion per cui il giudicante ha rilevato che le PP.AA. hanno
l’obbligo, in via prioritaria, di provvedere alla
costituzione delle mense di servizio.
In subordine, nelle ipotesi di oggettiva difficoltà o
impossibilità di realizzazione delle predette mense
obbligatorie, la medesima disciplina ammette che
l’Amministrazione -ferma la ricorrenza delle condizioni e
presupposti ex lege previsti- provveda alla stipula
di convenzioni con esercizi privati di ristorazione di
ciascun dipendente.
Infine, nei casi in cui i servizi di mensa di servizio, per
ragioni di oggettiva impossibilità o difficoltà, non possono
essere utilizzati da parte dei lavoratori, la P.A. può,
alternativamente, procedere alla stipula di convenzioni con
esercizi privati di ristorazione, ovvero provvedere
all’erogazione di buoni pasto ai propri dipendenti.
Orbene, in relazione alla vicenda al medesimo sottoposta, il
Collegio ha stabilito che, in ragione dell’assoluta
difficoltà per i ricorrenti di servirsi delle mense di
servizio, la scelta operata dall’Amministrazione di
stipulare convenzioni con gli esercizi privati di
ristorazione non era risultata comunque funzionale alle
esigenze del personale in servizio.
Gli stessi punti di ristoro, invero, non solo erano ubicati
in posizione non idonea rispetto alla sede di servizio dei
ricorrenti, ma erano altresì scarsamente ricettivi rispetto
alle esigenze di somministrazione dei pasti nell’intervallo
di orario destinato alla pausa pranzo.
Per tal ragione, il Tribunale amministrativo ha precisato
che le convenzioni, poiché relative a esercizi di
ristorazione inidonei alla consumazione diretta di un pasto,
avrebbero imposto alla P.A. di procedere a una differente
scelta organizzativa, attraverso l’erogazione dei buoni
pasto (sostitutivi) in favore dei ricorrenti.
Di tal ché, il TAR di Roma ha accolto il gravame,
contestualmente stabilendo che il controvalore economico
degli invocati buoni pasto dovesse essere determinato alla
stregua dei criteri di calcolo stabiliti nell’accordo
sindacale di settore (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR
Lazio-Roma, Sez. I-ter,
sentenza 07.02.2013 n. 1365 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Nel caso in cui il bando
di concorso prevede, come requisito di ammissione, il
Diploma di Geometra, va ammesso al concorso anche il
candidato in possesso della Laurea in Ingegneria o della
Laurea in Architettura, in quanto il possesso di tali titoli
di studio superiori devono ritenersi assorbenti, poiché le
materie di studio, facenti parte dei Corsi di Laurea in
Ingegneria o Architettura, comprendono quelle del corso di
studi di Geometra ed inoltre contemplano un maggiore livello
di approfondimento.
Per quanto riguarda l’abilitazione all’esercizio della
professione di Ingegnere, va evidenziato che secondo un
condivisibile orientamento giurisprudenziale (cfr. per es.
TAR Umbria n. 708 del 07.11.2008; TAR Pescara n. 463 del 09.05.2008; TAR Piemonte Sez. II n. 3028 dell’08.11.2004), nel
caso in cui il bando di concorso prevede, come requisito di
ammissione, il Diploma di Geometra, va ammesso al concorso
anche il candidato in possesso della Laurea in Ingegneria o
della Laurea in Architettura, in quanto il possesso di tali
titoli di studio superiori devono ritenersi assorbenti,
poiché le materie di studio, facenti parte dei Corsi di
Laurea in Ingegneria o Architettura, comprendono quelle del
corso di studi di Geometra ed inoltre contemplano un
maggiore livello di approfondimento.
Pertanto, dalla legittima ammissione al concorso in
questione dei laureati in Ingegneria o Architettura discende
anche l’obbligatoria valutazione del titolo di abilitazione
all’esercizio delle rispettive professioni, tenuto pure
conto della circostanza che il bando di concorso prevede
l’attribuzione di 1 punto per l’abilitazione alla
professione, attinente al titolo di studio di ammissione al
concorso (TAR Basilicata,
sentenza 07.02.2013 n. 72 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
In omaggio al principio
di conservazione degli atti, nel caso in cui l’atto
amministrativo gravato “si fondi su una pluralità di
ragioni, ognuna delle quali abbia autonoma sufficienza, esso
è legittimo anche quando lo sia una sola di esse, di per sé
idonea a sostenere l’atto”, con la conseguenza che alcun
rilievo potrebbero assumere rilievo le censure volte a
contestare gli ulteriori profili motivazionali.
Pacifico risulta in giurisprudenza difatti che, in omaggio al
principio di conservazione degli atti, nel caso in cui
l’atto amministrativo gravato “si fondi su una pluralità di
ragioni, ognuna delle quali abbia autonoma sufficienza, esso
è legittimo anche quando lo sia una sola di esse, di per sé
idonea a sostenere l’atto” (TAR Campania-Salerno,
19.04.2000, n. 275), con la conseguenza che alcun rilievo
potrebbero assumere rilievo le censure volte a contestare
gli ulteriori profili motivazionali (giurisprudenza
costante, cfr. TAR Campania Salerno, sez. II, 17.01.2011, n. 63; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 14.01.2011, n. 139; TAR Campania Napoli, sez. VII,
14.01.2011, n. 164) (TAR Basilicata,
sentenza 07.02.2013 n. 63 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Va escluso che al
proprietario delle aree inquinate possa essere
legittimamente impartito un ordine siffatto sulla base della
generica “culpa in vigilando”.
Infatti l'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006 ai fini
dell'imputabilità della condotta del divieto di abbandono e
di deposito incontrollato di rifiuti sul suolo, richiede, a
carico del proprietario o dei titolari di diritti reali o
personali sul bene, un comportamento a titolo di dolo o di
colpa, così come richiesto per l'autore materiale e quindi
collegato da nesso causale diretto alle operazioni materiali
da cui è originato il deposito in loco dei rifiuti, che non
è assolutamente ravvisabile nella totalmente diversa
fattispecie del loro mancato asporto durante previe
operazioni di pulizia effettuate da altri responsabili o
comunque a seguito della segnalazione della loro presenza.
Sul punto il Collegio deve peraltro richiamarsi al consolidato
orientamento giurisprudenziale che ha escluso che al
proprietario delle aree inquinate possa essere
legittimamente impartito un ordine siffatto sulla base della
generica “culpa in vigilando” (es. TAR Potenza, sez. I
501/2012, TAR Genova, sez. I, 750/2011, TAR Napoli,
sez. V, 13059/2010, TAR Napoli, sez. V, 1407/2007).
Infatti l'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006 ai fini
dell'imputabilità della condotta del divieto di abbandono e
di deposito incontrollato di rifiuti sul suolo, richiede, a
carico del proprietario o dei titolari di diritti reali o
personali sul bene, un comportamento a titolo di dolo o di
colpa, così come richiesto per l'autore materiale e quindi
collegato da nesso causale diretto alle operazioni materiali
da cui è originato il deposito in loco dei rifiuti, che non
è assolutamente ravvisabile nella totalmente diversa
fattispecie del loro mancato asporto durante previe
operazioni di pulizia effettuate da altri responsabili o
comunque a seguito della segnalazione della loro presenza,
che è in sostanza quanto addebitato dal Comune alla Regione
nel caso di specie (TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 07.02.2013 n. 56 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'annullamento parziale
di una concessione edilizia riconosciuta illegittima è
ammissibile soltanto quando l'opera autorizzata sia
scindibile in modo tale da poter essere oggetto di distinti
progetti: la ragione di tale principio è la stessa per cui
il comune può respingere o accogliere una domanda di
concessione edilizia, ma non può modificare il progetto, non
potendosi imporre al richiedente un'opera diversa dal
progetto sul quale ha chiesto la concessione.
Come osservato in giurisprudenza, l'annullamento parziale di una
concessione edilizia riconosciuta illegittima è ammissibile
soltanto quando l'opera autorizzata sia scindibile in modo
tale da poter essere oggetto di distinti progetti: la
ragione di tale principio è la stessa per cui il comune può
respingere o accogliere una domanda di concessione edilizia,
ma non può modificare il progetto, non potendosi imporre al
richiedente un'opera diversa dal progetto sul quale ha
chiesto la concessione (cfr. Cons. di St., V, 11.10.2005, n.
5495; TAR Genova Liguria sez. I, 20.07.2011, n. 1148;
TAR Roma Lazio sez. II, 30.03.2012, n. 3065)
(TAR Basilicata,
sentenza 07.02.2013 n. 54 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
pubblicazione all'albo pretorio della determinazione
adottata si configura come misura di pubblicità idonea a far
decorrere il termine per impugnare proprio per i soggetti
non contemplati direttamente nell'atto, mentre per i
soggetti direttamente menzionati nella determinazione il
termine decadenziale per l'impugnativa decorre dalla data di
notifica o comunicazione dell'atto o da quella
dell'effettiva conoscenza.
Secondo le regole generali, la pubblicazione all'albo
pretorio della determinazione adottata dalla Comunità
montana si configura come misura di pubblicità idonea a far
decorrere il termine per impugnare proprio per i soggetti
non contemplati direttamente nell'atto, mentre per i
soggetti direttamente menzionati nella determinazione il
termine decadenziale per l'impugnativa decorre dalla data di
notifica o comunicazione dell'atto o da quella
dell'effettiva conoscenza (cfr. TAR Toscana, II, 1649 -
04.11.2011; TAR Catanzaro, Sez. I, 29.07.2010 n. 2013 e TAR
Parma 14.01.2009 n. 3) (TAR Basilicata,
sentenza 07.02.2013 n. 53 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gare, Un 'errore passato' non determina
l'esclusione perenne.
E' illegittimo il provvedimento di esclusione di una ditta
da una gara di appalto, la cui motivazione, operando
esclusivo riferimento a un precedente grave errore commesso
dalla partecipante nell'esecuzione di altre prestazioni con
la medesima stazione, tralascia di indicare tutte le
circostanze successivamente verificatesi.
La decisione evidenzia l’importanza della motivazione di un
provvedimento di esclusione da una gara di appalto,
attraverso un’efficace rappresentazione di tutte le
circostanze verificatesi in un lungo lasso di tempo che
possono, in qualche misura, incidere sul giudizio “di
fiducia” dell’impresa contraente.
In particolare la ricorrente, partecipante a una procedura
indetta per l'affidamento in economia del servizio di
gestione delle selezioni per l'ammissione alle Scuole di
specializzazione della Facoltà di Medicina e Chirurgia, ha
impugnato il provvedimento con cui la stazione appaltante,
ai sensi dell’art. 38, lett. f), D.Lgs. n. 163/2006, aveva
disposto la propria esclusione dalla gara a cagione “…
della sussistenza di elementi reputati tali da far venir
meno la fiducia nell’impresa”.
Ha contestato, così, la violazione dell’art. 38 cit.,
dell’art. 332, D.P.R. n. 207/2010, nonché il difetto di
motivazione, contestualmente formulando richiesta di
risarcimento del danno ingiusto sofferto per effetto
dell’attività amministrativa contestata.
Il ricorso è stato accolto. Il TAR di Napoli ha osservato
che la misura espulsiva –intervenuta dopo che la stazione
appaltante aveva rilevato che l’offerta della ricorrente era
la migliore e chiesto alla stessa di anticipare l’avvio
delle attività preparatorie– era stata adottata sulla base
della motivazione per cui: "… da un accertamento in
ordine alla pregressa collaborazione con questa
amministrazione è emerso che codesta società ha commesso un
grave errore nell’espletamento di analoga procedura, a
seguito del quale sono state rilevate l’inidoneità e
l’inaffidabilità della stessa a eseguire la prestazione in
argomento per le motivazioni esplicitate nella nota di
questa amministrazione del 28.10.2002.
Pertanto, alla luce di quanto sopra esposto e per gli
effetti dell’art. 38, D.Lgs. n. 163/2006 codesta società è
esclusa dalla gara."
Sicché, considerato il tenore motivazionale dell’impugnato
provvedimento di esclusione, il giudicante ha riscontrato
sia la violazione del menzionato art. 38 per carenza dei
presupposti, sia il censurato difetto di motivazione.
Al riguardo ha precisato che, sibbene la fattispecie
contemplata dalla citata previsione normativa implichi un
ampio potere discrezionale in ordine alla ponderazione dei
fatti integranti grave negligenza, malafede o errore grave
nell’esercizio dell’attività professionale, l’esercizio
della suddetta potestà non si sottrae per ciò solo al
sindacato giurisdizionale nei casi di manifesta illogicità o
irrazionalità (nello stesso senso, Cons. Stato, Sez. V,
21.06.2012, n. 3666).
Del resto, l’apprezzamento dell’elemento fiduciario nei
rapporti contrattuali con la pubblica Amministrazione
esclude di per sé qualsiasi automatismo, occorrendo che,
come richiesto dalla norma, l’esclusione sia supportata da
una "motivata valutazione" della stazione appaltante.
Pertanto, pur riconoscendo la rilevanza dell’episodio,
l’adito G.A. ha rilevato che, nella specie, l’autorità
amministrativa non aveva considerato che il contestato “grave
errore” era stato commesso circa dieci anni prima e che
l’addebito era stato prontamente riconosciuto dalla
ricorrente con la rinuncia a percepire il compenso stabilito
per lo svolgimento di quel servizio.
Invero, ha osservato che il decorso di un lungo periodo di
tempo –i cui effetti l'ordinamento riconosce e consacra
dando vita a istituti ampiamente disciplinati in ogni
settore del diritto– avrebbe determinato l'esigenza di
rafforzare l'impianto motivazionale del provvedimento di
esclusione, mediante una dettagliata illustrazione delle
circostanze che avrebbero potuto rilevare nel giudizio di
affidabilità dell’impresa contraente; la meccanica
applicazione della misura espulsiva, infatti, aveva
snaturato la connotazione dell’istituto in esame,
configurandolo impropriamente alla stregua di un potere
sanzionatorio.
Non a caso, la ricorrente aveva rappresentato che, nell’arco
temporale in questione, la compagine sociale era mutata e
che la stessa aveva conseguito idonee certificazioni per i
settori d’interesse e gestito positivamente molteplici,
complesse procedure concorsuali presso i più prestigiosi
atenei italiani.
Tali elementi, a opinione del Collegio, avrebbero dovuto
essere oggetto di una più meditata valutazione da parte
della stazione appaltante che, in tal modo, avrebbe potuto
esprimere un adeguato giudizio di complessiva idoneità
dell’impresa a eseguire con la dovuta diligenza il servizio
in questione. In tal modo si sarebbe evitato ogni illogico
automatismo conseguente a un solo episodio sfavorevole
accaduto in passato che, peraltro, non avrebbe potuto
comunque limitare le chances della deducente di
contrattare sine die con l’ateneo e di acquisire
altre esperienze e referenze utili per l’ulteriore crescita
dell’impresa.
Sotto differente profilo, il TAR partenopeo ha censurato le
modalità attraverso le quali l’Amministrazione aveva
adottato il contestato provvedimento di esclusione.
Quest’ultima, infatti, ancorché in possesso di tutte le
informazioni relative al pregresso rapporto, aveva dapprima
invitato l’interessata a far pervenire la propria offerta e,
solo dopo aver constatato l’economicità della propria
offerta e averla invitata a porre in essere le attività
propedeutiche allo svolgimento del servizio, aveva
provveduto a comunicare il proprio intendimento di
estrometterla dalla procedura.
Conseguentemente, il G.A. di Napoli, rintracciando plurimi
profili d’illegittimità dell’operato della stazione
appaltante, ha accolto il gravame e, per l’effetto,
annullato il contestato provvedimento di esclusione della
ricorrente; parallelamente reputando sussistenti tutti gli
elementi costitutivi della responsabilità della P.A., ivi
compreso l’elemento soggettivo, ha accolto la domanda di
risarcimento del danno, la cui quantificazione ha
equitativamente determinato ai sensi dell’art.1226 c.c.
(commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Campania-Napoli, Sez.
I,
sentenza 01.02.2013 n. 695 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Revoca della gara in autotutela, quando
'scattano' le regole civilistiche.
La revoca degli atti di gara da parte di
una stazione appaltante può configurare un illecito
precontrattuale perché in contrasto con le comuni regole di
buona fede e correttezza di cui all'articolo 1337 del codice
civile; il
Consiglio di Stato si è pronunciato in merito al
risarcimento danni, subito da un ATI partecipante ad una
gara, a seguito di annullamento in autotutela della
procedura di affidamento di lavori.
Con bando pubblicato sulla G.U.C.E., una stazione appaltante
indiceva una procedura aperta avente ad oggetto
l’affidamento, secondo il criterio del prezzo più basso, dei
lavori di ristrutturazione e riqualificazione di un immobile
di proprietà di un ente locale, per un “nuovo”
complesso termale.
La gara in questione era aggiudicata ad un ATI composta da
tre SRL; nell’agosto 2007 nelle more del giudizio
amministrativo che ha interessato la gara in questione, la
procura della Repubblica disponeva il sequestro
dell’immobile da riqualificare.
Nel 2008 il Ministero dello Sviluppo Economico sospendeva in
via cautelare l’iter procedimentale relativo alle
agevolazioni finanziarie richieste dalla stazione appaltante
e, conseguentemente, quest’ultima preso atto che per effetto
del sequestro giudiziario del nuovo complesso termale era
stato impossibile dare esecuzione ai lavori di
riqualificazione, deliberava di rinunciare all’investimento
e di risolvere il contratto stipulato con il Comune avente
ad oggetto la concessione in godimento dell’immobile
termale.
La stazione appaltante in seguito deliberava di revocare
tutti gli atti e i provvedimenti del procedimento di gara
relativo all’affidamento dei lavori di ristrutturazione e
riqualificazione.
L’ATI si era rivolta al TAR per chiedere la condanna della
stazione appaltante al risarcimento del danno derivante
dall’intervenuta autotutela.
Il Tribunale amministrativo regionale aveva accolto in parte
il ricorso riconoscendo soltanto alcune delle voci
risarcitorie reclamate dalla ricorrente; l’ATI di
conseguenza si rivolgeva al Consiglio di Stato.
Il Consiglio di Stato con la corposa sentenza in commento
ritiene, nel caso di specie, che il comportamento
complessivo tenuto della stazione appaltante, poi sfociato
nella revoca degli atti di gara, integra un illecito
precontrattuale, perché si pone in contrasto con le regole
di buona fede e correttezza di cui all’art. 1337 c.c.,
riferite ad una pubblica amministrazione.
E’ ormai consolidata la configurabilità di una
responsabilità precontrattuale anche della pubblica
amministrazione, perché anche su di essa grava l’obbligo
sancito dall’art. 1337 c.c. di comportarsi secondo buona
fede durante lo svolgimento delle trattative.
Di conseguenza, se durante la fase formativa del contratto
la pubblica amministrazione viola quel dovere di lealtà e di
correttezza, ponendo in essere comportamenti che non
salvaguardano l’affidamento della controparte (anche
colposamente, perché non occorre un particolare
comportamento di malafede, né la prova dell’intenzione di
arrecare pregiudizio all’altro contraente) in modo da
sorprendere la sua fiducia sulla conclusione del contratto,
essa risponde per responsabilità precontrattuale.
Per i giudici di Palazzo Spada in caso di responsabilità
precontrattuale da ingiustificato recesso dalla trattativa,
nel cui ambito si inquadra la vicenda oggetto del presente
contenzioso, in cui viene messo in rilievo la revoca degli
atti di gara da parte della stazione appaltante, il danno è
commisurato non al c.d. interesse positivo (ovvero alle
utilità economiche che il privato avrebbe tratto
dall’esecuzione del contratto), ma al c.d. interesse
negativo, da intendersi, appunto, come interesse a non
essere coinvolto in trattative inutili, a non investire
inutilmente tempo e risorse economiche partecipando a
trattative (o, nel presente caso, a gare d’appalto)
destinate poi a rivelarsi del tutto inutili a causa del
recesso scorretto della controparte.
I fatti che hanno portato alla revoca dell’aggiudicazione
sono riconducibili ad un comportamento non diligente della
stazione appaltante; una delle ragioni principali su cui si
fonda il provvedimento di revoca è, infatti, il venire meno
delle risorse finanziarie necessarie al finanziamento dei
lavori. Di fronte, infatti, al procedimento penale iniziato
dalla Procura della Repubblica per presunti illeciti
consumati dalla stessa stazione appaltante, in occasione
della richiesta di finanziamento pubblico per iniziare i
lavori di ristrutturazione dell’immobile, la stessa stazione
appaltante ha immediatamente rinunciato al finanziamento e,
conseguentemente, ha disposto la revoca della gara.
La stazione appaltante, anziché rinunciare al finanziamento
e disporre la revoca degli atti di gara, avrebbe dovuto,
visto che la gara ormai era stata bandita e aggiudicata (e,
quindi, si configurava un ragionevole e fondato affidamento
dell’aggiudicatario in ordine alla prossima conclusione del
contratto), quanto meno adoperarsi attivamente per trovare
soluzioni alternative, comunque “meno penalizzanti per
gli interessi dell’aggiudicatario, in ipotesi anche
verificando la ragionevole possibilità, prima di rinunciare
unilateralmente al finanziamento già ottenuto, di reperire
congruamente risorse finanziarie da altre fonti, onde dare
comunque seguito ai lavori per i quali la gara era stata
espletata”.
Per il Consiglio di Stato, tuttavia, nell’ambito della
responsabilità precontrattuale il c.d. danno curriculare non
è risarcibile, perché non attiene all’interesse negativo,
ma, più propriamente, all’interesse positivo, derivando
proprio dalla mancata esecuzione dell’appalto, non
dall’inutilità della trattativa. Il c.d. danno curriculare
può, infatti, essere definito come il pregiudizio subito
dall’impresa a causa del mancato arricchimento del
curriculum professionale per non poter indicare in esso
l’avvenuta esecuzione dell’appalto.
Il Consiglio di Stato, quindi, condanna la stazione
appaltante al rimborso, nei confronti delle società che
costituiscono l’ATI, delle spese vive sostenute per la
partecipazione alla gara nei limiti dei cui importi riescano
a dimostrarne l’avvenuto pagamento, del danno emergente per
le spese generali per il costo del personale e della
struttura che avrebbero potuto essere destinate ad altre
attività, del lucro cessante per la perdita di chance
contrattuale alternativa scaturente dalla rinuncia a
concludere un altro contratto (commento tratto da
www.ispoa.it - Consiglio di Stato, Sez. I,
sentenza 01.02.2013 n. 633 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il semplice scarico e
spianamento su un terreno di una certa quantità di detriti
non integra l’ipotesi di trasformazione della destinazione a
zona agricola dello stesso, né quella di occupazione di
suolo mediante deposito di materiali di cui all’art. 7 d.l.
23.01.1982 n. 9 per le quali sia necessaria specifica
autorizzazione dell’autorità comunale, concretando piuttosto
un’ipotesi di mera utilizzazione che il proprietario ritenga
fare del proprio terreno, per la quale è esclusa la
necessità di un titolo concessorio.
Più in generale, il semplice scarico e spianamento su un terreno di
una certa quantità di detriti non integra l’ipotesi di
trasformazione della destinazione a zona agricola dello
stesso, né quella di occupazione di suolo mediante deposito
di materiali di cui all’art. 7 d.l. 23.01.1982 n. 9 per
le quali sia necessaria specifica autorizzazione
dell’autorità comunale (Cons. St. Ad Plen. 05.12.1984,
n. 22), concretando piuttosto un’ipotesi di mera
utilizzazione che il proprietario ritenga fare del proprio
terreno, per la quale è esclusa la necessità di un titolo concessorio (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 08.01.2013 n. 184 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI: Diritto di critica, con toni civili, nei confronti
dell'azienda.
LA CORRETTEZZA/
Il lavoratore non deve travalicare con dolo o colpa grave la
soglia del rispetto della verità oggettiva.
Ampio spazio al diritto di critica verso il datore di
lavoro, che trova come unico limite il dolo, la colpa grave
e l'utilizzo di forme civili.
Questo l'orientamento della
Corte d'appello di Roma che, con la sentenza 12.12.2012 n. 9631, ha annullato le sanzioni disciplinari
applicate da un'impresa nei confronti di un dipendente
giornalista che aveva reso delle dichiarazioni fortemente
critiche in ordine alle modalità con cui l'azienda stava
gestendo un problema inerente alcuni colleghi, investiti da
un'inchiesta sulla gestione dei contratti di natura
pubblicitaria.
Dopo che il lavoratore aveva rilasciato queste
dichiarazioni, l'azienda lo aveva sanzionato sul piano
disciplinare. Il Tribunale in primo grado aveva confermato
la legittimità della decisione, accogliendo la tesi
dell'azienda, la quale aveva fatto presente che il
lavoratore non solo aveva denigrato gratuitamente l'operato
aziendale, ma aveva commesso questo illecito violando la
normativa interna, che disciplinava in maniera precisa i
comportamenti da tenere nei rapporti con la stampa e in
generale nelle comunicazioni verso l'esterno.
La Corte d'appello ha rovesciato questa decisione,
evidenziando innanzitutto che al lavoratore non erano state
preventivamente comunicate le norme aziendali in merito al
comportamento da tenere nelle comunicazioni con la stampa.
In particolare, secondo la Corte, nel caso in esame non
trova applicazione quell'indirizzo giurisprudenziale che non
ritiene necessaria la predeterminazione dei comportamenti
vietati, perché –secondo la sentenza– tale orientamento è
valido solo per i casi in cui il comportamento illecito sia
immediatamente percepibile dal lavoratore, trattandosi di
condotte contrarie a quello che i giudici chiamano "minimo
etico" o, comunque, sanzionate da norme penali.
Nel caso del
giornalista questo requisito, secondo la Corte, mancava, in
quanto la possibile violazione del lavoratore atteneva solo
al rispetto dei doveri contrattuali, e pertanto egli avrebbe
avuto il diritto di conoscere in anticipo le regole da
applicare nei rapporti con la stampa.
A prescindere da questo elemento, la sentenza ritiene
comunque infondate le sanzioni disciplinari, in quanto le
stesse avrebbero prodotto un'indebita compressione di
diritti costituzionalmente garantiti. A sostegno di questa
affermazione, la Corte ricorda che il lavoratore ha diritto
di criticare il datore di lavoro, nel rispetto di alcune
condizioni. Innanzitutto, non deve travalicare, con dolo o
colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva;
inoltre, la critica, anche aspra, deve rispettare i limiti
della correttezza formale, non potendosi risolvere
nell'attribuzione all'impresa o ai suoi dirigenti di qualità
disonorevoli non provate.
Nel caso discusso dalla sentenza,
la Corte ritiene che non siano stati violati tali limiti, in
quanto il giornalista si era limitato a biasimare, in
maniera civile e circostanziata, l'atteggiamento di
apparente disinteresse dell'azienda rispetto a presunti
illeciti commessi da alcuni colleghi; di conseguenza le
sanzioni disciplinari sono state annullate
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.02.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
E' possibile accordarsi tra appaltatore e
subappaltatore per derogare alle norme prevenzionistiche?
In caso di infortunio sul lavoro,
l'esclusione della responsabilità dell'appaltatore, nel
corso dello svolgimento di attività di appalto d'opera, è
configurabile solo qualora al subappaltatore sia affidato lo
svolgimento di lavori, ancorché determinati e circoscritti,
che questi svolga in piena ed assoluta autonomia
organizzativa e dirigenziale rispetto all'appaltatore, e non
nel caso in cui la stessa interdipendenza dei lavori svolti
dai due soggetti escluda ogni estromissione dell'appaltatore
dall'organizzazione del cantiere; nella ricorrenza delle
anzidette condizioni, trattandosi di norme di diritto
pubblico che non possono essere derogate da determinazioni
pattizie, non potrebbero avere rilevanza operativa, per
escludere la responsabilità dell'appaltatore, neppure
eventuali clausole di trasferimento del rischio e della
responsabilità intercorse tra questi ed il subappaltatore.
Interessante decisione della Corte di Cassazione sul tema
della delimitazione degli obblighi e delle responsabilità
gravanti sull’appaltatore dei lavori e sul subappaltatore,
in caso di affidamento dell’esecuzione a quest’ultimo di
parte delle attività oggetto del contratto di appalto. La
Corte, con la sentenza in esame, esamina approfonditamente l
a questione pervenendo alla conclusione che i rapporti tra
appaltatore e subappaltatore, pur potendo essere oggetto di
regolamentazione convenzionale, sono comunque disciplinati
dalle norme prevenzionistiche e, pertanto, eventuali deroghe
di natura “pattizia” tra le parti (ad esempio
finalizzate ad escludere la responsabilità dell’appaltatore
addossandola al subappaltatore) devono considerarsi senza
effetto in quanto su di esse prevalgono le norme in materia
di infortuni sul lavoro.
Il caso
La vicenda processuale vedeva imputati il datore di lavoro e
rappresentante legale di un’impresa edile, subappaltatrice
dei lavori in muratura, ed il preposto (capo cantiere) di
altra impresa, appaltatrice dei lavori per la
ristrutturazione di un palazzo municipale; agli stessi era
stato addebitato di aver cagionato le lesioni personali
patite da un operaio a seguito dell'infortuno occorsogli nel
mentre era intento alla sua attività lavorativa di manovale
edile alle dipendenze della ditta subappaltatrice quando,
sfondando la soletta del tetto dell'edificio su cui si
trovava, precipitava al piano sottostante. A seguito delle
indagini si accertava che sul cantiere non era presente
neppure una cintura di sicurezza idonea a trattenere in
posizione corretta l'operatore in caso di caduta, né erano
stati apprestati rimedi di sicurezza di altro genere per
impedire la caduta al suolo di operai nel caso di
sfondamento, tutt'altro che remoto, della soletta che era
stata messa in sicurezza soltanto per una parte.
Il ricorso
Contro la sentenza di condanna, proponevano ricorso per
cassazione gli imputati, in particolare sostenendo il datore
di lavoro dell’infortunato che tra la società solo
formalmente subappaltatrice dell'opera e la società
appaltatrice ed esecutrice dell'opera, sarebbe intercorso un
rapporto di somministrazione di lavoro, nel senso che la
società dell’imputato si sarebbe limitata a "prestare"
i propri dipendenti all’altra. Il datore di lavoro che
somministra o affitta, o concede l'utilizzazione della
propria manodopera ad altra impresa, di fatto, secondo la
tesi difensiva, si spoglia di qualsiasi potere o facoltà di
direzione e di controllo sull'attività svolta da quelli che
solo formalmente restano suoi dipendenti. Dunque,
contrariamente a quanto affermato dai giudici di merito, il
rapporto tra l'impresa subappaltatrice e l'impresa
appaltatrice ha comportato una pregnante delega di compiti
ad un soggetto idoneo ad assumerli.
La decisione della Cassazione
La prospettazione difensiva è stata respinta dalla
Cassazione che ha, infatti, dichiarato inammissibile il
ricorso.
Per meglio comprendere la soluzione accolta dalla Cassazione
è utile un breve inquadramento normativo della questione.
L’appalto è il contratto con cui una parte (appaltatore)
assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con
gestione a proprio rischio, l'obbligazione di compiere in
favore di un'altra (committente o appaltante) un'opera o un
servizio. Nell'ordinamento italiano, il contratto d'appalto
è regolato dagli artt. 1655 e seguenti del codice civile. La
disciplina è integrata, con riferimento ai contratti
conclusi con enti pubblici o enti che svolgono servizi
pubblici, dal D.Lgs. n. 163/2006, il cosiddetto "Codice
dei Contratti pubblici" e suo regolamento di esecuzione
e attuazione, il d.P.R. n. 207/2010. Il subappalto non è
consentito, salvo autorizzazione, per iscritto, del
committente (art.1656 c.c.). L'appalto è infatti un
contratto fondato sull'intuitus personae (ovvero,
sulla scelta esplicita della controparte contrattuale), per
cui non è consentita una sostituzione non autorizzata del
soggetto obbligato.
Tale peculiarità caratterizza il rapporto tra appaltatore e
subappaltatore. Ed infatti, nel caso di esecuzione di lavori
in subappalto, all’interno di un unico cantiere edile
predisposto dall’appaltatore, secondo un consolidato
indirizzo, gli obblighi di osservanza gravano su tutti
coloro che esercitano i lavori, quindi anche sul
subappaltatore interessato all’esecuzione di un’opera
parziale e specialistica. Pure il titolare dell’impresa
subappaltatrice ha l’onere di riscontrare ed accertare la
sicurezza dei luoghi di lavoro, anche se la sua attività si
svolga contestualmente ad altra, prestata da altri soggetti,
e sebbene l’organizzazione del cantiere sia direttamente
riconducibile all’appaltatore, che non cessa di essere
titolare dei poteri direttivi generali. Peraltro, è
precisamente il subappalto parziale che chiama in causa con
maggior forza il ruolo del committente, mentre il subappalto
totale permette di delimitare in modo più netto le
responsabilità delle parti.
Orbene, nel caso esaminato, i giudici di legittimità hanno
affermato che l'esclusione della responsabilità
dell'appaltatore, nel corso dello svolgimento di attività di
appalto d’opera, è configurabile solo qualora al
subappaltatore sia affidato lo svolgimento di lavori,
ancorché determinati e circoscritti, che questi svolga in
piena ed assoluta autonomia organizzativa e dirigenziale
rispetto all'appaltatore, e non nel caso in cui la stessa
interdipendenza dei lavori svolti dai due soggetti escluda
ogni estromissione dell'appaltatore dall'organizzazione del
cantiere (in precedenza, sul tema dei rapporti tra
appaltatore e subappaltatore, v.: Cass. pen., Sez. 4, n.
42477 del 16/07/2009, dep. 05/11/2009, imp. C., in Ced Cass.
n. 245786).
La soluzione della Cassazione merita di essere condivisa,
anche per quanto riguarda l’ulteriore profilo affrontato,
concernente la derogabilità delle norme prevenzionistiche
che stabiliscono obblighi e responsabilità dell’appaltatore
mediante un accordo tra quest’ultimo e il subappaltatore. In
tal senso, osserva la Cassazione, le norme
prevenzionistiche, in quanto norme di diritto pubblico, non
possono essere derogate da determinazioni pattizie;
pertanto, non potrebbero avere rilevanza operativa, per
escludere la responsabilità dell'appaltatore, neppure
eventuali clausole di trasferimento del rischio e della
responsabilità intercorse tra questi ed il subappaltatore.
Sul punto, si noti, già da tempo la giurisprudenza di
legittimità ha chiarito che i poteri doveri del datore di
lavoro non possono essere validamente trasferiti ad altro
imprenditore, in quanto eventuali accordi sarebbero privi di
efficacia, appartenendo le norme antinfortunistiche al
diritto pubblico ed essendo le stesse inderogabili in forza
di atti privati (Cass. pen., Sez. 4, n. 10043 del
08/07/1994, dep. 22/09/1994, imp. V. ed altro, in Ced Cass.
n. 00149) (commento tratto da www.ispoa.it - Corte di
Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 15.11.2012 n. 44829). |
AGGIORNAMENTO AL 14.02.2013 |
ã |
IN EVIDENZA |
PUBBLICO
IMPIEGO:
La fondazione architetti e ingegneri liberi professionisti
iscritti INARCASSA attacca i tecnici della Pubblica
Amministrazione.
Di seguito uno stralcio di quanto pubblicato sul proprio
sito da parte della suddetta Fondazione.
---------------
Oggi, sul quotidiano LA REPUBBLICA, viene pubblicato il
Manifesto della Fondazione che sintetizza cosa chiediamo al
prossimo Governo.
Il documento è di fatto diviso in due parti: la prima è una
proposta forte che, prevedendo la ricostruzione del nostro
Paese e migliorando sostanzialmente la qualità della vita
degli italiani, è finalizzata alla ripartenza dell’economia
reale; la seconda è invece rivolta a richieste puntuali
legate al nostro lavoro.
Ecco il testo del Manifesto: (uno stralcio
per quanto qui di interesse ...)
■ MODIFICA DEL D.LGS. 163/2006 – CODICE
APPALTI
E’
necessario che con la massima urgenza venga modificata la
normativa per gli aspetti che riguardano le modalità
affidamento degli incarichi professionali, formalmente
definiti “appalto dei servizi di ingegneria”.
Per la natura totalmente immateriale del servizio richiesto
e considerata la diretta relazione tra qualità della
prestazione e qualità dell’opera, chiediamo che gli appalti
vengano affidati esclusivamente in base alla qualità
dell’offerta e non al prezzo.
■ REVISIONE DELLE STRUTTURE DELLA P.A.
La
Pubblica Amministrazione deve finalmente dedicarsi
unicamente nello svolgere il suo ruolo di programmazione e
di controllo delle Opere Pubbliche.
Anche nell’ottica della spending review risulta oggi
ingiustificata la presenza nelle Pubbliche Amministrazioni
di strutture tecniche di progettazione permanenti, spesso un
carrozzone non flessibile rispetto alle reali necessità.
Ancora più ingiustificata risulta la corresponsione agli
uffici tecnici delle PA dell’incentivo per la progettazione
di opere pubbliche.
E’ oggettivamente difficile comprendere perché, per svolgere
solo e unicamente il proprio lavoro, proprio quello e solo
quello per cui si è stati assunti, e nel normale orario
quotidiano, si possa percepire un incentivo. Un incentivo
non irrilevante: il 2% del valore dei lavori da eseguirsi.
Questo incentivo del 2%, ultima tariffa garantita rimasta
nel mondo professionale, vale ogni anno più di 500 milioni
di Euro.
■ DIVIETO AL DOPPIO LAVORO LIBERO
PROFESSIONALE
Chiediamo
che si approvi una norma precisa, chiara e non derogabile
che vieti ai pubblici dipendenti qualsiasi attività di
libera professione oltre al proprio lavoro dipendente.
Il pubblico dipendente, che già gode di tutte le garanzie
giustamente destinate al lavoro subordinato, può oggi
svolgere altri lavori oltre a quello per il quale è stato
assunto. E questo è inaccettabile perché com’è ben noto, al
di là di qualsiasi altra considerazione, il secondo lavoro
viene spesso svolto a discapito di quello principale e in
pesanti situazioni di conflitto d’interesse malamente
mascherate. Proprio per questa ultima considerazione, anche
a coloro che svolgono l’attività in status di part-time, pur
consentendo lo svolgimento di altre attività nel tempo
residuo, deve essere assolutamente vietata qualsiasi
attività libero professionale.
Come Architetti e come Ingegneri, che nel passato tanto
hanno contribuito alla realizzazione di un Patrimonio
invidiatoci da tutto il mondo, con orgoglio rivendichiamo
oggi il diritto di poter essere parte importante,
determinante, nella ricostruzione dell’Italia, quella di
domani (tratto
da e link a https://fondazionearching.it). |
MOBILITA' |
PUBBLICO
IMPIEGO: il
Comune di Cisano Bergamasco (BG) cerca con mobilità
volontaria n. 1 geometra, cat. "C" a tempo pieno ed indeterminato, da
destinare all'Ufficio Tecnico
il cui
avviso di mobilità prevede il termine di martedì
26.02.2013 entro cui inviare le domande di
partecipazione. |
SINDACATI |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Enti Locali: il sistema dei controlli interni
modificato dal D.L. 174 del 2012
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 12.02.2013). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Modello Unico di Dichiarazione ambientale –
scadenza del 30.04.2013. Nuovo servizio di ANCE Bergamo per
la compilazione e presentazione del MUD (ANCE Bergamo,
circolare 11.02.2013 n. 43). |
APPALTI:
Oggetto: Decreto legislativo 15.11.2012, n. 218 recante
disposizioni integrative e correttive al Codice Antimafia.
Prime indicazioni operative [Ministero dell'Interno,
nota 08.02.2013 n. 11001/119/20(6)]. |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI: G.U.
13.02.2013 n. 37 "Introduzione, in via sperimentale per
gli anni 2013-2015, del congedo obbligatorio e del congedo
facoltativo del padre, oltre a forme di contributi economici
alla madre, per favorire il rientro nel mondo del lavoro al
termine del congedo" (Ministero del Lavoro e delle
Politiche Sociali,
decreto 22.12.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
CONFERENZA UNIFICATA DEL 24.01.2013: Intesa sullo schema
di D.P.R. recante regolamento di modifica del D.P.R.
09.07.2010, n. 139, recante procedimento semplificato di
autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve
entità, a norma dell’art. 146, comma 9, del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42:
●
file 1 -
file 2 -
file 3 -
file 4 -
file 5 -
file 6. |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
SEGRETARI
COMUNALI: S.
Santoro,
Il Segretario Generale: compiti e responsabilità (link a
www.leggioggi.it). |
APPALTI: G.
P. Turcato,
Le modalità di stipula dei contratti pubblici, una norma di
difficile interpretazione (link a www.leggioggi.it). |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA
PRIVATA: Parcheggi
«Tognoli»
Domanda
Ho letto di
recente che è stata modificata la disciplina che regolamenta
la possibilità di trasferire i parcheggi pertinenziali.
Potreste darmi qualche delucidazione?
Risposta
È vero. L'art. 10 del Dl «Semplificazione e Sviluppo» n.
5/2012 (conv. dalla L. n. 35/2012) ha sostituito l'art. 9,
5° c. della Legge «Tognoli» n. 122/1989. L'art. 9, 5° c., ora
stabilisce che, fermo restando l'art. 41-sexies, L. n.
1150/1942 e l'immodificabilità dell'esclusiva destinazione a
parcheggio, la proprietà dei parcheggi realizzati a norma
del 1° comma può essere trasferita, anche in deroga a quanto
previsto nel titolo edilizio e nei successivi atti
convenzionali, solo con contestuale destinazione del
parcheggio trasferito a pertinenza di altra unità
immobiliare sita nello stesso comune mentre i parcheggi
realizzati ai sensi del 4° c. del medesimo art. 9 continuano
a non poter essere ceduti separatamente dall'unità
immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale
a pena di nullità dei relativi atti di cessione, a eccezione
di espressa previsione contenuta nella convenzione stipulata
con il comune, ovvero quando quest'ultimo abbia autorizzato
l'atto di cessione.
La modifica riguarda solo i parcheggi di cui all'art. 9, 1°
c., L. n. 122/1989 ai sensi del quale: «I proprietari di
immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi
ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati
parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità
immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai
regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere
realizzati, a uso esclusivo dei residenti, anche nel
sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato,
purché non in contrasto con i piani urbani del traffico,
tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e
compatibilmente con la tutela dei corpi idrici. Restano in
ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in
materia paesaggistica e ambientale e i poteri attribuiti
dalla medesima legislazione alle regioni e ai ministeri
dell'ambiente e per i beni culturali e ambientali da
esercitare motivatamente nel termine di 90 giorni. I
parcheggi stessi ove i piani del traffico non siano stati
redatti, potranno comunque essere realizzati nel rispetto
delle indicazioni di cui al periodo precedente».
Il 4° c.
dell'art. 9 stabilisce invece che i comuni, previa
determinazione dei criteri di cessione del diritto di
superficie e su richiesta dei privati interessati o di
imprese di costruzione o di società anche cooperative,
possono prevedere, nell'ambito del programma urbano dei
parcheggi, la realizzazione di parcheggi da destinare a
pertinenza di immobili privati su aree comunali o nel
sottosuolo delle stesse (_). La costituzione del diritto di
superficie è subordinata alla stipula di una convenzione
nella quale siano previsti la durata della concessione del
diritto di superficie per un periodo non superiore a novanta
anni e altri elementi tra i quali le sanzioni previste per
gli eventuali inadempimenti.
Prima della recente modifica normativa, anche i parcheggi di
cui al 1° c. dell'art. 9 (quelli, cioè, su proprietà
privata) non potevano essere ceduti separatamente dall'unità
immobiliare alla quale erano legati da vincolo pertinenziale,
a pena di nullità dei relativi atti di cessione, preclusione
tuttora prevista per i parcheggi realizzati su area comunale
di cui al 4° comma dell'art. 9 della L. n. 122/1989 (articolo
ItaliaOggi Sette dell'11.02.2013). |
CORTE DEI CONTI |
ATTI
AMMINISTRATIVI - SEGRETARI COMUNALI:
Responsabilità. Obbligo presente anche dopo
l'addio alle verifiche di legittimità. Al segretario anche
il dovere di controllo preventivo
LE BASI/ Una segnalazione anonima può essere sufficiente per
avviare un giudizio se contiene elementi «specifici e
concreti».
Le segnalazioni anonime che contengano
elementi precisi possono essere assunte come base per
l'avvio del giudizio di responsabilità contabile. Il
segretario ha il dovere di segnalare le illegittimità che
sono contenute nelle proposte di deliberazione; lo stesso
vincolo è posto in capo al vicesegretario. La colpa grave
non è data dalla semplice violazione di una norma: si
richiede in aggiunta una grave negligenza.
Sono le principali indicazioni contenute nella
sentenza 18.01.2013 n. 40 della III Sez. di
appello della Corte dei Conti.
La pronuncia conferma la condanna di primo grado irrogata ad
amministratori, segretario e vice segretario di un Comune
che hanno reiterato incarichi professionali senza che l'ente
ne avesse un vantaggio. L'importanza della sentenza è data
dall'ampliamento degli ambiti entro cui matura la colpa
grave, delle possibilità di avviare procedimenti sulla base
di notizie anonime e dalla definizione delle condizioni
entro cui matura la responsabilità del segretario.
Viene detto espressamente che «il carattere anonimo di un
esposto non è di per sé di ostacolo al legittimo avvio
dell'istruttoria tanto più se la segnalazione ... configura
una notizia di danno specifica e concreta». In questo
modo si ribadisce l'ampia discrezionalità che la procura
della Corte dei Conti ha nel selezionare le notizie sulla
cui base avviare un procedimento di responsabilità
contabile.
Altrettanto netta è l'individuazione delle condizioni per la
maturazione della responsabilità del segretario e, elemento
per molti aspetti innovativo, del vicesegretario. Essi hanno
il dovere di «esprimere pareri di legittimità sulle
delibere dell'ente locale» e la presenza nelle riunioni
di Giunta e consiglio impone loro di «evidenziare la non
conformità a legge del provvedimento». Né questo dovere
è venuto meno a seguito dell'abrogazione del parere di
legittimità da parte del segretario; essi hanno il «preciso
obbligo giuridico di segnalare agli amministratori le
illegittimità contenute negli emanandi provvedimenti, al
fine di impedire atti e comportamenti illegittimi forieri di
danno erariale». È questo il tratto essenziale del loro
«ruolo di garanzia».
Infine la sentenza chiarisce che per configurare la presenza
del fattore della colpa grave «non è sufficiente la
semplice violazione della legge o di regole di buona
amministrazione ma è necessario che questa violazione sia
connotata da inescusabile negligenza o dalla previsione
dell'evento dannoso». Ovvero, occorre «un
comportamento avventato e caratterizzato dalla assenza di
quel minimo di diligenza che è lecito attendersi in
relazione ai doveri di servizio propri o specifici dei
pubblici dipendenti». Occorre cioè una condotta
caratterizzata dalla «prevedibilità delle conseguenze
dannose del comportamento».
Un suo altro indice è costituito dall'elevato «grado di
anomalia e di incompatibilità dei comportamenti concreti
rispetto agli schemi normativi astratti, ivi compreso il
dovere di svolgere i propri compiti con il massimo di lealtà
e diligenza». La presenza di questo componente deve
essere verificata con riferimento alla condotta
concretamente seguita da amministratori e funzionari (articolo
Il Sole 24 Ore dell'11.02.2013 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Personale.
Parere della Corte dei conti della Lombardia.
La gestione associata deve produrre risparmi.
L'INDICAZIONE/ Per i vincoli alle uscite vanno conteggiati
pro quota anche i dipendenti che svolgono la propria
attività nelle funzioni «esternalizzate».
Il
parere 10.12.2012 n. 513
(diffuso nelle ultime settimane) della Corte dei conti
sezione controllo Lombardia riafferma l'orientamento
giurisprudenziale secondo il quale le modalità di computo ai
fini della disciplina vincolistica in tema di spesa di
personale incidono non solo sulla spesa del personale alle
dirette dipendenze dell'ente, ma vanno conteggiate anche per
il personale che svolge attività al di fuori del singolo
Comune, per tutte le forme di esternalizzazione o di
associazione intercomunale.
Secondo la Corte dei conti, le amministrazioni interessate a
processi di convenzionamento, per rendere correttamente le
certificazioni e le attestazioni relative al rispetto dei
parametri di spesa per il personale, previsto dalla
normativa, dovranno conteggiare la quota parte di spesa di
personale in convenzione che sia riferibile al Comune. Allo
scopo si dovranno reperire e adottare idonei criteri per
determinare la misura della spesa di personale riferibile
pro-quota al Comune (Corte dei conti, sezione autonomie
8/2011).
Ciò vale anche per la gestione in convenzione delle funzioni
fondamentali. Il principio è già consolidato nell'ipotesi di
unione, per cui, in relazione alle funzioni attribuite, la
spesa sostenuta per il personale del l'unione non può
comportare, in sede di prima applicazione, il superamento
della somma delle spese di personale sostenute
precedentemente dai singoli Comuni partecipanti. Secondo la
Corte, a regime, attraverso azioni di razionalizzazione
organizzativa e di rigorosa programmazione dei fabbisogni,
sarà necessario assicurare progressivi risparmi di spesa in
materia di personale (si veda sul punto la deliberazione
426/2912/Par della sezione regionale di controllo di
Lombardia).
La gestione associata delle funzioni in forma convenzionata
si deve svolgere in modo tale che non si superi la spesa
aggregata complessiva in precedenza destinata a tali
funzioni dai singoli Comuni convenzionati.
Nel caso analizzato dalla sezione Lombarda, il Comune che
non aveva registrato la spesa di personale per l'assenza di
personale interno di polizia locale, sopporterà una spesa
aggiuntiva, da compensare con la minore spesa di personale
riferita alle altre funzioni fondamentali da gestire in
forma associata. Il parere analizza quella che deve essere
la concreta organizzazione di ciascuna funzione.
L'unificazione degli uffici, a seconda delle attività che in
concreto caratterizzano la funzione, prevede la
responsabilità del servizio in capo a un unico soggetto che
disponga dei necessari poteri organizzativi e gestionali,
nominato secondo le indicazioni contenute nel l'articolo 109
del Tuel (il testo unico degli enti locali, decreto
legislativo 267/2000). Pertanto, dovrà essere l'atto
costitutivo dell'unione o della convenzione predisposta per
la gestione associata dei servizi a prevedere le modalità di
nomina dei responsabili dei servizi, previo adeguamento del
regolamento degli uffici e dei servizi di ogni ente
aderente.
La raccomandazione è che, nell'operare la riorganizzazione,
gli enti non devono eludere gli obiettivi di finanza
pubblica (articolo 14, commi 27 e seguenti, del decreto
legge 78/2010), ossia, adottare soluzioni organizzative che
di fatto non portano a risparmio di spesa, perché nella
sostanza, non modificano la precedente organizzazione.
L'esercizio unificato o associato della funzione, invece,
implica che sia ripensata e organizzata ciascuna attività,
cosicché ciascun compito che caratterizza la funzione va
considerato in modo unitario e non come sommatoria di più
attività simili.
Lo svolgimento unitario di ciascuna
funzione non implica necessariamente che la stessa debba far
capo a un unico ufficio in un solo Comune, mentre si può
ritenere, in relazione ad alcune funzioni, che sia possibile
mantenere più uffici in enti diversi. Ma anche in questi
casi l'unitarietà della funzione comporta che la stessa sia
espressione di un disegno unitario guidato e coordinato da
un responsabile, senza che si possa escludere, in linea di
principio, che specifici compiti e attività siano demandati
ad altri dipendenti o anche agli organi di vertice
dell'amministrazione comunale partecipante alla convenzione
(articolo Il Sole 24 Ore
dell'11.02.2013 - tratto da www.corteconti.it). |
NEWS |
CONDOMINIO: RIFORMA
FORENSE/ I legali fuori dal condominio. L'avvocato non può
avere incarico di amministratore. Il
Cnf ha aggiornato le faq sulla nuova legge professionale.
L'avvocato non può fare l'amministratore
di condominio. E il responsabile delle avvocature degli enti
pubblici deve essere un avvocato. La nuova legge
professionale (n. 247/2012) esclude che il legale possa
occuparsi della gestione dei fabbricati condominiali e
impone che la responsabilità degli uffici legali interni a
una amministrazione sia attribuita a un iscritto all'albo.
Lo chiarisce il Consiglio nazionale forense, che ha
aggiornato le faq sulla riforma forense.
Il Cnf si occupa a tutto campo degli effetti della riforma,
da ultimo con particolare attenzione sul regime delle
incompatibilità.
Amministrazioni condominiali.
La professione di avvocato è incompatibile con l'attività di
amministratore di condominio, che è diventata attività di
lavoro autonomo, svolta necessariamente in modo continuativo
o professionale. A supporto della risposta negativa il Cnf
richiama la nuova disciplina in materia di professioni
regolamentate senza albo (legge n. 4/2013). Dal canto suo la
riforma forense esclude che l'avvocato possa esercitare
qualsiasi attività di lavoro autonomo svolta continuamente o
professionalmente, fatte salve alcune eccezioni tassative.
Tra queste non compare l'amministrazione dei condomini.
Viene così modificata l'impostazione precedente a favore
della compatibilità, motivata tra l'altro dal fatto che in
assenza di un albo degli amministratori di condominio il
professionista può svolgere le due attività permanendo
sottoposto alle norme deontologiche degli avvocati (parere
Consiglio nazionale forense 25.06.2009, n. 26).
Avvocati di enti pubblici.
La legge di riforma fa salvi i diritti acquisiti degli
avvocati già iscritti nell'elenco speciale dei dipendenti di
enti pubblici. Alcune novità sono previste per le nuove
iscrizioni. In particolare bisognerà adeguare il testo dei
contratti individuali. Nel contratto di lavoro, infatti, si
devono scrivere clausole a garanzia dell'autonomia e
indipendenza di giudizio intellettuale e tecnica
dell'avvocato. Inoltre l'ente pubblico deve prevedere la
stabile costituzione di un ufficio legale nella propria
pianta organica, con specifica attribuzione della
trattazione degli affari legali dell'ente. A favore
dell'avvocato si deve prevedere l'esclusiva della
trattazione degli affari legali dell'ente a tale ufficio.
Inoltre il capo dell'ufficio deve essere un avvocato
iscritto all'elenco speciale. Infine l'avvocato responsabile
deve esercitare i propri poteri in conformità con i principi
della legge professionale.
Incompatibilità.
Lo svolgimento della professione è incompatibile con la
qualità di socio illimitatamente responsabile o di
amministratore di società di persone, aventi quale finalità
l'esercizio di attività di impresa commerciale, in qualunque
forma costituite; è incompatibile con la qualità di
amministratore unico o consigliere delegato di società di
capitali, anche in forma cooperativa, e con la qualità di
presidente di consiglio di amministrazione con poteri
individuali di gestione. Sono previste delle eccezioni
qualora l'oggetto della attività della società sia limitato
esclusivamente all'amministrazione di beni, personali o
familiari, e per gli enti e consorzi pubblici e per le
società a capitale interamente pubblico.
Eccezioni.
Tra le eccezioni alle incompatibilità la riforma elenca
l'iscrizione nell'albo dei dottori commercialisti e degli
esperti contabili, nell'elenco dei pubblicisti e nel
registro dei revisori contabili o nell'albo dei consulenti
del lavoro. Inoltre è consentito l'esercizio della
professione a docenti e ricercatori in materie giuridiche di
università, scuole secondarie (pubbliche o private
parificate), istituzioni ed enti di ricerca e
sperimentazione pubblici. Per i docenti (professori ordinari
e associati di ruolo) e ricercatori universitari a tempo
pieno permane l'iscrizione nell'elenco speciale, con al
precisazione che devono esercitare la professione nei limiti
consentiti dall'ordinamento universitario
(articolo ItaliaOggi del 13.02.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI: Violazioni
antiriciclaggio indizi per l'antimafia.
Una circolare dell'Interno sulle disposizioni
correttive.
La violazione degli obblighi di
tracciabilità dei flussi finanziari assumerà valore
«indiziante» ai fini delle verifiche antimafia; 45 giorni,
prorogabili di altri 30, per la verifica da parte delle
prefetture; dal 13 febbraio in vigore le nuove norme sulla
documentazione antimafia che prescinderanno dall'attivazione
della banca dati unica.
È quanto chiarisce la circolare emanata dal capo di
gabinetto del ministero dell'interno relativamente al dlgs
15.11.2012 n. 218, recante disposizioni integrative e
correttive al decreto n. 159/2011, il Codice delle leggi
antimafia e delle misure di prevenzione.
La
circolare 08.02.2013 n.
11001/119/20(6) richiama innanzitutto l'attenzione
delle amministrazioni sulla più rilevante novità,
l'anticipazione al 13.02.2013 dell'entrata in vigore delle
disposizioni del libro II del Codice relativo alla
documentazione antimafia che viene quindi sganciata
dall'effettiva attivazione della Banca dati nazionale unica
della documentazione antimafia.
Una seconda novità è l'ampliamento della platea di operatori
economici da sottoporre alle verifiche antimafia: i Geie
(gruppi europei di interesse economico, membri dei collegi
sindacali di associazioni e società e componenti degli
organi di vigilanza; soggetti che esercitano poteri di
amministrazione, rappresentanza o direzione dell'impresa per
società costituite all'estero prive di sede secondaria in
Italia, società concessionarie nel settore dei giochi
pubblici.
Dal punto di vista dei comportamenti e, quindi, delle
situazioni «indizianti», la circolare pone in
evidenza come si debbano tenere presenti anche le violazioni
degli obblighi di tracciabilità dei flussi finanziari. Viene
inoltre richiamata l'attenzione sulla avvenuta soppressione
delle cosiddette «informazioni atipiche»
(segnalazione di evenienze dubbie anche in assenza di
accertate ostatività): ad oggi quindi l'informazione
antimafia dovrà avere contenuto o liberatorio o interdittivo
a proseguire il rapporto contrattuale o amministrativo.
Sul procedimento di rilascio della documentazione antimafia,
la circolare ricorda che il codice prefigura un sistema
basato sulla banca dati nazionale unica della documentazione
antimafia che a regime dovrebbe restituire in tempo reale
alle amministrazioni il provvedimento richiesto; allo stesso
tempo viene eliminata la possibilità di acquisire la
comunicazione antimafia nella forma dei certificati
camerali.
Al riguardo la circolare precisa che fino all'attivazione
del nuovo sistema informatico le amministrazioni dovranno
richiedere la documentazione alle prefetture competenti che
verificheranno tramite il Ced interforze e sistema Sicrant
delle camere di commercio la sussistenza o meno delle
situazioni controindicanti. Dal punto di vista dei tempi, i
prefetti avranno 45 giorni prorogabili di altri 30 per
verifiche di particolare complessità
(articolo ItaliaOggi del 13.02.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA: Efficienza
energetica. Il nuovo Dpr. Caldaie autonome a gas con
verifiche ogni quattro anni.
Controlli sugli impianti termici
adeguati alle esigenze Ue e limite minimo al fresco
d'estate.
Sono alcune
delle principali novità dello
schema
di Dpr che approderà venerdì mattina al Consiglio dei
ministri. Il provvedimento incide sui Dpr 59/2009 e 412/1993 e
nasce dalla procedura d'infrazione in corso per il non
completo recepimento della direttiva 2002/91/Ce.
Dall'entrata in vigore del Dpr la cadenza dei controlli
sull'efficienza energetica sarà ogni 2 anni per gli impianti
a combustibile liquido o solido e di 4 anni per quelli a
gas, metano o gpl. Solo se la potenza termica è maggiore o
uguale a 100 kW i tempi si dimezzano. Di fatto è una
rivoluzione, perché quelli con potenza inferiore sono la
quasi totalità.
I limiti attuali, fissati dai Dlgs 192/2005
e 311/2006, sono più severi: per le caldaie sotto i 35 kW di
potenza, i controlli sono annuali se il combustibile è
liquido o solido, ogni 2 anni se l'impianto è a gas, è
all'interno o supera gli 8 anni di età, ogni 4 se la caldaia
è di tipo B o C ed è a gas. Tutti gli altri impianti si
verificano una volta l'anno.
Novità anche in condominio o negli edifici con unico
proprietario ma più unità immobiliari: il proprietario unico
o l'amministratore dovranno esporre una tabella con:
indicazione del periodo di accensione e orario di
attivazione giornaliera, generalità e recapito del
responsabile dell'impianto, codice dell'impianto assegnato
dal Catasto territoriale degli impianti termici.
Cambiano invece la figura e le mansioni del responsabile
dell'impianto (infatti viene abrogato l'articolo 11 del Dpr
412/93): la delega al "terzo responsabile" diventerà
sempre possibile, tranne nel caso di impianti autonomi in
singole unità immobiliari che non siano installati in locali
tecnici dedicati (come spesso accade nelle villette). I
responsabili rispondono del mancato rispetto delle norme
relative all'impianto, anche sotto il profilo della
sicurezza e della tutela ambientale. Se l'impianto non è a
norma, non si può delegare la faccenda al terzo
responsabile, a meno che la delega non preveda i necessari
interventi e la relativa copertura finanziaria: queste
garanzie, in condominio, devono essere approvate con
delibera.
Viene anche fissato il limite dei gradi (media ponderata dei
singoli ambienti) sotto i quali non è consentito, nei mesi
estivi, abbassare ulteriormente la temperatura: 26 gradi
(con -2° di tolleranza)
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.02.2013). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Galateo ai dipendenti pubblici.
Decisioni tracciate. Stop ai regali. Incarichi circoscritti.
Lo schema di decreto con il codice
di comportamento previsto dalla legge anticorruzione.
I dipendenti pubblici devono documentare l'iter seguito nel
loro processo decisionale (tracciabilità documentale);
ammessi soltanto regali fino a un massimo di 150 euro e se
di importo superiore i regali devono essere «immediatamente»
restituiti; illegittimi gli incarichi di collaborazione per
chi ha avuto interessi economici in attività o decisioni
dell'ufficio che deve conferire l'incarico; obbligo per il
dipendente di comunicare l'adesione ad associazioni o
organizzazioni con interessi vicini a quelli dell'ufficio;
obbligo di comunicare eventuali suoi rapporti di
collaborazione con privati, o di parenti e affini entro il
secondo grado, intercorsi negli ultimi tre anni e obbligo di
astensione; le violazioni al codice di comportamento, fonte
di responsabilità disciplinare, saranno sanzionabili anche
con l'espulsione ma la sanzione dovrà essere sempre
commisurata alla gravità della violazione dei doveri; i Ccnl
potranno prevedere ulteriori criteri di individuazione delle
sanzioni.
Sono queste alcune delle indicazioni contenute nello
schema
di dpr recante il codice di comportamento dei dipendenti
pubblici, che attua l'articolo 54 del dlgs 165/2001 come
sostituito dall'articolo 1, comma 44 della legge 190/2012
(la cosiddetta «anticorruzione»).
Il provvedimento, che sostituirà il dm della funzione
pubblica del 28.11.2000, ha ottenuto il via libera
della Conferenza unificata e dovrà essere inviato al
Consiglio di Stato.
Destinatari del codice sono tutti i dipendenti, dirigenti e
non dirigenti delle pubbliche amministrazioni, ma le norme
del codice costituiranno principi di comportamento anche per
le restanti categorie di personale. In particolare le
pubbliche amministrazioni sono chiamate ad estendere gli
obblighi di condotta previsti dal codice ai propri
collaboratori e consulenti, ai titolari di organi e
incarichi negli uffici di diretta collaborazione delle
autorità politiche e ai collaboratori di imprese fornitrici
di servizi a favore dell'amministrazione.
Dopo avere richiamato il rispetto della Costituzione e dei
principi di integrità correttezza, buona fede,
proporzionalità, obiettività, equità e ragionevolezza, il
codice chiama il dipendente ad improntare la sua azione
anche ai principi di economicità, efficienza ed efficacia,
oltre a quello di contenimento dei costi nella gestione
della risorse pubbliche.
Particolare attenzione viene riservata alle regalie: in
primis il dipendente non deve chiedere -né per se, né
per altri- né accettare regali o altre utilità «salvo
quelli d'uso di modico valore effettuati occasionalmente
nell'ambito della normali relazioni di cortesia». La
soglia di modico valore si fissa a 100 euro «in via
orientativa», ma i piani di prevenzione della corruzione
possono fissarla anche in misura diversa (anche più bassa)
ma mai oltre i 150 euro.
Laddove riceva regali oltre questa somma, il dipendente è
tenuto «immediatamente» alla restituzione. Previsto
il divieto di accettare incarichi di collaborazione da
privati che abbiano o abbiano avuto nel biennio precedente
interesse nelle attività dell'ufficio. Se il dipendente
aderisce ad associazioni o organizzazioni i cui ambiti di
interesse sono coinvolti o interferiscano con lo svolgimento
dell'attività dell'ufficio, deve comunicarlo
all'amministrazione. Non esiste analogo obbligo per
l'adesione a partiti politici e sindacati.
Rilevanti anche gli obblighi di comunicazione di tutti gli
interessi finanziari e dei potenziali conflitti di interesse
rispetto a rapporti di collaborazione con privati (propri,
dei parenti e degli affini entro il secondo grado)
intercorsi fino a tre anni prima dell'assunzione; connesso a
questo obbligo c'è quello di astensione dal prendere
decisioni o svolgere attività in conflitto anche potenziale
di interessi con il coniuge, conviventi, parenti e affini
entro il secondo grado.
Ovviamente il dipendente dovrà anche rispettare il piano di
prevenzione della corruzione, fermo restando l'obbligo di
denuncia all'autorità giudiziaria di eventuali situazioni di
illecito di cui venga a sapere. Il dipendente, oltre ad
assicurare l'adempimento degli obblighi di trasparenza
«totale» previsti in capo alle amministrazioni, dovrà anche
garantire, attraverso un adeguato supporto documentale, la
tracciabilità dei processi decisionali adottati, in maniera
che siano «replicabili».
Confermato, nei rapporti con il pubblico, l'obbligo di
esibire in modo visibile il badge, di rispettare gli
standard di qualità e quantità fissati dalla amministrazione
e di osservare il dovere di ufficio. La vigilanza sul
rispetto del codice sarà affidata ai dirigenti responsabili,
alle strutture di controllo interno e agli uffici etici e di
disciplina o agli uffici procedimenti disciplinari. La
violazione degli obblighi del codice configura sempre
responsabilità disciplinare e ai fini della valutazione
delle sanzioni, che possono arrivare anche all'espulsione,
occorrerà tenere conto della gravità dell'atto; i contratti
collettivi nazionali di lavoro potranno definire criteri di
individuazione delle sanzioni in relazione alle tipologie di
violazione del codice
(articolo ItaliaOggi del 12.02.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
TRIBUTI: Immobili
senza utenze esclusi dalla Tares.
Non sono soggette al pagamento della Tares le unità
immobiliari destinate a civili abitazioni prive di mobili e
di allacci alle reti idriche e elettriche.
Sono queste le
indicazioni contenute nelle linee guida ministeriali per
l'applicazione del nuovo tributo sui rifiuti e i servizi.
Nel prototipo di regolamento Tares, infatti, viene precisato
che non sono soggetti al tributo i locali e le aree che non
possono produrre rifiuti o che non comportano, «secondo la
comune esperienza, la produzione di rifiuti in misura
apprezzabile per la loro natura o per il particolare uso cui
sono stabilmente destinati». E tra le unità immobiliari
escluse dal prelievo rientrano quelle «adibite a civile
abitazione prive di mobili e suppellettili e sprovviste di
contratti attivi di fornitura dei servizi pubblici a rete».
La tesi ministeriale, però, si pone in contrasto con quanto
sostenuto dalla Cassazione e dai giudici di merito. Tra
l'altro, anche la relazione governativa sull'articolo 14 del
dl 201/2011, che ha istituito il nuovo balzello, chiarisce
che il legislatore, laddove assoggetta al tributo gli
immobili «suscettibili di produrre rifiuti», ha inteso
recepire «il consolidato orientamento della Corte di
cassazione, riconducendo l'applicazione del tributo alla
mera idoneità dei locali e delle aree a produrre rifiuti,
prescindendo dall'effettiva produzione degli stessi».
In realtà, la Cassazione ha sempre posto dei limiti rigidi
per l'esonero dal pagamento della tassa, che è dovuta a
prescindere dal fatto che il contribuente utilizzi
l'immobile. Vanno esclusi solo gli immobili non utilizzabili
(inagibili, inabitabili, diroccati) o improduttivi di
rifiuti.
Anche il presupposto Tares è l'occupazione,
detenzione o conduzione di locali e aree scoperte a
qualsiasi uso adibiti. Non sono soggetti solo gli immobili
che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per
il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché
risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel
corso dell'anno. Pertanto insuscettibili di produrre
rifiuti, come quelli situati in luoghi impraticabili,
interclusi o in stato di abbandono. Il contribuente può fare
ricorso solo a queste prove vincolate per dimostrare che
l'immobile sia inidoneo a produrre rifiuti e quindi non
soggetto al pagamento.
Mentre nella normativa Tarsu si faceva riferimento agli
immobili «oggettivamente utilizzabili», nel decreto Monti si
usa l'espressione «suscettibili di produrre rifiuti». Il
risultato però è lo stesso. Tant'è che viene richiamata
nella relazione ministeriale la giurisprudenza della
Cassazione, che da più di 10 anni ha affermato in maniera inequivoca che il tributo è dovuto dal contribuente se
l'immobile sia oggettivamente utilizzabile, ancorché
soggettivamente inutilizzato per scelta del titolare.
Per la
prima volta il principio è stato affermato con la sentenza
16785 del 30.11.2002. Successivamente, con le sentenze
9920/2003, 22770/2009, 1850/2010 e altre. Questo
orientamento è stato seguito anche dai giudici di merito. La
commissione tributaria regionale di Palermo (sentenza
121/2012) ha infatti sostenuto che l'attivazione delle
utenze non è decisiva ai fini del pagamento della tassa
rifiuti. Magazzini e locali di deposito sono soggetti al
prelievo anche se non hanno allacci alle reti idriche e
elettriche.
Infine la Suprema Corte, con la recente ordinanza 1331 del
21.01.2013, ha ribadito che la prova fornita dal
contribuente di aver cessato un'attività commerciale o
industriale non lo esonera dal pagamento della tassa
rifiuti. Non rileva, dunque, la scelta del titolare di non
utilizzare l'immobile
(articolo ItaliaOggi del 12.02.2013). |
APPALTI: PAGAMENTI
P.A./ Tajani: il governo intervenga subito. Passera: al
lavoro su soluzione. Chance dalla fattura differita.
La regola dei 30 giorni è aggirabile nelle transazioni B2B.
Pagamenti rateali e fatture differite per uscire dalle
strettoie imposte dal recepimento della direttiva sui
ritardati pagamenti. Possono essere questi gli unici
grimaldelli per aprire qualche varco all'interno della
regola dei 30 giorni di tempo imposta dal dlgs 192/2012.
Il pagamento a rate può essere ammesso sia nei rapporti tra
imprese e p.a. sia nelle transazioni B2B.
La postergazione della data di emissione della fattura,
invece, è espressamente vietata dalla legge (e quindi nulla)
quando il debitore è una pubblica amministrazione. Ma il
dlgs nulla dice sull'ipotesi che le parti possano far
slittare l'emissione della fattura a un momento successivo
rispetto alla prestazione dei servizi o alla consegna della
merce.
Si tratta di uno dei tanti aspetti lacunosi (evidenziati da
Vincenzo Roppo, ordinario di diritto civile all'Università
di Genova) del decreto che pur avendo recepito a tempo
record la direttiva 2011/7/Ue, necessita ora di un ulteriore
“tagliando” in via interpretativa.
Il primo è arrivato con la circolare dello Sviluppo
economico che ha chiarito che la direttiva contro i
pagamenti-lumaca si applica anche agli appalti pubblici.
Il secondo dovrà riguardare i termini di pagamento e dovrà
affermare senza ombra di dubbio che nelle transazioni
commerciali tra p.a. e imprese i debiti vanno pagati entro
30 giorni salvo pochissime eccezioni (sanità, aziende
pubbliche, alcune tipologie di appalti) che consentono lo
slittamento fino a 60 giorni. La richiesta di un chiarimento
urgente, già avanzata la settimana scorsa in un convegno
organizzato a Milano dalla commissione europea (si veda
ItaliaOggi del 5/2/2013) è stata recapitata dal
vicepresidente dell'esecutivo di Bruxelles, Antonio Tajani,
direttamente al ministro Corrado Passera, nel corso di un
incontro presso Assolombarda. «Bisogna fare presto», ha
detto Tajani, «perché l'Ue sarà intransigente nel verificare
le modalità con cui i paesi membri hanno applicato la
direttiva». L'apertura di una procedura di infrazione, se il
chiarimento non dovesse arrivare entro il 16 marzo, (dead line per l'attuazione delle nuove regole) è un pericolo
reale e per questo ad occuparsene dovrà essere l'esecutivo
attualmente in carica.
L'altro nodo da sciogliere riguarda l'avvio del negoziato
sui debiti pregressi. Nessuno conosce l'esatto ammontare dei
mancati pagamenti della p.a. italiana nei confronti delle
imprese perché fino ad ora la cifra “monstre” (che si
aggirerebbe tra i 70 e i 100 miliardi di euro) non è stata
contabilizzata nel debito pubblico. E il motivo è da
ricercare nelle regole contabili italiane che consentono di
mettere a debito un pagamento solo quando è saldato e non
quando sorge l'obbligo giuridico.
Se il pregresso dei mancati pagamenti venisse contabilizzato
nel debito pubblico italiano (ormai abbondantemente sopra i
2.000 miliardi di euro) l'obiettivo di raggiungere il
pareggio di bilancio nel 2013 sarebbe gravemente
compromesso. Di qui il tentativo di Tajani di convincere il
commissario Ue per gli affari economici e monetari Olli Rehn
ad offrire una via d'uscita ai Paesi con il maggior fardello
di debiti scaduti (oltre all'Italia anche Portogallo e
Spagna).
Gli incontri sono iniziati la scorsa settimana (si veda
ItaliaOggi del 5/2/2012) e proseguiranno incessantemente per
arrivare a una soluzione nel giro di un mese. Tajani è
ottimista e realista al tempo stesso. «Non sarà facile, ma
sono convinto che qualche spiraglio possa esserci», ha
dichiarato.
Nel frattempo le strade percorribili sono la certificazione
dei crediti e le compensazioni con i debiti fiscali. Due
opportunità offerte alle imprese dal governo Monti e che
Passera ha rivendicato con orgoglio.
Al termine del primo mese di operatività (gennaio 2013), ha
annunciato il ministro, le amministrazioni abilitate
all'utilizzo del sistema di certificazione dei crediti sono
state 1.227, sono state rilasciate 71 certificazioni (per
circa 3 mln di euro) e presentate 467 istanze (per circa 45
mln di euro). Le compensazioni fiscali concluse nel 2012
ammontano invece a 200 per un importo di 15 milioni di euro.
Per quanto riguarda la richiesta di un intervento
chiarificatore sui tempi di pagamento, Passera non si è
tirato indietro. «Cercheremo di trovare una soluzione», ha
dichiarato, «perché l'applicazione della direttiva deve
essere rigorosa».
«Intanto», ha proseguito, «va risolto il problema del debito
pregresso che è una zavorra accumulatasi ai danni delle
imprese creditrici e della stessa p.a.». Secondo il ministro
dello sviluppo economico la strada maestra da percorrere è
una revisione del patto di stabilità, europeo e interno, in
modo che i vincoli contabili non penalizzino la virtuosità
delle amministrazioni.
Una richiesta che ha trovato concorde anche il presidente di
Confindustria Giorgio Squinzi secondo cui, contro i mancati
pagamenti, «serve una terapia d'urto nei primi 100 giorni di
governo del prossimo esecutivo». «E' essenziale che lo
stato paghi almeno 48 dei 70-100 miliardi di debiti
pregressi. L'importo sul deficit sarebbe irrilevante per il
2013 e in ogni caso ampiamente compensato dagli effetti
benefici sull'economia»
(articolo ItaliaOggi del 12.02.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Mini-enti,
fuori dal Patto le spese per calamità.
In Piemonte, non sono pochi i sindaci dei piccoli comuni che
aspettano di ricevere i contributi per l'alluvione del 1994.
Forse arriveranno nel 2013, a quasi 20 anni di distanza da
quel tragico evento. Ma, a meno che il Mef non cambi idea,
si tratterà di entrate non valide ai fini del Patto di
stabilità interno, anche se nel frattempo gli enti hanno
effettuato gli interventi di ripristino finanziandoli con
risorse proprie.
La beffa, che rischia di sballare
ulteriormente i già precari equilibri di bilancio dei
mini-enti, emerge dalla lettura della
circolare 07.02.2013 n. 5/2013,
diramata dalla Ragioneria generale dello Stato per
illustrare il funzionamento del nuovo Patto.
La relativa
disciplina prevede una deroga specifica per le entrate e le
spese relative a calamità naturali. Esse, infatti, purché
siano di provenienza statale, possono essere escluse dal
saldo. Il problema è che spesso le entrate tardano ad
arrivare, mentre le spese rivestono quasi sempre carattere
di urgenza, tanto che i sindaci sono costretti ad
anticiparle di tasca propria, in attesa che lo stato o le
regioni effettuino i rimborsi. In tali casi, vale la regola
della «simmetria»: se a suo tempo hai detratto le spese
(impegni o pagamenti, a seconda che siano correnti o in
conto capitale), devi fare lo stesso con le entrate nel
momento in cui le accerti o le riscuoti.
La circolare del Mef, al punto C4, fornisce alcuni esempi pratici che aiutano
a capire. Un ente, nel 2013, accerta entrate per 100 a
fronte di impegni già assunti a valere su altre risorse
negli anni precedenti; in tal caso, l'accertamento di 100 è
escluso dal saldo 2013, mentre non possono essere esclusi
ulteriori impegni a valere sui 100. Esempio analogo vale per
gli investimenti.
Tale lettura è certamente corretta laddove
l'ente in questione abbia, a suo tempo, detratto la spesa
effettuata con risorse proprie dai calcoli del Patto. Ma
ciò, nel caso dei comuni fra 1000 e 5000 abitanti, non è
vero, perché tali enti non erano soggetti. Questi ultimi,
quindi, pur non avendo, in passato, detratto alcuna spesa,
non potranno tenere buona l'entrata di quest'anno.
Si tratta
di una penalizzazione che si aggiunge a quella derivante
dalla mancata attuazione della norma che prevede la
possibilità di escludere dal Patto le spese per calamità
naturali finanziate dagli enti con risorse proprie. Ma,
mentre per ovviare a quest'ultima occorre una legge, la
prima potrebbe essere corretta dal Mef
(articolo ItaliaOggi del 12.02.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Semplificazioni.
Per le Pmi una sola certificazione al posto di sette vincoli
burocratici.
Autorizzazione unica verso l'ok.
Dopo il parere della commissione Ambiente della Camera in
settimana il varo in Cdm.
L'IMPATTO/
L'intervento alleggerisce gli oneri delle imprese di 1,3
miliardi. Montecitorio chiede di rivedere la durata di 15
anni giudicata troppo lunga.
L'autorizzazione unica ambientale arriva all'ultimo miglio.
E vede il traguardo che taglierà sul filo di lana già questo
venerdì quando il Governo in uno dei suoi ultimissimi
consigli dei ministri dovrebbe varare, dopo un lungo iter
durato 6 mesi, il Dpr che apre le porte all'attesa
semplificazione per le Pmi che unisce in una sola
autorizzazione almeno sette adempimenti burocratici sul
fronte ambientale.
Ieri la commissione Ambiente della Camera
ha dato infatti l'ultimo parere, dopo quello arrivato dal
Senato prima di Natale, al decreto che attua l'articolo 23
del «Semplifica Italia» (35/2012). Un parere favorevole,
quello di Montecitorio, anche se corredato da una serie di
osservazioni e da una condizione: quella di rivedere la
durata dell'autorizzazione prevista dal Dpr in 15 anni e
giudicata troppo lunga.
L'«Aua», questo l'acronimo che sta appunto per
Autorizzazione unica ambientale, promette di dare una mano
alle piccole e medie imprese semplificando al massimo una
serie di «titoli abilitativi» (autorizzazioni,
comunicazioni, nulla osta) a cui sono assoggettate le
piccole e medie imprese e gli impianti che non hanno
dimensioni tali da soggiacere all'Aia (autorizzazione
integrata ambientale).
Si tratta, secondo le stime del
Governo, di una misura anti-burocrazia che incide sulla vita
delle Pmi con un conto salato di oneri amministrativi che
vale in tutto 1,3 miliardi. Non a caso era stato lo stesso
premier Monti a segnalare l'importanza di questa misura dopo
il suo primo varo in consiglio dei ministri a metà settembre
dell'anno scorso: «Renderà più semplice la vita delle
imprese», aveva detto Monti convinto che sarebbe stata anche
di «grande aiuto per la crescita».
L'«Aua» raccoglie in un unico procedimento fino a sette
adempimenti ambientali che prima dovevano essere ottenuti
singolarmente. E cioè: l'autorizzazione agli scarichi; la
comunicazione preventiva sull'uso delle acque reflue;
l'autorizzazione alle emissioni in atmosfera;
l'autorizzazione generale per le imprese con emissioni
modeste; il nulla osta per valutare l'impatto acustico;
l'autorizzazione all'uso dei fanghi di depurazione in
agricoltura; la comunicazione in materia di autosmaltimento
e recupero dei rifiuti. Ma le Regioni, a loro volta,
potranno estendere l'elenco ricomprendendovi eventualmente
anche altre autorizzazioni.
Per chiedere l'autorizzazione unica ambientale basterà
presentare una domanda sola allo Sportello unico per le
attività produttive (Suap). Che, in via telematica,
trasmetterà l'istanza delle imprese alle «autorità
competenti» (Regione, Comune, Provincia o Arpa a seconda dei
casi) che a loro volta dovranno rispondere entro 90 giorni.
Su questo punto in particolare la commissione Ambiente della
Camera, tra le sue osservazioni, ha segnalato di individuare
nella sola Provincia l'autorità competente, «salvo diversa
previsione della normativa regionale».
Tempi certi e brevi –90 giorni– che potranno allungarsi a
120 giorni o al massimo 150 in caso di procedimento che
coinvolga la conferenza dei servizi o che preveda
integrazioni. Il decreto fissa infine a 15 anni la durata
dell'Aua, uniformando così i diversi termini di scadenza che
oggi interessano le singole autorizzazioni. Ma su questo la
commissione Ambiente, nel suo parere, ha avanzato come
condizione «l'opportunità di verificare la congruenza dei
quindici anni quale durata dell'autorizzazione unica
ambientale».
---------------
Ieri l'ok delle commissioni del Senato.
Adempimenti facilitati per le piccole imprese
IL RUOLO DEL SUAP/
L'Aua sarà rilasciata dallo Sportello unico per attività
produttive e avrà una durata di 15 anni.
Si presenta sulla rampa di lancio l'atteso regolamento
sull'autorizzazione unica ambientale (Aua) e la
semplificazione degli adempimenti amministrativi in materia
ambientale gravanti sulle imprese e sugli impianti non
soggetti ad Aia (autorizzazione integrata ambientale). Lo
schema ha infatti ricevuto ieri il parere favorevole delle
competenti commissioni parlamentari del Senato.
La nuova tipologia di autorizzazione prevista dall'imminente
decreto è stata introdotta dall'articolo 23 della legge
35/2012 dedicata alle semplificazioni in materia
amministrativa e burocratica. Beneficiari del nuovo sistema
saranno fondamentalmente le imprese piccole e medie le cui
soglie dimensionali sono individuate dal Dm Attività
produttive 18 aprile 2005 che, finalmente, riceveranno
l'autorizzazione da un unico ente. Questo riferimento
unitario è rappresentato dallo Sportello unico per attività
produttive (Suap) previsto dal Dpr 160/2010. Per gli
impianti soggetti a Via (Valutazione d'impatto ambientale)
la procedura non sarà attivabile ove tale valutazione
comprenda e sostituisca tutti gli atti di assenso, comunque
denominati, in materia ambientale.
La nuova autorizzazione dovrebbe avere una durata di
quindici anni (il Senato ha espresso le proprie riserve al
riguarda ma, per gli scarichi contenenti sostanze pericolose
viene prevista una relazione intermedia sulla situazione
degli autocontrolli da inviare ogni quattro anni). Le
verifiche per la completezza della documentazione non
potranno durare più di 30 giorni. La conferenza di servizi è
prevista solo nel caso in cui la nuova autorizzazione
riguardi il rilascio di titoli abilitativi per i quali
almeno uno dei termini di conclusione del procedimento sia
fissato in misura superiore ai 90 giorni ai sensi
dell'articolo 90 Dpr 160/2010. I pareri, i nulla osta e gli
atti di assenso comunque denominati di competenza di altri
enti devono tutti e sempre transitare per il Suap.
Per il rinnovo dell'Aua è prevista una semplice
autocertificazione; tuttavia, ove intervengano modifiche nel
processo produttivo, sarà necessaria l'attivazione della
Conferenza di servizi.
Le spese per rilievi e accertamenti sono poste a carico
dell'impresa richiedente.
Ministero dell'Ambiente, Conferenza unificata e
organizzazioni imprenditoriali individueranno le forme per
monitorare l'attuazione delle disposizioni introdotte dal
nuovo regolamento.
I titoli abilitativi che saranno sostituiti dalla nuova
autorizzazione sono i seguenti: scarichi idrici,
comunicazione preventiva per l'utilizzazione agronomica
degli effluenti di allevamento; emissioni in atmosfera,
autorizzazione generale di cui all'articolo 272, "Codice
ambientale"; spandimento fanghi in agricoltura di cui al Dlgs
99/1992; iscrizione presso i registri provinciali per il
recupero agevolato dei rifiuti pericolosi e non pericolosi
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.02.2013). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Passate
le scadenze della riforma Brunetta.
Accordi integrativi a rischio nullità negli enti
territoriali.
FUORI LINEA/
Le intese andavano adeguate entro la fine del 2012 e il
mancato rinnovo può rendere illegittime le indennità locali.
Integrativi a rischio nella maggioranza degli enti locali e
delle Regioni, che non hanno adeguato le regole delle intese
decentrate alle previsioni della riforma Brunetta.
Il tempo per adeguarsi al nuovo quadro delle competenze, che
per esempio sottrae alla concertazione le materie che
riguardano l'organizzazione degli uffici assegnandole alla
competenza dirigenziale, è scaduto nel silenzio a fine
dicembre del 2012. Complice il congelamento di tutta la
contrattazione dettato dal Dl 78/2010, soprattutto nelle
autonomie territoriali lo slancio nella revisione delle
dinamiche contrattuali alla luce della riforma non è stato
particolarmente intenso, e nella maggioranza degli enti ha
lasciato le cose com'erano, in attesa di tempi migliori. La
riforma, però, nonostante le consuete proroghe, non dava
scelta: le intese decentrate andavano adeguate entro il 31
dicembre scorso (articolo 65, comma 4, del Dlgs 150/2009).
Negli ultimi giorni il problema è arrivato sui tavoli della
Funzione pubblica e delle organizzazioni sindacali, che si
sono chieste che cosa possa succedere nelle amministrazioni
che hanno mantenuto inalterate le vecchie intese. I rischi
principali riguardano la corresponsione delle indennità
integrative, perché di fatto diventa illegittimo il
contratto decentrato sulla base del quale sono erogate. A
ben vedere, sulla base di questa impostazione il problema
potrebbe non toccare le voci che trovano la propria origine
nei contratti nazionali, come accade per esempio per il
turno o per l'indennità di lavoro notturno (ad esempio nella
Polizia locale). Il contratto nazionale, però, demanda
integralmente alle intese decentrate altre indennità, come
quelle di rischio e quelle legate a specifiche
responsabilità. Per queste voci, le contestazioni potrebbero
arrivare numerose, anche a causa dell'articolata griglia di
controlli sui contratti decentrati introdotta dalla stessa
riforma Brunetta nell'articolo 40-bis del testo unico del
pubblico impiego (Dlgs 150/2001).
Proprio per questa ragione, nei giorni scorsi i sindacati
hanno avviato i contatti con il Governo per cercare di
mettere una pezza al problema evitando altri colpi al potere
d'acquisto delle retribuzioni pubbliche. Non manca chi
sostiene che l'illegittimità bollerebbe solo le parti dei
contratti decentrati non in linea con la riforma, a partire
da quelle che chiedono il confronto sindacale per le materie
organizzative. L'"illegittimità parziale", però, è
disciplinata dall'articolo 40, comma 3-quinquies del Dlgs
165/2001 solo per le intese che sono state riviste dopo la
riforma, ma presentano ancora clausole difformi: in questo
caso, l'illegittimità sarebbe selettiva, mentre se la
revisione dell'intesa manca completamente potrebbe essere
l'intero contratto decentrato a perdere il proprio valore.
Vista la complessità della materia, e la concretezza delle
responsabilità e delle conseguenze che ne potrebbero
derivare, le istruzioni ufficiali sono particolarmente
attese.
Così com'è atteso un altro provvedimento che manca
all'appello, e che dovrebbe prorogare al 2013/2014 il blocco
dei rinnovi contrattuali nazionali del pubblico impiego.
Anche il «congelamento» introdotto nel Dl 78/2010 è scaduto
a fine 2012, ed è decisamente improbabile un via libera alle
contrattazioni: il Dpcm di proroga del blocco era del resto
stato già annunciato dal Governo, ma poi si è perso per
strada e difficilmente vedrà la luce prima del voto
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.02.2013). |
TRIBUTI: Tares, pagheranno le imprese.
A carico delle aziende gli sconti concessi dai sindaci.
Le indicazioni nello schema tipo di regolamento e
nelle linee guida diffuse giovedì.
Le imprese pagheranno gli sconti Tares concessi dai sindaci
alle abitazioni civili per incentivare la raccolta
differenziata.
La conferma arriva dallo
schema-tipo di regolamento comunale
relativo al nuovo tributo su rifiuti e servizi diffuso dal
dipartimento delle Finanze, insieme a dettagliate «Linee
guida», la scorsa settimana (si veda ItaliaOggi dell'8
febbraio).
La Tares (istituita dall'art. 14 del dl 201/2011 per
razionalizzare il sistema di imposizione sui rifiuti) deve
garantire, infatti, la copertura integrale dei costi dei
servizi di raccolta e smaltimento.
Una delle conseguenze di questo vincolo è che le riduzioni
per la raccolta differenziata riferibili alle utenze
domestiche deve essere addebitata a quelle non domestiche
(quali attività commerciali, industriali, artigianali,
professionali e produttive in genere).
Il peso in termini finanziari di questa sorta di «partita di
giro», precisano le linee guida ministeriali, è rimesso alla
scelta discrezionale di ciascun ente locale «senza obbligo
di specifica motivazione sul punto». È ovvio, però, che si
tratta di una scelta che andrà attentamente calibrata,
specialmente nei comuni che finora hanno applicato la Tarsu,
al fine di non appesantire ulteriormente il carico fiscale
sui soggetti produttivi, che quasi certamente dovranno anche
scontare un aggravio dell'Imu.
Le Finanze chiariscono anche alcuni altri aspetti dubbi
della disciplina relativa alla Tares.
Il primo riguarda l'evidente contrasto esistente fra l'art.
14, c. 23, del dl 201, che rimette ai comuni la
determinazione delle tariffe, e l'art. 34, c. 23, del dl
179/2012, che invece assegna tale competenza agli enti
regionali di governo degli ambiti e dei bacini territoriali
ottimali.
Quest'ultima disposizione viene completamente ignorata,
riaffermando indirettamente la piena competenza dei consigli
comunali, ferma restando la necessità che le tariffe siano
conformi al piano finanziario del servizio di gestione dei
rifiuti approvato dall'Autorità dell'ambito territoriale
ottimale o dai diversi soggetti individuati a livello
regionale.
Lo schema di regolamento, inoltre, elenca dettagliatamente i
locali e le aree escluse dalla tassazione per inidoneità a
produrre rifiuti: fra queste rientrano anche le aree adibite
in via esclusiva alla sosta gratuita dei veicoli (ad
esempio, il parcheggio di un supermercato), che secondo
alcuni interpreti avrebbero dovuto essere soggette.
Arriva poi la conferma che la tariffa corrispettiva
alternativa ai tributi può essere istituita solo dai comuni
che dispongono di sistemi di misurazione puntuale della
quantità di rifiuti conferiti dalla singola utenza, oggi
presenti in poche realtà.
Sempre riguardo alla tariffa corrispettiva, un'ulteriore
precisazione concerne le modalità di determinazione del
costo del servizio, dopo che la l 228/2012 ha abrogato la
previsione (art. 14, c. 12, del dl 201) che la rimandava ad
un apposito regolamento statale. Anche in tal caso, come per
il tributo, si applicano le disposizioni del dpr 158/1999.
Tuttavia, secondo i chiarimenti del ministero, i comuni non
sono vincolati al rispetto puntuale dei coefficienti
stabiliti dal c.d. «metodo normalizzato», ma sono liberi di
muoversi liberamente all'interno della forchetta compresa
fra il minimo e il massimo.
Infine, rimangono ancora alcune incertezze riguardo alla
riscossione.
La legge 228 ha stabilito che essa, oltre che gestita
direttamente dai comuni, possa anche essere affidata agli
attuali gestori, fermo restando, però, l'obbligo di
versamento diretto al comune.
Per i piccoli comuni, però, tale obbligo mal si concilia con
quello di gestire in forma associata (insieme alle altre
funzioni fondamentali), anche quelle relative ai rifiuti,
che per espressa previsione di legge includono la
riscossione dei relativi tributi.
Al riguardo, si ritiene che il gettito della Tares possa
essere attribuito direttamente alle unioni, salvo i casi in
cui i sindaci optino per il modello alternativo della
convezione.
Del resto, in base all'art. 32, c. 7, del Tuel, alle unioni
(e non ai singoli comuni associati) competono gli introiti
derivanti dalle tasse, dalle tariffe e dai contributi sui
servizi ad esse affidati (articolo
ItaliaOggi Sette dell'11.02.2013). |
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI: Vademecum
sui diritti-doveri di datori e dipendenti in occasione delle
operazioni di voto. Elezioni, l'assenza è legittimata.
I permessi sono considerati giornate di attività lavorativa.
Assenza giustificata per chi partecipa alle operazioni di
voto. I lavoratori dipendenti, infatti, qualora vengano
nominati presidente, segretario, scrutatore o rappresentante
di lista presso seggi, possono assentarsi dal lavoro con
diritto alla conservazione del posto per tutto il periodo
corrispondente alla durata delle operazioni di voto e
scrutinio.
Si chiamano «permessi elettorali» e fanno sì che
i giorni di assenza vengano considerati a tutti gli effetti
«giornate di attività lavorativa». Vediamone dunque la
disciplina in vista del prossimo impegno elettorale per le
politiche (elezione del parlamento) e le regionali del 24 e
25 febbraio, nonché per le amministrative che si svolgeranno
il 26 e 27 maggio con eventuale ballottaggio nei giorni 9 e
10 giugno.
Il diritto ai permessi elettorali. Il diritto ai permessi
elettorali è riconosciuto a tutti i lavoratori dipendenti
che vengano nominati scrutatore, segretario, presidente,
rappresentante di lista o di gruppo presso seggi elettorali,
in occasione di qualsiasi tipo di consultazione, compresi i
referendum e le elezioni europee. Il diritto si concreta
nella possibilità di assentarsi dal lavoro per il periodo
corrispondente alla durata delle operazioni elettorali (di
voto e di scrutinio).
Il diritto al permesso elettorale
significa, in altre parole, che i giorni di assenza vengono
considerati dalla legge, a tutti gli effetti, giornate di
attività lavorativa: i giorni lavorativi passati al seggio
sono, dunque, retribuiti come se il lavoratore avesse
normalmente lavorato. I giorni festivi e quelli non
lavorativi, invece (l'ipotesi ricorrente è la domenica,
nonché il sabato per le imprese che applicano la settimana
lavorativa cosiddetta corta), sono recuperati con una
giornata di riposo compensativo; oppure possono essere
compensati con quote giornaliere di retribuzione in aggiunta
alla retribuzione normalmente percepita. Una eventuale
rinuncia al riposo deve comunque essere validamente
accettata dal lavoratore.
In base ai principi in tema di
riposo settimanale il riposo compensativo deve essere goduto
con immediatezza, cioè subito dopo la fine delle operazioni
svolte al seggio. In base alla sentenza della Corte di
cassazione n. 11830/2001, anche se l'attività prestata per
lo svolgimento delle operazioni elettorali copre una sola
parte della giornata, l'assenza è legittima per tutto il
giorno lavorativo che, quindi, deve essere retribuito
interamente. Resta fermo che le assenze per permessi
elettorali devono essere giustificate dal lavoratore al
proprio datore di lavoro e ciò può avvenire mediante
esibizione di idonea documentazione (la nomina, per
esempio).
La settimana corta. L'impresa che attua, ai fini lavorativi,
la cosiddetta settimana corta ha un orario settimanale di
lavoro articolato da lunedì a venerdì; sabato è una giornata
non lavorativa e domenica è festivo.
I giorni trascorsi al seggio dovranno essere considerati nel
modo seguente:
●
sabato e domenica: il lavoratore ha diritto a una giornata
di riposo compensativo oppure a una aggiunta di retribuzione
pari a una giornata (retribuzione mensile diviso 26 o lo
specifico divisore previsto dal ccnl per la determinazione
della paga giornaliera);
● lunedì: il lavoratore ha diritto ad assentarsi dal lavoro e
a percepire la piena retribuzione, come se avesse lavorato
(vanno compresi, pertanto, anche eventuali indennità
aggiuntive);
● martedì: se le operazioni di scrutinio si prolungano oltre
le ore 24,00 del lunedì, il lavoratore ha diritto ad
assentarsi dal lavoro anche per questa giornata e a
percepire la piena retribuzione, come se avesse lavorato.
Se le operazioni terminano entro le ore 24 del lunedì, il
lavoratore fruirà dei riposi compensativi che gli spettano
per le giornate di sabato e domenica nei giorni di martedì e
mercoledì; ove, invece, le operazioni terminano nelle prime
ore di martedì mattina, il lavoratore fruirà dei riposi
compensativi nei giorni di mercoledì e giovedì.
La settimana lunga. L'impresa che attua, ai fini lavorativi,
la settimana lunga ha l'orario settimanale di lavoro
articolato da lunedì a sabato; resta, dunque, soltanto la
domenica come giornata festiva.
I giorni trascorsi al seggio dovranno essere considerati nel
modo seguente:
● sabato: il lavoratore ha diritto ad assentarsi dal lavoro e
a percepire la piena retribuzione, come se avesse lavorato
(vanno compresi, pertanto, anche eventuali indennità
aggiuntive);
● domenica: il lavoratore ha diritto a una giornata di riposo
compensativo oppure a una aggiunta di retribuzione pari a
una giornata (retribuzione mensile diviso 26 o lo specifico
divisore previsto dal ccnl per la determinazione della paga
giornaliera);
● lunedì: il lavoratore ha diritto ad assentarsi dal lavoro e
a percepire la piena retribuzione, come se avesse lavorato;
● martedì: se le operazioni di scrutinio si prolungano oltre
le ore 24,00 del lunedì, il lavoratore ha diritto ad
assentarsi dal lavoro anche per questa giornata e a
percepire la piena retribuzione, come se avesse lavorato.
Se le operazioni terminano entro le ore 24,00 del lunedì, il
lavoratore fruirà del riposo compensativo che gli spetta per
la giornate di domenica il martedì; ove, invece, le
operazioni terminano nelle prime ore di martedì mattina, il
lavoratore fruirà del riposo compensativo il mercoledì.
I permessi per recarsi a votare. Impiegati pubblici più
tutelati dei privati, in tal caso. La necessità di
assentarsi dal lavoro, non per svolgere funzioni elettorali
ma soltanto per adempiere al diritto–dovere di esprimere il
voto, si presenta ricorrentemente, per esempio, nelle
ipotesi di lavoratori che hanno residenza in un Comune
diverso (e lontano) da quello di esercizio dell'attività
lavorativa. In materia, vigono diverse regole a seconda che
si tratti di lavoratori del settore pubblico o privato.
Per i lavoratori del settore privato non esistono norme di
legge specifiche in merito. Tuttavia in base a usi è
pacifico il diritto del lavoratore a chiedere e ottenere
permessi non retribuiti per raggiungere il proprio comune di
residenza con i mezzi di trasporto ordinari (treno, aereo,
nave). Il lavoratore avrà cura, in tal caso, di presentare
al proprio datore di lavoro la tessera elettorale, timbrata
dalla sezione, che attesti l'avvenuto esercizio del diritto
di voto.
Per i lavoratori del settore pubblico, la concessione del
permesso retribuito per recarsi a votare in comune diverso
da quello della sede di servizio, ai sensi dell'articolo 118
del dpr n. 361/1957, è previsto soltanto nell'ipotesi in cui
il lavoratore risulti trasferito di sede nell'approssimarsi
delle elezioni. In tal caso, il lavoratore anche se ha
provveduto nel prescritto termine di 20 giorni a chiedere il
trasferimento di residenza, risulta che non ha ancora
ottenuto l'iscrizione nelle liste elettorali della nuova
sede di servizio. Se spetta, il permesso retribuito per
l'esercizio del diritto di voto sarà di:
● un giorno per le distanze da 350 a 700 chilometri;
●
due giorni per le distanze oltre i 700 chilometri o per
spostamenti da e per le isole (articolo
ItaliaOggi Sette dell'11.02.2013). |
APPALTI: Lavori
pubblici. Il rilascio di un provvedimento interdittivo
impedirà la stipula dell'accordo e comunque ne farà scattare
la risoluzione.
Più controlli antimafia negli appalti.
Da domani gli accertamenti sulle infiltrazioni si estendono
ai familiari dell'imprenditore.
Al via da domani le nuove regole sulla documentazione
antimafia. Il Dlgs 218/2012 ha anticipato al 12 febbraio
l'entrata in vigore delle norme contenute nel libro II del
Dlgs 159/2011 (di riforma del Codice antimafia), rimaste
finora congelate in attesa dell'attivazione della banca dati
nazionale della documentazione antimafia che invece, per il
momento, resterà in standby.
Nel riordino della disciplina, il Codice mantiene inalterata
la distinzione tra comunicazione ed informazione antimafia:
la prima attesta l'eventuale sussistenza di misure di
prevenzione a carico di un'impresa; mentre, la seconda
accerta anche la presenza di tentativi di infiltrazione
mafiosa all'interno della società.
Come in passato, la documentazione dovrà essere acquisita
dalle amministrazioni prima della stipula, o
dell'autorizzazione, di contratti e subcontratti pubblici di
lavori, servizi e forniture in base ai seguenti scaglioni:
- comunicazione in caso di contratti di importo superiore a
150mila euro e inferiore alle soglie comunitarie
(attualmente di 5 milioni per i lavori, 200mila per i
servizi e 130mila euro per le forniture);
- informazione per contratti di importo superiore alle
soglie e per subcontratti di importo superiore a 150mila
euro.
Diverse tuttavia le novità, a cominciare dalla modalità di
acquisizione della comunicazione antimafia che potrà essere
rilasciata solamente dal prefetto della provincia in cui ha
sede l'ente richiedente, attraverso l'utilizzo dei
collegamenti telematici con le altre banche dati già
esistenti (Ced interforze e Camere di commercio). Nel Codice
non è stata infatti inserita una disposizione analoga
all'articolo 9 del Dpr 252/1998, che equiparava il
certificato di iscrizione al Registro imprese rilasciato
dalla Camera di commercio con il nullaosta antimafia alla
comunicazione e che, quindi, consentiva ai committenti di
effettuare i controlli direttamente mediante le Camere di
commercio. L'informazione antimafia continuerà ad essere
rilasciata dalle prefetture.
Il Codice ha tuttavia ampliato l'elenco delle situazioni
dalle quali si potrà desumere il tentativo di infiltrazione
mafiosa: rispetto al passato, l'informativa sarà
interdittiva anche in caso di condanna, comprese quelle non
definitive, per i nuovi reati di turbata libertà degli
incanti e del procedimento di scelta del contraente, oltre
che per truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni
pubbliche; oppure, ancora, nel caso in cui l'impresa non
abbia denunciato all'autorità giudiziaria i reati di
corruzione ed estorsione, a meno che non vi sia stata
costretta per stato di necessità o per legittima difesa (si
veda anche la tabella a fianco).
Ma il Dlgs 218/2012 ha ulteriormente arricchito il catalogo
delle situazioni in odore di mafia, desumendo
l'infiltrazione anche dalla violazione degli obblighi di
tracciabilità dei pagamenti imposti dalla legge n. 136/2010:
l'informazione vieterà la stipula del contratto, solo per
comportamenti reiterati nell'arco di cinque anni.
Ampliata inoltre la schiera dei soggetti sottoposti a
verifica che fa registrare l'ingresso in elenco dei
familiari conviventi.
Un'autentica novità è poi rappresentata dagli effetti
collegati alle informazioni antimafia: d'ora in avanti,
infatti, il rilascio di un provvedimento interdittivo
impedirà sempre la stipula del contratto e determinerà in
ogni caso la sua risoluzione in fase esecutiva. Come
confermato dal comunicato Casgo (comitato di sorveglianza
Grandi opere) del 19.12.2012, scompare dunque la
categoria delle informative atipiche che, sino ad ora,
lasciavano alla discrezionalità delle stazioni appaltanti,
la decisione sulle sorti del contratto.
Confermata infine la validità della comunicazione antimafia
per sei mesi dalla data di acquisizione, aumentata a un anno
nel caso dell'informazione, sempre che non siano intervenuti
mutamenti nell'assetto societario e gestionale dell'impresa,
da comunicare al prefetto entro 30 giorni, pena
l'applicazione di una sanzione da 20 a 60mila euro (articolo
Il Sole 24 Ore dell'11.02.2013 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI: Pagamenti. L'applicazione delle norme sui tempi e ritardi.
Anche le verifiche della Pa entro il termine di 30 giorni.
Le amministrazioni pubbliche devono pagare le imprese per
gli appalti di forniture, servizi e lavori entro il termine
standard di 30 giorni, ma possono concordare con le stesse
un termine diverso, in ogni caso non superiore a sessanta
giorni.
Dal 1° gennaio sono entrate in vigore le modifiche alla
disciplina dei pagamenti per le transazioni commerciali
(contenuta nel Dlgs 231/2002), che sono interamente
applicabili ai contratti pubblici, compresi quelli relativi
alle opere, per espressa previsione della normativa (Dlgs n.
192/2012, che recepisce la direttiva comunitaria sui ritardi
nei pagamenti, la 2011/17).
I ministeri dello Sviluppo economico e delle Infrastrutture
hanno prodotto una nota interpretativa (protocollo 1293 del
23.01.2013) che ha evidenziato come la normativa
settoriale (contenuta nel Codice dei contratti e nel
regolamento attuativo) sia in parte compatibile con il
quadro generale (con riferimento alla tempistica di 30
giorni per il saldo del certificato di pagamento), ma come
presenti anche disposizioni (ad esempio quella relativa al
periodo intercorrente tra la maturazione dello stato
avanzamento lavori e l'emissione del certificato) confliggenti con le norme comunitarie e, quindi, sia da
disapplicare (si veda anche il Sole 24 Ore del 24 gennaio).
La nuova normativa non può peraltro impedire che
l'amministrazione effettui le verifiche, comprese quelle del
responsabile del procedimento rispetto allo stato di
avanzamento lavori proposto dal direttore lavori prima di
autorizzare l'emissione della fattura o del certificato. Ma
queste operazioni –comunque doverose– non potranno
superare il termine standard di 30 giorni.
Anche negli appalti di lavori, quindi, si applicano i
termini previsti dall'articolo 4 dell'innovato decreto
231/2002. Ed è sui tempi che i fornitori devono focalizzare
l'attenzione.
Il termine standard, infatti, è individuato in 30 giorni dal
ricevimento della fattura (o di altro titolo di pagamento
idoneo) da parte dell'amministrazione appaltante, ma questa
può concordare con l'affidatario un termine diverso,
comunque non superiore a sessanta giorni e che deve essere
giustificato dall'oggetto del contratto o da particolari
condizioni al momento della stipulazione.
Negli appalti con gli organismi del servizio sanitario (Asl,
aziende ospedaliere, istituti di ricerca) il termine
standard è già di sessanta giorni (articolo 4, comma 5),
senza altra estensione. Questa tempistica rischia però di
essere vanificata dai vincoli posti dal patto di stabilità
interno alla gestione dei flussi di spesa.
I problemi maggiori potrebbero aversi per le spese per
investimenti (lavori pubblici), in considerazione della
maggiore rigidità e minore frequenza dei flussi in entrata
che vanno ad alimentare la cassa (aspetto invece meno
rilevante per la spesa corrente, salvo che negli enti
sanitari, dipendenti in gran parte dai trasferimenti
regionali).
Gli operatori economici possono tuttavia controllare se i
responsabili di servizio che hanno impegnato le risorse per
l'appalto abbiano verificato il rispetto della
programmazione della spesa (articolo 9, comma 2, legge n.
102/2009).
Un ulteriore problema potrebbe aversi in relazione ai tempi
per l'acquisizione del Durc (documento unico di regolarità
contributiva) da parte della stazione appaltante, qualora
non coincidano con lo standard dei 30 giorni: la mancanza
del Durc impedisce infatti di dar corso al pagamento.
In caso di ritardo, la corresponsione degli interessi di
mora deve essere effettuata dalle amministrazioni
automaticamente, senza diffida del l'impresa. Inoltre devono
essere rimborsati all'operatore economico i costi per il
recupero dei crediti e deve essere corrisposto un indennizzo
forfettario di 40 euro.
---------------
I vincoli
01 | LE SCADENZE
Dal primo gennaio con l'entrata in vigore del Dlgs 190/2012
le amministrazioni devono saldare i fornitori entro trenta
giorni dal certificato di pagamento (60 per la Sanità).
Tempi diversi possono essere concordati tra le parti, fino a
un massimo di 60 giorni, ma vanno motivati
02 | LE CONSEGUENZE
Se i nuovi termini vengono superati, l'amministrazione deve
riconoscere al debitore gli interessi di mora in automatico,
senza diffida
03 | LE VERIFICHE
Il funzionario responsabile del procedimento deve comunque
effettuare i controlli sullo stato di avanzamento lavori
fornito dall'impresa nel limite dei trenta giorni
04 | LE DIFFICOLTÀ
Se l'amministrazione non riesce ad acquisire il Durc entro i
trenta giorni, non può comunque procedere al pagamento.
Ulteriori ritardi potrebbero essere causati dalla necessità
per l'ente appaltante di ritardare i pagamenti per via del
patto di stabilità (articolo Il Sole
24 Ore dell'11.02.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
APPALTI: Dal
1° gennaio.
I contratti ora solo in formato digitale.
Dal primo gennaio i contratti di appalto hanno detto addio
alla carta. Da quella data infatti tutti i contratti
pubblici di lavori, servizi o forniture devono essere
stipulati, a pena di nullità, con atto pubblico notarile
informatico, oppure in modalità elettronica secondo le
regole di ciascuna stazione appaltante, in forma pubblica
amministrativa o con scrittura privata.
Il Decreto crescita (Dl 179/2012) ha introdotto questa
importante novità nel Codice dei contratti pubblici,
riformulando la disposizione che disciplina la
formalizzazione dei rapporti tra stazioni appaltanti e
operatori economici aggiudicatari (articolo 11 del Dlgs
163/2006). La norma impone il passaggio al digitale,
prescrivendo la nullità di tutti i contratti pubblici ancora
stipulati su supporto cartaceo, fatta eccezione per le
scritture private.
La stipula elettronica dei contratti per gli appalti
pubblici semplifica le procedure e garantisce minori costi.
L'interpretazione prevalente in sede di prima analisi della
norma evidenzia come dal 01.01.2013 le amministrazioni
aggiudicatrici debbano digitalizzare i contratti sia se
ricorrono ad un notaio sia se interviene come ufficiale
rogante il segretario comunale. Ormai solo la scrittura
privata è gestibile con modalità tradizionali (firma
autografa sul supporto cartaceo, con formalizzazione
semplice o autenticata).
Il percorso per l'atto pubblico notarile informatico è
disciplinato in modo dettagliato da una serie di
disposizioni della legge notarile (n. 89/1913) introdotte
dal Dlgs 110/2010.
L'articolo 52-bis, in particolare, consente la
sottoscrizione delle parti sia con la firma digitale sia con
la firma elettronica, consistente anche nell'acquisizione
digitale della sottoscrizione autografa.
L'alternativa all'atto pubblico notarile informatico è
individuata nella forma pubblica amministrativa, anch'essa
realizzata con modalità elettroniche, che devono tuttavia
essere definite dalle stazioni appaltanti con proprie norme,
da inserire nel regolamento dei contratti.
L'intervento del segretario comunale come ufficiale rogante
segue lo schema operativo delineato dalla legge notarile,
per cui anche in tal caso le sottoscrizioni delle parti
possono essere acquisite con forma digitale o firma
autografa scannerizzata.
Il passaggio più delicato è quello della registrazione del
l'atto, per la quale molte amministrazioni pubbliche
(soprattutto enti locali) stanno sperimentando l'utilizzo
del software Unimod, messo a disposizione dall'agenzia delle
Entrate: il programma consente anche il pagamento del
l'imposta di registro e dell'imposta di bollo.
Proprio rispetto a quest'ultimo adempimento tributario si
rileva uno dei principali elementi positivi per gli
operatori economici, in quanto in base al Dm 22 febbraio
2007 il pagamento del bollo è effettuato in modo forfettario
proprio in funzione della registrazione telematica (per un
importo di 45 euro ad atto).
Più complesso appare il tema dei diritti di segreteria, per
i quali le amministrazioni locali dovrebbero prevedere un
passaggio intermedio, anch'esso digitalizzato,
immediatamente precedente la registrazione.
Il flusso gestionale del contratto informatizzato si
completa con la conservazione, per la quale i notai si
avvalgono di una struttura tecnologica messa a punto dalla
società informatica del Notariato, Notartel, con il
coordinamento della commissione Informatica interna. Questo
percorso è in fase di sperimentazione collaborativa, in
alcuni contesti, anche per gli atti rogati dai segretari
comunali (articolo
Il Sole 24 Ore dell'11.02.2013). |
TRIBUTI: La legge di stabilità ha abrogato il comma con la riserva
per l'Erario.
Imu statale sulle imprese con «buco» normativo.
Il divieto di agevolazioni privo di base nelle regole.
La risposta del ministero dell'Economia in merito al gettito
Imu 2013 dei fabbricati rurali, data alla manifestazione
Telefisco 2013 (si veda Il Sole 24 Ore del 01.02.2013), complica ancor di più l'incerto quadro normativo
dell'imposta, aprendo la strada a possibilità interpretative
ed applicative che sarebbero pericolose per le entrate dello
Stato.
La legge di stabilità ha modificato per il 2013 le regole di
riparto tra Stato e Comuni del gettito Imu. L'articolo 13,
comma 11, del Dl 201/2011, che attribuiva allo Stato la
riserva di una quota dell'imposta pari alla metà
dell'importo dovuto ad aliquota di base di tutti gli
immobili, ad eccezione dell'abitazione principale e delle
pertinenze, oltre che dei fabbricati rurali ad uso
strumentale, è stato soppresso.
Il gettito Imu verrà incassato tutto dai Comuni, fatta
eccezione per i fabbricati di categoria D, per i quali è
prevista la riserva allo Stato del gettito calcolato
applicando l'aliquota standard dello 0,76 per cento. È
lasciata comunque la possibilità ai Comuni di aumentare sino
a 0,3 punti percentuali l'aliquota, riservandosene il
gettito.
Nel ridisegnare il nuovo riparto tra Stato e Comuni il
legislatore non è però intervenuto con il bisturi ma con la
mannaia, eliminando integralmente il comma 11 dell'articolo
13, che prevedeva che il gettito dell'Imu dovuta per i
fabbricati rurali strumentali fosse interamente riservato ai
Comuni. Con l'abrogazione della norma, il gettito relativo
ai fabbricati strumentali classificati in categoria D/10,
essendo questi «fabbricati produttivi di categoria D»,
dovrebbe essere riservato, secondo il Ministero
dell'Economia, allo Stato. La tesi ministeriale, sebbene
aderente al dato letterale della norma, apre a parecchie
incertezze.
Un primo profilo è rappresentato dalla circostanza che non
tutti i fabbricati rurali strumentali sono accatastati in
categoria D, potendosi accatastare, in base al decreto del
ministero dell'Economia del 26.07.2012, anche in altra
categoria, ad esempio C/2, ma con l'annotazione che si
tratta di fabbricati rurali. Quindi, si avrebbero fabbricati
strumentali, quelli con categoria D, il cui gettito sarebbe
riservato allo Stato, e fabbricati strumentali, quelli
iscritti nelle altre categorie catastali con l'annotazione
di ruralità, il cui gettito sarebbe riservato ai Comuni. È
difficile intravedere una razionalità fiscale in questa
distinzione, mentre è facile vedere un'inutile complicazione
per gli agricoltori.
Inoltre, nell'Imu 2013 è prevista la riserva allo Stato del
gettito dei fabbricati D con applicazione dell'aliquota
standard dello 0,76 per cento, ma la normativa (articolo 13,
comma 8) prevede ancora oggi per i fabbricati rurali
strumentali l'applicazione della aliquota base dello 0,2 per
cento, peraltro non aumentabile ma solo riducibile sino allo
0,1 per cento. Secondo il ministero dell'Economia, si
continuerebbe ad applicare l'aliquota dello 0,2 per cento,
facendo salva anche la possibilità per i Comuni di disporre
l'eventuale riduzione.
A ben vedere, la tesi ministeriale, che autorizza il Comune
a intervenire sulla quota statale, troverebbe un suo
fondamento nella soppressione dello stesso comma 11, che
conteneva anche il divieto per i Comuni di deliberare
riduzioni che potessero incidere sulla quota statale. Ma se
si aderisce a tale tesi, si dovrà anche ammettere che come
il Comune può ridurre l'aliquota base dei fabbricati rurali
così potrà ridurre anche l'aliquota base dei fabbricati di
categoria D.
È evidentemente impossibile lasciare ai Comuni la
discrezionalità di abbassare l'aliquota standard, come
confermato dal dipartimento Finanze che impone di rivedere
le aliquote ai Comuni che prevedevano agevolazioni per
questi immobili (si veda Il Sole 24 Ore del 6 febbraio). Per
chiudere il cerchio, però, occorre che il legislatore
intervenga nuovamente, ripristinando il comma 11 soppresso.
---------------
Stessa categoria, trattamenti diversi
Secondo l'amministrazione finanziaria anche nel 2013
i fabbricati strumentali all'attività agricola godono
dell'aliquota agevolata anche se sono accatastati nella
categoria D, per la quale in genere la legge di stabilità
prevede la riserva statale del gettito ad aliquota standard
dello 0,76%.
Proprio la riserva statale, secondo le Finanze,
impedisce ai Comuni di prevedere sconti sui capannoni delle
imprese: questa riserva era però contenuta nell'articolo 13,
comma 11, del Dl 201/2011, abrogato dalla legge di stabilità (articolo
Il Sole 24 Ore dell'11.02.2013 - tratto da
www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
L’art. 43 del TUEL prevede il diritto dei
consiglieri comunali di ottenere dagli uffici tutte le
notizie e informazioni in loro possesso, utili
all’espletamento del loro mandato.
Pertanto, la ratio della norma è nel principio democratico
dell’autonomia locale e della rappresentanza esponenziale,
sicché tale diritto è direttamente funzionale non tanto
all’interesse del consigliere comunale (o provinciale) ma
alla cura dell’interesse pubblico connessa al mandato
conferito, controllando il comportamento degli organi
decisionali del Comune.
---------------
Il diritto di accesso dei Consiglieri comunali non è
soggetto ad alcun onere motivazionale giacché diversamente
opinando sarebbe introdotto una sorta di controllo
dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del
mandato del consigliere comunale. Gli unici limiti
all'esercizio di tale diritto si rinvengono nel fatto che
l’esercizio di tale diritto deve avvenire in modo da
comportare il minor aggravio possibile per gli uffici
comunali e che non deve sostanziarsi in richieste
assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo
restando che la sussistenza di tali caratteri deve essere
attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al
fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili
limitazione al diritto stesso.
I consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di
accesso a tutti gli atti che possano essere di utilità
all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di
permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza
e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per
esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza
del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del
Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli
rappresentanti del corpo elettorale locale. Di conseguenza
sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare
onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso
che diversamente opinando sarebbe introdotta una sorta di
controllo dell'ente, attraverso i propri uffici,
sull'esercizio del mandato del consigliere comunale; dal
termine "utili", contenuto nell'articolo 43 del D.Lgs.
18.08.2000, n. 267, non può conseguire alcuna limitazione al
diritto di accesso dei consiglieri comunali, detto aggettivo
garantendo in realtà l’estensione di tale diritto di accesso
a qualsiasi atto ravvisato utile per l’esercizio del
mandato.
In base all'art. 43, d.lgs. 18.08.2000 n. 267 i consiglieri
comunali, ivi inclusi ovviamente quelli di minoranza, hanno
un diritto di accesso incondizionato -purché non invada
l'ambito riservato all'apparato amministrativo e non integri
però un abuso del diritto- a tutti gli atti che possano
essere "utili" all'espletamento del loro mandato, anche al
fine di permettere di valutare con piena cognizione la
correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione,
nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di
competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito
del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli
rappresentanti del corpo elettorale locale; sul consigliere
comunale, inoltre, non può gravare alcun onere di motivare
le proprie richieste di accesso atteso che, diversamente
opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo
dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del
mandato del consigliere comunale.
I consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di
accesso a tutti gli atti che possano essere di utilità
all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di
permettere di valutare con piena cognizione la correttezza e
l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per
esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza
del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito del
Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli
rappresentanti del corpo elettorale locale. Sul consigliere
comunale, inoltre, non può gravare alcun onere di motivare
le proprie richieste di accesso, atteso che diversamente
opinando sarebbe introdotta una sorta di controllo
dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del
mandato del consigliere comunale; dal termine «utili»,
contenuto nell'art, 43, d.lgs. 18.08.2000 n. 267, non può
conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei
consiglieri comunali, detto aggettivo garantendo in realtà
l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto
ravvisato utile per l'esercizio del mandato. Dette
conclusioni si appalesano stringenti ove ad azionare
l'istituto siano consiglieri di minoranza, come nel caso di
specie, cui i principi fondanti delle democrazie e la legge
attribuiscono compiti di controllo dell'operato della
maggioranza e, quindi, dell'esecutivo, qui inteso nella sua
più larga accezione di apparato politico ed apparato
amministrativo, se pur, si intende, da esplicarsi nel
rispetto della legge, ovvero senza indebite incursioni in
ambiti riservati all'apparato amministrativo dalla legge
stessa e senza porre in essere atti e/o comportamenti
qualificabili come abuso del diritto.
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali quindi si
atteggia quale latissimo diritto all’informazione al quale
si contrappone l’obbligo degli uffici di fornire ai
richiedenti tutte le notizie e informazioni in loro
possesso, fermo il divieto di perseguire interessi personali
o di tenere condotte emulative.
---------------
E' legittimo il diniego opposto dall'amministrazione
comunale alla richiesta rivolta dai consiglieri comunali
diretta all'estrazione di copie in assenza di motivazione in
ordine all'esistenza dei presupposti del diritto di accesso,
soprattutto in presenza di numerose e reiterate istanze, che
tendono ad ottenere la documentazione di tutti i settori
dell'Amministrazione, apparendo così tendenti a compiere un
sindacato generalizzato dell'attività degli organi
decidenti, deliberanti e amministrativi dell'Ente che non
all'esercizio del mandato politico finalizzato ad un
organico progetto conoscitivo in relazione a singole
problematiche che di volta in volta l'elettorato.
---------------
Anche a voler ritenere che la nozione di “notizie e
informazioni” sia più lata della nozione di “documenti”
ravvisabile nell’art. 22 della l.n. 241 del 1990 –e cioè
ogni elemento conoscitivo in possesso dell’amministrazione,
anche non riferibile alle competenze del Consiglio Comunale,
perché sempre inerente al munus rivestito e non solo i
provvedimenti adottati, ma anche gli atti preparatori, anche
di provenienza privata-, anche in tale situazione soggettiva
speciale non può non valere il principio secondo cui il
rimedio dell'accesso non può essere utilizzato per indurre o
costringere l'Amministrazione a formare atti nuovi rispetto
ai documenti amministrativi già esistenti, ovvero a compiere
un'attività di elaborazione di dati e documenti , potendo
essere invocato esclusivamente al fine di ottenere il
rilascio di copie di documenti già formati e materialmente
esistenti presso gli archivi dell'Amministrazione che li
possiede.
L’appello è fondato per le seguenti ragioni, nonostante la
latitudine che deve riconoscersi al diritto di accesso dei
consiglieri comunali.
L’art. 43 del TUEL prevede il diritto dei consiglieri
comunali di ottenere dagli uffici tutte le notizie e
informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del
loro mandato.
Pertanto, la ratio della norma è nel principio
democratico dell’autonomia locale e della rappresentanza
esponenziale, sicché tale diritto è direttamente funzionale
non tanto all’interesse del consigliere comunale (o
provinciale) ma alla cura dell’interesse pubblico connessa
al mandato conferito, controllando il comportamento degli
organi decisionali del Comune.
Quanto ai presupposti, si è osservato come non sia
necessaria una connessione tra la conoscenza dei dati
richiesti con l’attività espletata nel mandato di
consigliere.
Il diritto di accesso dei Consiglieri comunali non è
soggetto ad alcun onere motivazionale giacché diversamente
opinando sarebbe introdotto una sorta di controllo
dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del
mandato del consigliere comunale. Gli unici limiti
all'esercizio di tale diritto si rinvengono nel fatto che
l’esercizio di tale diritto deve avvenire in modo da
comportare il minor aggravio possibile per gli uffici
comunali e che non deve sostanziarsi in richieste
assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo
restando che la sussistenza di tali caratteri deve essere
attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al
fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili
limitazione al diritto stesso (tra tanti, Consiglio di Stato
sez. V, 29.08.2011, n. 4829).
I consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di
accesso a tutti gli atti che possano essere di utilità
all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di
permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza
e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per
esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza
del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del
Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli
rappresentanti del corpo elettorale locale. Di conseguenza
sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare
onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso
che diversamente opinando sarebbe introdotta una sorta di
controllo dell'ente, attraverso i propri uffici,
sull'esercizio del mandato del consigliere comunale; dal
termine "utili", contenuto nell'articolo 43 del D.
Lgs. 18.08.2000, n. 267, non può conseguire alcuna
limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali,
detto aggettivo garantendo in realtà l’estensione di tale
diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per
l’esercizio del mandato (così Consiglio Stato sez. V,
17.09.2010, n. 6963).
In base all'art. 43, d.lgs. 18.08.2000 n. 267 i consiglieri
comunali, ivi inclusi ovviamente quelli di minoranza, hanno
un diritto di accesso incondizionato -purché non invada
l'ambito riservato all'apparato amministrativo e non integri
però un abuso del diritto- a tutti gli atti che possano
essere "utili" all'espletamento del loro mandato,
anche al fine di permettere di valutare con piena cognizione
la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto
consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e
per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le
iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo
elettorale locale; sul consigliere comunale, inoltre, non
può gravare alcun onere di motivare le proprie richieste di
accesso atteso che, diversamente opinando, sarebbe
introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i
propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere
comunale.
I consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di
accesso a tutti gli atti che possano essere di utilità
all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di
permettere di valutare con piena cognizione la correttezza e
l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per
esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza
del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito del
Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli
rappresentanti del corpo elettorale locale. Sul consigliere
comunale, inoltre, non può gravare alcun onere di motivare
le proprie richieste di accesso, atteso che diversamente
opinando sarebbe introdotta una sorta di controllo
dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del
mandato del consigliere comunale; dal termine «utili»,
contenuto nell'art, 43, d.lgs. 18.08.2000 n. 267, non può
conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei
consiglieri comunali, detto aggettivo garantendo in realtà
l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto
ravvisato utile per l'esercizio del mandato. Dette
conclusioni si appalesano stringenti ove ad azionare
l'istituto siano consiglieri di minoranza, come nel caso di
specie, cui i principi fondanti delle democrazie e la legge
attribuiscono compiti di controllo dell'operato della
maggioranza e, quindi, dell'esecutivo, qui inteso nella sua
più larga accezione di apparato politico ed apparato
amministrativo, se pur, si intende, da esplicarsi nel
rispetto della legge, ovvero senza indebite incursioni in
ambiti riservati all'apparato amministrativo dalla legge
stessa e senza porre in essere atti e/o comportamenti
qualificabili come abuso del diritto.
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali quindi si
atteggia quale latissimo diritto all’informazione al quale
si contrappone l’obbligo degli uffici di fornire ai
richiedenti tutte le notizie e informazioni in loro
possesso, fermo il divieto di perseguire interessi personali
o di tenere condotte emulative.
L’appellante Comune in realtà lamenta l’abuso del diritto,
rappresentando come i tre istanti abbiano manifestato
l’interesse alla conoscenza rispetto ad una generalizzata
serie di atti e avverso varie delibere in serie, di modo che
si debba dubitare della correttezza delle esigenze di
informazione, dovendosi invece ravvisarsi un generalizzato e
strumentale esercizio del diritto di informazione di cui
all’art. 43 del TUEL.
In effetti, il Collegio osserva il riconoscimento da parte
dell'articolo 43 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (Testo Unico
sugli Enti Locali) di una particolare forma di accesso
costituita dall'accesso del consigliere comunale per
l'esercizio del mandato di cui è attributario, che non può
portare allo stravolgimento dei principi generali in materia
di accesso ai documenti e non può comportare che, attraverso
uno strumento dettato dal legislatore per il corretto
svolgimento dei rapporti cittadino-pubblica amministrazione,
il primo, servendosi del baluardo del mandato politico,
ponga in essere strategie ostruzionistiche o di paralisi
dell'attività amministrativa con istanze che a causa della
loro continuità e numerosità determinino un aggravio
notevole del lavoro negli uffici ai quali sono rivolte e
determinino un sindacato generale sull'attività
dell'amministrazione oramai vietato dall'art. 24, comma 3
della l. n. 241 del 1990.
Soprattutto, la particolare disposizione del Testo Unico
degli Enti Locali va coordinata con la modifica introdotta
all'art. 22 della l. n. 241 del 1990, dalla l. n. 15 del
2005, di tal che anche il consigliere comunale deve essere
portatore di un interesse diretto, concreto ed attuale
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento per il quale richiede l'accesso.
Sulla base di tali considerazioni generali, l’appello
dell’amministrazione non può che ritenersi fondato.
Pertanto, è legittimo il diniego opposto
dall'amministrazione comunale alla richiesta rivolta dai
consiglieri comunali diretta all'estrazione di copie in
assenza di motivazione in ordine all'esistenza dei
presupposti del diritto di accesso, soprattutto in presenza
di numerose e reiterate istanze, che tendono ad ottenere la
documentazione di tutti i settori dell'Amministrazione,
apparendo così tendenti a compiere un sindacato
generalizzato dell'attività degli organi decidenti,
deliberanti e amministrativi dell'Ente che non all'esercizio
del mandato politico finalizzato ad un organico progetto
conoscitivo in relazione a singole problematiche che di
volta in volta l'elettorato.
Il Collegio osserva però che, nella fattispecie, al di là
delle valutazioni su una esagerata richiesta di conoscere e
informarsi su tutti i settori dell’attività amministrativa
da parte dei consiglieri comunali, in ogni caso, per
l’accoglimento dell’appello è sufficiente prendere atto
dell’attività eseguita dal Comune in ottemperanza alla
richiesta di accesso, espletatasi sia nella trasmissione e
ostensione dei documenti a disposizione, sia nell’apertura
di nuovi procedimenti, intesi ad acquisire maggiori
conoscenze, allo stato non disponibili.
Pertanto, in buona sostanza l’ostensione degli atti
richiesti ed esistenti è già avvenuta; per il resto, non si
può pretendere, secondo costante giurisprudenza di questo
Consesso, che l’Amministrazione costruisca una
documentazione allo stato non ancora esistente.
Anche a voler ritenere che la nozione di “notizie e
informazioni” sia più lata della nozione di “documenti”
ravvisabile nell’art. 22 della l.n. 241 del 1990 –e cioè
ogni elemento conoscitivo in possesso dell’amministrazione,
anche non riferibile alle competenze del Consiglio Comunale,
perché sempre inerente al munus rivestito e non solo
i provvedimenti adottati, ma anche gli atti preparatori,
anche di provenienza privata-, anche in tale situazione
soggettiva speciale non può non valere il principio,
affermato dalla Sezione (così Consiglio Stato sez. IV,
30.11.2010, n. 8359), secondo cui il rimedio dell'accesso
non può essere utilizzato per indurre o costringere
l'Amministrazione a formare atti nuovi rispetto ai documenti
amministrativi già esistenti, ovvero a compiere un'attività
di elaborazione di dati e documenti , potendo essere
invocato esclusivamente al fine di ottenere il rilascio di
copie di documenti già formati e materialmente esistenti
presso gli archivi dell'Amministrazione che li possiede.
Nella specie, come deduce l’appellante, con nota n. 1987 del
13.04.2012, l’amministrazione rappresentava che non vi erano
ulteriori documenti da esibire, fornendo le possibili
informazioni e comunicava che: “agli atti del Comune non
vi è un elenco dei cittadini occupanti prefabbricati senza
titolo, ed è difficile censire tutti i prefabbricati poiché
molti sono stati smontati e agli atti dell’Ente non
risultano né atti di alienazione né atti di donazione”;
il Comune “al momento sta procedendo solo in presenza di
segnalazioni di cittadini alla verifica di casi di
occupazione abusiva e nei prossimi giorni si procederà ad
una attenta ed accurata verifica di tutti i possessori
aventi titolo all’occupazione dei prefabbricati”; in
allegato alla nota il Sindaco inviava gli unici atti in
possesso dell’Ente e cioè l’Elenco occupanti prefabbricati
comunali redatto in data 04.03.2010 dalla Polizia Municipale
e dall’U.T.C. e la planimetria del 16.02.2012 delle aree
prefabbricati con indicazione degli occupanti.
In corso di giudizio, anche se quindi successivamente alla
introduzione del medesimo, il Comune ha anche depositato
nota sindacale n. 2985 del 06.06.2012 di impulso al
responsabile dell’UTC e dell’area tecnica di effettuare un
dettagliato sopralluogo al fine di censire i prefabbricati
di proprietà del Comune, di verificare il numero dei
prefabbricati non occupati, di verificare chi ne detiene il
possesso.
E’ evidente che pertanto il Comune ha soddisfatto le
richieste di accesso dei consiglieri comunali e che, sulla
base del principio secondo cui l’Amministrazione non può
essere condannata a costruire documenti allo stato non
disponibili, debba essere accolto l’appello e, in
conseguenza, respinto il ricorso di primo grado, in riforma
della appellata sentenza (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.02.2013 n. 846 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La lesività del titolo ad aedificandum può essere
apprezzata dal vicino, che se ne dolga, esclusivamente alla
data di ultimazione dei lavori, se solo in tale momento è
consentito avere piena cognizione dell'esistenza e
dell'entità delle violazioni edilizie, per cui a tale fine è
insufficiente fare riferimento all'atto abilitativo o
soltanto all' inizio dei lavori, incombendo, tra l'altro, la
prova della eventuale tardività alla parte che la eccepisce.
Tale principio non vale, invece, nelle ipotesi in cui, per
la natura delle censure dedotte, la percezione della
lesività dell’intervento edilizio si abbia già con l’inizio
dei lavori, nel qual caso il termine per impugnare decorre a
prescindere dalla loro ultimazione. Si è cioè ulteriormente
precisato che sebbene in linea di principio il termine per
l'impugnazione in sede giurisdizionale di una concessione
edilizia decorra dalla piena ed effettiva conoscenza di
quest'ultima -che si verifica, in assenza di altri e più
rigorosi elementi probatori, non con il mero inizio dei
lavori, bensì con l'ultimazione di essi, perché solo in quel
momento si possono apprezzare le dimensioni e le
caratteristiche dell'opera e, quindi, l'entità delle
violazioni urbanistiche derivanti dal provvedimento
impugnando-, anche l'inizio dei lavori stessi, purché ne sia
chiara la natura edificatoria, può determinare tale piena
conoscenza della lesività, in relazione allo stato di fatto
o di diritto dell'area d'intervento o alla natura e qualità
di quest'ultimo (nella specie del precedente, la piena
conoscenza dell'atto impugnato è stata valutata con riguardo
all'apposizione del cartello di cantiere, contenente tutti
gli estremi della concessione , nonché al contenuto dei
motivi di ricorso, incentrati sull'inedificabilità
dell'area, sulla violazione di norme paesaggistiche,
sull'assenza del piano particolareggiato, sulla destinazione
dell'area stessa a scopi non edificatori, ecc., ossia a dati
che consentivano di ritenere sufficiente la conoscenza
dell'iniziativa in corso senza bisogno d'attendere
l'ultimazione dei lavori).
Nella specie, non può ritenersi che la mera apposizione del
cartello abbia comportato, per il vicino confinante, la
possibilità di conoscere non già l’intervento, ma tutte le
caratteristiche che poi lo avrebbero indotto a ritenerlo
lesivo, come la violazione delle distanze.
Il principio generale è quindi che la lesività del titolo
ad aedificandum può essere apprezzata dal vicino, che se
ne dolga, esclusivamente alla data di ultimazione dei
lavori, se solo in tale momento è consentito avere piena
cognizione dell'esistenza e dell'entità delle violazioni
edilizie, per cui a tale fine è insufficiente fare
riferimento all'atto abilitativo o soltanto all' inizio dei
lavori, incombendo, tra l'altro, la prova della eventuale
tardività alla parte che la eccepisce (di recente, tra
tante, Consiglio di Stato sez. IV, 16.03.2012, n. 1488).
Tale principio non vale, invece, nelle ipotesi in cui, per
la natura delle censure dedotte, la percezione della
lesività dell’intervento edilizio si abbia già con l’inizio
dei lavori, nel qual caso il termine per impugnare decorre a
prescindere dalla loro ultimazione. Si è cioè ulteriormente
precisato (tra tante, Consiglio Stato, sez. V, 29.01.1999,
n. 91) che sebbene in linea di principio il termine per
l'impugnazione in sede giurisdizionale di una concessione
edilizia decorra dalla piena ed effettiva conoscenza di
quest'ultima -che si verifica, in assenza di altri e più
rigorosi elementi probatori, non con il mero inizio dei
lavori, bensì con l'ultimazione di essi, perché solo in quel
momento si possono apprezzare le dimensioni e le
caratteristiche dell'opera e, quindi, l'entità delle
violazioni urbanistiche derivanti dal provvedimento
impugnando-, anche l'inizio dei lavori stessi, purché ne sia
chiara la natura edificatoria, può determinare tale piena
conoscenza della lesività, in relazione allo stato di fatto
o di diritto dell'area d'intervento o alla natura e qualità
di quest'ultimo (nella specie del precedente, la piena
conoscenza dell'atto impugnato è stata valutata con riguardo
all'apposizione del cartello di cantiere, contenente tutti
gli estremi della concessione , nonché al contenuto dei
motivi di ricorso, incentrati sull'inedificabilità
dell'area, sulla violazione di norme paesaggistiche,
sull'assenza del piano particolareggiato, sulla destinazione
dell'area stessa a scopi non edificatori, ecc., ossia a dati
che consentivano di ritenere sufficiente la conoscenza
dell'iniziativa in corso senza bisogno d'attendere
l'ultimazione dei lavori)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.02.2013 n. 844 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Costituiscono
ristrutturazione urbanistica sia la trasformazione degli
organismi edilizi con un insieme sistematico di opere che
possono portare anche ad un organismo in tutto od in parte
diverso dal precedente, sempre che detti interventi
riguardino solo alcuni elementi dell'edificio (ripristino o
sostituzione di alcuni elementi costituitivi dell'edificio;
eliminazione, modifica e inserimento di nuovi elementi o
nuovi impianti), sia la demolizione e ricostruzione, sempre
che ciò avvenga con la stessa volumetria e sagoma. Laddove
invece vi sia un mutamento della sagoma, debbono ravvisarsi
gli estremi della nuova costruzione.
Nell'ambito delle opere edilizie, la semplice
ristrutturazione si verifica ove gli interventi, comportando
modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un
edificio del quale sussistano (e, all'esito degli stessi,
rimangano inalterate) le componenti essenziali, quali i muri
perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura.
E’ ravvisabile la ricostruzione allorché dell'edificio
preesistente siano venute meno, per evento naturale o per
volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si
traduca nell'esatto ripristino delle stesse operato senza
alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni
dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della
volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla
originaria sagoma di ingombro.
Non possono quindi che
applicarsi le conseguenze che derivano dal richiamo di
consolidati principi giurisprudenziali, secondo cui (così,
Consiglio Stato, sez. IV, 31.10.2006, n. 6464),
costituiscono ristrutturazione urbanistica sia la
trasformazione degli organismi edilizi con un insieme
sistematico di opere che possono portare anche ad un
organismo in tutto od in parte diverso dal precedente,
sempre che detti interventi riguardino solo alcuni elementi
dell'edificio (ripristino o sostituzione di alcuni elementi
costituitivi dell'edificio; eliminazione, modifica e
inserimento di nuovi elementi o nuovi impianti), sia la
demolizione e ricostruzione, sempre che ciò avvenga con la
stessa volumetria e sagoma. Laddove invece vi sia un
mutamento della sagoma, debbono ravvisarsi gli estremi della
nuova costruzione (nel senso che la modifica di altezza e
sagoma anche ai fini delle distanze determinano nuova opera
e non ristrutturazione, si veda anche Consiglio Stato, sez.
V, 21.02.1994, n. 112).
Nell'ambito delle opere edilizie (così, tra tante,
Cassazione civile sez. un., 19.10.2011, n. 21578), la
semplice ristrutturazione si verifica ove gli interventi,
comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano
interessato un edificio del quale sussistano (e, all'esito
degli stessi, rimangano inalterate) le componenti
essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture
orizzontali, la copertura.
E’ ravvisabile la ricostruzione allorché dell'edificio
preesistente siano venute meno, per evento naturale o per
volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si
traduca nell'esatto ripristino delle stesse operato senza
alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni
dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della
volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla
originaria sagoma di ingombro
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.02.2013 n. 844 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Esiste il principio
giurisprudenziale secondo cui, posto che nella disciplina
legale dei rapporti di vicinato l'obbligo di osservare nelle
costruzioni determinate distanze sussiste solo relativamente
alle vedute e non anche dalle luci, la dizione pareti
finestrate contenuta in un regolamento edilizio che,
ispirandosi all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, prescrive
nelle sopraelevazioni il rispetto della distanza di 10 metri
dalle pareti finestrate di edifici prospicienti, si
riferisce esclusivamente alle pareti munite di finestre
qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su
cui si aprono finestre cosiddette lucifere.
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Le prescrizioni di cui al d.m. 02.04.1968 n. 1444 integrano
con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle
costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola
anche i comuni in sede di formazione o revisione degli
strumenti urbanistici.
La prescrizione di cui all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444
relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti finestrate
e pareti di edifici antistanti è volta non alla tutela del
diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di
imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque,
tassativa ed inderogabile.
Infatti, nella suddetta materia deve ritenersi che in tema
di distanze tra costruzioni, applicabile, come detto, anche
alle sopraelevazioni, l'adozione da parte dei Comuni di
strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime
perché contrastanti con la norma di superiore livello
dell'art. 9 DM 02.04.1968 n. 1444 -che fissa in dieci metri
la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti- comporterebbe l'obbligo per il
giudice di applicare, in sostituzione delle disposizioni
illegittime, quelle dello stesso strumento urbanistico,
nella formulazione derivate, però, dalla inserzione in esso
della regola sulla distanza fissata nel decreto
ministeriale.
La disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, d.m.
02.04.1968 n. 1444, essendo tassativa ed inderogabile,
impone al proprietario dell'area confinante col muro
finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno
dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il
caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere
mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre
antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle
previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c.
Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto
con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata
ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante
la sua automatica sostituzione con la clausola legale
dettata dalla fonte sovraordinata, oltre alla considerazione
che nella specie la disciplina è stata integrata dal
regolamento comunale in senso ancora più rispettoso e
rigoroso.
L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta disposizioni in
tema di distanze tra costruzioni, stante la natura di norma
primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie
contenute nelle norme tecniche di attuazione.
Va ora esaminato quanto
sostenuto dalla società appellante incidentale, che
sottolinea come il Vannucchi, nell’appello, abbia ammesso
che la violazione della distanza si ponga in relazione a
parete finestrata, dove tuttavia non gode di veduta ma di
luce. Al riguardo invoca il principio secondo cui il
rispetto delle distanze può essere invocato per le vedute e
non per le luci.
Il Collegio osserva che, in realtà, esiste il principio
giurisprudenziale (Cassazione civile sez. II, 30.04.2012, n.
6604) secondo cui, posto che nella disciplina legale dei
rapporti di vicinato l'obbligo di osservare nelle
costruzioni determinate distanze sussiste solo relativamente
alle vedute e non anche dalle luci, la dizione pareti
finestrate contenuta in un regolamento edilizio che,
ispirandosi all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, prescrive
nelle sopraelevazioni il rispetto della distanza di 10 metri
dalle pareti finestrate di edifici prospicienti, si
riferisce esclusivamente alle pareti munite di finestre
qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su
cui si aprono finestre cosiddette lucifere.
Nella specie, tuttavia, il regolamento edilizio comunale,
all’art. 5.11, rubricato “Distanze fra edifici”,
rinvia sì al D.M. 1968/1444, ma stabilisce che “per i
nuovi edifici è prescritta in tutti i casi la distanza
minima assoluta di m.10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti anche non finestrate”.
Conseguentemente, in assenza di impugnazione o contestazione
di tale clausola del regolamento edilizio comunale, la
eventuale mancanza di veduta nella parete finestrata di
Vannucchi non rileva ai fini di annientare la pretesa al
rispetto delle distanze, che vanno quindi in ogni caso
rispettate.
In ordine alla valenza direttamente precettiva tra privati
del decreto ministeriale sulle distanze (questione oggetto
degli appelli incidentali) questo Consesso (Consiglio di
Stato sez. IV, 27.04.2011, n. 5759) e alla eventuale
disapplicazione di strumenti urbanistici con esso
contrastanti nel senso della minore tutela, ha già avuto
modo di osservare che le prescrizioni di cui al d.m.
02.04.1968 n. 1444 integrano con efficacia precettiva il
regime delle distanze nelle costruzioni, sicché
l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede
di formazione o revisione degli strumenti urbanistici.
La prescrizione di cui all'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444
relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti finestrate
e pareti di edifici antistanti è volta non alla tutela del
diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di
imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque,
tassativa ed inderogabile (per tali principi consolidati,
ex plurimis, Consiglio Stato, sez. IV, 12.06.2007, n.
3094).
Infatti, nella suddetta materia deve ritenersi che in tema
di distanze tra costruzioni, applicabile, come detto, anche
alle sopraelevazioni, l'adozione da parte dei Comuni di
strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime
perché contrastanti con la norma di superiore livello
dell'art. 9 DM 02.04.1968 n. 1444 -che fissa in dieci metri
la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti- comporterebbe l'obbligo per il
giudice di applicare, in sostituzione delle disposizioni
illegittime, quelle dello stesso strumento urbanistico,
nella formulazione derivate, però, dalla inserzione in esso
della regola sulla distanza fissata nel decreto ministeriale
(così Cassazione civile, II, 27.03.2001, n. 4413 su
richiamata; così anche Consiglio di Stato, IV, 12.06.2007,
n. 3094).
La disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, d.m.
02.04.1968 n. 1444, essendo tassativa ed inderogabile,
impone al proprietario dell'area confinante col muro
finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno
dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il
caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere
mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre
antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle
previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c.
Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto
con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata
ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante
la sua automatica sostituzione con la clausola legale
dettata dalla fonte sovraordinata, oltre alla considerazione
che nella specie la disciplina è stata integrata dal
regolamento comunale in senso ancora più rispettoso e
rigoroso.
L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, che detta disposizioni in
tema di distanze tra costruzioni, stante la natura di norma
primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie
contenute nelle norme tecniche di attuazione.
D’altra parte, come visto, nella specie non solo la norma
comunale ha tenuto conto della disposizione ministeriale
esistente, ma l’ha appunto integrata in senso ancora più
rigoroso
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.02.2013 n. 844 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
comunicazione di avvio del procedimento, tesa a favorire la
partecipazione procedimentale, non è necessaria laddove
l’interessato ha già avuto conoscenza del procedimento
amministrativo e vi ha in concreto partecipato, in quanto la
finalità dell’adempimento contemplato dall’art. 7 L.
241/1990 è quella di rendere edotto il destinatario di un
provvedimento amministrativo dell’inizio del procedimento e,
quindi, consentirgli la partecipazione.
Laddove l’interessato abbia già avuto contezza
dell’esistenza di un procedimento amministrativo,
l’adempimento in parola perde rilevanza, in forza del
generale principio di raggiungimento dello scopo, a tenor
del quale ogni omissione, nullità è sanata se è raggiunto,
comunque, lo scopo dell’atto omesso.
Come è noto, la comunicazione di avvio del
procedimento, tesa a favorire la partecipazione
procedimentale, non è necessaria laddove l’interessato ha
già avuto conoscenza del procedimento amministrativo e vi ha
in concreto partecipato, in quanto la finalità
dell’adempimento contemplato dall’art. 7 L. 241/1990 è
quella di rendere edotto il destinatario di un provvedimento
amministrativo dell’inizio del procedimento e, quindi,
consentirgli la partecipazione.
Laddove l’interessato abbia
già avuto contezza dell’esistenza di un procedimento
amministrativo, l’adempimento in parola perde rilevanza, in
forza del generale principio di raggiungimento dello scopo,
a tenor del quale ogni omissione, nullità è sanata se è
raggiunto, comunque, lo scopo dell’atto omesso
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 07.02.2013 n. 373 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’art.
31 L. 1150/1942, prima dell’entrata in vigore della l.
765/1967, consentiva al ricorrente di costruire senza alcun
titolo abilitativo, in quanto l’area interessata era posta
fuori del centro abitato.
Sul punto la giurisprudenza amministrativa consolidata ha
evidenziato che solo dopo l'entrata in vigore dell'art 10
legge 06.08.1967 n 765, che ha soppresso la limitazione
contenuta nell'art. 31 legge 17.08.1942 n 1150, la licenza
edilizia è necessaria anche quando si tratta di costruzione
da erigere fuori del centro abitato.
E’ fondato, invece, il
secondo motivo di ricorso, con cui il ricorrente impugna il
provvedimento, deducendone l’illegittimità per difetto di
motivazione.
L’amministrazione ha emesso l’ordinanza ingiunzione al
pagamento di sanzione pecuniaria sul presupposto che il
ricorrente avesse realizzato il fabbricato in argomento “in
sostanziale difformità” rispetto a quanto all’epoca
autorizzato con Licenza edilizia n. 114/1967 del 24.02.1967
e in zona sottoposta a vincolo ambientale.
L’art. 31 L. 1150/1942, prima dell’entrata in vigore della
l. 765/1967, consentiva al ricorrente di costruire senza
alcun titolo abilitativo, in quanto l’area interessata era
posta fuori del centro abitato. Sul punto la giurisprudenza
amministrativa consolidata ha evidenziato che solo dopo
l'entrata in vigore dell'art 10 legge 06.08.1967 n 765,
che ha soppresso la limitazione contenuta nell'art. 31 legge
17.08.1942 n 1150, la licenza edilizia è necessaria
anche quando si tratta di costruzione da erigere fuori del
centro abitato (cfr., Cons. Stato sez. 05, n. 865 del
24/10/1980).
Ne deriva, pertanto, che è dirimente, nel caso di specie,
verificare la data del presunto abuso edilizio, in quanto il
ricorrente ha ottenuto la licenza edilizia in data 24.02.1967
per la costruzione di un fabbricato rurale al di fuori del
centro abitato e, quindi, prima dell’entrata in vigore della
L. 765/1967. Ai sensi dell’art. 31 L. 1150/1942, come detto,
non era necessario alcun titolo abilitativo per le
costruzioni al di fuori dei centri abitati e, pertanto,
l’eventuale costruzione realizzata dal ricorrente in
difformità della licenza edilizia non avrebbe alcun rilievo.
Inoltre, il vincolo ambientale è stato imposto con DM del
20.06.1967 ed è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del
10.07.1967 e, quindi, in data successiva al rilascio della
licenza edilizia. Ne deriva che il vincolo in argomento non
poteva operare riguardo alla costruzione del ricorrente se
realizzata in data anteriore alla previsione del vincolo.
Il provvedimento amministrativo impugnato non dà conto in
maniera adeguata della data degli abusi, limitandosi a
richiamare acriticamente la relazione tecnica del 28.03.1996
e il parere legale del 09.07.1996, che fa un ulteriore
rinvio a diverso parere legale del 04.12.1995.
Inoltre, anche la relazione tecnica del 28.03.1996 non fa
alcuna menzione della data degli abusi, mentre il parere
legale del 04.12.1995, che fa risalire l’abuso contestato “ad
epoca compresa tra il marzo ’74 ed il luglio ‘77”, non è
compiutamente motivato, ricollegando la data degli abusi
alla richiesta del ricorrente di ottenere l’abitabilità di
una “casa” (risalente del marzo 1974) e alla ulteriore
comunicazione del ricorrente (risalente al luglio 1977) di
voler procedere alla sistemazione interna di un fabbricato
destinato a plurialloggi bar e ristorante, che di per sé non
possono essere considerati elementi dirimenti. Inoltre, non
può essere sottaciuto che nessuna prova diretta della data
dell’abuso sussiste, ma solo presunzioni, come detto non
condivisbili, derivanti dalla circostanza che l’accertamento
dello stato dei luoghi è stato effettuato
dall’amministrazione solo in data 28.3.1996 e, quindi, a
distanza di ben trent’anni dal rilascio della licenza
edilizia.
Ne deriva, pertanto, che il provvedimento amministrativo
impugnato va annullato perché illegittimo, non avendo
l’amministrazione compiutamente esposto le ragioni che hanno
condotto a ritenere abusive le opere realizzate dal
ricorrente
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 07.02.2013 n. 373 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Ai
sensi dell'articolo 338 rd 1265/1934 i cimiteri devono
essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal
centro abitato. Lo stesso articolo vieta, inoltre, di
costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio
di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale
risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o,
in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve
le deroghe ed eccezioni previste dalla legge.
In particolare, l'esistenza del vincolo cimiteriale,
nell'area nella quale è stato realizzato un manufatto
abusivo, comportando l'inedificabilità assoluta, preclude il
rilascio della concessione in sanatoria ai sensi dell'art.
33, l. 28.02.1985 n. 47, senza necessità di compiere
valutazioni in ordine alla concreta compatibilità dell'opera
con i valori tutelati dal vincolo.
Il chiaro disposto dell'articolo 338 citato vieta, quindi,
di costruire intorno ai cimiteri laddove il riferimento al
centro abitato viene fatto nel primo periodo solo per
escludere che si possano realizzare nuovi cimiteri
all'interno del centro abitato.
Tanto premesso, il ricorso va rigettato.
Il Comune di Paderno Dugnano, prima in persona
dell’assessore delegato all’urbanistica e poi del sindaco,
ha correttamente rigettato l’istanza di rilascio di
concessione in sanatoria e conseguentemente ordinato la
demolizione dei manufatti abusivi. La motivazione su cui
poggiano entrambi i provvedimenti è che i manufatti ricadono
all’interno del limite cimiteriale e in zona vincolata a
Parco Agricolo Nord Villoresi /Grugnotorto.
Orbene, la giurisprudenza amministrativa consolidata, che
questo Collegio condivide, ha chiarito che ai sensi dell'articolo 338 rd 1265/1934 i cimiteri devono essere collocati
alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. Lo
stesso articolo vieta, inoltre, di costruire intorno ai
cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal
perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli
strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di
essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed
eccezioni previste dalla legge.
In particolare, l'esistenza
del vincolo cimiteriale, nell'area nella quale è stato
realizzato un manufatto abusivo, comportando l'inedificabilità
assoluta, preclude il rilascio della concessione in
sanatoria ai sensi dell'art. 33, l. 28.02.1985 n. 47,
senza necessità di compiere valutazioni in ordine alla
concreta compatibilità dell'opera con i valori tutelati dal
vincolo (Cons. St., IV, 12.03.2007 n. 1185). Il chiaro
disposto dell'articolo 338 citato vieta, quindi, di
costruire intorno ai cimiteri laddove il riferimento al
centro abitato viene fatto nel primo periodo solo per
escludere che si possano realizzare nuovi cimiteri
all'interno del centro abitato (cfr., Cons. Stato citato).
Nel caso di specie, è emerso in modo incontestato che la
società ricorrente ha realizzato manufatti abusivi
all’interno del perimetro cimiteriale; manufatti che non
potevano essere realizzati ai sensi dell’art. 338 rd
1265/1934, indipendentemente dall’esistenza dell’area
vincolata.
Ne deriva, pertanto, che correttamente l’amministrazione
resistente ha negato il rilascio della concessione in
sanatoria e ordinato la demolizione dei manufatti abusivi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 07.02.2013 n. 371 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Nell'ambito
del pubblico impiego lo svolgimento di fatto da parte del
dipendente di mansioni superiori a quelle dovute in base
all'inquadramento è del tutto irrilevante, sia ai fini
economici, sia ai fini della progressione di carriera, salva
l'esistenza di un'espressa disposizione che disponga
diversamente.
Né è di ausilio l'art. 36 Cost., in quanto il principio
della corrispondenza della retribuzione dei lavoratori alla
qualità e alla quantità del lavoro prestato non trova
incondizionata applicazione nel rapporto di pubblico
impiego, concorrendo con altri principi di pari rilievo
costituzionale, quali quelli di cui agli artt. 97 e 98 Cost..
Anche l’art. 2126 c.c. non è conferente in tale ipotesi,
consentendo la retribuibilità del lavoro prestato solo sulla
base di atto nullo o annullato, che nella specie non
ricorre. Alcuni autori hanno richiamato l’art. 2041 c.c. per
consentire almeno il riconoscimento del trattamento
economico corrispondente alle mansioni superiori in concreto
esercitate. Tale ricostruzione non è, tuttavia, convincente
perché l'azione di arricchimento senza causa postula un
correlativo depauperamento del dipendente, non riscontrabile
e dimostrabile nel caso del pubblico dipendente che, come
nel caso di specie, ha comunque percepito la retribuzione
prevista per la qualifica rivestita.
Ad ogni modo, nel pubblico impiego, presupposto
indefettibile per la stessa configurabilità dell'esercizio
di mansioni superiori è anche l'esistenza di un posto
vacante in pianta organica, al quale corrispondano le
mansioni effettivamente svolte, oltre che un atto formale
d'incarico o investitura di dette funzioni, proveniente
dall'organo amministrativo a tanto legittimato, non potendo
l'attribuzione delle mansioni e il relativo trattamento
economico essere oggetto di libere determinazioni dei
funzionari amministrativi.
La questione sottoposta
all’attenzione del Collegio è se lo svolgimento di mansioni
superiori rispetto a quelle formalmente attribuite
dall’amministrazione consenta il riconoscimento al pubblico
dipendente del superiore inquadramento giuridico e del
corrispondente trattamento economico.
La giurisprudenza amministrativa, con orientamento ormai
consolidato, condiviso dal Collegio, ha chiarito che
nell'ambito del pubblico impiego lo svolgimento di fatto da
parte del dipendente di mansioni superiori a quelle dovute
in base all'inquadramento è del tutto irrilevante, sia ai
fini economici, sia ai fini della progressione di carriera,
salva l'esistenza di un'espressa disposizione che disponga
diversamente. Né è di ausilio l'art. 36 Cost., in quanto il
principio della corrispondenza della retribuzione dei
lavoratori alla qualità e alla quantità del lavoro prestato
non trova incondizionata applicazione nel rapporto di
pubblico impiego, concorrendo con altri principi di pari
rilievo costituzionale, quali quelli di cui agli artt. 97 e
98 Cost..
Anche l’art. 2126 c.c. non è conferente in tale
ipotesi, consentendo la retribuibilità del lavoro prestato
solo sulla base di atto nullo o annullato, che nella specie
non ricorre. Alcuni autori hanno richiamato l’art. 2041 c.c.
per consentire almeno il riconoscimento del trattamento
economico corrispondente alle mansioni superiori in concreto
esercitate. Tale ricostruzione non è, tuttavia, convincente
perché l'azione di arricchimento senza causa postula un
correlativo depauperamento del dipendente, non riscontrabile
e dimostrabile nel caso del pubblico dipendente che, come
nel caso di specie, ha comunque percepito la retribuzione
prevista per la qualifica rivestita.
Ad ogni modo, nel pubblico impiego, presupposto
indefettibile per la stessa configurabilità dell'esercizio
di mansioni superiori è anche l'esistenza di un posto
vacante in pianta organica, al quale corrispondano le
mansioni effettivamente svolte, oltre che un atto formale
d'incarico o investitura di dette funzioni, proveniente
dall'organo amministrativo a tanto legittimato, non potendo
l'attribuzione delle mansioni e il relativo trattamento
economico essere oggetto di libere determinazioni dei
funzionari amministrativi (cfr., Consiglio di Stato, sez.
V, 19.11.2012, n. 5852).
Ne deriva, pertanto, che correttamente l’amministrazione
resistente ha negato al ricorrente l’inquadramento
corrispondente alle mansioni superiori dallo stesso in
concreto svolte, nonché il relativo trattamento economico (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 07.02.2013 n. 367 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Bandi di gara subito impugnabili per ogni vizio o
no? Lo deciderà l'Ad. Plen. Consiglio di Stato.
La VI
Sez. del Consiglio di Stato,
con l'ordinanza
01.02.2013 n. 634, ha rimesso all'Adunanza
Plenaria la questione se
il bando di gara sia immediatamente impugnabile per ogni
vizio rilevato ovvero se il bando possa essere impugnato
entro il termine decadenziale solo ove immediatamente lesivo
di una situazione soggettiva protetta.
Di
seguito, la massima dell'ordinanza.
---------------
1. L’atto amministrativo generale, o l’atto
di normazione secondaria presupposto debbono essere
impugnati entro i predetti termini decadenziali
–non assieme all’atto conclusivo della procedura–
solo ove immediatamente lesivi di una situazione
soggettiva protetta: situazione, quella appena indicata,
ritenuta ravvisabile quando l’atto presupposto risulti di
per sé ostativo per la realizzazione dell’interesse finale
perseguito (ovvero in rapporto ad una procedura concorsuale,
il cui bando sia per talune ditte preclusivo della
partecipazione cfr. in tal senso Cons. St., Ad. Plen.,
23.01.2003, n. 1 e successiva, pacifica giurisprudenza
conforme).
La sussistenza di ragioni per pervenire ad un diverso
indirizzo è stata affermata dalla sezione con ordinanze nn.
351 del 18.01.2011 e 2633 in data 08.05.2012; in entrambi i
casi, tuttavia, l’Adunanza Plenaria non ha esaminato la
questione per difetto di rilevanza (Cons. St., Ad. Plen.
07.04.2011, n. 4 e 31.07.2012, n. 31)
Ad avviso del Collegio, la questione merita quindi di essere
nuovamente sollevata.
2. La sussistenza di giusti motivi per un indirizzo
evolutivo, rispetto alla citata pronuncia dell’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato n. 1/2003, risultano già
esposti nelle ordinanze della sezione sopra ricordate, nei
termini di seguito sintetizzati:
- la volontà deflattiva del contenzioso, sottostante
all’indirizzo di immediata impugnabilità delle sole clausole
escludenti, non ha trovato rispondenza nei fatti, con
reiterate impugnazioni che, dopo la conclusione delle
procedure di gara, postulano l’annullamento del bando e
quindi l’azzeramento delle procedure stesse, con
notevole aggravio di spese per l’amministrazione e danno per
le imprese aggiudicatarie incolpevoli, sulle cui offerte non
fosse emerso o riconosciuto alcun vizio;
- i principi di buona fede e affidamento, di cui
agli articoli 1337 e 1338 cod. civ., dovrebbero implicare
che le imprese, tenute a partecipare alla gara con attenta
disamina delle prescrizioni del bando, fossero non solo
abilitate, ma obbligate a segnalare tempestivamente, tramite
impugnazione del bando stesso, eventuali cause di invalidità
della procedura di gara così come predisposta,
anche come possibile fonte di responsabilità
precontrattuale; quanto sopra, in linea con la ratio
ispiratrice dell’art. 243-bis del codice degli appalti
(d.lgs. n. 163/2006), nel testo introdotto dal d.lgs. n.
53/2010 (informativa preventiva dell’intento di proporre
ricorso giurisdizionale).
Il Collegio condivide le predette osservazioni e ritiene che
le imprese partecipanti a procedure contrattuali ad
evidenza pubblica dovrebbero ritenersi tenute ad impugnare
qualsiasi clausola del bando ritenuta illegittima, entro gli
ordinari termini decadenziali.
La questione sopra indicata appare connessa alla vera e
propria svolta, impressa al contenzioso in materia di
pubblici appalti dalla
sentenza dell’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato n. 4/2011,
ispirata al superamento di indirizzi giurisprudenziali, che
finiscono per determinare una “litigiosità esasperata”,
senza garantire il soddisfacimento dell’interesse primario
di ciascun concorrente (aggiudicazione dell’appalto) e
rendendo “estremamente difficoltosa e spesso impossibile (si
pensi alla perdita di finanziamenti comunitari) l’esecuzione
dell’opera pubblica”.
3. Fra tali indirizzi, sembra al Collegio che possa
annoverarsi quello riconducibile alla ricordata sentenza
dell’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato n. 1/2003, limitativa
dell’immediata impugnabilità dei bandi di gara
(o di concorso) –senza necessità di attendere i relativi
atti applicativi– solo con riferimento alle clausole
impeditive dell’ammissione di soggetti interessati
alla selezione, ovvero impositive di oneri
sproporzionati per la partecipazione, o di condizioni non
comprensibili; quanto sopra, nella presupposizione che in
ogni altro caso mancherebbe una lesione diretta ed attuale
dell’interesse protetto.
Tale conclusione –oltre a non condurre, come già in
precedenza rilevato, ad una riduzione del contenzioso, che
viene normalmente avviato su ogni questione prospettabile
(con aggravata lesione degli interessi sia pubblici che
privati, in caso di azzeramento dell’intera procedura dopo
la conclusione della stessa)– appare non più convincente
anche sul piano dei principi, regolatori dell’impugnativa di
atti amministrativi generali, destinati alla cura concreta
di interessi pubblici nei confronti di destinatari
indeterminati, ma determinabili.
Con la domanda di partecipazione alla gara, infatti, le
imprese concorrenti divengono titolari di un interesse
legittimo, quale situazione soggettiva protetta
corrispondente all’esercizio di un potere, soggetto al
principio di legalità ed esplicato, in primo luogo, con
l’emanazione del bando.
A qualsiasi vizio di quest’ultimo si contrappone, pertanto,
l’interesse protetto al corretto svolgimento della
procedura, nei termini disciplinati dalla normativa vigente
in materia e dalla lex specialis; l’inoppugnabilità
della disciplina di gara contenuta nel bando, alla scadenza
degli ordinari termini decadenziali, appare dunque conforme
alle esigenze di efficienza ed efficacia dell’azione
amministrativa (commento
tratto da www.giurdanella.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Deve
ritenersi assolto l’obbligo della motivazione del
provvedimento, anche quando questa sia esplicitata in
maniera succinta a condizione che risulti idonea a disvelare
l’iter logico e procedimentale che consenta di inquadrare la
fattispecie nell’ipotesi astratta considerata dalla legge.
In particolare, si ritiene che l’obbligo in argomento anche
in presenza di una motivazione per relationem purché:
a) le ragioni dell’atto richiamato siano esaurienti - onde
sia possibile desumere le ragioni in base alle quali la
volontà dell’amministrazione si è determinata;
b) l’atto indicato al quale viene fatto riferimento, sia
reso disponibile agli interessati;
c) non vi siano pareri richiamati che siano in contrasto con
altri pareri o determinazioni rese all’interno del medesimo
procedimento.
Sotto un profilo d’ordine generale, va rilevato che la
giurisprudenza (cfr. ex multis Cons. St. Sez. IV, 18.02.2010 n. 944) ha affermato che deve ritenersi
assolto l’obbligo della motivazione del provvedimento, anche
quando questa sia esplicitata in maniera succinta a
condizione che risulti idonea a disvelare l’iter logico e
procedimentale che consenta di inquadrare la fattispecie
nell’ipotesi astratta considerata dalla legge. In
particolare, si ritiene (cfr. Cons. giust. amm., 20.01.2003, n. 31; sez. VI, 24.10.1995, n. 1201; sez. IV,
07.03.1994, n. 204) che l’obbligo in argomento anche in
presenza di una motivazione per relationem purché:
a) le ragioni dell’atto richiamato siano esaurienti - onde
sia possibile desumere le ragioni in base alle quali la
volontà dell’amministrazione si è determinata;
b) l’atto indicato al quale viene fatto riferimento, sia
reso disponibile agli interessati;
c) non vi siano pareri richiamati che siano in contrasto con
altri pareri o determinazioni rese all’interno del medesimo
procedimento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 09.01.2013 n. 4 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
circostanza che un soggetto terzo possa disporre di un area
non di sua proprietà, ai fini di un programma d’interventi,
senza il concorso del proprietario, con conseguente
possibilità, per il proprietario non aderente, di subire poi
l’esproprio del bene, induce a privilegiare l’espletamento
della procedura ex art. 27 L. n. 166/2002 nella fase di
avvio.
In altri termini, il completamento, con la decorrenza del
termine di 90 giorni, della procedura di diffida va
configurata come la condizione preliminare perché il Comune
possa deliberare una proposta di piano o di un programma
integrato che non sia presentata da tutti i proprietari
dell’area interessata.
La L.R. n. 12/2005 –che
all’art. art. 12 (in tema di piani attuativi) richiama
espressamente (al comma 4) la procedura di cui all’art. 27
L. n. 166/2002- distingue (all’art. 12, terzo comma, e
all’art. 14, primo comma) fra la presentazione della proposta
di piano o di programma e l’adozione del piano o del
programma stesso. Queste disposizioni riconoscono ai
proprietari che non rappresentino l’intero ambito
interessato la legittimazione a presentare la loro proposta
(cfr. art. 12, quarto comma: “Per la presentazione del piano
attuativo è sufficiente …”) e riconducono a tale
presentazione il termine di dieci giorni per la
comunicazione della diffida ai proprietari non aderenti. La
‘presentazione’ è però un atto distinto dall’adozione, che è
un adempimento diverso e successivo ed attiene all’esercizio
della funzione amministrativa (cfr. art. 14, primo comma,
della l.reg. 12/2005, che scandisce la successione
temporale fra presentazione e adozione di un piano); a
maggior ragione la ‘presentazione’ non va confusa con
l’approvazione.
Inoltre, l’art. 12, quarto comma, stabilisce, con
riferimento proprio alla procedura di diffida prevista
dall’art. 27, quinto comma, l. 166/2002, che “ … il termine
di novanta giorni di cui all'articolo 14, comma 1 (che è
quello per l’adozione dei piani attuativi) inizia a
decorrere a far tempo dalla conclusione della suddetta
procedura”. Quindi la fase della diffida avrebbe dovuto
precedere l’adozione del programma integrato.
In assenza di una specifica disciplina dettata per i P.I.I.,
deve ritenersi che agli stessi si applichi quella sovra
esposta prevista per i piani attuativi.
Sotto il profilo sistematico, va rilevato che l’opzione
ermeneutica prescelta appare quella più conforme ai principi
sulla garanzia della proprietà, che nella presente fase
storica tanta tutela ottengono sia a livello sovranazionale
sia (conseguentemente) a livello nazionale.
Invero, la circostanza che un soggetto terzo possa disporre
di un area non di sua proprietà, ai fini di un programma
d’interventi, senza il concorso del proprietario, con
conseguente possibilità, per il proprietario non aderente,
di subire poi l’esproprio del bene, induce a privilegiare
l’espletamento della procedura ex art. 27 L. n. 166/2002
nella fase di avvio. In altri termini, il completamento, con
la decorrenza del termine di 90 giorni, della procedura di
diffida va configurata come la condizione preliminare perché
il Comune possa deliberare una proposta di piano o di un
programma integrato che non sia presentata da tutti i
proprietari dell’area interessata (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 09.01.2013 n. 4 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: In
via generale, va rilevato quanto segue:
- i provvedimenti di autotutela sono espressione di un
potere discrezionale, non già di un dovere di provvedere;
- l’esercizio dell’autotutela da parte della pubblica
amministrazione -ancor prima della norma posta dall’art.
21-nonies della l. 07.08.1990 n. 241 (introdotta dalla l.
2005 n. 15)- è stato subordinato dalla giurisprudenza a
rigorose regole:
a) l’obbligo della motivazione;
b) la presenza di concrete ragioni di pubblico interesse,
non riducibili alla mera esigenza di ripristino della
legalità;
c) la valutazione dell’affidamento delle parti private
destinatarie del provvedimento oggetto di riesame, tenendo
conto del tempo trascorso dalla sua adozione; d) il rispetto
delle regole del contraddittorio procedimentale;
e) l’adeguata istruttoria.
- in altri termini, secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale, l'annullamento in via di autotutela non
può basarsi unicamente sulla illegittimità riscontrata
poiché il decorso del tempo, consolidando le posizioni
giuridiche soggettive, incide sulle modalità con cui il
potere discrezionale di autotutela può essere esercitato,
occorrendo un'adeguata motivazione sull'interesse pubblico e
attuale che possa dar luogo all'atto di ritiro, preceduta da
un'accurata indagine sulle circostanze che possano
evidenziare un interesse pubblico al ritiro e sulle quali
anche il privato ha diritto ed interesse a pronunciarsi
facendo valere le proprie ragioni.
L’art. 21-nonies della l. 07.08.1990 n. 241 (introdotto dalla l. n. 15/2005) prevede che
il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha
emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.
In via generale, va rilevato quanto segue:
- i provvedimenti di autotutela sono espressione di un
potere discrezionale, non già di un dovere di provvedere;
- l’esercizio dell’autotutela da parte della pubblica
amministrazione -ancor prima della norma posta dall’art. 21-nonies della l.
07.08.1990 n. 241 (introdotta dalla l. 2005 n.
15)- è stato subordinato dalla giurisprudenza (cfr. ex multis Cons. St. Sez. V, 11.06.2001 n. 3130) a rigorose
regole: a) l’obbligo della motivazione; b) la presenza di
concrete ragioni di pubblico interesse, non riducibili alla
mera esigenza di ripristino della legalità; c) la
valutazione dell’affidamento delle parti private
destinatarie del provvedimento oggetto di riesame, tenendo
conto del tempo trascorso dalla sua adozione; d) il rispetto
delle regole del contraddittorio procedimentale; e)
l’adeguata istruttoria.
- in altri termini, secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale, l'annullamento in via di autotutela non
può basarsi unicamente sulla illegittimità riscontrata
poiché il decorso del tempo, consolidando le posizioni
giuridiche soggettive, incide sulle modalità con cui il
potere discrezionale di autotutela può essere esercitato,
occorrendo un'adeguata motivazione sull'interesse pubblico e
attuale che possa dar luogo all'atto di ritiro, preceduta da
un'accurata indagine sulle circostanze che possano
evidenziare un interesse pubblico al ritiro e sulle quali
anche il privato ha diritto ed interesse a pronunciarsi
facendo valere le proprie ragioni.
La delibera di annullamento del P.I.I. sopra riportata
risponde pienamente ai requisiti richiesti dall’art. 21-nonies della l.
07.08.1990 n. 241, dato che:
a) indica una serie di vizi di legittimità propri dell’atto;
b) individua concrete ragioni di pubblico interesse
ulteriori rispetto al mero ripristino della legalità violata
(elencate nei p. da 1 a 8 alla pagg. 6/7 del deliberato);
c) valuta l’affidamento delle parti private (evidenziando
altresì il breve lasso temporale intercorso fra
l’approvazione del P.I.I. e l’annullamento), che ritiene
recessivo rispetto all’interesse pubblico e a quello degli
altri privati controinteressati danneggiati dal P.I.I.;
d) rispetta il contraddittorio procedimentale, essendo stato
data la comunicazione di avvio ed essendo state prese in
esame le osservazioni svolte dai privati;
e) è frutto di adeguata istruttoria.
Va rilevato inoltre che, al momento in cui si è deliberato
l’annullamento, non era ancora stata stipulata fra le parti
la convenzione attuativa del P.I.I..
Una volta rilevata la sussistenza nella fattispecie dei
requisiti richiesti per farsi luogo all’annullamento del
P.I.I., va dichiarata infondata la successiva doglianza, con
la quale la ricorrente sostiene che l’Amministrazione
avrebbe sviatamente fatto luogo all’annullamento in luogo
della revoca per non dover corrispondere al privato il
dovuto indennizzo (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 09.01.2013 n. 4 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: -
con riguardo alla disciplina dettata dalla L. n. 1150 del
1942, la delibera di adozione del piano regolatore generale
o di una sua variante può essere revocata dal Comune fin
quando il procedimento non si sia concluso con
l'approvazione regionale;
- più recentemente, la giurisprudenza ha preso in esame la
questione riguardante la possibilità, per un’amministrazione
comunale neo-eletta, di revocare la deliberazione di
approvazione definitiva del nuovo strumento urbanistico
adottata dall’amministrazione uscente, risolvendola in senso
positivo. In dette pronunce è stato posto in luce che una
volta eliminato con la revoca l’ultimo atto dell’iter
procedimentale appena concluso (l’approvazione) si riporta
la procedura allo stadio immediatamente antecedente
l’approvazione definitiva;
- infine, si è affermato che, in relazione alla nuova
disciplina regionale dettata con la L.R. n. 12 del 2005,
deve ritenersi l’atto di approvazione acquista efficacia
solo dopo che è intervenuta la pubblicazione sul BURL
dell’avviso dell’intervenuta approvazione, sicché la
procedura di approvazione del PGT trova compimento (solo) al
momento in cui tale pubblicazione avviene, sicché –ove la
pubblicazione non sia avvenuta, legittimamente il nuovo
Consiglio può procedere alla revoca dell’approvazione, senza
necessità di far luogo alla procedura di variante che
presuppone l’avvenuto perfezionamento del piano antecedente.
In relazione al primo
profilo, va innanzitutto ricordato che la Sezione ha avuto
modo di affermare:
- con riguardo alla disciplina dettata dalla L. n. 1150 del
1942, che la delibera di adozione del piano regolatore
generale o di una sua variante può essere revocata dal
Comune fin quando il procedimento non si sia concluso con
l'approvazione regionale (cfr. la sentenza 02.10.1991 n.
662: in detta sentenza è stato posto in luce che la revoca
“costituisce espressione dello jus poenitendi, che è
riconosciuto all’Ente pubblico, indipendentemente da
un’espressa previsione legislativa al riguardo, perché si
tratta della manifestazione dello stesso potere già
esercitato nell’emanazione dell’atto da revocare”,
soggiungendosi che “il potere di ritiro si fonda proprio
sulla necessità che l’amministrazione (discrezionale) attiva
sia costantemente rispondente all’interesse pubblico e
possa, in qualsiasi momento, adeguarsi al mutare di questo”
e precisandosi che il limite al potere di revoca da parte
dell’Amministrazione comunale deve essere individuato –in
relazione alla natura di atto complesso proprio della
procedura di formazione del PRG- nel momento dell’avvenuta
approvazione regionale dello strumento urbanistico);
- più recentemente, con le sentenze 24.03.2006 n. 348 e
27.11.2006 n. 1525, ha preso in esame la questione
riguardante la possibilità, per un’amministrazione comunale
neo-eletta, di revocare la deliberazione di approvazione
definitiva del nuovo strumento urbanistico adottata
dall’amministrazione uscente, risolvendola in senso
positivo. In dette pronunce è stato posto in luce che una
volta eliminato con la revoca l’ultimo atto dell’iter
procedimentale appena concluso (l’approvazione) si riporta
la procedura allo stadio immediatamente antecedente
l’approvazione definitiva;
- infine, con la sentenza n. 1278 del 30.08.2011, ha affermato
che, in relazione alla nuova disciplina regionale dettata
con la L.R. n. 12 del 2005, deve ritenersi l’atto di
approvazione acquista efficacia solo dopo che è intervenuta
la pubblicazione sul BURL dell’avviso dell’intervenuta
approvazione, sicché la procedura di approvazione del PGT
trova compimento (solo) al momento in cui tale pubblicazione
avviene, sicché –ove la pubblicazione non sia avvenuta,
legittimamente il nuovo Consiglio può procedere alla revoca
dell’approvazione, senza necessità di far luogo alla
procedura di variante che presuppone l’avvenuto
perfezionamento del piano antecedente.
Più in particolare, venendo alla questione qui posta dalla
ricorrente, deve dissentirsi dalla lettura da questa
proposta (secondo cui l’art. 13, c. 7, L.R. n. 12/2005 si
risolve regge in una mera norma acceleratoria), dovendosi
invece ritenere che la norma in questione –nel prevedere la
perdita di efficacia degli atti– attribuisce espressamente
un effetto legale tipico al decorso del termine di 90
giorni.
La fattispecie all’esame, nella quale il consiglio ha
commendevolmente ritenuto opportuno consacrare in uno
specifico deliberato i motivi a base della decisione di
lasciare inutilmente decorrere il termine perentorio
stabilito, per l’approvazione del Piano, dalla L.R. n.
12/2005, si inquadra perfettamente in tali principi, senza
che possa configurarsi alcuna violazione dell’obbligo di
concludere il procedimento, né utilizzo sviato della norma.
In ogni caso, risulta del tutto condivisibile il rilievo,
svolto dalla difesa comunale, secondo cui l’effetto
giuridico (la decadenza del PGT) è automaticamente prodotto
dal mero decorso del termine stabilito dell’art. 13, settimo
comma, della l.reg. 12/2005, sicché è la scadenza del
termine legale e non già la delibera qui impugnata a
determinarla
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 09.01.2013 n. 4 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Telecamere, privacy
inviolata.
Sulla videosorveglianza a deliberare è la maggioranza.
La Cassazione: non ci sono gli estremi del delitto di
interferenze illecite nella vita privata.
Via libera alla videosorveglianza delle aree condominiali,
con deliberazione a maggioranza da parte dell'assemblea. La
nuova legge n. 220/2012 di riforma della disciplina del
condominio degli edifici ha, infatti, chiarito che rientra
fra le competenze assembleari la decisione in merito
all'installazione delle telecamere sulle parti comuni e ha
stabilito le necessarie maggioranze. Nel frattempo la Corte
di cassazione ha precisato che l'installazione di sistemi di
videosorveglianza non viola la privacy. Non sussistono,
infatti, gli estremi del delitto di interferenze illecite
nella vita privata (art. 615-bis del codice penale) nel caso
in cui un condomino effettui riprese dell'area condominiale
destinata a parcheggio e del relativo ingresso, trattandosi
di luoghi destinati all'uso di un numero indeterminato di
persone e, pertanto, esclusi dalla tutela penale, la quale
concerne una particolare relazione del soggetto da tutelare
con l'ambiente in cui questi vive la sua vita privata, in
modo da sottrarla a ingerenze esterne.
Lo ha ribadito la
Corte di Cassazione (Sez. II civile), nella
sentenza
03.01.2013 n. 71.
Nel caso in questione un condomino, visti i ripetuti atti
vandalici perpetrati da ignoti a danno delle parti comuni e
delle parti di proprietà esclusiva, non registrando
intervento alcuno da parte dell'amministrazione
condominiale, aveva deciso di provvedere unilateralmente
all'installazione di un impianto di videosorveglianza sulle
aree condominiali, chiedendo poi agli altri comproprietari
di rimborsagli pro quota la spesa anticipata.
Uno dei
condomini si era però rifiutato di pagare la sua parte e la
vicenda era giunta dapprima dinanzi al giudice di pace e,
quindi, addirittura presso la Suprema corte. Occorre
segnalare come nella specie il giudice di merito avesse
deciso la controversia secondo equità, pronunciandosi in
favore del condomino che si era attivato per la gestione
dell'impianto.
Questo tipo di sentenze, però, sono
impugnabili per Cassazione soltanto in relazione ai principi
informatori della materia, restando invece preclusa la
denunzia di violazione di specifiche norme di diritto
sostanziale. Nel caso in questione la condòmina ricorrente
non aveva assolto a tale onere probatorio e, quindi, anche
per tale motivo, il ricorso era stato integralmente
rigettato.
La Suprema corte, pur non potendosi pronunciare nel merito
della questione civilistica, ha tuttavia ricordato il
costante orientamento relativo alla non punibilità di tali
comportamenti ai sensi dell'art. 615-bis del codice penale (articolo
ItaliaOggi Sette dell'11.02.2013). |
AGGIORNAMENTO ALL'11.02.2013 |
ã |
MOBILITA' |
PUBBLICO
IMPIEGO: il
Comune di Cisano Bergamasco (BG) cerca con mobilità
volontaria n. 1 geometra, cat. "C" a tempo pieno ed indeterminato, da
destinare all'Ufficio Tecnico
il cui
avviso di mobilità prevede il termine di martedì
26.02.2013 entro cui inviare le domande di
partecipazione. |
NOVITA' NEL SITO |
Inserito il nuovo bottone
dossier TRIBUTI LOCALI. |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 7 dell'11.02.2013, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in
acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 31.01.2013, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione 06.08.2012, n. IX/3935"
(comunicato
regionale 05.02.2013 n. 10). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.U.E.
08.02.2013 n. L/37 "DIRETTIVA
2013/2/UE DELLA COMMISSIONE del 07.02.2013 recante
modifica dell’allegato I della direttiva 94/62/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio sugli imballaggi e i
rifiuti di imballaggio" (link a http://eur-lex.europa.eu). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Regola tecnica per gli impianti di protezione
attiva contro l’incendio (ANCE di Bergamo,
circolare 08.02.2013 n. 37). |
ENTI LOCALI:
Oggetto: Circolare concernente il patto di stabilità interno
per il triennio 2013-2015 per le province e i comuni con
popolazione superiore a 1.000 abitanti (articoli 30, 31
e 32 della legge 12.11.2011, n. 183, come modificati dalla
legge 24.12.2012, n. 228) (link a http://www.rgs.tesoro.it).
----------------
Gli articoli 30, 31 e 32 della legge 12.11.2011, n. 183
(legge di stabilità 2012), come modificati dalla legge
24.12.2012, n. 228 (legge di stabilità 2013), disciplinano
il nuovo patto di stabilità interno per il triennio
2013-2015 volto ad assicurare il concorso degli enti locali
alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica. La
circolare 07.02.2013 n. 5/2013
contiene i criteri interpretativi per l'applicazione delle
nuove regole da parte degli enti locali ivi inclusi il
metodo di calcolo degli obiettivi programmatici, i 'Patti di
solidarietà' fra gli enti territoriali ed il meccanismo
premiale basato sulla virtuosità.
E', inoltre, disponibile un modello di calcolo, in formato
Excel, per consentire agli enti di individuare, nelle more
della pubblicazione del relativo decreto, gli obiettivi
programmatici 2013-2015. Successivamente alla pubblicazione
del predetto decreto sarà accessibile, sull'applicativo web
della Ragioneria Generale dello Stato, un prospetto
precompilato che individuerà automaticamente l'obiettivo di
ciascun ente. |
APPALTI:
Oggetto: Art. 11, comma 13, del Codice dei contratti
pubblici. Modalità di registrazione dei contratti di appalto
stipulati con modalità elettronica (Agenzia delle
Entrate, Direzione Provinciale di Firenze, Ufficio
Territoriale di Empoli,
nota 06.02.2013). |
LAVORI PUBBLICI: Circolare
esplicativa per l'attuazione da parte dei gestori delle
gallerie stradali degli adempimenti amministrativi
introdotti dal Nuovo Regolamento di semplificazione di
Prevenzioni Incendi, emanato con il D.P.R. 151/2011
(Ministero dell'Interno e Ministero delle Infrastrutture e
dei Trasporti,
circolare 29.01.2013 n. 1). |
APPALTI: Oggetto:
Appunto n. 1/13: "Nuovi obblighi per la firma del contratto
di appalto"
(Istituto Etico per l'Osservazione e la Promozione degli
Appalti,
appunto 16.01.2013 n. 1/2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Attività soggette ai controlli di prevenzione
incendi di categoria A di cui al D.P.R. 151/2011.
Disposizioni per l'asseverazione
(Ministero dell'Interno, Dipartimento dei VV.F.,
lettera-circolare 26.11.2012 n. 14724 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Modulistica per la presentazione delle istanze,
delle segnalazioni e delle dichiarazioni, prevista nel D.M.
07.08.2012
(Ministero dell'Interno, Dipartimento VV.F.,
nota 26.11.2012 n. 14720 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Impiego di prodotto e sistemi per la protezione antincendio
delle costruzioni (Ministero dell'Interno, Dipartimento
dei VV.F.,
lettera-circolare 19.11.2012 n. 14229 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Istanza di interpello ai sensi dell’articolo 11
della legge n. 212 del 2000 –Applicabilità dell’imposta di
bollo agli elaborati tecnici allegati alla concessione
edilizia (Agenzia delle Entrate,
risoluzione 23.03.2009 n. 74/E). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Interpello ……./2001 Articolo 11, legge
27.07.2000 n. 212. Ministero della Difesa Direzione generale
del Demanio e della Difesa (Agenzia delle Entrate,
risoluzione 27.03.2002 n. 97/E).
---------------
QUESITO sull’applicazione dell’imposta di bollo dei
seguenti documenti in materia di realizzazione opere
pubbliche: contratto di appalto ed eventuali atti
aggiuntivi; capitolati di oneri e relative tariffe; verbale
di concordamento nuovi prezzi; progetti, disegni, computi
metrici, relazioni tecniche, planimetrie; piano di
sicurezza; tariffe; giornale del direttore dei lavori;
verbali di consegna, di sospensione, di ripresa e di
ultimazione lavori; verbali di constatazione delle misure,
libretto delle misure, note settimanali, registro delle
misure, certificati di acconto, conto finale; certificato di
collaudo e certificato di regolare esecuzione. |
UTILITA' |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Adempimenti previsti
dalla L. n. 190/2012 e relativi termini.
Si pubblicano, di seguito, due prospetti nei quali sono
individuati, con l’indicazione, ove previsti, dei relativi
termini:
a)
gli adempimenti che la legge pone a carico, rispettivamente,
del Governo, del Ministro della funzione pubblica, del
Dipartimento della funzione pubblica, della CiVIT, dei
responsabili della prevenzione della corruzione, degli OIV,
dell’AVCP, della Corte dei conti e dei prefetti (prospetto
A);
b)
gli obblighi delle pubbliche amministrazioni e degli altri
soggetti previsti dalla legge (prospetto
B).
In attesa della definitiva approvazione del Decreto
legislativo di attuazione dell’art. 1, co. 35, della L. n.
190/2012, i prospetti non riguardano gli adempimenti in tema
di pubblicità e trasparenza (05.02.2013 - link a
www.civit.it). |
APPALTI:
F. A. Caputo,
VADEMECUM SUGLI APPALTI PUBBLICI
(2) - Modelli
di comportamento per le Amministrazioni Aggiudicatrici
(gennaio 2013 - tratto da www.ieopa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturare conviene: guida alle agevolazioni fiscali per
le opere di ristrutturazione e recupero delle abitazioni
(link a www.ancebrescia.it). |
LAVORI PUBBLICI: Le
nuove Linee guida sulla pubblica illuminazione con
Capitolati tecnici, esempi e progetti pilota.
“Informare, sensibilizzare e fornire alle Amministrazioni
Comunali tutti gli strumenti necessari ad una gestione
energeticamente efficiente della pubblica illuminazione,
contribuendo alla riduzione delle emissioni inquinanti e ad
un risparmio economico per la collettività”.
È questo l’obiettivo delle Linee Guida per la
predisposizione di Capitolati tecnici comunali finalizzati a
promuovere la fornitura di energia elettrica, l’esercizio e
la manutenzione ordinaria e straordinaria degli impianti
pubblici, le opere di adeguamento normativo e di
riqualificazione tecnologica degli impianti stessi, redatte
da Ancitel.
In coerenza con le Linee Guida dell’ENEA (v. articolo
BibLus-net “Arrivano le linee guida per la gestione
efficiente dell’illuminazione pubblica”) il documento
approfondisce con maggior dettaglio gli aspetti tecnici,
economici e gestionali dei sistemi di illuminazione
pubblica, ponendosi come strumento operativo concreto a
disposizione delle Amministrazioni e dei tecnici in
generale.
Le linee guida contengono, inoltre, esempi e applicazioni
concrete e illustrano in maniera dettagliata un progetto
pilota
(07.02.2013 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Maniglioni
antipanico: ultima chiamata il 18.02.2013!
Il 18.02.2013 scade il termine per la sostituzione e
l’installazione dei maniglioni antipanico marcati CE sulle
vie di fuga nelle attività soggette a controllo dei Vigili
del Fuoco.
Si tratta del termine ultimo dopo le numerose proroghe che
si sono susseguite negli anni.
Ricordiamo, brevemente, che tale disposizione è stata
introdotta dal Decreto 06.12.2011 “Modifica al decreto
03.11.2004 concernente l’installazione e la manutenzione dei
dispositivi per l’apertura delle porte installate lungo le
vie di esodo relativamente alla sicurezza in caso di
incendio.”
I nuovi maniglioni, oltre che essere marcati CE, devono
essere conformi alla norma UNI EN 179 o alla norma UNI EN
1125 in base al tipo di attività e alle condizioni di
utilizzo
(07.02.2013 - link a www.acca.it). |
LAVORI PUBBLICI: Gallerie
e prevenzione incendi: ecco i nuovi adempimenti.
A seguito dell'entrata in vigore del nuovo Regolamento di
prevenzione incendi (D.P.R. 151/2011), che ha compreso
nell'ambito delle attività sottoposte ai controlli di
prevenzione incendi anche le gallerie stradali di lunghezza
superiore ai 500 metri, il Ministero dell’Interno ha emanato
la Circolare esplicativa n. 1 DIP. VV.F. del 29.01.2013.
La Circolare, in attesa dell’emanazione della regola tecnica
di prevenzione incendi relativa alle gallerie stradali di
lunghezza superiore ai 500 metri, al fine di dare immediata
attuazione al D.P.R. 151/2011, fornisce ai gestori di
gallerie stradali chiarimenti sui nuovi adempimenti.
Nello specifico, vengono date indicazioni su come procedere
in funzione dei diversi casi che possono verificarsi:
►
galleria ricadente nella rete stradale trans-europea;
►
galleria non ricadente nella rete stradale trans-europea;
►
galleria conforme ai requisiti indicati nel D.Lgs. 246/2006;
►
galleria non conforme ai requisiti indicati nel D.Lgs.
246/2006;
►
galleria esistente;
►
galleria di nuova realizzazione.
Vengono fissati i termini e le modalità per la presentazione
della SCIA a seconda dei vari casi
(07.02.2013 - link a www.acca.it). |
COMPETENZE PROFESSIONALI: Nuovo
regolamento professionale dei Geometri: ecco la bozza.
Il Consiglio Nazionale dei Geometri e dei Geometri Laureati
ha pubblicato una bozza del nuovo regolamento professionale
dei Geometri.
Il documento si pone l’obiettivo di ridisegnare il quadro
della professione di geometra, rinnovando il vecchio testo
risalente al 1929.
I punti chiave sono:
● rinnovamento dei contenuti del vecchio regolamento del
1929
●
elenco puntuale delle competenze del geometra e del geometra
laureato (tutela dell'ambiente e del territorio, topografia,
edilizia, estimo e sicurezza sul lavoro, etc.)
●
sistema di autogoverno della categoria, con semplificazione
delle strutture territoriali e del sistema elettorale
●
chiarimenti sul percorso per l’accesso all'esame di Stato
per l’abilitazione all’esercizio della professione
(07.02.2013 - link a www.acca.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: E’
pronto il regolamento per le società tra professionisti:
ecco il testo finale!
Il Regolamento per le società tra professionisti, dopo un
iter abbastanza contrastato, è stato firmato dal Ministero
della Giustizia e ora attende solo il via libera del
dicastero dello Sviluppo Economico.
Gli argomenti principali del regolamento sono:
● requisiti che devono possedere i soci
●
obbligo di fornire al cliente una serie di informazioni, tra
cui l’elenco dei singoli soci professionisti con titolo o qualifica
professionale di ciascuno
●
divieto di partecipazione a più società tra professionisti
●
modalità di iscrizione all’Albo professionale
●
responsabilità disciplinari della società
Pertanto, con questo nuovo regolamento i professionisti
potranno aggregarsi in enti riconosciuti legalmente
(07.02.2013 - link a www.acca.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA
PRIVATA:
M. Grisanti,
LE ZONE URBANISTICHE PAESAGGISTICAMENTE VINCOLATE -
(commento alla sentenza n. 1739 della Suprema Corte di
Cassazione penale, Sez. III, registrata al n. 1262/2013)
(link a www.lexambiente.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
P. Bertazzoli, M. Cozzolino e G. De Luca,
IL DIRITTO DI ACCESSO DEI CONSIGLIERI COMUNALI (gennaio
2013 - link a www.segretariocomunale.com). |
VARI:
A. Passarella,
Nullità del contratto -
Rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto (I
contratti n. 1/2013 - tratto da www.ipsoa.it).
---------------
Il Giudice di merito ha il potere di rilevare d’ufficio
la nullità del contratto nell’ambito di una causa promossa
per la risoluzione del contratto stesso? Quali saranno i
risvolti in tema di giudicato?
Nel contributo che segue l’Autrice, inquadrata la questione
dei limiti all’esercizio dei poteri officiosi ex art. 1421
c.c., da sempre al centro di burrascosi rapporti tra
dottrina e giurisprudenza, risponde al quesito proposto
sulla base delle linee guida offerte dalle Sezioni Unite, le
quali, con recente decisione, sembrano aver portato il
“sereno”, ponendo fine all’annosa querelle. |
APPALTI:
I. Pagani,
DURC - I parametri di
valutazione di gravità degli inadempimenti contributivi e
previdenziali al vaglio della Corte di Giustizia
(Urbanistica e appalti n. 12/2012 - tratto da
www.ipsoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
P. Sciscioli,
L'assentibilità edilizia dei volumi tecnici
(Ufficio Tecnico n. 11-12/2012). |
EDILIZIA PRIVATA: A.
Mafrica e M. Petrulli,
Breve rassegna di particolari interventi edilizi subordinati
al rilascio del permesso di costruire
(Ufficio Tecnico n. 11-12/2012). |
APPALTI: F.
Indelicato,
Divieto di intestazione fiduciaria in materia di appalti
(Ufficio Tecnico n. 11-12/2012). |
APPALTI: D.
Sterrantino,
Il bando tipo dell'Autorità di vigilanza per i contratti
pubblici
(Ufficio Tecnico n. 11-12/2012). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Non è prospettabile il
riconoscimento, né a maggior ragione la liquidazione
dell’incentivo ex art. 92, comma 5, del D.Lgs. n. 163/2006 e
s.m.i. nei confronti del personale tecnico dipendente
dall’Ente, nel caso in cui la progettazione realizzata ha
riguardato un’opera per la quale non è stato previsto (o è
venuto meno) il finanziamento da parte del soggetto terzo e
conseguentemente non è stata legittimamente possibile
l’indizione della gara d’appalto.
...
Con la nota indicata in epigrafe, il Sindaco del Comune di
Ariano Irpino (AV), formula il seguente quesito: “… Spetta il compenso ex art. 92, comma 5, del Decreto
Legislativo n. 163/2006 e ss.mm.ii. ai tecnici dipendenti
dell’Ente nel caso di attività progettuale di opera pubblica
non finanziata da ente terzo?
Oppure trova applicazione anche nel suddetto caso la
disposizione contenuta nell’articolo 92, comma 1 del Decreto
Legislativo n. 163/2006 che così recita … “Le
Amministrazioni aggiudicatrici non possono subordinare la
corresponsione dei compensi relativi allo svolgimento della
progettazione e delle attività tecnico–amministrative ad
essa connesse all’ottenimento del finanziamento dell’opera
progettata”.”
….
...
Preliminarmente il Collegio rappresenta che la sintetica
formulazione del quesito de quo, nei termini sopra
trascritti, non chiarisce esaurientemente gli esatti ambiti
della problematica sottoposta al vaglio della Sezione,
tuttavia, osserva che da una valutazione generale ed
astratta della tematica, la questione sembrerebbe
riguardare, prima facie, la legittimità del
riconoscimento dell’incentivo previsto dall’art. 92, comma
5, del cit. D.Lgs. ai tecnici dipendenti dell’Ente, nel caso
in cui sia stata intrapresa e/o realizzata un’attività
progettuale interna per un’opera che -presumibilmente ab
initio (o in un momento successivo)– non risulti (più)
finanziata da un soggetto terzo.
A conforto dell’esattezza di tale interpretazione soccorre
il riferimento esplicito nella richiesta di parere
–altrimenti del tutto inconferente– al comma 1 del medesimo
art. 95 ove, con specifico riferimento ai progettisti
esterni incaricati (Cfr. II° parte del comma 1), il
legislatore ha escluso che le pubbliche amministrazioni
aggiudicatrici possano subordinare la corresponsione di
compensi relativi allo svolgimento della progettazione e
delle attività tecnico–amministrative ad essa connesse,
all’ottenimento del finanziamento dell’opera progettata.
Al fine del sistematico inquadramento dell’istituto
giuridico oggetto della richiesta di parere appare opportuno
richiamare il dettato normativo (art. 92, comma 5, d.lgs. n.
163/2006, c.d. Codice dei contratti pubblici) che, nella
formulazione vigente dispone: “Una somma non superiore al
due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera
o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali
e assistenziali a carico dell’amministrazione, a valere
direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93,
comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con
le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione
decentrata e assunti in un regolamento adottato
dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e
gli incaricati della redazione del progetto, del piano della
sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché
tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel
limite massimo del due per cento, è stabilita dal
regolamento in rapporto all'entità e alla complessità
dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle
responsabilità professionali connesse alle specifiche
prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è
disposta dal dirigente preposto alla struttura competente,
previo accertamento positivo delle specifiche attività
svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività
di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo
dipendente non può superare l'importo del rispettivo
trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote
parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte
dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale
esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero
prive del predetto accertamento, costituiscono economie …
omissis …”.
Al riguardo va in primo luogo osservato che la materia degli
incentivi alla progettazione ha, in più occasioni, formato
oggetto di attività consultiva della Corte dei conti (cfr.,
fra le altre, Sezione Autonomie n. 16/2009, Sezione Campania
n. 7/2008, n. 117/2010, n. 67/2012, Sezione Veneto n.
337/2011, Sezione Piemonte n. 290/2012, Sezione Lombardia n.
425/2012 e n. 453/2012), sebbene sotto profili diversi da
quelli rappresentati dal quesito in trattazione, tuttavia,
già in tale sede sono state elaborate le coordinate
interpretative della norma recata dall’art. 92, comma 5, del
D.Lgs n. 163/2006, alle cui motivazioni e conclusioni può
farsi riferimento per l’analisi dei profili generali.
La norma va letta nel complessivo contesto delle modalità
d’affidamento degli incarichi tecnico professionali,
previste dalla legislazione in materia di contratti
pubblici. In particolare, il principio generale (già
codificato dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001),
secondo il quale i predetti incarichi possono essere
conferiti a soggetti esterni al plesso amministrativo solo
se non si disponga di professionalità adeguate nel proprio
organico, mira a preservare le finanze pubbliche oltre che a
valorizzare il personale interno alle amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi ordinarie in cui gli incarichi
tecnici sono espletati da personale interno, ai fini della
loro remunerazione, occorre far riferimento alle regole
generali previste per il pubblico impiego, il cui sistema
retributivo è conformato da due principi cardine, quello di
definizione contrattuale delle componenti economiche e
quello di onnicomprensività della retribuzione (cfr. artt.
2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001, nonché Corte dei
Conti, sezione giurisdizionale per la Puglia, sentenze nn.
464, 475 e 487 del 2010). Secondo tale orientamento
interpretativo nulla è dovuto, oltre al trattamento
economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti
collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che
rientra nei suoi doveri d’ufficio, anche se di particolare
complessità.
Tale principio ha, nel sistema delineato dal D.Lgs. 165/2001
(applicabile anche al personale degli enti locali in forza
dell’art. 1, comma 2, del medesimo decreto) vari
addentellati normativi.
Il c.d. “incentivo alla progettazione”, previsto dal
Codice dei contratti pubblici, costituisce uno di quei casi
nei quali il legislatore, derogando al principio per cui il
trattamento economico è fissato dai contratti collettivi,
attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai
regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice, previa
contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di
ripartizione.
L’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006 deroga ai principi
di onnicomprensività e determinazione contrattuale della
retribuzione del dipendente pubblico e, come tale,
costituisce un’eccezione che si presta a stretta
interpretazione e per la quale sussiste il divieto di
analogia posto dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al
codice civile (in tal senso Sezione Campania, delibera n.
7/2008).
L’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici, con atto di
regolazione n. 6 del 04/11/1999, aveva già avuto modo di
precisare come, nel caso della progettazione interna, la
prestazione dei dipendenti, in quanto riferita direttamente
all’amministrazione di appartenenza, è da considerare svolta
"ratione offici" e non "intuitu personae",
risolvendosi "in una modalità di svolgimento del rapporto di
pubblico impiego" (Cass. Civ. Sez. Un. 02.04.1998, n. 3386),
nell'ambito della cui disciplina, normativa e contrattuale,
vanno individuati i termini della relativa retribuzione.
Come evincibile dalla lettura del citato comma 5, la legge
pone alcuni paletti per l’attribuzione del predetto
incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“criteri
e modalità”) ad un regolamento interno assunto previa
contrattazione decentrata.
I punti fermi che il regolamento interno deve rispettare,
nonché quelli deducibili direttamente dalla lettera della
norma paiono essere i seguenti:
● erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi
tassativamente indicati dalla norma (responsabile del
procedimento, incaricati della redazione del progetto, del
piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, e loro collaboratori);
● riferimento all’aggiudicazione ed esecuzione “di
un’opera o un lavoro” e non, pertanto, per un appalto di
fornitura di beni o di servizi (Cfr. in senso conforme Corte
dei conti, Sezione regionale di controllo per la Campania,
deliberazione n. 67/2012);
● ammontare complessivo non superiore al due per cento
dell’importo a base di gara.
Ebbene, l’ancoramento del fondo incentivante alla base di
gara sembrerebbe significare che l’importo di riferimento
non può essere né quello oggetto del contratto, né quello
risultante dallo stato finale dei lavori, ma soprattutto
induce a ritenere non ammissibile la previsione e
l’erogazione di alcun compenso nel caso in cui l’iter della
procedura d’appalto d’opera o del lavoro non sia giunto,
quantomeno, alla fase della pubblicazione del bando o della
spedizione delle lettere d’invito, come d’altronde
espressamente contemplato dall’art. 2 comma 3 del DM
Infrastrutture n. 84 del 17/03/2008, il quale prevede che: “Gli
incentivi … omissis … sono riconosciuti soltanto quando i
relativi progetti sono posti a base di gara”.
Fermo restando che, in sede di regolamento interno, l’Ente
potrebbe subordinare l’erogazione dell’incentivo a più
stringenti presupposti, quale, a titolo esemplificativo
l’aggiudicazione dell’opera (ex multis in senso
conforme Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per
la Lombardia deliberazione n. 425/2012).
Da quanto suesposto ed in considerazione della vigente
normativa, appare evidente che la fase della pubblicazione
del bando di gara (o della spedizione delle lettere
d’invito), costituisce un posterius, rispetto al
reperimento delle risorse finanziarie idonee a garantire la
copertura contabile della spesa necessaria per la
realizzazione dell’opera progettata; d’altronde solo con
l’individuazione, acquisizione e destinazione nel bilancio
di previsione dell’Ente delle risorse finanziarie (almeno in
termini di prenotazione d’impegno di spesa ex art. 183,
comma 3, del TUEL), è possibile procedere alla redazione del
cd. “quadro economico” dell’opera (comprensivo
dell’incentivo da destinare al personale interno per la
progettazione) ed alla successiva attivazione della
procedura di gara.
In conclusione, osserva il Collegio che
non
è prospettabile il riconoscimento, né a maggior ragione la
liquidazione dell’incentivo ex art. 92, comma 5, del D.Lgs.
n. 163/2006 e s.m.i. nei confronti del personale tecnico
dipendente dall’Ente, nel caso in cui la progettazione
realizzata ha riguardato un’opera per la quale non è stato
previsto (o è venuto meno) il finanziamento da parte del
soggetto terzo e conseguentemente non è stata legittimamente
possibile l’indizione della gara d’appalto
(Corte dei Conti, Sez. controllo Campania,
parere 31.01.2013 n. 17). |
ENTI LOCALI:
Il riconoscimento del debito fuori
bilancio derivante da sentenza, a
differenza delle altre ipotesi elencate dal legislatore alle
lettere da b) ad e) dell'art. 194 dlgs 267/2000, non lascia alcun
margine di apprezzamento discrezionale all’organo
consiliare.
In altri termini, nel caso in esame, il Consiglio dell’ente
locale non deve e non può
compiere alcuna valutazione, in quanto il pagamento del
relativo debito è dovuto in base a un
titolo esecutivo prodottosi in sede giurisdizionale.
Diversamente nelle altre ipotesi l’organo assembleare gode
della discrezionalità
necessaria per valutare e riconoscere la legittimità del
debito, al fine poi di procedere al
relativo pagamento.
Pertanto, nel caso di debiti derivanti da sentenze il
riconoscimento consiliare svolge una
mera funzione ricognitiva; si tratta di una presa d’atto
finalizzata al mantenimento degli
equilibri di bilancio.
---------------
In mancanza di una disposizione che preveda una disciplina
specifica e diversa per le sentenze esecutive, analogamente
a quanto dettato per le amministrazioni statali, ai fini di
una maggiore efficienza ed efficacia dell’azione
amministrativa, se del caso con ulteriori accorgimenti
predisposti dal legislatore per salvaguardare gli equilibri
finanziari dell’ente locale, la Sezione ritiene di non
poter accogliere, allo stato attuale, un’interpretazione
estensiva dell’art. 14, comma 2, del D.L. 31.12.1996, n.
669, conv. in L. 28.02.1997, n. 30, che consenta anche agli
enti locali di procedere al pagamento prima della delibera
consiliare.
...
In particolare, il Sindaco chiede
se “sia possibile o
no procedere al pagamento delle
somme scaturenti da provvedimenti giurisdizionali esecutivi
ai sensi dell’art. 194, lett. a), del D.lgs. 267/2000 con provvedimento del Dirigente anche prima
dell’adozione della deliberazione
consiliare di presa d’atto”.
Ad avviso del Sindaco, essendo tale procedura sottratta alla
discrezionalità dell’ente
locale, si potrebbe effettuare il pagamento con un
provvedimento dirigenziale prima
dell’adozione della delibera consiliare, anche al fine di
evitare ulteriori aggravi di spese. Il
procedimento, di conseguenza, sarebbe così scandito: “a.1
adozione di Determinazione
dirigenziale da parte del Dirigente competente di
riconoscimento del debito, previa verifica
della sussistenza del titolo esecutivo;
a.2 emissione
dell'ordinativo di pagamento al Tesoriere
comunale da parte del Dirigente dell'Ufficio Economo—Finanziario;
a.3 proposta di
Deliberazione del Consiglio Comunale per la presa d'atto
della sentenza liquidata al creditore
che preveda, ai sensi dell'art. 23, comma 5, della legge
27.12.2002 n. 289, la trasmissione alla
Corte dei Conti”.
Con specifico riferimento all’oggetto della presente
pronuncia, il Collegio ritiene di poter
fornire all’amministrazione richiedente indicazioni di
principio volte a coadiuvare quest’ultima
nell’esercizio delle proprie funzioni.
Al riguardo rilevano le norme concernenti i debiti fuori
bilancio e, in primo luogo, la
lettera a) dell’art. 194 del Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali (d’ora in poi
TUEL). La disposizione stabilisce che gli enti locali, con
periodicità stabilita dai regolamenti di
contabilità degli enti medesimi ovvero almeno una volta
entro il 30 settembre di ciascun anno
(in tal senso, infatti, opera il richiamo all’art. 193,
comma 2, TUEL, ndr), riconoscono con
deliberazione consiliare la legittimità dei debiti fuori
bilancio derivanti da sentenze esecutive.
In secondo luogo, occorre ricordare l’art. 14 del D.L. 31.12.1996, n. 669, conv. in
L. 28.02.1997, n. 30 rubricato “esecuzione forzata nei
confronti di pubbliche
amministrazioni” che, al primo comma, dispone: “Le
amministrazioni dello Stato e gli enti
pubblici non economici completano le procedure per
l’esecuzione dei provvedimenti
giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia
esecutiva e comportanti l’obbligo di pagamento
di somme di denaro entro il termine di centoventi giorni
dalla notificazione del titolo esecutivo.
Prima di tale termine il creditore non può procedere ad
esecuzione forzata né alla notifica di
atto di precetto”.
Infine, non è possibile tralasciare il secondo comma della
disposizione appena citata che
afferma che “Nell'ambito delle amministrazioni dello Stato,
nei casi previsti dal comma 1, il
dirigente responsabile della spesa, in assenza di
disponibilità finanziarie nel pertinente capitolo, dispone
il pagamento mediante emissione di uno speciale ordine di
pagamento rivolto
all'istituto tesoriere, da regolare in conto sospeso. La
reintegrazione dei capitoli avviene a
carico del fondo previsto dall'articolo 7 della legge 05.08.1978, n. 468, in deroga alle
prescrizioni dell'ultimo comma. Con decreto del Ministro del
tesoro sono determinate le
modalità di emissione nonché le caratteristiche dello
speciale ordine di pagamento previsto dal
presente comma”. La norma, dunque, si riferisce
specificamente alle amministrazioni statali,
non disponendo alcunché in relazione agli enti diversi dallo
Stato.
In base ad un’interpretazione letterale risulterebbero
esclusi da tale procedura gli enti
locali. In tal senso, pur in presenza delle risorse
finanziarie necessarie, l’amministrazione locale
non potrebbe procedere al pagamento del debito derivante da
sentenza esecutiva se non prima
del riconoscimento consiliare.
Tuttavia, prima di rispondere al quesito proposto occorre
effettuare una premessa in
ordine alla natura giuridica da attribuire alla
deliberazione consiliare di riconoscimento della
legittimità dei debiti fuori bilancio nella specifica
ipotesi delle sentenze esecutive. In
particolare, bisogna accertare se il provvedimento abbia
natura autorizzatoria ovvero
meramente ricognitiva in relazione alla salvaguardia degli
equilibri generali di bilancio.
Invero, in base alle norme citate e con riferimento ai
poteri dell’organo assembleare
nell’ipotesi de qua, il riconoscimento del debito fuori
bilancio derivante da sentenza, a
differenza delle altre ipotesi elencate dal legislatore alle
lettere da b) ad e), non lascia alcun
margine di apprezzamento discrezionale all’organo
consiliare.
In altri termini, nel caso in esame, il Consiglio dell’ente
locale non deve e non può
compiere alcuna valutazione, in quanto il pagamento del
relativo debito è dovuto in base a un
titolo esecutivo prodottosi in sede giurisdizionale.
Diversamente nelle altre ipotesi l’organo assembleare gode
della discrezionalità
necessaria per valutare e riconoscere la legittimità del
debito, al fine poi di procedere al
relativo pagamento.
Pertanto, nel caso di debiti derivanti da sentenze il
riconoscimento consiliare svolge una
mera funzione ricognitiva; si tratta di una presa d’atto
finalizzata al mantenimento degli
equilibri di bilancio. In tal senso depone anche
l’interpretazione letterale dell’art. 194 TUEL che
disponendo che gli enti locali “riconoscono la legittimità
dei debiti fuori bilancio”, usa
un’espressione che non indica un provvedimento “preventivo”
a contenuto autorizzatorio,
necessario al fine di rimuovere un limite legale allo
svolgimento di una attività. Viceversa, si
tratta di un provvedimento di puro riconoscimento di debito
accostabile all’art. 1988 c.c.
secondo cui la ricognizione di debito non costituisce
autonoma fonte di obbligazione, ma ha
solo l'effetto confermativo di un preesistente rapporto
fondamentale, “venendo ad operarsi,
un'astrazione meramente processuale della "causa debendi",
comportante una semplice
"relevatio ab onere probandi" per la quale il destinatario
della promessa è dispensato
dall'onere di provare l'esistenza del rapporto fondamentale,
che si presume fino a prova
contraria, ma dalla cui esistenza o validità non può prescindersi sotto il profilo sostanziale, con il
conseguente venir meno di ogni effetto vincolante della
ricognizione di debito, ove rimanga
giudizialmente provato che il rapporto fondamentale non è
mai sorto o è invalido o si è estinto”
(cfr. in tal senso, ex multis, Cass. civ. sez. II, sent. n.
18259 del 22.08.2006; nonché
Cass. civ. sez. lav., sent. n. 17423 dell’08.08.2007).
In tale ottica, la Suprema Corte ha,
anche, ritenuto che “il riconoscimento del debito fuori
bilancio non costituisce fattispecie idonea
a produrre i medesimi effetti negoziali riconducibili alla
(sottostante, ndr) fattispecie legale"
(cfr. Cass. civ., sez. I, sent. n. 7966 del 27.03.2008).
In virtù di tale natura giuridica, secondo una certa
prospettiva, si ritiene che in tal caso
anche in ambito locale gli organi amministrativi, accertata
la sussistenza del provvedimento
giurisdizionale, possano procedere al relativo pagamento
anche prima della deliberazione
consiliare di riconoscimento. Ciò pure perché ex art. 14,
comma 2, cit., neanche l’eventuale
delibera potrebbe impedire l’avvio delle procedure esecutive
per l’adempimento coattivo del
debito (cfr. Corte dei conti, S.R. Regione Sicilia, 2/2005;
Corte dei Conti, sez. contr. Sardegna,
6/2005, cit.; Corte dei conti, sez. contr. Sardegna,
12/2006). Come, infatti, afferma il Comune
di Torre Annunziata “a differenza delle ipotesi di
riconoscimento di legittimità di debito fuori bilancio elencate dalla lett. b) alla lett. e) del richiamato
art. 194 del D.lgs. n. 267/2000, quella
prevista alla lett. a) non lascia alcuna discrezionalità
valutativa all'Organo Consiliare tanto che,
sempre secondo la normativa dello Stato (art. 14 del d.l.
31/12/1996 n. 669, convertito con
modificazioni nella legge 28/02/1997 n. 30) trascorsi 120
giorni dalla notifica del titolo esecutivo,
il creditore può azionare la procedura esecutiva forzata
(pignoramento presso terzi) previa
notifica dell'atto di precetto”.
Indubbiamente tale interpretazione ha il vantaggio di essere
coerente con i principi di
efficienza ed economicità dell’azione amministrativa e con
l’interesse della collettività alla
eliminazione di ogni superfluo esborso di denaro pubblico.
Infatti, attendere la delibera
consiliare potrebbe comportare dei costi inutili
rappresentati, in primo luogo, dagli interessi
legali e dall’eventuale rivalutazione monetaria. Inoltre,
nell’ipotesi in cui il provvedimento
consiliare non intervenga entro il termine di centoventi
giorni previsto dall’art. 14 del D.L.
669/96, a tali oneri andrebbero ad aggiungersi le spese
giudiziali derivanti dalle procedure
esecutive, con ulteriori pesi economici ricadenti sulla
collettività.
Come evidenziato dal Comune
richiedente “il procedimento amministrativo fino ad ora
attuato comporta maggiori oneri di
spesa a carico dell'Amministrazione comunale costituiti
oltre che dagli interessi e dalla
eventuale rivalutazione monetaria, anche delle spese
giudiziali derivanti dalle procedure
esecutive di pignoramento presso terzi eventualmente
azionate dai creditori qualora il
riconoscimento del debito venga effettuato oltre i 120
giorni previsti dal più volte richiamato
art. 14 del d. I. 31/12/1996 n. 669, convertito con
modificazioni nella legge 28/02/1997 n. 30 e ss.mm.ii.”
In virtù di tali considerazioni risulta evidente come il
legislatore avrebbe dovuto
disciplinare a parte il caso in esame, anche ai fini di una
parità di trattamento, ex art. 3 Cost.,
tra i creditori delle amministrazioni statali, tutelati dal
comma 2 dell’art. 14 cit., che, come detto, dispone la
possibilità del pagamento del debito fuori bilancio mediante
emissione di uno
speciale ordine di pagamento rivolto al tesoriere, ed i
creditori degli enti locali, ove tale
procedura non è prevista. Ciò, in quanto, se, da un lato,
può riscontrarsi un elemento
unificante fra tutte le ipotesi previste dall’art. 194 TUEL,
consistente nella circostanza che il
debito nasce al di fuori e indipendentemente dalle ordinarie
procedure riguardanti la
formazione della volontà dell’ente, dall’altro e per contro,
la natura dei diversi casi di debito
non è assolutamente unitaria. Nell’ipotesi in esame, come
visto, a differenza delle altre, il
debito si impone all’ente ex se, in base alla forza
imperativa della sentenza (in tal senso cfr.
Corte dei Conti, sez. contr. Friuli Venezia Giulia, n.
6/1c/2005), non residuando in capo all’ente
alcun margine di discrezionalità circa l’an e il quantum del
debito, stabiliti già dal
provvedimento giurisdizionale (cfr. Corte dei Conti, sez.
contr. Puglia, n. 9/2012).
Tuttavia, la Sezione ritiene di dover condividere una
diversa interpretazione secondo cui
nel caso in esame alla luce dell’imperatività del
provvedimento giudiziale il significato della
delibera del Consiglio non è quello di riconoscere una
legittimità del debito che già è stata
verificata, ma di ricondurre “al sistema di bilancio un
fenomeno di rilevanza finanziaria che è
maturato all’esterno di esso”, così come previsto al punto
101 dal principio contabile n. 2 nella
versione redatta dall’Osservatorio per la Finanza e la
Contabilità degli Enti locali in data
12/03/2008 (cfr. in tal senso Corte dei Conti, sez. contr.
Puglia, 93/2010). La delibera
consiliare è necessaria, quindi, al fine di individuare la
fonte di finanziamento in ottemperanza
all’obbligo di copertura finanziaria gravante sui
provvedimenti di spesa ex art. 191 TUEL. La
norma da ultimo citata, infatti, disciplina le “regole per
l’assunzione di impegni e per
l’effettuazione di spese”, imponendo dei “meccanismi di
natura tecnico-contabile per evitare il
formarsi di debiti fuori bilancio e per garantire
l’equilibrio tra le entrate e le spese.
Sinteticamente: le spese possono essere effettuate solo se
vi è stata l’assunzione dell’impegno
contabile e l’attestazione della copertura finanziaria” (in
tali termini si esprime Corte dei Conti,
sez. contr. Campania, 22/2009). Ogni spesa può essere
effettuata solo in presenza di una
regolare assunzione di atto di impegno registrato, e purché
vi sia la relativa copertura
finanziaria negli stanziamenti di bilancio, in modo da
contenere appunto il fenomeno dei debiti
fuori bilancio (Corte dei Conti, sez. contr. Emilia Romagna,
311/2012). In tale prospettiva,
l’art. 194, primo comma, TUEL rappresenta un’eccezione ai
principi riguardanti la necessità del
preventivo impegno formale e della copertura finanziaria;
onde per riportare le ipotesi previste
nei principi di copertura finanziaria è, dunque, richiesta
la delibera consiliare.
In tal senso, con
il provvedimento consiliare viene ripristinata la fisiologia
della fase della spesa e i debiti de quibus vengono ricondotti al sistema (in tal senso vd.
Corte dei Conti, sez. contr. Friuli Venezia Giulia,
6/1c/2005, cit.) con l’adozione dei
necessari provvedimenti di riequilibrio finanziario.
Inoltre, la delibera consiliare svolge anche il
ruolo di accertamento delle cause che
hanno originato l’obbligo, con le consequenziali ed
eventuali responsabilità. Del resto, questa
funzione di accertamento è rafforzata dalla previsione
dell’invio agli organi di controllo e alla Procura regionale
della Corte dei conti (art. 23, comma 5, L. 289/2002)
delle
delibere in esame (in tal senso, cfr. Corte dei conti, sez. contr. Lombardia,
1/2007).
Nell’ottica delineata, la delibera consiliare svolge una
duplice funzione: da un lato, giuscontabilistica, per la salvaguardia degli equilibri di
bilancio; dall’altro garantista, per
l’accertamento delle responsabilità nella fattispecie in
esame (cfr. Corte dei conti, sez. contr.
Lombardia, 1/2007, cit.; Corte dei conti, sez. contr. Emilia
Romagna, 20/2007; Corte dei conti,
sez. contr. Lombardia, 401/2012).
In base alle considerazioni esposte, ad avviso del Collegio,
sussiste, nel caso di
sentenza esecutiva, l’obbligo di procedere con tempestività
alla convocazione del Consiglio per
il riconoscimento del debito, in modo da impedire il
maturare di interessi, rivalutazione
monetaria ed ulteriori spese legali. Come infatti previsto
anche dal punto 103 del principio
contabile n. 2 cit. “Nel caso di sentenza esecutiva al fine
di evitare il verificarsi di conseguenze
dannose per l’ente per il mancato pagamento nei termini
previsti decorrenti dalla notifica del
titolo esecutivo, la convocazione del Consiglio per
l’adozione delle misure di riequilibrio deve
essere disposta immediatamente e in ogni caso in tempo utile
per effettuare il pagamento nei
termini di legge ed evitare la maturazione di oneri
ulteriori a carico del bilancio dell’ente”.
Diversamente, si potrebbero prospettare evidenti e
consequenziali profili di responsabilità, nel
caso di tempi di attesa troppo lunghi, in particolare se in
prossimità dello scadere ovvero oltre
il periodo di salvaguardia previsto per le Pubbliche
Amministrazioni (120 giorni) ex art. 14
comma 1, cit..
Pertanto, alla luce dell’attuale normativa, non è consentito
all’ente locale discostarsi
dalle prescrizioni letterali dell’art. 194 TUEL.
In mancanza
di una disposizione che preveda una
disciplina specifica e diversa per le sentenze esecutive,
analogamente a quanto dettato per le
amministrazioni statali, ai fini di una maggiore efficienza
ed efficacia dell’azione
amministrativa, se del caso con ulteriori accorgimenti
predisposti dal legislatore per
salvaguardare gli equilibri finanziari dell’ente locale, la
Sezione ritiene di non poter accogliere,
allo stato attuale, un’interpretazione estensiva dell’art.
14, comma 2, cit. che consenta anche
agli enti locali di procedere al pagamento prima della
delibera consiliare.
Ora, posto questo ragionamento in via di principio, occorre
notare che per la Regione
Campania sussiste una particolare disciplina. Il legislatore
regionale, nella sua riconosciuta
autonomia legislativa ex artt. 117, 121 e 127 Cost., ha
infatti imposto un termine perentorio
alla convocazione del Consiglio regionale nel caso in esame.
In tal senso, l’art. 47, comma 5, della legge regionale 30.04.2002, n. 7
(Ordinamento contabile della regione Campania, pubblicata
nel B.U. Campania 06.05.2002,
n. 23), stabilisce che “al riconoscimento della legittimità
dei debiti fuori bilancio di cui al
comma a), il Consiglio regionale provvede entro sessanta
giorni dalla ricezione della relativa
proposta”.
Proprio al fine di evitare ulteriori danni a carico
dell’Ente, in caso di difficoltà o di ritardi
nella convocazione del Consiglio regionale, la Regione si è
autovincolata, in relazione ai termini
di convocazione.
La natura perentoria di tale termine si deduce nel prosieguo
della norma secondo cui
“Decorso inutilmente tale termine, la legittimità di detto
debito si intende riconosciuta”. In caso
di inadempimento all’obbligo di convocazione tempestiva,
pertanto, è prevista un’ipotesi di
silenzio significativo. Naturalmente, in tal caso, non solo
sarà necessaria una successiva
delibera con cui indicare la copertura finanziaria, ma
dall’eventuale formazione del
provvedimento in via significativa potrebbero derivare
eventuali profili di responsabilità.
Nella prospettiva delineata, la possibilità di agire in
virtù di una delibera formatasi
“silenziosamente”, prevista quale eccezione e sanzione
all’inottemperanza del Consiglio,
rappresenta la conferma della correttezza dell’impostazione
proposta e cioè della necessità
della previa delibera consiliare.
Tale impostazione non muta neanche qualora vi sia già una
disponibilità finanziaria sui
pertinenti capitoli di competenza del bilancio. Secondo la
Sezione anche nel caso di una
preesistente copertura finanziaria non viene meno la
necessità dell’attivazione della procedura
consiliare di riconoscimento. Indubbiamente, sarebbe
opportuno che l’ente valuti previamente
in base alle circostanze ed alle diverse fattispecie, se
effettuare un accantonamento in vista di
una probabile soccombenza giudiziale al fine di evitare o
neutralizzare gli effetti sfavorevoli
della sentenza sugli equilibri di bilancio; ma la presenza
di uno specifico fondo non
consentirebbe comunque all’ente di omettere la delibera di
riconoscimento, in quanto in tal
modo si vanificherebbe la disciplina di garanzia prevista
dall’ordinamento (cfr. in tal senso
Corte dei conti, sez. contr. Lombardia, 1/2007, cit.).
A tal proposito, risulta utile evidenziare che l’impatto sul
bilancio può essere minore se
nel bilancio viene previsto uno specifico fondo per la
copertura di spese giudiziali in caso di
soccombenza, perché si potrà fronteggiare il pagamento del
debito utilizzando quanto già
destinato a tale scopo. Diversamente, con la delibera
consiliare dovranno essere indicate quali
risorse utilizzare; il che potrebbe comportare evidenti
ricadute sulla collettività, in quanto
presumibilmente l’ente potrebbe trovarsi costretto ad
aumentare le entrate ovvero a diminuire
spese già previste (cfr. in tal senso Corte dei Conti, sez.
contr. Lombardia, 483/2011).
Un problema particolare potrebbe porsi nel caso di appello
della sentenza da parte del
Comune. Anzi, come precisato dal punto 102 del citato
principio contabile n. 2: “Il
riconoscimento della legittimità del debito fuori bilancio
derivante da sentenza esecutiva non
costituisce acquiescenza alla stessa e pertanto non esclude
l’ammissibilità dell’impugnazione. Il
medesimo riconoscimento, pertanto, deve essere accompagnato
dalla riserva di ulteriori
impugnazioni ove possibili e opportune”.
La questione si pone, in particolare, in quanto a seguito
della modifica apportata all’art.
282 c.p.c. dalla L. 353/1990, le sentenze di primo grado sono
provvisoriamente esecutive tra le
parti (tant’è che l’art. 194, lett. a), TUEL non ha riproposto
l’analoga disposizione contenuta nell’art. 37, lett. a), d.lgs.
25.02.1995, n. 77 che faceva riferimento a “sentenze
passate in
giudicato o sentenze immediatamente esecutive”).
La Sezione ritiene, in tal caso, opportuno precisare che se
il Giudice di Appello
sospendesse in via cautelare l’esecutività della sentenza,
con il conseguente venire meno
dell’obbligo di provvedere al riconoscimento del debito da
parte del Consiglio, l’ente potrebbe
accantonare in via prudenziale e nel rispetto dei principi
di una sana e corretta gestione
finanziaria, idonee risorse atte a garantire la copertura
del debito in caso di eventuale
soccombenza (Corte dei Conti, Sez. controllo Campania,
parere 31.01.2013 n. 15). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Personale. Le economie possono trasformarsi in bonus.
Piano taglia-spese, risparmi al fondo risorse decentrate.
I VINCOLI/
Sono ammessi solo gli enti virtuosi che hanno già provveduto
a ridurre i costi dell'organico.
Le economie dei piani di razionalizzazione che incrementano
il fondo delle risorse decentrate sono fuori dal tetto
previsto dall'articolo 9, comma 2-bis, del Dl 78/2012.
La
Sezione Autonomie della Corte dei Conti, con la
deliberazione 21.01.2013 n. 2/2013, sancisce che gli emolumenti eventualmente destinati
al personale dipendente per le attività aggiuntive rispetto
ai normali carichi di lavoro non rientrano tra le voci da
considerare per il confronto con il 2010 per il trattamento
accessorio complessivo.
La questione è attuale, in quanto l'articolo 16, commi 4 e
5, del Dl 98/2011, indica la data del 31 marzo di ciascun
anno come il momento in cui le Pa possono predisporre piani
triennali di razionalizzazione e riqualificazione della
spesa, di ristrutturazione amministrativa, di
semplificazione e digitalizzazione, di riduzione dei costi
della politica e di funzionamento, compresi gli appalti di
servizio, gli affidamenti e il ricorso alle consulenze
attraverso persone giuridiche. Le eventuali economie
realizzate possono essere destinate alla contrattazione
integrativa decentrata per un importo massimo del 50 per
cento.
Di queste somme, che confluiscono quindi nel fondo, il 50%
va poi erogato con il sistema delle fasce di merito, mentre
la parte rimanente è lasciata alla contrattazione.
Non vi è alcun obbligo da parte delle amministrazioni né di
procedere in tal senso e neppure di destinare tutto il 50%
dei risparmi al salario accessorio. Va però rilevato che
l'occasione può essere "appetibile" in quanto i fondi sono
bloccati rispetto al 2010. La deroga ora avallata dalla
Sezione Autonomie permette di premiare il personale
coinvolto nelle riduzioni di spesa.
Questo non significa, però, che le cose vadano prese alla
leggera. L'ente, per poter incrementare il fondo, deve
essere in possesso di tutti i parametri di virtuosità
richiamati dall'articolo 40 del Dlgs 165/2001: rispetto del
patto di stabilità, riduzione delle spese di personale in
valore assoluto, rapporto tra spese di personale e spese
correnti inferiori al 50 per cento.
Inoltre, per predisporre i piani di razionalizzazione e
soprattutto per rendere disponibili le somme a favore dei
dipendenti, è necessario un deciso rigore nel predisporre un
sistema di controllo al fine della verifica delle economie
realizzate più basato sui principi di contabilità economica
che finanziaria.
Ora che la Sezione Autonomie ha confermato quanto già in
precedenza affermato dalle Sezioni del Veneto (delibera
513/2012), Emilia Romagna (398/2012), Piemonte (313/2012) e
dalla Ragioneria, si può intraprendere serenamente questa
strada, ma è vietato sbagliare. Gli obiettivi devono essere
oggettivi, i dati reali, il risultato finale certificato da
un organo di revisione e l'apporto lavorativo dei dipendenti
altamente misurabile con valori certi e concreti (articolo Il Sole 24 Ore
del 04.02.2013 - tratto da www.corteconti.it). |
TRIBUTI:
Corte dei conti. Il bonus non trova spazio nei regolamenti.
Imu, niente incentivi contro l'evasione.
IL CONFRONTO CON L'ICI/
Non è stato riprodotto il meccanismo della vecchia imposta
con i premi per chi recupera somme non versate.
In mancanza di una legge che disciplini la materia come
accadeva per l'Ici, non è possibile per i regolamenti
comunali riconoscere gli incentivi al personale per la lotta
all'evasione Imu.
A dirlo è la Corte dei Conti del Veneto,
Sez. controllo, nel
parere 16.01.2013 n. 22.
A vietarlo, secondo la Corte, è prima di tutto il principio
di onnicomprensività, che trova fondamento nel l'articolo 2,
commi 3 e 24, del Dlgs 165/2001 per i dirigenti e
nell'articolo 45 per i dipendenti.
In virtù di questo principio, nulla è dovuto, oltre al
trattamento economico fondamentale e accessorio stabilito
dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una
prestazione che rientra nei suoi doveri d'ufficio.
Solo la legge può derogare all'omnicomprensività, prevedendo
ulteriori specifici compensi o addirittura la possibilità di
una diversa strutturazione del trattamento economico, sia
sul piano qualitativo sia su quello quantitativo.
La Corte inoltre, facendo il parallelo con la ben diversa
disciplina in materia di Ici, evidenzia che in assenza di
una specifica disposizione di legge, il Comune non è
autorizzato a prevedere compensi incentivanti per gli
accertamenti Imu in favore del personale dipendente. Per
l'Ici, infatti, la previsione era contenuta nell'articolo 58
del Dlgs 446/1997.
Tale facoltà era poi stata confermata nel d.l. 201/2011.
Tuttavia con la legge 44/2012, di conversione del decreto
legge n. 16/2012, è stata eliminata l'estensione della
disciplina (e il riferimento legislativo) contenuta
originariamente nel Dlgs 23/2011, stralciando il richiamo
all'articolo 59 citato: di conseguenza la previsione
derogatoria –afferente quindi i soli compensi Ici- deve
essere considerata di stretta interpretazione, come
affermato dalla giurisprudenza della stessa Corte, che ha
escluso l'utilizzo dello strumento regolamentare per erogare
compensi incentivanti per le entrate locali diverse dall'Ici
(Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la
Lombardia, deliberazione 577/2011 del 10.11.2011), o,
per l'attività di recupero dei tributi erariali (Corte dei
Conti, sezione regionale di controllo per la Sardegna,
deliberazione 127/2011 del 21.12.2011).
Argomenti favorevoli non possono essere tratti dall'articolo
52 del Dlgs 446/1997 e della potestà regolamentare generale
per introdurre nel regolamento Imu una disposizione sugli
incentivi al personale.
In conclusione nessun incentivo Imu per il personale addetto
alla riscossione che cosi perde un beneficio presente nella
disciplina Ici anche se a ben vedere la finalità ossia
incentivare il personale al recupero dell'evasione
nell'interesse dell'ente rimane comune alle due imposte (articolo Il Sole 24 Ore
del 04.02.2013 - tratto da www.corteconti.it). |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA PRIVATA:
Comune di Formia - Parere in merito all'applicazione della
legge regionale 21/2009 in aree sottoposte al vincolo
paesaggistico delle fasce di rispetto dei territori costieri
e in zona B di P.R.G. antecedente al 06.09.1985 (art. 142 D.Lgs. n. 42/2004) (Regione Lazio,
parere 06.02.2013 n.
3942 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Comune di Arnara - Parere in merito al rilascio dei
certificati di destinazione urbanistica nel periodo di
coesistenza tra disposizioni urbanistiche approvate e
disposizioni urbanistiche adottate (Regione
Lazio,
parere
06.02.2013 n. 340076 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Comune di Monte Compatri - Parere in merito all'acquisizione
al patrimonio comunale, ai sensi dell'art. 15, comma 5,
della legge regionale 15/2008, dell'opera abusiva e della
relativa area di sedime nel caso di enfiteusi (Regione
Lazio,
parere 06.02.2013 n.
384739 di prot.). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Autorizzazione allo svolgimento
di attività nei confronti di terzi.
L'INPS ha precisato (cfr. circolare n.
88/2009), in merito alla possibilità dei dipendenti pubblici
di svolgere lavoro occasionale di tipo accessorio, che in
tal caso trova applicazione l'art. 53 del d.lgs. n. 165/2001
che prevede la richiesta di autorizzazione, da parte dello
stesso dipendente o dei soggetti sia pubblici che privati
che intendono avvalersi delle prestazioni,
all'amministrazione di appartenenza per lo svolgimento di
tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei
compiti e doveri d'ufficio, per i quali è previsto, sotto
qualsiasi forma, un compenso.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di
autorizzare un dipendente, con la qualifica di capo operaio
con funzioni di coordinamento della squadra addetta alla
manutenzione del patrimonio comunale e del verde pubblico, a
svolgere attività a favore di soggetti privati per
l'esecuzione di piccoli lavori di pulizia e giardinaggio
pagati a mezzo voucher. L'interessato dichiara trattarsi di
attività occasionali da svolgersi al di fuori dell'orario di
lavoro, senza pregiudicare, pertanto, il corretto e puntuale
adempimento delle mansioni rivestite presso
l'amministrazione di appartenenza, non ponendosi detta
attività in contrasto o conflitto di interesse con le
medesime.
Preliminarmente si osserva che, come precisato dall'INPS
[1], in merito alla possibilità dei dipendenti pubblici di
svolgere lavoro occasionale di tipo accessorio, per i
medesimi trova applicazione l'art. 53 del d.lgs. 165/2001,
in tema di incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi,
che prevede la richiesta di autorizzazione, da parte di
soggetti sia pubblici che privati, all'amministrazione di
appartenenza per lo svolgimento di 'tutti gli incarichi,
anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di
ufficio, per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un
compenso'.
Ai sensi di quanto disposto dal comma 10 dell'art. 53 citato
-continua l'INPS- la richiesta di autorizzazione può essere
effettuata da parte dello stesso dipendente o dei soggetti
pubblici e privati che intendono avvalersi delle prestazioni
di lavoro occasionale.
Premesso un tanto, si evidenzia che l'art. 1, comma 42,
della l. 190/2012 ha recentemente modificato il contenuto di
alcuni commi dell'art. 53 di cui si discute.
Si evidenzia che il comma 7 del citato articolo prevede che
i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi che non
siano stati conferiti o previamente autorizzati
dall'amministrazione di appartenenza, precisando che, ai
fini dell'autorizzazione, l'amministrazione verifica
l'insussistenza di situazioni, anche potenziali, di
conflitto d'interessi.
Il comma 9 inoltre dispone che i soggetti privati non
possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti pubblici
senza la previa autorizzazione dell'amministrazione di
appartenenza dei dipendenti stessi, previa verifica
dell'insussistenza di situazioni, anche potenziali di
conflitto di interessi.
Il comma 5 dell'articolo in esame recita testualmente: 'In
ogni caso, il conferimento operato direttamente
dall'amministrazione, nonché l'autorizzazione all'esercizio
di incarichi che provengano da amministrazione pubblica
diversa da quella di appartenenza, ovvero da società o
persone fisiche, che svolgono attività d'impresa o
commerciale, sono disposti dai rispettivi organi competenti
secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano
conto della specifica professionalità, tali da escludere
casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto,
nell'interesse del buon andamento della pubblica
amministrazione o situazioni di conflitto, anche potenziale,
di interessi, che pregiudichino l'esercizio imparziale delle
funzioni attribuite al dipendente'.
E' da notare come le citate disposizioni nell'attuale
formulazione escludano espressamente l'autorizzazione a
svolgere attività esterna, con incarico extraistituzionale,
qualora detta situazione lavorativa possa comportare, anche
potenzialmente, l'insorgere di un conflitto d'interessi.
Si richiama, pertanto, l'attenzione dell'Ente sul fatto che
le citate disposizioni, come novellate, impongono alle
amministrazioni di appartenenza un'attenta valutazione delle
situazioni relative all'autorizzazione di incarichi esterni
ai propri dipendenti.
Qualora l'amministrazione di appartenenza dovesse verificare
che lo svolgimento dell'attività extra richiesta rispetta
tutte le condizioni e i presupposti di legge, non
sussisteranno motivi ostativi al rilascio della relativa
autorizzazione.
---------------
[1] Cfr. circolare n. 88 del 09.07.2009, punto 3.
Committenti (06.02.2013 - link a
www.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI:
Locazioni passive. Applicazione agli enti locali del D.L. n.
95/2012.
L'art. 3, comma 1, D.L. n. 95/2012, che
stabilisce il blocco degli adeguamenti ISTAT sui canoni
pagati dalle amministrazioni pubbliche per gli immobili in
affitto a far data dalla sua entrata in vigore (07.07.2012)
e per gli anni 2012, 2013 e 2014, trova applicazione anche
alle locazioni passive degli enti locali.
Non si applica, invece, agli enti locali, essendo
espressamente riferito alle Amministrazioni centrali, l'art.
3, comma 4, che stabilisce un'ulteriore misura di
contenimento della spesa pubblica consistente nella
riduzione dei canoni del 15% di quanto attualmente in
essere, dal primo gennaio 2015 e, comunque, a decorrere dal
15.08.2012, per i contratti di locazione scaduti o rinnovati
dopo tale data, salvo il diritto di recesso garantito al
locatore.
Il Comune, premesso di aver stipulato, in qualità di
conduttore, un contratto di locazione con la Parrocchia
avente ad oggetto i locali, di proprietà di quest'ultima,
come sede per la scuola materna statale, chiede come
comportarsi in merito alla formale disdetta comunicata dalla
Parrocchia con proposta di rinnovo ad un canone più alto. Il
Comune chiede, in particolare, se trovino applicazione le
disposizioni di contenimento della spesa pubblica dettate
dal D.L. n. 95/2012 [1] (Spending review), in materia
di locazioni passive, riferite alla sospensione degli
adeguamenti ISTAT e alla riduzione dei canoni del 15%.
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione
centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
L'art. 3, comma 1, D.L. n. 95/2012, stabilisce, in
considerazione dell'eccezionalità della situazione economica
e tenuto conto delle esigenze prioritarie degli obiettivi di
contenimento della spesa pubblica, il blocco degli
adeguamenti ISTAT sui canoni pagati dalle amministrazioni
pubbliche, ivi previste, per gli immobili in affitto a far
data dalla sua entrata in vigore (07.07.2012) e per gli anni
2012, 2013 e 2014.
In particolare, la misura di contenimento della spesa di cui
all'art. 3, D.L. n. 95/2012, riguarda specificamente le
amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato della pubblica amministrazione, come individuate
dall'Istituto nazionale di statistica ai sensi dell'art. 1,
comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196.
Ai sensi dell'art. 1, comma 3, richiamato, la ricognizione
delle amministrazioni pubbliche ai fini della applicazione
delle disposizioni in materia di finanza pubblica è operata
annualmente dall'ISTAT con proprio provvedimento pubblicato
annualmente in Gazzetta Ufficiale.
Al riguardo, viene, da ultimo, in considerazione l'elenco di
cui al Comunicato 28.09.2012 [2], comprendente, per quanto
qui di interesse, le Amministrazioni locali (tra cui, le
Regioni e province autonome, le Province, i Comuni, le
Comunità montante e le Unioni di Comuni).
Si può dunque, affermare, l'applicabilità della misura di
contenimento di cui all'art. 3, comma 1, D.L. n.95/2012,
relativa alla sospensione degli adeguamenti ISTAT, anche
alle locazioni passive degli enti locali [3].
L'art. 3, statuisce, inoltre, al comma 4, ai fini del
contenimento della spesa pubblica, l'ulteriore misura della
riduzione dei canoni pagati dalle amministrazioni pubbliche,
ivi previste, del 15% di quanto attualmente in essere, dal
primo gennaio 2015, salvo il diritto di recesso garantito al
locatore. La norma prevede, poi, che a decorrere dal
15.08.2012 [4] la riduzione del 15% si applica comunque ai
contratti di locazione scaduti o rinnovati dopo tale data.
Specificamente, l'art. 3, comma 4, identifica le
amministrazioni pubbliche coinvolte dalla misura di
contenimento della spesa indicando le Amministrazioni
centrali inserite nel conto economico consolidato della
pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto
nazionale di statistica ai sensi dell'art. 1, comma 3, della
legge 31.12.2009, n. 196, nonché le Autorità indipendenti
ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la
borsa (Consob).
Per quanto concerne il quesito posto dall'Ente circa
l'applicazione o meno del suddetto art. 3, comma 4, agli
enti locali [5], si segnala il parere della Corte dei Conti,
sezione di controllo per la Regione Lazio, n. 3 del
10.01.2013, in ordine ad una richiesta proveniente da un
sindaco e concernente l'applicazione o meno agli enti locali
delle disposizioni di cui all'art.3, commi 4, 5 e 6, D.L. n.
95/2012.
In particolare, il Giudice contabile circoscrive
l'attenzione sul comma 6 [6], il quale, osserva, è
espressamente dettato per le Amministrazioni richiamate dal
comma 4, che si riferisce alle 'Amministrazioni centrali
come individuate dall'ISTAT ai sensi dell'art. 1, comma 3,
della legge 31.12.2009, n. 196'. Per cui, prosegue, il
Giudice contabile, non rientrando i Comuni tra le
Amministrazioni centrali, è da ritenere che la disposizione
di cui al comma 6 non possa ad essi applicarsi. Analoga
considerazione, si ritiene possa farsi per la previsione di
cui all'art. 3, comma 4, riferita alle Amministrazioni
centrali.
---------------
[1] D.L. 06.07.2012, n. 95, recante: 'Disposizioni
urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza
dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento
patrimoniale delle imprese del settore bancario',
convertito, con modificazioni, dalla L. 07.08.2012, n. 135.
[2] ISTAT, Comunicato 28.09.2012, recante: 'Elenco delle
amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato individuate ai sensi dell'articolo 1, comma 3,
della legge 31.12.2009, n. 196 (Legge di contabilità e di
finanza pubblica)'.
[3] In tal senso si esprime la Relazione tecnica al DL n.
95/2012 ed altresì l'ANCI nella nota di lettura dell'art. 3,
D.L. n. 95/2012.
[4] La data è quella dell'entrata in vigore della legge n.
135/2012 di conversione del D.L. n. 95/2012.
[5] L'Ente si pone il dubbio argomentando dalla previsione
di cui all'art. 3, comma 7, D.L. n. 95/2012, il quale
prevede espressamente che le disposizioni di cui al comma 4
non si applicano in via diretta alle regioni e province
autonome e agli enti del servizio sanitario nazionale, per i
quali costituiscono disposizioni di principio ai fini del
coordinamento della finanza pubblica e non esclude invece
dall'applicazione diretta gli enti locali.
[6] Il comma 6 dispone che ai contratti di locazione
passiva, aventi ad oggetto immobili ad uso istituzionale di
proprietà di terzi, di nuova stipulazione a cura delle
Amministrazioni di cui al comma 4, si applica la riduzione
del 15% sul canone congruito dall'Agenzia del demanio, ferma
restando la permanenza dei fabbisogni espressi ai sensi
dell'art. 2, comma 222, della legge 23 dicembre 2009, n.
191, nell'ambito dei piani di razionalizzazione ove già
definiti nonché in quelli di riorganizzazione e accorpamento
delle strutture previste dalle norme vigenti (05.02.2013
- link a www.regione.fvg.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Pubblica amministrazione.
Domanda
Di chi è la competenza a giudicare sulla mancata
applicazione dello «scorrimento» ai fini delle assunzioni
nella pubblica amministrazione?
Risposta
Il cosiddetto «scorrimento» della graduatoria approvata
all'esito della procedura concorsuale, consente la
stipulazione del contratto di lavoro con partecipanti
risultati idonei e non vincitori, in forza di eventi
successivi alla definizione del procedimento concorsuale con
l'approvazione della graduatoria.
Ciò può avvenire o in
applicazione di specifiche previsioni del bando,
contemplanti l'ammissione alla stipulazione del contratto
del lavoro degli idonei fino a esaurimento dei posti messi a
concorso; ovvero perché viene conservata (per disposizione
di atti normativi o del bando) l'efficacia della graduatoria
ai fini dell'assunzione degli idonei in relazione a posti
resisi vacanti e disponibili entro un determinato periodo di
tempo.
La pretesa allo «scorrimento», di conseguenza, si
colloca di per sé fuori dall'ambito della procedura
concorsuale (esclusa, nella seconda delle ipotesi indicate,
proprio dall'ultrattività della graduatoria approvata) ed è
conosciuta dal giudice ordinario quale controversia inerente
al «diritto all'assunzione», salva la verifica del
fondamento di merito della domanda, esulante dall'ambito
delle questioni di giurisdizione (articolo ItaliaOggi Sette
del 04.02.2013). |
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI:
Mobbing.
Domanda
Quali sono le caratteristiche del mobbing?
Risposta
Il mobbing è costituito da un complesso fenomeno consistente
in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti
nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da
parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito
o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione
ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di
escludere la vittima dal gruppo.
Ai fini della
configurabilità del mobbing lavorativo devono quindi
ricorrere molteplici elementi:
a) una serie di comportamenti
di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se
considerati singolarmente, che, con intento vessatorio,
siano stati posti in essere contro la vittima in modo
miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente
da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche
da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo
dei primi;
b) l'evento lesivo della salute, della
personalità o della dignità del dipendente;
c) il nesso
eziologico tra le condotte e il pregiudizio subito dalla
vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella
propria dignità;
d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento
persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.
Alla base della responsabilità per mobbing lavorativo si
pone normalmente l'art. 2087 cod. civ., che obbliga il
datore di lavoro ad adottare le misure necessarie a tutela
l'integrità psico-fisica e la personalità morale del
lavoratore, per garantirne la salute, la dignità e i diritti
fondamentali, di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost.
D'altra
parte, come risulta dalla stessa definizione del fenomeno,
se anche le diverse condotte denunciate dal lavoratore non
si ricompongono in un unicum e non risultano, pertanto,
complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare
l'equilibrio psico-fisico del lavoratore o a mortificare la
sua dignità, ciò non esclude che tali condotte o alcune di
esse, ancorché finalisticamente non accomunate, possano
risultare, se esaminate separatamente e distintamente,
lesive dei fondamentali diritti del lavoratore,
costituzionalmente tutelati (articolo ItaliaOggi Sette
del 04.02.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Autorizzazione allo svolgimento
di incarico esterno.
L'art. 53, comma 5, del d.lgs. 165/2001
dispone che l'autorizzazione all'esercizio di incarichi che
provengano da amministrazione pubblica diversa da quella di
appartenenza, ovvero da società o persone fisiche, che
svolgono attività d'impresa o commerciale, sono disposti dai
rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e
predeterminati, che tengano conto della specifica
professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità,
sia di diritto che di fatto, nell'interesse del buon
andamento della pubblica amministrazione o situazioni di
conflitto, anche potenziale, di interessi, che pregiudichino
l'esercizio imparziale delle funzioni attribuite al
dipendente.
L'Ente ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di
autorizzare un dipendente, 'Ingegnere coordinatore del
Servizio Motorizzazione Civile', a svolgere un incarico
di docenza presso una autoscuola, rivolto agli insegnanti ed
agli istruttori della autoscuola stessa. Si precisa che il
suddetto incarico, di natura occasionale, viene svolto al di
fuori dell'orario di servizio ed è retribuito.
L'Amministrazione si è posta la questione relativa
all'insorgere di un'eventuale incompatibilità, considerato
che le funzioni svolte dall'interessato nell'ambito del
Settore Motorizzazione Civile comportano di fatto che il
medesimo soggetto esplichi attività di esaminatore nelle
sessioni di patente di guida.
Preliminarmente si osserva che l'art. 1, comma 42, della l.
190/2012 ha recentemente modificato il contenuto di alcuni
commi dell'art. 53, del d.lgs. n. 165/2001, che detta una
specifica disciplina in ordine al regime di incompatibilità,
cumulo di impieghi e incarichi per i dipendenti delle
pubbliche amministrazioni.
In particolare, è stato riscritto il comma 5 del predetto
articolo, che recita testualmente: 'In ogni caso, il
conferimento operato direttamente dall'amministrazione,
nonché l'autorizzazione all'esercizio di incarichi che
provengano da amministrazione pubblica diversa da quella di
appartenenza, ovvero da società o persone fisiche, che
svolgono attività d'impresa o commerciale, sono disposti dai
rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e
predeterminati, che tengano conto della specifica
professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità,
sia di diritto che di fatto, nell'interesse del buon
andamento della pubblica amministrazione o situazioni di
conflitto, anche potenziale, di interessi, che pregiudichino
l'esercizio imparziale delle funzioni attribuite al
dipendente'.
Inoltre, il successivo comma 7 dell'articolo in esame
ribadisce che i dipendenti pubblici non possono svolgere
incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o
previamente autorizzati dall'amministrazione di
appartenenza. Ai fini dell'autorizzazione, l'amministrazione
verifica l'insussistenza di situazioni, anche potenziali, di
conflitto di interessi.
E' da notare come le citate disposizioni nell'attuale
formulazione non si riferiscano solo genericamente, come in
precedenza, a casi di incompatibilità, sia di diritto che di
fatto, ma escludano espressamente l'autorizzazione a
svolgere attività esterna, con incarico extraistituzionale,
qualora detta situazione lavorativa possa comportare, anche
potenzialmente, l'insorgere di un conflitto d'interessi.
Premesso un tanto, si richiama l'attenzione dell'Ente sul
fatto che le citate disposizioni, come novellate, impongono
alle amministrazioni di appartenenza un'attenta valutazione
delle situazioni relative all'autorizzazione di incarichi
esterni ai propri dipendenti, ciò comportando non solo
l'assunzione di una specifica responsabilità da parte del
soggetto che procede al rilascio della stessa
autorizzazione, ma anche, in caso di inadempimento o
violazione delle norme vigenti, la comminazione di pesanti
sanzioni.
Come peraltro rappresentato dall'ANCI [1], non è agevole, in
astratto, esprimere un parere sul conflitto di interesse
delle fattispecie rappresentate dai rispettivi enti locali.
Infatti, il conflitto di interesse deve essere verificato,
nel concreto, dal singolo ente, in base agli elementi di
giudizio e valutazione in suo possesso.
A tal proposito si osserva che gli enti sono tenuti
innanzitutto a disciplinare con proprio regolamento i
criteri oggettivi e le ipotesi concrete in cui si potrà
autorizzare il dipendente allo svolgimento di attività
extra-lavorativa, in base alla natura della stessa ed in
riferimento ad eventuali situazioni di conflitto di
interesse, anche solo potenziale, nel rispetto dei principi
di ragionevolezza ed imparzialità dell'azione
amministrativa.
E' chiaro che la verifica della sussistenza o meno del
concreto o potenziale conflitto di interesse deve riguardare
le effettive funzioni svolte dal dipendente interessato
all'interno dell'amministrazione di appartenenza e quelle
derivanti dalla natura specifica dell'incarico presso terzi.
Si evidenzia, in merito, che la Corte costituzionale [2] si
è riferita, ai fini della configurazione di un conflitto di
interessi, 'alla specifica attività di servizio svolta
dal dipendente' e la Suprema Corte [3] ha rilevato come
il dipendente pubblico debba mantenere comunque 'una
posizione di indipendenza, al fine di evitare di prendere
decisioni o svolgere attività inerenti alle sue mansioni in
situazioni, anche solo apparenti, di conflitto di interessi;
ciò non solo per evitare situazioni e comportamenti che
possano nuocere agli interessi della pubblica
amministrazione, ma anche per salvaguardarne l'immagine'.
In sostanza, per la configurazione di un conflitto di
interessi, è necessario far riferimento alle possibili
decisioni o attività che il dipendente sia chiamato ad
adottare o compiere in concreto nello svolgimento delle
proprie funzioni istituzionali presso l'amministrazione di
appartenenza.
---------------
[1] Cfr. pareri dell'01.12.2006, del 03.04.2007,
dell'11.02.2008 e dell'01.12.2010.
[2] Cfr. sentenza n. 390 del 2006.
[3] Cfr. Corte di cassazione, sez. lavoro, sentenza n. 5113
del 2010. Nella fattispecie si esaminava il caso di un
licenziamento per giusta causa di un dirigente che non aveva
segnalato l'insorgere di una situazione di conflitto di
interessi relativa ad un dipendente (01.02.2013 -
link a www.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Comune di Monteleone Sabino - Parere in merito alla
sanabilità di una piscina abusiva in zona agricola (Regione
Lazio,
parere
30.01.2013 n. 533364 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Comune di Bagnoregio - Allevamento di galline ovaiole -
rapporto di connessione con l'attività agricola (Regione
Lazio,
parere
30.01.2013 n. 476856 di prot.). |
LAVORI PUBBLICI:
Imposta di bollo su elaborati, atti e documenti attinenti ai
lavori pubblici.
L'applicazione dell'imposta di bollo
alle diverse tipologie di elaborati, atti e documenti
concernenti l'appalto di lavori pubblici è stata
puntualmente chiarita dall'Agenzia delle entrate con
risoluzione 27.03.2002, n. 97/E, cui occorre ancora fare
riferimento per stabilire quali scontino l'imposta sin
dall'origine e quali in caso d'uso.
In virtù di alcune previsioni contenute nel D.P.R. 642/1972,
gli atti e i documenti devono essere redatti su carta uso
bollo, ovvero nel rispetto delle caratteristiche proprie di
tale tipo di carta, al fine di provvedere al corretto
pagamento dell'imposta.
Il Comune pone due quesiti in ordine all'assoggettamento
all'imposta di bollo di elaborati, atti e documenti
attinenti all'appalto di lavori pubblici, chiedendo,
specificatamente:
1) se si ritenga corretta l'individuazione, operata
dall'Ente, dei documenti [1] che dovrebbero scontare
l'imposta sin dall'origine;
2) se i documenti da assoggettare all'imposta di bollo
(tanto sin dall'origine, quanto in caso d'uso) debbano
essere stampati su carta uso bollo (o, comunque, rispettare
i parametri di tale carta per numero di righe e caratteri,
ecc., così come avviene per i contratti), al fine di poterli
bollare correttamente.
Occorre, anzitutto, evidenziare che la materia oggetto di
esame ricade nell'ambito dell'esclusiva competenza
legislativa statale. Ciò implica che l'apporto che questo
Ufficio può fornire sulle questioni poste è necessariamente
limitato alla ricognizione degli atti interpretativi
emanati, al riguardo, dall'Agenzia delle entrate, cui
codesto Ente dovrebbe rivolgersi direttamente per acquisire
le indicazioni relative agli aspetti eventualmente non
ancora trattati dalla medesima.
Un tanto premesso, si rappresenta che, in ordine al primo
quesito posto dal Comune, l'Agenzia delle entrate si è
dettagliatamente espressa con
risoluzione 27.03.2002 n. 97/E, il cui contenuto è
stato confermato con la più recente
risoluzione 23.03.2009 n. 74/E [2], pur riguardando,
quest'ultima, il diverso ambito dell'applicabilità
dell'imposta di bollo agli elaborati tecnici allegati alla
concessione edilizia.
Con la predetta risoluzione n. 97/E/2002 l'Amministrazione
finanziaria ha chiarito il corretto trattamento tributario,
ai fini dell'imposta di bollo, di una serie di atti e
documenti formati nell'esecuzione di contratti pubblici di
appalto [3], nei termini che seguono.
Quanto al contratto di appalto e ad eventuali atti
aggiuntivi [4], ai capitolati d'oneri [5] e al verbale di
concordamento nuovi prezzi [6], l'Agenzia ha affermato che,
in considerazione della natura e del contenuto che li
contraddistingue, essi devono essere assoggettati ad imposta
di bollo fin dall'origine, ai sensi degli artt. 1 e 2 della
tariffa, parte I [7], allegata al decreto del Presidente
della Repubblica 26.10.1972, n. 642.
Con riferimento agli ulteriori atti e documenti elencati
nella richiesta di chiarimento interpretativo, l'Agenzia ha
richiamato le pertinenti disposizioni normative atte a
definirne natura e contenuto [8], nonché l'art. 110, comma 1
[9], del decreto del Presidente della Repubblica 21.12.1999,
n. 554, le cui previsioni sono state trasfuse (con
integrazioni) nell'art. 137, comma 1 [10], del decreto del
Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, ove sono
individuati gli atti che formano parte integrante del
contratto e che devono essere richiamati nello stesso.
È stato, quindi, affermato che, per stabilire l'imposta di
bollo dovuta sui documenti elencati da tale norma, occorre
accertare se essi «siano riconducibili tra le tipologie
alternative di seguito precisate:
- 'Scritture private contenenti convenzioni o dichiarazioni
anche unilaterali, con le quali si creano, si modificano, si
estinguono, si accertano o si documentano rapporti giuridici
di ogni specie, descrizioni, constatazioni e inventari
destinati a far prova tra le parti che li hanno
sottoscritti', individuati dall'articolo 2 della tariffa,
allegato A, parte prima del d.P.R. 642 del 1972, per le
quali è dovuta l'imposta di bollo fin dall'origine di €
10,33 (lire 20.000) [11] per ogni foglio;
- 'Tipi, disegni, modelli, piani, dimostrazioni, calcoli ed
altri lavori degli ingegneri, architetti, periti, geometri e
misuratori;...', individuati dall'articolo 28 della tariffa,
allegato A, parte seconda [12] del d.P.R. 642 del 1972, per
i quali è dovuta l'imposta di bollo in caso d'uso di € 0,31
(lire 600) [13] per ogni foglio o esemplare.».
Sulla scorta di tali indicazioni, l'Agenzia ha ritenuto,
che:
1) i documenti individuati alle lett. a), b), d) ed f)
dell'art. 110, comma 1, del D.P.R. 554/1999 (i capitolati
generale e speciale, l'elenco prezzi unitari ed il
cronoprogramma), non avendo i requisiti necessari per
l'applicazione dell'art. 28 della tariffa, parte seconda,
ricadono nell'ambito dell'art. 2 della tariffa, parte prima,
giacché disciplinano particolari aspetti del contratto[14] e
sono, pertanto soggetti all'imposta di bollo fin
dall'origine;
2) gli elaborati grafici progettuali (lett. c) [15] ed i
piani di sicurezza (lett. e) ricadono, invece, nell'ambito
della previsione di cui all'art. 28 della tariffa, parte
seconda, che riguarda la documentazione tecnica propriamente
riconducibile alle categorie di professionisti ivi
individuate;
3) gli ulteriori documenti (processo verbale di consegna;
verbale di sospensione e di ripresa lavori; certificato di
ultimazione lavori; determinazione ed approvazione dei nuovi
prezzi non contemplati nel contratto; libretto di misura dei
lavori e delle provviste; certificato di collaudo;
certificato di regolare esecuzione), che attengono al
rispetto delle prescrizioni contrattuali nell'esecuzione dei
lavori e, pertanto, si caratterizzano per l'incidenza che
producono sui rapporti contrattuali intercorrenti tra le
parti, vanno ascritti nell'ambito delle tipologie previste
dall'art. 2 della tariffa, parte prima, con applicazione
dell'imposta di bollo fin dall'origine.
Quanto ai documenti amministrativi contabili per
l'accertamento dei lavori e delle somministrazioni in
appalto (giornale dei lavori; libretto delle misure; lista
settimanale; registro di contabilità; sommario del registro
di contabilità; stato di avanzamento; certificato per il
pagamento di rate; conto finale dei lavori)
l'Amministrazione finanziaria ha affermato che essi non sono
riconducibili alla previsione dell'art. 28 della tariffa,
parte seconda, per carenza delle peculiarità tecniche dei
documenti ivi individuati e devono, pertanto, essere
assoggettati alla disciplina dell'art. 32[16] della stessa
tariffa, che prevede il pagamento dell'imposta di bollo in
caso d'uso di € 10,33 [17] per ogni esemplare dell'atto,
documento o altro scritto e per ogni cento pagine o frazione
di cento pagine o del relativo estratto.
Si ritiene doveroso segnalare, per completezza di
argomentazione, che l'art. 137 del D.P.R. 207/2010,
innovando la precedente previsione di cui all'art. 110 del
D.P.R. 554/1999, che non contemplava alcunché al riguardo,
dispone, al comma 3, che «I documenti elencati al comma 1
[18] possono anche non essere materialmente allegati, fatto
salvo il capitolato speciale e l'elenco prezzi unitari,
purché conservati dalla stazione appaltante e controfirmati
dai contraenti.».
Ne consegue che, della documentazione che costituisce 'parte
integrante' del contratto, solo il capitolato speciale e
l'elenco prezzi unitari devono essere concretamente allegati
allo stesso, essendo riconosciuta la facoltà della stazione
appaltante di omettere l'allegazione dei restanti documenti,
a condizione che questi siano conservati
dall'amministrazione e controfirmati dai contraenti.
Infine, circa la questione concernente l'eventuale obbligo
di redigere gli atti su carta uso bollo, o, quantomeno, nel
rispetto delle caratteristiche proprie di tale tipo di
carta, al fine di provvedere al pagamento dell'imposta nei
termini di legge, si risponde affermativamente, nella
considerazione delle previsioni contenute nell'art. 4,
secondo comma [19], nell'art. 5, primo comma, lett. a) [20]
e secondo comma[21], nell'art. 9, primo [22] e secondo comma
[23] e nell'art. 10, primo comma [24], del D.P.R. 642/1972.
---------------
[1] Capitolato speciale d'appalto; elenco prezzi unitari;
cronoprogramma; processo verbale di consegna lavori; verbali
di sospensione e ripresa lavori; certificato e verbale di
ultimazione lavori; determinazione ed approvazione dei nuovi
prezzi non contemplati nel contratto; verbali di
constatazione delle misure; certificato di collaudo;
certificato di regolare esecuzione.
[2] Nella quale viene richiamata anche la risoluzione
30.03.1995, n. 78, ove era già stato affermato che gli atti
e i documenti di natura tecnica indicati nell'art. 28 della
tariffa (allegato A), parte seconda, annessa al D.P.R.
642/1972, sono sempre assoggettati all'imposta di bollo in
caso d'uso, in quanto non perdono la loro particolare natura
di 'scritti tecnici', anche se sono allegati o costituiscono
parte integrante di atti soggetti all'imposta di bollo sin
dall'origine.
[3] Contratto di appalto ed eventuali atti aggiuntivi;
capitolati di oneri e relative tariffe; verbale di
concordamento nuovi prezzi; progetti, disegni, computi
metrici, relazioni tecniche, planimetrie; piano di
sicurezza; tariffe; giornale del direttore dei lavori;
verbali di consegna, di sospensione, di ripresa e di
ultimazione lavori; verbali di constatazione delle misure,
libretto delle misure, note settimanali, registro delle
misure, certificati di acconto, conto finale; certificato di
collaudo e certificato di regolare esecuzione.
[4] Atti rogati, ricevuti o autenticati da notai o da altri
pubblici ufficiali (v. art. 1 della tariffa).
[5] Atti contenenti le condizioni negoziali dei contratti di
un determinato genere ovvero di un singolo contratto di
appalto (v. art. 2 della tariffa).
[6] Dichiarazione diretta a modificare un preesistente
rapporto giuridico (v. art. 2 della tariffa).
[7] «Atti, documenti e registri soggetti all'imposta fin
dall'origine».
[8] Relativamente alle previsioni concernenti i piani di
sicurezza ed il piano operativo, già contenute nell'art. 31
della L. 109/1994 e negli artt. 4 e 10 del D.Lgs. 494/1996
v., ora, rispettivamente, l'art. 131 del D.Lgs. 163/2006 e
gli artt. 91 e 98 del D.Lgs. 81/2008.
[9] «Sono parte integrante del contratto e devono in esso
essere richiamati: a) il capitolato generale; b) il
capitolato speciale; c) gli elaborati grafici progettuali;
d) l'elenco dei prezzi unitari; e) i piani di sicurezza
previsti dall'articolo 31 della Legge; f) il cronoprogramma.».
[10] «Sono parte integrante del contratto, e devono in esso
essere richiamati: a) il capitolato generale, se menzionato
nel bando o nell'invito; b) il capitolato speciale; c) gli
elaborati grafici progettuali e le relazioni; d) l'elenco
dei prezzi unitari; e) i piani di sicurezza previsti
dall'articolo 131 del codice; f) il cronoprogramma; g) le
polizze di garanzia.».
[11] Attualmente € 14,62.
[12] «Atti, documenti e registri soggetti all'imposta in
caso d'uso».
[13] Attualmente € 0,52.
[14] Termine entro il quale devono essere ultimati i lavori,
responsabilità ed obblighi dell'appaltatore, modi di
riscossione dei corrispettivi dell'appalto, indicazione dei
tempi massimi di svolgimento delle varie fasi di esecuzione.
[15] Quali disegni, computi metrici, relazioni tecniche e
planimetrie.
[16] «Atti per i quali non sono espressamente previsti il
pagamento dell'imposta o l'esenzione».
[17] Attualmente € 14,62.
[18] V. nota n. 10.
[19] «La carta bollata, esclusa quella per cambiali, deve
essere marginata e contenere cento linee per ogni foglio.».
[20] «Agli effetti del presente decreto e delle annesse
Tariffa e Tabella: a) il foglio si intende composto da
quattro facciate, la pagina da una facciata; [...]».
[21] «Per i tabulati meccanografici l'imposta è dovuta per
ogni 100 linee o frazione di 100 linee effettivamente
utilizzata.».
[22] «Sulla carta bollata non si può scrivere fuori dei
margini né eccedere il numero delle linee in essa tracciate.
Nei margini del foglio possono apporsi sottoscrizioni ed
annotazioni, visti, vidimazioni, numerazioni e bolli
prescritti o consentiti da leggi o regolamenti.».
[23] «Per gli atti e documenti scritti a mezzo stampa,
litografia o altri analoghi sistemi è consentito, in deroga
al disposto del precedente comma, scrivere fuori dei
margini, fermo peraltro il divieto di eccedere le 100 linee
per foglio.».
[24] «Nei casi in cui il pagamento dell'imposta di bollo in
modo straordinario o virtuale sia sostitutivo o alternativo
di quello ordinario si osservano i limiti stabiliti dagli
artt. 4 e 9 circa il numero delle linee di ciascun foglio.»
(30.01.2013 - link a www.regione.fvg.it). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI:
Amministrazione aperta ex art. 18 D.L. 83/2012.
Ai sensi delle disposizioni
sull'amministrazione aperta, anche una determinazione
dirigenziale, avente ad oggetto, ad esempio, la fornitura di
carta per i fotocopiatori di un ente locale, può essere
soggetta agli obblighi di pubblicazione, ricadendo la
fattispecie all'interno dell'ambito dell'attribuzione di
corrispettivi e compensi a persone, professionisti, imprese
ed enti privati di cui all'art. 18, comma 1, del D.L.
83/2012.
Il quinto comma dell'art. 18 stabilisce, tuttavia, che solo
per le concessioni e le attribuzioni di importo superiore a
1.000 euro, avvenute nel corso del medesimo anno solare, la
pubblicazione acquisisce valore di condizione legale di
efficacia la cui eventuale omissione o incompletezza
costituisce responsabilità amministrativa, patrimoniale e
contabile rilevabile anche d'ufficio dagli organi
dirigenziali e di controllo e altresì rilevabile da chiunque
abbia interesse anche ai fini del risarcimento del danno da
ritardo da parte dell'amministrazione.
Il Comune chiede di sapere a quali tipologie di atti il
legislatore intende fare riferimento quando, all'art. 18 del
decreto legge 22.06.2012, n. 83 [1], nell'ambito delle
informazioni e dei dati soggetti a pubblicità su internet in
applicazione degli obblighi sull'amministrazione aperta,
ricomprende anche quelli connessi alla 'attribuzione dei
corrispettivi e dei compensi a persone, professionisti,
imprese ed enti privati e comunque di vantaggi economici di
qualunque genere di cui all'articolo 12 della legge
07.08.1990, n. 241 ad enti pubblici e privati'. Più
specificatamente, l'Ente si domanda se anche una determina
per la fornitura di beni, come la carta per fotocopiatore,
sia soggetta a detta normativa.
Le disposizioni sull'amministrazione aperta, previste, in
particolare, dal primo comma dell'art. 18, coprono un
triplice ambito oggettivo di applicazione. Esse, infatti,
riguardano:
a) la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi e
ausili finanziari alle imprese [2];
b) l'attribuzione di corrispettivi e compensi a persone,
professionisti, imprese ed enti privati [3];
c) l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere,
di cui all'art. 12 della L. 241/1990, ad enti pubblici e
privati [4].
Il secondo comma prevede tutta una serie di dati,
informazioni e documenti [5] che, qualora si versi in uno
degli ambiti di cui al primo comma, l'amministrazione è
tenuta a pubblicare sul proprio sito internet nella sezione
'Trasparenza, valutazione e merito' [6].
Ai sensi di un tanto, pare che anche una determinazione
dirigenziale, avente ad oggetto, ad esempio, la fornitura di
carta per i fotocopiatori di un ente locale, possa essere
soggetta agli obblighi pubblicitari previsti dalla norma,
ricadendo la fattispecie all'interno della lettera b)
dell'elenco [7].
Il quinto comma dell'art. 18 stabilisce, tuttavia, che solo
per le concessioni e le attribuzioni di importo superiore a
1.000 euro, avvenute nel corso del medesimo anno solare, la
pubblicazione acquisisce valore di condizione legale di
efficacia la cui eventuale omissione o incompletezza
costituisce responsabilità amministrativa, patrimoniale e
contabile rilevabile anche d'ufficio dagli organi
dirigenziali e di controllo e altresì rilevabile da chiunque
abbia interesse anche ai fini del risarcimento del danno da
ritardo da parte dell'amministrazione.
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[1] Convertito, con modificazioni, dalla legge
07.08.2012, n. 134.
[2] Tali atti sono caratterizzati dal fatto di costituire
attribuzioni economiche, non legate ad una
controprestazione, che hanno come destinatari le imprese.
[3] Tali atti sono caratterizzati dal fatto di costituire
attribuzioni economiche, erogate a fronte di una
controprestazione, a favore di privati.
[4] Tali atti sono caratterizzati dal fatto di costituire
generiche attribuzioni di un 'vantaggio economico'
riferibili all'art. 12 della L. 241/1990 e, perciò, senza
che vi sia una controprestazione verso il concedente. Vi
sono compresi i contributi ad enti pubblici per la
realizzazione di specifiche attività o l'attuazione di
programmi di pubblico interesse.
[5] L'amministrazione è tenuta a pubblicare: 'a) il nome
dell'impresa o altro soggetto beneficiario ed i suoi dati
fiscali; b) l'importo; c) la norma o il titolo a base
dell'attribuzione; d) l'ufficio e il funzionario o dirigente
responsabile del relativo procedimento amministrativo; e) la
modalità seguita per l'individuazione del beneficiario; f)
il link al progetto selezionato, al curriculum del soggetto
incaricato, nonché al contratto e capitolato della
prestazione, fornitura o servizio'.
[6] Si coglie l'occasione per rammentare che, per agevolare
il compito delle amministrazioni locali, la Regione autonoma
Friuli Venezia Giulia, per il tramite del Servizio Sistemi
Informativi ed E-Government e nell'ambito della convenzione
per i servizi informatici SIAL, ha messo a disposizione
l'applicativo "Amministrazione Aperta". Per maggiori
informazioni, si prega di consultare la pagina: http://autonomielocali.regione.fvg.it/aall/opencms/AALL/SIAL/Amministrazione_aperta/
[7] Sul contemporaneo obbligo, nel caso sussistano le
condizioni previste dalla legge, di pubblicazione delle
determinazioni dirigenziali sia all'albo pretorio on-line
sia nella sezione 'Trasparenza, valutazione e merito' del
sito internet, questo Ufficio si è già espresso con il
parere prot. n. 1704 del 18.01.2013, scaricabile alla pagina
http://autonomielocali.regione.fvg.it/aall/opencms/AALL/Servizi/pareri/
(25.01.2013 - link a www.regione.fvg.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Amministrazione aperta e pubblicazione delle determinazioni.
L'affissione di atti all'albo pretorio
on-line non esonera l'amministrazione dall'obbligo di
pubblicazione anche sul sito istituzionale nel caso in cui
gli stessi rientrino nelle categorie per le quali l'obbligo
è previsto dalle norme sull'amministrazione aperta di cui
all'art. 18 del D.L. 83/2012.
Il Comune rileva che è stato recentemente sostituito, ad
opera della legge regionale 21.12.2012, n. 26 (legge di
manutenzione dell'ordinamento regionale 2012), l'art. 1,
comma 15, della legge regionale 11.12.2003, n. 21, il quale
ora prevede la pubblicazione all'interno dei siti
informatici propri o di altre pubbliche amministrazioni,
oltre che delle deliberazioni, anche delle determinazioni
degli enti locali.
L'Ente locale osserva, inoltre, che la Regione Friuli
Venezia Giulia ha disciplinato, all'art. 12, commi 26-41,
della legge regionale 31.12.2012, n. 27 [1], gli obblighi
sull'amministrazione aperta derivanti dall'applicazione
dell'art. 18 del decreto legge 22.06.2012, n. 83 [2].
Alla luce di un tanto, il Comune chiede se la pubblicazione
all'interno del proprio sito istituzionale delle
determinazioni assolva anche alle prescrizioni di cui al
citato art. 18 del D.L. 83/2012 ovvero se queste ultime
debbano essere comunque rispettate da parte dell'Ente.
Gli obblighi sulla pubblicazione di concessioni, compensi ed
altri vantaggi, previsti dall'art. 18 del D.L. 83/2012, come
già osservato in altro parere espresso da questo Ufficio
[3], trovano applicazione anche per le amministrazioni
locali del Friuli Venezia Giulia.
E' pur vero che l'oggetto delle pubblicazioni previste dalle
due norme può, in alcuni casi, coincidere, potendo, ad
esempio, una determinazione dirigenziale riguardare
l'attribuzione di compensi o altri vantaggi economici per i
quali l'art. 18 del D.L. 83/2012 prevede la pubblicazione
sul sito internet.
Anche in tale caso, però, gli enti devono adempiere agli
obblighi previsti dalle due distinte normative, pubblicando,
se del caso, sia sull'albo pretorio informatico sia nella
sezione 'Trasparenza, valutazione e merito' il
medesimo atto qualora richiesto dalle norme citate.
Di un tanto si è avuto conferma in una delibera della
Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza
e l'integrità delle amministrazioni pubbliche (Civit), la
quale, constatando che la tenuta, anche online, dell'albo
pretorio non rientra nell'ambito di applicazione dell'art.
11 del decreto legislativo 27.10.2009, n. 150 [4], e più in
generale delle norme sulla trasparenza, ha espresso l'avviso
che l'affissione di atti nell'albo pretorio on-line non
esonera l'amministrazione dall'obbligo di pubblicazione
anche sul sito istituzionale nel caso in cui tali atti
rientrino nelle categorie per le quali l'obbligo è previsto
dalla legge [5].
---------------
[1] Come emerge dalla circolare n. 20 del 27.12.2012
della Direzione centrale finanze, patrimonio e
programmazione, tali disposizioni si applicano, ai sensi dei
commi 40 e 41 dell'art. 12 della L.R. 27/2012, solamente
all'amministrazione regionale, agli enti regionali ed alle
agenzie regionali e, quindi, non agli enti locali. La norma
lascia, tuttavia, aperta l'applicabilità a questi ultimi
solamente qualora gli stessi operino in qualità di 'soggetti
che gestiscono, per conto della Regione, risorse finalizzate
alle concessioni e alle attribuzioni', con riferimento, in
particolare, ai casi in cui tali enti siano soggetti
delegatari in forza di delegazioni amministrative
intersoggettive (v. art. 51 della legge regionale
31.05.2002, n. 14).
[2] Convertito, con modificazioni, dalle legge 7 agosto
2012, n. 134.
[3] V. parere prot. n. 39395 del 14.12.2012 scaricabile dal
Portale delle autonomie locali alla pagina http://autonomielocali.regione.fvg.it/aall/opencms/AALL/Servizi/pareri/.
[4] Norme sulla trasparenza nella pubblica amministrazione,
intesa come accessibilità totale anche attraverso lo
strumento della pubblicazione sui siti istituzionali delle
informazioni concernenti ogni aspetto dell'organizzazione,
degli indicatori relativi agli andamenti gestionali e
all'utilizzo delle risorse per il perseguimento delle
funzioni istituzionali.
[5] V. delibera Civit n. 33/2012: 'Rapporti di affissione di
atti nell'albo pretorio on-line e il loro obbligo di
pubblicazione sul sito istituzionale dell'Ente' (18.01.2013
- link a www.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI:
Contratti di sponsorizzazione.
Ai contratti di sponsorizzazione, nei
quali la controprestazione offerta dallo sponsor non
consista nella realizzazione di lavori, né nell'esecuzione
di forniture o di servizi (sponsorizzazione di puro
finanziamento), è applicabile la normativa di cui al R.D.
224/1923 e relativo regolamento, che richiede l'espletamento
di procedure comparative.
Tuttavia, per valori di importo modesto, la previsione di
addivenire alla stipula del contratto direttamente con il
soggetto proponente, prescindendo dall'espletamento di una
procedura selettiva, sembra comunque rispondere ai principi
di non aggravamento, efficacia ed efficienza dell'azione
amministrativa, ai quali sono improntate alcune previsioni
derogatorie della predetta regola generale (cfr. artt. 26 e
125 del D.Lgs. 163/2006).
Il Comune chiede un parere in ordine alla possibilità di
modificare il regolamento sulle sponsorizzazioni al fine di
introdurre una norma che consenta l'affidamento diretto nel
caso di offerte di sponsorizzazione spontaneamente
provenienti da soggetti privati di importo inferiore a
20.000,00 euro, senza dover ricorrere ad una procedura ad
evidenza pubblica di comparazione con eventuali ulteriori
offerte migliorative.
La possibilità, per le pubbliche amministrazioni, di
concludere contratti di sponsorizzazione è prevista
dall'articolo 43 della legge 27.12.1997, n. 449, che al
comma 1 recita: «Al fine di favorire l'innovazione
dell'organizzazione amministrativa e di realizzare maggiori
economie, nonché una migliore qualità dei servizi prestati,
le pubbliche amministrazioni possono stipulare contratti di
sponsorizzazione ed accordi di collaborazione con soggetti
privati ed associazioni, senza fini di lucro, costituite con
atto notarile».
Il comma 2 dell'articolo 43 citato circoscrive la
possibilità di utilizzazione di tale contratto alla presenza
di una serie di limiti e condizioni. In particolare, le
iniziative degli enti pubblici devono:
a) essere dirette al perseguimento di interessi pubblici;
b) escludere forme di conflitto di interesse tra l'attività
pubblica e quella privata;
c) comportare risparmi di spesa rispetto agli stanziamenti
disposti.
Per gli enti locali, i contratti di sponsorizzazione sono
previsti all'articolo 119 del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267, il quale, nel richiamare l'articolo 43
della legge 449/1997, dispone che, al fine di favorire una
migliore qualità dei servizi prestati, i comuni, le province
e gli altri enti locali indicati nel testo unico possono
stipulare contratti di sponsorizzazione ed accordi di
collaborazione, nonché convenzioni con soggetti pubblici o
privati diretti a fornire consulenze o servizi aggiuntivi.
L'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici [1] ha
definito il contratto di sponsorizzazione come «un
contratto a prestazioni corrispettive mediante il quale
l'ente locale (sponsee) offre a un terzo (sponsor), che si
obbliga a pagare un determinato corrispettivo, la
possibilità di pubblicizzare in appositi determinati spazi
nome, logo, marchio o prodotti». Essa ha, poi, precisato
che in tale contratto «il corrispettivo può essere
rappresentato anche da un contributo in beni o servizi o
altre utilità».
Stanti le predette caratteristiche, il negozio viene
inquadrato tra i contratti atipici a titolo oneroso a
prestazioni corrispettive, la cui causa è individuata nella
«utilizzazione a fini direttamente o indirettamente
pubblicitari dell'attività, del nome o dell'immagine altrui
verso un corrispettivo che può consistere in un
finanziamento in denaro o nella fornitura di materiali o di
altri beni». [2]
Lo strumento delle sponsorizzazioni serve quindi ad attivare
le risorse disponibili in un determinato contesto
territoriale, a coinvolgere soggetti privati (imprese,
fondazioni, soggetti del privato-sociale) ed a migliorare la
qualità dei servizi prestati.
Il vasto campo di applicazione del contratto di
sponsorizzazione rappresenta un'opportunità per la pubblica
amministrazione, in quanto tutte le aree di attività possono
essere potenzialmente interessate dai contratti in
questione. In particolare, per quanto riguarda le ipotesi
concrete in cui le pubbliche amministrazioni possono far
ricorso ai contratti di sponsorizzazione, si va dai
contratti di sponsorizzazione tout court fino alle
sponsorizzazioni accessorie a contratti di appalto di
lavori, servizi o forniture.
Possono essere infatti oggetto di sponsorizzazione le
manifestazioni, gli spettacoli, le mostre, i concerti, le
iniziative di comunicazione e informazione, ed in genere
tutti gli eventi (culturali, turistici, sportivi, artistici,
ricreativi, ecc.) e i progetti posti in essere dall'ente.
I contratti di sponsorizzazione sono sottratti
all'applicazione della disciplina ordinaria del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, che si limita a contemplare,
quali 'contratti esclusi', unicamente quelli che prevedono,
come controprestazione dello sponsor, l'esecuzione di
servizi o di forniture, ovvero la realizzazione di opere o
lavori.
Infatti, l'articolo 26 [3] del decreto legislativo 163/2006
prevede che «Ai contratti di sponsorizzazione e ai
contratti a questi assimilabili, di cui siano parte
un'amministrazione aggiudicatrice o altro ente aggiudicatore
e uno sponsor che non sia un'amministrazione aggiudicatrice
o altro ente aggiudicatore, aventi ad oggetto i lavori di
cui all'allegato I, nonché gli interventi di restauro e
manutenzione di beni mobili e delle superfici decorate ...
ovvero i servizi di cui all'allegato II, ovvero le forniture
disciplinate dal presente codice, quando i lavori, i
servizi, le forniture sono acquisiti o realizzati a cura e a
spese dello sponsor per importi superiori a quarantamila
euro, si applicano i principi del Trattato per la scelta
dello sponsor nonché le disposizioni in materia di requisiti
di qualificazione dei progettisti e degli esecutori del
contratto».
Per i contratti contemplati dal predetto articolo 26 (che
l'Autorità di vigilanza definisce di 'sponsorizzazione
tecnica' [4]) rimane ferma la disciplina di cui
all'articolo 27 del Codice dei contratti pubblici, secondo
cui l'affidamento dei 'contratti esclusi' deve
comunque avvenire nel rispetto dei principi di economicità,
efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità, facendo precedere l'affidamento da invito
ad almeno cinque concorrenti, qualora ciò sia compatibile
con l'oggetto del contratto.
L'Autorità di vigilanza [5] ha, inoltre, chiarito che
diversa è la 'sponsorizzazione pura o di puro
finanziamento', alla quale pare riferirsi il quesito
posto, trattandosi di manifestazioni culturali o sportive,
in cui lo sponsor si impegna nei confronti della stazione
appaltante esclusivamente al riconoscimento di un
contributo, in cambio del diritto di sfruttare spazi per
fini pubblicitari, e non anche allo svolgimento di altre
attività.
Stabilito, quindi, che la fattispecie in esame non risulta
riconducibile ai contratti disciplinati dagli articoli 26 e
27 del decreto legislativo 163/2006, posto che la
controprestazione offerta dallo sponsor non consiste nella
realizzazione di lavori, né nell'esecuzione di forniture o
di servizi, si ritiene che, trattandosi di contratti
(anch'essi) 'attivi', la normativa applicabile debba
rinvenirsi nei regi decreti 18.11.1923, n. 2440 e
23.05.1924, n. 827, i quali richiedono -rispettivamente,
all'art. 3, primo comma [6] e all'art. 37, primo comma [7]-
l'espletamento di procedure comparative.
Tuttavia, stante la modestia del valore cui l'Ente fa
riferimento (euro 20.000,00), la previsione di addivenire
alla stipula del contratto direttamente con il soggetto
proponente, prescindendo dall'espletamento di una procedura
selettiva, sembra comunque rispondere ai principi di non
aggravamento, efficacia ed efficienza dell'azione
amministrativa, ai quali sembrano improntate alcune
previsioni derogatorie della predetta regola generale.
Si ricorda, infatti, che, pur non risultando applicabili al
caso di specie, significative appaiono le scelte operate dal
legislatore con il già citato articolo 26 del decreto
legislativo 163/2006, il quale consente di prescindere
dall'osservanza dei principi del Trattato istitutivo
dell'Unione europea per la scelta dello sponsor, qualora i
lavori, i servizi e le forniture che questi
realizzerà/fornirà all'amministrazione siano di importo pari
o inferiore a 40.000,00 euro e con l'articolo 125 [8] dello
stesso decreto, il quale prevede espressamente la facoltà di
procedere all'affidamento diretto del contratto, qualora il
suo valore sia inferiore a 40.000,00 euro.
---------------
[1] Con la determinazione 05.12.2001, n. 24, il cui
orientamento è stato confermato con la deliberazione
08.11.2008, n. 48.
[2] Cassazione 11.10.1997, n. 9880.
[3] Come modificato da ultimo dal decreto legge 09.02.2012,
n. 5, convertito, con modificazioni nella legge 04.04.2012,
n. 35.
[4] V., più recentemente, la deliberazione dell'Autorità di
vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture 08.02.2012, n. 9.
[5] V. deliberazione n. 9/2012, cit..
[6] «I contratti dai quali derivi un'entrata per lo Stato
debbono essere preceduti da pubblici incanti, salvo che per
particolari ragioni, delle quali dovrà farsi menzione nel
decreto di approvazione del contratto, e limitatamente ai
casi da determinare con il regolamento, l'amministrazione
non intenda far ricorso alla licitazione ovvero nei casi di
necessità alla trattativa privata.».
[7] «Tutti i contratti dai quali derivi entrata o spesa
dello Stato debbono essere preceduti da pubblici incanti,
eccetto i casi indicati da leggi speciali e quelli previsti
nei successivi articoli.».
[8] Relativo alle acquisizioni di lavori, servizi e
forniture in economia, i cui commi 8, ultimo periodo e 11,
ultimo periodo, dispongono, rispettivamente, che:
«8. [...]. Per lavori di importo inferiore a quarantamila
euro è consentito l'affidamento diretto da parte del
responsabile del procedimento.»;
«11. [...] Per servizi o forniture inferiori a quarantamila
euro, è consentito l'affidamento diretto da parte del
responsabile del procedimento.» (09.01.2013 -
link a www.regione.fvg.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Richiesta di chiarimenti in merito al DM 161/2012 del
12.08.2012 da parte dell'Ordine dei Geologi della regione
Umbria
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare, Segreteria Tecnica del Ministro,
nota 14.11.2012 n. 36288 di prot.).
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Terre e rocce da scavo: il DM 161/2012
non si applica al materiale da scavo riutilizzato nello
stesso sito in cui è prodotto.
Con una nota del 14/11/2012, il Ministero dell'Ambiente,
rispondendo ad una richiesta di chiarimenti presentata in
merito al D.M. 161/2012, ha chiarito che la disciplina da
esso recata non si applica al materiale da scavo
riutilizzato nello stesso sito in cui è prodotto.
Il Ministero dell'Ambiente e Tutela del Territorio e del
Mare, con una Nota prot. 36288 del 14/11/2012, ha fornito
chiarimenti in merito all'applicazione del D.M. 161/2012
recante la disciplina delle terre e rocce da scavo,
rispondendo ad una richiesta di chiarimenti presentata
dall'Ordine dei Geologi della Regione Umbria.
In merito, il Ministero chiarisce in primo luogo che il
D.M. 161/2012 non tratta il materiale da scavo riutilizzato
nello stesso sito in cui è prodotto, e pertanto non
trova applicazione la disciplina da esso recata.
Ciò discende dall'indicazione del campo di applicazione del
D. Leg.vo 152/2006, dal quale il D.M. 161/2012 discende, di
cui all'art. 185 (Esclusioni dall'ambito di applicazione)
dello stesso, che al comma 1, lettera c), prevede che «Non
rientrano nel campo di applicazione della parte quarta del
presente decreto [...] il suolo non contaminato e altro
materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività
di costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a
fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito
in cui è stato escavato».
Inoltre la Nota ricorda che, ai sensi dell'art. 266, comma
7, del D.Leg.vo 152/2006, la disciplina per la
semplificazione amministrativa delle procedure relative ai
materiali, ivi incluse le terre e le rocce da scavo,
provenienti da cantieri di piccole dimensioni la cui
produzione non superi i 6.000 mc. di materiale sarà dettata
da apposito decreto, e pertanto tale tipologia di materiale
non è oggetto del D.M. 161/2012 (commento tratto da
www.legislazionetecnica.it). |
NEWS |
ENTI LOCALI -
CONSIGLIERI COMUNALI: ANTICORRUZIONE/
P.a. a trasparenza dimezzata. No alla diffusione di
consulenze e denunce dei redditi. Il
parere del garante privacy sul dlgs attuativo della legge.
Trasparenza dimezzata nella p.a.
Relativamente ai dipendenti pubblici, resta la possibilità
di pubblicare sui siti internet solo gli stipendi tabellari
e i curricula, escludendo dunque eventuali consulenze.
Mentre per quanto riguarda politici, stop alla diffusione
integrale di dichiarazioni dei redditi e stati patrimoniali,
anche relativi ai familiari.
Sono alcuni dei rilievi contenuti nel parere del garante
privacy allo schema di decreto legislativo delegato
attuativo della legge 190/2012 (anticorruzione), nella parte
relativa al riordino della trasparenza sul web della
pubblica amministrazione. Pur essendo un parere favorevole
(ma condizionato), il garante boccia l'impostazione dello
schema di decreto.
Dal canto suo il governo, per bocca del ministro per la
p.a., Filippo Patroni Griffi, ha assicurato che i rilievi
del garante saranno esaminati attentamente, anche se deve
essere impedito che la riservatezza diventi un alibi per
assicurare sfere pubbliche non conoscibili. Mentre dal punto
di vista dell'Associazione dei comuni italiani (Anci), pure
essendo auspicabile la massima trasparenza dell'azione
amministrativa, «fa piacere che il garante abbia
nuovamente sottolineato alcune necessità di tutela nei
confronti di chi assume incarichi elettivi».
Dati sanitari & co.
No alla diffusione
sui siti della p.a. di dati sanitari o dei dati
identificativi di chi percepisce sussidi. E periodo massimo
di conservazione dei documenti in rete, accessibili solo da
motori di ricerca interni ai siti istituzionali. Nel merito
il provvedimento distingue gli atti e documenti da
pubblicare obbligatoriamente da quelli da pubblicare
facoltativamente. Su questi ultimi lo schema lascia alle
singole p.a. la decisione se anonimizzare o meno le
informazioni: il garante chiede anonimizzazione obbligatoria
e, comunque, il rispetto della regola per cui la possibilità
di pubblicazione deve essere rimessa alla legge o al
regolamento e non a una decisione discrezionale del singolo
ente pubblico.
Pubblicazione ...
Quanto ad atti
destinati per legge alla pubblicazione (ad esempio le
deliberazioni di un ente locale) il garante propone una
modifica nel senso che il contenuto di tali atti non violi
la privacy delle persone. Questo si ottiene fissando la
regola per cui le p.a. devono rendere non intelligibili i
dati eccedenti o, se sensibili o giudiziari, i dati non
indispensabili. In questo caso si devono usare le tecniche
della allegazione di documenti, contenenti i dati delicati,
richiamati negli atti pubblicati o della codificazione degli
stessi dati delicati.
Deve comunque essere prescritto il divieto di pubblicazione
di dati sanitari o idonei a rivelare la vita sessuale. Il
decreto legislativo non chiarisce se e in che termini
possano essere pubblicati altri dati sensibili o giudiziari.
Il garante suggerisce, poi, con riferimento ad atti e
documenti soggetti a pubblicazione, di limitare le ricerche
a motori di ricerca interni al sito, escludendo quelli
generali. Il garante frena sul libero riutilizzo dei dati
pubblicati dalle p.a.: deve essere consentito solo in
termini compatibili con gli scopi per cui sono stati
raccolti e utilizzati.
... e diritto all'oblio
Tema scottante è
quello della durata della pubblicazione e del diritto
all'oblio. Lo schema di decreto legislativo prevede un
termine di cinque anni indifferenziato. Il garante
suggerisce di rimodulare la scadenza, anche in
considerazione di termini molto diversi previsti dalla
normativa di settore (ad esempio, 15 giorni per le
deliberazioni di comuni e province). Nel parere del garante
si sottolinea che è necessario spiegare cosa fare allo
scadere del termine di pubblicazione, non essendo
sufficiente in ogni caso la conservazione in altre sezioni
del sito ad accesso selezionato.
Politici e dipendenti
Il principale rilievo, come detto, concerne le informazioni
reddituali e patrimoniali dei politici. Secondo il garante è
sproporzionata la diffusione tramite i siti istituzionali
delle integrali dichiarazioni dei redditi o di dati dei
familiari. Anche per i dati del personale delle p.a. al
garante appare sproporzionata la diffusione tramite il web
di dati, se eccedenti i profili del curriculum. Lo schema di
decreto legislativo conferma la normativa (dl 83/2012)
relativa alla pubblicazione dei provvedimenti relativi a
sussidi e vantaggi economici di qualunque genere anche a
persone fisiche.
Secondo il garante tale disciplina va riformulata,
escludendo espressamente dall'obbligo di pubblicazione i
dati identificativi dei destinatari di provvedimenti
riguardanti persone fisiche dai quali sia possibile ricavare
informazioni relative allo stato di salute degli
interessati, oppure lo stato economico-sociale disagiato
degli stessi (come il riconoscimento di agevolazioni
economiche, la fruizione di prestazioni sociali collegate al
reddito, il contributo per le refezione scolastica o dal
ticket sanitario, i benefici per portatori di handicap, il
riconoscimento di sussidi ad anziani non autosufficienti, i
contributi erogati per la cura di malattie o per le vittime
di violenza sessuale).
Va vietata anche la diffusione di dati non pertinenti
rispetto alle finalità perseguite, quali ad esempio
l'indirizzo di casa, il codice fiscale, le coordinate
bancarie, la ripartizione degli assegnatari secondo le fasce
Isee, informazioni sulle condizioni di indigenza.
Tutela in giudizio
Osservazione conclusiva riguarda la tutela giurisdizionale.
Lo schema di decreto prevede la competenza del giudice
amministrativo, mentre il garante, richiamando il codice
della privacy, ritiene che la giurisdizione sia del giudice
ordinario (tribunale)
(articolo ItaliaOggi del 09.02.2013). |
ENTI LOCALI: Partecipate,
corsa contro il tempo per evitare lo scioglimento.
L'Antitrust ha pubblicato le procedure da seguire
allorquando si ritengano sussistenti i presupposti per
l'applicazione della deroga allo scioglimento o dismissione
delle partecipazioni societarie delle pubbliche
amministrazioni.
La comunicazione, con relativo formulario, è stata emanata
lo scorso 4 febbraio e contiene le informazioni che le
amministrazioni debbono fornire ai fini del rilascio del
parere, obbligatorio e vincolante, da parte della suddetta
Autorità. L'articolo 4 del dl n. 95/2012 introduce misure
restrittive in tema di società partecipate, direttamente o
indirettamente, dalle p.a. disponendo il loro scioglimento
ovvero la dismissione di quelle che erogano servizi
strumentali.
Il comma 3 stabilisce l'esclusione dall'applicazione di tali
norme se, per le particolari caratteristiche economiche,
sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto di
riferimento, non è possibile per la p.a. controllante un
efficace e utile ricorso al mercato. In tale caso,
l'amministrazione, nel rispetto della tempistica prevista
per la dismissione, predispone un'analisi di mercato da
inviare all'Autorità garante della concorrenza e del
mercato, ai fini dell'acquisizione del parere vincolante.
Le ipotesi di deroga hanno, pertanto, un carattere di
eccezionalità e debbono dar luogo ad una approfondita
istruttoria, con relativa motivazione e giustificazione e al
fine, di dimostrare l'impossibilità di ottenere, con il
ricorso al mercato, condizioni più vantaggiose per la
prestazione dei servizi offerti dalla società partecipata.
La relazione deve essere fondata su un'adeguata analisi, che
sia in grado di illustrare le caratteristiche e la struttura
dei mercati interessati, evidenziando l'esistenza di
benchmark di costo.
Le amministrazioni che ritengono di rientrare tra le ipotesi
di deroga debbono presentare una richiesta di parere
all'Autorità antitrust, utilizzando il formulario per la
richiesta di parere, allegato alla comunicazione del 4
febbraio scorso. La richiesta deve essere inviata in tempo
utile per rispettare i termini di cui al comma 1
dell'articolo 4 e precisamente il 30.06.2013 in caso di
alienazione ed entro il 31 dicembre prossimi nel caso di
scioglimento, tenendo conto, inoltre, del termine di 60
giorni per il rilascio del parere, che decorre dal
ricevimento della richiesta.
All'Autorità devono essere forniti una serie di
documentazioni, quali l'atto costitutivo, lo statuto, gli
ultimi tre bilanci approvati, le forme di finanziamento e le
indicazioni in merito agli interventi di ricapitalizzazione
effettuati nel triennio precedente. È necessario indicare il
tipo e il valore dei servizi in questione e le eventuali
forme di finanziamento dell'attività svolta dalla società
partecipata.
In particolare deve essere fornita una relazione contenente
gli esiti dell'indagine di mercato, dalla quale risulta non
possibile un utile ed efficace ricorso al mercato, analisi
che deve contenere, in particolare, le informazioni sulle
caratteristiche economiche, sociali e ambientali del
contesto e del settore o del mercato, dei principali
operatori attivi
(articolo ItaliaOggi del 09.02.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Le
Finanze hanno messo a punto per i comuni un prototipo di
regolamento del tributo. La Tares con l'invito a pagare.
L'ente può mantenere la prassi delle richieste bonarie.
Tares con invito al pagamento. Consentito ai comuni di
tenere in vita la prassi che prevede l'invio ai
contribuenti, senza formalità di notifica, di inviti di
pagamento che indicano le somme da versare e le relative
modalità e termini entro i quali eseguire detti adempimenti.
Agli enti accordata anche la possibilità di modificare sia
il numero che la scadenza delle rate di versamento, che deve
comunque avvenire tramite conto corrente postale o modello
F-24.
È quanto si legge nel
prototipo di regolamento relativo alla
tassa rifiuti e servizi pubblicato sul sito del Ministero
dell'economia e delle finanze (unitamente alle
linee guida per la predisposizione delle delibere e dei
regolamenti concernenti le entrate tributarie locali e
strumenti prototipali), sul quale gli operatori del
settore possono inviare consigli e rilievi anche critici
validi per eventuali future edizioni del prototipo di
regolamento.
La disciplina statale è contenuta nell'art. 14 del dl 06.12.2011, n. 201, convertito con modificazioni dalla
legge 22.12.2011, n. 214, che è stato oggetto di
notevoli cambiamenti da parte dell'art. 1, comma 387, della
legge 24.12.2012, n. 228, e cioè della legge di
stabilità per l'anno 2013. Il prototipo di regolamento Tares
(che da quest'anno ha preso il posto di Tarsu, Tia1 e Tia2)
recepisce tutte le novità apportate al nuovo tributo, le
razionalizza e propone uno strumento che ogni ente locale
può adeguare alle proprie esigenze finanziarie ed
organizzative. Ma non è vincolante per i comuni.
Il primo chiarimento presente nel regolamento è il suo
ambito di applicazione, che è limitato a disciplinare il
solo tributo comunale sui rifiuti e sui servizi, vale a dire
un'entrata di natura tributaria, mentre non riguarda in
alcun modo la tariffa con natura corrispettiva prevista ai
commi da 29-32 dell'art. 14 del dl n. 201 del 2011, che i
comuni che hanno realizzato sistemi di misurazione puntuale
della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico
possono prevedere, con regolamento, in luogo del tributo.
Uno dei punti di maggiore incertezza è stato sempre
rappresentato dai criteri per l'individuazione del costo del
servizio di gestione dei rifiuti e per la determinazione
della tariffa. Sul punto si ricorderà che l'originaria
formulazione dell'art. 14 del dl 201 del 2012 prevedeva
l'emanazione di un regolamento entro il 31.10.2012 e
solo in via transitoria, l'applicazione delle disposizioni
del dpr 27.04.1999, n. 158, e cioè il cosiddetto «metodo
normalizzato» per definire la Tia1.
La nuova norma ribalta la situazione in quanto rende
definitiva l'applicazione del decreto in questione,
circostanza che se da un lato rassicura i comuni che avevano
adottato la Tia, dall'altro mette in crisi gli enti rimasti
nel regime Tarsu e pertanto non avvezzi all'utilizzo di tali
regole. L'art. 13 del regolamento precisa che la tariffa
Tares è commisurata alle quantità e qualità medie ordinarie
di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione
agli usi e alla tipologia di attività svolte.
Precisa,
inoltre, che la tariffa è determinata sulla base del piano
finanziario con deliberazione del consiglio comunale, da
adottare entro la data di approvazione del bilancio di
previsione relativo alla stessa annualità. Un altro aspetto
affrontato nell'art. 11 del regolamento riguarda la
determinazione della superficie tassabile, che in base alle
novità introdotte dalla legge di stabilità, equivale a
quella calpestabile dei locali e delle aree suscettibili di
produrre rifiuti urbani e assimilati. E ciò almeno fino al
definitivo allineamento tra i dati catastali relativi alle
unità immobiliari a destinazione ordinaria ed i dati
riguardanti la toponomastica e la numerazione civica interna
ed esterna di ciascun comune che dovrebbe permettere di
addivenire alla determinazione della superficie
assoggettabile al tributo pari all'80% di quella catastale,
e cioè della superficie che l'originaria formulazione del
comma 9 dell'art. 14, era considerata tassabile. Ai fini
dell'applicazione del tributo si considerano, quindi, le
superfici dichiarate o accertate ai fini della Tarsu, della
Tia1 e della Tia2.
Il tributo provinciale per l'esercizio delle funzioni di
tutela, protezione e igiene dell'ambiente. Dovuto dai
soggetti passivi del tributo comunale sui rifiuti e sui
servizi, detto tributo provinciale, commisurato alla
superficie dei locali e delle aree assoggettabili al tributo
comunale, è applicato nella misura percentuale -non
inferiore all'1% né superiore al 5%- deliberata dalla
provincia sul solo importo del tributo comunale.
La maggiorazione per i servizi indivisibili. Gli artt. 29 e
30 sono, invece, dedicati alla maggiorazione applicata alla
tariffa Tares a copertura dei costi relativi ai servizi
indivisibili dei comuni. Detta maggiorazione, si legge nelle
note all'articolo «ha natura di imposta addizionale rispetto
al tributo sui rifiuti (che ha invece natura di tassa), di
cui assume il medesimo presupposto». La maggiorazione è
dovuta dalle utenze domestiche e non domestiche, in misura
pari al prodotto tra l'aliquota vigente stabilita e la
superficie soggetta alla Tares.
L'aliquota base della
maggiorazione è pari, per ogni tipologia di utenza, a 0,30
euro per ogni metro quadrato di superficie imponibile; il
consiglio comunale può modificare solo in aumento detta
misura elevandola fino a 0,40 euro per metro quadrato, anche
graduandola in ragione della tipologia dell'immobile e della
zona ove lo stesso è ubicato.
La riscossione.
Il pagamento del tributo, della tariffa corrispettivo e
della maggiorazione deve avvenire di norma in quattro rate
trimestrali a gennaio, aprile, luglio e ottobre, con facoltà
di effettuare il pagamento in unica soluzione entro giugno.
È stata poi, come detto, prevista nel testo l'alternativa
accordata dalla legge ai comuni, che possono modificare sia
il numero che la scadenza delle rate di versamento.
Lo strumento che i contribuenti devono utilizzare è il
bollettino di conto corrente postale, o il modello di
pagamento unificato F-24. Nel regolamento si è ritenuto
opportuno, per ragioni di continuità, mantenere la prassi
invalsa presso i comuni che prevede l'invio ai contribuenti,
senza formalità di notifica di «inviti di pagamento»
che indicano le somme da versare e le relative modalità e
termini entro i quali eseguire detti adempimenti
(articolo ItaliaOggi dell'08.02.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Entro
il 15/2 i consorzi devono accreditarsi al Gse. Moduli
fotovoltaici, countdown sul riciclo.
Entro il 15 febbraio i sistemi o i consorzi devono inviare
al Gse la domanda di adesione per il recupero e riciclo dei
moduli fotovoltaici a fine vita.
I decreti interministeriali
del 05.05.2011 (quarto conto energia) e del 05.07.2012
(quinto conto energia) hanno stabilito, per gli impianti
entrati in esercizio a decorrere dall'01.07.2012, che il
produttore dei moduli fotovoltaici debba aderire a un
sistema o consorzio che ne garantisca il riciclo a fine
vita. I sistemi o i consorzi sono tenuti a trasmettere al Gse entro il 15.02.2013 la seguente documentazione: la
dichiarazione di manleva; la dichiarazione di disponibilità
di rete/polizze/autorizzazioni; l'atto istitutivo dello
strumento negoziale; la dichiarazione sostitutiva del
disciplinare tecnico resa dal gestore del fondo.
La
documentazione deve essere trasmessa alla casella di posta
elettronica ConsorzioSmaltimentoFTV@gse.it (la dimensione
massima della singola e-mail non può superare i 10 MB). Il
Gse valuterà la documentazione pervenuta e pubblicherà sul
proprio sito internet, entro il 28.02.2013, un primo
elenco dei sistemi o consorzi ritenuti idonei. L'elenco sarà
soggetto ad aggiornamento periodico per tener conto della
documentazione fatta pervenire al Gse, successivamente al 15.02.2013, da parte di nuovi sistemi o consorzi. Il Gse
si riserva di chiedere documenti integrativi o elementi
chiarificatori riguardo alla documentazione presentata.
Per
essere riconosciuti come tali, i sistemi o i consorzi devono
essere in possesso di determinati requisiti stabiliti nel
«Disciplinare Tecnico per la definizione e verifica dei
requisiti tecnici dei Sistemi/Consorzi per il recupero e
riciclo dei moduli fotovoltaici a fine vita» pubblicato dal Gse il 21.12.2012. Entro il 31.03.2013, i
produttori di moduli fotovoltaici installati su impianti
entrati in esercizio nel periodo transitorio (01.07.2012-31.03.2013), dovranno aderire, con riferimento a tali
moduli, a uno dei sistemi o consorzi inclusi nell'elenco
pubblicato dal Gse
(articolo ItaliaOggi dell'08.02.2013). |
INCARICHI
PROGETTUALI: Appalti, parametri al palo.
Nel dm valori più alti delle vecchie tariffe.
Stop dall'Autorità di vigilanza: il decreto volta
le spalle al mercato.
Il regolamento sui parametri per le gare di appalto inciampa
nello stesso vincolo contenuto nella legge delega (1/12
modificato dal dl Sviluppo 83/2012): supera le vecchie tariffe
professionali e volta le spalle al mercato.
Lo fa rilevare
l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici nel
parere 06.02.2013 n. 14435 di prot. inviato al ministero della
giustizia sullo «Schema di regolamento che definisce i
parametri da utilizzare per la determinazione dell'importo
da porre a base di gara nell'ambito dei contratti pubblici
dei servizi di ingegneria e architettura».
Un testo molto atteso dopo che il decreto legge sulle
liberalizzazioni aveva di fatto cancellato ogni riferimento
tariffario, privando le stazioni appaltanti di regole per
calcolare gli importi e per determinare le corrette
procedure per l'affidamento. E alimentando una situazione di
eccessiva discrezionalità.
Una situazione destinata, però, a
protrarsi ancora a lungo, visto il mix combinato della
conclusione imminente della legislatura, anche se il testo
potrebbe procedere nel suo iter, e della richiesta invece
dell'Autorità di raddrizzarne il tiro. Senza considerare
inoltre che sul provvedimento pende ancora il parere del
Consiglio di stato che dovrebbe arrivare proprio in questi
giorni. In ogni caso, le osservazioni dell'Autorità, che
seguono quelle del Consiglio superiore dei lavori pubblici,
rileva una serie di criticità invitando l'ufficio
legislativo di Via Arenula a rimetterci mano.
Innanzitutto,
rileva l'Avcp, il quadro di sintesi e le verifiche elaborate
dal ministero della giustizia con tanto di grafici e tabelle
presenti nella relazione illustrativa non sono sufficienti a
ricavare che i parametri non determinino corrispettivi
maggiori delle vecchie tariffe. In questo senso, l'organo di
vigilanza guidato da Sergio Santoro suggerisce che nella
predisposizione degli atti di gara il responsabile del
procedimento abbia l'obbligo di accertare che non siano
superati gli importi «delle precedenti soglie tariffarie,
con conseguente violazione del vincolo di cui al comma 2
dell'art. 1 del dm in esame».
Qualora questo accadesse il
prezzo a base d'asta dovrebbe essere ridotto «almeno del
valore ricavabile dalle precedenti soglie». Non solo perché
per l'Autorità i parametri per il calcolo del corrispettivo
«non sembrerebbero rinconducibili ai risultati di un'analisi
di mercato, ma piuttosto a un approccio pragmatico che ha
assunto quali riferimenti le precedenti tariffe e quelle del
recente dm 240/2010. Quindi, il ricorso ai parametri deve
essere effettuato nel rispetto del codice dei contratti
pubblici (dlgs 163/2006) che indica che le stazioni
appaltanti hanno la possibilità non l'obbligo di rifarsi
alle tariffe professionali».
Di conseguenza è consentito loro determinare l'importo della
prestazione, tenendo conto delle precedenti esperienze di
affidamento e dell'andamento del mercato, nel caso in cui i
parametri del decreto in discussione «conducano a
corrispettivi, da ritenersi quale massimo di riferimento,
superiori»
(articolo ItaliaOggi dell'08.02.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: Il fondo anti-default è indolore.
Le anticipazioni non pesano né sul Patto né sul debito.
Una circolare della Ragioneria spiega le novità
contabili per il triennio 2013-2015.
Le anticipazioni del fondo anti-dissesto non pesano né sul
Patto né sul debito, così come ininfluente ai fini del
rispetto dei vincoli di finanza pubblica è il fondo di
svalutazione crediti.
Sono queste due fra le principali novità contenute nella
consueta circolare annuale con la quale la Ragioneria dello
stato illustra i contenuti della disciplina in materia di
Patto di stabilità interno di province e comuni (circolare
n. 5/2012, diffusa ieri).
Il primo chiarimento importante riguarda il «fondo di
rotazione per assicurare la stabilità finanziaria degli enti
locali», introdotto dal dl 174/2013 per offrire un
salvagente alle amministrazioni sull'orlo del dissesto.
Al riguardo, la circolare precisa che le relative
anticipazioni vanno imputate contabilmente alle accensioni
di prestiti ma, trattandosi di un finanziamento erogato
dallo stato, non rilevano ai fini dei tetto di cui all'art.
204 del Tuel (da quest'anno pari al 4% delle entrate
correnti). Simmetricamente, le restituzioni vanno imputate
contabilmente tra i rimborsi di prestiti. Da qui un'altra
conseguenza importante: sia le risorse in entrata che quelle
in uscita non rilevano ai fini del Patto.
La circolare si sofferma poi sul fondo di svalutazione
crediti, la cui iscrizione a bilancio è stata resa
obbligatoria dal dl 95/2012 in misura non inferiore al 25%
dei residui attivi, di cui ai titoli primo e terzo
dell'entrata, aventi anzianità superiore a 5 anni. Al
riguardo, essa precisa che l'importo così accantonato non va
impegnato, confluendo in tal modo, a fine esercizio, nel
risultato di amministrazione quale fondo vincolato (così
come stabilito dal principio contabile n. 1/53). Ne consegue
che lo stesso non rileva ai fini del Patto. In tal modo, di
fatto, il Mef smentisce la (o almeno depotenzia la portata
della) pronuncia della Corte dei conti per la Toscana (n.
287/2012) che aveva sostenuto il contrario, affermando che
l'esclusione della quota di spesa corrente prevista per il
fondo determinerebbe una grave irregolarità contabile
Altre precisazioni importanti riguardano l'impatto contabile
delle riduzioni previste dallo stesso dl 95 a valere sullo
scorso esercizio finanziario. Per i comuni che non sono
riusciti, entro lo scorso 31 dicembre, a destinare (in tutto
o in parte) il relativo importo alla riduzione del debito,
il taglio scatterà quest'anno per la differenza.
Contestualmente, tuttavia, gli stessi enti beneficeranno di
un miglioramento dell'obiettivo di quest'anno, al fine di
compensare l'esclusione subita sul Patto 2012. La variazione
verrà operata in automatico dal Mef, sulla base dei dati che
gli stessi comuni comunicheranno al ministero dell'interno
entro il prossimo 31 marzo.
Il dipartimento guidato da Mario Canzio non scioglie,
invece, un nodo che preoccupa diversi piccoli comuni. Il
problema sono gli interventi per il ripristino dei danni
conseguenti a calamità naturali. Al riguardo, la regola
generale prevede che gli enti possano escludere le sole
spese finanziate con risorse statali, a condizione, però,
che essi detraggano anche le relative entrate. Spesso, però,
i sindaci sono stati costretti ad anticipare i soldi di
tasca propria, in attesa che lo stato o le regioni
effettuassero i rimborsi. Per questi casi, la circolare
precisa che se un ente, nell'anno 2013, incassa una somma
(per esempio 100) a fronte di spese già effettuate a valere
su altre risorse negli anni passati, l'incasso di 100 è
escluso dal saldo 2013 e non possono essere escluse
ulteriori spese. Ciò presuppone che l'ente in questione
abbia, a suo tempo, escluso la spesa dai calcoli del Patto.
Ma ciò, nel caso dei comuni fra 1.000 e 5.000 abitanti, non
è vero, perché tali enti non erano soggetti (lo sono solo da
quest'anno). Da qui un evidente penalizzazione, che
meriterebbe di essere corretta.
La circolare si sofferma sui nuovi controlli esterni
previsti dal dl 174, precisando che la Corte dei conti
mantiene anche il potere di vigilanza sull'autoapplicazione
delle sanzioni da parte degli enti inadempienti, malgrado
l'abrogazione della relativa previsione.
Per il resto, la circolare conferma tutte le novità già
anticipate da Italia Oggi: modifica della base di calcolo
(ora vale la spesa corrente media 2007-2009); previsione di
un modesto sconto (solo sul 2013) per i piccoli comuni;
parziale revisione dei parametri di virtuosità (che ora
considerano anche valore delle rendite catastali e numero di
occupati); conferma degli istituti di «solidarietà»
(Patto regionale verticale, incentivato e non, patto
orizzontale nazionale e regionale); inclusione anche degli
enti commissariati per infiltrazioni mafiose
(articolo ItaliaOggi dell'08.02.2013). |
APPALTI - ENTI
LOCALI: Trasparenza, i contratti sul web.
Non rileva pubblicare la liquidazione della fattura.
Sono molte le difficoltà operative generate dalle
nuove norme sull'amministrazione aperta.
La pubblicazione delle determine di liquidazione, ai sensi
della normativa sulla cosiddetta «amministrazione aperta»,
non condiziona l'efficacia dei pagamenti. I servizi
finanziari, dunque, possono procedere ai pagamenti senza
avere l'onere di controllare l'avvenuto adempimento.
Sono molteplici le difficoltà operative che continua a porre
l'articolo 18 del dl 83/2012, convertito in legge 134/2012,
per effetto del quale le amministrazioni sono obbligate a
pubblicare una serie di informazioni concernenti appalti,
incarichi di collaborazione e contributi sui propri siti
istituzionali.
I problemi discendono, prevalentemente, dal disposto del
comma 5 del citato articolo 18, ai sensi del quale «a
decorrere dal 01.01.2013, per le concessioni di
vantaggi economici successivi all'entrata in vigore del
presente decreto legge, la pubblicazione ai sensi del
presente articolo costituisce condizione legale di efficacia
del titolo legittimante delle concessioni ed attribuzioni di
importo complessivo superiore a 1.000 euro nel corso
dell'anno solare».
La norma è molto rigorosa, perché introduce una condizione
di efficacia, il cui mancato rispetto comporta
responsabilità per indebita concessione del beneficio
stesso, ma è evidentemente troppo laconica nell'indicare
quale sia l'atto condizionato dalla pubblicazione.
Il riferimento poco chiaro è al «titolo legittimante».
Moltissimi ritengono che detto titolo legittimante sia la
fattura e che, di conseguenza, il pagamento resti
condizionato all'adozione e pubblicazione del provvedimento
che la liquida. Pertanto, i responsabili degli uffici
finanziari ritengono di dover controllare che l'adempimento
della pubblicazione del provvedimento liquidativo sia stato
rispettato, prima di ordinare il pagamento al tesoriere.
Si tratta, tuttavia, di una visione non corretta. La fattura
non ha alcuna funzione di «titolo legittimante». Come
sancisce la pacifica giurisprudenza della Cassazione la
fattura commerciale, che è atto formato unilateralmente
dall'imprenditore e, soprattutto, inerente a un rapporto già
formato tra le parti, ha solo natura di atto partecipativo e
non di prova documentale, né di indizio circa l'esistenza
del credito in essa riportato.
Dunque, la fattura sicuramente non costituisce «titolo
legittimante». Esso va ricercato a monte del rapporto cui la
fattura inerisce, non avendo essa natura costitutiva del
medesimo.
Il titolo legittimante, allora, non può che essere l'atto di
costituzione e regolazione del rapporto tra pubblica
amministrazione e privato. Non è, di conseguenza, il
provvedimento amministrativo di concessione del contributo o
individuazione del contraente (aggiudicazione definitiva o
affidamento), perché si tratta comunque di atti aventi
esclusivamente efficacia interna: autorizzano
l'amministrazione a impegnare definitivamente la spesa e a
stipulare il contratto o gli atti convenzionali regolanti il
rapporto.
Dunque, si comprende come il «titolo legittimante» sia
esclusivamente l'atto di regolazione del rapporto, cioè
contratto, convenzione, o altro atto di identica natura,
qualunque sia il nomen iuris.
Il beneficio viene materialmente concesso o attribuito al
terzo destinatario con la stipulazione del contratto, dunque
esso è il titolo legittimante. Allora, la pubblicazione che
condiziona l'efficacia è quella del contratto.
Sicuramente la pubblicazione del provvedimento di
liquidazione, pur essendo comunque obbligatoria, non assume
alcun a funzione né di condizione di efficacia, né
presupposto, tanto della liquidazione, quanto del successivo
pagamento.
I servizi finanziari non debbono, quindi, accertare
preventivamente al pagamento che la liquidazione sia
pubblicata. Semmai, occorre sempre evidenziare in tutti gli
atti e provvedimenti adottati successivamente alla
stipulazione del contratto che esso risulti pubblicato nel
sito istituzionale dell'ente, con l'indicazione
dell'indirizzo internet nel quale reperirlo
(articolo ItaliaOggi dell'08.02.2013). |
ENTI LOCALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Conti, decide il consiglio.
Sulla proposta di equilibrio di bilancio.
La mancata approvazione in commissione non
impedisce l'esame.
Qual è la procedura prevista per l'approvazione delle
delibere da parte del consiglio comunale in relazione
all'obbligo, per l'ente, di approvare entro il 30 settembre
la salvaguardia degli equilibri di bilancio ai sensi
dell'art. 193 del decreto legislativo n. 267/2000?
Nella fattispecie, il regolamento per il funzionamento del
consiglio comunale ha disciplinato i poteri e
l'organizzazione delle commissioni costituite in base alla
facoltà demandata allo statuto dell'ente dall'articolo 38,
comma 6, del dlgs n. 267/2000.
In particolare, il regolamento prevede che tutti i
provvedimenti di competenza del consiglio comunale devono
essere approvati preventivamente dalla commissione «in sede
referente» e che, in caso di mancata approvazione, ne sia
data comunque comunicazione nella seduta successiva.
Nel caso di specie la proposta di delibera relativa alla
salvaguardia degli equilibri di bilancio è stata sottoposta
alla commissione competente, in sede referente, che,
tuttavia, non l'ha approvata.
È stato chiesto se la mancata approvazione da parte della
commissione in sede referente precluda al consiglio comunale
di deliberare la specifica proposta.
La disciplina regolamentare per l'approvazione dei
provvedimenti di competenza del consiglio che prevede,
obbligatoriamente, l'esame del testo da parte della
commissione in sede referente è coerente con la
configurazione delle commissioni consiliari quali organismi
di supporto all'attività del consiglio comunale, ai sensi
dell'art. 38, comma 6, del dlgs n. 267/20009.
Inoltre, qualora non disciplinata in modo dettagliato dal
regolamento del consiglio comunale, la funzione meramente
«istruttoria» svolta dalla commissione referente,
nell'ambito della procedura sui provvedimenti consiliari, si
evince laddove si prevede che in caso di rigetto, la
commissione «ne dà comunque comunicazione» al consiglio
comunale, nonché quando «decorso il termine stabilito, senza
che la commissione abbia espresso il proprio parere, la
proposta di delibera viene trasmessa direttamente al
consiglio comunale».
Anche i provvedimenti approvati dalla commissione in sede
referente sono trasmessi al consiglio comunale per la
successiva votazione della delibera consiliare.
Da ciò consegue che è solo il consiglio comunale che deve
comunque pronunciarsi in via definitiva sulla proposta,
ancorché già esaminata dalla commissione.
Tale assunto trova conferma, con particolare riferimento
all'approvazione della salvaguardia degli equilibri di
bilancio, espressamente attribuita dall'art. 193, comma 2,
del dlgs n. 267/2000 al consiglio comunale in quanto atto
fondamentale per la vita dell'ente, la cui mancata adozione
comporta l'attivazione della procedura di cui all'art. 141,
comma 2
(articolo ItaliaOggi dell'08.02.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Indennità di funzione.
Come si determinano gli importi relativi all'indennità di
funzione da corrispondere agli amministratori locali in
carica?
In merito alla problematica relativa alla vigenza del comma
54 dell'art. 1 della legge 23.12.2005, n. 266, che ha
disposto la riduzione del 10% dei compensi spettanti agli
amministratori locali rispetto all'ammontare risultante al
30.09.2005, comunque determinato dagli stessi enti
locali in virtù della facoltà al tempo riconosciuta di
apportare modifiche ai minimi tabellari, si è pronunciata la
Corte dei conti a sezioni riunite in sede di controllo, con
delibera 1/Contr/12 del 24.11.2011, che, a fronte di
soluzioni giurisprudenziali non univoche, ha risolto la
questione esprimendo il parere che il taglio operato dalla
norma deve ritenersi strutturale, avente cioè un orizzonte
temporale non limitato all'esercizio 2006.
In proposito, non sembrano residuare margini per un riesame
della questione, sulla quale il ministero dell'interno si è
già espresso con argomentazioni di cui la stessa Corte ha
tenuto conto nella stesura della propria decisione
(articolo ItaliaOggi dell'08.02.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - INCARICHI PROGETTUALI: Lavori
in casa. Sconto sul 36-50% anche per professionisti senza
Albo.
Detraibile la parcella del progettista di interni.
Possono essere detratte al 36% (50% per i pagamenti
effettuati dal 26.06.2012 al 30.06.2013) le spese
per tutte le prestazioni professionali "strettamente"
collegate alla realizzazione degli interventi agevolati,
indipendentemente dall'iscrizione del prestatore ad Albi o
Collegi. Infatti, sono agevolate anche tutte le consulenze,
"strettamente" connesse alla realizzazione degli interventi
di cui si parla nella mail arrivata al Sole 24 Ore.
Anche dopo la conferma a regime dell'incentivo del 36-50%,
attuata dal 01.01.2012, restano detraibili le spese
sostenute per la «progettazione e per prestazioni
professionali connesse all'esecuzione delle opere edilizie e
alla messa a norma degli edifici ai sensi della legislazione
vigente in materia» (articolo 16-bis, comma 2, Tuir). La
disposizione è simile a quella in vigore fino al 2011,
quindi, sono confermate tutte le interpretazioni fornite sul
tema dall'agenzia delle Entrate, la quale ha chiarito che
sono detraibili al 36% (50% per i pagamenti effettuati dal
26.06.2012 al 30.06.2013) le spese «per la
progettazione e le altre prestazioni professionali
connesse», per la «messa in regola degli edifici» alle
normative sugli impianti, «per la relazione di conformità
dei lavori alle leggi vigenti» e «per l'effettuazione di
perizie e sopralluoghi» (risoluzione n. 229/E/2009;
risoluzione Dre Lombardia n. 76227/1999, circolari n.
57/E/1998 e n. 121/E/1998).
Questa elencazione non ha valore tassativo, in quanto la
risoluzione n. 229/E/2009 consente di beneficiare
dell'agevolazione anche per tutte le «prestazioni
professionali comunque richieste dal tipo di intervento»
e per «gli altri eventuali costi strettamente collegati»
alla sua realizzazione (voce confermata recentemente anche
dalla circolare n. 19/E/2012, risposta 1.9). Si tratta di
due categorie "residuali" di spese, nelle quali
possono rientrare anche le consulenze per la divisione degli
spazi interni, per la posizione degli impianti, per la
scelta dei materiali del pavimento e dei rivestimenti, per i
disegni degli infissi, delle porte o dei portoni, per le
relative finiture interne, le tinteggiature, i cartongessi,
gli isolamenti.
Queste consulenze possono essere detratte solo se sono «comunque
richieste dal tipo di intervento» agevolato o se sono "strettamente"
collegate alla sua realizzazione
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.02.2013). |
APPALTI: L'Authority
contratti vuole i link con tutti i dati.
Le stazioni appaltanti devono trasmettere tutte le
informazioni pubblicate sui siti internet relativi alla
gestione di contratti pubblici anche all'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici.
È quanto chiede il
presidente dell'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici, Sergio Santoro, in una lettera trasmessa al
ministro della funzione pubblica nella quale si chiedono
diverse modifiche allo schema di decreto legislativo sulla
pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da
parte delle pubbliche amministrazioni.
Si tratta del
provvedimento varato in via preliminare dal governo il 21
gennaio, che attua l'art. 1, comma 35, della legge 190/2012
(anticorruzione) e, fra le altre cose, fa fermi,
confermandoli, gli obblighi di pubblicità legale di bandi e
avvisi di gara sui quotidiani (ItaliaOggi dell'01/02/2013).
La proposta è di estendere l'obbligo di trasmissione
all'organismo di vigilanza anche delle informazioni che le
stazioni appaltanti devono pubblicare sui propri siti
internet, oltre a quelle concernenti i contratti di importo
inferiore a 20.000 e all'obbligo di pubblicazione del
verbale di consegna lavori, di ultimazione dei lavori e del
conto finale dei lavori.
In altre parole le amministrazioni dovrebbero inviare
all'Autorità la determina di aggiudicazione definitiva
dell'appalto e le informazioni relative all'importo di
aggiudicazione, al soggetto aggiudicatario, alla base
d'asta, alla procedura di selezione, al numero degli
offerenti, ai tempi di completamento dell'appalto;
all'importo delle somme liquidate, a eventuali modifiche
contrattuali alle decisioni di ritiro e di recesso dei
contratti. Per agevolare le amministrazioni l'Autorità
propone di acquisire, tramite collegamento alla Banca dati
nazionale dei contratti pubblici, tutte le informazioni
rilevanti sui contratti stipulati, riportandole in una
tabella riassuntiva predisposta dall'Autorità.
Le stazioni appaltanti dovrebbero quindi integrare le
tabelle, pubblicarle sul proprio sito e comunicare
all'Autorità il link o la pagina del sito dove è avvenuta la
pubblicazione. In questo modo, peraltro, l'Autorità può
verificare l'avvenuto adempimento degli obblighi informativi
e segnalare alla Corte dei conti eventuali omissioni. Un
altro profilo critico dello schema di decreto riguarda le
informazioni sui costi unitari e gli indicatori di
realizzazione delle opere pubbliche, da pubblicare sulla
base di uno schema tipo curato dall'Authority; la
pubblicazione di queste informazioni sostituirebbe l'obbligo
di pubblicare i costi unitari di produzione dei servizi
erogati ai cittadini previsto dall'art. 1, comma 15, della
legge 190.
La lettera sottolinea l'esigenza di raccordare la nozione di
costi unitari con quella di «costi standard» (art. 7
del Codice) e di «prezzi di riferimento» (art. 17
legge 98/2011) e critica la scelta di superare l'obbligo di
pubblicazione dei costi dei servizi erogati ai cittadini che
determinerebbe «la conseguenza di impedire ogni opportuna
valutazione di convenienza economica delle scelte»
(articolo ItaliaOggi del 06.02.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI: Autorità
di vigilanza. Appello del regolatore dei contratti pubblici:
correzioni prima della pubblicazione.
«Trasparenza Pa da rivedere».
Santoro: nel decreto rafforzare gli obblighi di
comunicazione negli appalti.
L'OMISSIONE/
Dimenticati gli obblighi di trasmissione all'Autorità dei
dati relativi agli appalti che le amministrazioni dovranno
mettere on-line.
Correggere il decreto sulla trasparenza della Pa prima della
pubblicazione. È quanto chiede l'Autorità di vigilanza sui
contratti pubblici con una lettera firmata dal presidente
Sergio Santoro e inviata al ministro della semplificazione
Filippo Patroni Griffi e al sottosegretario di Stato Antonio
Catricalà.
Secondo l'Autorità il testo approvato dal
Consiglio dei ministri il 22 gennaio, in attesa del parere
della Conferenza unificata e del garante della privacy, va
rivisto, rafforzando gli obblighi di comunicazione della Pa
in materia di appalti, estendendo il sistema delle sanzioni
nei confronti delle amministrazioni ritrose a fornire
informazioni sui contratti, uniformando il concetto di costi
unitari delle opere pubbliche a quello dei costi standard,
previsto dal codice dei contratti pubblici, e dei prezzi di
riferimento delle prestazioni sanitarie che la stessa
Autorità è stata incaricata di rilevare.
Il decreto varato dal Governo mette in pratica le
indicazioni della legge anticorruzione (legge 190/2012) in
materia di appalti pubblici e sul fronte dell'edilizia
privata. Il decreto fa salvi gli obblighi di pubblicità
legale, con il vincolo di pubblicazione di bandi e avvisi di
aggiudicazione sui giornali (con costi a carico di imprese e
professionisti a partire dal primo gennaio). Aumentano però
i dati e le informazioni da pubblicare sui siti web.
Nel
dettaglio, andranno on-line il bando, la determina di
aggiudicazione, l'oggetto del bando, l'oggetto
dell'eventuale delibera a contrarre, l'importo,
l'aggiudicatario, la base d'asta, la procedura e la modalità
di selezione del contraente, il numero di offerenti, i tempi
di completamento dell'opera, l'importo delle somme
liquidate, le modifiche contrattuali, le decisioni di ritiro
e recesso dei contratti (comma 1 dell'articolo 37).
Per
tutte queste informazioni, segnala Santoro, non è previsto
«alcun obbligo di trasmissione delle informazioni in formato
digitale a questa Autorità». Né, di conseguenza, esiste
alcun obbligo per l'Autorità di pubblicare queste
informazioni sul proprio sito e di comunicare l'elenco delle
Pa inadempienti alla Corte dei Conti con l'applicazione
delle sanzioni previste dal Codice degli appalti per le
amministrazioni poco trasparenti (da 25.822 a 51.545 euro
per i casi più gravi).
Una "dimenticanza" poco spiegabile
per l'Autorità. Anche alla luce del fatto che lo stesso
decreto prevede che le stazioni appaltanti raccolgano
comunque tutte queste informazioni rendendole liberamente
fruibili sul proprio sito web e inviandole al via Ripetta
ogni tre mesi in forma aggregata. Un principio che vale per
tutti i contratti sotto i 20mila euro e per tutti gli
appalti di lavori pubblici: per i quali vanno pubblicati
anche il verbale di consegna dei lavori, il certificato di
ultimazione dei lavori e il conto finale. Oltre alla
delibera a contrarre nel caso di interventi affidati a
trattativa privata senza bando.
In tutte questi casi il
provvedimento varato dal Governo prevede l'obbligo di
informare l'Autorità a pena di sanzione. «E ciò -sottolinea
Santoro- senza che questa disparità di trattamento appaia
giustificata da una maggiore rilevanza di tali dati rispetto
a quelli del comma 1 ai fini perseguiti dall'intervento
normativo». Cioè aumentare il grado di trasparenza della Pa.
Un altro rilievo riguarda l'obbligo per le amministrazioni
di pubblicare sui propri siti web i «costi unitari»
di realizzazione delle opere pubbliche sulla base di uno
schema-tipo redatto dall'Autorità. Per Santoro servirebbe
innanzitutto un chiarimento sulla «nozione di costi
unitari», da raccordare a quelle di «costi standard»
e «prezzi di riferimento» previste rispettivamente
dal codice dei contratti pubblici e dalle norme in materia
di prestazioni sanitarie. «Tale raccordo non è stato
ancora operato dal legislatore ed è, ad oggi, fonte di gravi
difficoltà operative»
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.02.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI: Pagamenti in 30 giorni per tutti.
Deroghe eccezionali. Ora l'Italia è a rischio infrazione. Convegno
a Milano sul recepimento della direttiva Ue. Tajani: il
governo chiarisca.
Pagamenti entro 30 giorni, con pochissime eccezioni. Questa
è la regola generale nelle transazioni commerciali tra p.a.
e imprese, ma anche tra impresa e impresa (B2B), introdotta
nell'ordinamento italiano dal dlgs 192/2012 che ha recepito
la direttiva comunitaria sui ritardati pagamenti. Le parti
non possono decidere di allungare o meno i termini a proprio
piacimento a meno che non vi siano circostanze eccezionali
che legittimino lo slittamento del termine a 60 giorni
(aziende pubbliche, sanità, particolari procedure di appalto
come il dialogo competitivo).
Al di fuori di questi casi, il periodo massimo per saldare
le fatture resta di 30 giorni. Dopo scatteranno gli
interessi di mora fissati dal 01.01.2013 all'8,75% (8%
+ il tasso Bce). La possibilità di deroga a 60 giorni, che
appare come generalizzata nel dlgs 192/2012, rischia quindi
di essere incompatibile con il dettato della direttiva
2011/7/Ue. E potrebbe anche portare all'avvio di una
procedura di infrazione contro l'Italia.
È quanto è emerso nel corso dell'incontro organizzato ieri a
Milano dalla Commissione europea con i rappresentanti delle
istituzioni e del mondo economico per illustrare gli effetti
del recepimento in Italia della direttiva contro i pagamenti
lumaca.
Un'occasione che è servita ai rappresentanti dell'esecutivo
di Bruxelles per ribadire alcuni concetti ancora oggetto di
interpretazioni fuorvianti «anche a causa dell'ambiguità del
testo italiano» (ha ammesso il vicepresidente della
Commissione europea, Antonio Tajani).
Per questo Tajani ha annunciato che chiederà al nuovo
governo una presa di posizione ufficiale entro il 16 marzo,
pena l'apertura di una procedura di infrazione contro
l'Italia. E poco importa che la bacchettata di Bruxelles
possa essere attivata proprio dall'iniziativa del nostro
commissario europeo. Tajani ha fatto della corretta
applicazione della direttiva uno dei punti caratterizzanti
del proprio mandato di commissario per l'Industria e
l'Imprenditoria. E si è già attivato per chiedere al governo
italiano di fugare ogni dubbio sull'ambito di applicazione
della direttiva 2011/7/Ue. Cosa che è avvenuta con la
recente circolare del ministero dello sviluppo economico (si
veda ItaliaOggi Sette del 28.01.2013) che ha chiarito
che non esistono settori esclusi dall'applicazione della
direttiva. Gli appalti pubblici, quindi, vi rientrano a
tutti gli effetti. Ora però, secondo Tajani, la priorità è
insistere sulla rigidità dei tempi di pagamento.
La regola generale è che le fatture vanno saldate entro 30
giorni, elevabili a 60 (e non oltre) in determinati settori
(sanità, aziende pubbliche o particolari procedure di
appalto quali il dialogo competitivo). Trascorsi questi
termini iniziano a decorrere gli interessi di mora. «I
ritardi nei pagamenti disincentivano gli investimenti
stranieri», ha osservato Tajani. «In tutto il mondo la base
per fare affari è la certezza giuridica». In tutto il mondo
tranne che in Italia, dove a causa delle attuali regole di
contabilità pubblica è possibile iscrivere un debito a
bilancio solo nel momento dell'effettivo pagamento e non
invece nel momento in cui sorge l'obbligo giuridico a
pagare.
«È un incentivo a non pagare», lamenta Tajani, «perché non
pagando un debito questo non entra in bilancio, ma così
facendo si finisce per sottomettere l'economia reale alle
regole di contabilità, quando invece dovrebbe essere il
contrario».
Intanto a livello europeo i ritardi di pagamento continuano
a crescere raggiungendo il livello senza precedenti di 340
miliardi di euro. Di questi, almeno 100 miliardi di euro
sono la fetta attribuibile all'Italia, sempre più maglia
nera visto che la p.a. tricolore paga mediamente in 180
giorni quando invece la media Ue è di 162 e quella dei paesi
nordici addirittura di 32 giorni. Le insolvenze hanno
portato alla perdita di 450 mila posti di lavoro e il 57%
delle imprese europee ha avuto problemi di liquidità a causa
dei ritardi di pagamento.
Ma se per il futuro la strada dovrebbe essere tracciata,
come fare a risolvere il problema dei debiti pregressi?
Cento miliardi di euro sono una cifra che, se sommata al
debito pubblico, renderebbe impossibile il raggiungimento
del pareggio di bilancio previsto per il 2014.
Come fare quindi a liberarsi di questo fardello? E
soprattutto come conciliarlo con i rigidi vincoli di
contabilità pubblica imposti a livello europeo? La soluzione
potrebbe essere quella di escludere il debito monstre verso
le imprese dal calcolo del debito pubblico. E quindi
dall'obbligo di pareggio di bilancio. La richiesta sarà
oggetto di una riunione tecnica che Tajani avrà giovedì
prossimo col collega (e commissario Ue per gli affari
economici e monetari) Olli Rehn. E non è escluso che il tema
possa diventare presto uno dei prossimi temi caldi della
campagna elettorale. Anzi, l'auspicio di Tajani è proprio
questo, perché per mettere la p.a. nelle condizioni di
pagare in tempo servono regole contabili più flessibili.
Altrimenti sarà difficile centrare gli obiettivi europei di
arrivare al 70% delle fatture saldate entro 30 giorni.
Anche il presidente dell'Ance, Paolo Buzzetti, si è detto
d'accordo con la richiesta di escludere dal debito pubblico
i 100 miliardi di euro attesi dalle imprese. L'edilizia, del
resto, è forse il settore che più di tutti sta soffrendo per
i ritardi nel pagamento delle fatture. E il credit crunch,
ossia la difficoltà di accesso al credito bancario, fa il
resto. I costruttori hanno portato a casa la certezza che la
direttiva Ue si applica agli appalti pubblici (così come
chiarito espressamente dal Mise).
Ma restano ancora alcuni
nervi scoperti col governo di cui il prossimo esecutivo
dovrà farsi carico. L'Imu sull'invenduto, per esempio, non
va proprio giù ai costruttori che la considerano
incostituzionale (per violazione del principio di
uguaglianza) oltre che contraria alla normativa europea
(articolo ItaliaOggi del 05.02.2013). |
ENTI LOCALI: Trasparenza, Civit striglia i comuni e le unioni.
La Civit (Commissione indipendente per la valutazione, la
trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche),
con
delibera 29.01.2013 n. 10/2013,
in ordine al mancato adempimento degli obblighi di
trasparenza delle Unioni di comuni, con particolare riguardo
alla loro costituzione e gestione, ha deliberato che, sia
l'Unione di comuni che i comuni che ne fanno parte, sono
tenuti a pubblicare sui siti istituzionali, in adempimento
degli obblighi di trasparenza previsti dalla legge, gli
atti, i documenti e i dati di rispettiva competenza.
La
deliberazione nasce dalle note in data 14.12.2012, con
le quali la Cisl Fp di Salerno ha segnalato il mancato
adempimento degli obblighi di trasparenza da parte di alcune
Unioni di comuni, anche per quanto riguarda la costituzione
e la gestione. La delibera fa riferimento all'art. 19 del dl
n. 95/2012, che ha reso obbligatoria la gestione in forma
associativa di servizi e di funzioni per i comuni con
popolazione fino a 5 mila abitanti
(articolo ItaliaOggi del 05.02.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: La
diatriba sul riconoscimento retroattivo della ruralità. Sul
recupero dell'Ici pregressa per i comuni è game-over.
Per il recupero dell'imposta comunale degli immobili (Ici)
pregressa sui fabbricati rurali, per i Comuni è «game over».
Recentemente la giurisprudenza di merito (C.T. Regionale di
Bologna, sentenza 65/12/12) e, soprattutto, le disposizioni
contenute nell'art. 7, dm 26/07/2012 (Gazzetta Ufficiale n.
185 del 09/08/2012) hanno sancito la definitiva chiusura
della «diatriba» in corso, sul riconoscimento «retroattivo»
della ruralità ai fini del citato tributo locale.
I comuni hanno, recentemente, intensificato l'emissione di
avvisi di accertamento e liquidazione dell'Ici relativa al
quinquennio 2007/2011, molto spesso con carenza di
motivazione, asserendo che non esiste una norma specifica di
esenzione, ma soprattutto che senza la categoria specifica
(A/6 per le unità abitative e D/10 per i fabbricati
strumentali), la ruralità non può essere riconosciuta per i
periodi pregressi.
Molti di questi enti, nei dinieghi alle numerose istanze di
autotutela, hanno precisato che, pur tentando di riconoscere
l'esenzione dal tributo a detti immobili, la variazione
catastale richiesta dalla recente giurisprudenza di
legittimità (su tutte, Cassazione Ss.Uu. 21/08/2009 n. 18565
e 18570) è condizione necessaria per l'ottenimento della
qualifica e, di conseguenza, dell'esenzione.
Detto principio, peraltro, è stato codificato dal comma
2-bis, dell'art. 7, dl n. 70/2011 che ha anche previsto un
termine per la presentazione delle domande di variazione,
tese all'ottenimento della citata specifica categoria;
termine fissato definitivamente al 30 settembre scorso, a
cura del comma 19, dell'art. 3, dl n. 95/2012. A molti
comuni, però, è sfuggito il passaggio del dl n. 201/2011
(lettera d-bis, comma 14 e comma 14-bis, dell'articolo 13)
che ha, di fatto, riportano all'indietro la situazione,
attraverso la quale si dispone che la ruralità è un
requisito di natura esclusivamente «oggettiva» e che
prescinde dalla categoria catastale (sul tema, ministero
delle finanze, circ. 3/DF/2012), nonostante la conferma
della Suprema Corte (Cassazione, sentenza n. 11081/2012)
della necessità di ottenere la categoria specifica.
Infatti, recentemente è stato pubblicato il dm 26/07/2012,
di attuazione del comma 14-bis, dell'art. 13, dl n. 201/2011
appena richiamato, con il quale sono state definite le
modalità di inserimento negli atti catastali della
sussistenza dei requisiti di ruralità degli immobili oggetto
della domanda di variazione di categoria, con il quale sono
stati fissati due principi sacrosanti, riguardanti
rispettivamente la portata (effetti) dell'annotazione della
ruralità e la sanatoria degli anni pregressi. Sul punto, è
chiaro il comma 2, dell'art. 7, dm 26/07/2012 con il quale
il legislatore ha testualmente dichiarato che «la
presentazione delle domande e l'inserimento negli atti
catastali dell'annotazione producono gli effetti previsti
per il riconoscimento del requisito di ruralità (?) a
decorrere dal quinto anno antecedente a quello di
presentazione della domanda».
Di fatto, la richiesta di variazione catastale eseguita
entro lo scorso 30 settembre, autocertificata dal
proprietario o dal titolare del diritto reale sull'immobile,
comporta una mera indicazione (annotazione) in Catasto e non
il cambio di categoria, per qualsiasi genere di fabbricato
(abitativo o strumentale); di fatto, il locale, destinato,
per esempio, a deposito attrezzi che non possiede
caratteristiche da D/10 (dimensioni ridotte) resta iscritto
nella categoria specifica (per esempio, C/2) con annotazione
di «fabbricato rurale», se in possesso dei requisiti
(Agenzia del territorio, circolare n. 2/T/2012).
In secondo luogo, la presentazione delle domande e
l'inserimento dell'annotazione di possesso dei requisiti di
ruralità producono effetti «retroattivi» a decorrere dal
quinto anno antecedente a quello di presentazione, ai sensi
del citato art. 7, dm 26/07/2012; ciò sta a significare che,
a prescindere dalla tipologia dell'immobile (abitativo o
rurale), l'annotazione eseguita equivale a categoria
speciale assegnata (A/6 o D/10), ancorché la categoria del
compendio rimanga quella originaria, ancorché diversa da
quella speciale.
A prescindere da tali disposizioni, che
risultano trancianti e definitive, anche la giurisprudenza
di merito sta consolidando tale orientamento, giacché per
taluni giudici aditi (la più recente, Ctr Bologna, sentenza
n. 65/12/12) il riconoscimento della ruralità è stato
sancito da tempo dai commi 3 e 3-bis, dell'art. 9, del dl n.
557/1993, dopo l'intervento innovatore del dl 159/2007 (art.
42-bis), per effetto della portata «interpretativa»
delle disposizioni
(articolo ItaliaOggi del 05.02.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Tia
senza presunzioni
La Tia non ammette presunzioni. Il contribuente è tenuto a
pagare per i rifiuti effettivamente conferiti. Non può
essere conteggiato il quantitativo prodotto in base al
numero degli svuotamenti dei contenitori.
Lo ha affermato la
Commissione tributaria di primo grado di Trento, I Sez., con la
sentenza 13.09.2012 n. 94.
Il
regolamento comunale, che la Commissione tributaria ha
ritenuto illegittimo, stabilisce che per il calcolo della
parte variabile della tariffa si considerano validi tutti
gli svuotamenti, effettuati nella fase di raccolta,
necessari a garantire la pulizia del contenitore assegnato
alla singola utenza. Mentre le disposizioni di legge
impongono che il quantum dovuto dall'utente sia rapportato
alla quantità dei rifiuti conferiti.
Per i giudici
tributari, dunque, non può ritenersi rispondente alle regole
stabilite dalla norma nazionale il criterio adottato per
comodità, di conteggiare il quantitativo di rifiuti
conferiti in base al numero degli svuotamenti secondo il
principio del cosiddetto «vuoto per pieno».
La possibilità
concessa all'amministrazione dalla delibera provinciale di
conteggiare il rifiuto conferito utilizzando il criterio del
volume o del peso, non può porsi in contrasto con i principi
ispiratori della Tia che impongono all'ente «di calcolare
l'effettiva quantità di rifiuti prodotta dal contribuente».
In realtà, però, il dlgs 22/1997 e il dpr 158/1999,
richiamati nella pronuncia, consentono alle amministrazioni
che non siano in grado di misurare i rifiuti conferiti di
fare ricorso a presunzioni.
Di recente il Consiglio di
stato, sez. VI, con sentenza 6208/2012, ha affermato che il
regolamento statale sul metodo normalizzato con il quale
viene determinata la tariffa rifiuti, da quest'anno
applicato alla Tares, non viola la normativa comunitaria,
anche se consente ai comuni l'uso di criteri presuntivi non
rapportati all'effettiva produzione di rifiuti
(articolo ItaliaOggi del 05.02.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONSIGLIERI COMUNALI: In
Gazzetta la legge sul verde pubblico. Potature solo se
autorizzate.
Il sindaco a fine mandato dovrà occuparsi di relazionare
anche sullo stato arboreo del comune mentre per il rispetto
dell'obbligo di piantare un albero per ogni neonato nasce un
comitato ad hoc. Attenzione poi agli abbattimenti fai da te
degli alberi monumentali. In caso di potatura non
autorizzata scatterà una multa di almeno 5 mila euro.
Lo ha stabilito la
Legge 14.01.2013 n. 10 pubblicata sulla GU n. 27 del 01/02/2013, in vigore dal 16.022013.
La giornata nazionale degli alberi fissata dalla novella per
il 21 novembre coinvolgerà innanzitutto le scuole e sarà
sostanzialmente orientata a promuove la cultura ecologica
con la messa a dimora di piante. In questa iniziativa sarà
chiaramente coinvolto anche il sindaco chiamato in causa per
potenziare il rispetto dell'obbligo di piantumazione di un
albero per ogni neonato.
In particolare ogni comune dovrà effettuare un censimento
degli alberi posizionati sul territorio collegati ai neonati
e agevolare la conoscenza degli interventi effettuati in tal
senso. Inoltre due mesi prima della scadenza del mandato il
primo cittadino dovrà redigere il bilancio arboreo del
municipio evidenziando lo stato di consistenza e
manutenzione delle aree verdi urbane di propria competenza.
Spetterà ad uno speciale comitato nazionale per il verde
pubblico verificare a costo zero la correttezza degli
interventi locali e attivare azioni di tutela dei giardini
storici più importanti. Ma anche relazionare alle camere
sullo stato di adeguamento degli strumenti urbanistici
comunali alle prescrizioni minime sul verde e sui parcheggi.
Interessante anche la nuova possibilità di aprire agli
sponsor privati la sostenibilità di interventi ecologici con
inedite modalità pubblicitarie per i finanziatori.
La legge promuove inoltre anche iniziative locali per lo
sviluppo degli spazi verdi e favorisce la trasparenza
amministrativa in materia. Attenzione infine agli alberi
monumentali che saranno inseriti nel nuovo elenco nazionale
tenuto dal corpo forestale. Danneggiare o abbattere
abusivamente un albero protetto costerà almeno 5 mila euro.
Per stare tranquilli servirà sempre l'ok del comune e dei
forestali
(articolo ItaliaOggi del 05.02.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI: Condanne
per reati, la verifica si fa on-line.
Attivata la procedura per la richiesta delle risultanze del
casellario giudiziale online. Viene, in pratica, data
attuazione a quanto era stato disposto dall'art. 39 del dpr
313/2002, ovvero il Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di casellario
giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative
dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti.
Con l'art. 39 del testo unico era stata prevista la
consultazione diretta del sistema telematico del Ministero
della giustizia, oltre che da parte dell'autorità
giudiziaria anche da parte delle amministrazioni pubbliche e
dei gestori di pubblici servizi. E ciò, al fine della
verifica del possesso dei requisiti di onorabilità
prescritti dalla relativa disciplina per coloro i quali sono
intenzionati a esercitare un'attività economica, quale ad
esempio il commercio, l'attività di somministrazione,
agenzie di affari. Verifica che, fino ad oggi, è stata
effettuata con la tradizionale modalità cartacea.
La novità è conseguente alla entrata in vigore del decreto
05.12.2012, pubblicato in Gazzetta lo scorso 21 dicembre
scorso e con il quale sono state fissate le regole
procedurali di carattere tecnico operativo per l'attuazione
della consultazione diretta. Per poter utilizzare il sistema
telematico, tuttavia, sarà necessaria la stipula di una
convenzione da richiedere utilizzando la modulistica
(Allegato C) del decreto del 05.12.2012.
In seguito alla richiesta, l'ufficio del Casellario svolgerà
le necessarie verifiche e avvierà la procedura per la
stipula di convenzione con il richiedente su fruibilità dei
dati e garanzia del pieno rispetto della normativa in
materia di protezione dei dati personali, di accesso ai
documenti amministrativi, di tutela del segreto e di divieto
di divulgazione.
Nella convenzione saranno stabiliti anche termini e
condizioni per garantire che il certificato contenga solo i
dati pertinenti con i compiti istituzionali delle
amministrazioni interessate
(articolo ItaliaOggi del 05.02.2013). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Inps-Inpdap, l'unificazione è fatta.
Finita la fase transitoria, ecco
come accedere ai servizi.
L'istituto nazionale della previdenza sociale guidato da
Antonio Mastrapasqua ha posto fine, nei giorni scorsi, al
periodo transitorio nella gestione in materia previdenziale
e assicurativa dei pubblici dipendenti che si era
determinato per effetto della confluenza dal 01.01.2012
dell'Inpdap nell'Inps.
Con la
circolare
25.01.2013 n. 12 l'Inps ha infatti completato il
quadro operativo -applicabile anche al personale della
scuola- concernente la presentazione e la consultazione
telematica in via esclusiva delle istanze per le prestazioni
pensionistiche previdenziali e assicurative, per il
riconoscimento del servizio militare, per l'accredito
figurativo dei periodi di congedo per maternità, per
l'autorizzazione della prosecuzione volontaria, per i
riscatti di periodi o servizi ai fini pensionistici e per il
computo dei servizi.
Il quadro dei tempi e delle modalità perché il personale
della scuola possa richiedere le suddette prestazioni è così
definito:
- dal 12.01.2013 opera il regime dell'invio telematico
in via esclusiva per le domande di pensione diretta di
anzianità, anticipata, vecchiaia e inabilità; di
ricongiunzioni ai sensi dell'art. 1 della legge n. 29/1979 e
dell'art. 1 della legge n. 45/1990; le richieste di
variazione delle posizioni assicurative;
- dal 01.02.2013 opera, con le stesse modalità, il
regime dell'invio delle domande di pensione di privilegio;
di pensione diretta ordinaria in regime internazionale; di
pensione a carico dello stato estero;
- dal 04.03.2013 opererà il regime dell'invio telematico
in via esclusiva per le domande di: ricongiunzione ai sensi
dell'art. 6 della legge n. 29/1979, della legge n. 523/1954
e degli artt. 113 e 115 del DPR n. 1092/1973; costituzione
della posizione assicurativa ai sensi della legge n.
322/1958; liquidazione dell'indennità una tantum;
- dal 04.04.2013 sarà attivata la modalità di
presentazione telematica in via esclusiva delle domande di:
riconoscimento del servizio militare; accredito figurativo
per il riconoscimento dei periodi corrispondenti
all'estensione obbligatoria per maternità verificatasi al di
fuori del rapporto di lavoro; autorizzazione alla
prosecuzione volontaria dei contributi; riscatto per la
valutazione onerosa ai fini pensionistici di periodi o di
servizio non coperti da contribuzione altrimenti non utili;
computo dei servizi ai sensi degli artt. 11, 12 e 15 del Dpr
n. 1092/1973.
Entrambe le circolari ribadiscono che le istanze presentate
in forma diversa da quella telematica non saranno prese in
considerazione fino a quando il richiedente non abbia
provveduto a trasmetterle in via telematica attraverso uno
dei seguenti canali: WEB- servizi telematici accessibili
direttamente dal cittadino tramite Pin attraverso il portale
dell'Istituto; Contact Center integrato - n. 803164;
Patronati
(articolo ItaliaOggi del 05.02.2013). |
APPALTI:
Durc, procedure
diversificate.
Oneri e verifiche a seconda della tipologia societaria.
Gli effetti della risposta all'interpello n. 2
del 24 gennaio del ministero del lavoro.
Documento unico di regolarità contributiva (Durc): le
irregolarità contributive dei soci di società di capitali
non bloccano il rilascio del documento. Nell'ambito della
verifica della regolarità contributiva delle società di
capitali non rileva la posizione contributiva dei singoli
soci, con la conseguenza che le eventuali pregresse
irregolarità dei versamenti contributivi riguardanti gli
stessi non possono incidere sul rilascio del Durc.
La posizione contributiva personale va verificata solo nelle
società di persone.
Questo è il principio espresso nell'interpello
24.01.2013 n. 2/2013 del Ministero del
lavoro (Direzione generale dell'attività ispettiva) in
risposta a un quesito posto dal Consiglio nazionale
dell'Ordine dei consulenti del lavoro.
Questi ultimi infatti avevano avanzato istanza di interpello
per conoscere se, in caso di richiesta di un documento unico
di regolarità contributiva (Durc) che preveda la verifica
della posizione ai fini degli obblighi contributivi
previdenziali nei confronti dell'Inps di una società di
capitali, la stessa debba essere effettuata anche sulla
posizione personale dei singoli soci e, in tal caso, in
presenza di eventuali pregresse irregolarità contributive,
se debba essere negata la regolarità contributiva della
società.
Nel fornire risposta, la direzione generale dell'attività
ispettiva del Ministero del lavoro ha precisato quali sono
gli adempimenti e le verifiche da espletare in fase di
rilascio del Durc in relazione alle diverse tipologie di
imprese richiedenti (società di capitali e società di
persone).
Durc e società di capitali. Le società, come noto, si
dividono in due gruppi: le società di persone (società
semplice, società in nome collettivo, società in accomandita
semplice) e le società di capitali (società per azioni,
società in accomandita per azioni e società a responsabilità
limitata ordinaria, semplificata e a capitale ridotto).
Quello che è importante osservare, nell'ambito dei due
gruppi societari, è il rapporto intercorrente tra il
patrimonio della società e quello del singolo socio.
Le società di capitali sono considerate persone giuridiche
caratterizzate da autonomia patrimoniale «perfetta» e,
quindi, dalla separazione completa tra il capitale sociale e
il patrimonio personale dei soci. Pertanto il controllo di
regolarità nei versamenti contributivi deve essere
effettuato sulla contribuzione dovuta dai datori di lavoro
per i lavoratori con rapporto di lavoro subordinato e dai
committenti/associanti che occupano lavoratori con rapporti
di collaborazione coordinata e continuativa, resa anche
nella modalità a progetto, aventi per oggetto la prestazione
di attività svolte senza vincolo di subordinazione. Questo
in quanto nelle società di capitali, l'irregolarità della
posizione contributiva personale dei singoli soci non può
rilevare ai fini dell'accertamento dell'irregolarità delle
stesse società che, in ragione dell'autonomia patrimoniale
perfetta, non possono essere chiamate a rispondere delle
irregolarità contributive riferibili ai medesimi soci. Le
società di capitali, infatti, in quanto titolari di un
proprio patrimonio del tutto autonomo e distinto da quello
dei soci, rispondono delle obbligazioni sociali nei limiti
del proprio patrimonio.
Ne deriva che sul patrimonio sociale non possono trovare
soddisfazione i creditori personali del socio e, al
contempo, i creditori sociali non possono escutere il
patrimonio personale dei soci.
La posizione dei soci, pertanto, non deve essere oggetto di
verifica al fine del rilascio del Durc che sia richiesto per
effettuare il controllo di regolarità della società di
capitali nella quale la stessa posizione è rivestita.
Durc e società di persone. La verifica appare invece
necessaria in caso di società di persone ed in relazione al
versamento contributivo dovuto dal socio sulla propria
posizione, così come del resto già evidenziato del Ministero
del lavoro con circolare n. 5/2008. Le società di persone,
al contrario delle società di capitali, non hanno
personalità giuridica e la divisione tra i due patrimoni è
affievolita, quindi siamo in presenza di un'autonomia
patrimoniale imperfetta.
L'autonomia patrimoniale della società è imperfetta in
quanto il patrimonio della società non è completamente
distinto da quello personale dei soci, perciò per i debiti
sociali rispondono ambedue i patrimoni (della società e dei
soci) e per i debiti personali del socio può rispondere
anche la società.
I soci illimitatamente responsabili sono, infatti, chiamati
in via sussidiaria a rispondere con il proprio patrimonio
delle obbligazioni sociali (autonomia patrimoniale
imperfetta).
Questo minor grado di indipendenza del patrimonio della
società comporta che: i creditori personali dei soci non
possono soddisfarsi sul patrimonio sociale, potendo agire,
finché dura la società, solo sugli utili spettanti al socio
loro debitore o compiere atti conservativi sulla quota a lui
spettante in sede di liquidazione. Tuttavia, in caso di
proroga della società a tempo indeterminato, possono
ottenere la liquidazione della quota del socio, se gli altri
suoi beni sono insufficienti a soddisfare il loro credito.
Non possono compensare il credito con un debito che vantano
nei confronti della società; i creditori sociali possono
agire sul patrimonio personale dei singoli soci dopo avere
infruttuosamente escluso quello sociale.
Seguendo la tesi della direzione generale dell'attività
ispettiva del Ministero del lavoro fondata sull'autonomia
patrimoniale delle società e sulla responsabilità dei soci
possiamo sostenere che: le società di capitali essendo
persone giuridiche hanno un'autonomia patrimoniale perfetta
e pertanto le vicende contributive personali dei soci non
incidono sul patrimonio della società e viceversa. Al
contrario le società di persone hanno un'autonomia
patrimoniale imperfetta e i soci rispondono illimitatamente.
Essa è considerata come una somma di imprenditori
individuali. Ne consegue che i soci di una società di
persone iscritti alle gestioni autonome dell'Inps sono
soggetti a verifica al fine del rilascio del Durc (articolo ItaliaOggi Sette
del 04.02.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Raee, eco-contributo visibile.
I produttori possono continuare con l'indicazione ad hoc.
La legge che converte il dl 1/13 ha
abrogato il termine. In arrivo novità di matrice Ue.
Produttori e distributori di apparecchiature elettriche ed
elettroniche (cosiddette «Aee») potranno continuare a
indicare in modo visibile agli acquirenti, tenendo il
relativo importo separato dal prezzo, l'eco-contributo che
essi pagano per la gestione dei beni una volta giunti a fine
vita (ossia diventati «Raee», rifiuti di apparecchiature
elettriche ed elettroniche).
La visible fee. Mediante la diretta novella del
provvedimento madre in materia (il dlgs 151/2005) la legge
di conversione del dl 1/2013 approvata in via definitiva il
22.01.2013 ha infatti abrogato il termine (coincidente
con il 13.02.2013) fino al quale il contributo
finalizzato a coprire i costi di recupero, trattamento e
riciclaggio dei cd. Raee «storici» provenienti dai nuclei
domestici (ossia dei rifiuti derivanti dalle Aee di uso non
professionale immesse sul mercato fino al 13.08.2005)
può essere indicato esplicitamente, confermando così la
natura di visible fee (compenso visibile) di tale
corrispettivo. Il dlgs 151/2005, lo ricordiamo, prevede a
monte un meccanismo di ripartizione dei costi per la
gestione dei Raee sia domestici che professionali.
In particolare, il dlgs 151/2005 individua nei produttori di
Aee i soggetti tenuti alla copertura dei costi di gestione
dei Raee domestici, lasciando loro la facoltà di traslarli
sugli acquirenti di apparecchiature e statuendo la
possibilità, per i soli Raee storici, di indicare in modo
separato dal costo dei nuovi beni il sovrapprezzo per la
gestione dei rifiuti (ossia, l'eco-contributo in parola, da
cui il termine «visible fee») ma vietando tale visibilità
per gli agli altri Raee (ossia quelli derivanti da Aee
commercializzate dopo il 13.08.2005).
In relazione ai costi di gestione dei Raee «professionali»,
il dlgs 151/2005 pone invece a carico dei detentori quelli
per la gestione dei rifiuti storici conferiti ai gestori
senza acquisto di nuove ed analoghe Aee, lasciando sui
produttori di Aee quelli per la gestione di Raee «nuovi».
Raee, le novità all'orizzonte. Proprio sulla gestione dei
rifiuti elettrici ed elettronici, e relativi costi,
rilevanti novità arriveranno per gli operatori della filiera
mediante il recepimento della nuova direttiva in materia (la
2012/19/Ue).
In base al provvedimento comunitario in parola (destinato a
sostituire l'attuale direttiva 2002/96/Ce, sulla quale è
fondata il dlgs 151/2005, e da recepire entro il 14.02.2014) l'attuale obbligo di ritiro gratuito delle Aee usate
da parte dei distributori di nuove apparecchiature
domestiche dovrà passare dal sistema «one on one» (ritiro
solo dietro acquisto di analogo bene da parte del
consumatore) a quello «one on zero» (ritiro dell'usato
conferito dal consumatore anche senza corrispettivo acquisto
di prodotto equivalente). La direttiva 2012/19/Ue, in
particolare, impone l'obbligatorietà del ritiro «one on
zero» a carico di tutti i negozi al dettaglio con superficie
di vendita uguale o superiore ai 400 metri quadrati ed in
relazione ai rifiuti da apparecchiature elettriche ed
elettroniche provenienti da nuclei domestici di
«piccolissime dimensioni» (ossia inferiori a 25 centimetri
esterni), stabilendo una deroga a favore dei soli operatori
che riusciranno a dimostrare l'esistenza di regimi di
raccolta alternativa altrettanto efficaci.
Altra novità traghettata dalla direttiva 2012/19/Ue sarà
l'aumento delle percentuali minime di raccolta differenziata
e di recupero di Raee da assicurare a livello nazionale,
percentuali che dovranno salire dalle attuali 70/80% fino
all'85%.
Aee, le novità «imminenti». Se per l'allineamento del dlgs
151/2005 alle nuove regole sui Raee previste dalla direttiva
2012/19/Ue il conto alla rovescia prevede ancora 12 mesi di
tempo, è invece scaduto lo scorso 02.01.2013 il termine
per il recepimento della parallela direttiva 2011/65/Ce
sulla fabbricazione di Aee. Tale direttiva, dettata in
sostituzione della direttiva 2002/96/Ce (a suo tempo
recepita tramite il citato dlgs 151/2005 insieme alla
2002/96/Ce sui Raee), impone un allargamento del divieto di
commercializzazione delle apparecchiature contenenti
determinate sostanze pericolose e un parallelo ampliamento
degli obblighi burocratici per fabbricanti, importatori e
distributori dei beni in questione.
Il futuro provvedimento nazionale di attuazione (del quale
vi è traccia nella delega al governo prevista dalla legge
comunitaria 2011, approvata lo scorso 2 febbraio dalla
camera dei deputati e attualmente all'esame del senato)
dovrà in particolare recepire tre importanti meccanismi
previsti dalla direttiva: allargamento della definizione di
Aee (e dunque del campo di applicazione delle regole per la
loro fabbricazione) a qualsiasi apparecchiatura che dipende
da correnti elettriche o campi elettromagnetici per
espletare «almeno una» delle funzioni previste ed ai
relativi pezzi di ricambio; divieto di utilizzo delle
sostanze pericolose bandite dalla disciplina sulle sostanze
chimiche recata dal regolamento Ce n. 1907/2006 («disciplina
Reach»); upgrade del sistema informativo sulla produzione
delle Aee, mediante l'obbligo per fabbricanti, importatori e
distributori di garantire lungo tutta la filiera dei beni
l'accesso a documentazione tecnica, dichiarazioni di
conformità e identificazione seriale delle apparecchiature
commercializzate (articolo ItaliaOggi Sette del
04.02.2013). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI: Cassazione
sull'autocertificazione. Gare d'appalto, requisiti doc.
Stretta sui requisiti di accesso agli
appalti. Risponde di falso in atto pubblico l'imprenditore
che nella dichiarazione sostitutiva dice di essere in regola
con l'Inps. La responsabilità penale scatta al di là della
falsificazione del Durc.
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. V penale,
con la sentenza 07.02.2013 n. 6221.
La quinta sezione penale del Palazzaccio ha dunque bocciato
il ricorso di un imprenditore di L'Aquila che aveva fatto
una dichiarazione sostitutiva attestando falsamente per
avere libero ingresso a una gara d'appalto, di essere a
posto con le posizione contributiva dei suoi operai. Per
questo, con una doppia conforme, Tribunale e Corte d'appello
avevano condannato l'uomo per falso in atto pubblico.
Lui si era difeso da subito sostenendo che una dichiarazione
sostitutiva non fosse paragonabile al Durc.
A questa obiezione il Collegio di legittimità ha risposto
che l'art. 483 c.p. punisce la violazione del dovere
giuridico dell'imprenditore di esporre la verità in un atto
destinato a provare la verità dei fatti attestati e a cui
siano ricollegati specifici effetti, rappresentati, nella
specie, dalla ammissione alla gara di appalto. Non solo la
norma, sanziona inoltre, l'obbligo giuridico del dichiarante
di dire la verità, circa il pagamento dei contributi verso
la cassa edile nella dichiarazione allegata all'offerta per
l'aggiudicazione di un appalto pubblico. Infatti tale
obbligo risiede anche nell'art. 24, comma 2, della direttiva
93/97 Cee, recepita sul punto dal dl 30.07.1994, n. 478, non
convertito, i cui effetti sono peraltro stati stabilizzati
dalla legge 29.03.1995, n. 95.
In altri termini, se la certificazione viene utilizzata per
attestare la posizione contributiva in un procedimento
pubblico allora la punibilità scatta lo stesso, a
prescindere dal fatto che il documento falsificato fosse
anch'esso pubblico o privata, come l'autocertificazione
(articolo ItaliaOggi del 09.02.2013). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nei procedimenti
preordinati all’emanazione di ordinanze di demolizione di
opere edili abusive non trova applicazione l’obbligo di
comunicare l’avvio dell’iter procedimentale in ragione della
natura vincolata del potere repressivo esercitato che rende
di per sé inconfigurabile quale che sia apporto
partecipativo, come peraltro previsto dall’ipotesi
legislativa recata dall’art. 21-octies della stessa legge n.
241/1990, come introdotto dall’art. 14 della legge
11.02.2005 n. 15.
Il Collegio non può qui non ribadire quanto più volte
precisato da questo Consiglio di Stato (cfr. Sez. II n.
3702/06 del 19.03.2008) e cioè che nei procedimenti
preordinati all’emanazione di ordinanze di demolizione di
opere edili abusive non trova applicazione l’obbligo di
comunicare l’avvio dell’iter procedimentale in ragione della
natura vincolata del potere repressivo esercitato che rende
di per sé inconfigurabile quale che sia apporto
partecipativo, come peraltro previsto dall’ipotesi
legislativa recata dall’art. 21-octies della stessa legge n.
241/1990, come introdotto dall’art. 14 della legge
11.02.2005 n. 15 (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.02.2013 n. 666 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’accatastamento costituisce adempimento di tipo
fiscale-tributario che fa stato ad altri fini, non
atteggiandosi a strumento idoneo ad evidenziare una
situazione di conformità edilizia.
Le condizioni di uno stato dei
luoghi modificato rispetto a quello originario quanto alla
loro esistenza e consistenza sono state verificate dai
competenti uffici comunali, inverandosi nei rilievi mossi a
carico dell’appellante i presupposti di fatto e di diritto
per un intervento del Comune volto a ripristinare una
situazione dei luoghi alterata rispetto a quello in origine
autorizzata, con il conseguente doveroso operato
dell’Amministrazione volto a porre fine ad una accertata
situazione di non conformità urbanistico-edilizia: di qui la
legittimità del potere repressivo-ripristinatorio esercitato
dal Comune con i provvedimenti de quibus con cui si è
doverosamente e correttamente intimato il ripristino in
favore della sig.ra G. dell’accesso da via del Leone
con contestuale chiusura dell’accesso dal sentiero pedonale
da via Saturno.
Assume parte appellante che la conformità dello stato dei
luoghi (con speculare illegittimità dei provvedimenti
comunali) sarebbe rilevabile dagli esiti del contenzioso
civilistico e dall’ accatastamento effettuato nel 1975, ma
l’argomentazione difensiva non appare condivisibile, in
quanto:
a) le statuizioni recate dal decisum in sede civile
servono a definire l’assetto dei rapporti tra i privati e i
loro diritti secondo le regole dello jus privatorum
senza che ciò possa incidere sulla validità delle
determinazioni amministrative emanate per assicurare
l’osservanza della disciplina urbanistica ;
b) l’accatastamento costituisce adempimento di tipo
fiscale-tributario che fa stato ad altri fini, non
atteggiandosi a strumento idoneo ad evidenziare una
situazione di conformità edilizia (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.02.2013 n. 666 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Deve escludersi il
carattere agricolo dell'attività di molitura delle olive e
lavorazione della pasta disoleata, giacché il ciclo
produttivo dell'impianto è finalizzato al trattamento non
solo di olive, ma anche di derivati di seconda lavorazione
conferiti da altri opifici.
La caratterizzazione principale dell'attività consiste
dunque in una lavorazione di prodotti di terzi mediante una
complessa tecnologia che di per sé non è espressione di
tipica attività agricola.
---------------
È stato precisato che la predetta attività connessa
dell'imprenditore agricolo deve restare collegata
all'attività dal medesimo esercitata in via principale
mediante un vincolo di strumentalità o complementarietà
funzionale, in assenza del quale essa non rientra
nell'esercizio normale dell'agricoltura ed assume invece il
carattere prevalente o esclusivo dell'attività commerciale o
industriale.
Con specifico riguardo all'attività di molitura delle olive
è stato rilevato che, qualora sia svolta anche a favore di
terzi, può definirsi agricola solo se quest'ultima attività
non sia prevalente.
In ogni caso, allorquando l'attività della cui connessione
con un'attività propriamente agricola si discute, abbia in
concreto dimensioni tali (anche nell'ambito della medesima
impresa) che la rendono principale rispetto quella agricola,
deve escludersi il carattere agricolo dell'attività stess.
Alla stregua delle predette considerazioni deve senz'altro
escludersi il carattere agricolo dell'attività in questione,
giacché, in genere in tali casi, come anche nella specie, il
ciclo produttivo dell'impianto è finalizzato al trattamento,
come si ripete, non solo di olive, ma anche di derivati di
seconda lavorazione conferiti da altri opifici.
La caratterizzazione principale dell'attività consiste
dunque in una lavorazione di prodotti di terzi mediante una
complessa tecnologia che di per sé non è espressione di
tipica attività agricola.
---------------
Già è stato ritenuto legittimo il diniego di concessione
edilizia opposto dal Comune alla realizzazione in zona
agricola di un impianto per la molitura delle olive e la
trasformazione delle paste derivate, ove come nel caso, per
dimensioni e tipologia, esso sia destinato prevalentemente
alla lavorazione dei prodotti di terzi rispetto a quelli
provenienti dal fondo; la lavorazione e trasformazione dei
prodotti agricoli -per poter essere considerata "attività
connessa" all'agricoltura e rientrare nella nozione di
"impresa agricola" di cui all'art. 2135 c.c.- deve infatti
avere carattere strettamente strumentale e complementare
all' attività principale di coltivazione del fondo, ciò che
non accade allorché essa abbia prevalentemente ad oggetto la
trasformazione di prodotti agricoli per conto terzi.
Questo Consesso ha già sostenuto che deve
escludersi il carattere agricolo dell'attività di molitura
delle olive e lavorazione della pasta disoleata, giacché il
ciclo produttivo dell'impianto è finalizzato al trattamento
non solo di olive, ma anche di derivati di seconda
lavorazione conferiti da altri opifici.
La caratterizzazione principale dell'attività consiste
dunque in una lavorazione di prodotti di terzi mediante una
complessa tecnologia che di per sé non è espressione di
tipica attività agricola.
Deve rilevarsi che la lavorazione per conto terzi (“da un
ristretto numero di clienti”) non è smentita e anzi ammessa
anche da parte del De Giorgi (relazione dott. Salerno, in
particolare).
È stato precisato che la predetta attività connessa
dell'imprenditore agricolo deve restare collegata
all'attività dal medesimo esercitata in via principale
mediante un vincolo di strumentalità o complementarietà
funzionale, in assenza del quale essa non rientra
nell'esercizio normale dell'agricoltura ed assume invece il
carattere prevalente o esclusivo dell'attività commerciale o
industriale (in tal senso: Cons. stato, sez. IV 14.05.2001 n. 2669).
Con specifico riguardo all'attività di molitura delle olive
è stato rilevato che, qualora sia svolta anche a favore di
terzi, può definirsi agricola solo se quest'ultima attività
non sia prevalente (Cass. 29.03.1990 n. 2571).
In ogni caso, allorquando l'attività della cui connessione
con un'attività propriamente agricola si discute, abbia in
concreto dimensioni tali (anche nell'ambito della medesima
impresa) che la rendono principale rispetto quella agricola,
deve escludersi il carattere agricolo dell'attività stessa
(Cass. 06.06.1974 n. 1682).
Alla stregua delle predette considerazioni deve senz'altro
escludersi il carattere agricolo dell'attività in questione,
giacché, in genere in tali casi, come anche nella specie, il
ciclo produttivo dell'impianto è finalizzato al trattamento,
come si ripete, non solo di olive, ma anche di derivati di
seconda lavorazione conferiti da altri opifici.
La caratterizzazione principale dell'attività consiste
dunque in una lavorazione di prodotti di terzi mediante una
complessa tecnologia che di per sé non è espressione di
tipica attività agricola.
Venendo in considerazione un impianto anche per la
lavorazione della pasta disoleata, il processo tecnologico
consiste in ciò: una volta molite le olive si procede,
attraverso particolari strutture (oggetto della denegata
concessione in sanatoria) ad estrarre, per separazione, oli
e pasta disoleata, dopo di che tale pasta, costituita da un
miscuglio di sansa più acqua contenuta nelle olive, subisce
ulteriori cicli di trasformazione grazie ai quali viene
recuperata la pasta esausta, dalla quale, poi, per
successive lavorazioni tecnologiche, si ottengono nuovi
derivati, alcuni dei quali, come ad esempio l'olio d'oliva
"lampante", devono essere sottoposti ad un ultimo
trattamento di trasformazione, che prevede l'uso di processi
chimici, per poter diventare commestibili.
Non si è in definitiva in presenza di una semplice attività
connessa ad un'attività tipicamente agricola svolta in via
principale, bensì di una vera e propria attività
industriale.
Con il medesimo motivo l’appellante lamenta che il Comune
non avrebbe svolto adeguata istruttoria per sostenere le
ragioni del diniego.
Il diniego del Comune ha preso le mosse dalla disciplina
urbanistica vigente; in particolare le NTA della zona B
(Completamento), zona in cui è posto il fondo in oggetto,
che non prevede, in tali zone, l’edificazione di locali per
attività artigianali moleste e rumorose, e il Regolamento
Comunale di Polizia Urbana, che all’art. 61 qualifica come
rumorosi e incomodi, dopo una serie non tassativa di esempi,
tutti quei mestieri che, per l’azione di macchine, di motori
o per l’uso continuo di strumenti manuali, rechino molestia
al vicinato.
E’ quindi immune da censure la qualificazione operata dagli
uffici comunali, laddove si assume non a torto che nel
progetto di frantoio (ciclo continuo di trasformazione,
lavorazione per conto terzi, sistema degli scarichi) si
ravviserebbe un impianto produttivo “del tutto avulso dal
tessuto edilizio di completamento”.
Giova in proposito ricordare come già è stato ritenuto
legittimo il diniego di concessione edilizia opposto dal
Comune alla realizzazione in zona agricola di un impianto
per la molitura delle olive e la trasformazione delle paste
derivate, ove come nel caso, per dimensioni e tipologia,
esso sia destinato prevalentemente alla lavorazione dei
prodotti di terzi rispetto a quelli provenienti dal fondo;
la lavorazione e trasformazione dei prodotti agricoli -per
poter essere considerata "attività connessa"
all'agricoltura e rientrare nella nozione di "impresa
agricola" di cui all'art. 2135 c.c.- deve infatti avere
carattere strettamente strumentale e complementare all'
attività principale di coltivazione del fondo, ciò che non
accade allorché essa abbia prevalentemente ad oggetto la
trasformazione di prodotti agricoli per conto terzi (così
Consiglio Stato sez. V, 06.03.2007, n. 1051)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.02.2013 n. 651 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La comunicazione dei motivi ostativi
all'accoglimento della domanda non è necessaria in relazione
alle decisioni di ricorsi gerarchici, atteso che il
preavviso di rigetto si applica ai procedimenti ad istanza
di parte, mentre il ricorso amministrativo non è
assimilabile a un'istanza di provvedimento, ma costituisce
la contestazione di un provvedimento già emanato; inoltre è
diretto a promuovere il contraddittorio prima dell'adozione
di un provvedimento di amministrazione attiva, mentre, nel
caso del ricorso amministrativo, il provvedimento di
amministrazione attiva è già stato emanato e impugnato.
Prima del provvedimento impugnato il privato, di regola, ha
già potuto interloquire con l'Amministrazione, sicché un
ulteriore preavviso di rigetto introdurrebbe un'ulteriore
fase di contraddittorio, sostanzialmente inutile e in
contrasto con le esigenze di buon andamento, economicità e
celerità dell'azione amministrativa.
La comunicazione del preavviso di rigetto interrompe i
termini per l'emanazione del provvedimento finale, e questo
effetto è incompatibile con la disciplina del ricorso
amministrativo perché comporterebbe il raddoppio praeter
legem dei termini di decisione del ricorso.
Il procedimento avviato col ricorso gerarchico può
concludersi con il silenzio, con l'effetto di consentire al
ricorrente di impugnare in sede giurisdizionale il
provvedimento già impugnato in sede amministrativa, e tale
disciplina è, per la sua intrinseca funzione acceleratoria
dei rimedi di tutela, incompatibile con la necessità del
preavviso di rigetto; la decisione dell'Amministrazione sul
ricorso gerarchico ha carattere di segretezza fino alla sua
emanazione, e pertanto non ammette un preavviso di rigetto.
E’ infondato anche il
riproposto motivo di violazione dell’art. 10-bis.
Infatti, in caso di riesame, per ordine del giudice, di un
provvedimento amministrativo censurato in sede
giurisdizionale, la comunicazione del preavviso di diniego
ex art. 10-bis citato costituisce un inutile aggravamento
dell'attività amministrativa, tenuto anche conto che il
riesame dell’istanza è disposto per impulso giudiziale, e
quindi con tutte le garanzie del contradditorio proprie del
processo, e non su istanza di parte, allorché invece l'art.
10-bis legge 241/1990, come noto, trova applicazione per i
soli procedimenti “ad istanza di parte”.
Valgono al riguardo le regole dettate dalla giurisprudenza
amministrativa sui ricorsi amministrativi.
La comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento della
domanda non è necessaria in relazione alle decisioni di
ricorsi gerarchici, atteso che il preavviso di rigetto si
applica ai procedimenti ad istanza di parte, mentre il
ricorso amministrativo non è assimilabile a un'istanza di
provvedimento, ma costituisce la contestazione di un
provvedimento già emanato; inoltre è diretto a promuovere il
contraddittorio prima dell'adozione di un provvedimento di
amministrazione attiva, mentre, nel caso del ricorso
amministrativo, il provvedimento di amministrazione attiva è
già stato emanato e impugnato; prima del provvedimento
impugnato il privato, di regola, ha già potuto interloquire
con l'Amministrazione, sicché un ulteriore preavviso di
rigetto introdurrebbe un'ulteriore fase di contraddittorio,
sostanzialmente inutile e in contrasto con le esigenze di
buon andamento, economicità e celerità dell'azione
amministrativa; la comunicazione del preavviso di rigetto
interrompe i termini per l'emanazione del provvedimento
finale, e questo effetto è incompatibile con la disciplina
del ricorso amministrativo perché comporterebbe il raddoppio
praeter legem dei termini di decisione del ricorso; il
procedimento avviato col ricorso gerarchico può concludersi
con il silenzio, con l'effetto di consentire al ricorrente
di impugnare in sede giurisdizionale il provvedimento già
impugnato in sede amministrativa, e tale disciplina è, per
la sua intrinseca funzione acceleratoria dei rimedi di
tutela, incompatibile con la necessità del preavviso di
rigetto; la decisione dell'Amministrazione sul ricorso
gerarchico ha carattere di segretezza fino alla sua
emanazione, e pertanto non ammette un preavviso di rigetto
(Consiglio di Stato sez. V, 03.05.2012, n. 2548)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.02.2013 n. 651 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini del rispetto del
termine di inizio dei lavori di cui all’articolo 15 del
d.p.r. n. 380 del 2001, occorre il compimento di attività
direttamente e immediatamente collegate all’inizio dei
lavori, e tali non possono essere considerate la
realizzazione della recinzione del cantiere, la pulizia
dell'area, l'installazione della cartellonistica di
cantiere, e nemmeno possono esserlo il taglio degli alberi,
l’apertura di un varco di accesso al terreno, la demolizione
di parte di un muro di confine; secondo la giurisprudenza
prevalente, inoltre, non sono segno univoco di un serio
inizio dei lavori neanche lo sbancamento del terreno e
l'esecuzione dei lavori di scavo.
---------------
La decadenza del permesso di costruire (per mancato inizio
lavori entro l'anno) opera di diritto e non è richiesta a
tal fine l’adozione di un provvedimento espresso.
Nonostante la presenza di un minoritario orientamento
diverso, la tesi prevalente in giurisprudenza, e che il
Collegio condivide, si basa sulla lettera della legge, che
fa dipendere la decadenza non da un atto amministrativo,
costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice fatto
dell'inutile decorso del tempo.
Diversamente opinando, del resto, si farebbe dipendere la
decadenza non solo da un comportamento dei titolari del
permesso di costruire ma anche della Pubblica
Amministrazione che potrebbe in taluni casi adottare un
provvedimento espresso e in altri casi no, con possibili
ipotesi di disparità di trattamento tra situazioni che nella
sostanza si presenterebbero identiche.
Ciò premesso, è sufficiente rilevare che, secondo un
consolidato orientamento giurisprudenziale, ai fini del
rispetto del termine di inizio dei lavori di cui
all’articolo 15 del d.p.r. n. 380 del 2001, occorre il
compimento di attività direttamente e immediatamente
collegate all’inizio dei lavori, e tali non possono essere
considerate la realizzazione della recinzione del cantiere,
la pulizia dell'area, l'installazione della cartellonistica
di cantiere (cfr. tra le tante, Consiglio di Stato, sentenza
n. 3030/2008), e nemmeno possono esserlo il taglio degli
alberi, l’apertura di un varco di accesso al terreno, la
demolizione di parte di un muro di confine (cfr. Tar Napoli,
sentenza n. 10890/2008); secondo la giurisprudenza
prevalente, inoltre, non sono segno univoco di un serio
inizio dei lavori neanche lo sbancamento del terreno e
l'esecuzione dei lavori di scavo (cfr. Tar Napoli, sentenza
n. 10890/2008; TAR Milano, sentenza n. 372/2007; TAR Napoli
sentenza n. 59/2006; TAR Roma sentenza n. 5370/2005;
Consiglio di Stato sentenza n. 5242/2000).
Ne consegue che le attività compiute dalla società
ricorrente e descritte nei sopralluoghi dei funzionari
comunali non sono idonee ad evitare la decadenza di cui
all’articolo 15 cit. per mancato inizio dei lavori nel
termine di un anno dal rilascio del permesso di costruire.
La decadenza, inoltre, opera di diritto e non è richiesta a
tal fine l’adozione di un provvedimento espresso.
Nonostante la presenza di un minoritario orientamento
diverso, la tesi prevalente in giurisprudenza, e che il
Collegio condivide, si basa sulla lettera della legge, che
fa dipendere la decadenza non da un atto amministrativo,
costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice fatto
dell'inutile decorso del tempo (cfr. Consiglio di Stato,
sentenza n. 2915/2012).
Diversamente opinando, del resto, si farebbe dipendere la
decadenza non solo da un comportamento dei titolari del
permesso di costruire ma anche della Pubblica
Amministrazione che potrebbe in taluni casi adottare un
provvedimento espresso e in altri casi no, con possibili
ipotesi di disparità di trattamento tra situazioni che nella
sostanza si presenterebbero identiche (cfr. Tar Roma
sentenza n. 5530/2005; Consiglio di Stato, sentenza n.
2915/2012)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 04.02.2013 n. 61 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La preventiva
comunicazione di avvio del procedimento, prescritta
dall’art. 7 della legge 07.08.1990 n. 241 sul procedimento
amministrativo, costituisce una regola generale dell’azione
amministrativa, soprattutto quando l’Amministrazione
eserciti il potere di annullamento d’ufficio, per il quale
occorre dare adeguatamente conto della sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione
dell’atto o alla cessazione dei suoi effetti.
---------------
L’Amministrazione, in sede di adozione dell’atto impugnato,
avrebbe dovuto indicare le ragioni di interesse pubblico
all’annullamento ed avrebbe dovuto effettuare anche una
ponderazione degli interessi coinvolti, cioè avrebbe dovuto
comparare tali interessi pubblici con l’interesse dei
privati, considerando per un verso la particolare posizione
della parte ricorrente (che da anni svolge un’attività
lavorativa che presuppone il possesso del diploma di laurea)
e l’affidamento ingenerato dalla circostanza che alla
comunicazione dell’avvio del procedimento non aveva poi
fatto seguito l’atto preannunciato, e per altro verso che
era ormai decorso un periodo di tempo rilevantissimo dal
rilascio del diploma di laurea.
Va, peraltro, anche evidenziato che la preventiva
comunicazione di avvio del procedimento, prescritta
dall’art. 7 della legge 07.08.1990 n. 241 sul procedimento
amministrativo, costituisce una regola generale dell’azione
amministrativa, soprattutto quando l’Amministrazione
eserciti il potere di annullamento d’ufficio, per il quale
occorre dare adeguatamente conto della sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione
dell’atto o alla cessazione dei suoi effetti (Cons. St.,
sez. I, 25.05.2012, n. 3060). Né sembra che nella specie, in
relazione a quanto oggi evidenziato dalla parte ricorrente
con i motivi di ricorso dedotti volti a contestare la
sussistenza dei vizi indicati nell’atto di annullamento
d’ufficio, tale comunicazione di avvio del procedimento
possa ritenersi superflua (Cons. St., sez. IV, 17.09.2012,
n. 4925).
In relazione, poi, a quanto sopra indicato alle lettere b) e
c), va evidenziato che nell’atto impugnato -come sopra
ricordato- non sono state indicate le ragioni di interesse
pubblico all’esercizio il potere di autotutela, né è stata
effettuata una comparazione tra detto interesse pubblico e
quello dei soggetti incisi dal provvedimento in quanto si
trattava di assumere un atto “di carattere vincolato”,
rispetta alla cui adozione non residuava “in capo
all’Ateneo alcun margine di discrezionalità”.
In realtà, ad avviso del Collegio, l’Amministrazione, in
sede di adozione dell’atto impugnato, avrebbe dovuto
indicare le ragioni di interesse pubblico all’annullamento
ed avrebbe dovuto effettuare anche una ponderazione degli
interessi coinvolti, cioè avrebbe dovuto comparare tali
interessi pubblici con l’interesse dei privati, considerando
per un verso la particolare posizione della parte ricorrente
(che da anni svolge un’attività lavorativa che presuppone il
possesso del diploma di laurea) e l’affidamento ingenerato
dalla circostanza che alla comunicazione dell’avvio del
procedimento non aveva poi fatto seguito l’atto
preannunciato, e per altro verso che era ormai decorso un
periodo di tempo rilevantissimo dal rilascio del diploma di
laurea.
Va, invero, osservato che l’attività connessa all’esercizio
dell’autotutela, anche nel caso in esame, costituisce
espressione di ampia discrezionalità (Cons. St., Sez. V,
03.10.2012, n. 5199) e deve, pertanto, rispettare la
disciplina generale dell’autotutela di cui all’art.
21-nonies, della legge sul procedimento; né può ritenersi,
in assenza di alcuna espressa previsione normativa, che
nella specie l’Università sia titolare di un potere di
autotutela “speciale” rispetto alla disciplina
generale contenuta nel predetto all’art. 21-nonies, da
configurarsi come doveroso e non discrezionale, che possa
prescindere anche dal rispetto di limiti temporali
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 04.02.2013 n. 54 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Vigili/
- La
pagella non dipende dalle multe.
Bocciato il dirigente che valuta l'operato dei vigili sulla
base del numero delle multe accertate o sulla intransigenza
operativa.
Lo ha chiarito il TRIBUNALE di Venezia, Sez. lavoro,
con la sentenza 02.02.2013 n. 620.
Tre operatori di vigilanza hanno ricevuto delle schede di
valutazione peggiorative rispetto alle precedenti e per
questo si sono rivolti al tribunale per richiederne
l'annullamento. A parere del giudice effettivamente le
richieste dei vigili sono meritevoli di accoglimento.
In particolare un agente è stato deprezzato per aver
criticato per iscritto il comandante ed un altro per aver
accertato un numero inferiore di infrazioni rispetto
all'anno precedente. Il tribunale di Venezia ha accolto le
doglianze. La critica civile all'operato dei superiori non
può trasformarsi in un boomerang per l'agente intransigente.
A maggior ragione la produttività non può essere correlata
al numero delle multe
(articolo ItaliaOggi dell'08.02.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
In materia di accesso ai
documenti amministrativi l’art. 22, comma 1, lett. c), legge
n. 241/1990 (come sostituito con la legge n. 15/2005) impone
di riconoscere qualità di controinteressato non già a tutti
coloro che, a qualsiasi titolo, siano nominati o comunque
coinvolti nel documento oggetto dell’istanza ostensiva, ma
solo a coloro che per effetto dell’ostensione vedrebbero
pregiudicato il loro diritto alla riservatezza.
Non basta, perciò, che taluno venga chiamato in qualche modo
in causa dal documento in richiesta, ma occorre in capo a
tale soggetto un quidpluris, vale a dire la titolarità di un
diritto alla riservatezza sui dati racchiusi nello stesso
documento.
L’art. 22 della legge 07.08.1990, n. 241,
prevede che il “diritto di accesso” sia riconosciuto a
“tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di
interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse
diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l’accesso”.
Nel caso di specie il ricorrente ha interesse ad accedere
alla documentazione richiesta al fine di poter resistere in
giudizio, a tutela del suo diritto di difesa di cui all’art.
24 della Costituzione, come espressamente previsto dall’art.
24, comma 7, della legge n. 241 del 1990 (Consiglio di
Stato, VI, 12.12.2012, n. 6380).
Quanto al collegamento tra la situazione da tutelare e
la documentazione richiesta appare idonea la circostanza che
il sostituto Procuratore della Corte dei Conti abbia posto a
fondamento della sua azione anche i predetti documenti.
L’effettiva rilevanza degli stessi potrà essere valutata
esclusivamente dal giudice munito di giurisdizione sulla
controversia e non anche in questa sede, dove tale
circostanza è solo sommariamente delibata (cfr. Consiglio di
Stato, VI, 21.01.2013, n. 316; TAR Lombardia,
Milano, IV, 07.09.2012, n. 2251). Inoltre va aggiunto
che il diritto di accesso possiede una sua autonomia
rispetto alla situazione sostanziale sottostante, che lo
rende azionabile indipendentemente dalla lesione di una
posizione giuridica concreta dell’istante (Consiglio di
Stato, VI, 09.03.2011, n. 1492).
Con riferimento alla posizione di rifiuto espressa del controinteressato va evidenziato come in realtà sia molto
dubbia la sussistenza nella presente fattispecie di un
effettivo controinteressato, considerato che “in materia di
accesso ai documenti amministrativi l’art. 22, comma 1,
lett. c), legge n. 241/1990 (come sostituito con la legge n.
15/2005) impone di riconoscere qualità di controinteressato
non già a tutti coloro che, a qualsiasi titolo, siano
nominati o comunque coinvolti nel documento oggetto
dell’istanza ostensiva, ma solo a coloro che per effetto
dell’ostensione vedrebbero pregiudicato il loro diritto alla
riservatezza. Non basta, perciò, che taluno venga chiamato
in qualche modo in causa dal documento in richiesta, ma
occorre in capo a tale soggetto un quidpluris, vale a dire
la titolarità di un diritto alla riservatezza sui dati
racchiusi nello stesso documento” (Consiglio di Stato, V, 27.05.2011,
n. 3190)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 01.02.2013 n. 310 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’amministrazione comunale, in sede di rilascio
del titolo edilizio, deve considerare eventuali limiti e
vincoli di carattere privatistico, anche di natura reale,
laddove siano certi e non contestati. Ed invero, la
legittimità del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 11
D.P.R. n. 380/2001, non può essere inficiata da posizioni
dei terzi che abbiano la consistenza di semplici pretese di
utilizzazione del bene oggetto dell’assentita attività
edificatoria.
L’amministrazione comunale, infatti, in sede di rilascio del
permesso di costruire, ha l’onere di verificare il rispetto
dei limiti privatistici (discendenti dall'esercizio
dell'autonomia negoziale, tra i quali spiccano gli iura in
re aliena, come il diritto di servitù), purché essi “siano
immediatamente conoscibili, effettivamente e legittimamente
conosciuti nonché del tutto incontestati, di guisa che il
controllo si traduca in una semplice presa d'atto”.
In altri termini, l’amministrazione non è tenuta affatto a
condurre ad approfondite e dispendiose verifiche circa i
rapporti tra le parti contendenti.
La tesi sostenuta dalla ricorrente non è
condivisibile. L’amministrazione comunale, in sede di
rilascio del titolo edilizio, deve considerare eventuali
limiti e vincoli di carattere privatistico, anche di natura
reale, laddove siano certi e non contestati. Ed invero, la
legittimità del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 11
D.P.R. n. 380/2001, non può essere inficiata da posizioni
dei terzi che abbiano la consistenza di semplici pretese di
utilizzazione del bene oggetto dell’assentita attività
edificatoria.
L’amministrazione comunale, infatti, in sede
di rilascio del permesso di costruire, ha l’onere di
verificare il rispetto dei limiti privatistici (discendenti
dall'esercizio dell'autonomia negoziale, tra i quali
spiccano gli iura in re aliena, come il diritto di servitù),
purché essi “siano immediatamente conoscibili,
effettivamente e legittimamente conosciuti nonché del tutto
incontestati, di guisa che il controllo si traduca in una
semplice presa d'atto” (cfr. C.d.S., sez. IV, 10.12.2007, n. 6332; C.d.S., sez. IV, 12.03.2007, n. 1206).
In
altri termini, l’amministrazione non è tenuta affatto a
condurre ad approfondite e dispendiose verifiche circa i
rapporti tra le parti contendenti (Tar Campania, Napoli,
sez. IV, n. 1165 del 25.02.2011)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 31.01.2013 n. 313 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La nozione di volume
tecnico in campo edilizio si fonda su tre parametri: il
primo, positivo, di tipo funzionale, secondo cui il
manufatto deve avere un rapporto di strumentalità necessaria
con l'utilizzo della costruzione; il secondo e il terzo,
negativi, ricollegati, da un lato, all'impossibilità di
soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali
costruzioni non devono essere ubicate all'interno della
parte abitativa, e, dall'altro, ad un rapporto di necessaria
proporzionalità fra tali volumi e le esigenze effettivamente
presenti.
Pertanto, tale nozione si adatta solo alle opere
completamente prive di una propria autonomia funzionale,
anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti
al servizio di una costruzione principale, per esigenze
tecnico-funzionali di quest’ultima. Il volume tecnico
consiste quindi in un locale avente una propria ed autonoma
individualità fisica e conformazione strutturale,
funzionalmente inserito al servizio di un’esigenza oggettiva
della costruzione principale, privo di valore autonomo di
mercato, tale da non consentire una diversa destinazione da
quella a servizio dell’immobile cui accede.
Il carattere strumentale rispetto all’immobile principale
deve comunque essere oggettivo e non deve risultare dalla
destinazione soggettivamente conferita dal progettista o dal
proprietario del bene.
Inoltre, deve essere sempre facilmente rilevabile il
rapporto di proporzionalità tra questi volumi e le esigenze
effettivamente presenti.
Secondo consolidata
giurisprudenza amministrativa, la nozione di volume tecnico
in campo edilizio si fonda su tre parametri: il primo,
positivo, di tipo funzionale, secondo cui il manufatto deve
avere un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo
della costruzione; il secondo e il terzo, negativi,
ricollegati, da un lato, all'impossibilità di soluzioni
progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non
devono essere ubicate all'interno della parte abitativa, e,
dall'altro, ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra
tali volumi e le esigenze effettivamente presenti.
Pertanto, tale nozione si adatta solo alle opere
completamente prive di una propria autonomia funzionale,
anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti
al servizio di una costruzione principale, per esigenze
tecnico-funzionali di quest’ultima (Consiglio di Stato, sez.
IV, 28.01.2011, n. 687; Tar Calabria, Catanzaro, Sez. II, 21.03.2012, n. 297). Il volume tecnico consiste
quindi in un locale avente una propria ed autonoma
individualità fisica e conformazione strutturale,
funzionalmente inserito al servizio di un’esigenza oggettiva
della costruzione principale, privo di valore autonomo di
mercato, tale da non consentire una diversa destinazione da
quella a servizio dell’immobile cui accede.
Il carattere strumentale rispetto all’immobile principale
deve comunque essere oggettivo e non deve risultare dalla
destinazione soggettivamente conferita dal progettista o dal
proprietario del bene.
Inoltre, deve essere sempre facilmente rilevabile il
rapporto di proporzionalità tra questi volumi e le esigenze
effettivamente presenti
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 31.01.2013 n. 313 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In assenza di
inadempimenti imputabili all'Amministrazione idonei a
configurare a suo carico una responsabilità "da contatto"
oppure di natura precontrattuale, non può farsi riferimento
all'art. 1227 c.c. essendo tale disposizione riferibile solo
alle obbligazioni di carattere risarcitorio e non a quelle
(anche di contenuto pecuniario) di natura sanzionatoria,
come nel caso in esame. Quest'ultima conclusione deve essere
confermata.
Invero, pur in presenza di un contratto di garanzia
cosiddetta autonoma, con il quale il garante si obbliga ad
eseguire la prestazione oggetto della garanzia "a semplice
richiesta" del creditore garantito, senza opporre eccezioni
attinenti alla validità, all'efficacia ed alla vicenda del
rapporto principale, anche in questa ipotesi il meccanismo
dell'adempimento del garante "a prima richiesta" scatta a
seguito dell'inadempimento dell'obbligazione principale,
ancorché resti vietato al garante di chiedere la preventiva
escussione del debitore principale.
D'altronde, neppure con riguardo al regime ordinario delle
obbligazioni tra privati sarebbe pertinente il richiamo
all'art. 1227 cod. civ. Infatti, l'onere di diligenza che
questa norma fa gravare sul creditore non si estende alla
sollecitudine nell'agire a tutela del proprio credito onde
evitare maggiori danni, i quali viceversa sono da imputare
esclusivamente alla condotta del debitore, tenuto al
tempestivo adempimento della sua obbligazione.
Inoltre, non è dato ravvisare nel sistema di cui agli artt.
1936 ss. cod. civ. alcun principio di preventiva doverosa
escussione del fideiussore alla scadenza del termine fissato
per l'adempimento dell'obbligazione garantita, che peraltro
colliderebbe con le finalità dell'istituto, inteso a
rafforzare la garanzia del credito in funzione di un
interesse proprio e specifico del creditore.
In altri termini, ed in materia di obbligazioni "portable"
quali quelle pecuniarie, e con termine di adempimento che
esonera dalla costituzione in mora del debitore, il
creditore è soltanto facultato ad attivare la solidale
responsabilità del fideiussore, senza che possa invece
ritenersi tenuto ad escutere il coobbligato piuttosto che
attendere il pagamento, ancorché tardivo, salva l'esistenza
di apposita clausola in tal senso (che dovrebbe essere
accettata dall'Amministrazione).
A prescindere infatti dalle difficoltà
incontrate dal Comune nell'escutere il fideiussore (in
ragione delle opposizioni dallo stesso formulate e dal
continuo cambio di sede, che ha impedito la notificazione
delle richieste di pagamento, come si evince dalla memoria
difensiva comunale e dalla documentazione alla stessa
allegata), deve rilevarsi che il giudice di appello, con
recente pronuncia (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, n. 5395
del 28.09.2011), ha così statuito: "con decisioni C.S. n.
1250/2005, n. 6345/2005, n. 4025/2007 è stato precisato che in
assenza di inadempimenti imputabili all'Amministrazione
idonei a configurare a suo carico una responsabilità "da
contatto" oppure di natura precontrattuale, non può farsi
riferimento all'art. 1227 c.c. essendo tale disposizione
riferibile solo alle obbligazioni di carattere risarcitorio
e non a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura
sanzionatoria, come nel caso in esame. Quest'ultima
conclusione deve essere confermata.
Invero, pur in presenza
di un contratto di garanzia cosiddetta autonoma, con il
quale il garante si obbliga ad eseguire la prestazione
oggetto della garanzia "a semplice richiesta" del creditore
garantito, senza opporre eccezioni attinenti alla validità,
all'efficacia ed alla vicenda del rapporto principale, anche
in questa ipotesi il meccanismo dell'adempimento del garante
"a prima richiesta" scatta a seguito dell'inadempimento
dell'obbligazione principale, ancorché resti vietato al
garante di chiedere la preventiva escussione del debitore
principale (Cass. 18.11.1992 n. 12341, 03.11.1993 n. 10850, 17.05.2001 n. 6757).
D'altronde, neppure
con riguardo al regime ordinario delle obbligazioni tra
privati sarebbe pertinente il richiamo all'art. 1227 cod.
civ. Infatti, l'onere di diligenza che questa norma fa
gravare sul creditore non si estende alla sollecitudine
nell'agire a tutela del proprio credito onde evitare
maggiori danni, i quali viceversa sono da imputare
esclusivamente alla condotta del debitore, tenuto al
tempestivo adempimento della sua obbligazione (V. Corte
cost. n. 308 del 14.07.1999).
Inoltre, non è dato ravvisare
nel sistema di cui agli artt. 1936 ss. cod. civ. alcun
principio di preventiva doverosa escussione del fideiussore
alla scadenza del termine fissato per l'adempimento
dell'obbligazione garantita, che peraltro colliderebbe con
le finalità dell'istituto, inteso a rafforzare la garanzia
del credito in funzione di un interesse proprio e specifico
del creditore.
In altri termini, ed in materia di
obbligazioni "portable" quali quelle pecuniarie, e con
termine di adempimento che esonera dalla costituzione in
mora del debitore, il creditore è soltanto facultato ad
attivare la solidale responsabilità del fideiussore, senza
che possa invece ritenersi tenuto ad escutere il coobbligato
piuttosto che attendere il pagamento, ancorché tardivo,
salva l'esistenza di apposita clausola in tal senso (che
dovrebbe essere accettata dall'Amministrazione), nella
specie non prevista"
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 31.01.2013 n. 305 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il termine di 36 mesi ex
art. 35, comma 18, della l. n. 47/1985, trascorso il quale
si prescrive l'eventuale diritto al conguaglio delle somme
dovute a titolo di oblazione, decorre dalla presentazione
della domanda di concessione edilizia in sanatoria, ma,
ovviamente, solo se questa sia corredata da tutti i
documenti richiesti dalla legge per la sua definizione;
altrimenti, il termine in parola deve intendersi decorrente
dalla data di integrazione della documentazione da allegare
alla domanda.
Posto, invero, che per gli oneri di urbanizzazione e costo
di costruzione il dies a quo decorre dal rilascio della
concessione edilizia, e, quindi, da un momento in cui sono
esattamente noti tutti gli elementi utili alla
determinazione dell'entità del contributo, relativamente al
conguaglio dell'oblazione dovuta in caso di condono
edilizio, il dies a quo non può, cioè, coincidere con la
presentazione della domanda che risulti sfornita della
documentazione all'uopo richiesta e necessaria ai fini della
corretta e definitiva determinazione dell'entità
dell'oblazione; cosicché la decorrenza del termine di
prescrizione presuppone -tanto in favore
dell'amministrazione per l'eventuale conguaglio, quanto in
favore del privato per l'eventuale rimborso- che la pratica
di sanatoria edilizia sia definita in tutti i suoi aspetti e
siano, per l'effetto, precisamente determinabili, alla
stregua dei parametri stabiliti dalla legge, l'an e il
quantum dell'obbligazione gravante sul privato; ciò che
riflette puntualmente la ratio sottesa all'art. 2935 cod.
civ., secondo il quale, in generale, la prescrizione non può
decorrere se non dal giorno in cui il diritto può essere
fatto valere.
---------------
Quanto alle somme dovute a titolo di contributo per oneri di
urbanizzazione e costo di costruzione, deve osservarsi che
il termine per far valere il diritto al relativo conguaglio,
disciplinato dall'art. 37 della l. n. 47/1985, soggiace,
come esattamente argomentato anche da parte ricorrente, al
termine ordinario di prescrizione decennale, atteso che il
termine speciale di 36 mesi, fissato dal precedente art. 35,
comma 18, concerne esclusivamente l'oblazione.
Tale prescrizione decennale decorre, poi, dal momento in cui
il diritto può essere fatto valere (ex art. 2935 cod. civ.),
ossia dall'emanazione della concessione edilizia in
sanatoria o, in alternativa, dalla scadenza del termine
perentorio di 24 mesi dalla presentazione della domanda,
spirato il quale "quest'ultima si intende accolta ove
l'interessato provveda al pagamento di tutte le somme
eventualmente dovute a conguaglio".
Vale anzitutto premettere, in punto di diritto,
che il termine di 36 mesi ex art. 35, comma 18, della l. n.
47/1985, trascorso il quale si prescrive l'eventuale diritto
al conguaglio delle somme dovute a titolo di oblazione,
decorre, bensì, dalla presentazione della domanda di
concessione edilizia in sanatoria, ma, ovviamente, solo se
questa sia corredata da tutti i documenti richiesti dalla
legge per la sua definizione; altrimenti, il termine in
parola deve intendersi decorrente dalla data di integrazione
della documentazione da allegare alla domanda (cfr. TAR
Campania, Napoli, sez. VIII, 09.02.2012, n. 695; TAR
Puglia, Lecce, sez. I, 05.03.2008, n. 735; TAR Campania,
Salerno, sez. II, 18.03.2008, n. 306; 17.06.2008, n.
1962; 26.11.2008, n. 3912; 26.01.2009, n. 165;
TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 18.12.2008, n. 1752; TAR
Lazio, Roma, sez. II, 15.04.2009, n. 6852; Latina, 03.03.2010, n. 204).
Posto, invero, che per gli oneri di urbanizzazione e costo
di costruzione il dies a quo decorre dal rilascio della
concessione edilizia, e, quindi, da un momento in cui sono
esattamente noti tutti gli elementi utili alla
determinazione dell'entità del contributo, relativamente al
conguaglio dell'oblazione dovuta in caso di condono
edilizio, il dies a quo non può, cioè, coincidere con la
presentazione della domanda che risulti sfornita della
documentazione all'uopo richiesta e necessaria ai fini della
corretta e definitiva determinazione dell'entità
dell'oblazione; cosicché la decorrenza del termine di
prescrizione presuppone -tanto in favore
dell'amministrazione per l'eventuale conguaglio, quanto in
favore del privato per l'eventuale rimborso- che la pratica
di sanatoria edilizia sia definita in tutti i suoi aspetti e
siano, per l'effetto, precisamente determinabili, alla
stregua dei parametri stabiliti dalla legge, l'an e il
quantum dell'obbligazione gravante sul privato; ciò che
riflette puntualmente la ratio sottesa all'art. 2935 cod.
civ., secondo il quale, in generale, la prescrizione non può
decorrere se non dal giorno in cui il diritto può essere
fatto valere (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. II, 02.03.2010, n. 1552;
03.06.2010, n. 8224; TAR Sardegna,
Cagliari, sez. II, 17.11.2010, n. 2600).
---------------
Quanto, poi, alle somme
dovute a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e
costo di costruzione, deve osservarsi che il termine per far
valere il diritto al relativo conguaglio, disciplinato
dall'art. 37 della l. n. 47/1985, soggiace, come esattamente
argomentato anche da parte ricorrente, al termine ordinario
di prescrizione decennale, atteso che il termine speciale di
36 mesi, fissato dal precedente art. 35, comma 18, concerne
esclusivamente l'oblazione (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. II,
08.10.2004, n. 1896; TAR Lombardia, Milano, sez. II,
20.03.2007, n. 458; TAR Trentino Alto Adige, Trento, 09.12.2010, n. 234).
Tale prescrizione decennale decorre, poi, dal momento in cui
il diritto può essere fatto valere (ex art. 2935 cod. civ.),
ossia dall'emanazione della concessione edilizia in
sanatoria o, in alternativa, dalla scadenza del termine
perentorio di 24 mesi dalla presentazione della domanda,
spirato il quale "quest'ultima si intende accolta ove
l'interessato provveda al pagamento di tutte le somme
eventualmente dovute a conguaglio"
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 31.01.2013 n. 302 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Sulla vexata quaestio della tutela del privato in
presenza di occupazioni che, per quanto in origine
legittime, siano divenute sine titulo per mancata
adozione, nei termini di legge, di rituale misura ablatoria.
Va ricordato il consolidato
orientamento che attribuisce alla giurisdizione
amministrativa le controversie, anche risarcitorie, che
abbiano a oggetto un'occupazione originariamente legittima,
e che sia poi divenuta sine titulo a causa del decorso dei
termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità
senza il sopravvenire di un valido decreto di esproprio,
trattandosi non già di meri comportamenti materiali, ma di
condotte costituenti espressione di un'azione
originariamente riconducibile all'esercizio del potere
autoritativo della p.a., e che solo per accidenti successivi
-come avviene anche per l'ipotesi di successivo annullamento
giurisdizionale degli atti ablatori- hanno perso la propria
connotazione eminentemente pubblicistica.
Esula, peraltro, dalla giurisdizione amministrativa, per
spettare a quella del giudice ordinario, la domanda tesa ad
ottenere il riconoscimento degli indennizzi per il periodo
di occupazione legittima in relazione alla quale continua a
valere a tutti gli effetti la riserva disposta dall'art. 53,
comma 2, d.P.R. n. 327 del 2001 (ora, art. 133 comma 1,
lett. g, c.p.a.).
---------------
Va, in proposito, osservato:
a) che, in caso occupazione originariamente valida non
seguita, peraltro, da tempestiva adozione del decreto di
esproprio, il decorso del termine ventennale utile ad
usucapionem prende avvio solo dal momento in cui
l’occupazione diventa contra legem, con il decorso del
termine quinquennale;
b) che, ai fini interruttivi, appaiono idonee (in virtù del
combinato disposto degli artt. 1965 e 2943 c.c.)
esclusivamente iniziative giudiziali in funzione
recuperatoria del possesso, e non già intese alla mera
condanna al risarcimento del danno;
c) che, per comune intendimento, la maturata usucapione fa
venir meno (non soltanto, come è ovvio, la facoltà di
esperire le tutele reali e recuperatorie, stante la
correlativa perdita della situazione dominicale, ma anche)
l'elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria
(nonché, deve ritenersi, di quella indennitaria),
consistente nell'illiceità della condotta lesiva della
situazione giuridica soggettiva dedotta, non solo per il
periodo successivo al decorso del termine, ma anche per
quello anteriore, in virtù della retroattività degli effetti
dell'acquisto, stabilita per garantire, alla scadenza del
termine necessario, la piena realizzazione dell'interesse
all'adeguamento della situazione di fatto a quella di
diritto;
d) che neppure, del resto, risulta concretamente possibile,
ad usucapione maturata, condanna alla adozione (ad esito
alternativo discrezionalmente apprezzabile) di provvedimento
ex art. 42-bis del T.U. n. 327/2001, per la preclusiva
ragione che l’usucapione costituisce già autonomo titolo di
acquisto della proprietà e non potrebbe, con ogni evidenza,
procedersi all’acquisto di cosa propria.
Il ricorso è, nei sensi delle
considerazioni che seguono, infondato e merita di essere
correlativamente respinto.
Va, liminarmente, respinta l’articolata eccezione di difetto
di giurisdizione alla luce del consolidato orientamento che
attribuisce alla giurisdizione amministrativa le
controversie, anche risarcitorie, che abbiano a oggetto
un'occupazione originariamente legittima, e che sia poi
divenuta sine titulo a causa del decorso dei termini di
efficacia della dichiarazione di pubblica utilità senza il
sopravvenire di un valido decreto di esproprio, trattandosi
non già di meri comportamenti materiali, ma di condotte
costituenti espressione di un'azione originariamente
riconducibile all'esercizio del potere autoritativo della
p.a., e che solo per accidenti successivi -come avviene
anche per l'ipotesi di successivo annullamento
giurisdizionale degli atti ablatori- hanno perso la propria
connotazione eminentemente pubblicistica (cfr., da ultimo,
Cons. Stato, sez. IV, 28.11.2012, n. 6012 e già Cons.
Stato, Ad. Pl., 22.10.2007, n. 12).
Esula, peraltro, dalla giurisdizione amministrativa, per
spettare a quella del giudice ordinario, la domanda tesa ad
ottenere il riconoscimento degli indennizzi per il periodo
di occupazione legittima in relazione alla quale continua a
valere a tutti gli effetti la riserva disposta dall'art. 53,
comma 2, d.P.R. n. 327 del 2001 (ora, art. 133 comma 1,
lett. g, c.p.a.): in termini, da ultimo TAR Campania
Napoli, sez. V, 14.06.2012, n. 2831.
In termini generale, giova premettere che la
controversia in esame attiene alla vexata quaestio della
tutela del privato in presenza di occupazioni che, per
quanto in origine legittime, siano divenute sine titulo per
mancata adozione, nei termini di legge, di rituale misura
ablatoria.
Va osservato, sul punto, che i percorsi di tutela della
proprietà privata a fronte dell’illegittimo esercizio del
potere espropriativo –oscillanti tra azione restitutoria,
azione risarcitoria per equivalente e (attualmente) potere
pubblicistico di acquisizione sanante ai sensi del vigente
art. 42-bis del t.u. n. 327/2001– sono oggetto (anche, vale
soggiungere, indipendentemente dai persistenti dubbi di
compatibilità costituzionale e di conformità alla
convenzione EDU del citato art. 42-bis, che Cons. Stato,
sez. IV, 27.01.2012, n. 427 ha, peraltro, inteso
senz’altro fugare) di perdurante dibattito dottrinale e di
non sopiti contrasti giurisprudenziali.
I punti di partenza della questione sono, alquanto
paradossalmente, del tutto perspicui:
a) la c.d. occupazione appropriativa per trasformazione
irreversibile dell'immobile, come modo di acquisto della
proprietà a titolo originario, fondato sul principio della
accessione c.d. invertita mutuato per analogia dall’art. 938
c.c., dopo una (fin troppo nota e travagliata) vicenda
segnata dal progressivo affinamento del formante
giurisprudenziale, è stata ormai inesorabilmente espunta dal
nostro ordinamento, in virtù delle reiterate e decisive
pronunzie della Corte di Strasburgo (v., in termini
perspicui, Cons. Stato, ad. plen., 29.04.2005, n. 2, cui
giova complessivamente rinviare);
b) di conseguenza, ricondotta la vicenda della occupazione
illegittima ad una “ordinaria” ipotesi di illecita ingerenza
nella sfera dominicale altrui, al proprietario leso
spetteranno (ove si prescinda, per un momento, dalla già
ventilata possibilità che l’ente espropriante eserciti il
distinto potere di cui all’attuale art. 42-bis, di cui si
dirà) tutte le ordinarie azioni a difesa della proprietà e
del possesso, non potendo godere la pubblica amministrazione
di uno status privilegiato se non in presenza di poteri
esercitati in conformità del paradigma legale di
riferimento.
È, peraltro, evidente che –in mancanza di un idoneo titolo
giuridico che valga a trasferire la proprietà in capo alla
pubblica amministrazione– il privato resta, a fronte della
illecita ingerenza, proprietario del bene, con la
conseguenza che può, anzitutto, attivare (a parte,
ovviamente, il risarcimento del danno per il periodo di
occupazione) la tutela restitutoria, previa ripristino dello
status quo ante: al che non può costituire impedimento (una
volta venuta meno la “costruzione“ concettuale della
occupazione acquisitiva) né la avvenuta trasformazione delle
aree né la realizzazione dell’opera pubblica (quella che, in
passato, si definiva sintomaticamente trasformazione
“irreversibile”, che tale era peraltro, con evidente
circuito logico, solo in quanto scattasse il postulato
meccanismo acquisitivo a titolo originario), in quanto, per
un verso, il limite della eccessiva onerosità è codificato,
dal’art. 2058 c.c., in relazione alla tutela risarcitoria
(in forma specifica) e non per quella restitutoria (che
trova fondamento negli artt. 948 ss. ed è preordinata alla
tutela reale della proprietà) e, per altro verso,
l’ulteriore limite di cui all’art. 2933 c.c. (relativo alla
riduzione in pristino di quanto sia stato realizzato in
violazione dell’obbligo di non fare) si riferisce solo alla
ricorrenza di pregiudizi per l’intera economia nazionale e
non a quello “localizzato” (in termini, da ultimo, Cass.
sez. I, 23.08.2012, n. 14609).
Per la stessa ragione, di conserva, al privato dovrebbe, in
principio, ritenersi preclusa la tutela risarcitoria
(naturalmente diversa da quella relativa alla mera
occupazione, finché la stessa sia di fatto durata),
difettando –ai fini del riconoscimento del diritto al
rivendicato controvalore venale del bene– il presupposto
della perdita della proprietà (non potendosi,
incidentalmente, ritenere –secondo un ragionamento
speciosamente formulato in passato, ma privo di basi ed oggi
espressamente ripudiato non meno dal giudice ordinario che
da quello amministrativo– che la formulazione della domanda
risarcitoria implicasse di per sé l’implicita volontà dismissiva della proprietà, alla stregua di una sorta di
“abbandono liberatorio”).
Una importante e paradossale conseguenza è, allora, che le
domande risarcitorie (anche quelle proposte quando nessuno,
né tantomeno gli odierni ricorrenti, aveva plausibile
ragione di dubitare del regime della occupazione
acquisitiva, magari giunte alla attuale cognizione del
giudice amministrativo –oggi attributario, come è noto,
della giurisdizione esclusiva in materia, giusta l’art. 34
del d.lgs. n. 80/1998, trasfuso nell’art. 133 c.p.a.– per
via di translatio judicii in esito a declinatoria della
giurisdizione, e salva la possibilità di formulare in
proposito una auspicabile emendatio libelli: cfr., in tal
senso, Cons. Stato, sez. IV, 01.06.2011, n. 3331)
dovrebbero essere senz’altro respinte in quanto non fondate
(per carenza del fatto costitutivo del diritto azionato).
Che è esito, va riconosciuto, nel complesso indubbiamente
insoddisfacente non solo per l’Amministrazione espropriante
(che vede, di fatto, in generale potenzialmente pregiudicato
l’interesse pubblico dalla doverosità ed automaticità della
reintegrazione della proprietà privata, anche in casi di
trasformazione delle aree e di avvenuta realizzazione delle
opere pubbliche, potendo solo riattivare ab ovo la procedura ablatoria), ma anche per lo stesso privato (che, più spesso
di quanto non si possa immaginare, annette in concreto
maggior interesse alla pronta liquidazione del bene secondo
il suo valore venale che al ripristino dello status quo ante
e che, in ogni caso, ha potuto ragionevolmente optare,
diversamente da quanto occorso nella fattispecie in esame,
per l’attivazione, in via esclusiva, della via risarcitoria
di fatto preclusa da inopinati overruling pretori).
A fronte di ciò, può ritenersi in generale sostanzialmente
appagante l’eventualità (non verificatasi, peraltro, nel
caso di specie nonostante lo spatium deliberandi di fatto
concesso dalla ordinanza collegiale evocata in narrativa)
che l’Amministrazione adotti l’autonomo potere ablatorio
codificato dall’art. 42-bis del t.u. n. 327/2001, in quanto:
a) per un verso, la legalità dell’azione amministrativa
viene, in certo modo, “recuperata” dalla creazione di un
(nuovo ed autonomo) titulus adquirendi di natura
provvedimentale, munito di idonea base legale e frutto di
doverosa e rigorosa ponderazione comparativa degli interessi
in gioco, complessivamente intesa alla salvaguardia di
quello pubblico concretamente preminente (così superando la
logica, stigmatizzata in sede CEDU, dell’occupazione
acquisitiva, che consentiva l’acquisto in virtù di un mero
comportamento di fatto, per di più concretante fattispecie
di illecito);
b) per altro verso, si garantisce al privato
una tutela piena e satisfattiva (in prospettiva
dichiaratamente “indennitaria” piuttosto che “risarcitoria”,
non trattandosi, nell’auspicio “ricostruttivo”, per quanto
valer possa l’intento qualificatorio trasfuso nella norma,
dei conditores, di non più plausibile acquisto ex re illicita, come ancora autorizzava a ritenere la formulazione
del previgente art. 43) al conseguimento dell’integrale
valore del bene (per giunta maggiorato –a dire il vero, non
senza una sottile contraddizione “sistematica”– del
pregiudizio non patrimoniale forfetizzato, oltre che,
naturalmente, del danno da occupazione), senza neppure
precludergli (in tesi astratta) la possibilità di impugnare
(se interessato soprattutto alla reintegra) il
provvedimento.
Il problema si pone, allora, essenzialmente per l’ipotesi
(peraltro praticamente più frequente) di inerzia (o
addirittura di silenzio) dell’ente espropriante: inerzia e
silenzio che, per quanto si è detto, appaiono in grado di
condizionare lo spettro delle tutele a disposizione del
privato, di fatto conservandone lo status non sempre gradito
(e, nella specie, addirittura prospetticamente suscettibile
di azzerare le forme di tutela azionate) di proprietario dei
beni.
Un primo tentativo di soluzione del problema è stato
offerto da quella giurisprudenza che –muovendosi sul piano
schiettamente civilistico (l’unico, peraltro, possibile in
difetto di esercizio di legittime potestà pubblicistiche):
a) o ha ritenuto (così TAR Lecce, sez. I, 24.11.2010,
n. 2683) che l’irreversibile trasformazione del bene
continui a rappresentare fatto idoneo a far acquistare la
proprietà alla pubblica amministrazione (non già, peraltro,
per il principio dell’accessione invertita, ma in virtù
della c.d. specificazione ex art. 940 c.c., consistente
nella utilizzazione della altrui “materia” per realizzare
una “nuova cosa”): tesi rimasta, peraltro, del tutto
isolata, se non altro per il rilievo che la specificazione,
quale modo civilistico di acquisto della proprietà a titolo
originario, si attaglia alle cose mobili e non a quelle
immobili);
b) ovvero –con esito del tutto opposto– ha
ventilato l’applicazione della regola (ordinaria e
tradizionale) della accessione ex art. 934 c.c., in forza
della quale non solo (come è pacifico) il proprietario delle
aree occupate non perde il proprio diritto in conseguenza
dell’altrui ingerenza, ma diventa anche il proprietario
degli immobili realizzati sul proprio suolo: con il che
peraltro –del tutto paradossalmente– il privato sarebbe
esposto anche ad un arricchimento “imposto” ed una
consequenziale obbligazione indennitaria a suo danno.
Si è anche formato un orientamento giurisprudenziale
volto, per altra via, ad aggirare la difficoltà ed a
raggiungere comunque l'obiettivo perseguito dal legislatore:
già nella vigenza dell'art. 43 si era, invero, statuito che,
a fronte della domanda risarcitoria, la P.A. avrebbe potuto
(alternativamente ma doverosamente) pervenire ad un accordo
transattivo ovvero emettere un formale e motivato decreto,
con cui disporre o la restituzione dell'area a suo tempo
occupata, previa ripristino dello status quo ante, ovvero
l'acquisizione coattiva: con il che, in caso di inerzia
conseguente al giudicato “ad esito alternativo”,
l'interessato avrebbe potuto chiedere, in sede di
ottemperanza, l'esecuzione della decisione, per la adozione
delle misure consequenziali (rientrando nei poteri del
giudice, in tal caso estesi come è noto al merito, la nomina
di un commissario ad acta per l’adozione della scelta più
opportuna): così Cons. Stato, sez. IV, 21.05.2007, n.
2582, seguito, tra le altre, da TAR Campania Napoli, sez. V,
28.05.2009).
È evidente che, in tale prospettiva, il processo azionato
dal privato diventa indirettamente strumento per imporre
alla P.A. di attivarsi per comporre la vicenda, senza ancora
pregiudicare le diverse opzioni, ma sull'implicito
presupposto pratico che l'ipotesi della restituzione rimanga
puramente teorica. Perciò, con l’introduzione dell'art. 42-bis, questo orientamento ha ripreso vigore, specie nella
giurisprudenza di prime cure (ed è stato accolto, per
esempio, da questo Tribunale: cfr, in tal senso, TAR
Campania Salerno, sez. II, 11.01.2012, n. 28),
puntando, da fatto, più seccamente sulla ineludibile
alternativa tra restituzione e acquisizione sanante, mentre
passano in secondo piano altre soluzioni che erano emerse,
come l'accordo transattivo o la rinnovazione del
procedimento espropriativo (la prima, ovviamente, sempre
possibile ma non certo in forza di una statuizione
giudiziaria impositiva di un obbligo, sia pure alternativo,
a contrarre, privo, come tale, di idonea base positiva; la
seconda anch’essa, beninteso, sempre possibile, ma
chiaramente disfunzionale ed onerosa, in presenza di una
facoltà acquisitiva autonoma ex art. 42-bis).
Va, peraltro, rammentato come altra impostazione abbia
inteso andare oltre il prospettato esito decisionale,
escludendo ogni alternativa, anche quella della
restituzione, e rendendo non più nascosto ma esplicito e
vincolante l'obiettivo di addivenire all'acquisizione: se il
provvedimento di acquisizione è (o si vuole che sia) l'unico
modo per sistemare la vicenda e la P.A. rimane inerte, vorrà
dire che a tale provvedimento si dovrà ineludibilmente
pervenire per ordine del giudice, con eventuale esercizio di
poteri sostitutivi in sede di esecuzione: in tal caso
l'accoglimento del ricorso si risolve, direttamente, in una
condanna specifica ad adottare il provvedimento di
acquisizione ai sensi dell'art. 42-bis.
Con questa sorta di mutatio officiosa della domanda (peraltro, di dubbia
compatibilità con il canone della corrispondenza tra chiesto
e pronunziato ex art. 112 c.p.c.), la ''sostanza'' cui,
iussu proprie iudicis, si perviene è che, da un lato, si è
trasferita la proprietà e si è evitata la restituzione,
d'altro lato, si è concesso indirettamente il risarcimento
del danno per equivalente al privato: il provvedimento di
acquisizione contiene infatti ex lege l'indennizzo per la
perdita della proprietà (in tali sensi, tra le altre, TAR
Campania Napoli, Sez. V, 13.01.2012, n. 176, la quale,
peraltro, ha “differito” l’esame della domanda risarcitoria
all’esito della adozione del provvedimento acquisitivo,
laddove altro modulo decisionale, seguito inter alia da
TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 23.02.2012, n. 428, da TAR Lombardia Brescia, Sez. II, 26.01.2012, n.
115 e da TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 17.02.2012,
n. 195, ritiene “assorbita” la domanda risarcitoria,
sull’assunto che, adottato il provvedimento ex art. 42-bis,
la disputa sul quantum della riconosciuta indennità
spetterebbe ad altra sede e, plausibilmente, ad altra
giurisdizione).
L'orientamento in questione e la prospettiva della condanna
a provvedere ex art. 42-bis consentono in realtà, a favore
del privato, di superare in radice ogni problematico rilievo
del distinguo tra domanda restitutoria e domanda di
risarcimento per equivalente, poiché, quale che sia l'esatto
contenuto della domanda, soltanto nella suddetta condanna
può risolversi il processo. Non a caso, possono ravvisarsi
pronunce che hanno statuito la condanna a provvedere ex art.
42-bis non perché mosse dalla necessità di aggirare la
domanda restitutoria (concretamente non inclusa nel petitum
immediato), ma a partire dalla mera azione risarcitoria,
pervenuta, magari tramite translatio judicii, al giudice
amministrativo.
Il descritto escamotage giurisprudenziale (va, invero,
onestamente riconosciuto che di questo si tratta) consente,
quindi, di raggiungere l'obiettivo dell'art. 42-bis, con
indubbi vantaggi anche per la tutela effettiva del privato,
ma, specialmente nella versione della condanna specifica e
non alternativa all'acquisizione sanante, al costo di
un'interpretazione che porta a dissolvere anche un'apparenza
di conformità ai principi europei: e ciò perché si finisce
pregiudizialmente per escludere sempre e comunque la
concessione della (primaria ed indefettibile) tutela
restitutoria.
In tale contesto, una più recente (e, sia pure solo in
parte, alternativa) pronunzia del Consiglio di Stato (la n.
1514 del 16.03.2012, resa dalla sez. IV) ha piuttosto (e,
c’è da riconoscere, con maggior “franchezza”) argomentato
nel senso:
a) che al privato è preclusa (in assenza di
adozione del provvedimento acquisitivo) la tutela
risarcitoria, in quanto anche l’irreversibile trasformazione
delle aree non determina, come ampiamente chiarito, la
perdita del diritto di proprietà;
b) nondimeno –e qui sta
la novità della pronuncia– neppure può darsi luogo (quando,
ovviamente, richiesta) alla tutela restitutoria: la quale,
in thesi, eliderebbe di per sé ed automaticamente il potere
(discrezionale e non conculcabile) di acquisizione sanante
ex art. 42-bis (non esistendo più la c.d. acquisizione
giudiziale consentita dal previgente art. 43, che
autorizzava l’Amministrazione ad invocare ope exceptionis la
limitazione della domanda alla erogazione del risarcimento
del danno, nella prospettiva della futura e “preannunziata”
determinazione acquisitiva);
c) di conseguenza la domanda
(comunque formulata) è ritenuta accoglibile (avuto riguardo
al c.d. principio di atipicità scolpito dall’art. 34 c.p.a.)
nei (soli) sensi dalla condanna all’obbligo generico di
provvedere ex art. 42-bis, restando impregiudicata la scelta
discrezionale tra acquisizione sanante (unita al ristoro per
la perdita della proprietà e per il periodo di occupazione
illegittima) e restituzione (preceduta dalla restitutio in
integrum e dal ristoro del solo periodo di occupazione
illegittima).
Insomma: da un lato, l'accoglimento della mera
azione risarcitoria si scontra con il mancato trasferimento
della proprietà, d'altro lato, l'art. 42-bis avrebbe
inequivocabilmente attribuito alla P.A. il potere
discrezionale, valutati gli interessi in conflitto, di
pervenire o meno al provvedimento di acquisizione, e
siffatto potere (peraltro non già facoltativo, nella
consueta guisa del procedimenti di secondo grado orientati
alla sanatoria, sebbene doveroso nell’an giusta il principio
generale scolpito all’art. 2 della l. n. 241/1990, in quanto
preordinato alla salvaguardia, in prospettiva comparativa,
di rilevanti interessi delle controparti private) non
potrebbe essere preventivamente intaccato e vanificato
(stante l’attuale impossibilità, a differenza del previgente
art. 43, di attivazione post litem judicatam) da un vincolo
giurisdizionale conseguente all’accoglimento della domanda
restitutoria (né –è da precisare– da una condanna a
provvedere tout court all’adozione del provvedimento
acquisitivo, che lederebbe e pregiudicherebbe in altra
direzione la discrezionalità della P.A. di scegliere,
valutati gli interessi in conflitto, tra acquisizione e
restituzione del bene).
La soluzione de qua (per quanto non esente da perplessità,
di fatto disconoscendosi la tutela restitutoria nella
immediatezza della sua sede naturale, id est nel giudizio di
cognizione, di fatto condizionato dal successivo ed
eventuale esercizio del potere amministrativo di
acquisizione) ha trovato nondimeno apprezzamento in
dottrina, poiché attenua, in qualche misura, il conflitto
con i principi della CEDU, lasciando quantomeno
''astrattamente'' aperta la porta alla possibilità della
restituzione. Anche se –si è criticamente osservato non
senza qualche ragione– non deve dimenticarsi che nel nuovo
art. 42-bis non è stata, come si ripete, riprodotta la
facoltà processuale della P.A. di paralizzare la
restituzione (di cui all'originario art. 43), proprio per
ragioni di compatibilità con i principi europei, risultando
così alquanto paradossale che si evochi proprio l'art. 42-bis per pervenire ad un opposto e ancor più estremo
risultato, cioè di un'azione restitutoria che ex lege viene
paralizzata d'ufficio dal giudice. Perplessità, come è
ovvio, che non può sorgere quando la domanda sia formulata
in termini risarcitori.
Va da sé, sulle esposte coordinate dogmatiche, che (una
volta ritenuta, nei chiariti sensi, la “doverosità” di
attivazione del procedimento di acquisizione sanante ex art.
42-bis) sarebbe preferibile strutturare recta via la tutela
del privato nei sensi della condanna (pura) a provvedere,
nelle forme del rito avverso il silenzio (in tal senso, per
esempio, TAR Campania Napoli, sez. V, 11.01.2012, n.
86, confermata da Cons. Stato, sez. IV, 08.10.2012, n.
5207): il risultato —condanna generica a provvedere— è
ovviamente del tutto identico a quello scaturente
dall’orientamento precedente, ma con ulteriori apprezzabili
conseguenze sia per il privato, sia per la stessa P.A:
a)
dal punto di vista del privato, vi sono palesi vantaggi sui
“'tempi” di definizione della vicenda (non essendo anzitutto
da escludere che la P.A., sollecitata dall'istanza, decida
senz’altro di provvedere, ed in ogni caso, di fronte
all'inerzia, si potrà ottenere quel risultato della condanna
generica a provvedere attraverso il rito “acceleratorio” del
silenzio, in luogo delle lungaggini di un'azione
risarcitoria);
b) per la stessa P.A., non è certo
trascurabile che l'indotto accorciamento dei “tempi” eviterà
un aggravamento degli oneri risarcitori per l'occupazione
illegittima, interrotta dalla restituzione, che fa venir
meno l'occupazione stessa, o dal provvedimento di
acquisizione, che ne fa venir meno l'illegittimità;
c) in
ogni caso, nell'ottica europea, si toglierebbe la
giurisprudenza dall'imbarazzo di non poter direttamente
accogliere le azioni restitutorie o di dover affermare, come
l’orientamento illustrato precedentemente, che il giudice
non può elidere il potere amministrativo di decidere o meno
l'acquisizione del bene (e ciò in quanto la questione
dell'esercizio di siffatto potere non costituirebbe più un
impedimento paralizzante nel momento della tutela
processuale dell'azione del proprietario, ma si consumerebbe
a monte e in un percorso prima amministrativo e poi
processuale, quello del silenzio, dall'oggetto limitato, che
rimane estraneo formalmente all'esperimento in via
principale della tutela dominicale, per quanto nella
''sostanza'' indirettamente già idoneo a soddisfare la
pretesa risarcitoria o restitutoria).
La dottrina si è addirittura spinta a prospettare (ed
auspicare) de jure condendo (pur nella consapevolezza della
sua problematicità anche in termini costituzionali,
trattandosi in tesi di strutturare tutele c.d. condizionate)
l’introduzione del previo esperimento dell'istanza a
provvedere ex art. 42-bis e dell'eventuale tutela
giurisdizionale avverso il silenzio quali condizioni di
procedi-bilità delle domande risarcitorie e/o restitutorie.
Tutto ciò premesso, va peraltro esaminata –sia in
quanto espressamente formulata da parte resistente al
preordinato fine di argomentare l’infondatezza della domanda
risarcitoria formulata ex adverso, sia in quanto
prospetticamente idonea ad evocare, ove fondata, ragione
pregiudizialmente preclusiva, in presenza di idoneo titulus adquirendi originario a favore dell’Amministrazione,
dell’esercizio del potere acquisitivo ex art. 42-bis T.U. n.
327/2001, stante la correlata carenza del relativo
presupposto dell’alienità del bene ad acquisirsi (cfr., da
ultimo, Cass., sez. I, 04.07.2012, n. 11147, riferita ad
un caso di occupazione usurpativa ma con argomento
generalizzabile)– l’eccezione intesa a valorizzare
l’intervenuta usucapione delle aree oggetto del contestato
intervento, che sarebbe maturata a favore
dell’Amministrazione espropriante in virtù del possesso
ultraventennale, non idoneamente interrotto da opportune e
tempestive iniziative giudiziali in funzione recuperatoria.
L’eccezione di intervenuta usucapione (che questo giudice
può accertare in via incidentale ex art. 8 c.p.a,. in quanto
logicamente concretante questione pregiudiziale) è fondata.
Va, in proposito, osservato:
a) che, in caso occupazione originariamente valida non
seguita, peraltro, da tempestiva adozione del decreto di
esproprio, il decorso del termine ventennale utile ad usucapionem prende avvio solo dal momento in cui
l’occupazione diventa contra legem, con il decorso del
termine quinquennale (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. V, 08.10.2012, n. 4030 e TAR Salerno, sez. II,
09.07.2012,
n. 1374): nella specie, a far data dal 15.03.1988 (con
maturazione al 15.03.2008);
b) che, ai fini interruttivi, appaiono idonee (in virtù del
combinato disposto degli artt. 1965 e 2943 c.c.)
esclusivamente iniziative giudiziali in funzione
recuperatoria del possesso, e non già intese alla mera
condanna al risarcimento del danno: cfr., in termini, Cass.
SS.UU. 19.10.2011, n. 21575, proprio argomentando dalla
possibilità, per il privato, di attivarsi nel senso della
reintegrazione del possesso indipendentemente dalla (non
rilevante) trasformazione del bene ablato: con il che, nel
caso di specie, non può dirsi giovevole alla ricorrente
l’azione risarcitoria in concreto attivata dinanzi al
giudice ordinario, con citazione notificata il 23.11.1999, conclusasi con statuizione declinatoria della
giurisdizione depositata in data 16.09.2002, versata
in atti;
c) che, per comune intendimento, la maturata usucapione
(della quale ricorrono, in concreto, tutti i presupposti,
avuto segnatamente riguardo al possesso ultraventennale non
interrotto) fa venir meno (non soltanto, come è ovvio, la
facoltà di esperire le tutele reali e recuperatorie, stante
la correlativa perdita della situazione dominicale, ma
anche) l'elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria
(nonché, deve ritenersi, di quella indennitaria),
consistente nell'illiceità della condotta lesiva della
situazione giuridica soggettiva dedotta, non solo per il
periodo successivo al decorso del termine, ma anche per
quello anteriore, in virtù della retroattività degli effetti
dell'acquisto, stabilita per garantire, alla scadenza del
termine necessario, la piena realizzazione dell'interesse
all'adeguamento della situazione di fatto a quella di
diritto (cfr. Cass., 19.10.2011, n. 21575; Cass.. sez.
III. 26.06.2008, n. 17570; Cass. 08.09.2006, n.
19294; merita, peraltro, soggiungere che la soluzione sul
punto non potrebbe essere diversa anche ad accogliere il
minoritario orientamento, essenzialmente dottrinario, inteso
ad argomentare l’irretroattività dell’effetto acquisitivo
conseguente alla maturata usucapione);
d) che neppure, del resto, risulta concretamente possibile,
ad usucapione maturata, condanna alla adozione (ad esito
alternativo discrezionalmente apprezzabile) di provvedimento
ex art. 42-bis del T.U. n. 327/2001 (giusta la regola
decisoria prospettata in subiecta materia da Cons. Stato,
sez. IV, 16.03.2012, n. 1514 sull’assunto della
doverosità nell’an della attivazione del relativo
procedimento), per la preclusiva ragione che l’usucapione
costituisce già autonomo titolo di acquisto della proprietà
e non potrebbe, con ogni evidenza, procedersi all’acquisto
di cosa propria (Cass., sez. I, 04.07.2012, n. 11147)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 31.01.2013 n. 298 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
L’art. 35, comma 3,
lettera e), del d.lgs. n. 165/2001 stabilisce che le
commissioni di concorso siano composte esclusivamente da
“esperti di provata competenza nelle materie di concorso,
scelti tra funzionari delle amministrazioni, docenti ed
estranei alle medesime, che non siano componenti dell'organo
di direzione politica dell'amministrazione, che non
ricoprano cariche politiche e che non siano rappresentanti
sindacali o designati dalle confederazioni ed organizzazioni
sindacali o dalle associazioni professionali”.
Della sussistenza del requisito della comprovata esperienza
(che non può spingersi fino a richiedere che i membri della
commissione siano titolari dello specifico insegnamento
oggetto di selezione, essendo sufficiente una competenza
specifica e sufficiente a valutare i candidati) non è,
peraltro, necessario che venga espressamente dato atto con
il provvedimento di nomina del componente della Commissione
di concorso, in quanto è sufficiente che esso requisito
sussista in concreto.
Quanto al primo motivo di appello con cui sono stati contestati gli
assunti del Giudice di primo grado circa la carenza, in capo
al Presidente della Commissione, di un livello di esperienza
adeguato per un adeguato espletamento delle funzioni
rivestite (in assenza di ogni indicazione al riguardo
nell’impugnato atto di designazione, peraltro adottato nella
forma della delibera di giunta e quindi nell’esercizio di
una funzione di indirizzo politico-amministrativo), la
Sezione condivide le censure formulate dal Comune di Vitulazio.
Invero l’art. 35, comma 3, lettera e), del d.lgs. n.
165/2001 stabilisce che le commissioni di concorso siano
composte esclusivamente da “esperti di provata competenza
nelle materie di concorso, scelti tra funzionari delle
amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime, che non
siano componenti dell'organo di direzione politica
dell'amministrazione, che non ricoprano cariche politiche e
che non siano rappresentanti sindacali o designati dalle
confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle
associazioni professionali”.
Della sussistenza del requisito della comprovata esperienza
(che non può spingersi fino a richiedere che i membri della
commissione siano titolari dello specifico insegnamento
oggetto di selezione, essendo sufficiente una competenza
specifica e sufficiente a valutare i candidati) non è,
peraltro, necessario che venga espressamente dato atto con
il provvedimento di nomina del componente della Commissione
di concorso, in quanto è sufficiente che esso requisito
sussista in concreto.
Nel caso di specie non può dubitarsi del fatto che lo
svolgimento delle funzioni di consigliere comunale abbia
comportato l’acquisizione di esperienza in materia giuridico-amministrativa sufficiente per presiedere la commissione di
un concorso per la nomina di un Istruttore Amministrativo
comunale, stante la non estrema specialità e complessità
delle competenze da accertare ai fini della attribuzione
della qualifica stessa.
Aggiungasi che è ininfluente la circostanza che la nomina in
questione sia stata effettuata dalla Giunta Comunale, atteso
che, come risulta dalla deliberazione della G.C. n. 87 del
07.10.2010 in atti (di nomina della commissione del concorso
de quo), il non impugnato art. 113 del Regolamento
sull’ordinamento degli Uffici e dei Servizi in vigore presso
il Comune, prevedeva la competenza proprio della Giunta
comunale alla nomina delle commissioni di concorso
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.01.2013 n. 574 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica
amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto
coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratta
all'accesso, in quanto, se la denuncia è presentata dalla
pubblica amministrazione nell'esercizio delle proprie
istituzionali funzioni amministrative, non si ricade
nell'ambito di applicazione dell'art. 329, c.p.p.;
Tuttavia se la pubblica amministrazione che trasmette
all'autorità giudiziaria una notizia di reato non lo fa
nell'esercizio della propria istituzionale attività
amministrativa, ma nell'esercizio di funzioni di polizia
giudiziaria specificamente attribuite dall'ordinamento, si è
in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia
giudiziaria, che, come tali, sono soggetti a segreto
istruttorio ai sensi dell'art. 329 c.p.p. e conseguentemente
sottratti all'accesso ai sensi dell'art. 24, l. n. 241 del
1990.
---------------
Ai sensi dell’art. 27, comma 1, del testo unico
sull’edilizia (approvato con il d.P.R. n. 380 del 2001), “il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale
esercita, anche secondo le modalità stabilite dallo statuto
o dai regolamenti dell'ente, la vigilanza sull'attività
urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne
la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi”.
Pertanto, se del caso per il tramite dei suoi dipendenti, il
dirigente o il responsabile dell’ufficio può disporre anche
ad horas, informalmente e ‘a sorpresa’ l’accesso sui luoghi
per verificare se sussista un illecito edilizio (avente o
meno rilevanza penale), se vada emesso un ordine di
sospensione dei lavori o se vada avviato un procedimento per
l’emanazione di un atto di ritiro di un precedente atto
abilitativo: solo in quest’ultimo caso è configurabile
l’obbligo di trasmettere un formale avviso previsto
dall’art. 7 della legge n. 241 del 1990.
Da quanto esposto in narrativa emerge che la signora
B. fosse portatrice di una posizione giuridica
soggettiva idonea a legittimare la proposizione del ricorso
per l’accesso.
In particolare, come esposto in narrativa e chiarito in
atti, l’odierna appellante è proprietaria di un appartamento
–e delle relative pertinenze– sul quale, nel corso degli
anni, sono stati effettuati interventi di manutenzione in
relazione ai quali risulta che il Comune di Napoli abbia
avviato un procedimento finalizzato alla verifica di
presunti abusi edilizi ivi commessi.
Conseguentemente, l’odierna appellante vanta un interesse
diretto, concreto ed attuale, corrispondente a una
situazione giuridicamente tutelata, ad accedere agli atti
del procedimento avviato dall’amministrazione comunale.
Al riguardo i primi Giudici hanno correttamente richiamato
il principio secondo cui non ogni denuncia di reato
presentata dalla pubblica amministrazione all'autorità
giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio
penale e come tale sottratta all'accesso, in quanto, se la
denuncia è presentata dalla pubblica amministrazione
nell'esercizio delle proprie istituzionali funzioni
amministrative, non si ricade nell'ambito di applicazione
dell'art. 329, c.p.p.; tuttavia se la pubblica
amministrazione che trasmette all'autorità giudiziaria una
notizia di reato non lo fa nell'esercizio della propria
istituzionale attività amministrativa, ma nell'esercizio di
funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuite
dall'ordinamento, si è in presenza di atti di indagine
compiuti dalla polizia giudiziaria, che, come tali, sono
soggetti a segreto istruttorio ai sensi dell'art. 329 c.p.p.
e conseguentemente sottratti all'accesso ai sensi dell'art.
24, l. n. 241 del 1990 (in tal senso: Cons. Stato, VI, 09.12.2008, n. 6117).
Ebbene, nei suoi scritti difensivi (il cui contenuto è stato
sostanzialmente condiviso dai primi Giudici) il Comune di
Napoli si è limitato a dichiarare che gli ulteriori
accertamenti (sic) sono stati compiuti nell’espletamento di
compiti delegati dall’Autorità giudiziaria.
Da quanto rilevato dal Comune non è dato comprendere se gli
atti finalizzati all’accertamento e alla repressione dei
presunti abusi edilizi posti in essere nella proprietà
dell’appellante:
a) siano stati delegati dall’A.G. (nel qual
caso l’ostensione non sarebbe possibile);
b) coincidano con
le notitiae criminis poste in essere dagli organi comunali
nell’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria ad essi
specificamente attribuite dall'ordinamento (nel qual caso
parimenti l’ostensione non sarebbe possibile), ovvero
c)
costituiscano atti di indagine e accertamento (se del caso,
tradottisi in denunce all’A.G.) non compiuti nell’esercizio
di funzioni di P.G., bensì nell'esercizio delle proprie
istituzionali funzioni amministrative (nel qual caso, non
sussistono impedimenti ad ammettere l’esercizio del diritto
di accesso su tali atti).
Sono invece infondate le deduzioni dell’appellante che,
incidentalmente, hanno lamentato che l’accesso sui luoghi
poteva aver luogo solo previo avviso di avvio di un
procedimento sanzionatorio.
Ai sensi dell’art. 27, comma 1, del testo unico
sull’edilizia (approvato con il d.P.R. n. 380 del 2001), “il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale
esercita, anche secondo le modalità stabilite dallo statuto
o dai regolamenti dell'ente, la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne
la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi”.
Pertanto, se del caso per il tramite dei suoi dipendenti, il
dirigente o il responsabile dell’ufficio può disporre anche
ad horas, informalmente e ‘a sorpresa’ l’accesso sui luoghi
per verificare se sussista un illecito edilizio (avente o
meno rilevanza penale), se vada emesso un ordine di
sospensione dei lavori o se vada avviato un procedimento per
l’emanazione di un atto di ritiro di un precedente atto
abilitativo: solo in quest’ultimo caso è configurabile
l’obbligo di trasmettere un formale avviso previsto
dall’art. 7 della legge n. 241 del 1990.
Ciò comporta l’infondatezza della pretesa dell’interessata,
di subordinare la propria collaborazione con l’ufficio al
previo rilascio di un formale atto di avviso di avvio di un
procedimento sanzionatorio: da un lato, ella può accedere ai
verbali posti in essere dall’ufficio con riferimento alla
sua posizione (purché, come sopra precisato, non siano stati
posti in essere nell’esercizio di una delega trasmessa dalla
autorità giudiziaria), dall’altro ella non può pretendere di
visionare un atto formale di avvio di un procedimento
sanzionatorio, che non va emesso per accertare la realtà di
fatto caratterizzante un immobile
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.01.2013 n.
547 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Fra le cause di
esclusione dalle gare pubbliche devono essere ricomprese,
oltre alle ipotesi previste dall’art. 2359 del c.c., anche
quelle non codificate di collegamento sostanziale le quali,
attestando la riconducibilità dei soggetti partecipanti alla
selezione ad un unico centro decisionale, causano o possono
causare la vanificazione dei principi generali in tema di
par condicio, segretezza delle offerte e trasparenza della
competizione, risultando ininfluente che la rilevanza del
collegamento sia stata o meno esplicitata nel bando di gara:
in tal modo si intende evitare il rischio di ammettere alla
gara soggetti che, in quanto legati da stretta comunanza di
interessi caratterizzata da una certa stabilità, non sono
ritenuti, proprio per tale situazione, capaci di formulare
offerte caratterizzate dalla necessaria indipendenza,
serietà ed affidabilità, coerentemente ai principi di
imparzialità e buon andamento cui deve ispirarsi l'attività
della pubblica amministrazione ai sensi dell'art. 97 della
Costituzione.
Anche a prescindere dall'inserimento di un'apposita clausola
nel bando, in presenza di indizi gravi, precisi e
concordanti attestanti la provenienza delle offerte da un
unico centro decisionale, è consentita l’esclusione delle
imprese (benché non si trovino in situazione di controllo ex
art. 2359 del c.c.) poiché altrimenti sarebbe facile eludere
la descritta norma imperativa posta a tutela della
concorrenza e della regolarità delle procedure di gara.
In linea di diritto, dunque, l’art. 10, comma 1-bis, della
L. 109/1994 –applicabile ratione temporis alla fattispecie
dedotta in giudizio (il quale vietava la partecipazione alle
gare d'appalto per la realizzazione di lavori pubblici alle
imprese in situazione di collegamento ai sensi dell'art.
2359 c.c.)– non può qualificarsi alla stregua di
disposizione tassativa di stretta interpretazione,
preclusiva dell'individuazione di fattispecie ulteriori di
collegamento sostanziale tra imprese, che siano lesive del
principio di segretezza delle offerte e dunque falsino la
competizione e violino la par condicio tra le partecipanti
alla gara.
---------------
L’esistenza di un unico centro di interesse tra due (o più)
soggetti distinti, tale da consentire uno scambio di
informazioni, esige significativi elementi rilevatori di un
collegamento sostanziale tra le imprese, da provare in
concreto enucleando elementi oggettivi concordanti
suscettibili di generare il pericolo per i principi di
segretezza, serietà delle offerte e par condicio dei
concorrenti.
Tale impostazione si rivela in linea con le statuizioni
della Corte di giustizia, ad avviso della quale una
normativa basata su una presunzione assoluta secondo cui le
diverse offerte presentate per un medesimo appalto da
imprese collegate si sarebbero necessariamente influenzate
l’una con l’altra, viola il principio di proporzionalità, in
quanto non lascia a tali imprese la possibilità di
dimostrare che, nel loro caso, non sussistono reali rischi
di insorgenza di pratiche atte a minacciare la trasparenza e
a falsare la concorrenza tra gli offerenti.
Le amministrazioni aggiudicatrici hanno il compito di
accertare se il rapporto di controllo in questione abbia
esercitato un’influenza sul contenuto delle rispettive
offerte depositate dalle imprese interessate nell’ambito di
una stessa procedura selettiva: la constatazione di
un’influenza siffatta, in qualunque forma, è sufficiente per
escludere tali imprese dalla procedura di cui trattasi.
Secondo un consolidato indirizzo
giurisprudenziale, fra le cause di esclusione dalle gare
pubbliche devono essere ricomprese, oltre alle ipotesi
previste dall’art. 2359 del c.c., anche quelle non
codificate di collegamento sostanziale le quali, attestando
la riconducibilità dei soggetti partecipanti alla selezione
ad un unico centro decisionale, causano o possono causare la
vanificazione dei principi generali in tema di par condicio,
segretezza delle offerte e trasparenza della competizione,
risultando ininfluente che la rilevanza del collegamento sia
stata o meno esplicitata nel bando di gara (Consiglio di
Stato, sez. V – 18/07/2012 n. 4189; sez. V – 06/04/2009 n.
2139): in tal modo si intende evitare il rischio di
ammettere alla gara soggetti che, in quanto legati da
stretta comunanza di interessi caratterizzata da una certa
stabilità, non sono ritenuti, proprio per tale situazione,
capaci di formulare offerte caratterizzate dalla necessaria
indipendenza, serietà ed affidabilità, coerentemente ai
principi di imparzialità e buon andamento cui deve ispirarsi
l'attività della pubblica amministrazione ai sensi dell'art.
97 della Costituzione.
Anche a prescindere dall'inserimento di un'apposita
clausola nel bando, in presenza di indizi gravi, precisi e
concordanti attestanti la provenienza delle offerte da un
unico centro decisionale, è consentita l’esclusione delle
imprese (benché non si trovino in situazione di controllo ex
art. 2359 del c.c.) poiché altrimenti sarebbe facile eludere
la descritta norma imperativa posta a tutela della
concorrenza e della regolarità delle procedure di gara
(Consiglio di Stato, sez. VI – 17/02/2012 n. 844).
In linea di diritto, dunque, l’art. 10, comma 1-bis, della L.
109/1994 –applicabile ratione temporis alla fattispecie
dedotta in giudizio (il quale vietava la partecipazione alle
gare d'appalto per la realizzazione di lavori pubblici alle
imprese in situazione di collegamento ai sensi dell'art.
2359 c.c.)– non può qualificarsi alla stregua di
disposizione tassativa di stretta interpretazione,
preclusiva dell'individuazione di fattispecie ulteriori di
collegamento sostanziale tra imprese, che siano lesive del
principio di segretezza delle offerte e dunque falsino la
competizione e violino la par condicio tra le partecipanti
alla gara (Consiglio di Stato, sez. VI – 08/05/2012 n. 2657).
La successiva evoluzione normativa e giurisprudenziale –seppur non direttamente applicabile
ratione temporis–
conferma la correttezza delle conclusioni raggiunte.
Il Codice dei contratti pubblici –che ha sostituito, tra
l'altro, la L. 109/1994– ha recepito il consolidato
orientamento della giurisprudenza in relazione al
collegamento sostanziale, prevedendolo, inizialmente, come
causa di esclusione che si aggiunge al collegamento formale
di cui all’art. 2359, quando vi sia la prova, sulla base di
univoci elementi, che due o più offerte siano riconducibili
ad un unico centro decisionale (art. 34, comma 2).
Attualmente il D.Lgs. 163/2006 contempla come causa di
esclusione “una qualsiasi relazione, anche di fatto, se la
situazione di controllo o la relazione comporti che le
offerte sono imputabili ad un unico centro decisionale”, da
accertare ad opera della stazione appaltante sulla base di
“univoci elementi” (cfr. art. 38, comma 1, lett. m-quater, e
comma 2 del D. Lgs. 163/2006, come modificato dal D.L.
25/09/2009 n. 135 conv. in L. 20/11/2009 n. 166).
L’esistenza di un unico centro di interesse tra due (o
più) soggetti distinti, tale da consentire uno scambio di
informazioni, esige significativi elementi rilevatori di un
collegamento sostanziale tra le imprese, da provare in
concreto enucleando elementi oggettivi concordanti
suscettibili di generare il pericolo per i principi di
segretezza, serietà delle offerte e par condicio dei
concorrenti (Consiglio di Stato, sez. V – 19/06/2012 n.
3559).
Tale impostazione si rivela in linea con le statuizioni
della Corte di giustizia (sentenza 19/05/2009 - causa
C-538/2007), ad avviso della quale una normativa basata su
una presunzione assoluta secondo cui le diverse offerte
presentate per un medesimo appalto da imprese collegate si
sarebbero necessariamente influenzate l’una con l’altra,
viola il principio di proporzionalità, in quanto non lascia
a tali imprese la possibilità di dimostrare che, nel loro
caso, non sussistono reali rischi di insorgenza di pratiche
atte a minacciare la trasparenza e a falsare la concorrenza
tra gli offerenti (punto 30). Le amministrazioni
aggiudicatrici hanno il compito di accertare se il rapporto
di controllo in questione abbia esercitato un’influenza sul
contenuto delle rispettive offerte depositate dalle imprese
interessate nell’ambito di una stessa procedura selettiva:
la constatazione di un’influenza siffatta, in qualunque
forma, è sufficiente per escludere tali imprese dalla
procedura di cui trattasi (punto 32)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 28.01.2013 n. 94 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’art. 32, comma 26,
lett. d), d.l. n. 269 del 2003, esclude dalla sanatoria le
opere abusive realizzate su aree caratterizzate da
determinate tipologie di vincoli (in particolare, quelli
imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela
degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei
beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree
protette nazionali, regionali e provinciali), subordinando
peraltro l'esclusione a due condizioni costituite: a) dal
fatto che il vincolo sia stato istituito prima
dell'esecuzione delle opere abusive; b) dal fatto che le
opere realizzate in assenza o in difformità del titolo
abilitativo risultino non conformi alle norme urbanistiche e
alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Da tale ricostruzione emerge un sistema che consente la
sanatoria delle opere realizzate su aree vincolate solo in
due ipotesi, previste disgiuntamente, costituite: a) dalla
realizzazione delle opere abusive prima dell'imposizione dei
vincoli; b) dal fatto che le opere oggetto di sanatoria,
benché non assentite o difformi dal titolo abilitativo,
risultino comunque conformi alle norme urbanistiche e alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Deve quindi ritenersi che la novità sostanziale della
suddetta previsione normativa sia costituita proprio
dall'inserimento del requisito della conformità urbanistica
all'interno della fattispecie del condono edilizio (che, al
contrario, prescinde di norma da un simile requisito), così
dando vita ad un meccanismo di sanatoria che si avvicina
fortemente all'istituto dell'accertamento di conformità
previsto dall'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, piuttosto che
ai meccanismi previsti dalle due leggi precedenti sul
condono edilizio.
Tutto ciò premesso si rammenta innanzitutto che, per giurisprudenza
costante, l’art. 32, comma 26, lett. d), d.l. n. 269 del
2003, esclude dalla sanatoria le opere abusive realizzate su
aree caratterizzate da determinate tipologie di vincoli (in
particolare, quelli imposti sulla base di leggi statali e
regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle
falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché
dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e
provinciali), subordinando peraltro l'esclusione a due
condizioni costituite: a) dal fatto che il vincolo sia stato
istituito prima dell'esecuzione delle opere abusive; b) dal
fatto che le opere realizzate in assenza o in difformità del
titolo abilitativo risultino non conformi alle norme
urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici.
Da tale ricostruzione emerge un sistema che
consente la sanatoria delle opere realizzate su aree
vincolate solo in due ipotesi, previste disgiuntamente,
costituite: a) dalla realizzazione delle opere abusive prima
dell'imposizione dei vincoli; b) dal fatto che le opere
oggetto di sanatoria, benché non assentite o difformi dal
titolo abilitativo, risultino comunque conformi alle norme
urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici.
Deve quindi ritenersi che la novità sostanziale
della suddetta previsione normativa sia costituita proprio
dall'inserimento del requisito della conformità urbanistica
all'interno della fattispecie del condono edilizio (che, al
contrario, prescinde di norma da un simile requisito), così
dando vita ad un meccanismo di sanatoria che si avvicina
fortemente all'istituto dell'accertamento di conformità
previsto dall'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, piuttosto che
ai meccanismi previsti dalle due leggi precedenti sul
condono edilizio (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VII, 14.01.2011, n. 164; TAR Campania Napoli, sez. IV, 19.01.2012, n. 247; TAR Campania Salerno, sez. II,
14.01.2011, n. 26)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.01.2013 n. 637 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Non vi è dubbio che il
provvedimento di diniego di condono edilizio costituisce
espressione di potere vincolato rispetto ai presupposti
normativi richiesti e dei quali deve farsi applicazione,
sicché la mancata comunicazione del preavviso di rigetto …
diviene irrilevante, stante l'applicabilità del disposto del
comma 2, prima parte, dell'art. 21-octies, l. n. 241 del
1990.
---------------
Il difetto di motivazione relativo alla non conformità
urbanistica non si riscontra in quanto in materia di condono
edilizio vige il principio per cui è ammissibile anche una
motivazione essenziale e sintetica.
---------------
Tenuto conto della specialità del procedimento di condono
rispetto all’ordinario procedimento di rilascio della
concessione edilizia, nonché dell’assenza di una specifica
previsione in ordine alla necessità del parere della
Commissione Edilizia Integrata, l’acquisizione di tale
parere, ai fini del rilascio della concessione edilizia in
sanatoria, non è obbligatoria, bensì meramente facoltativa.
---------------
Nell’attività repressiva in tema di opere edilizie abusive
non è necessaria la previa comunicazione dell’avvio
procedimentale di cui all’art. 7 l. 241/1990, trattandosi di
atto dovuto e rigorosamente vincolato.
--------------
L’ordinanza di demolizione è sufficientemente motivata con
l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera edilizia
e, proprio in quanto atto vincolato, l’ordinanza medesima
non richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione; né può ammettersi
l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva che il
tempo non può giammai legittimare.
---------------
Quanto alla omessa indicazione dell’area di sedime da
acquisire nell’ipotesi di inottemperanza all’ordine di
demolizione osserva il collegio come ciò non costituisca
elemento essenziale dell’ordine di demolizione, né la sua
mancanza causa di illegittimità dello stesso, in quanto tali
indicazioni appartengono propriamente al successivo atto di
accertamento dell’inottemperanza e di acquisizione gratuita
al patrimonio comunale.
La violazione dell’art.
10-bis della legge n. 241 del 1990 non sussiste. Il collegio
ritiene al riguardo di aderire a quel dato orientamento
giurisprudenziale secondo il quale “non vi è dubbio che il
provvedimento di diniego di condono edilizio costituisce
espressione di potere vincolato rispetto ai presupposti
normativi richiesti e dei quali deve farsi applicazione,
sicché la mancata comunicazione del preavviso di rigetto …
diviene irrilevante, stante l'applicabilità del disposto del
comma 2, prima parte, dell'art. 21-octies, l. n. 241 del
1990” (cfr. TAR Puglia Bari, sez. III, 05.04.2012, n.
676).
Il difetto di motivazione relativo alla non conformità
urbanistica non si riscontra in quanto in materia di condono
edilizio vige il principio per cui è ammissibile anche una
motivazione essenziale e sintetica (cfr., ex multis, Cons.
Stato, sez. IV, 06.07.2012, n. 3969). In questa stessa
direzione non è dunque neppure necessaria una specifica
indicazione dell’interesse pubblico sotteso alle ragioni del
suddetto diniego (al contrario di quanto evidenziato alla
pag. 14 del ricorso introduttivo). Né d’altra parte la
difesa della ricorrente ha fornito, in senso contrario, un
sia pur minimo principio di prova in ordine alla ritenuta
conformità urbanistica.
...
Sulla mancata acquisizione del parere della commissione
edilizia si rammenta che, per giurisprudenza pressoché
costante, “tenuto conto della specialità del procedimento di
condono rispetto all’ordinario procedimento di rilascio
della concessione edilizia, nonché dell’assenza di una
specifica previsione in ordine alla necessità del parere
della Commissione Edilizia Integrata, l’acquisizione di tale
parere, ai fini del rilascio della concessione edilizia in
sanatoria, non è obbligatoria, bensì meramente facoltativa”
(cfr. TAR Campania Napoli, sez. VIII, 05.09.2012,
n. 3748). Lo specifico motivo non può dunque trovare
ingresso.
Quanto all’omessa comunicazione di avvio del
procedimento di demolizione si rammenta che per
giurisprudenza costante “nell’attività repressiva in tema di
opere edilizie abusive non è necessaria la previa
comunicazione dell’avvio procedimentale di cui all’art. 7 l.
241/1990, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente
vincolato” (cfr. TAR Campania Salerno, sez. II, 28.11.2012, n. 2161). Il motivo va dunque respinto.
Quanto alla demolizione della tettoia osserva il
collegio come l’opera edilizia consistente nella
realizzazione di tale elemento si caratterizza secondo la
giurisprudenza più recente, anche di questo TAR (sez. III,
12.03.2012, n. 1246), in termini di “nuova costruzione”,
tale da necessitare di previo rilascio di titolo
abilitativo.
Interventi come quelli di specie, secondo la stessa
giurisprudenza, innovano infatti il preesistente immobile in
quanto si perviene ad un manufatto del tutto nuovo per
consistenza e materiali utilizzati, come tale non
riconducibile a quello già esistente che anzi viene alterato
sia dal punto di vista morfologico che funzionale: dinanzi a
tali significative modificazioni si impone di conseguenza la
verifica di compatibilità delle opere a mezzo della previa
concessione edilizia (cfr. TAR Toscana, sez. III, 26.02.2010, n. 516; Cons. Stato, sez. VI,
09.09.2005, n. 4668).
Opere siffatte –nella specie peraltro di rilevanti
dimensioni, dato che essa sarebbe destinata a coprire
un’intera area adibita a parcheggio– sono destinate in
altre parole ad essere considerate quali importanti
modificazioni del territorio e dunque alla stregua di nuove
costruzioni, ai sensi dell’art. 3 del DPR n. 380 del 2001,
in quanto tali suscettive di titolo abilitativo.
---------------
Non sussiste neppure il
difetto di motivazione dell’ordine demolitorio atteso che
l’ordinanza di demolizione è sufficientemente motivata con
l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera edilizia
e, proprio in quanto atto vincolato, l’ordinanza medesima
non richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione; né può ammettersi
l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva che il
tempo non può giammai legittimare (cfr. TAR Campania
Salerno, sez. II, 28.11.2012, n. 2161). Il motivo va
dunque respinto.
Quanto alla omessa indicazione dell’area di sedime da
acquisire nell’ipotesi di inottemperanza all’ordine di
demolizione osserva il collegio come ciò non costituisca
elemento essenziale dell’ordine di demolizione, né la sua
mancanza causa di illegittimità dello stesso, in quanto tali
indicazioni appartengono propriamente al successivo atto di
accertamento dell’inottemperanza e di acquisizione gratuita
al patrimonio comunale (TAR Liguria, sez. I, 26.11.2012, n.
1503) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.01.2013 n. 637 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Dopo l'adozione di un
ordine demolitorio, l'acquisizione gratuita al patrimonio
del Comune è conseguenza che si produce automaticamente ex
lege per effetto della mancata spontanea ottemperanza
dell'interessato, anche se il formale accertamento di tanto
costituisce titolo necessario per l'immissione in possesso e
per la trascrizione nei registri immobiliari.
Ne discende, altresì, che l'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale, quale ulteriore sanzione edilizia, è
atto dovuto, privo di contenuto discrezionale e che la
stessa, qualora il presupposto ordine di demolizione non sia
stato tempestivamente impugnato (ovvero se, proposta
impugnazione, questa sia stata respinta), non può essere
messa in discussione se non per vizi suoi propri.
---------------
Il verbale di accertamento dell’inottemperanza alla
precedente ordinanza di demolizione delle opere edilizie
abusive redatto dal personale della Polizia Municipale ha
valore endoprocedimentale e efficacia meramente dichiarativa
delle operazioni effettuate con la conseguente necessità
dell’adozione di un atto di accertamento da parte della
competente autorità amministrativa che costituisca titolo
necessario per l'immissione in possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari.
---------------
In assenza di un atto di accertamento dell’inottemperanza
alle ordinanze di demolizione proveniente dalla competente
autorità, il Collegio deve dichiarare che nel caso di specie
non sussistevano i presupposti per procedere alla
trascrizione dell’acquisizione gratuita del bene della
società ricorrente al patrimonio comunale con conseguente
obbligo per l’amministrazione comunale di adottare tutti i
provvedimenti necessari per ripristinare lo status quo
antecedente alla predetta trascrizione eseguita sine titulo,
ferma restando la facoltà del Comune di riesercitare il
proprio potere nel rispetto dell’iter procedimentale
prescritto dal T.U. dell’Edilizia.
Tanto premesso deve essere evidenziato che dal chiaro tenore letterale
dell'articolo 31, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 si desume
che, dopo l'adozione di un ordine demolitorio,
l'acquisizione gratuita al patrimonio del Comune è
conseguenza che si produce automaticamente ex lege per
effetto della mancata spontanea ottemperanza
dell'interessato, anche se il formale accertamento di tanto
costituisce titolo necessario per l'immissione in possesso e
per la trascrizione nei registri immobiliari (cfr. TAR
Campania, Napoli, IV, 12.12.2012, n. 5105; TAR Campania,
Napoli, VII, 16.12.2009, n. 8816). Ne discende, altresì, che
l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale, quale
ulteriore sanzione edilizia, è atto dovuto, privo di
contenuto discrezionale e che la stessa, qualora il
presupposto ordine di demolizione non sia stato
tempestivamente impugnato (ovvero se, proposta impugnazione,
questa sia stata respinta), non può essere messa in
discussione se non per vizi suoi propri.
Nel caso di specie dalla documentazione allegata si evince
che il Comune di Pimonte ha proceduto alla trascrizione
dell’acquisizione gratuita al patrimonio comunale del bene
immobile della società ricorrente sulla base del verbale di
accertamento redatto dalla Polizia Municipale n. 3 del
28.04.2011, come risulta dalla nota di trascrizione del
20.03.2012 registro generale n. 11963, registro particolare
n. 9369 (depositata il 19.11.2012), senza avere previamente
provveduto ad adottare un atto di accertamento che facesse
proprio l’esito dell’attività della Polizia Municipale.
Occorre, allora, rammentare che secondo la consolidata
giurisprudenza, condivisa dal Collegio, il verbale di
accertamento dell’inottemperanza alla precedente ordinanza
di demolizione delle opere edilizie abusive redatto dal
personale della Polizia Municipale ha valore endoprocedimentale e efficacia meramente dichiarativa delle
operazioni effettuate con la conseguente necessità
dell’adozione di un atto di accertamento da parte della
competente autorità amministrativa che costituisca titolo
necessario per l'immissione in possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari. Tanto è vero che
questa stessa Sezione, con la rammentata sentenza
n. 3647/2011, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto
dalla società ricorrente avverso il verbale n. 3/2011 della
Polizia Municipale ritenendolo atto endoprocedimentale e,
come tale, non lesivo della sfera giuridica della Horses’s
Funs Club s.a.s, in quanto inidoneo a consentire
l’immissione nel possesso del bene e la trascrizione
dell’acquisizione dello stesso.
Orbene in assenza di un atto di accertamento
dell’inottemperanza alle ordinanze di demolizione
proveniente dalla competente autorità, il Collegio deve
dichiarare che nel caso di specie non sussistevano i
presupposti per procedere alla trascrizione
dell’acquisizione gratuita del bene della società ricorrente
al patrimonio comunale con conseguente obbligo per
l’amministrazione comunale di adottare tutti i provvedimenti
necessari per ripristinare lo status quo antecedente alla
predetta trascrizione eseguita sine titulo, ferma
restando la facoltà del Comune di riesercitare il proprio
potere nel rispetto dell’iter procedimentale prescritto dal
T.U. dell’Edilizia (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.01.2013 n. 629 - link a
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PRIVATA:
In materia di
realizzazione di antenne per la telefonia mobile, il Comune
che ravvisi la divergenza del titolo in formazione rispetto
a disposizioni di rango nazionale o locale ben può
intervenire, a mezzo del responsabile del procedimento, con
richieste istruttorie (entro 15 giorni dalla presentazione
della domanda) ovvero con esplicito diniego di
autorizzazione (entro 90 giorni dalla presentazione della
domanda), ma pur sempre nel rispetto dei termini
procedimentali fissati nella disposizione nazionale,
integrante un principio fondamentale di semplificazione
della materia.
Altrimenti, ammettendo ad libitum l'intervento dell'autorità
locale, anche al di fuori dei prescritti termini
procedimentali e, quindi, dopo la formazione della
fattispecie assentiva per silentium (cit. art. 87, comma 9,
D.Lgs. n. 259/2003), si provocherebbe un'ingiustificabile
anomalia, sul piano dell'aggravamento procedimentale, al
suddetto principio fondamentale di semplificazione,
apparendo invece coerente con il quadro normativo delineato
che l'Amministrazione locale possa esercitare ogni proficuo
controllo sulla formazione del titolo soltanto nel rispetto
delle scansioni temporali imposte dalla legge sul
procedimentale più volte citata (art. 87 D.Lgs. n. 259 del
2003, cit.).
Come già rilevato da questa Sezione l'art. 87 del Codice
delle Comunicazioni prevede, per gli impianti di telefonia
mobile, la D.I.A. ovvero il silenzio-assenso, conformemente
alla ratio sottesa all'intero Codice delle
Comunicazioni elettroniche, come desumibile dai criteri di
delega contenuti nell'art. 41, L. n. 166 del 2002 e prima
ancora nelle direttive comunitarie da recepire: previsione
di procedure tempestive, non discriminatorie e trasparenti
per la concessione del diritto di installazione di
infrastrutture e ricorso alla condivisione delle strutture;
riduzione dei termini per la conclusione dei procedimenti
amministrativi, nonché regolazione uniforme dei medesimi
procedimenti anche con riguardo a quelli relativi al
rilascio di autorizzazioni per l'installazione di
infrastrutture di reti mobili, in conformità ai principi di
cui alla L. 07.08.1990, n. 241 (cfr. Tar Campania, Napoli,
VII, 27.01.2012, n. 426).
Tanto premesso l'atto diniego impugnato è illegittimo, in
quanto intervenuto dopo il decorso del termine di novanta
giorni, a decorrere dalla presentazione della domanda
corredata dal progetto e finanche dalla nota prodotta da
parte ricorrente in risposta alla ultima -e tardiva
richiesta- di integrazione documentale (21.12.2011).
In tema di autorizzazione per la costruzione di una stazione
radio-base il termine per la formazione del silenzio-assenso
di cui all'art. 87, comma 9, D.Lgs. n. 259/2003 decorre
dalla presentazione della domanda corredata dal progetto. Da
ciò l'illegittimità del diniego, intervenuto solo il
17.07.2012, dopo la formazione del silenzio-assenso, non
valendo a tal fine a interrompere ulteriormente il decorso
del termine di 90 giorni il preavviso di rigetto adottato
solo il 29.05.2012, a distanza di oltre 5 mesi
dall’adempimento da parte della società ricorrente
dell’ultima integrazione richiesta (21.12.2011). Ne discende
che l'Amministrazione comunale poteva intervenire solo in
autotutela.
Secondo la consolidata giurisprudenza, infatti, "in
materia di realizzazione di antenne per la telefonia mobile,
il Comune che ravvisi la divergenza del titolo in formazione
rispetto a disposizioni di rango nazionale o locale ben può
intervenire, a mezzo del responsabile del procedimento, con
richieste istruttorie (entro 15 giorni dalla presentazione
della domanda) ovvero con esplicito diniego di
autorizzazione (entro 90 giorni dalla presentazione della
domanda), ma pur sempre nel rispetto dei termini
procedimentali fissati nella disposizione nazionale,
integrante un principio fondamentale di semplificazione
della materia. Altrimenti, ammettendo ad libitum
l'intervento dell'autorità locale, anche al di fuori dei
prescritti termini procedimentali e, quindi, dopo la
formazione della fattispecie assentiva per silentium (cit.
art. 87, comma 9, D.Lgs. n. 259/2003), si provocherebbe
un'ingiustificabile anomalia, sul piano dell'aggravamento
procedimentale, al suddetto principio fondamentale di
semplificazione, apparendo invece coerente con il quadro
normativo delineato che l'Amministrazione locale possa
esercitare ogni proficuo controllo sulla formazione del
titolo soltanto nel rispetto delle scansioni temporali
imposte dalla legge sul procedimentale più volte citata
(art. 87 D.Lgs. n. 259 del 2003, cit.)" (cfr. in termini
Tar Campania, Napoli, VII, 27.01.2012, n. 426; Consiglio
Stato, VI, 26.01.2009, n. 355) (TAR Campania-Napoli, Sez.
VII,
sentenza 25.01.2013 n. 628 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Per la costruzione di
un’antenna o di un traliccio stabilmente ancorato al suolo,
occorre il previo rilascio della concessione edilizia.
La costante giurisprudenza amministrativa ha, infatti, più
volte osservato che ai sensi dell'art. 1 della legge n.
10/1977, è soggetta al rilascio della concessione edilizia
ogni attività che comporti la trasformazione del territorio
attraverso l'esecuzione di opere comunque attinenti agli
aspetti urbanistici ed edilizi, ove il mutamento e
l'alterazione abbiano un qualche rilievo ambientale ed
estetico, o anche solo funzionale.
In particolare, il rilascio della concessione edilizia, e
dunque il necessario riscontro di conformità, è richiesto
quando si intenda realizzare un intervento sul territorio
con la perdurante modifica dello stato dei luoghi con
materiale posto sul suolo, pur in assenza di opere in
muratura, anche quando si tratti di una "antenna saldamente
ancorata al suolo e visibile dai luoghi circostanti", quale
è quella per cui è causa.
Contrariamente a quanto sostenuto dalle società ricorrenti, per la
costruzione di un’antenna o di un traliccio stabilmente
ancorato al suolo, occorre il previo rilascio della
concessione edilizia.
La costante giurisprudenza amministrativa ha, infatti, più
volte osservato che ai sensi dell'art. 1 della legge n.
10/1977, è soggetta al rilascio della concessione edilizia
ogni attività che comporti la trasformazione del territorio
attraverso l'esecuzione di opere comunque attinenti agli
aspetti urbanistici ed edilizi, ove il mutamento e
l'alterazione abbiano un qualche rilievo ambientale ed
estetico, o anche solo funzionale (cfr. in termini Tar
Toscana, III, 09.07.2012, n. 1292 che a sua volta richiama
Cons. Stato, V, 14.12.1994, n. 1486 ; Cons. Stato, V,
23.01.1991, n. 64).
In particolare, il rilascio della concessione
edilizia, e dunque il necessario riscontro di conformità, è
richiesto quando si intenda realizzare un intervento sul
territorio con la perdurante modifica dello stato dei luoghi
con materiale posto sul suolo, pur in assenza di opere in
muratura (cfr. Cons. Stato, V, 01.03.1993, n. 319; Cons.
Stato, V, 23.01.1991; Cons. Stato, VI, n. 5253/2001), anche
quando si tratti di una "antenna saldamente ancorata al
suolo e visibile dai luoghi circostanti" (Cons. Stato, V,
06.04.1998, n. 415), quale è quella per cui è causa.
Ne discende, pertanto, che vanno disattese tutte le
censure con le quali le società ricorrenti asseriscono la
non necessità del previo rilascio di titoli autorizzatori
per l’esecuzione delle opere oggetto di demolizione, come
del resto dimostra anche la successiva presentazione da
parte delle stesse società di un’istanza ex art. 13 della
legge n. 47/1985 (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.01.2013 n. 627 - link a
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COMPETENZE
GESTIONALI - EDILIZIA
PRIVATA:
I provvedimenti
repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti
dalla comunicazione dell’avvio del procedimento, trattandosi
di atti tipizzati e vincolati che presuppongono un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
Né d’altro è necessaria una specifica motivazione in merito
all’interesse pubblico perseguito con l’ordinanza
demolitoria giacché l’amministrazione, a fronte di opere
prive dei prescritti titoli abilitativi e in corso di
realizzazione, non può che emettere un provvedimento
repressivo.
---------------
La competenza all'emanazione di sanzioni demolitorie rese
sino al giugno del 1998 deve reputarsi appartenente al
Sindaco (o all'Assessore competente per materia), mentre la
stessa è stata trasferita espressamente ai dirigenti ai
sensi dell'art. 2, comma 12, della legge n. 191/1998.
Sono infondate e vanno disattese anche le ulteriori
censure con le quali le società ricorrenti si dolgono dei
vizi procedimentali di omessa comunicazione dell’avvio del
procedimento e di carenza e difetto di motivazione sotto il
profilo della mancata esplicitazione dell’interesse pubblico
poiché i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non
devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del
procedimento, trattandosi di atti tipizzati e vincolati che
presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza
delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle
medesime (cfr. TAR Campania, Napoli, III, 20.11.2012, n.
4655). Né d’altro era necessaria una specifica motivazione
in merito all’interesse pubblico perseguito con l’ordinanza
demolitoria giacché l’amministrazione, a fronte di opere
prive dei prescritti titoli abilitativi e in corso di
realizzazione, non poteva che emettere un provvedimento
repressivo.
Va, infine, evidenziato che, a differenza di quanto
affermato dalle società ricorrenti, al momento del
sopralluogo dei vigili urbani il 29.09.1999 “era in fase di
preparazione il montaggio delle tre unità radianti” e,
quindi, i lavori o almeno parte degli stessi erano ancora in
corso con conseguente reiezione anche della prima censura
del ricorso proposto da Wind Telecomunicazioni s.p.a.
Deve essere rigettata anche l’eccezione di incompetenza
del Dirigente ad emanare il provvedimento sanzionatorio,
sollevata dalla Enel s.p.a., secondo la costante
giurisprudenza, la competenza all'emanazione di sanzioni demolitorie rese sino al giugno del 1998 deve reputarsi
appartenente al Sindaco (o all'Assessore competente per
materia), mentre la stessa è stata trasferita espressamente
ai dirigenti ai sensi dell'art. 2, comma 12, della legge n.
191/1998 (cfr. ex multis, Tar Campania, Napoli, VI,
05.06.2012, n. 2365; Tar Campania, Napoli, VI, 30.04.2008, n.
3072; Tar Toscana, III, 26.11.2010, n. 6627).
Ne discende, pertanto, che nel caso in esame non sussiste il
vizio denunciato, essendo stata adottata l’ordinanza
impugnata il 06.12.1999 (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.01.2013 n. 627 - link a
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EDILIZIA
PRIVATA:
E' opportuno porre in luce che per
consolidata giurisprudenza, l’installazione di stazioni
radio base per la telefonia mobile risulta compiutamente
disciplinata, con normativa speciale, dall’art. 87 Decr.
Leg.vo 259/2003, il quale prevede che tutte le problematiche
coinvolte, ivi comprese quelle edilizie, vengano valutate
nell’ambito di un unico procedimento (attivato
dall’interessato con istanza di autorizzazione o D.I.A.); ed
altresì come, sempre il citato art. 87, al co. 9, stabilisca
che “Le istanze di autorizzazione e le denunce di attività
di cui al presente articolo, nonché quelle relative alla
modifica delle caratteristiche di emissione degli impianti
già esistenti, si intendono accolte qualora, entro novanta
giorni dalla presentazione del progetto e della relativa
domanda, fatta eccezione per il dissenso di cui al co. 8,
non sia stato comunicato un provvedimento di diniego”,
mentre al precedente co. 5 è precisato che “Il responsabile
del procedimento può richiedere, per una sola volta, entro
quindici giorni dalla data di ricezione dell’istanza, il
rilascio di dichiarazioni e l’integrazione della
documentazione prodotta. Il termine di cui al co. 9 inizia
nuovamente a decorrere dal momento dell’intervenuta
integrazione documentale”.
---------------
Il nulla osta dell’ARPAC non condiziona il perfezionamento
del titolo abilitativo, dovendo la sua acquisizione soltanto
precedere l’attivazione dell’impianto di telecomunicazioni.
---------------
Si è già posto in evidenza come l’art. 87 Decr. Leg.vo
259/2003 preveda uno specifico e unitario procedimento per
l’installazione delle infrastrutture di telefonia mobile,
nell’ambito del quale valutare tutti gli interessi
coinvolti.
Approfondendo l’esame sul punto, va ora chiarito che, il
termine di gg. 90 assegnato al co. 9 per la definizione del
procedimento autorizzatorio è indiscutibilmente perentorio,
in tal senso deponendo sia la formulazione letterale della
disposizione (“Le istanze….si intendono accolte qualora
entro novanta giorni dalla presentazione del progetto e
della relativa domanda…non sia stato comunicato alcun
provvedimento di diniego”), sia la sua interpretazione
logico-sistematica (posto che le esigenze avute di mira dal
legislatore nell’occasione sono certamente quelle
acceleratorie e semplificatorie dell’iter): quindi, alla
scadenza del termine suddetto, viene ex lege a formarsi un
provvedimento silenzioso, autorizzatorio a tutti gli effetti
e sul quale la P.A. potrà pure poi incidere negativamente,
ma soltanto esercitando (in presenza dei necessari
presupposti) i propri poteri di autotutela.
Così sommariamente delineato l’oggetto del giudizio, è, in punto di
diritto, opportuno porre in luce che, per consolidata
giurisprudenza (cfr. Cons. di Stato sez. VI, n. 5044 del
17.10.2008; Cons. di Stato sez. VI, n. 1767 del 21.04.2008;
Cons. di Stato sez. VI, n. 889 del 28.02.2006; Cons. di Stato
sez. VI, n. 4159 del 05.08.2005; TAR Abruzzo-Pescara n. 886
del 06.11.2008; TAR Basilicata n. 140 del 30.04.2008;
TAR Campania-Napoli n. 1890 del 04.04.2008; TAR Campania-Napoli n. 1480 del 21.03.2008; TAR Campania-Napoli n. 9325 del 25.06.2008), l’installazione di
stazioni radio base per la telefonia mobile risulta
compiutamente disciplinata, con normativa speciale,
dall’art. 87 Decr. Leg.vo 259/2003, il quale prevede che
tutte le problematiche coinvolte, ivi comprese quelle
edilizie, vengano valutate nell’ambito di un unico
procedimento (attivato dall’interessato con istanza di
autorizzazione o D.I.A.); ed altresì come, sempre il citato
art. 87, al co. 9, stabilisca che “Le istanze di
autorizzazione e le denunce di attività di cui al presente
articolo, nonché quelle relative alla modifica delle
caratteristiche di emissione degli impianti già esistenti,
si intendono accolte qualora, entro novanta giorni dalla
presentazione del progetto e della relativa domanda, fatta
eccezione per il dissenso di cui al co. 8, non sia stato
comunicato un provvedimento di diniego”, mentre al
precedente co. 5 è precisato che “Il responsabile del
procedimento può richiedere, per una sola volta, entro
quindici giorni dalla data di ricezione dell’istanza, il
rilascio di dichiarazioni e l’integrazione della
documentazione prodotta. Il termine di cui al co. 9 inizia
nuovamente a decorrere dal momento dell’intervenuta
integrazione documentale”.
Altresì, va sottolineato come per giurisprudenza consolidata
(cfr. TAR Basilicata n° 633 del 26.09.2008; TAR Campania-Salerno n° 1942 del 16.06.2008; TAR Sicilia-Catania n° 256 del 14.02.2008; TAR Campania-Napoli
n° 1888 del 12.03.2008; TAR Veneto n° 1283 del 23.04.2007;
TAR Campania-Napoli n° 10647 del 20.12.2006) il nulla
osta dell’ARPAC non condizioni il perfezionamento del titolo
abilitativo, dovendo la sua acquisizione soltanto precedere
l’attivazione dell’impianto.
Ancora, va evidenziato come l’art. 86, co. 3, Decr. Leg.vo
259/2003 stabilisca che “Le infrastrutture di reti pubbliche
di comunicazione, di cui agli artt. 87 e 88, sono assimilate
ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria cui
all’art. 16, co. 7, del D.P.R. 06.06.2001 n° 380, pur restando
di proprietà dei rispettivi operatori, e ad esse si applica
la normativa vigente in materia”.
A tanto, va soggiunto che, con la propria ordinanza n°
40/2012 (confermata in sede di appello dal Consiglio di
Stato con ordinanza n. 15601/2012), questo Tribunale,
nell’accogliere l’istanza cautelare formulata dalla
ricorrente, si è così espresso: “Considerato che sulla
istanza di autorizzazione all’installazione di una stazione
radio base per telefonia mobile (in località S. Venditto del
Comune di Sessa Aurunca – codice sito CE208) presentata
dalla Nokia Siemens Network Italia spa in data 2.2.2011 (prot.
n. 2381) si è formato, con il decorso di gg. 90 e in assenza
di tempestivi interventi amministrativi, il silenzio-assenso
previsto dall’art. 87, co. 9, Decr. Leg.vo 259/2003 (posto che
il parere ARPAC favorevole, peraltro intervenuto in data
16.03.2011, è necessario solo per l’attivazione dell’impianto
– cfr. Cons. di Stato sez. VI, n° 7128 del 24.9.2010; TAR
Basilicata n° 633 del 26.09.2008; TAR Sicilia-Catania n°
256 del 14.02.2008; TAR Sicilia-Palermo n° 9 del 9.1.2008;
TAR Campania-Napoli n° 10647 del 20.12.2006; e che
l’autorizzazione sismica, pure intervenuta in data
27.5.2011, condiziona soltanto la possibilità di eseguire i
lavori – cfr. TAR Lazio-Latina n° 696 del 15.07.2009), la cui
rimozione è possibile soltanto in sede di autotutela e a
mezzo di un apposito atto che costituisca esplicazione del
relativo potere; Considerato che gli impugnati provvedimenti
del Comune di Sessa Aurunca non hanno tenuto in alcun conto
tale circostanza, per cui risultano illegittimamente
adottate la diffida prot. 1556 del 30.6.2011 e il successivo
diniego dell’autorizzazione (prot. gen. n. 17794 del
18.09.2011) oggetto di gravame a mezzo di motivi aggiunti”;
e che tali affermazioni vanno ribadite anche nella presente
sede, di definizione del merito del giudizio.
Invero, risulta fondata l’assorbente censura incentrata su
una pretesa tardività degli impugnati provvedimenti
negativi, per essere questi intervenuti quando si era ormai
formato il titolo autorizzatorio silenzioso ex lege, così
che l’Amministrazione avrebbe potuto incidere sulla
situazione determinatasi soltanto esercitando poteri di
autotutela, e non certo mediante diffida a non continuare i
lavori già in corso, ovvero opponendo un tardivo diniego
all’originaria richiesta (come invece fatto).
In proposito, si è già posto in evidenza come l’art. 87
Decr. Leg.vo 259/2003 preveda uno specifico e unitario
procedimento per l’installazione delle infrastrutture di
telefonia mobile, nell’ambito del quale valutare tutti gli
interessi coinvolti. Approfondendo l’esame sul punto, va ora
chiarito che, il termine di gg. 90 assegnato al co. 9 per la
definizione del procedimento autorizzatorio è
indiscutibilmente perentorio, in tal senso deponendo sia la
formulazione letterale della disposizione (“Le istanze….si
intendono accolte qualora entro novanta giorni dalla
presentazione del progetto e della relativa domanda…non sia
stato comunicato alcun provvedimento di diniego”), sia la
sua interpretazione logico-sistematica (posto che le
esigenze avute di mira dal legislatore nell’occasione sono
certamente quelle acceleratorie e semplificatorie dell’iter
– cfr. TAR Campania-Napoli n° 21389/2008; TAR Campania-Napoli n° 5447/2007): quindi, alla scadenza del
termine suddetto, viene ex lege a formarsi un provvedimento
silenzioso, autorizzatorio a tutti gli effetti e sul quale
la P.A. potrà pure poi incidere negativamente, ma soltanto
esercitando (in presenza dei necessari presupposti) i propri
poteri di autotutela (TAR Campania- Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.01.2013 n. 606 - link a
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EDILIZIA
PRIVATA: Le
distinzioni normative tra strade private, pubbliche e di uso
pubblico possono fornire un utile riferimento per
l’individuazione dei contenuti delle nozioni tecniche
definite dal citato art. 2 del d.m. nr. 236 del 1989 (ivi
compresa quella di “spazio esterno”), ma non possono
esaurire certo l’opera dell’interprete che sia chiamato a
definire l’ambito di applicabilità della normativa in tema
di abbattimento delle barriere architettoniche e dei
correlativi obblighi solidaristici.
Si vuol dire, in definitiva, che, dalla ricordata ratio
normativa e dalla stessa ampiezza della definizione
contenuta nel citato art. 2, lettera f), del d.m. nr. 236
del 1989, discende che, perché uno spazio possa considerarsi
rientrante nella nozione di “spazio esterno”, e quindi
assoggettato alle prescrizioni tecniche a tutela dei
portatori di handicap, è sufficiente che si tratti di
un’area avvinta dall’immobile cui si deve accedere da un
nesso di stretta pertinenzialità, e correlativamente che si
tratti di spazio che occorre necessariamente percorrere per
raggiungere l’immobile de quo provenendo dalla viabilità
esterna (pubblica o privata che sia).
Al riguardo, le originarie censure di parte ricorrente si
indirizzavano avverso le conclusioni del Comune, il quale
aveva ritenuto nella specie non rispettata la normativa in
materia di eliminazione delle barriere architettoniche, non
avendo le società richiedenti provveduto a eseguire i lavori
necessari ad agevolare l’accesso agli esercizi commerciali
dei soggetti portatori di handicap mercé una rampa di
collegamento fra l’immobile e la via de Gasperi.
Al contrario, le società ricorrenti hanno sempre negato di
essere tenute a tale incombente sul rilievo che la “rampa”
in questione non costituiva pertinenza esclusiva degli
esercizi in questione, trattandosi di una vera e propria
strada di pubblico passaggio, come testimoniato da una
molteplicità di elementi (presenza di negozi, esistenza di
numeri civici agli stessi etc.).
Sul punto, il TAR ha ritenuto di dover sollecitare al Comune
un approfondimento istruttorio, concentrandosi il successivo
contrasto inter partes sull’esatta qualificazione e
sul conseguente regime da riconoscere al tracciato in
questione.
La Sezione, nel concludere nel senso della correttezza delle
originarie valutazioni dell’Amministrazione comunale,
esprime l’avviso che queste ultime si sorreggano su una
serie di considerazioni di ordine logico-giuridico che,
almeno in parte, prescinde dai profili definitori su cui si
è sviluppato il contrasto tra le parti nel presente
giudizio.
Ed invero, la prescrizione di riferimento in ordine alle
modalità tecniche da rispettare per l’eliminazione delle
barriere architettoniche si rinviene nell’art. 4.2 del d.m.
14.06.1989, nr. 236, il cui precedente art. 3, alla lettera
f) del comma 1, definisce gli “spazi esterni” come “l’insieme
degli spazi aperti, anche se coperti, di pertinenza
dell’edificio o di più edifici ed in particolare quelli
interposti tra l’edificio o gli edifici e la viabilità
pubblica o di uso pubblico”.
Tale disciplina regolamentare è attuativa della normativa
già contenuta nella legge 09.01.1989, nr. 13, e oggi
confluita negli artt. 77 e segg. del d.P.R. 06.06.2001, nr.
280, la quale a sua volta, come già altrove rilevato da
questo Consiglio di Stato (cfr. sez. V, 08.03.2011, nr.
1437), risponde a valori di rango costituzionale riferibili
agli artt. 2, 3 e 32 Cost.
Se questo è vero, se cioè si tratta di norme e disposizioni
rispondenti alla ratio di garantire il massimo di
tutela a soggetti disagiati e correlativamente a
responsabilizzare in tal senso i soggetti pubblici e privati
destinati a realizzare interventi incidenti sul territorio,
ne consegue che la ricostruzione delle nozioni impiegate
dalla normativa de qua non può basarsi sulla
meccanicistica trasposizione di categorie e classificazioni
ricavate da una disciplina avente finalità del tutto
diverse, quale è quella sulla circolazione stradale.
In altre parole, le distinzioni normative tra strade
private, pubbliche e di uso pubblico possono invero fornire
un utile riferimento per l’individuazione dei contenuti
delle nozioni tecniche definite dal citato art. 2 del d.m.
nr. 236 del 1989 (ivi compresa quella di “spazio esterno”),
ma non possono esaurire certo l’opera dell’interprete che
sia chiamato a definire l’ambito di applicabilità della
normativa in tema di abbattimento delle barriere
architettoniche e dei correlativi obblighi solidaristici.
Si vuol dire, in definitiva, che, dalla ricordata ratio
normativa e dalla stessa ampiezza della definizione
contenuta nel citato art. 2, lettera f), del d.m. nr. 236
del 1989, discende che, perché uno spazio possa considerarsi
rientrante nella nozione di “spazio esterno”, e
quindi assoggettato alle prescrizioni tecniche a tutela dei
portatori di handicap, è sufficiente che si tratti di
un’area avvinta dall’immobile cui si deve accedere da un
nesso di stretta pertinenzialità, e correlativamente che si
tratti di spazio che occorre necessariamente percorrere per
raggiungere l’immobile de quo provenendo dalla viabilità
esterna (pubblica o privata che sia).
La presenza di tali presupposti, non contestata né
contestabile nel caso che occupa, rende recessiva ogni
considerazione circa il carattere pubblico o privato
dell’area in questione, così come rende irrilevante il fatto
che essa possa per avventura essere asservita anche ad altri
immobili o esercizi; evidentemente il fatto che, fra i vari
fruitori dell’area de qua, il legislatore abbia inteso porre
gli obblighi di eliminazione delle barriere architettoniche
a carico di colui che per primo realizzerà un intervento
edilizio sull’immobile è frutto di una scelta ancora una
volta ispirata dalla prevalenza dei richiamati obblighi
solidaristici (e tale, peraltro, da non escludere che i
connessi oneri economici possano essere poi regolati nei
rapporti interni con gli altri e diversi soggetti che si
trovino a trarre vantaggio dall’intervento posto in essere
per eliminare le barriere architettoniche) (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 25.01.2013 n. 489 - link a
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APPALTI: Gara
senza mani. L'offerta si fa con raccomandata. Il Consiglio
di stato: ok anche alla postacelere.
Esclusa dalla gara l'impresa che presenta l'offerta a mani
direttamente presso gli uffici dell'amministrazione anziché
utilizzare la raccomandata assicurata o postacelere del
servizio postale nazionale, come richiesto dal bando.
È quanto ha stabilito la IV Sez. del Consiglio di Stato, con
la
sentenza 25.01.2013 n. 485.
Nel caso concreto, una impresa partecipante a una gara
pubblica per l'affidamento della fornitura di vestiario
della Guardia di finanza è stata esclusa dalla selezione per
aver depositato la sua domanda direttamente a mani, anziché
a mezzo raccomandata, assicurata o postacelere del servizio
postale nazionale.
L'esclusione dalla gara, assieme all'aggiudicazione
definitiva in favore dell'impresa prima classificata, è
stata impugnata dalla società esclusa davanti al tribunale
amministrativo regionale.
Secondo la ricorrente, il provvedimento emesso era
illegittimo data la totale assenza, nella normativa
comunitaria e in quella nazionale, della possibilità per la
stazione appaltante di escludere l'impresa partecipante alla
gara per il solo fatto di aver presentato l'offerta
direttamente all'ufficio dell'amministrazione.
Il tribunale ha accolto il ricorso, di conseguenza
annullando l'intera procedura di gara, compresa
l'aggiudicazione disposta in favore dell'azienda risultata
vincitrice.
Secondo il giudice amministrativo, infatti, la clausola del
bando che vietava la presentazione diretta delle domande di
partecipazione risultava illegittima se applicata nel senso
di precludere la partecipazione all'impresa che non la
rispetti.
La questione è stata sottoposta all'attenzione del Consiglio
di stato, cui si è rivolta l'amministrazione insieme
all'impresa spodestata dell'aggiudicazione. Nel contestare,
sotto vari profili, la sentenza del Tar, l'amministrazione
ha fatto valere la sua discrezionalità nello stabilire i
criteri e le modalità di presentazione delle offerte da
parte delle imprese partecipanti alla gara, così come il
potere lei riconosciuto di precludere la partecipazione alla
gara nel caso in cui le regole del bando vengano violate.
Palazzo Spada ha accolto l'appello proposto
dall'amministrazione, chiarendo il valore della clausola
oggetto della lite, anche in base a quanto prevede o,
meglio, non prevede il diritto comunitario.
La sentenza ricorda come alla luce del disposto di cui
all'articolo 77 del Codice dei contratti pubblici, il quale,
come noto, prevede le diverse modalità di presentazione
delle offerte, appaia legittima la scelta della stazione
appaltante, indicata nel bando di gara, di escludere forme
di autopresentazione dell'offerta.
Si osserva, in particolare, come il divieto della consegna
diretta dei plichi presso gli uffici della stazione
appaltante contribuisca ad assicurare la massima
imparzialità dell'operato amministrativo, la parità di
trattamento tra i partecipanti e la segretezza delle
offerte, eliminando in radice il rischio di una dispersione
di notizie riservate. Il Consiglio di stato ha poi affermato
come tale interpretazione non contrasti affatto con il
diritto europeo.
Infatti, il paragrafo 6 dell'articolo 42 della direttiva
2004/18/CE, il quale si limita a distinguere fra la
trasmissione «per iscritto» e la forma orale, nulla
afferma con riferimento alle possibili modalità (fra cui
rientra anche la consegna a mano) con le quali la domanda
formulata per iscritto deve essere presentata.
Pertanto, hanno concluso i giudici romani, l'amministrazione
è libera di escludere dalla gara l'impresa che, in
violazione del bando, abbia presentato la propria offerta a
mani. Tale decisione, infatti, rientra nella sfera
insindacabile della stazione appaltante
(articolo ItaliaOggi del 09.02.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La nozione di pertinenza
urbanistica ha peculiarità sue proprie, che la differenziano
da quella civilistica di cui all'art. 817 c.c., dal momento
che il manufatto deve essere non solo preordinato ad
un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche sfornito
di autonomo valore di mercato e dotato comunque di un volume
modesto rispetto all'edificio principale in modo da evitare
il c.d. carico urbanistico, sicché gli interventi che, pur
essendo accessori a quello principale, incidono con tutta
evidenza sull'assetto edilizio preesistente, determinando un
aumento del carico urbanistico, devono ritenersi sottoposti
a permesso di costruire.
Occorre quindi distinguere il concetto di pertinenza
previsto dal diritto civile di cui all'art. 817 c.c. dal più
ristretto concetto di pertinenza inteso in senso
urbanistico, che non trova applicazione in relazione a
quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come
beni pertinenziali secondo la normativa privatistica,
assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra
costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime
del permesso di costruire.
---------------
Non è possibile considerare il box una pertinenza in quanto
“non risulta asservito ad alcuna edificio principale”;
infatti manca la condizione principale per la configurazione
di una pertinenza, essendo il ricorrente solo proprietario
di un’area ove coltiva e vende fiori.
Inoltre, come rappresentato nello stesso provvedimento
impugnato, il box per cui è causa, oltre a non essere
coessenziale ad un bene principale, non può ritenersi di
volume modesto e, date le sue dimensioni, mt. 5,08 x 3,50,
deve ritenersi altresì suscettibile di utilizzazione anche
in modo autonomo e separato.
Secondo una consolidata giurisprudenza, che questa Sezione ha già
fatto propria e dalla quale non ha motivo di discostarsi, la
nozione di pertinenza urbanistica ha peculiarità sue
proprie, che la differenziano da quella civilistica di cui
all'art. 817 c.c., dal momento che il manufatto deve essere
non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio
principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma
anche sfornito di autonomo valore di mercato e dotato
comunque di un volume modesto rispetto all'edificio
principale in modo da evitare il c.d. carico urbanistico,
sicché gli interventi che, pur essendo accessori a quello
principale, incidono con tutta evidenza sull'assetto
edilizio preesistente, determinando un aumento del carico
urbanistico, devono ritenersi sottoposti a permesso di
costruire (cfr. TAR Bari, Sezione III, n. 429 del 10.03.2011).
Occorre quindi distinguere il concetto di pertinenza
previsto dal diritto civile di cui all'art. 817 c.c. dal più
ristretto concetto di pertinenza inteso in senso
urbanistico, che non trova applicazione in relazione a
quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come
beni pertinenziali secondo la normativa privatistica,
assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra
costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime
del permesso di costruire.
Ne consegue che, condivisibilmente con quanto rappresentato
dal Comune resistente nell’ordinanza impugnata, non è
possibile considerare il box una pertinenza in quanto “non
risulta asservito ad alcuna edificio principale”; infatti
manca la condizione principale per la configurazione di una
pertinenza, essendo il ricorrente solo proprietario di
un’area ove coltiva e vende fiori; inoltre, come
rappresentato nello stesso provvedimento impugnato, il box
per cui è causa, oltre a non essere coessenziale ad un bene
principale, non può ritenersi di volume modesto e, date le
sue dimensioni, mt. 5,08 x 3,50, deve ritenersi altresì
suscettibile di utilizzazione anche in modo autonomo e
separato (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 25.01.2013 n. 99 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La pubblicazione dei
titoli edilizi non fa decorrere i termini per l’impugnazione
da parte del terzo occorrendo piuttosto la conoscenza
cartolare del titolo e dei suoi allegati progettuali o, in
alternativa, il completamento dei lavori, che disveli in
modo certo e univoco le caratteristiche essenziali
dell’opera, l’eventuale non conformità della stessa rispetto
alla disciplina urbanistica, l’incidenza effettiva sulla
posizione giuridica del terzo.
Ciò ovviamente non significa che il terzo sia libero di
decidere, secondo propri calcoli e strategie, se e quanto
accedere agli atti, o addirittura libero di attendere il
completamento dell’opera per poi ottenerne la demolizione
quale effetto dell’azione annullatoria: piuttosto la
giurisprudenza, nel ricostruire la tutela del terzo alla
luce dei principi di effettività e satisfattività, ha
cercato un punto di equilibrio tra i menzionati principi e
quello, antagonista ma ineludibile, della certezza degli
atti amministrativi -sul quale basa, trovandovi al contempo
i suoi limiti, il sistema di tutela degli interessi
legittimi– ritenendo equo fissare il dies a quo del termine
decadenziale, al momento in cui, in relazione allo stato dei
lavori, sia oggettivamente apprezzabile lo scostamento dal
paradigma legale.
Così, se ha un senso l’attesa, da parte del terzo, del
completamento dell’opera quanto questi non sia in
condizione, in un precedente stadio d’avanzamento, di
apprezzare l’illegittimità del titolo abilitante, è per
converso priva di giustificazione ove, ad es., l’azione
annullatoria sia basata sull’inedificabilità dell’area o
sull’esistenza di vincoli, ossia su vizi che emergono già al
primo concreto cenno di attività edificatoria.
Ma vi è un ulteriore aspetto che struttura e conforma la
tutela del terzo, ed è il principio di pubblicità e
trasparenza dell’azione amministrativa concretantesi nel
diritto di accesso agli atti amministrativi che in qualche
modo possano incidere sulla sua sfera: trattasi di una
posizione giuridica di vantaggio, strumentale alla tutela
della situazione sostanziale finale protetta
dall’ordinamento, in grado di consentire, grazie anche alla
previsione di un procedimento e di un processo estremamente
celere, la piena conoscenza del provvedimento e della
documentazione istruttoria.
Il principio di trasparenza, cioè, sostanzia e rende
effettiva la tutela del terzo attraverso il diritto alla
“piena conoscenza” della documentazione amministrativa, ma
tale diritto rimane uno strumento che il terzo ha l’onere di
attivare non appena ha contezza od anche il ragionevole
sospetto che l’attività materiale pregiudizievole, che si
compie sotto i suoi occhi, sia sorretta da un titolo
amministrativo abilitante, non conosciuto o non conosciuto
sufficientemente.
Ovviamente qui, i risvolti sfavorevoli dell’onere, che
l’istante tende ad evitare con la propria richiesta di
ostensione, non riguardano la piena conoscenza della
situazione amministrativa cristallizzata nel provvedimento
abilitativo –essendo notorio che il diritto di accesso non è
condizionato a termini decadenziali (lo è piuttosto l’azione
tesa a contrastare il rifiuto)– quanto l’efficace tutela
della situazione sostanziale di fondo che il richiedente
intende tutelare a seguito ed in forza della piena
conoscenza, questa sì soggetta a decadenza: in tal senso il
diritto d’accesso è un onere.
Per restare in ambito edilizio, se lo stato di avanzamento
dei lavori è già tale da indurre il sospetto di una
possibile violazione della normativa urbanistica (non
coincidente con l’an dell’edificazione ma con il quomodo),
il ricorrente ha oltre che il diritto anche l’onere di
documentarsi in ordine alle previsioni progettuali, in guisa
da verificare la sussistenza di un vizio del titolo ed
inibire l’ulteriore attività realizzativa che la ditta
compie confidando nella presunzione di legittimità del
titolo. Non può limitarsi ad attendere il completamento
dell’opera omettendo di esercitare il diritto di accesso,
ossia scegliendo di utilizzare lo strumento quale mero
espediente per non far decorrere il termine di decadenza,
poiché in tal modo agendo finisce per abusare di un diritto
coniato per la sua tutela trasformandolo in uno per
calibrare la futura azione giudiziaria in danno del
beneficiario in buona fede, oltre che –deve aggiungersi- in
danno dell’interesse pubblico ancora oggi presente nelle
trame dell’intesse legittimo.
In sostanza, nel sistema delle tutele, il diritto di accesso
e le modalità del suo esercizio, in mancanza di una completa
ed esaustiva conoscenza del provvedimento, costituiscono
fattori che, così come il completamento dei lavori ed il
tipo dei vizi deducibili in relazione a tale completamento,
concorrono ad individuare, con riferimento al caso concreto,
il punto di equilibrio tra i principi di effettività e
satisfattività da una parte, e quelli di certezza delle
situazioni giuridiche e legittimo affidamento dall’altra.
In proposito la posizione della giurisprudenza è ferma nel
ritenere che la pubblicazione dei titoli edilizi non fa
decorrere i termini per l’impugnazione da parte del terzo
(da ultimo CdS n. 3777/2012) occorrendo piuttosto la
conoscenza cartolare del titolo e dei suoi allegati
progettuali o, in alternativa, il completamento dei lavori,
che disveli in modo certo e univoco le caratteristiche
essenziali dell’opera, l’eventuale non conformità della
stessa rispetto alla disciplina urbanistica, l’incidenza
effettiva sulla posizione giuridica del terzo (Cfr.
Consiglio di Stato, Ad. Pen. 29.07.2011, n. 15; sez. VI,
16.09.2011, n. 5170).
Ciò ovviamente non significa che il terzo sia libero di
decidere, secondo propri calcoli e strategie, se e quanto
accedere agli atti, o addirittura libero di attendere il
completamento dell’opera per poi ottenerne la demolizione
quale effetto dell’azione annullatoria: piuttosto la
giurisprudenza, nel ricostruire la tutela del terzo alla
luce dei principi di effettività e satisfattività, ha
cercato un punto di equilibrio tra i menzionati principi e
quello, antagonista ma ineludibile, della certezza degli
atti amministrativi -sul quale basa, trovandovi al contempo
i suoi limiti, il sistema di tutela degli interessi
legittimi– ritenendo equo fissare il dies a quo del termine decadenziale, al momento in cui, in relazione allo stato dei
lavori, sia oggettivamente apprezzabile lo scostamento dal
paradigma legale. Così, se ha un senso l’attesa, da parte
del terzo, del completamento dell’opera quanto questi non
sia in condizione, in un precedente stadio d’avanzamento, di
apprezzare l’illegittimità del titolo abilitante, è per
converso priva di giustificazione ove, ad es., l’azione
annullatoria sia basata sull’inedificabilità dell’area o
sull’esistenza di vincoli, ossia su vizi che emergono già al
primo concreto cenno di attività edificatoria.
Ma vi è un ulteriore aspetto che struttura e conforma la
tutela del terzo, ed è il principio di pubblicità e
trasparenza dell’azione amministrativa concretantesi nel
diritto di accesso agli atti amministrativi che in qualche
modo possano incidere sulla sua sfera: trattasi di una
posizione giuridica di vantaggio, strumentale alla tutela
della situazione sostanziale finale protetta
dall’ordinamento, in grado di consentire, grazie anche alla
previsione di un procedimento e di un processo estremamente
celere, la piena conoscenza del provvedimento e della
documentazione istruttoria.
Il principio di trasparenza, cioè, sostanzia e rende
effettiva la tutela del terzo attraverso il diritto alla
“piena conoscenza” della documentazione amministrativa, ma
tale diritto rimane uno strumento che il terzo ha l’onere di
attivare non appena ha contezza od anche il ragionevole
sospetto che l’attività materiale pregiudizievole, che si
compie sotto i suoi occhi, sia sorretta da un titolo
amministrativo abilitante, non conosciuto o non conosciuto
sufficientemente.
Ovviamente qui, i risvolti sfavorevoli dell’onere, che
l’istante tende ad evitare con la propria richiesta di
ostensione, non riguardano la piena conoscenza della
situazione amministrativa cristallizzata nel provvedimento
abilitativo –essendo notorio che il diritto di accesso non
è condizionato a termini decadenziali (lo è piuttosto
l’azione tesa a contrastare il rifiuto)– quanto l’efficace
tutela della situazione sostanziale di fondo che il
richiedente intende tutelare a seguito ed in forza della
piena conoscenza, questa sì soggetta a decadenza: in tal
senso il diritto d’accesso è un onere.
Per restare in ambito edilizio, se lo stato di
avanzamento dei lavori è già tale da indurre il sospetto di
una possibile violazione della normativa urbanistica (non
coincidente con l’an dell’edificazione ma con il quomodo),
il ricorrente ha oltre che il diritto anche l’onere di
documentarsi in ordine alle previsioni progettuali, in guisa
da verificare la sussistenza di un vizio del titolo ed
inibire l’ulteriore attività realizzativa che la ditta
compie confidando nella presunzione di legittimità del
titolo. Non può limitarsi ad attendere il completamento
dell’opera omettendo di esercitare il diritto di accesso,
ossia scegliendo di utilizzare lo strumento quale mero
espediente per non far decorrere il termine di decadenza,
poiché in tal modo agendo finisce per abusare di un diritto
coniato per la sua tutela trasformandolo in uno per
calibrare la futura azione giudiziaria in danno del
beneficiario in buona fede, oltre che –deve aggiungersi-
in danno dell’interesse pubblico ancora oggi presente nelle
trame dell’intesse legittimo.
In sostanza, nel sistema delle tutele, il diritto di
accesso e le modalità del suo esercizio, in mancanza di una
completa ed esaustiva conoscenza del provvedimento,
costituiscono fattori che, così come il completamento dei
lavori ed il tipo dei vizi deducibili in relazione a tale
completamento, concorrono ad individuare, con riferimento al
caso concreto, il punto di equilibrio tra i principi di
effettività e satisfattività da una parte, e quelli di
certezza delle situazioni giuridiche e legittimo affidamento
dall’altra
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.01.2013 n.
322 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gare, ok alla partecipazione con irregolarità
fiscali ''pendenti''.
Ai fini della partecipazione alle gare pubbliche d'appalto
non può essere considerata irregolare la posizione
dell'impresa (partecipante) qualora sia ancora pendente il
termine di sessanta giorni per l'impugnazione del
provvedimento che imputa la commissione di violazioni gravi
degli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse
(o per l'adempimento) ovvero, qualora sia stata proposta
impugnazione, non sia ancora passata in giudicato la
pronuncia giurisdizionale.
L'adempimento o la contestazione nei termini decadenziali
all'uopo fissati dalla legge implica che in precedenza le
violazioni non potessero reputarsi definitivamente
accertate.
Il Collegio ritiene, pertanto, che il giudice di primo grado
abbia correttamente fatto applicazione dei condivisibili
principi contenuti nella circolare n. 34/E del 25.05.2007,
con la quale l'Agenzia delle entrate ha fornito gli
indirizzi operativi ai propri uffici locali in merito alle
modalità di attestazione della regolarità fiscale delle
imprese partecipanti a procedure di aggiudicazione di
appalti pubblici, alla luce della nuova normativa introdotta
dal codice dei contratti pubblici.
Secondo la menzionata circolare vi è regolarità fiscale
quando, alternativamente:
- a carico dell'impresa, non risultino contestate violazioni
tributarie mediante atti ormai definitivi per decorso del
termine di impugnazione, ovvero, in caso di impugnazione,
qualora la relativa pronuncia giurisdizionale sia passata in
giudicato;
- in caso di violazioni tributarie accertate, la pretesa
dell'amministrazione finanziaria risulti, alla data di
richiesta della certificazione, integralmente soddisfatta,
anche mediante definizione agevolata.
La circolare precisa inoltre che non può essere considerata
irregolare la posizione dell'impresa partecipante qualora
sia ancora pendente il termine di sessanta giorni per
l'impugnazione (o per l'adempimento) ovvero, qualora sia
stata proposta impugnazione, non sia passata ancora in
giudicato la pronuncia giurisdizionale (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 17.01.2013 n. 261 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L'Amministrazione
chiamata ad esprimersi in merito alle richieste di titoli
abilitanti all'esercizio delle facoltà edificatorie deve sì
compiere valutazioni di controllo della regolarità
urbanistica, ma oggetto della valutazione dell'Autorità
pubblica deve essere altresì la legittimazione soggettiva
allo ius aedificandi ed i suoi limiti nei casi concreti
(art. 11 D.P.R. n. 380 del 2001)
I ricorrenti, come già esposto in fatto, sono confinanti con
l'area interessata dall'intervento per cui è causa e
lamentano un pregiudizio correlato alla soppressione,
prevista nel piano di lottizzazione impugnato, della
preesistente stradella che in atto consente loro il
passaggio pedonale e veicolare sulle particelle gravate
dalla servitù, fino al congiungimento con la pubblica via.
Essi, perciò, hanno titolo ad intervenire nel procedimento
di formazione della volontà amministrativa in ordine alla
domanda di concessione per l’attuazione del predetto piano
di lottizzazione sull’area confinante, su parte della quale
grava la preesistente servitù di passaggio, e
l'Amministrazione ha l'obbligo di garantire la loro
partecipazione al procedimento e di valutare gli scritti e i
documenti da essi presentati in merito all'oggetto del
procedimento.
I ricorrenti rivestono infatti un interesse contrario alla
realizzazione del piano di lottizzazione presentato dalla
ditta controinteressata ed approvato dal Comune, per quanto
concerne il tracciato della viabilità, che modificando
l’originaria servitù di passaggio gravante su una parte
dell’area da lottizzare ha di fatto determinato, con
l’eliminazione dell’accesso alla via pubblica, l’interclusione
del loro fondo, così come risulta dalla relazione di c.t.u.
(allegato 4: “a seguito dell’approvazione del piano di
lottizzazione il fondo dei ricorrenti sarebbe raggiungibile
solo mediante passaggio da strade private e, a meno di una
ridefinizione di una nuova servitù di passaggio, in punto di
fatto il fondo è da ritenersi intercluso”) ; ed in tale
posizione antitetica gli stessi avevano proposto al Comune
di Vittoria l’opposizione del 24.12.2010,
L’esistenza della servitù, peraltro, era nello specifico
immediatamente conoscibile da parte dell’Amministrazione
comunale, atteso che la stessa risulta dal rogito di stipula
della compravendita del terreno in questione da parte della
società controinteressata, nel quale “la parte acquirente
dichiara di essere a conoscenza che parte del suolo in
oggetto rappresentato dalle particelle 851 e 1304 predette è
attraversato, lungo il confine con la particella 1145, da
stradella privata larga metri 5, che inizia dalla strada
circonvallazione fino a immettersi nel lotto di terreno
rappresentato in catasto dalle particelle 1305 e 62 del
detto foglio 67;…” (quello di proprietà dei ricorrenti).
Il vincolo gravante sull’area interessata dalla realizzanda
lottizzazione è inoltre riconosciuto dalla stessa
controinteressata, che nelle proprie controdeduzioni
all’opposizione dei ricorrenti riconosce espressamente che
nel piano di lottizzazione la servitù risulta spostata
rispetto al percorso originario, anche se nella
prospettazione della controinteressata lo spostamento
risulterebbe migliorativo per i ricorrenti.
Risulta, infine, dalla espletata c.t.u. che la preesistente
servitù di passaggio è stata modificata attraverso un nuovo
tracciato che, così come lamentato dai ricorrenti, rende
impossibile agli stessi l’accesso alla strada pubblica, in
quanto il piano prevede, al posto della stradella in atto
esistente, una strada più larga di quella attuale, la quale
“si collega non direttamente alla via pubblica ma tramite
strade private di accesso ai vari lotti” (relazione di
CTU sub punto 6). La C.T.U. conferma, dunque, che “la
viabilità non rispecchia lo stato delle servitù private di
passaggio e non sfrutta la via pubblica per il fondo dei
ricorrenti”.
Risultano pertanto fondati i motivi di ricorso incentrati
sulla violazione del contraddittorio procedimentale.
All’omessa partecipazione al procedimento dei ricorrenti
confinanti non pone rimedio la risposta dell’Amministrazione
comunale all’opposizione del 24.12.2010, intervenuta in
corso di causa, né le deduzioni della società
controinteressata alla quale il Comune, con nota del
19.01.2011, aveva trasmesso l’opposizione predetta, che
erroneamente escludono che l'Amministrazione chiamata ad
esprimersi in merito alle richieste di titoli abilitanti
all'esercizio delle facoltà edificatorie debba compiere
valutazioni diverse dal controllo della regolarità
urbanistica, poiché oggetto della valutazione dell'Autorità
pubblica deve essere altresì la legittimazione soggettiva
allo ius aedificandi ed i suoi limiti nei casi
concreti (art. 11 D.P.R. n. 380 del 2001)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 17.01.2013 n. 125 -
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LAVORI PUBBLICI: Nell’ipotesi
di opere realizzate in regime di concessione, la
responsabilità per le indennità ed i risarcimenti nei
confronti di terzi sono esclusivamente a carico del soggetto
concessionario, qualora tale conclusione risulti conforme
alle previsioni contenute nella disciplina del titolo
concessorio.
In particolare, è stato affermato che in questi casi l’ente
sostituto (cioè il concessionario) agisce per l’esecuzione
dell’opera non in rappresentanza dell’Amministrazione
sostituita, ma per competenza propria e spendendo il proprio
nome di persona giuridica diversa, assumendo quindi di
fronte all’espropriato o al titolare del bene occupato tutti
gli obblighi relativi o derivanti dal procedimento (inclusi
quelli risarcitori), con esclusione della legittimazione
passiva del concedente, anche nel caso in cui quest’ultimo
risulti il beneficiario delle opere realizzate.
La giurisprudenza di legittimità ha, infatti, chiarito,
confermando sul punto un consistente indirizzo della
giurisprudenza di merito, che, nell’ipotesi di opere
realizzate in regime di concessione, la responsabilità per
le indennità ed i risarcimenti nei confronti di terzi sono
esclusivamente a carico del soggetto concessionario, qualora
tale conclusione risulti conforme alle previsioni contenute
nella disciplina del titolo concessorio.
In particolare, la Suprema Corte (cfr. Cass. Civ., Sez. I,
n. 5630/2012; Cass. Civ., Sez. I, n. 26261/2007; Cass. Civ.,
Sez. I., n. 11139/2003 e Cass. Civ., Sez. Un., n. 388/2000)
ha affermato che in questi casi l’ente sostituto (cioè il
concessionario) agisce per l’esecuzione dell’opera non in
rappresentanza dell’Amministrazione sostituita, ma per
competenza propria e spendendo il proprio nome di persona
giuridica diversa, assumendo quindi di fronte
all’espropriato o al titolare del bene occupato tutti gli
obblighi relativi o derivanti dal procedimento (inclusi
quelli risarcitori), con esclusione della legittimazione
passiva del concedente, anche nel caso in cui quest’ultimo
risulti il beneficiario delle opere realizzate
(TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 17.01.2013 n. 79 -
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Bonifica ed obblighi del proprietario
dell'area inquinata.
La decisione accoglie la tesi secondo la quale il
proprietario di un sito contaminato, ancorché non
direttamente responsabile dell'inquinamento dello stesso, ha
comunque un obbligo di custodia sul proprio terreno in base
all'art. 2051 del codice civile, e deve farsi carico di
determinati oneri connessi alla bonifica (tra i quali i
costi delle analisi Arpa) se non vuole perdere la piena
disponibilità del proprio bene (TRIBUNALE
Civile di Ferrara,
sentenza 17.01.2013 n. 65 -
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CONDOMINIO:
Beni comuni, modifiche libere.
Basta la maggioranza. Caso a parte è l'innovazione.
Una sentenza della Cassazione chiarisce quali
sono i poteri decisionali dell'assemblea.
L'assemblea condominiale può, a maggioranza, modificare o
addirittura sopprimere un servizio comune, anche se questo è
stato istituito e disciplinato dal regolamento, a patto che
ciò non vada a incidere sui diritti dei singoli condomini.
Rientra, infatti, nei poteri dell'assemblea disciplinare i
beni e i servizi comuni per assicurarne una migliore e più
razionale utilizzazione, anche quando ciò comporti la
dismissione o il trasferimento degli stessi.
Lo ha stabilito la II Sez. civile della Corte di
Cassazione nella
sentenza
16.01.2013 n. 945.
Il caso concreto. Due condomini avevano citato dinanzi al
tribunale il proprio condominio per impugnare la delibera
con la quale era stato autorizzato a maggioranza il
passaggio della tubazione del gas in facciata e l'uso
dell'attuale pattumiera per alloggiare il nuovo contatore e
l'eventuale caldaia di produzione di acqua calda. Il
condominio aveva quindi resistito alla domanda sostenendo
che i collettori condominiali dei rifiuti avevano da tempo
perso la loro originaria destinazione comune e non ne
avevano acquistata un'altra e che pertanto la delibera era
stata assunta legittimamente, in quanto non aveva a oggetto
un'innovazione ai sensi dell'art. 1120 c.c..
Il tribunale
aveva rigettato la domanda e i condomini avevano quindi
interposto appello, ottenendo la revisione della sentenza.
La Corte di merito aveva infatti ritenuto che la decisione
dell'assemblea di allocare nel vano destinato alla
pattumiera il contatore e l'eventuale caldaia del gas
costituisse certamente una innovazione, non vietata ma pur
sempre implicante un utilizzo esclusivo, sia pure
frazionato, della parte comune, radicalmente diverso da
quello passato e da quello presente, ma non per questo
irrilevante: la presenza ai piani inferiore e superiore
delle caldaie a gas, il passaggio dei tubi, l'eventuale
esecuzione dei lavori per la messa a norma degli impianti
dovevano infatti considerarsi tutti atti innovativi,
conseguenti alla delibera. Quest'ultima, pertanto, avrebbe
dovuto essere approvata con la maggioranza dei due terzi del
valore dell'edificio, che nella specie non era stata
raggiunta. Di qui il ricorso in Cassazione da parte del
condominio.
La decisione della Suprema corte. La seconda sezione civile
della Cassazione, nell'accogliere il ricorso del condominio,
ha in primo luogo chiarito come l'assemblea abbia il potere
di decidere sull'intera gestione dei beni, degli impianti e
dei servizi comuni. Poiché nella gestione delle parti comuni
sulla base del criterio dell'unanimità la volontà contraria
di un solo partecipante al condominio sarebbe sufficiente a
impedire ogni decisione dell'assemblea, a parere della
Suprema corte basta una deliberazione a maggioranza per
modificare, sostituire o eventualmente sopprimere un
servizio, purché si rimanga nei limiti della disciplina
delle modalità di svolgimento del medesimo, senza incidere
sui diritti dei singoli condomini.
Per quanto riguarda le innovazioni, i giudici di legittimità
hanno quindi ricordato che, ai sensi dell'art. 1120 c.c., è
da considerarsi tale non qualsiasi modificazione della cosa
comune, ma solamente quelle che alterino l'entità materiale
del bene operandone la trasformazione, ovvero determinino la
trasformazione della sua destinazione, nel senso che detto
bene presenti, a seguito delle opere eseguite, una diversa
consistenza materiale ovvero sia utilizzato per fini diversi
da quelli precedenti l'esecuzione delle opere. Ove invece la
modificazione della cosa comune non assuma tale rilievo, ma
risponda allo scopo di un uso del bene più intenso e
proficuo, si versa nell'ambito di applicazione di quanto
previsto dall'art. 1102 c.c. in tema di comunione.
Nel caso di specie è stato quindi ritenuto che la decisione
dell'assemblea condominiale di sigillare le cosiddette canne
pattumiere non comportasse l'approvazione di un'innovazione
vietata, ma consistesse soltanto in una diversa modalità di
svolgimento del servizio di smaltimento dei rifiuti, che può
essere adottata dalla maggioranza dei condomini sulla base
di valutazioni di opportunità che, come tali, rimangono
insindacabili, quanto al merito, da parte dell'autorità
giudiziaria (articolo ItaliaOggi Sette
del 04.02.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Le ecopiazzole nella disciplina attuale.
E' evidente che, a seguito dell'introduzione nel d.lgs.
152/2006 della definizione di «centro di raccolta»,
non può più essere seguito l'orientamento che attribuiva in
passato alle «ecopiazzole» la qualifica di centri di
stoccaggio di rifiuti soggetti al corrispondente regime
autorizzatorio, poiché tali aree sono ora normativamente
individuate, ma è altrettanto evidente che, una volta
determinata la nozione di «centro di raccolta», la
soggezione alla relativa disciplina introdotta con i decreti
ministeriali di cui si è detto in precedenza deve ritenersi
riservata esclusivamente a quelle aree che presentino
caratteristiche corrispondenti a quelle indicate nell'art.
183, lettera mm), del d.lgs. 152/2006.
Deve conseguentemente escludersi che, al di fuori
dell'ipotesi contemplata dal legislatore, la predisposizione
di aree attrezzate per il conferimento di rifiuti
astrattamente riconducibili ad un generico concetto di «ecopiazzola»
o «isola ecologica» possa ritenersi sottratta alla
disciplina generale sui rifiuti, poiché l'intervento del
legislatore ha ormai definitivamente delimitato tale nozione
prevedendo, peraltro, una regime autorizzatorio e gestionale
che, come si è visto, consente il conferimento ai centri di
raccolta di un'ampia gamma di rifiuti in maniera
controllata.
In tutti i casi in cui non vi sia corrispondenza con quanto
indicato dal legislatore dovrà procedersi ad una valutazione
dell'attività posta in essere secondo i principi generali in
materia di rifiuti (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.01.2013 n. 1690 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Beni Ambientali. Modificazione strada
preesistente in area vincolata.
La
modificazione, in area sottoposta a vincolo paesaggistico,
di una preesistente strada sterrata mediante innalzamento
del piano e copertura del manto con massetto di cemento non
rientra tra gli interventi di manutenzione straordinaria e
deve essere preceduta dal rilascio del permesso di costruire
e dalla autorizzazione dell'autorità proposta alla tutela
del vincolo, in quanto comporta una modificazione ambientale
di carattere stabile ed incide sull'assetto urbanistico a
causa del potenziale incremento del traffico veicolare (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.01.2013 n. 1442 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
demolizione è inevitabile. Giù il tetto senza concessione.
Scatta l'abuso edilizio per chi realizza la tettoia senza
prima chiedere al comune la concessione edilizia:
inevitabile l'abbattimento dell'opera irregolare.
È quanto
emerge dalla
sentenza
11.01.2013 n. 265, emessa dalla
VII Sez.
del TAR Campania-Napoli.
Dovrà rassegnarsi il proprietario di un terreno nella
Penisola sorrentina: è legittimo l'ordine di demolizione
emanato dall'amministrazione locale. Risulta infatti
infondata l'impugnazione proposta per violazione
dell'articolo 38 della legge 47/1985, norma che dispone la
sospensione di tutti i procedimenti sanzionatori, compresi
gli ordini di demolizione, quando c'è l'istanza di condono.
Né giova a chi ha realizzato l'intervento lamentare un'altra
violazione da parte dell'ente, stavolta della legge 10/1977,
sul rilievo che per la tettoia non sarebbe necessaria la
concessione edilizia, dato il carattere precario dell'opera.
In realtà l'edificazione di una tettoia costituisce comunque una «nuova
costruzione», cosa che impone il previo rilascio del
titolo abilitativo. E ciò perché l'originario manufatto dopo
la conclusione dell'opera si ritrova modificato nella forma
e nella funzione. Si tratta, insomma, di un manufatto nuovo
di zecca, per consistenza e materiali utilizzati, che dunque
non può affatto essere ricondotto a quello preesistente.
Quando le modifiche introdotte sono significative s'impone
la verifica di compatibilità delle opere mediante
l'istruttoria necessaria al rilascio della concessione
edilizia. Altrimenti, via libera alle ruspe. Nella specie la
tettoia serve come copertura di un fondo destinato ad ampio
parcheggio: ciò conferma la rilevanza della trasformazione
posta in essere.
Inutile, poi, eccepire l'intervenuto condono senza mostrare
la corrispondenza con le opere messe in regola. Oggetto
della sanatoria è un manufatto un locale su due livelli,
locale di circa metri quadrati, con ingresso indipendente. E
ce ne sono altri due adibiti a cantina ricavati da un altro
terrazzamento del fondo.
Insomma: nulla che abbia a che fare
con la tettoia fuorilegge. La prova, precisano i giudici,
non risulta fornita né in sede procedimentale, né nella
presente fase giudiziale attraverso un'adeguata
documentazione, anche fotografica
(articolo ItaliaOggi del 06.02.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Accesso agli atti della PA, basta un interesse
''potenziale''.
Per aversi un interesse qualificato ed
una legittimazione ad accedere alla documentazione
amministrativa è necessario trovarsi in una posizione
differenziata ed avere una titolarità di posizione
giuridicamente rilevante, che significa non titolarità di un
diritto soggettivo o di un interesse legittimo -ossia
posizioni giuridiche soggettive piene e fondate- ma di una
posizione giuridica soggettiva anche meramente potenziale.
Il parametro di riferimento ai fini della sollecitata
delibazione in ordine al vantato diritto di accesso del
ricorrente alla richiesta documentazione è costituito, ai
sensi dell'art. 22, comma 1, della L. n. 241 del 1990, dalla
sussistenza, in capo allo stesso, di un interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata ai documenti per i quali
è chiesto l'accesso, per tutelare posizioni differenziate e
qualificate, e correlate a specifiche situazioni rilevanti
per la legge.
Per aversi un interesse qualificato ed una legittimazione ad
accedere alla documentazione amministrativa è difatti
necessario trovarsi in una posizione differenziata ed avere
una titolarità di posizione giuridicamente rilevante, che
significa non titolarità di un diritto soggettivo o di un
interesse legittimo -ossia posizioni giuridiche soggettive
piene e fondate- ma di una posizione giuridica soggettiva
anche meramente potenziale (commento tratto da www.ispoa.it
- TAR Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza
11.01.2013 n. 202 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
GIURISPRUDENZA |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Punteggio concorsi, titoli da allegare sempre:
''onere'' a carico dei candidati.
Nell'ambito del procedimento di concorso
i titoli che il candidato intende sottoporre alla
valutazione della commissione esaminatrice, onde ottenerne
l'attribuzione del relativo punteggio, rientrano nella sua
piena disponibilità, di modo che non possono essere
attribuiti al candidato punteggi per titoli non allegati,
anche se afferenti ad attività svolte presso la medesima
amministrazione che ha indetto il concorso, né titoli il cui
possesso è indicato, ma non documentato, a fronte di una
prescrizione del bando che preveda un onere di allegazione
documentale a carico del candidato.
Nell'ambito del procedimento di concorso, i titoli che il
candidato intende sottoporre alla valutazione della
commissione esaminatrice, onde ottenerne l'attribuzione del
relativo punteggio, rientrano nella sua piena disponibilità,
di modo che non possono essere attribuiti al candidato
punteggi per titoli non allegati, anche se afferenti ad
attività svolte presso la medesima Amministrazione che ha
indetto il concorso, né titoli il cui possesso è indicato,
ma non documentato, a fronte di una prescrizione del bando
che preveda un onere di allegazione documentale a carico del
candidato; e ciò a maggior ragione se si considera che la
commissione esaminatrice non è organo ordinario
dell'Amministrazione di modo che, facendo parte della sua
stabile organizzazione, potrebbe essere intesa come
depositaria dei relativi documenti, bensì organo
straordinario, cui compete solo di sovrintendere alle prove,
valutare le stesse e, nei concorsi che prevedono anche
titoli valutabili, attribuire i punteggi a questi ultimi,
secondo criteri predefiniti.
Infatti, laddove il bando di concorso preveda
obbligatoriamente a carico dei candidati l'onere di
allegazione di tutti quei documenti scientifici e di
carriera che il candidato ritenga opportuno presentare agli
effetti della valutazione di merito e della formazione della
graduatoria, deve escludersi la possibilità di configurare
in capo alla commissione esaminatrice un'attività
istruttoria diretta all'acquisizione dei titoli, che
l'interessato ha dichiarato di possedere, perché a tutela
della "par condicio" tra i concorrenti di un pubblico
concorso possono essere valutati i soli titoli prodotti
dagli interessati entro il termine di presentazione della
domanda stabilito dal bando (commento tratto da www.ispoa.it
- TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza
11.01.2013 n. 21 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Inammissibilità sequestro finalizzato alla
demolizione.
In relazione a reati edilizi o paesaggistici, non è
possibile disporre un sequestro preventivo finalizzato solo
alla futura demolizione o rimessione in pristino dello stato
dei luoghi che potranno eventualmente essere disposte con la
sentenza di condanna.
E difatti, in primo luogo, con la sentenza di condanna per
uno di tali reati possono essere disposte solo dette
sanzioni amministrative, ma non anche la confisca del
manufatto abusivo. In secondo luogo, il sequestro preventivo
è funzionale al processo di merito e non può essere
utilizzato per anticipare le sanzioni amministrative
accessorie della demolizione o della acquisizione alla
pubblica amministrazione della porzione di manufatto.
Invero, la misura cautelare del sequestro è finalizzata ad
impedire la prosecuzione del reato o le conseguenze dannose
dello stesso e prescinde dall'ordine di demolizione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.01.2013 n. 1262
- tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Sviluppo sostenibile. Costruzione ed esercizio
impianto fotovoltaico.
L’autorizzazione unica regionale è espressamente qualificata
dall'art. 12, comma 3, d.lgs. 387/2003 (analoga disposizione
reca ora l'art. 5, comma 1, d.lgs. 28/2011) come necessaria
non solo per la costruzione degli impianti e delle opere ed
infrastrutture connesse, ma altresì per l’esercizio degli
impianti stessi.
E’ evidente che la ratio della norma è costituita
dalla finalità che il controllo amministrativo da parte
dell’ente regionale competente venga assicurato non solo
nella fase della costruzione dell’impianto fotovoltaico, ma
anche e soprattutto nella fase del suo esercizio (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.01.2013 n. 1260 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
E’ ben noto alla Sezione il principio più volte
affermato secondo il quale una concessione edilizia può
essere rilasciata in assenza del piano attuativo richiesto
dalle norme di piano regolatore (o di p.d.f.) quando (e solo
quando) in sede di istruttoria l’Amministrazione accerti che
la zona in cui si inserisce il suolo destinato alla
realizzanda costruzione sia pressoché completamente
edificata, tale da rendere superflua un’opera di
lottizzazione e , con riferimento al caso che ci occupa, ben
può essere che il contesto urbanistico in cui si va
collocare l’ulteriore costruzione risulti sufficientemente
edificato.
Nondimeno, ben può configurarsi un’altra situazione in base
alla quale pur in presenza di un avanzato stato di
urbanizzazione, non può escludersi l’esistenza in capo
all’Amministrazione di un apprezzamento tecnico
discrezionale volto a richiedere la predisposizione di un
preventivo piano esecutivo.
Invero, come altresì più volte affermato da questo Consiglio
di Stato l’esigenza di un piano di lottizzazione quale
presupposto per il rilascio della concessione edilizia
s’impone anche al fine di un armonico raccordo con il
preesistente aggregato abitativo , allo scopo di potenziare
le opere di urbanizzazione già esistenti e quindi anche alla
più limitata funzione di armonizzare aree già urbanizzate
che richiedono però una più dettagliata pianificazione.
In particolare, la necessità di un piano attuativo può
rendersi indispensabile quando s’invera un’ipotesi in cui
per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di
fronte ad un situazione che esige un piano attuativo idoneo
a restituire efficienza all’abitato, riordinando e talora
definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento
della zona.
Tale evenienza può per esempio verificarsi allorché debba
essere completato il sistema di viabilità secondaria nella
zona o quando debba essere integrata l’urbanizzazione
esistente garantendo il rispetto dei prescritti standards
minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per
l’armonico collegamento con le zone contigue già asservite
all’edificazione.
E’ ben noto alla Sezione il principio più volte affermato secondo il
quale una concessione edilizia può essere rilasciata in
assenza del piano attuativo richiesto dalle norme di piano
regolatore (o di p.d.f.) quando (e solo quando) in sede di
istruttoria l’Amministrazione accerti che la zona in cui si
inserisce il suolo destinato alla realizzanda costruzione
sia pressoché completamente edificata, tale da rendere
superflua un’opera di lottizzazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
01.08.2007 n. 4276; Sez. V, 05.10.2011 n. 5450) e ,
con riferimento al caso che ci occupa, ben può essere che il
contesto urbanistico in cui si va collocare l’ulteriore
costruzione risulti sufficientemente edificato.
Nondimeno a fronte della situazione rappresentata dalle
deduzioni formulate dall’interessato ben può configurarsi
un’altra situazione in base alla quale pur in presenza di un
avanzato stato di urbanizzazione, non può escludersi
l’esistenza in capo all’Amministrazione di un apprezzamento
tecnico discrezionale volto a richiedere la predisposizione
di un preventivo piano
esecutivo.
Invero, come altresì più volte affermato da questo Consiglio
di Stato l’esigenza di un piano di lottizzazione quale
presupposto per il rilascio della concessione edilizia
s’impone anche al fine di un armonico raccordo con il
preesistente aggregato abitativo , allo scopo di potenziare
le opere di urbanizzazione già esistenti e quindi anche alla
più limitata funzione di armonizzare aree già urbanizzate
che richiedono però una più dettagliata pianificazione (in
tal senso, Cons. Stato, Sez. IV 01.10.2007 n. 5043; Sez.
V 01.12.2003 n. 7799 e 06.10.2000 n. 5326).
In particolare, la necessità di un piano attuativo può
rendersi indispensabile quando s’invera un’ipotesi in cui
per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di
fronte ad un situazione che esige un piano attuativo idoneo
a restituire efficienza all’abitato, riordinando e talora
definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento
della zona (Cons. Stato,Sez. IV, 15.05.2002 n. 2592).
Tale evenienza può per esempio verificarsi allorché debba
essere completato il sistema di viabilità secondaria nella
zona o quando debba essere integrata l’urbanizzazione
esistente garantendo il rispetto dei prescritti standards
minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per
l’armonico collegamento con le zone contigue già asservite
all’edificazione (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.01.2013 n. 26 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
proprietario di un fondo va ritenuto responsabile dei
manufatti abusivi eseguiti sullo stesso, poiché si presume,
fino a prova contraria, quanto meno corresponsabile
dell’abuso, non avendo l’Amministrazione l’obbligo di
compiere accertamenti giuridici circa l’esistenza di
particolari rapporti interprivati, ma solo l’onere di
individuare il proprietario catastale.
In primo luogo, il ricorrente afferma la propria
estraneità alla realizzazione del predetto box, che sarebbe
invece stato edificato da un'impresa appaltatrice delle
Ferrovie Nord, unitamente alla recinzione, nell'ambito di
una sistemazione dell'area di che trattasi, previa cessione
bonaria di alcune porzioni di terreno da parte dello stesso
ricorrente.
I predetti argomenti, in mancanza di qualunque allegazione
volta a dimostrare, anche in via presuntiva, che il predetto
box è stato effettivamente realizzato da parte di un'impresa
all'uopo incarica da Ferrovie Nord, non hanno alcun pregio.
Il proprietario di un fondo va infatti ritenuto responsabile
dei manufatti abusivi eseguiti sullo stesso, poiché si
presume, fino a prova contraria, quanto meno corresponsabile
dell’abuso, non avendo l’Amministrazione l’obbligo di
compiere accertamenti giuridici circa l’esistenza di
particolari rapporti interprivati, ma solo l’onere di
individuare il proprietario catastale (C.S. Sez. V 31.03.2010
n. 1878).
Inoltre, la lettera prot. n. 6798 del 26.07.1996, con cui le
Ferrovie Nord S.p.a. hanno comunicato all'attuale ricorrente
l'accertamento di un’infrazione a suo carico, consistente
nella "costruzione di un box e locale a ridosso della
recinzione" dell'area di proprietà della stessa,
irrogando una sanziona pecuniaria, non risulta essere stata
impugnata, né ritirata, ciò che conferma la debolezza delle
predette affermazioni del ricorrente, che non ha ritenuto di
contestare formalmente il detto provvedimento
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 09.01.2013 n. 61 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
nozione di pertinenza urbanistica, sottoposta in quanto tale
al regime autorizzatorio in luogo di quello concessorio, ha
peculiarità proprie che la distinguono da quella
civilistica, dal momento che il manufatto deve essere non
solo preordinato ad una oggettiva esigenza dell'edificio
principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma
deve essere anche sfornito di autonomo valore di mercato, e
dotato comunque di un volume modesto rispetto all'edificio
principale, in modo da evitare il c.d. carico urbanistico.
Integrano pertanto gli estremi dell'abuso edilizio strutture
ancorate al suolo insediate definitivamente in loco, non
potendo avere natura di pertinenza laddove vengano a gravare
da sole sul fondo, senz'altra costruzione eretta con titolo
idoneo alla quale collegare alcun vincolo.
Alle luce di quanto precede, il box ed il ricovero per gli
animali realizzati dal ricorrente, non possono essere
ricondotti alla nozione di pertinenza, trattandosi di opere
che modificano l'assetto del territorio, e che occupano aree
e volumi diversi rispetto alla "res principalis",
indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei
riguardi di essa.
In materia di pertinenza edilizia, ciò che importa è infatti
l'oggettiva idoneità del fabbricato ad incidere sullo stato
dei luoghi, prescindendo dall'intenzione del proprietario in
ordine alla sua utilizzabilità. A contrario, la
giurisprudenza ha riconosciuto ascrivibili alla nozione di
pertinenza fattispecie radicalmente differenti da quelle per
cui è causa, come nel caso di un pergolato, di un muretto di
recinzione, accompagnata dall'apposizione di ringhiere e
cancelli metallici, o di una ringhiera protettiva e di scala
in ferro per l'accesso ad un terrazzo, la cui incidenza
sullo stato dei luoghi è ben minore rispetto a quanto
riscontrabile nelle opere di che trattasi.
Secondariamente, il ricorrente sostiene che, quanto al
box ed al ricovero di animali, si sarebbe in presenza di
opere di modeste dimensioni e di natura pertinenziale,
ricompresse nell'ambito di applicazione dell'art. 7 della L.
25.03.1982 n. 94, e come tali soggette a mera autorizzazione,
rispetto alle quali non potrebbe applicarsi la normativa
sanzionatoria di cui all'art. 7 della L. n. 47/1985, dettata
invece per le opere abusive di maggiori entità.
Sul punto, il Collegio richiama l'orientamento
giurisprudenziale secondo cui la nozione di pertinenza
urbanistica, sottoposta in quanto tale al regime
autorizzatorio in luogo di quello concessorio, ha
peculiarità proprie che la distinguono da quella
civilistica, dal momento che il manufatto deve essere non
solo preordinato ad una oggettiva esigenza dell'edificio
principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma
deve essere anche sfornito di autonomo valore di mercato, e
dotato comunque di un volume modesto rispetto all'edificio
principale, in modo da evitare il c.d. carico urbanistico
(C.S. Sez. V 22.10.2007 n. 5515). Integrano pertanto gli
estremi dell'abuso edilizio strutture ancorate al suolo
insediate definitivamente in loco, non potendo avere natura
di pertinenza laddove vengano a gravare da sole sul fondo,
senz'altra costruzione eretta con titolo idoneo alla quale
collegare alcun vincolo (TAR Liguria, Sez. I 25.11.2003
n. 1569).
Alle luce di quanto precede, il box ed il ricovero per gli
animali realizzati dal ricorrente, non possono essere
ricondotti alla nozione di pertinenza, trattandosi di opere
che modificano l'assetto del territorio, e che occupano aree
e volumi diversi rispetto alla "res principalis",
indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei
riguardi di essa (C.S. Sez. IV 02.02.2012 n. 615). In materia
di pertinenza edilizia, ciò che importa è infatti
l'oggettiva idoneità del fabbricato ad incidere sullo stato
dei luoghi, prescindendo dall'intenzione del proprietario in
ordine alla sua utilizzabilità (TAR Emilia Romagna,
Bologna, Sez. II 11.10.2007 n. 2286). A contrario, la
giurisprudenza ha riconosciuto ascrivibili alla nozione di
pertinenza fattispecie radicalmente differenti da quelle per
cui è causa, come nel caso di un pergolato (TAR Liguria
Sez. I, 27.01.2012 n. 195), di un muretto di recinzione,
accompagnata dall'apposizione di ringhiere e cancelli
metallici (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II 10.06.2008 n.
647), o di una ringhiera protettiva e di scala in ferro per
l'accesso ad un terrazzo (TAR Piemonte, Sez. I, 25.03.2008
n. 505), la cui incidenza sullo stato dei luoghi è ben
minore rispetto a quanto riscontrabile nelle opere di che
trattasi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 09.01.2013 n. 61 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Mega-antenne. Il comune deve tacere. Lo dice il
cds.
Non si può espellere la mega-antenna per cellulari dal
centro abitato. Illegittima la delibera del comune che
indica distanze minime per l'installazione delle stazioni
radio base, che forniscono un servizio di interesse
nazionale. È così che risulta illegittima la delibera
dell'amministrazione che autorizza sì astrattamente la
realizzazione degli impianti, ma a patto che ciò avvenga
fuori dal centro abitato: l'ente locale deve adottare
precisi criteri di localizzazione senza poter porre limiti
generici.
È quanto emerge dalla
sentenza 09.01.2013 n. 44, pubblicata dalla VI
Sez. del Consiglio di stato, che dimostra come oggi più che
mai la questione sia tutt'altro che pacifica in
giurisprudenza.
Ha ragione la società che vuole installare la mega-antenna e
ha ottenuto l'annullamento della delibera consiliare. Ai
comuni è consentito individuare criteri localizzativi degli
impianti di telefonia mobile, ad esempio il divieto di
collocare antenne su specifici edifici, come ospedali, case
di cura e altri fabbricati del genere. L'amministrazione,
tuttavia, non può introdurre astratte limitazioni alla
localizzazione, che consistono criteri distanziali generici.
In particolare risultano illegittime le norme che
prescrivono distanze minime, da rispettare
nell'installazione degli impianti, dal perimetro esterno di
edifici destinati ad abitazioni, a luoghi di lavoro o ad
attività diverse da quelle connesse all'esercizio degli
impianti. E altrettanto vale per scuole, asili nido,
immobili vincolati dalle soprintendenze e aree verdi. La
copertura dei cellulari è interesse di tutti.
La pronuncia è in contrasto con una recente sentenza del Tar
Puglia, la 1984/2012, secondo cui la mega-antenna nel centro
storico non s'ha da fare perché l'impianto di quasi venti
metri di altezza stonerebbe senz'altro a pochi metri da un
luogo di culto di interesse storico. In quel caso i giudici
hanno invece sottolineato che la giurisprudenza interpreta
la normativa nel senso che l'ente locale ha senz'altro
facoltà di disciplinare, con un suo regolamento, i divieti
d'installazione di impianti (articolo ItaliaOggi del 09.02.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO: VIGILI/
- La
rotazione giustifica l'indennità.
Non basta organizzare il servizio di polizia municipale in
turni per erogare la corrispondente indennità agli agenti.
Occorre anche l'effettiva rotazione degli operatori.
Lo ha ribadito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 07.01.2013 n. 11.
Il comune di Torre Annunziata ha istituito e regolato il
normale servizio di polizia locale su più turni giornalieri
e per questo motivo alcuni agenti hanno richiesto indennità
arretrate senza dimostrare l'effettiva rotazione degli
stessi tra il servizio meridiano e antimeridiano. Contro il
rigetto di questa richiesta gli interessati hanno proposto
censure ai giudici amministrativi ma senza successo.
Per erogare l'indennità di turno alla polizia locale,
specifica la sentenza, non è sufficiente appartenere a
strutture attive per oltre 12 ore al giorno. Serve
l'effettiva partecipazione individuale degli operatori alla
turnazione. In buona sostanza se anche ci sono i turni ma i
dipendenti lavorano sempre nello stesso arco temporale non
scatta il diritto all'erogazione dell'indennità
(articolo ItaliaOggi dell'08.02.2013). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Consiglio di Stato. Va dimostrata l'articolazione.
All'indennità di turno serve l'organizzazione preventiva.
LE CONDIZIONI/
Il personale in servizio deve partecipare in modo effettivo
alla rotazione dell'orario di lavoro.
L'indennità di turno può essere riconosciuta solo se l'ente
ha prima deliberato un modello organizzativo che la preveda,
e se i dipendenti ruotano in misura equilibrata tra i vari
turni.
Sono questi i principi affermati dal Consiglio di
Stato, V Sez., con la
sentenza 07.01.2013 n. 11.
La sentenza
si caratterizza per il carattere vincolante che assume la
preventiva attivazione del servizio, scelta che non può
avere carattere retroattivo. Occorre inoltre aggiungere,
come condizione per il riconoscimento di questo compenso, la
non interruzione del servizio nell'arco temporale di almeno
10 ore.
I giudici amministrativi negano che «l'indennità di
turnazione sarebbe dovuta per il solo e mero dato di fatto
dello svolgimento dell'attività di servizio secondo,
appunto, una turnazione». Occorre dimostrare «l'esistenza di
una corrispondente organizzazione del relativo apparato
amministrativo da parte degli organi di governo dell'ente:
l'organizzazione delle prestazioni di lavoro deve avvenire
attraverso la predisposizione di orari e turni, mediante la
programmazione dei piani di lavoro e prescrivendo la loro
verifica con sistemi obiettivi di controllo degli orari di
servizio, tali da assicurare che dette prestazioni siano
rese».
In altri termini, solo dopo che le Giunte hanno
deliberato l'organizzazione di un servizio in modo da
soddisfare i requisiti previsti dai contratti per la
turnazione, matura il diritto alla erogazione di questo
compenso. A rafforzamento di tale tesi viene chiarito che
prima di questa deliberazione «le turnazioni eventualmente
già esistenti sul mero piano fattuale sarebbero state prive
di rilevanza giuridica».
La semplice presenza di un orario di servizio che si
articola per almeno 10 ore giornaliere consecutive non
giustifica la erogazione di questo compenso; occorre infatti
verificare che le modalità di effettivo svolgimento di
questa attività da parte dei singoli dipendenti siano
rispondenti al requisito della rotazione in modo equilibrato
nell'arco del mese. Viene chiarito che non è sufficiente la
mera appartenenza a strutture che comportino un'erogazione
continuativa di servizi per almeno dodici ore, occorrendo
anche, e soprattutto, il presupposto dell'effettiva
partecipazione individuale a delle turnazioni. In altre
parole, l'indennità spetta solo se vi siano state rotazioni
del personale interessato tra i turni predisposti
dall'amministrazione.
Se, invece, un'amministrazione organizza un proprio servizio
in più turni, ma i dipendenti assegnati ad esso non ruotano,
bensì operano sempre nello stesso arco temporale, ai
medesimi non può essere riconosciuta alcuna maggiorazione.
Dal che se ne deve trarre la conclusione che, nell'ambito di
un servizio che preveda l'articolazione in turni, ma non per
tutti i dipendenti, la indennità di turnazione spetta
solamente a coloro che ruotano in modo bilanciato tra la
mattina, il pomeriggio e, eventualmente, la notte (articolo Il Sole 24 Ore
del 04.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sull'offerta anomala.
Di discrezionalità
tecnica vera e propria può parlarsi solo nel caso in cui
presupposto applicativo della norma attributiva del potere
sia non già un fatto in sé considerato, ma la qualificazione
che di esso ne dà la pubblica amministrazione assumendo a
parametro valutativo l’interesse pubblico. In altre parole,
vi è vera e propria discrezionalità (tecnica) quando
la legge, ai fini dell’esercizio del potere, impone alla
p.a. di attribuire ad un fatto una certa qualità, da
apprezzare alla stregua dell’interesse pubblico primario
perseguito dalla stessa.
Anche nella discrezionalità amministrativa la p.a. è
chiamata ad operare una scelta sulla base dell’interesse
pubblico, ma la discrezionalità tecnica si distingue da essa
per due elementi: perché la seconda, a differenza della
prima, è funzionale non già ad individuare il contenuto più
opportuno da dare al provvedimento, ma ad individuare la
sussistenza di un presupposto applicativo della norma
attributiva del potere; e perché nella discrezionalità
tecnica l’interesse pubblico assume rilievo in maniera
isolata, e manca quindi quella attività di comparazione con
gli interessi pubblici secondari e con gli interessi privati
che caratterizza invece la discrezionalità amministrativa.
In ambito contrattuale, esempio di esercizio di
discrezionalità tecnica si ha nella fattispecie
contemplata dall’art. 38, comma 1, lett. f), del d.lgs. n.
163/2006, che impone l’esclusione dalle procedure di
affidamento dei contratti pubblici dei soggetti che, secondo
motivata valutazione della stazione appaltante, abbiano
commesso gravi errori nell’esecuzioni di precedenti
contratti.
In questa ipotesi il potere di esclusione è riservato ad un
apprezzamento discrezionale della p.a. la quale deve
qualificare, utilizzando quale parametro di valutazione
anche l’interesse pubblico perseguito, l’inadempimento o
l’errore in precedenza commessi dal concorrente, al fine di
stabilire se essi siano di gravità tale da determinare la
rottura del rapporto fiduciario che deve necessariamente
intercorrere con il concorrente.
Secondo il Collegio, non viene al contrario in rilievo la
discrezionalità tecnica quando presupposto applicativo
della norma attributiva del potere sia il fatto in sé
considerato.
In questo caso, pur se l’accertamento dipende
dall’espletamento di operazioni complicate che possono dar
luogo a risultati opinabili, la discrezionalità manca del
tutto in quanto la p.a. è chiamata ad accertare la mera
sussistenza di un fatto senza dover procedere alla sua
qualificazione alla stregua dell’interesse pubblico
perseguito: la Sezione ha definito tali accertamenti
“valutazioni tecniche complesse non discrezionali”; ed ha
affermato che, proprio in ragione dell’assenza di qualsiasi
apprezzamento dell’interesse pubblico, per essi è possibile
procedere ad un sindacato forte che consenta al giudice (per
mezzo del consulente) di sostituirsi alla p.,a.
nell’accertamento del fatto.
Ritiene il Collegio che la valutazione di anomalia
dell’offerta possa essere ascritta a quest’ultima categoria.
Se si ritiene, come sembra fare la giurisprudenza
prevalente, che tale valutazione consista unicamente nel
verificare se i costi sostenuti dall’offrente siano o meno
coperti dal prezzo proposto nell’offerta e, quindi, tali da
generare un utile non irrisorio, si deve altresì ritenere
che essa si risolva in sostanza in una mera operazione
matematica e, dunque, in un’operazione valutativa, per
quanto complessa, volta al mero accertamento della
sussistenza di un fatto in sé considerato, che non involge
alcun apprezzamento dell’interesse pubblico perseguito dalla
stazione appaltante e che, per tali ragioni, non presenta i
caratteri della discrezionalità.
Ne consegue che al provvedimento di esclusione per ritenuta
anomalia dell’offerta presentata dal concorrente può
ritenersi applicabile il primo periodo del secondo comma del
citato art. 21-octies della legge n. 241/1990 (riguardante,
come detto, gli atti vincolati); sicché una volta accertata
dal giudice la sostanziale correttezza della scelta operata,
non sarà possibile pronunciarne l’annullamento qualunque
siano le violazioni procedimentali riscontrate.
In proposito la Sezione
intende svolgere due considerazioni.
In primo luogo, intende verificare se effettivamente la
valutazione di anomalia dell’offerta sia frutto di attività
discrezionale.
Sul punto, va osservato che, in diverse pronunce, la
Sezione ha rilevato che di discrezionalità tecnica vera e
propria può parlarsi solo nel caso in cui presupposto
applicativo della norma attributiva del potere sia non già
un fatto in sé considerato, ma la qualificazione che di esso
ne dà la pubblica amministrazione assumendo a parametro
valutativo l’interesse pubblico. In altre parole, vi è vera
e propria discrezionalità (tecnica) quando la legge, ai fini
dell’esercizio del potere, impone alla p.a. di attribuire ad
un fatto una certa qualità, da apprezzare alla stregua
dell’interesse pubblico primario perseguito dalla stessa
(cfr. TAR Lombardia Milano, Sez. III, 06.04.2009, n.
3153).
Anche nella discrezionalità amministrativa la p.a. è
chiamata ad operare una scelta sulla base dell’interesse
pubblico, ma la discrezionalità tecnica si distingue da essa
per due elementi: perché la seconda, a differenza della
prima, è funzionale non già ad individuare il contenuto più
opportuno da dare al provvedimento, ma ad individuare la
sussistenza di un presupposto applicativo della norma
attributiva del potere; e perché nella discrezionalità
tecnica l’interesse pubblico assume rilievo in maniera
isolata, e manca quindi quella attività di comparazione con
gli interessi pubblici secondari e con gli interessi privati
che caratterizza invece la discrezionalità amministrativa.
In ambito contrattuale, esempio di esercizio di
discrezionalità tecnica si ha nella fattispecie contemplata
dall’art. 38, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 163/2006, che
impone l’esclusione dalle procedure di affidamento dei
contratti pubblici dei soggetti che, secondo motivata
valutazione della stazione appaltante, abbiano commesso
gravi errori nell’esecuzioni di precedenti contratti.
In questa ipotesi il potere di esclusione è riservato ad
un apprezzamento discrezionale della p.a. la quale deve
qualificare, utilizzando quale parametro di valutazione
anche l’interesse pubblico perseguito, l’inadempimento o
l’errore in precedenza commessi dal concorrente, al fine di
stabilire se essi siano di gravità tale da determinare la
rottura del rapporto fiduciario che deve necessariamente
intercorrere con il concorrente (cfr. Cassazione civile,
sez. un., 17.02.2012 n. 2312).
Secondo il Collegio, non viene al contrario in rilievo
la discrezionalità tecnica quando presupposto applicativo
della norma attributiva del potere sia il fatto in sé
considerato.
In questo caso, pur se l’accertamento dipende
dall’espletamento di operazioni complicate che possono dar
luogo a risultati opinabili, la discrezionalità manca del
tutto in quanto la p.a. è chiamata ad accertare la mera
sussistenza di un fatto senza dover procedere alla sua
qualificazione alla stregua dell’interesse pubblico
perseguito: la Sezione ha definito tali accertamenti
“valutazioni tecniche complesse non discrezionali”; ed ha
affermato che, proprio in ragione dell’assenza di qualsiasi
apprezzamento dell’interesse pubblico, per essi è possibile
procedere ad un sindacato forte che consenta al giudice (per
mezzo del consulente) di sostituirsi alla p.,a.
nell’accertamento del fatto (cfr. TAR Lombardia Milano sent.
n. 3153/2009 cit.).
Ritiene il Collegio che la valutazione di anomalia
dell’offerta possa essere ascritta a quest’ultima categoria.
Se si ritiene, come sembra fare la giurisprudenza
prevalente, che tale valutazione consista unicamente nel
verificare se i costi sostenuti dall’offrente siano o meno
coperti dal prezzo proposto nell’offerta e, quindi, tali da
generare un utile non irrisorio, si deve altresì ritenere
che essa si risolva in sostanza in una mera operazione
matematica e, dunque, in un’operazione valutativa, per
quanto complessa, volta al mero accertamento della
sussistenza di un fatto in sé considerato, che non involge
alcun apprezzamento dell’interesse pubblico perseguito dalla
stazione appaltante e che, per tali ragioni, non presenta i
caratteri della discrezionalità.
Ne consegue che al provvedimento di esclusione per
ritenuta anomalia dell’offerta presentata dal concorrente
può ritenersi applicabile il primo periodo del secondo comma
del citato art. 21-octies della legge n. 241/1990
(riguardante, come detto, gli atti vincolati); sicché una
volta accertata dal giudice la sostanziale correttezza della
scelta operata, non sarà possibile pronunciarne
l’annullamento qualunque siano le violazioni procedimentali
riscontrate.
Ciò è quanto accaduto nella fattispecie di cui è causa,
nella quale, come visto, è stata accertata in giudizio la
sostanziale correttezza delle valutazioni operate dal Comune
di Milano. Ne consegue la non annullabilità dell’atto
impugnato.
Ritiene peraltro il Collegio (e qui si viene alla
seconda considerazione) che, sulla base delle ragioni che
verranno appresso sviluppate, l’annullamento non possa
comunque pronunciarsi, anche volendo ritenere che il
giudizio di congruità dell’offerta sia connotato da
effettiva discrezionalità. La discrezionalità può ritenersi
effettivamente sussistente se si ammette che il giudizio di
anomalia non scaturisce in maniera automatica dall’accertata
insostenibilità dei costi rilevati nell’offerta, ma anche da
un apprezzamento della p.a. volto a valutare, alla luce dei
propri interessi, se l’assenza o l’esiguità dell’utile
ovvero, addirittura, la perdita siano o meno decisivi per
minare l’affidamento circa la corretta esecuzione del
contratto.
Come anticipato, il secondo periodo dell’art. 21-octies,
comma 2, della legge n. 241/1990, stabilisce che anche i
provvedimenti discrezionali non possono essere annullati
qualora sia verificata in giudizio la loro sostanziale
correttezza. Tuttavia, in questa ipotesi, secondo la lettera
della legge, l’effetto salvifico si produce solo in caso di
omissione dall’avviso di avvio del procedimento.
La Sezione ha tuttavia di recente affermato che tale
disposizione è applicabile, in via analogica, anche quando
sia mancato l’inoltro, non già dell’avviso di avvio del
procedimento, ma del preavviso di rigetto di cui all’art. 10
bis della legge n. 241/1990, stante l’omogeneità funzionale e
strutturale dei due adempimenti procedimentali (cfr. TAR
Milano Lombardia, sez. III, 13.09.2011 n. 2209).
A maggior ragione deve ammettersi l’applicazione
analogica della stessa disposizione qualora la violazione
riscontrata riguardi anch’essa un passaggio del
procedimento, funzionale alla garanzia del contraddittorio,
così come lo sono le due comunicazioni suindicate, ma abbia,
rispetto a queste ultime, un impatto meno rilevate sugli
interessi dell’amministrato. E’ invero assurdo, a parere del
Collegio, consentire la salvezza di un provvedimento quando,
prima della sua adozione, sia stato del tutto precluso al
destinatario di far valere i propri interessi, non avendo
questi, in ragione del mancato inoltro dell’avviso di avvio
del procedimento, neppure avuto contezza della sussistenza
dello stesso; e negarla quando il destinatario, pur avendo
partecipato al procedimento, non abbia potuto fruire di
alcuni passaggi procedimentali specifici che gli avrebbero
consentito solo una migliore illustrazione dei propri
interessi e delle proprie ragioni.
Nel caso concreto, come anticipato, il ricorrente ha
partecipato attivamente al sub procedimento di verifica
dell’anomalia; pertanto, la mancata effettuazione
dell’audizione orale non gli ha precluso di far valere
dinanzi alla p.a. i propri interessi. Ne consegue che, in
applicazione dell’art. 21-ocites, comma 2, secondo periodo,
della legge n. 241/1990, l’omissione di tale passaggio
procedimentale non può ritenersi decisivo ai fini della
pronuncia di annullamento dell’atto qui impugnato.
Preme al Collegio ribadire che persuadono della bontà
delle argomentazioni teoriche sin qui sviluppate
considerazioni eminentemente pratiche: si richiama in
proposito quanto sopra rilevato circa l’inutilità per il
ricorrente di una pronuncia di annullamento basata su
rilievi aventi esclusivamente carattere formale
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 28.12.2012 n. 3239 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Ordinanza di sgombero di rifiuti rivolta
al proprietario del fondo.
E illegittima l'ordinanza di sgombero di rifiuti rivolta al
proprietario del fondo, in mancanza di adeguata
dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente
dell'imputabilità soggettiva della condotta, ancorché
fondata su ragionevoli presunzioni o su condivisibili
massime d'esperienza, atteso che, ai sensi dell'art. 192,
d.lgs. 03.04.2006 n. 152, la responsabilità solidale del
proprietario del fondo, non è di natura oggettiva, ma è
ravvisabile soltanto se l'Amministrazione dimostri la
sussistenza dell'elemento psicologico di dolo o colpa alla
base della condotta omissiva o commissiva.
Nel caso di specie i rifiuti non sono peraltro stati
rinvenuti sull'area di proprietà della ricorrente, ma come
detto, nelle vicinanze di una piazzola ecologica il cui
accesso non risultava adeguatamente regolamentato, ciò che
induce ad applicare i detti principi di limitazione di
responsabilità in termini maggiormente restrittivi (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza
14.12.2012 n. 3042 - tratto da
www.lexambiente.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Tribunale
di Lecco. Indennità di disagio cumulabile con la vigilanza
L'indennità di disagio erogata ai vigili impegnati in turni
stradali può essere cumulata a quella di vigilanza
ordinariamente attribuita agli operatori di polizia locale.
Lo ha chiarito il TRIBUNALE di Lecco con la sentenza
14.12.2012 n. 239.
Il comune lombardo ha subito censure
da parte degli organi di controllo per aver erogato alla
polizia municipale l'indennità di disagio unitamente a
quella di vigilanza. Per evitare responsabilità erariali
l'amministrazione ha quindi richiesto agli operatori la
restituzione degli importi versati e contro queste
ingiunzioni di pagamento gli interessati hanno proposto con
successo ricorso al giudice del lavoro.
L'indennità di
disagio, specifica la sentenza, è stata prevista dall'art.
17/2° del ccnl 1999 «per compensare l'esercizio di
attività svolte in condizioni particolarmente disagiate da
parte del personale delle categorie a, b, e c». Spetta
poi alla contrattazione decentrata integrativa disciplinare
nel dettaglio l'indennità e in questo caso il comune di
Lecco ha adottato un contratto aziendale favorevole al
riconoscimento dell'indennità di disagio al personale di
polizia locale «che presti servizio all'esterno e lavori
su tre turni».
L'indennità di vigilanza è stata introdotta nell'ordinamento
dal dpr n. 347/1983 con il quale è stata attribuito un
particolare riconoscimento economico al personale dell'area
vigilanza impegnato in attività esterna
(articolo ItaliaOggi dell'08.02.2013). |
PUBBLICO
IMPIEGO: a)
in linea generale l’equipollenza fra titoli di studio in
vista della partecipazione a pubblici concorsi, può essere
stabilita dalle norme, primarie o secondarie, ma non
dall’amministrazione o dal giudice;
b) quando un bando richiede tassativamente il possesso di un
determinato titolo di studio per l’ammissione ad un pubblico
concorso, senza prevedere il rilievo del titolo
equipollente, non è consentita la valutazione di un titolo
diverso, salvo che l’equipollenza non sia stabilita da una
norma di legge; coerentemente si reputa illegittima la
clausola del bando di concorso che disponga l’equipollenza
fra titoli di studio in assenza di una norma di legge che
fissi i contenuti, le caratteristiche e la durata dei corsi
di studio in relazione alle distinte finalità formative che
ciascuno di essi persegue, in tal modo prevenendosi il
rischio di valutazioni casistiche rimesse alle singole
amministrazioni;
c) ai sensi dell'art. 9, co. 6, l. n. 341 del 1990, il
giudizio di equipollenza tra i titoli di studio ai fini
dell'ammissione ai pubblici concorsi appartiene
esclusivamente al legislatore e, di conseguenza, l'unico
parametro cui fare corretto riferimento è quello fissato
dalla legge e dall'ordinamento della pubblica istruzione,
secondo il quale i titoli di studio sono diversi tra loro e
le equipollenze costituiscono eccezioni non suscettibili di
interpretazione estensiva ed analogica; in quest’ottica, un
marginale ruolo di integrazione può essere riconosciuto
all’amministrazione solo ove espressamente previsto dal
bando di concorso, che dello stesso costituisce lex
specialis;
d) più precisamente, ove il bando ammetta come requisito di
ammissione un determinato diploma di laurea, o titolo
equipollente tout-court, l’amministrazione potrà procedere
ad una valutazione di equipollenza sostanziale; se invece il
bando richiede (come nel caso di specie) un determinato
titolo di studio o quelli ad esso equipollenti ex lege,
siffatta determinazione deve essere intesa in senso
tassativo, con riferimento alla valutazione di equipollenza
formulata da un atto normativo e non può essere integrata da
valutazioni di tipo sostanziale compiute ex post
dall'amministrazione.
---------------
Osserva la sezione, in relazione ai titoli di studio
conseguibili a conclusione dei corsi di studio in ingegneria
nel sistema ante-riforma (cfr. d.m. n. 509 del 1999 che lo
ha messo a regime), che:
a) il corso di laurea quinquennale in <<ingegneria per
l’ambiente e il territorio>>, operante presso svariate
università già dai primi anni ’90 ha assicurato una
formazione differenziata rispetto a quella del corso di
laurea in <<ingegneria civile>>: mentre infatti il primo ha
fornito (e fornisce) specifiche competenze di natura
geologica, chimica ambientale e tecnologica su processi,
macchine e tecniche di scavo ed intervento sul territorio,
nonché conoscenze ed esperienze sulle tecniche di misura di
parametri geologici ed ambientali, attribuendo al laureato
specifiche competenze in materia di progettazione di un
sistema complesso, costituito dall’opera e dalla sua
interazione con l’ambiente circostante, la formazione
dell’ingegnere civile è stata focalizzata (e si focalizza)
sulla singola opera, si da consentire al laureato di
risolvere le problematiche connesse alla progettazione,
realizzazione e gestione di edifici civili ed industriali
nonché di infrastrutture (ponti, strade, gallerie, ecc.) che
rispondano alle esigenze di trasformazione e sviluppo della
società;
b) oltre ai decreti interministeriali del 07.05.1992 e
25.05.1991, che hanno equiparato espressamente il corso di
laurea in <<ingegneria per l’ambiente e il territorio>> ai
corsi di laurea in <<ingegneria forestale e in ingegneria
mineraria>>, non è dato rinvenire alcuna altra norma che,
come sostenuto dall’appellante, abbia equiparato il corso di
laurea in <<ingegneria civile>> a quello in <<ingegneria per
l’ambiente e il territorio>>;
c) la laurea specialistica in <<ingegneria per l’ambiente o
il territorio>>, classificata in classe 38/S si è aggiunta,
e non ha sostituito il già esistente corso di laurea in
<<ingegneria ambientale>>, di durata quinquennale, istituito
con d.P.R. 20.05.1989 (tanto che, ancora oggi, è possibile
conseguire il diploma di laurea in tale corso di studi e, in
aggiunta, la laurea specialistica nella stessa materia); di
conseguenza, non può in alcun modo ritenersi che, per il
periodo precedente alla riforma, il corso di laurea in
<<ingegneria civile>> potesse essere considerato un percorso
di formazione onnicomprensivo o, detto in parole più
semplici, una sorta di contenitore generale atto a recepire
la preparazione e le competenze specifiche, successivamente
andate a confluire nei singoli corsi di laurea specialistici
e nelle c.d <<lauree magistrali>>.
---------------
A diverse conclusioni non si perviene in relazione ai titoli
di studio conseguibili a conclusione dei corsi di studio in
ingegneria nel sistema post–riforma (successivamente, cioè
al d.m. n. 509 del 1999); invero:
a) il d.m. 05.05.2004 ha stabilito la sola equipollenza fra:
I) il diploma di laurea in <<ingegneria civile>> e la laurea
specialistica appartenente alla classe 28/S (ovvero quella
in <<ingegneria civile>>);
II) il diploma di laurea in <<ingegneria per l’ambiente e il
territorio>> e la classe delle lauree di livello
specialistico 38/S, ovvero la laurea specialistica in
<<ingegneria per l’ambiente e il territorio>>;
b) la medesima separazione si registra, in relazione alle
lauree magistrali introdotte dal d.m. n. 270 del 22.10.2004,
avuto riguardo alla laurea magistrale in <<ingegneria
civile>> inserita nella classe di laurea magistrale LM 23 ed
a quella ambientale divisata dalla classe di laurea LM 35
(cfr. parere del C.U.N. prot. n. 613 del 23.04.2009);
c) è irrilevante l’equiparazione dei due corsi di laurea
effettuata con d.m. 04.08.2000; tale equiparazione, infatti
può valere solo con riferimento ai due corsi di laurea (ora
divenuti triennali) nella medesima classe e si giustifica in
virtù della contemporanea introduzione di corsi di laurea
specialistici, di durata biennale, da frequentare
successivamente, atti a consentire agli studenti già
laureati l’acquisizione di ulteriori e specifiche competenze
(che nel sistema previgente potevano essere ottenuti –seppur
a un livello “inferiore”- mediante la frequenza dei due
diversi corsi di <<ingegneria civile e ingegneria per
l’ambiente e il territorio>> ciascuno caratterizzato da
proprie peculiarità); l’equiparazione, pertanto, non può
estendersi alle lauree specialistiche quinquennali (il cui
possesso è richiesto dal bando a pena di esclusione);
d) parimenti irrilevante è il richiamo al d.P.R. n. 328 del
2001 che, con riferimento all’iscrizione all’Albo degli
ingegneri, accomuna nella sezione A, settore a), le lauree
in <<ingegneria civile ed ambientale>>; si tratta
all’evidenza di equiparazione operata, da una norma
regolamentare, a fini del tutto diversi da quelli propri
dell’ordinamento universitario unico abilitato a
classificare il valore dei titoli di studio; invero, come si
evince dal combinato disposto degli artt. 2, 7 e 47 del
d.P.R. n. 328 cit.:
I) per l’iscrizione alla sezione A degli Albi degli ingegneri è
necessario superare specifico esame di Stato cui si accede
solo dopo aver conseguito il titolo di laurea specialistica;
II) per l’ammissione all’esame di Stato, i titoli universitari
conseguiti al termine dei corsi di studio dello stesso
livello hanno identico valore se appartenenti alla medesima
classe;
III) le classi 28/S – ingegneria civile e 38/S – ingegneria per
l’ambiente e per il territorio sono diverse e sono
accomunate nel superiore settore a) <<civile e ambientale>>
(unitamente alla classe 4/S – architettura e ingegneria
edile), ai soli fini dell’ammissione all’esame di Stato;
e) irrilevante, infine, deve ritenersi anche il parere di
equipollenza espresso dal C.U.N. in quanto non solo si
tratta di parere generico e di data antecedente a successive
determinazioni del M.I.U.R sul medesimo concorso ma, in ogni
caso, di mera valutazione proveniente da autorità
amministrativa e non di fonte normativa, dotata della forza
giuridica sufficiente ad integrare le prescrizioni della
procedura di selezione come richiamate dal bando (che come è
noto ha valore di lex specialis), il quale espressamente
rinvia, nel caso in esame, a titoli equipollenti
esclusivamente ex lege.
L’unica questione sottesa al gravame in trattazione consiste
nello stabilire se la laurea specialistica (nel nuovo
ordinamento universitario) o il diploma di laurea (nel
previgente ordinamento universitario) in «ingegneria civile»
siano equipollenti ex lege a quella in <<ingegneria per
l’ambiente e il territorio>> in relazione all’accesso ai
pubblici concorsi.
Si premette che in base al d.m. 28.11.2000 ed all’art.
4 del d.m. n. 509 del 1999, la laurea specialistica in
<<ingegneria per l’ambiente e il territorio>> appartiene
alla classe 38/S (G.U. 23.01.2001 n. 18), e quella in
<<ingegneria civile>> alla classe 28/S; mentre il diploma di
laurea in <<ingegneria per l’ambiente e il territorio>> era
disciplinato dalla Tabella XXIX del r.d. n. 1652 del 30.09.1938, come modificata dal d.m. 22.05.1995, che
lo distingueva dal diploma di laurea in <<ingegneria
civile>>.
La tesi propugnata dall’odierno ricorrente -secondo
cui il titolo del diploma di laurea in <<ingegneria
civile>>, ancorché non menzionato dal bando di concorso, può
ritenersi equipollente ex lege ai titoli puntualmente
individuati da quest’ultimo- non è suscettibile di
favorevole esame in base a consolidati principi elaborati
dal Consiglio di Stato (cfr. Cons. St., sez. VI, 03.05.2010, n. 2494; sez. V, 19.08.2009, n. 4994; sez. II, 17.12.2007, n. 104/2007; sez. V, 24.01.2007, n. 247,
cui si rinvia a mente del combinato disposto degli artt. 74,
co.1, e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.), in forza dei quali:
a) in linea generale l’equipollenza fra titoli di studio in
vista della partecipazione a pubblici concorsi, può essere
stabilita dalle norme, primarie o secondarie, ma non
dall’amministrazione o dal giudice;
b) quando un bando richiede tassativamente il possesso di un
determinato titolo di studio per l’ammissione ad un pubblico
concorso, senza prevedere il rilievo del titolo
equipollente, non è consentita la valutazione di un titolo
diverso, salvo che l’equipollenza non sia stabilita da una
norma di legge; coerentemente si reputa illegittima la
clausola del bando di concorso che disponga l’equipollenza
fra titoli di studio in assenza di una norma di legge che
fissi i contenuti, le caratteristiche e la durata dei corsi
di studio in relazione alle distinte finalità formative che
ciascuno di essi persegue, in tal modo prevenendosi il
rischio di valutazioni casistiche rimesse alle singole
amministrazioni;
c) ai sensi dell'art. 9, co. 6, l. n. 341 del 1990, il
giudizio di equipollenza tra i titoli di studio ai fini
dell'ammissione ai pubblici concorsi appartiene
esclusivamente al legislatore e, di conseguenza, l'unico
parametro cui fare corretto riferimento è quello fissato
dalla legge e dall'ordinamento della pubblica istruzione,
secondo il quale i titoli di studio sono diversi tra loro e
le equipollenze costituiscono eccezioni non suscettibili di
interpretazione estensiva ed analogica; in quest’ottica, un
marginale ruolo di integrazione può essere riconosciuto
all’amministrazione solo ove espressamente previsto dal
bando di concorso, che dello stesso costituisce lex
specialis;
d) più precisamente, ove il bando ammetta come requisito di
ammissione un determinato diploma di laurea, o titolo
equipollente tout-court, l’amministrazione potrà procedere
ad una valutazione di equipollenza sostanziale; se invece il
bando richiede (come nel caso di specie) un determinato
titolo di studio o quelli ad esso equipollenti ex lege,
siffatta determinazione deve essere intesa in senso
tassativo, con riferimento alla valutazione di equipollenza
formulata da un atto normativo e non può essere integrata da
valutazioni di tipo sostanziale compiute ex post
dall'amministrazione.
Tanto precisato in linea generale, osserva la
sezione, in relazione ai titoli di studio conseguibili a
conclusione dei corsi di studio in ingegneria nel sistema
ante-riforma (cfr. d.m. n. 509 del 1999 che lo ha messo a
regime), che:
a) il corso di laurea quinquennale in <<ingegneria per
l’ambiente e il territorio>>, operante presso svariate
università già dai primi anni ’90 ha assicurato una
formazione differenziata rispetto a quella del corso di
laurea in <<ingegneria civile>>: mentre infatti il primo ha
fornito (e fornisce) specifiche competenze di natura
geologica, chimica ambientale e tecnologica su processi,
macchine e tecniche di scavo ed intervento sul territorio,
nonché conoscenze ed esperienze sulle tecniche di misura di
parametri geologici ed ambientali, attribuendo al laureato
specifiche competenze in materia di progettazione di un
sistema complesso, costituito dall’opera e dalla sua
interazione con l’ambiente circostante, la formazione
dell’ingegnere civile è stata focalizzata (e si focalizza)
sulla singola opera, si da consentire al laureato di
risolvere le problematiche connesse alla progettazione,
realizzazione e gestione di edifici civili ed industriali
nonché di infrastrutture (ponti, strade, gallerie, ecc.) che
rispondano alle esigenze di trasformazione e sviluppo della
società;
b) oltre ai decreti interministeriali del 07.05.1992 e 25.05.1991, che hanno equiparato espressamente il corso di
laurea in <<ingegneria per l’ambiente e il territorio>> ai
corsi di laurea in <<ingegneria forestale e in ingegneria
mineraria>>, non è dato rinvenire alcuna altra norma che,
come sostenuto dall’appellante, abbia equiparato il corso di
laurea in <<ingegneria civile>> a quello in <<ingegneria per
l’ambiente e il territorio>>;
c) la laurea specialistica in <<ingegneria per l’ambiente o
il territorio>>, classificata in classe 38/S si è aggiunta,
e non ha sostituito il già esistente corso di laurea in
<<ingegneria ambientale>>, di durata quinquennale, istituito
con d.P.R. 20.05.1989 (tanto che, ancora oggi, è
possibile conseguire il diploma di laurea in tale corso di
studi e, in aggiunta, la laurea specialistica nella stessa
materia); di conseguenza, non può in alcun modo ritenersi
che, per il periodo precedente alla riforma, il corso di
laurea in <<ingegneria civile>> potesse essere considerato
un percorso di formazione onnicomprensivo o, detto in parole
più semplici, una sorta di contenitore generale atto a
recepire la preparazione e le competenze specifiche,
successivamente andate a confluire nei singoli corsi di
laurea specialistici e nelle c.d <<lauree magistrali>>.
A diverse conclusioni non si perviene in relazione ai
titoli di studio conseguibili a conclusione dei corsi di
studio in ingegneria nel sistema post–riforma
(successivamente, cioè al d.m. n. 509 del 1999); invero:
a) il d.m. 05.05.2004 ha stabilito la sola equipollenza
fra:
I) il diploma di laurea in <<ingegneria civile>> e la laurea
specialistica appartenente alla classe 28/S (ovvero quella
in <<ingegneria civile>>);
II) il diploma di laurea in <<ingegneria per l’ambiente e il
territorio>> e la classe delle lauree di livello
specialistico 38/S, ovvero la laurea specialistica in
<<ingegneria per l’ambiente e il territorio>>;
b) la medesima separazione si registra, in relazione alle
lauree magistrali introdotte dal d.m. n. 270 del 22.10.2004, avuto riguardo alla laurea magistrale in <<ingegneria
civile>> inserita nella classe di laurea magistrale LM 23 ed
a quella ambientale divisata dalla classe di laurea LM 35
(cfr. parere del C.U.N. prot. n. 613 del 23.04.2009);
c) è irrilevante l’equiparazione dei due corsi di laurea
effettuata con d.m. 04.08.2000; tale equiparazione,
infatti può valere solo con riferimento ai due corsi di
laurea (ora divenuti triennali) nella medesima classe e si
giustifica in virtù della contemporanea introduzione di
corsi di laurea specialistici, di durata biennale, da
frequentare successivamente, atti a consentire agli studenti
già laureati l’acquisizione di ulteriori e specifiche
competenze (che nel sistema previgente potevano essere
ottenuti –seppur a un livello “inferiore”- mediante la
frequenza dei due diversi corsi di <<ingegneria civile e
ingegneria per l’ambiente e il territorio>> ciascuno
caratterizzato da proprie peculiarità); l’equiparazione,
pertanto, non può estendersi alle lauree specialistiche
quinquennali (il cui possesso è richiesto dal bando a pena
di esclusione);
d) parimenti irrilevante è il richiamo al d.P.R. n. 328 del
2001 che, con riferimento all’iscrizione all’Albo degli
ingegneri, accomuna nella sezione A, settore a), le lauree
in <<ingegneria civile ed ambientale>>; si tratta
all’evidenza di equiparazione operata, da una norma
regolamentare, a fini del tutto diversi da quelli propri
dell’ordinamento universitario unico abilitato a
classificare il valore dei titoli di studio; invero, come si
evince dal combinato disposto degli artt. 2, 7 e 47 del d.P.R. n. 328 cit.:
I) per l’iscrizione alla sezione A degli Albi degli
ingegneri è necessario superare specifico esame di Stato cui
si accede solo dopo aver conseguito il titolo di laurea
specialistica;
II) per l’ammissione all’esame di Stato, i titoli
universitari conseguiti al termine dei corsi di studio dello
stesso livello hanno identico valore se appartenenti alla
medesima classe;
III) le classi 28/S – ingegneria civile e 38/S – ingegneria
per l’ambiente e per il territorio sono diverse e sono
accomunate nel superiore settore a) <<civile e ambientale>>
(unitamente alla classe 4/S – architettura e ingegneria
edile), ai soli fini dell’ammissione all’esame di Stato;
e) irrilevante, infine, deve ritenersi anche il parere di
equipollenza espresso dal C.U.N. in quanto non solo si
tratta di parere generico e di data antecedente a successive
determinazioni del M.I.U.R sul medesimo concorso ma, in ogni
caso, di mera valutazione proveniente da autorità
amministrativa e non di fonte normativa, dotata della forza
giuridica sufficiente ad integrare le prescrizioni della
procedura di selezione come richiamate dal bando (che come è
noto ha valore di lex specialis), il quale espressamente
rinvia, nel caso in esame, a titoli equipollenti
esclusivamente ex lege
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 06.12.2012 n. 6260 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: E'
pur vero che secondo un certo orientamento la verifica sui
requisiti necessari per legittimare la d.i.a. è riferita
alla normativa vigente al momento di presentazione della
stessa, anche in caso di modifiche successive.
Osserva però il Collegio che tale principio potrebbe al più
valere per i casi di d.i.a. già perfezionatasi, e non per
fattispecie, come quella per cui è causa, nelle quali il
procedimento si è protratto per la mancanza di integrazioni
documentali richieste al privato.
Infondato è anche il secondo
motivo.
Va intanto ricordato quanto detto in narrativa,
ovvero che l’amministrazione ha chiarito quali sarebbero
state le norme a suo avviso violate, e che sulla violazione
in quanto tale il privato nulla ha eccepito. Ciò posto, è
pur vero che secondo un certo orientamento, espresso ad
esempio da C.d.S. sez. V ord. 29.07.2003 n. 3234, la
verifica sui requisiti necessari per legittimare la d.i.a. è
riferita alla normativa vigente al momento di presentazione
della stessa, anche in caso di modifiche successive.
Osserva però il Collegio che tale principio potrebbe al più
valere per i casi di d.i.a. già perfezionatasi, e non per
fattispecie, come quella per cui è causa, nelle quali il
procedimento si è protratto per la mancanza di integrazioni
documentali richieste al privato (doc.ti ricorrente 3 e 4,
copie carteggio relativo).
In tal senso quindi, come correttamente osservato dal Comune
nella relazione 18.07.2006, in presenza di modifiche nella
normativa di riferimento, non era possibile tener per valida
la dichiarazione di conformità alle stesse contenuta nella
d.i.a. e riferita alle norme di legge e di piano previgenti
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.11.2012 n. 1852 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La valutazione di compatibilità (ambientale)
richiesta nell’ambito del procedimento di condono ha invero
ad oggetto specifico ed esclusivo opere abusive già
esistenti, in ordine alle quali è domandata la sanatoria, e
che vanno valutate per come sono, con le relative
caratteristiche di forma, dimensioni, materiali costruttivi
ecc., senza possibilità di considerare, se proposte
dell’interessato, ovvero di prescrivere modifiche che ne
migliorino l’inserimento ambientale. Si tratterebbe invero
non più di una sanatoria, bensì di un diverso titolo di
legittimazione, che per di più concretizzerebbe l’elusione
dell’oggetto e dei termini perentori stabiliti dalla
normativa sul condono.
Solo dopo il positivo esame di compatibilità dell’opera
abusiva possono essere, con distinto procedimento, valutate
le opere ulteriori e additive al fabbricato originario in
completamento o miglioramento (nella specie, come riferito
nella sentenza gravata: estensione della copertura a falde
per la creazione di un porticato) e in tale ambito possono
prescriversi correzioni al progetto relativo a dette
innovazioni.
Vanno, quindi, condivisi i rilievi critici del Ministero appellante, che
sostiene la piena legittimità del disposto annullamento
dell’autorizzazione paesaggistica comunale rilasciata
relativamente alle opere già eseguite e a quelle progettate
dall’appellato.
Merita di essere posta in evidenza, per un
verso, la violazione procedimentale compiuta da parte del
Comune riducendo ad un’unica valutazione, solo formalmente
espressa a norma dell’art. 7 l. 29.06.1939 n. 1497,
giudizi di compatibilità che andavano espressi distintamente
e ai sensi dell’art. 32 l. 28.02.1985, n. 47; e, per
un altro verso, che la motivazione fornita dal Comune -nel
senso che “l’intervento di modesta entità si inserisce nel
contesto ambientale circostante caratterizzato da limoneti e
terrazzamenti”- non appare idonea a dar contezza delle
effettive ragioni di compatibilità paesaggistica che, in
riferimento agli specifici valori tutelati, potevano
consentire la realizzazione dell’intervento.
Invero è corretta l’affermazione del provvedimento
ministeriale che l’atto di base non avrebbe potuto
riguardare in modo unitario sia le opere abusivamente
realizzate per le quali era chiesto il condono che i nuovi
interventi progettati.
Si tratta di valutazioni distinte, la prima delle quali
riguarda una compatibilità de praeterito, la seconda
riguarda una compatibilità de futuro. La prima è logicamente
prioritaria rispetto alla seconda. Sono valutazioni da
operare con distinti procedimenti, tra loro in relazione di
successione temporale, e richiedenti ciascuno un’autonoma
motivazione. Queste valutazioni non possono fondersi ed
irragionevolmente esaurirsi in un unitario giudizio di
compatibilità del manufatto complessivo quale risulterebbe
dalla (futura) esecuzione dei progettati interventi di
completamento e miglioramento, con le correzioni progettuali
prescritte.
La valutazione di compatibilità richiesta nell’ambito del
procedimento di condono ha invero ad oggetto specifico ed
esclusivo opere abusive già esistenti, in ordine alle quali
è domandata la sanatoria, e che vanno valutate per come
sono, con le relative caratteristiche di forma, dimensioni,
materiali costruttivi ecc., senza possibilità di
considerare, se proposte dell’interessato, ovvero di
prescrivere modifiche che ne migliorino l’inserimento
ambientale. Si tratterebbe invero non più di una sanatoria,
bensì di un diverso titolo di legittimazione, che per di più
concretizzerebbe l’elusione dell’oggetto e dei termini
perentori stabiliti dalla normativa sul condono.
Solo dopo il positivo esame di compatibilità dell’opera
abusiva possono essere, con distinto procedimento, valutate
le opere ulteriori e additive al fabbricato originario in
completamento o miglioramento (nella specie, come riferito
nella sentenza gravata: estensione della copertura a falde
per la creazione di un porticato) e in tale ambito possono
prescriversi correzioni al progetto relativo a dette
innovazioni.
Non pertinente risulta il richiamo, contenuto nella sentenza
di primo grado, all’art. 35, comma 14, l. 28.02.1985, n. 47,
non trattandosi di completamento funzionale dell’edificio
abusivo ma di addizioni di rilevanza strutturale (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.11.2012 n. 5990 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI - INCARICHI PROGETTUALI: Le
determinazioni con cui le pubbliche amministrazioni
stabiliscono i criteri per selezionare i collaboratori
costituisce manifestazione di ampia discrezionalità
rientrante nel merito amministrativo, e possono quindi
essere sindacate solo in caso di errore manifesto o
manifesta irragionevolezza.
---------------
Le competenze dei geometri in tema di ricognizione della
viabilità sono limitate alle “operazioni di tracciamento di
strade poderali e consorziali ed inoltre, quando abbiano
tenue importanza, di strade ordinarie…” (art. 16, comma
primo, lett. b] R.D. 274/1929).
Dalla competenza dei geometri esulano anche alcune delle
attività richieste per l’incarico in questione, come le
verifiche sulle condizioni di manutenzione e transitabilità
delle strade nonché delle preclusioni al traffico esistenti,
e la definizione della loro importanza dal punto di vista
funzionale, storico e paesaggistico.
Coglie quindi nel segno la difesa dell’Amministrazione
laddove evidenzia che l’oggetto dell’incarico da affidare è
più ampio rispetto alle competenze legislativamente
stabilite per la categoria dei geometri, ed è quindi logico
che essi ne siano stati esclusi.
... per l'annullamento della determinazione dirigenziale n.
694 del 06.07.2009 della Comunità Montana Colline Metallifere,
contenente l’avviso pubblico per il conferimento di un
incarico esterno di collaborazione autonoma per la
ricognizione e classificazione della viabilità extraurbana
di pubblico interesse, nonché della determinazione n. 866
del 26.08.2009 di assegnazione dell’incarico, nonché infine
di tutti gli atti presupposti e/o consequenziali tra cui, in
particolare, i verbali di aggiudicazione in prima e seconda
seduta rispettivamente del 24.07.2009 e del 14.08.2009, nonché gli artt. 11 e 11-bis del Regolamento di
organizzazione degli uffici e dei servizi approvato con
delibera della Giunta Esecutiva della Comunità Montana delle
Colline Metallifere n. 87 del 25.9.2003 e modificato con
successiva delibera della Giunta Esecutiva n. 1 del
20.01.2009, ovvero di tutte quelle norme regolamentari della
Comunità Montana che disciplinano e limitano l’affidamento
di incarichi a soggetti esterni.
...
Va rilevato in primo luogo che le determinazioni con cui le
pubbliche amministrazioni stabiliscono i criteri per
selezionare i collaboratori costituisce manifestazione di
ampia discrezionalità rientrante nel merito amministrativo,
e possono quindi essere sindacate solo in caso di errore
manifesto o manifesta irragionevolezza.
Nel caso di specie non si rilevano tali vizi nella decisione
di limitare l’accesso alla procedura in esame ai soli
laureati escludendo, tra l’altro, la categoria ricorrente
dei geometri poiché l’oggetto della gara è più ampio di
quanto previsto dall’art. 16, R.D. 11.02.1929, n. 274
che regolamenta l’esercizio di tale professione.
Per quanto qui interessa, le competenze dei geometri in tema
di ricognizione della viabilità sono limitate alle
“operazioni di tracciamento di strade poderali e consorziali
ed inoltre, quando abbiano tenue importanza, di strade
ordinarie…” (art. 16, comma primo, lett. b] R.D. 274/1929).
Dalla competenza dei geometri esulano anche alcune delle
attività richieste per l’incarico in questione, come le
verifiche sulle condizioni di manutenzione e transitabilità
delle strade nonché delle preclusioni al traffico esistenti,
e la definizione della loro importanza dal punto di vista
funzionale, storico e paesaggistico. Coglie quindi nel segno
la difesa dell’Amministrazione laddove evidenzia che
l’oggetto dell’incarico da affidare è più ampio rispetto
alle competenze legislativamente stabilite per la categoria
dei geometri, ed è quindi logico che essi ne siano stati
esclusi.
Non ha pregio il richiamo al diritto al libero esercizio
della professione poiché i provvedimenti gravati non
limitano in alcun modo l’esercizio libero professionale del
mestiere di geometra
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 22.11.2012 n. 1890 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La ratio sottesa alla disposizione ex art. 84
dlgs 163/2006 costituisce espressione di principi generali,
costituzionali e comunitari, volti ad assicurare il buon
andamento e l'imparzialità dell'azione amministrativa.
Secondo la giurisprudenza, essa, in quanto espressiva di un
principio generale è applicabile anche alle procedure di
evidenza pubblica non disciplinate dal codice dei contratti
pubblici.
Le doglianze proposte dalla Consip al detto capo di sentenza appaiono al
Collegio infondate.
La disposizione che governa la fattispecie è quella di
cui al citato art. 84, commi 1, 2, 3 ed 8 di cui è utile
riportare il testo: ”Quando la scelta della migliore offerta
avviene con il criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, la valutazione è demandata ad una commissione
giudicatrice, che opera secondo le norme stabilite dal
regolamento.
La commissione, nominata dall'organo della stazione
appaltante competente ad effettuare la scelta del soggetto
affidatario del contratto, è composta da un numero dispari
di componenti, in numero massimo di cinque, esperti nello
specifico settore cui si riferisce l'oggetto del contratto.
La commissione è presieduta di norma da un dirigente della
stazione appaltante e, in caso di mancanza in organico, da
un funzionario della stazione appaltante incaricato di
funzioni apicali, nominato dall'organo competente.
I commissari diversi dal presidente sono selezionati tra i
funzionari della stazione appaltante. In caso di accertata
carenza in organico di adeguate professionalità, nonché
negli altri casi previsti dal regolamento in cui ricorrono
esigenze oggettive e comprovate, i commissari diversi dal
presidente sono scelti tra funzionari di amministrazioni
aggiudicatrici di cui all'art. 3, comma 25, ovvero con un
criterio di rotazione tra gli appartenenti alle seguenti
categorie:
a) professionisti, con almeno dieci anni di iscrizione nei
rispettivi albi professionali, nell'ambito di un elenco,
formato sulla base di rose di candidati fornite dagli ordini
professionali;
b) professori universitari di ruolo, nell'ambito di un
elenco, formato sulla base di rose di candidati fornite
dalle facoltà di appartenenza.”
La ratio sottesa alla disposizione in esame
costituisce espressione di principi generali, costituzionali
e comunitari, volti ad assicurare il buon andamento e
l'imparzialità dell'azione amministrativa. Secondo la
giurisprudenza, essa, in quanto espressiva di un principio
generale è applicabile anche alle procedure di evidenza
pubblica non disciplinate dal codice dei contratti pubblici
(Consiglio Stato, sez. V, 04.03.2011, n. 1386) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.01.2012 n. 27 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
parziale recinzione del fondo e finanche lo sbancamento del
terreno e l’esecuzione dei lavori di scavo non sono idonei
ad integrare di per sé un valido inizio dei lavori.
Facendo applicazione dei richiamati criteri al caso in
trattazione, il Collegio ritiene, dunque, che le modeste
attività intraprese, non accompagnate dalla compiuta
organizzazione del cantiere, sono state legittimamente
considerate come non sufficienti a dimostrare l’effettivo
intendimento del titolare del permesso di realizzare la
costruzione assentita, giustificando così l’adozione del
provvedimento in discussione.
Ad avviso del Collegio, l’assunto non può essere condiviso,
essendo smentito, in punto di fatto, dalle risultanze
istruttorie poste a base dell’azione amministrativa. In
particolare, il personale incaricato del sopralluogo (cfr.
relazione prot. n. 38/U.T. del 18.07.2007), dopo aver dato
atto dello svolgimento di alcune attività preparatorie
(taglio degli alberi, apertura di un varco di accesso al
terreno, demolizione di parte di un muro di confine e
realizzazione di una nuova recinzione, saggi geologici), ha
rilevato che “[…] non esistono in sito opere di scavo o
di getto di calcestruzzo relative all’immobile da
realizzare, né materiali edili ed attrezzature di cantiere
in deposito […]”.
Al riguardo, va osservato che, secondo la consolidata
giurisprudenza, la parziale recinzione del fondo e finanche
lo sbancamento del terreno e l’esecuzione dei lavori di
scavo –nella specie insussistenti– non sono idonei ad
integrare di per sé un valido inizio dei lavori (cfr. TAR
Lombardia, Milano, Sezione II, 08.03.2007 n. 372; TAR
Campania, Napoli, Sezione IV, 05.01.2006 n. 59; TAR Lazio,
Roma, Sezione II, 28.06.2005 n. 5370; Consiglio di Stato,
Sezione IV, 03.10.2000, n. 5242).
Facendo applicazione dei richiamati criteri al caso in
trattazione, il Collegio ritiene, dunque, che le modeste
attività intraprese, non accompagnate dalla compiuta
organizzazione del cantiere, sono state legittimamente
considerate come non sufficienti a dimostrare l’effettivo
intendimento del titolare del permesso di realizzare la
costruzione assentita, giustificando così l’adozione del
provvedimento in discussione
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 25.09.2008 n. 10890 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: La
previa comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 7
della l. n. 241/1990, non è richiesta quando il procedimento
è stato attivato su istanza di parte.
---------------
Non è condivisibile neanche la doglianza circa
l’effettuazione senza preavviso, da parte
dell’Amministrazione, di un sopralluogo sull’area di
cantiere finalizzato ad accertare l’inizio o meno dei
lavori, sia perché la ricorrente era ben consapevole della
sussistenza di un procedimento per il rilascio della
proroga, sia perché, comunque, si deve considerare legittima
l’effettuazione di accertamenti a sorpresa da parte della
P.A. qualora le circostanze lo impongano per garantire la
genuinità di tali accertamenti.
---------------
A fronte di ciò la difesa comunale ha sottolineato la
diversità tra le fattispecie della proroga della concessione
edilizia, ex art. 4, quarto comma, della l. n. 10/1977, e
della decadenza di tale concessione, ex art. 31 della l. n.
1150/1942.
Ed invero, mentre l’art. 4 cit. consente la proroga della
concessione edilizia qualora, ferma restando la capacità
edificatoria dell’area interessata, nel corso
dell’esecuzione dei lavori si siano verificati dei fatti non
imputabili al titolare della concessione, che abbiano
ritardato i suddetti lavori, onde non far ricadere sul
soggetto incolpevole dei fatti a lui non attribuibili,
l’art. 31 della l. n. 1150 cit. disciplina la diversa
ipotesi della decadenza per fatti impeditivi discendenti
dalle scelte del Legislatore o della P.A. in sede di
pianificazione, che incidano sulla capacità edificatoria del
terreno. In questa seconda ipotesi, allora, non ha alcun
rilievo la non imputabilità del fatto al titolare della
concessione, né vi è possibilità di proroga della
concessione stessa, attesa la diversità degli interessi ivi
tutelati rispetto alla fattispecie ex art. 4, comma quarto
della l. n. 10/1977.
Con la comminatoria della decadenza ex art. 31 cit.,
infatti, il Legislatore ha inteso evitare che le costruzioni
ancora da realizzare alterino l’assetto urbanistico
stabilito con la nuova pianificazione. Nondimeno, la
disposizione in esame impedisce che si addivenga alla
pronuncia di decadenza quando i lavori siano iniziati e
purché vengano completati entro tre anni dalla data di
inizio.
---------------
Per la giurisprudenza consolidata lo sbancamento del terreno
non può, da solo, essere considerato quale inizio dei
lavori, non essendo di per sé idoneo a dimostrare la volontà
effettiva del titolare della concessione di realizzare il
manufatto assentito.
Con il primo motivo di ricorso la società deduce la
violazione delle regole sul procedimento amministrativo ed
in specie dell’art. 7 della l. n. 241/1990, perché il Comune
resistente non l’avrebbe avvisata dall’avvio del
procedimento di diniego di proroga, né l’avrebbe avvertita
dell’effettuazione del sopralluogo nel cantiere volto ad
accertare l’inizio o meno dei lavori, in modo da consentirle
di parteciparvi.
Il motivo è manifestamente infondato, atteso che il
procedimento di proroga ha avuto avvio sulla base di
apposita istanza dell’odierna ricorrente, la quale era,
quindi, a conoscenza del procedimento stesso. Si rammenta in
proposito che, secondo la costante giurisprudenza (cfr.
ex plurimis, C.d.S., Sez. IV, 20.12.2005, n. 7257), la
previa comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 7
della l. n. 241/1990, non è richiesta quando il procedimento
è stato attivato su istanza di parte.
Non è, pertanto, condivisibile neanche la doglianza circa
l’effettuazione senza preavviso, da parte
dell’Amministrazione, di un sopralluogo sull’area di
cantiere finalizzato ad accertare l’inizio o meno dei
lavori, sia perché la ricorrente, come già detto, era ben
consapevole della sussistenza di un procedimento per il
rilascio della proroga, sia perché, comunque, si deve
considerare legittima l’effettuazione di accertamenti a
sorpresa da parte della P.A. qualora le circostanze lo
impongano per garantire la genuinità di tali accertamenti
(C.d.S., Sez. VI, 18.05.2004, n. 3190).
---------------
A fronte di ciò la difesa
comunale ha sottolineato la diversità tra le fattispecie
della proroga della concessione edilizia, ex art. 4, quarto
comma, della l. n. 10/1977, e della decadenza di tale
concessione, ex art. 31 della l. n. 1150/1942.
Ed invero, mentre l’art. 4 cit. consente la proroga della
concessione edilizia qualora, ferma restando la capacità
edificatoria dell’area interessata, nel corso
dell’esecuzione dei lavori si siano verificati dei fatti non
imputabili al titolare della concessione, che abbiano
ritardato i suddetti lavori, onde non far ricadere sul
soggetto incolpevole dei fatti a lui non attribuibili,
l’art. 31 della l. n. 1150 cit. disciplina la diversa
ipotesi della decadenza per fatti impeditivi discendenti
dalle scelte del Legislatore o della P.A. in sede di
pianificazione, che incidano sulla capacità edificatoria del
terreno. In questa seconda ipotesi, allora, non ha alcun
rilievo la non imputabilità del fatto al titolare della
concessione, né vi è possibilità di proroga della
concessione stessa, attesa la diversità degli interessi ivi
tutelati rispetto alla fattispecie ex art. 4, comma quarto
della l. n. 10/1977.
Con la comminatoria della decadenza ex art. 31 cit.,
infatti, il Legislatore ha inteso evitare che le costruzioni
ancora da realizzare alterino l’assetto urbanistico
stabilito con la nuova pianificazione (TAR Basilicata,
20.07.1996, n. 163). Nondimeno, la disposizione in esame
impedisce che si addivenga alla pronuncia di decadenza
quando i lavori siano iniziati e purché vengano completati
entro tre anni dalla data di inizio.
Sotto quest’ultimo profilo, pertanto, diventa decisivo
stabilire se nella fattispecie in esame i lavori fossero o
no iniziati.
Orbene, in proposito debbono essere sicuramente condivise le
conclusioni cui è addivenuta l’Amministrazione Comunale in
ordine al mancato inizio dei lavori. Per la giurisprudenza
consolidata, infatti, lo sbancamento del terreno non può, da
solo, essere considerato quale inizio dei lavori, non
essendo di per sé idoneo a dimostrare la volontà effettiva
del titolare della concessione di realizzare il manufatto
assentito (cfr., ex plurimis, TARLazio, Roma, Sez. II,
11.05.2006, n. 3480; C.d.S., Sez. IV, 03.10.2000, n. 5242)
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.03.2007 n. 372 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
decadenza dalla concessione edilizia per mancato inizio dei
lavori nel termine prefissato, a norma dell'art. 4 della L.
28.01.1977 n. 10, è un istituto giuridico fondato
sull'elemento oggettivo del decorso del tempo e, ai sensi
dell'art. 4, 4º comma, della L. 28.01.1977 n. 10, i predetti
termini indicati nell'atto sono intesi a dare certezza
temporale all'attività edificatoria; detto istituto è
rivolto, previo accertamento dello stato dell'attività
costruttiva alla scadenza del termine suddetto, solo a dare
certezza di una situazione già prodottasi al verificarsi dei
presupposti stabiliti dalla legge.
Il termine per l'inizio dell'attività edificatoria non è
suscettibile né di sospensione né di interruzione e non è,
pertanto, prorogabile; se, infatti, scaduto il termine di
validità del titolo autorizzatorio, l'attività di
trasformazione edilizia non è ancora iniziata, prevale
l'esigenza di consentire, nel preminente interesse pubblico,
la rivalutazione della perdurante conformità dell'intervento
assentito alla vigente normativa urbanistica, esigenza, che,
invece, nell'ottica del legislatore, si attenua in presenza
di un'attività edilizia già iniziata, benché non terminata
per fatti indipendenti dalla volontà del costruttore.
---------------
La decadenza dalla conseguita concessione edilizia si
verifica automaticamente "ope legis" per effetto del
semplice decorso dei termini stabiliti per l'inizio e
l'ultimazione dei lavori, avendo una portata ricognitiva e
dichiarativa del verificarsi dei presupposti richiesti dalla
legge e non sanzionatoria.
La perdita di efficacia della concessione edilizia si
collega infatti al mero decorso del termine indicato
nell'atto concessorio, inteso a dare certezza temporale
all'attività edificatoria; ne consegue che il provvedimento
di decadenza serve solo a certificare una situazione già
verificatasi al momento in cui sono venuti in essere i
presupposti stabiliti dalla legge e, come tale, è un atto
vincolato a carattere meramente dichiarativo.
Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce la
violazione ed errata applicazione dell’art. 4 della legge
28.01.1977 n. 10 ed eccesso di potere per presupposto
erroneo, atteso che nel caso concreto i lavori sarebbero
stati iniziati entro un anno dal rilascio della concessione
edilizia n. 76/82 del 14.09.1982.
Orbene, l'art. 4 della L. n. 10/1977 dispone testualmente
che "nell'atto di concessione sono indicati i termini di
inizio e di ultimazione dei lavori. Il termine per l'inizio
dei lavori non può essere superiore ad un anno; il termine
di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere abitabile
o agibile, non può essere superiore a tre anni e può essere
prorogato, con provvedimento motivato, solo per fatti
estranei alla volontà del concessionario, che siano
sopravvenuti a ritardare i lavori durante la loro
esecuzione. Un periodo più lungo per l'ultimazione dei
lavori può essere concesso esclusivamente in considerazione
della mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari
caratteristiche tecnico-costruttive; ovvero quando si tratti
di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più
esercizi finanziari. Qualora i lavori non siano ultimati nel
termine stabilito, il concessionario deve presentare istanza
diretta ad ottenere una nuova concessione; in tal caso la
nuova concessione concerne la parte non ultimata.".
La decadenza dalla concessione edilizia per mancato inizio
dei lavori nel termine prefissato, a norma dell'art. 4 della
L. 28.01.1977 n. 10, è un istituto giuridico fondato
sull'elemento oggettivo del decorso del tempo e, ai sensi
dell'art. 4, 4º comma, della L. 28.01.1977 n. 10, i predetti
termini indicati nell'atto sono intesi a dare certezza
temporale all'attività edificatoria; detto istituto è
rivolto, previo accertamento dello stato dell'attività
costruttiva alla scadenza del termine suddetto, solo a dare
certezza di una situazione già prodottasi al verificarsi dei
presupposti stabiliti dalla legge (TAR Campania Napoli, sez.
IV, 29.04.2004, n. 7513).
Il termine per l'inizio dell'attività edificatoria non è
suscettibile né di sospensione né di interruzione e non è,
pertanto, prorogabile; se, infatti, scaduto il termine di
validità del titolo autorizzatorio, l'attività di
trasformazione edilizia non è ancora iniziata, prevale
l'esigenza di consentire, nel preminente interesse pubblico,
la rivalutazione della perdurante conformità dell'intervento
assentito alla vigente normativa urbanistica, esigenza, che,
invece, nell'ottica del legislatore, si attenua in presenza
di un'attività edilizia già iniziata, benché non terminata
per fatti indipendenti dalla volontà del costruttore (TAR
Sardegna, 06.08.2003, n. 1001).
---------------
Oltretutto, la decadenza dalla
conseguita concessione edilizia si verifica automaticamente
"ope legis" per effetto del semplice decorso dei
termini stabiliti per l'inizio e l'ultimazione dei lavori,
avendo una portata ricognitiva e dichiarativa del
verificarsi dei presupposti richiesti dalla legge e non
sanzionatoria (Consiglio Stato, sez. IV, 13.04.2005, n.
1738).
La perdita di efficacia della concessione edilizia si
collega infatti al mero decorso del termine indicato
nell'atto concessorio, inteso a dare certezza temporale
all'attività edificatoria; ne consegue che il provvedimento
di decadenza serve solo a certificare una situazione già
verificatasi al momento in cui sono venuti in essere i
presupposti stabiliti dalla legge e, come tale, è un atto
vincolato a carattere meramente dichiarativo (TAR Lazio,
sez. II, 24.11.2004, n. 13996) (TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 05.01.2006 n. 59 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza è sostanzialmente univoca nel
non riconoscere ai soli lavori di sbancamento, non
accompagnati dalla compiuta organizzazione del cantiere e da
altri indizi idonei a confermare l’effettivo intendimento
del titolare della licenza (concessione) edilizia di
addivenire al compimento dell’opera, la qualità di inizio
dei lavori utile ai fini dell’applicazione del citato comma
decimo dell’articolo 31 della legge 17.08.1942, n. 1150.
Invero le opere realizzate, pur di modesta entità, debbono
risultare obiettivamente finalizzate alla realizzazione del
manufatto assentito sicché i lavori non possano considerarsi
fittizi o simbolici e, a questa stregua, non assumono
univoca valenza edificatoria preordinata all’intervento
edilizio specificamente assentito i semplici sbancamenti di
terreno.
Risulta per tabulas, infatti, le uniche opere poste
in essere prima della sospensione sindacale dei lavori
edilizi fossero semplicemente degli sbancamenti, non seguiti
da alcuna altra opera.
La giurisprudenza è sostanzialmente univoca nel non
riconoscere ai soli lavori di sbancamento, non accompagnati
dalla compiuta organizzazione del cantiere e da altri indizi
idonei a confermare l’effettivo intendimento del titolare
della licenza (concessione) edilizia di addivenire al
compimento dell’opera, la qualità di inizio dei lavori utile
ai fini dell’applicazione del citato comma decimo
dell’articolo 31 della legge 17.08.1942, n. 1150.
Invero le opere realizzate, pur di modesta entità, debbono
risultare obiettivamente finalizzate alla realizzazione del
manufatto assentito sicché i lavori non possano considerarsi
fittizi o simbolici e, a questa stregua, non assumono
univoca valenza edificatoria preordinata all’intervento
edilizio specificamente assentito i semplici sbancamenti di
terreno (C.d.S., V, 11.10.1996, n. 1227; V 30.06.1995, n.
938; V, 22.11.1993, n. 1165; V, 18.05.1987, n. 300; IV,
17.12.1984, n. 921)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.10.2000 n. 5242 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 04.02.2013 |
ã |
MOBILITA' |
PUBBLICO
IMPIEGO: il
Comune di Cisano Bergamasco (BG) cerca con mobilità
volontaria n. 1 geometra, cat. "C" a tempo pieno ed indeterminato, da
destinare all'Ufficio Tecnico
il cui
avviso di mobilità prevede il termine di martedì
26.02.2013 entro cui inviare le domande di
partecipazione. |
dite la vostra ...
RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA:
U. Grella,
Alcune volte il “sonno
urbanistico” provoca incubi (a proposito della
recente L.R. lombarda n. 21/2012 in materia di P.G.T.) (01.02.2013). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA:
L.R. n. 21 del 24.12.2012 – Decadenza
PRG – Applicazione delle misure di salvaguardia
(Fondazione de Iure Publico, Centro Studi Giuridici sulla
Pubblica Amministrazione - tratto da www.deiurepublico.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
P. L. Portaluri,
PRIMAUTÉ DELLA PIANIFICAZIONE URBANISTICA E REGOLAZIONE
DELLE ATTIVITÀ COMMERCIALI (link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
SINDACATI |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Il foglio dei lavoratori della Funzione Pubblica
(CGIL-FP di Bergamo,
gennaio 2013). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Le istruzione del Ministero dell'Interno per il
rimborso dello straordinario elettorale
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 28.01.2013). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: Modifiche concernenti il decreto legislativo
192/2005 sul rendimento energetico nell’edilizia (ANCE
Bergamo,
circolare 01.02.2013 n. 35). |
APPALTI:
Oggetto: Legge 221/2012: ulteriori modifiche al Codice
163/2006 (ANCE Bergamo,
circolare 25.01.2013 n. 25). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Breve nota sulle problematiche applicative della nuova
previsione relativa all'incompatibilità del sindaco nei
comuni da 5 a 20 mila abitanti (ANCI,
nota gennaio 2013). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 5 dell'01.02.2013
"Definizione dei criteri per l’applicazione delle
sanzioni di cui all’art. 8-bis, comma 1, della legge
regionale 29.09.2003 n. 17" (deliberazione
G.R. 30.01.2013 n. 4777).
----------------
Riguarda l’obbligo (non rispettato) per il proprietario
di comunicare (entro il 31.01.2013) all’ASL territorialmente
competente la presenza di manufatto in amianto. |
EDILIZIA
PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 5 dell'01.02.2013 "Integrazione
alla composizione del tavolo delle aree regionali protette
(l.r. 86/1983, art. 6, commi 3 e 4)"
(decreto
D.U.O. 29.01.2013 n. 532). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA:
G.U. 01.02.2013 n. 27
"Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani" (Legge
14.01.2013 n. 10). |
LAVORI PUBBLICI:
G.U. 01.02.2013 n. 27 "Indirizzi operativi volti ad
assicurare l’unitaria partecipazione delle organizzazioni di
volontariato all’attività di protezione civile" (direttiva
P.C.M. 09.11.2012). |
EDILIZIA
PRIVATA:
G.U. 30.01.2013 n. 25 "Regole tecniche relative agli
impianti condominiali centralizzati d’antenna riceventi del
servizio di radiodiffusione" (Ministero dello
Sviluppo Economico,
decreto 22.01.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
G.U. 25.01.2013 n. 21 "Modifica dell’Allegato A del
decreto legislativo 19.08.2005, n. 192, recante attuazione
della direttiva 2002/91/CE relativa al rendimento energetico
nell’edilizia" (D.M.
22.11.2012). |
UTILITA' |
LAVORI PUBBLICI:
APPALTI PUBBLICI: LINEE GUIDA PER LA GESTIONE
DELL’OFFERTA ECONOMICAMENTE PIU’ VANTAGGIOSA E LA REDAZIONE
DEGLI STUDI DI FATTIBILITA’.
La Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha
approvato, nella riunione del 24.01.2013, la “Guida
operativa per l’utilizzo del criterio di aggiudicazione
dell’offerta economicamente più vantaggiosa negli appalti di
lavori pubblici di sola esecuzione” e le “Linee
guida per la redazione di studi di fattibilità”,
realizzate entrambe nell'ambito del gruppo di lavoro
interregionale contratti pubblici di ITACA.
“Soddisfatto per l’approvazione delle due importanti
guide messe a punto sui tavoli tecnici di ITACA con la
preziosa collaborazione dei rappresentanti delle istituzioni
pubbliche, ordini professionali, imprese e sindacati, a cui
va tutto il nostro ringraziamento”. E’ quanto ha
sottolineato Ugo Cavallera, Presidente di ITACA, organo
tecnico della Conferenza delle Regioni e delle Province
autonome.
“L’obiettivo del nostro lavoro” continua Cavallera “è
quello di contribuire a migliorare qualitativamente il
sistema della contrattualistica pubblica che assorbe gran
parte spesa pubblica attraverso strumenti che possano
aiutare concretamente l’operato dei tecnici delle stazioni
appaltanti impegnati quotidianamente nella gestione di
procedure sempre più complesse in un settore iper
regolamentato. Inoltre, la crescente scarsità di risorse a
disposizione delle pubbliche amministrazioni impone alle
stesse di dotarsi di strumenti atti a consentirne una
gestione ed una politica di investimenti pubblici che sia il
più possibile razionale, efficiente ed economicamente
sostenibile”.
La guida sul criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa rappresenta un valido supporto alle stazioni
appaltanti nella delicata gestione degli affidamenti di
appalti di lavori pubblici per la sola esecuzione.
Con l’applicazione di tale criterio, che comporta una
elevata complessità tecnica nella gestione della procedura,
l’amministrazione aggiudicatrice ha maggiore possibilità di
rispondere più appropriatamente ai bisogni espressi dalla
collettività pubblica su esigenze di tipo economico,
ambientale, sociale, attivando un più efficace contrasto a
fenomeni di infiltrazione della criminalità organizzata e
del lavoro nero e garantendo, in maniera trasparente, una
maggiore competizione tra gli operatori economici.
La guida, elaborata da tecnici che hanno piena conoscenza
delle problematiche che occorre affrontare o che possono
sopravvenire nel corso dell'aggiudicazione ed esecuzione
dell'appalto, fornisce un contributo di tipo pratico sia per
la fase di impostazione della procedura che per la fase di
esecuzione del contratto attraverso suggerimenti per la
stesura della documentazione di gara e dello stesso
contratto.
La guida per la redazione degli studi di fattibilità
nei procedimenti riguardanti opere pubbliche, origina,
prioritariamente, dalla necessità di mettere a “fattor
comune” le esperienze maturate a livello regionale che
già oggi, pur in assenza di un obbligo normativo, utilizzano
lo studio di fattibilità quale strumento di selezione dei
progetti tramite verifica preventiva circa la fattibilità
tecnica, economico-finanziaria, ambientale, amministrativa e
procedurale dei diversi interventi per i quali si richiede
un contributo regionale.
Le linee guida ITACA costituiscono pertanto un utile
strumento di lavoro quale riferimento per la redazione degli
studi di fattibilità di opere pubbliche o di interesse
pubblico (tratto da www.itaca.org). |
QUESITI & PARERI |
SICUREZZA
LAVORO: Duvri.
Domanda.
In quali situazioni è necessario predisporre il documento
unico di valutazione dei rischi da interferenza (Duvri)?
Risposta.
L'articolo 26 del dlgs n. 81/2008, recante disposizioni in
materia di «Obblighi connessi ai contratti d'appalto o
d'opera o di somministrazione» prevede al comma 3 che «il
datore di lavoro committente promuove la cooperazione e il
coordinamento di cui al comma 2, elaborando un unico
documento di valutazione dei rischi che indichi le misure
adottate per eliminare o, ove ciò non è possibile, ridurre
al minimo i rischi da interferenze. Tale documento è
allegato al contratto di appalto o di opera e va adeguato in
funzione dell'evoluzione dei lavori, servizi e fornitura. Ai
contratti stipulati anteriormente al 25.08.2007 e ancora
in corso alla data del 31.12.2008, il documento di cui
al precedente periodo deve essere allegato entro tale ultima
data. Le disposizioni del presente comma non si applicano ai
rischi specifici propri dell'attività delle imprese
appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi. Nel campo di
applicazione del decreto legislativo 12.04.2006 n. 163,
e successive modificazioni, tale documento è redatto, ai
fini dell'affidamento del contratto, dal soggetto titolare
del potere decisionale e di spesa relativo alla gestione
dello specifico appalto».
Il datore di lavoro committente
deve, dunque, promuovere la cooperazione e il coordinamento
in primo luogo elaborando un unico documento di valutazione
dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare o,
ove ciò non è possibile, ridurre al minimo i rischi da
interferenze (c.d. Duvri), che deve sempre riflettere lo
stato attuale delle interferenze presenti durante i lavori,
servizi e forniture. L'art. 26, comma 3, esclude l'obbligo
di promuovere la cooperazione e il coordinamento per il
datore di lavoro committente per i «rischi specifici delle
attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori
autonomi», ma questa esclusione va riferita non alle
generiche precauzioni da adottarsi negli ambienti di lavoro
per evitare il verificarsi di incidenti, ma alle regole che
richiedono una specifica competenza tecnica settoriale -generalmente mancante in chi opera in settori diversi-
nella conoscenza delle procedure da adottare nelle singole
lavorazioni o nell'utilizzazione di speciali tecniche o
nell'uso di determinate macchine (Cass. sez. IV, 17/05/2005,
n. 31296, rv. 231658, Mogliani).
Va, per esempio,
sottolineato, che «non può... considerarsi rischio specifico
quello derivante dalla generica necessità di impedire crolli
di solai dovuta alla fatiscenza delle strutture portanti,
[essendo] questo pericolo, riconoscibile da chiunque
indipendentemente dalle sue specifiche competenze» (Sez. 4,
Sentenza n. 12348 del 29/1/2008 Ud. Rv. 239252); dunque i
rischi «riconoscibili da chiunque indipendentemente dalle
sue specifiche competenze» sono oggetto del Duvri. Nel campo
di applicazione del dlgs. 163/2006 (codice dei contratti
pubblici), il Duvri va redatto dal soggetto titolare del
potere decisionale e di spesa relativo alla gestione dello
specifico appalto, che resta dunque legalmente l'unico
soggetto direttamente responsabile in caso di omessa
predisposizione.
L'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture, con la
determinazione n. 3 del 05.03.2008, recante disposizioni
in materia di «Sicurezza nell'esecuzione degli appalti
relativi a servizi e forniture. Predisposizione del
documento unico di valutazione dei rischi (Duvri) e
determinazione dei costi della sicurezza» (G.U. n. 64 del
15/03/2008 ) precisa quanto di seguito riportato: «si parla
di interferenza nella circostanza in cui si verifica un
«contatto rischioso» tra il personale del committente e
quello dell'appaltatore o tra il personale di imprese
diverse che operano nella stessa sede aziendale con
contratti differenti. In linea di principio, occorre mettere
in relazione i rischi presenti nei luoghi in cui verrà
espletato il servizio o la fornitura con i rischi derivanti
dall'esecuzione del contratto. Le Stazioni appaltanti hanno
come unico riferimento per la redazione del Duvri l'art. 7
del citato decreto legislativo n. 626/1994 riguardante i
contratti di appalto o contratti d'opera, che non fornisce
indicazioni di dettaglio sulle modalità operative per la sua
redazione. Dal dettato normativo, tuttavia, discende che il
Duvri deve essere redatto solo nei casi in cui esistano
interferenze. In esso, dunque, non devono essere riportati i
rischi propri dell'attività delle singole imprese
appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi, in quanto
trattasi di rischi per i quali resta immutato l'obbligo
dell'appaltatore di redigere un apposito documento di
valutazione e di provvedere all'attuazione delle misure
necessarie per ridurre o eliminare al minimo tali rischi. In
assenza di interferenze non occorre redigere il Duvri_».
È
stato sottolineato dal Ministero del lavoro che «vi è la
necessità, negli appalti pubblici o privati, di realizzare
la cooperazione e il coordinamento tra committenti e
appaltatori al fine della predisposizione della sicurezza
«globale» delle opere e dei servizi da realizzare. Tale
obiettivo risulta essere raggiungibile mediante
l'elaborazione di uno specifico documento che formalizza
tutta l'attività di cooperazione, coordinamento e
informazione reciproca delle imprese coinvolte ai fini
dell'eliminazione ovvero della riduzione dei possibili
rischi legati all'interferenza delle diverse lavorazioni,
tale obiettivo si raggiunge mediante la stesura del Duvri,
la cui redazione deve essere effettuata con la stessa logica
del Piano di sicurezza e coordinamento (Psc) previsto per i
cantieri temporanei e mobili» (Titolo IV del dlgs n.
81/2008).
In questo modo, si estende a tutti i settori di
attività l'obiettivo di lasciare una traccia precisa e
puntuale delle «attività prevenzionistiche» poste in essere
da tutti i soggetti che, a qualunque titolo, interagiscono
nell'appalto. Il Duvri, elaborato a cura del
committente-datore di lavoro, racchiude le linee guida
operative che devono essere seguite dalle imprese e dai
lavoratori autonomi coinvolti nelle attività oggetto di
appalto. Viene poi indicato che nel contratto di appalto
vanno identificati i costi relativi alla realizzazione delle
misure adottate per eliminare o ridurre al minimo i rischi
derivanti dalle interferenze delle lavorazioni a pena
nullità del contratto stesso e che i Rappresentanti dei
Lavoratori per la sicurezza (Rls) e gli organismi locali
delle organizzazioni sindacali dei lavoratori hanno diritto
di accesso ai dati relativi ai costi della sicurezza. La
Circolare n. 5/2011 dell'11.02.2011 del Ministero del
lavoro sul quadro giuridico degli appalti ha, inoltre,
stabilito che i Rappresentanti dei lavoratori (Rls) hanno la
possibilità di richiedere copia del Duvri stesso per
l'espletamento della propria funzione».
La Cassazione ha
precisato che «in materia di normativa antinfortunistica, il
datore di lavoro [committente] è titolare di una posizione
di garanzia e di controllo dell'integrità fisica anche dei
lavoratori dipendenti dell'appaltatore e dei lavoratori
autonomi operanti nell'impresa, poiché, ai sensi dell'art.
7, dlgs n. 626 del 1994 [ora art. 26 dlgs. n. 81/2008] è
tenuto, tra l'altro, a cooperare all'attuazione delle misure
di prevenzione e protezione e a fornire alle imprese
appaltatrici e ai lavoratori autonomi dettagliate
informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente di
lavoro» [Cass. pen., Sez. 4, Sentenza n. 13917 del 17/01/2008 Ud. (dep. 3/4/2008 )].
La sentenza Cassazione penale, Sez.
4, 21.02.2012, n. 6857 ha fornito una accezione meglio
definita di interferenza, e di conseguenti obblighi prevenzionali: l'accezione di interferenza tra impresa
appaltante e impresa appaltatrice non può ridursi, ai fini
della individuazione di responsabilità colpose penalmente
rilevanti, al riferimento alle sole circostanze che
riguardano «contatti rischiosi» tra il personale delle due
imprese, ma deve fare necessario riferimento anche a tutte
quelle attività preventive, poste in essere da entrambe
antecedenti ai contatti rischiosi, destinate, per l'appunto,
a prevenirli. In sostanza, ancorché il personale della ditta
appaltatrice operi autonomamente nell'ambito del luogo di
lavoro della ditta appaltante, deve esser messo in
condizione di conoscere, a cura della appaltante,
preventivamente i rischi cui può andare incontro in quel
luogo di lavoro con riferimento, ovviamente, all'attività
lavorativa che deve ivi svolgere.
Il principio generale in
materia di interferenze tra ditta appaltante e appaltatrice,
affermato con continuità da questa Corte è quello che, ove i
lavori si svolgano nello stesso cantiere predisposto
dall'appaltante in esso inserendosi anche l'attività
dell'appaltatore per l'esecuzione di un'opera parziale e
specialistica (ivi compresa, ovviamente, anche quella di cui
ci si occupa), e non venendo meno l'ingerenza
dell'appaltante e la diretta riconducibilità (quanto meno)
anche a lui dell'organizzazione del comune cantiere, in
quanto investito dei poteri direttivi generali inerenti alla
propria qualità, sussiste la responsabilità di entrambi tali
soggetti in relazione agli obblighi antinfortunistici, alla
loro osservanza e alla dovuta sorveglianza al riguardo.
Un'esclusione della responsabilità dell'appaltante è
configurabile solo qualora all'appaltatore sia affidato lo
svolgimento di lavori, ancorché determinati e circoscritti,
che svolga in piena e assoluta autonomia organizzativa e
dirigenziale rispetto all'appaltante, e non nel caso in cui
la stessa interdipendenza dei lavori svolti dai due soggetti
escluda ogni estromissione dell'appaltante
dall'organizzazione del cantiere. Nella ricorrenza delle
anzidette condizioni, trattandosi di norme di diritto
pubblico che non possono essere derogate da determinazioni pattizie, non potrebbero avere rilevanza operativa, per
escludere la responsabilità dell'appaltante, neppure
eventuali clausole di trasferimento del rischio e della
responsabilità intercorse tra questi e l'appaltatore».
La
sanzione penale contravvenzionale, che punisce la violazione
dell'articolo 26, comma 3, del dlgs n. 81/2008, oblazionabile
in via amministrativa col tramite degli ufficiali di polizia
giudiziaria (u.p.g.) dei servizi ispettivi nei luoghi di
lavoro delle Asl territorialmente competenti è dell'ammenda
da 2 mila a 4 mila euro a carico del datore di lavoro o del
dirigente eventualmente delegato in modo specifico per tal
fine, per violazione dell'art. 18, lett. p), del dlgs n.
81/2008 (obbligo di elaborare il documento di cui
all'articolo 26, comma 3) (articolo ItaliaOggi Sette
del 28.01.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Anzio - Parere in merito all'applicabilità
dell'art. 36 del d.P.R. 380/2001 ad abusi conformi alla
legge regionale 21/2009 c.d. Piano Casa (Regione Lazio,
parere
18.01.2013 n. 488227 di prot.). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Comune di Sutri - Parere in merito al rilascio di un
permesso di costruire per il completamento di un edificio a
destinazione residenziale (Regione Lazio,
parere
18.01.2013 n. 353373 di prot.). |
CORTE DEI CONTI |
EDILIZIA
PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Parere in materia di personale in merito alla
sottoposizione dei compensi aggiuntivi che un Ente
intenderebbe corrispondere al personale dell'ufficio
edilizia per lo svolgimento dell'istruttoria delle domande
di concessione o di autorizzazione in sanatoria al momento
pendenti nell’ambito dei vincoli al trattamento accessorio
dei dipendenti imposti dall'art. 9, c. 2-bis, del D.L.
78/2010.
... il sindaco conclusivamente pone alla Sezione i seguenti
quesiti:
1. se le risorse che si vorrebbe destinare
ai sensi dell'art. 32, c. 40, del D.L. 269/2003 convertito
nella L. 326/2003 a compensare l'attività, oltre l'orario di
lavoro ordinario, del personale per l'espletamento delle
istruttorie connesse al rilascio delle concessioni in
sanatoria relativamente e specificamente riferite alle varie
leggi statali e regionali inerenti il condono edilizio,
possano ritenersi escluse dall'ambito applicativo dell'art.
9, c. 2-bis, del D.L.78/2010;
2. se, poiché sulla materia delle concessioni in sanatoria
inerenti il condono edilizio il legislatore risulta essere
intervenuto con disposizioni speciali, con vincoli di
allocazione e di tipologia di impegno contabile e con
previsioni puntuali destinate a finanziare l'incremento
della produttività nello smaltimento dei carichi di lavoro
relativi all'istruttoria "connessa al rilascio delle
concessioni in sanatoria", tali somme possano essere
erogate ai dipendenti senza transitare dal fondo della
produttività rimanendo allocate al titolo Il della spesa
come previsto dall'art. 2, c. 48, della L. n. 662/1996.
...
In merito al primo quesito prospettato dall’ente,
giova premettere che sulla possibilità di considerare
escluse dai vincoli di cui all’articolo 9, comma 2-bis, del
DL /8/2010 le voci che alimentano il fondo risorse
decentrate previste da specifiche disposizioni di legge ai
sensi dell'art. 15, comma 1, lettera k), del CCNL 01/04/1999
e quelle previste dalla lettera d) del medesimo comma, ed in
particolare i compensi ai sensi della Legge 24/11/2003 n.
326 destinati ad incentivare il personale dedicato
all'istruttoria e definizione delle domande di condono
edilizio questa Sezione si era già pronunciata con
deliberazione n. 280/2012/PAR.
In quella sede si era affermato che “i criteri che
sovraintendono le modalità per la valutazione delle voci da
escludere o meno al fine della composizione del Fondo siano
rinvenibili nella deliberazione delle Sezioni riunite (di
seguito SS. RR.) n. 51/CONTR/2011 del 04.10.2011 resa in
sede di nomofilachia e vertente sulla portata dei vincoli
introdotti dall’articolo 9, comma 2-bis, del D.L. 31.05.2010
n. 78 convertito in Legge 30.07.2010 n. 122.
Per le SS.RR. la disposizione sopra richiamata è da
considerarsi di stretta interpretazione; sicché, in via di
principio, non sembra ammettere deroghe o esclusioni (cfr.
anche delibera n. 285/2011/PAR di questa Sezione) in quanto
la regola generale voluta dal legislatore è quella di porre
un limite alla crescita dei fondi della contrattazione
integrativa destinati alla generalità dei dipendenti
dell’ente pubblico.
Al riguardo, questa Sezione ha avuto modo di sottolineare
(deliberazioni n. 185/2012/PAR comune di Padova), che la
Corte ha abbandonato il precedente criterio di esclusione
della spesa del personale basato sulla circostanza che si
tratti di compensi pagati con fondi che si autoalimentano
con i frutti dell'attività svolta dai dipendenti e, di
conseguenza, non comportano un effettivo aumento di spesa
(Sez. Autonomie 16/2009; cfr. per l’applicazione di questo
principio, questa Sezione delibera 57/2010/PAR) esprimendo,
infatti, l’opzione per un criterio fondato sull’esclusione
delle sole risorse di alimentazione dei fondi destinate a
remunerare prestazioni professionali tipiche di soggetti
individuati o individuabili e che peraltro potrebbero essere
acquisite attraverso il ricorso all’esterno
dell’amministrazione pubblica con possibili costi aggiuntivi
per il bilancio dei singoli enti (cfr. Corte dei conti
SS.RR.QM 51/CONTR/11 del 04.10.2011).
Detta caratteristica ricorre per quelle risorse finalizzate
a incentivare prestazioni poste in essere per la
progettazione di opere pubbliche “…in quanto in tal caso si
tratta all’evidenza di risorse correlate allo svolgimento di
prestazioni professionali specialistiche offerte da
personale qualificato in servizio presso l’amministrazione
pubblica; peraltro, laddove le amministrazioni pubbliche non
disponessero di personale interno qualificato, dovrebbero
ricorrere al mercato attraverso il ricorso a professionisti
esterni con possibili aggravi di costi per il bilancio
dell’ente interessato”.
Deve aggiungersi, con specifico riferimento a tale tipologia
di prestazione professionale, che essa afferisce ad attività
sostanzialmente finalizzata ad investimenti. Per le Sezioni
riunite caratteristiche analoghe presentano anche le risorse
che affluiscono al fondo per remunerare le prestazioni
professionali dell’avvocatura interna
(comunale/provinciale), in quanto, pure in questo caso, si
tratta di prestazioni professionali tipiche la cui provvista
all’esterno potrebbe comportare aggravi di spesa a carico
dei bilanci delle amministrazioni pubbliche.
Aggiunge ancora il Collegio che detto criterio, qualificante
le ipotesi di deroga al divieto di superamento del tetto di
spesa 2009 del Fondo, viene affiancato da un ulteriore
criterio che concorre, in quanto contestualmente applicato,
a delimitare le voci da includere od escludere qualora le
stesse contribuiscano a determinare lo sforamento del limite
posto dal legislatore. Affermano, infatti, le Sezioni
riunite che “….diversamente le risorse che alimentano il
fondo derivanti dal recupero dell’ICI o da contratti di
sponsorizzazione non si sottraggono alla regola generale
sopra indicata, nel senso cioè che esse devono essere
computate ai fini della determinazione del tetto di spesa
posto al fondo per la contrattazione integrativa dall’art.
9, comma 2-bis, citato, in quanto, a differenza delle
risorse destinate ai progettisti interni e agli avvocati
comunali/provinciali …sono potenzialmente destinabili alla
generalità dei dipendenti dell’ente attraverso lo
svolgimento della contrattazione integrativa".
Proprio i due criteri, fissati dalle Sezioni Riunite nel
parere 51/CONTR/2011 sopra richiamati che il comune di
Sommacampagna mostra di ben conoscere forniscono, dunque, un
valido strumento in base al quale le amministrazioni, tra le
quali quella richiedente il parere, possono individuare le
voci che concorrono alla determinazione dell’ammontare del
fondo al fine dell’applicazione del tetto di spesa di cui al
ricordato art. 9, comma 2-bis, del DL 78/2010.
Tuttavia, è dato evidenziare che la ricostruzione fornita
dall’ente appare in parte persuasiva in relazione alla tesi
della non riconducibilità delle risorse di cui trattasi al
vincolo dell’articolo 2, comma 2-bis, del D.L. 7/2010.
Invero, questa Sezione prima dell’entrata in vigore
dell’art. 9 comma 2-bis, seppur in relazione alla
riconducibilità o meno di dette spese a quelle di personale,
aveva avuto modo di sostenere il carattere di specialità
delle norme sui proventi da condono, anche attraverso una
qualificazione giuridica delle risorse interessate,
ritenendo che “dal momento che si tratta di norme
speciali e derogatorie alla disciplina generale del
trattamento accessorio del personale: si tratta, nella
fattispecie, di compensi corrisposti con fondi che si
autoalimentano con i diritti di segreteria che, di
conseguenza, non comportano un effettivo aumento di spesa e
inoltre si può certamente ipotizzare che la relativa
attività possa essere svolta in tutto o in parte mediante
incarico esterno.
La soluzione è corroborata dal fatto che essa presenta una
ulteriore singolarità, rispetto alle altre considerate in
precedenza, ovvero che la relativa attività deve essere
svolta fuori orario di lavoro (v. art. 32, comma 40, del
D.L. n. 269 del 2003, conv. L. n. 326 del 2003: “Per
l'attività istruttoria connessa al rilascio delle
concessioni in sanatoria i comuni possono utilizzare i
diritti e oneri di cui al precedente periodo, per progetti
finalizzati da svolgere oltre l'orario di lavoro
ordinario”), e perciò del tutto assimilabile all’attività
professionale, mentre le prime soggiacciono alla disciplina
generale dell’orario di lavoro (ordinario o straordinario).
Ritiene pertanto la Sezione che la spesa relativa ai cc.dd.
compensi per i condoni, in analogia a quanto statuito dalla
delibera n. 16/2009 della Sezione Autonomie per i compensi
per gli accertamenti ICI, a quelli di rogito e a quelli per
la progettazione (art. 92 del d.lgs. 163/2006), non debba
essere computata ai fini del rispetto del limite della spesa
di personale” (questa sezione deliberazione n.
57/2010/PAR).
Da detta deliberazione emerge chiaramente che l'attività
istruttoria connessa al rilascio delle concessioni in
sanatoria dei comuni appare “del tutto assimilabile
all’attività professionale” ed in quanto tale
qualificabile come servizio che potrebbe essere ben
esternalizzato dal comune. Quando invece viene affidata a
dipendenti dell’ente la stessa attività deve essere svolta “per
progetti finalizzati da svolgere oltre l'orario di lavoro
ordinario”.
La possibilità di esternalizzare detta attività si trae
peraltro dalla stessa disposizione normativa. Infatti, la
Legge 23-12-1996 n. 662 recante “Misure di
razionalizzazione della finanza pubblica”, all’articolo
2, comma 48, dispone che “I comuni sono tenuti ad
iscrivere nei propri bilanci le somme versate a titolo di
oneri concessori per la sanatoria degli abusi edilizi in un
apposito capitolo del titolo IV dell’entrata. Le somme
relative sono impegnate in un apposito capitolo del titolo
II della spesa. I comuni possono utilizzare le relative
somme per far fronte ai costi di istruttoria delle domande
di concessione o di autorizzazione in sanatoria, per
anticipare i costi per interventi di demolizione delle opere
di cui agli articoli 32 e 33 della legge 28.02.1985, n. 47,
e successive modificazioni, per le opere di urbanizzazione
primaria e secondaria, per interventi di demolizione delle
opere non soggette a sanatoria entro la data di entrata in
vigore della presente legge, nonché per gli interventi di
risanamento urbano ed ambientale delle aree interessate
dall’abusivismo. I comuni che, ai sensi dell’articolo 39,
comma 9, della legge 23.12.1994, n. 724, hanno adottato
provvedimenti per consentire la realizzazione di opere di
urbanizzazione con scorporo delle aliquote, possono
utilizzare una quota parte delle somme vincolate per la
costituzione di un apposito fondo di garanzia per l’autorecupero,
con l’obiettivo di sostenere l’azione delle forme consortili
costituitesi e di integrare i progetti relativi alle
predette opere con progetti di intervento comunale”.
Mentre, al successivo comma 49 si prevede che per “l'attività
istruttoria connessa al rilascio delle concessioni in
sanatoria i comuni possono utilizzare i fondi all'uopo
accantonati, per progetti finalizzati da svolgere oltre
l'orario di lavoro ordinario, ovvero nell'ambito dei lavori
socialmente utili. I comuni possono anche avvalersi di
liberi professionisti o di strutture di consulenze e servizi
ovvero promuovere convenzioni con altri enti locali”.
Come evidenziato, la stessa legge prevede con il comma 48
una specifica destinazione delle somme versate a titolo di
oneri concessori per la sanatoria degli abusi edilizi in
apposito capitolo (del titolo IV dell’entrata): somme sulle
quali si forma, in base alla medesima disposizione, un
correlativo vincolo di destinazione delle spese effettuabili
da iscriversi in un apposito capitolo (del titolo II della
spesa). La norma prevede, altresì, la possibilità di
considerare l’attività di trattazione delle pratiche di
condono edilizio quale servizio e, pertanto al pari degli
altri servizi, detta attività è esternalizzabile a
professionisti o strutture di consulenza.
Da ciò emerge chiaramente la distinzione tra attività
esternalizzabile qualificabile come servizio e attività non
esternalizzabile che si appalesa quale funzione dell’ente,
distinzione che questa Sezione aveva avuto modo di chiarire
nel suo parere n. 185/2012/PAR, proprio in relazione
all’operatività della deliberazione n. 51/CONTR/2011. In
detto parere si affermava che “il nuovo indirizzo assunto
dalla SSRR, decisamente più restrittivo del precedente,
valorizza implicitamente infatti la antica ma sempre valida
distinzione tra funzioni (essenzialmente dirette
all'esplicazione di pubbliche potestà e che, per quel che
riguarda gli Enti locali, vanno riservate almeno
tendenzialmente ai loro organi e uffici istituzionali»: Tar
Lazio 1512 - 30.09.1997) e servizi (consistenti
precipuamente in attività di ordine tecnico o materiale), il
cui connotato fondamentale è quello inerente a prestazioni
professionali tipiche la cui provvista all’esterno potrebbe
comportare aggravi di spesa a carico dei bilanci delle
amministrazioni pubbliche mediante il ricorso al mercato
(Corte dei conti SS.RR.QM 51/CONTR/11 del 04.10.2011).
La distinzione tra i «servizi pubblici» e le «pubbliche
funzioni» -presa in considerazione dalla giurisprudenza
anche di questa Corte (ex multis, Corte conti
Lombardia/627/2011/PAR, sez. contr. Lazio, 14.02.2011, n.
15; Corte conti, sez. contr. 14.02.2011, n. 15; Sez. contr.
Piemonte, 25.02.2010, n. 28; 15.04.2011, n. 47)- è peraltro
nota non solo sul piano terminologico ma anche sostanziale
anche al legislatore della legge sulle autonomie locali che,
in varie disposizioni della legge stessa, ha fatto più volte
uso sia del termine «funzioni» che di quello «servizi»
(nello stesso senso, cfr. Tar Lazio 1512 - 30.09.1997).
La ratio è chiara: ove per l’espletamento di un determinato
servizio si possa attingere al mercato attraverso il ricorso
a professionisti esterni con possibili aggravi di costi per
il bilancio dell’ente interessato (Corte dei conti SS.RR.QM
51/CONTR/11 del 04.10.2011), l’amministrazione può e deve
effettuare una valutazione sull’economicità della spesa
affidando tale servizio a risorse interne e compensandole in
modo specifico, escludendo nel contempo che le risorse siano
potenzialmente destinabili alla generalità dei dipendenti
dell’ente attraverso lo svolgimento della contrattazione
integrativa" (Corte dei conti SS.RR.QM 51/CONTR/11 del
04.10.2011).
Applicando le coordinate interpretative sopra richiamate,
sia derivanti dal dettato normativo che dalla lettura
fornita dalla richiamata deliberazione n. 185/2012/PAR,
emerge pacificamente come l’attività di disbrigo delle
pratiche di condono possa essere qualificata come servizio
anche perché affidabile all’esterno e detto affidamento può
dunque involgere, proprio in applicazione delle coordinate
ermeneutiche fissate nella deliberazione delle SS.RR n.
51/2011, professionisti od organi di consulenza esterni ma,
anche dipendenti dell’ente che svolgano detta attività al di
fuori dell’orario ordinario di lavoro. Di tal che, comunque,
l’ente avrebbe la scelta se affidare il servizio,
finalizzato all’espletamento delle pratiche di condono
all’esterno o all’interno tramite progetto. Possibilità,
quest’ultima, prevista specificamente dalla norma laddove
l’articolo 32, comma 40, del DL 30.09.2003 n. 269 convertito
in Legge 24.11.2003 n. 326 prevede che ”…….Per l'attività
istruttoria connessa al rilascio delle concessioni in
sanatoria i comuni possono utilizzare i diritti e oneri di
cui al precedente periodo, per progetti finalizzati da
svolgere oltre l'orario di lavoro ordinario”.
L’evidenziato approdo interpretativo trova una sua conferma
nella posizione assunta dalla sezione regionale di controllo
per la Campania che nel parere 166/2012/PAR, soffermandosi
nel carattere speciale della normativa sul condono sopra
richiamata ha affermato che “………..Le predette norme,
oltre a classificare nell’alveo delle poste in conto
capitale i proventi in argomento (introducendo l’obbligo di
impegnare gli stessi “in un apposito capitolo del titolo II
della spesa”, relativo, appunto, alle spese in conto
capitale), conferiscono agli enti –sia pure nell’ambito
delle tipologie indicate nel menzionato comma 48 e con le
conseguenze derivanti dalla natura di tali poste- un’ampia
discrezionalità in ordine alle effettive modalità di
utilizzo di siffatti proventi, così come analoga
discrezionalità è stata prevista dal legislatore –al fine di
consentire l’ottimizzazione dell’attività istruttoria
connessa al rilascio delle concessioni in sanatoria- nella
particolare ipotesi normativa relativa al possibile utilizzo
di fondi eventualmente accantonati, i quali possono essere
destinati, per quello che rileva nel caso che ne occupa,
anche a “progetti finalizzati da svolgere oltre l’orario di
lavoro ordinario” (comma 49).…………Il legislatore appare aver
così disciplinato –in particolare aggiungendo, in sede di
conversione del menzionato decreto-legge, la previsione di
cui all’ultimo periodo del menzionato comma 40- una
specifica modalità di possibile utilizzazione delle risorse
in questione, che l’Ente può infatti destinare (nelle forme
ed alle condizioni di legge) al finanziamento proprio di
quei “progetti finalizzati da svolgere oltre l’orario di
lavoro ordinario ” testualmente previsti dall’art. 2, comma
49, della legge n° 662 del 1996; risorse che, per la
specialità della suddetta disposizione normativa
applicativa, nonché per la loro caratteristica strutturale,
non appaiono soggette alla disciplina di cui all’art. 9,
comma 2-bis, del decreto-legge n° 78 del 2010, cui fa
riferimento l’Ente interpellante, pur rimanendo assoggettate
all’inderogabile vincolo tipologico di impegno (e di
destinazione) specificamente prescritto per “l’apposito
capitolo” dal già menzionato, e tuttora vigente, comma 48
dell’art. 2 della legge n° 662 del 1996”. Conclude la
Sezione campana affermando che “……..Ciò premesso, è evidente
che, nell’esercizio della propria discrezionalità
amministrativa, l’ente potrebbe, in astratto, anche
prevedere di incentivare l’attività istruttoria finalizzata
alla definizione delle domande di sanatoria mediante la
“corresponsione di compensi aggiuntivi da destinare al
personale dell’Ufficio tecnico tramite” l’utilizzazione (e
non l’incremento rispetto all’anno precedente) “del fondo
per la contrattazione decentrata” (ipotesi peraltro, mutatis
mutandis, specificamente prospettata nella richiesta di
parere de qua – pag. 2, righi 13-15), con ciò, però, da una
parte, non potendo –ratione vinculorum– far rifluire in
detto fondo le “somme versate a titolo di oneri concessori
per la sanatoria degli abusi edilizi”, di cui al già
menzionato comma 48, da iscriversi al titolo IV dell’entrata
e da impegnarsi -ex lege- al titolo II della spesa (infatti,
con l’utilizzo di detta modalità, l’Amm.ne si porrebbe al di
fuori del contesto delle ipotesi tipizzate di possibile
utilizzo dei diritti e degli oneri concessori di che
trattasi, dettagliatamente elencate nella normativa speciale
innanzi menzionata); dall’altra, ricadendo,
conseguentemente, nell’obbligo dell’osservanza della
disciplina generale che attualmente limita –senza alcuna
distinzione finalistica- la possibilità di incremento
dell’ammontare complessivo delle risorse destinate
annualmente al trattamento accessorio del personale, nel
rispetto del vigente limite di cui al comma 2-bis dell’art.
9 innanzi citato”.
Dette considerazioni, che questa Sezione condivide
consentono di dare risposta anche al secondo quesito
prospettato dal comune di Sommacampagna.
Conclusivamente, alla luce di quanto evidenziato, il
Collegio ritiene che i proventi da diritti
ed oneri da rilascio delle concessioni edilizie in sanatoria
destinati a specifici progetti riguardanti la relativa
attività di disbrigo delle pratiche, da svolgersi oltre
l’ordinario (e straordinario orario di lavoro), sono esclusi
(sterilizzati) dall’applicazione del vincolo di cui
all’articolo 9, comma 2-bis, del DL 78/2010.
Ciò, purché sia stato costituito mediante apposito atto
regolamentare un vincolo di destinazione delle relative
somme (che non potranno assolutamente assorbire l’intera
posta delle risorse collocate nell’apposito capitolo del
titolo IV dell’entrata e che alimentano anche altre spese
previste dal comma 48 richiamato) da iscrivere nell’apposito
capitolo di spesa di bilancio ai sensi dell’articolo 2,
comma 48, della Legge 662/1996
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 22.01.2013 n. 31). |
NEWS |
ENTI LOCALI: Uffici in
vetrina.
La p.a. ora può scegliere on-line.
Il Demanio lancia il nuovo applicativo «Paloma».
Una bacheca immobiliare on-line per la pubblica
amministrazione. Si chiama «Paloma» ed è il nuovo
applicativo messo a punto dall'Agenzia del demanio per
consentire alla p.a. di individuare gli immobili disponibili
sul mercato, offerti in locazione e in vendita, funzionali
alle proprie esigenze.
Tutti i proprietari (enti pubblici territoriali e non, ma
anche i privati) interessati ad affittare e vendere immobili
potranno registrarsi al sistema, compilando l'apposito
modulo presente sul sito all'indirizzo
http://paloma.agenziademanio.it e inserendo tutti
i dati e i documenti che verranno richiesti dalla
piattaforma. Le inserzioni potranno essere visualizzate solo
dal personale dell'Agenzia del demanio e delle
amministrazioni interessate alla ricerca di immobili. Le
offerte di locazione e vendita caricate sul sito avranno 6
mesi di validità (dalla data di inserimento) se l'utente è
un privato o una persona giuridica.
Se la proposta proviene
da enti pubblici la validità sarà di tre mesi. Dell'immobile
bisognerà indicare ubicazione, epoca di costruzione, qualità
delle finiture, tipologia costruttiva, stato di
conservazione, classe energetica dell'edificio, canone di
locazione richiesto o prezzo di vendita. Sarà inoltre
obbligatorio allegare almeno una foto. Tra i campi non
obbligatori, invece, figurano gli estratti delle mappe
catastali, le planimetrie e il certificato di agibilità.
Come detto, in fase di prima applicazione del sistema,
l'accesso sarà limitato alla sola Agenzia del demanio che
potrà così avere una conoscenza dettagliata dell'offerta
immobiliare e fornire alle Amministrazioni le informazioni
sugli immobili. In una fase successiva, le p.a. potranno
utilizzare direttamente il database per le proprie ricerche
di mercato. Lo scopo è ovviamente quello di risparmiare.
«Paloma», scommette l'Agenzia, «consentirà di
migliorare l'incontro tra domanda e offerta degli immobili
sul mercato, e permetterà di valutare le migliori soluzioni
allocative per le amministrazioni in termini di spazi e
canone, in un'ottica di efficienza e contenimento dei costi».
L'operatività della nuova piattaforma rischia però di essere
fortemente limitata dalla legge di stabilità 2013 (legge n.
228/2012), almeno per quanto riguarda l'acquisto di
immobili. Dall'anno prossimo, infatti, gli enti territoriali
e gli enti del Servizio sanitario nazionale potranno
acquistare immobili solo qualora sia «indispensabile»
e «indilazionabile».
Dal 2013, invece, per le amministrazioni pubbliche inserite
nell'elenco Istat sarà vietato acquistare immobili. Solo gli
affitti saranno ammissibili, ma a condizione che si tratti
di rinnovi di contratti, ovvero che la locazione sia
stipulata a condizioni più vantaggiose. Alla stretta
sfuggono solo gli acquisti destinati a soddisfare le
esigenze allocative in materia di edilizia residenziale
pubblica
(articolo ItaliaOggi del 02.02.2013). |
TRIBUTI: Le
violazioni Tarsu si ripetono tutti gli anni.
L'obbligo di presentare la dichiarazione Tarsu si rinnova di
anno in anno. Quindi, se viene omessa o è infedele la
sanzione deve essere applicata anche per gli anni successivi
al primo.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, con
l'ordinanza 21.01.2013 n. 1334.
Per i giudici di
piazza Cavour, nonostante la norma di legge consente al
contribuente di limitarsi a denunciare le sole variazioni
intervenute dopo la presentazione della dichiarazione
originaria, senza dover assolvere all'obbligo tutti gli
anni, «qualora la denunzia sia stata incompleta, infedele
oppure omessa, l'obbligo di formularla si rinnova di anno in
anno». Dunque, l'inottemperanza a questo obbligo deve essere
sanzionata «anche per gli anni successivi al primo».
Questa
regola è applicabile anche al nuovo tributo sui rifiuti e i
servizi (Tares), istituito dal 2013, considerato che
l'articolo 14 del dl 201/2011 dispone che a ogni annualità
corrisponde un'obbligazione tributaria autonoma. Le sanzioni
sono analoghe a quelle previste per la Tarsu anche nel
quantum. La sanzione per omissione della dichiarazione è
fissata in un minimo del 100% fino a un massimo del 200% del
tributo evaso, mentre quella per infedeltà è stabilita entro
le percentuali del 50% (minima) e del 100% (massima), sempre
commisurata all'entità del tributo dovuto. In presenza di
una violazione relativa alla dichiarazione (infedeltà o
omissione), la sanzione deve essere irrogata per ciascuna
annualità per la quale il contribuente l'ha commessa.
La Cassazione giudica infondata la tesi sostenuta dai
giudici di merito, secondo cui la sanzione debba essere
irrogata solo per il primo periodo d'imposta, mentre per
quelli successivi, non sussistendo l'obbligo della
dichiarazione, l'unica sanzione applicabile sarebbe quella
del 30%, prescritta per i versamenti irregolari. Il fatto
che sia previsto un unico obbligo dichiarativo non vuol dire
che sia contestabile solo una volta la violazione. L'obbligo
è unico nel momento in cui viene assolto.
Pertanto, fino a che non viene posto in essere l'adempimento
richiesto dalla legge, sussiste sempre la violazione che si
ripete nel corso dei vari anni d'imposta. Il fatto che il
contribuente abbia il dovere giuridico di porre rimedio
all'infedeltà o all'omissione determina una ripetizione
dell'originaria violazione
(articolo ItaliaOggi del 02.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: P.a., incarichi al canto del cigno.
No ai rinnovi. Sì alle proroghe ma il compenso non cambia.
La legge di stabilità 2013 limita
ancora la possibilità di conferire collaborazioni.
La legge di stabilità 2013 limita ulteriormente la
possibilità di conferire incarichi di collaborazione da
parte delle pubbliche amministrazioni: vengono vietati i
rinnovi e sono di fatto rese assai poco appetibili le
proroghe.
La disposizione è contenuta nel comma 147 dell'articolo 1
della legge n. 228/2012 e ha un carattere permanente,
infatti è dettata come modifica all'articolo 7, comma 6, del
dlgs n. 165/2001.
Essa si aggiunge ai vincoli procedurali e al tetto alla
spesa introdotti dalla legislazione degli ultimi anni. Oltre
al contenimento della spesa la nuova disposizione vuole
obbligare le amministrazioni a scegliere i professionisti,
rispettando i vincoli di pubblicità quanto il ricorso a
criteri di selezione comparativa.
L'ambito di applicazione della disposizione è assai ampio:
sono esclusi unicamente gli incarichi cosiddetti
professionali, cioè quelli conferiti ai sensi del dlgs n.
163/2006, cioè il Testo unico sugli appalti. Ricordiamo che
i principali incarichi professionali sono la rappresentanza
in giudizio per gli avvocati e gli incarichi di
progettazione, direzione lavori, collaudo ecc. per i lavori
pubblici, nonché la progettazione di strumenti urbanistici.
La disposizione non si applica neppure agli incarichi
conferiti a società. Per cui sono compresi nell'ambito di
applicazione della disposizione sia le collaborazioni
coordinate e continuative sia gli incarichi di
collaborazione occasionale sia gli incarichi di consulenza,
studio e ricerca.
Il rinnovo degli incarichi di collaborazione conferiti a
persone fisiche è seccamente vietato da parte del
legislatore. Il carattere assai rigido della disposizione
non ammette deroghe di sorta.
Di conseguenza, per esempio, l'eventuale finanziamento del
conferimento di questi incarichi con risorse provenienti da
altre amministrazioni o dalla Unione europea o da privati
non apre la possibilità di rinnovo.
Il secondo precetto dettato dal legislatore è l'imposizione
di drastici limiti alla possibilità di prorogare questi
incarichi. In primo luogo, viene previsto che ciò sia
possibile solamente in presenza di circostanze eccezionali.
E cioè il progetto o l'obiettivo per il cui raggiungimento
l'incarico è stato conferito non è stato raggiunto e ciò non
deve essere in alcun modo imputabile al collaboratore. Si
deve sottolineare che questa innovazione non ha un carattere
stravolgente rispetto ai principi dettati dalla legislazione
precedentemente in vigore: siamo in presenza di un
rafforzamento dei vincoli che erano già in vigore.
L'innovazione di maggiore rilievo è la seguente: la proroga
è consentita «ferma restando la misura del compenso pattuito
in sede di conferimento dell'incarico». La norma è quanto
mai chiara: in caso di proroga non è possibile attribuire
alcun nuovo compenso, si rimane nell'ambito di quello già
fissato. È evidente la conseguenza che questa disposizione
determinerà: la proroga degli incarichi di consulenza,
collaborazione, studio e ricerca non sarà più ambita da
parte dei professionisti privati. Pertanto, oltre alla
spinta che si determinerà al completamento entro i termini
previsti di tutte le attività connesse agli incarichi, le
amministrazioni dovranno dare corso al conferimento di un
nuovo incarico nel caso in cui intendano completare o
intendano proseguire le attività per le quali hanno deciso
di utilizzare risorse esterne.
Il che vuol dire in particolare che: l'incarico deve essere
compreso nella programmazione adottata dall'ente, occorre
dimostrare che non vi sono nell'ente risorse professionali
in grado di svolgere quella attività, il collaboratore deve
essere di norma in possesso della laurea, si deve garantire
un'adeguata pubblicità preventiva alla volontà dell'ente di
conferire incarichi, il compenso deve essere fissato sulla
base di criteri oggettivi, l'incarico deve riguardare
attività ulteriori rispetto a quelle ordinarie, il
conferimento deve essere pubblicato sul sito internet, nel
caso di compensi superiori a 5 mila euro occorre dare
informazione alla sezione regionale di controllo della Corte
dei conti e occorre dare comunicazione al dipartimento della
funzione pubblica
(articolo ItaliaOggi dell'01.02.2013). |
APPALTI: Appalti, pubblicità doppia.
Oltre ai bandi anche gli affidamenti a trattativa privata.
Il dlgs attuativo della legge anticorruzione conferma gli
obblighi di pubblicazione.
Fatti salvi tutti gli obblighi di pubblicità, anche sui
quotidiani, per i bandi e avvisi di contratti pubblici, le
amministrazioni dovranno pubblicare anche le delibere di
affidamento per contratti a trattativa privata, i
certificati di ultimazione dei lavori e il conto finale dei
lavori. Obbligo di trasmissione dei dati pubblicati
all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, la
quale potrà denunziare alla Corte dei conti le
amministrazioni inadempienti.
Introdotto il nuovo istituto del diritto di accesso civico.
Previsto un piano triennale per la trasparenza. Sanzioni per
la violazione degli obblighi di pubblicità.
Sono questi
alcuni dei punti più rilevanti previsti nello
schema di
decreto legislativo attuativo dell'articolo 1, comma 35
della legge «anticorruzione» (190/2012) predisposto su
proposta del ministro della pubblica amministrazione e
semplificazione, che prevede anche l'obbligo di delle
situazioni patrimoniali di politici, e parenti entro il
secondo grado, degli atti dei procedimenti di approvazione
dei piani regolatori e delle varianti urbanistiche.
Da indiscrezioni filtrate da ambienti ministeriali
risulterebbe che il testo, approvato in via preliminare la
scorsa settimana dal Consiglio dei ministri, è stato
modificato e inviato, oltre alla Conferenza unificata anche
ad altri enti competenti per materia ai quali è stato
chiesto di esprimere un parere.
Il provvedimento non dovrebbe quindi andare alle commissioni
parlamentari per i pareri e, nell'auspicio del governo,
dovrebbe essere approvato entro la fine di febbraio.
Per i contratti pubblici lo schema di regolamento richiama,
facendoli «fermi», «gli altri obblighi di pubblicità legale
e, in particolare quelli sui siti web delle stazioni
appaltanti relativi ai bandi e alle gare per affidamento di
lavori, forniture e servizi»; ciò conferma, quindi, la
vigenza di tutti gli obblighi di pubblicità previsti dal
Codice dei contratti pubblici (artt. 66 e 124 del dlgs
163/2006), ivi compresa la pubblicità per estratto sui
quotidiani di avvisi e bandi (vedi ItaliaOggi del 30.11.2012 e 25.01.2013).
Si introduce, in aggiunta agli usuali obblighi di pubblicità
dei bandi e degli avvisi, l'obbligo di pubblicazione della
determina di aggiudicazione definitiva dell'appalto,
l'importo di aggiudicazione, il soggetto aggiudicatario, la
base d'asta, la procedura di selezione, il numero degli
offerenti, i tempi di completamento dell'appalto; l'importo
delle somme liquidate, eventuali modifiche contrattuali le
decisioni di ritiro e recesso dei contratti.
Per i contratti al di sotto dei 20 mila euro si potrà
effettuare una pubblicazione in forma «integrata». Prevista
anche la pubblicazione delle determine a contrarre per le
procedure a trattativa privata senza bando di gara. Entro il
31 gennaio di ogni anno ciascuna amministrazione comunicherà
i dati anche all'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici che a sua volta le pubblicherà sul proprio sito
rendendoli liberamente accessibili a tutti i cittadini.
L'organismo di vigilanza dovrà anche segnalare entro fine
aprile di ogni anno alla Corte dei conti le amministrazioni
che non avranno pubblicato le informazioni.
Lo schema prevede poi, in generale, il nuovo istituto del
diritto di accesso civico che consentirà a tutti i cittadini
hanno diritto di chiedere e ottenere che le p.a. pubblichino
atti, documenti e informazioni che detengono e che, per
qualsiasi motivo, non hanno ancora divulgato.
Infine viene disciplinato il Piano triennale per la
trasparenza e l'integrità, che è parte integrante del Piano
di prevenzione della corruzione, che dovrà indicare le
modalità di attuazione degli obblighi di trasparenza e gli
obiettivi collegati con il piano della performance. Previste
sanzioni da 500 a 10 mila euro
(articolo ItaliaOggi dell'01.02.2013 - tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI: I pagamenti sprint mal
si conciliano con l'obbligo del Durc.
Nel recepire le norme europee il legislatore non le
ha armonizzate con l'ordinamento italiano.
L'accelerazione dei termini di pagamento non si coordina con
l'obbligo di acquisire il Durc. Risulta praticamente
impossibile per le pubbliche amministrazione pagare gli
appaltatori entro i 30 giorni previsti dal dlgs 192/2012,
che ha integrato e modificato il dlgs 231/2002, recependo le
direttive europee sui pagamenti.
La ragione fondamentale non consiste, tanto, nel termine per
procedere, quanto nella circostanza che nel recepire le
norme europee il legislatore italiano ha mancato di compiere
l'opera essenziale, cioè l'armonizzazione della disciplina
comunitaria, con l'ordinamento italiano. È proprio
esclusivamente del nostro sistema, infatti, l'obbligo di
acquisire un Durc regolare non solo per effettuare il
pagamento, ma per la stessa fase preliminare alla procedura,
cioè la liquidazione in quanto non risulta possibile
considerare pagabile la prestazione, se non si verifica la
regolarità della posizione dell'azienda.
In ogni caso, l'istruttoria tecnico-contabile è compiuta
nella fase della liquidazione, visto che il pagamento
consegue quasi meccanicamente all'ordine al tesoriere emesso
dai servizi finanziari, in base ai controlli contabili sulle
liquidazioni.
Il problema sorge dalla circostanza che il dlgs ha eliminato
la possibilità per le parti di fissare nel contratto un
termine diverso dai 30 giorni. Questi decorrono: dalla data
di consegna delle merci o dall'effettuazione della
prestazione se la fattura sia emessa prima o non risulti
certa la data; dalla presentazione della fattura; o, infine,
dalla data di effettuazione della verifica della correttezza
del bene fornito o della prestazione svolta.
In assenza della possibilità di definire termini diversi, i
30 giorni disponibili per l'istruttoria sulla regolarità
della fattura, l'ordinazione e il pagamento coincidono con
l'eguale periodo previsto dalla disciplina del Durc per il
rilascio del certificato. Avrebbe dovuto essere noto al
legislatore che Inps, Inail e Cassa edile impiegano
sostanzialmente sempre tutto il periodo di 30 giorni a loro
disposizione, per il rilascio del certificato (per altro, il
tutto in aperta violazione della disciplina sulla «decertificazione»).
Il dlgs 192/2012 non ha risolto questa difficoltà operativa,
come avrebbe potuto stabilendo un termine ordinariamente più
ampio per i pagamenti della pubblica amministrazione o,
meglio, modificando la disciplina del Durc, con
l'eliminazione dell'istanza e la possibilità per le
amministrazioni di accedere direttamente alle banche dati
dell'Inps per visualizzare in tempo reale la situazione
previdenziale delle aziende.
I rischi della cattiva opera di recepimento e coordinamento
sono almeno tre.
Il primo è l'abuso della possibilità, prevista dal nuovo
articolo 4, comma 4, del dlgs 231/2002 di portare il termine
di pagamento a 60 giorni.
Tale facoltà è condizionata «dalla natura o dall'oggetto del
contratto o dalle circostanze esistenti al momento della sua
conclusione». A meno di non considerare l'obbligo di
acquisire il Durc una «circostanza» che giustifichi sempre
il raddoppio dei termini, risulta in modo piuttosto evidente
motivare l'esistenza di ragioni per il prolungamento dei
termini del pagamento connesse alla natura e all'oggetto del
contratto, elementi che, a ben vedere, con l'adempimento del
debitore nulla hanno a che vedere.
Il secondo rischio è quello dell'inserimento nei contratti
di clausole di deroga al termine ordinario di 30 giorni
nulle, con il relativo contenzioso.
Il terzo, quello più grave, è la violazione diffusa dei
termini, con le conseguenze anche di natura finanziaria
potenzialmente derivanti, considerato l'elevato tasso di
interesse di mora e la penale di 40 euro introdotta dal dlgs
192/2012.
Un sistema per evitare di raddoppiare senza effettive
giustificazioni i termini di pagamento o sforarli è
prevedere il pagamento entro 30 giorni dalle verifiche delle
prestazioni, inoltrando la richiesta del Durc in coincidenza
con la consegna del bene o del verbale di esecuzione del
servizio o dello stato di avanzamento. In questo modo, vi
sono a disposizione 30 giorni per compiere le verifiche e
altri 30 per effettuare il pagamento: in questo lasso di
tempo si dovrebbe riuscire a ottenere l'attestazione della
regolarità contributiva.
Il sistema migliore, tuttavia, è una modifica normativa
urgente, che elimini la confusione operativa determinata
dalla riforma, fissi tempi certi per i pagamenti che, però,
tengano conto degli adempimenti imposti alle pubbliche
amministrazioni
(articolo ItaliaOggi dell'01.02.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum, il sindaco conta.
Per raggiungere la maggioranza di 2/3.
La legge prevede espressamente quando il
voto non va computato.
Il voto del sindaco può essere ricompreso tra quelli,
espressi dai due terzi dei consiglieri, necessari per
approvare la deliberazione volta ad avviare la procedura per
l'istituzione di un nuovo comune a seguito di fusione, come
stabilito da una legge regionale che rinvia all'art. 6 del
dlgs n. 267/2000? Il sindaco deve essere computato ai fini
del «quorum strutturale» del consiglio comunale per
l'approvazione delle modifiche dello statuto comunale?
La legge regionale rinvia, per l'adozione delle
deliberazioni in questione, alle «modalità e procedure» per
l'approvazione dello statuto comunale disposte dall'art. 4,
comma 3, della legge n. 142/1990, ora sussunto nell'art. 6
del dlgs n. 267/2000. Sull'argomento non si riscontrano
orientamenti giurisprudenziali univoci (cfr Tar Puglia sent.
1301/2004, Tar Lazio, sez. II-ter, sentenza n. 497/2011 e
Tar Lombardia sentenza n. 1604/2011); l'art. 6, comma 4, del Tuel n. 267/2000 dispone che «gli statuti sono deliberati
dai rispettivi consigli con il voto favorevole dei due terzi
dei consiglieri assegnati; le disposizioni di cui al
presente comma si applicano anche alle modifiche
statutarie».
Tale normativa ha previsto un procedimento
aggravato per l'approvazione delle norme statutarie, nonché
delle relative modifiche, sia disponendo che, in caso di
mancata approvazione dei due terzi dell'assemblea, si debba
ripetere la votazione entro 30 giorni sia prescrivendo che
lo statuto sia approvato se ottiene per due volte -in
sedute successive- il voto favorevole della maggioranza
assoluta dei membri assegnati al collegio. L'approvazione
dello statuto, pertanto, attesa la natura di atto normativo
«fondamentale» sua propria, comma 2 art. 6 cit., comporta
che su di esso converga il più elevato numero di consensi
attraverso un'ampia discussione e comparazione d'interessi
da parte della maggioranza e dell'opposizione consiliare.
Tale particolare esigenza ha determinato, conseguentemente,
la previsione di maggioranze speciali disponendo che i
quorum, rispettivamente della prima e delle altre votazioni,
siano ragguagliati ai due terzi o alla maggioranza assoluta
non dei votanti, ma dei consiglieri assegnati.
Pertanto,
l'iter deliberativo di approvazione dello statuto e delle
sue modifiche comporta che in sede di prima votazione la
delibera sia approvata con il voto favorevole dei due terzi
dei consiglieri assegnati ivi compreso il sindaco, che è
componente del consiglio comunale ai sensi dell'art. 37 del
citato Testo unico. Infatti, l'ordinamento ha indicato
espressamente le ipotesi in cui non ha inteso computare il
sindaco o il presidente della provincia nel quorum richiesto
per la validità di una seduta, usando la formula «senza
computare a tal fine il sindaco e il presidente della
provincia»
(articolo ItaliaOggi dell'01.02.2013). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
INCOMPATIBILITÀ/1
Sussistono le condizioni di ineleggibilità e/o
incompatibilità, ai sensi degli artt. 60 e 63 del Tuel, nei
confronti di un consigliere comunale in carica che risulta
componente e capo della squadra antincendi boschivi della
protezione civile comunale, formata esclusivamente da
volontari?
Non sussistono le condizioni di ineleggibilità e/o
incompatibili citate negli artt. 60 e 63 del decreto
legislativo n. 267/2000, considerato che non è ammesso
estendere l'ambito applicativo delle disposizioni in
questione, in quanto le norme che restringono
eccezionalmente diritti di status -come, nel caso di
specie, il diritto di elettorato passivo riconosciuto
dall'art. 51 della Costituzione- sono norme di stretta
interpretazione, le cui previsioni non possono essere estese
in via analogica, al di fuori dei casi espressamente
indicati (cfr. ex multis, Consiglio di stato, I sezione, 22.10.2088, n. 3376).
INCOMPATIBILITÀ/2
Sussiste l'ipotesi dell'incompatibilità, ai sensi dell'art.
63 del Tuel, tra la carica di presidente di un'Unione di
comuni e gli incarichi tecnici che lo stesso che svolge nei
comuni facenti parte della Unione?
Secondo il Consiglio di stato, «le ipotesi di
incompatibilità si applicano solo nei casi ivi testualmente
menzionati (art. 63 del decreto legislativo n. 267/2000), in
quanto il ricorso all'analogia non è consentito dal
principio interpretativo generale per cui le norme che
restringono eccezionalmente diritti di status sono di
stretta interpretazione» (Consiglio di stato parere n.
5862/08 del 13-01-208). Trattandosi, quindi, di «principio
interpretativo generale», va esclusa la sussistenza di
incompatibilità nell'ipotesi in questione
(articolo ItaliaOggi dell'01.02.2013). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: Lettera
al ministero. Taglio indennità, giudici divisi. L'Anci chiede
chiarimenti.
La riduzione del 10% dei gettoni degli amministratori locali
è ancora in vigore, dicono le sezioni unite della Corte dei
conti. Anzi no, perché si è applicata solo per il triennio
2006-2008, risponde la sezione autonomie. Sul punto insomma
i giudici contabili si fronteggiano da anni e le sezioni
regionali complicano le cose, come dimostrato da un recente
parere della Corte conti Toscana (n. 259/2012).
Per questo
l'Anci ha preso carta e penna e ha scritto al ministero
dell'interno chiedendo un intervento chiarificatore
«urgente» da parte del Viminale. I comuni, infatti,
brancolano nel buio e continuano a inviare richieste di
parere per conoscere l'esatta determinazione degli
emolumenti da corrispondere agli amministratori locali.
La
querelle si trascina dal 2005 quando il governo con la
Finanziaria 2006 (legge n. 266/2005) ha disposto una
riduzione del 10% per tre anni delle indennità degli organi
elettivi degli enti locali. Nel 2009, interrogata sul punto
dalla sezione di controllo per l'Emilia-Romagna, la sezione
autonomie della Corte dei conti ha affermato che il taglio
doveva considerarsi non più in vigore. E dello stesso avviso
è sembrato essere il legislatore tanto che con il dl 78/2010
ha riproposto il taglio disponendo che con decreto del Mininterno gli importi fossero ridotti dal 3 al 10% a
seconda della popolazione dell'ente.
Secondo l'Anci la base di partenza per calcolare le
riduzioni deve essere quella originaria (il regolamento
approvato con dm n.119/2000) e non la legge 266 perché in
questo caso, la decurtazione sarebbe stata del 13, 17 e 20%.
Il decreto del Viminale però non è mai stato emanato e
questo sta creando molte incertezze nei comuni
(articolo ItaliaOggi del
30.01.2013 - tratto da www.corteconti.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Anticorruzione a 360°.
Sanzionabili abusi penalmente irrilevanti.
Le istruzioni della Funzione pubblica per applicare
la legge 190/2012.
La legge n. 190/2012 «amplia» la nozione di corruzione. Nel
senso che il suo concetto deve essere inteso «in senso
lato», ovvero comprensivo di tutte quelle situazioni in cui,
durante l'azione amministrativa, si riscontri l'abuso, da
parte di un soggetto, del potere a lui affidato, al fine di
ottenerne dei vantaggi.
Quindi, le fattispecie da affrontare sono più ampie di
quelle disciplinate dal codice penale, comprendendo quelle
situazioni che, a prescindere dalla loro rilevanza sul piano
penale, fanno emergere un «malfunzionamento»
dell'amministrazione a causa dell'uso privato dell'esercizio
delle funzioni pubbliche.
È quanto si desume dalla lettura della
circolare 25.01.2013 n. 1/2013,
emanata pochi giorni fa dal dipartimento della funzione
pubblica, con cui si forniscono i primi indirizzi operativi
sulle disposizioni recate dalla legge sopra indicata,
entrata in vigore lo scorso 28 novembre, soprattutto
segnalando la tempestiva necessità di procedere alla nomina
del dirigente responsabile della prevenzione.
Le prescrizioni contenute nella legge sopra indicata, poi,
si applicano a tutte le pubbliche amministrazioni incluse
nel dlgs n. 165/2001. Pertanto, il campo applicativo della
norma comprende anche le regioni e gli enti locali. In
questi enti, di regola, la figura del responsabile della
prevenzione della corruzione deve essere rivestita dal
segretario generale. Inoltre, nella scelta di tale figura,
le p.a. dovranno valutare i soli dirigenti che non siano
stati destinatari di provvedimenti giudiziali di condanna e
che abbiano dato dimostrazione, nel tempo, di un
comportamento integerrimo.
Sul versante dei soggetti destinatari delle disposizioni,
poi, la circolare evidenzia che il comma 59 dell'articolo 1
della legge precisa che le disposizioni di prevenzione della
corruzione sono attuazione diretta dell'articolo 97 della
carta costituzionale. Pertanto, il campo attuativo comprende
anche le regioni e gli enti locali che, entro il 28 marzo
prossimo, attraverso le intese in Conferenza Unificata,
dovranno mettere nero su bianco i loro adempimenti, anche
prevedendo misure di flessibilità in materia di scadenze dei
termini per gli adempimenti.
Sull'identikit del responsabile della prevenzione, il
ministro Filippo Patroni Griffi non ha dubbi. Negli enti
locali, la figura deve essere svolta dal segretario con
provvedimento di nomina da parte dell'organo di vertice
politico, mentre eventuali diverse soluzioni dovranno essere
adeguatamente motivate. Per i ministeri, poi, la nomina
spetta direttamente al ministro, mentre per gli altri enti,
dovrà provvedere l'organo che ha le funzioni di indirizzo e
controllo. Preferibilmente, la scelta dovrà ricadere sui
dirigenti di prima fascia di ruolo, così da evitare che
eventuali iniziative che lo stesso vorrà intraprendere nei
confronti dell'amministrazione «possano essere compromesse
dalla precarietà dell'incarico».
Infine, nei criteri di scelta dovrà essere tenuto in massima
considerazione anche il fascicolo personale del soggetto da
nominare. In pratica, scrive Patroni Griffi, chi dovrà
svolgere la funzione di responsabile anticorruzione dovrà
avere un curriculum e uno stato di servizio che non sia
stato macchiato da provvedimenti di condanna o disciplinari
e che, nel tempo, abbia sempre dato prova di un
comportamento integerrimo
(articolo ItaliaOggi del
29.01.2013). |
APPALTI:
Durc libero dai debiti dei
soci.
Le irregolarità non bloccano il rilascio del documento.
Il ministero del lavoro ha risposto a un
interpello del Consiglio nazionale dell'ordine.
In risposta a interpello del Consiglio nazionale, il
Ministero del lavoro ha affermato che nell'ambito della
verifica della regolarità contributiva delle società di
capitali non rileva la posizione contributiva dei singoli
soci, con la conseguenza che le eventuali pregresse
irregolarità dei versamenti contributivi riguardanti gli
stessi non possono incidere sul rilascio del Durc.
L'accoglimento della tesi sostenuta dai consulenti del
lavoro risolve positivamente una serie molto numerosa di
casi bloccati dall'Inps. «Ci siamo attivati perché da tutto
il territorio nazionale sono pervenute segnalazioni di
mancata emissione del Durc a società regolari dal punto di
vista contributivo ma con presenza di debiti individuali dei
soci a volte anche per cifre irrilevanti, «precisa il
vicepresidente del Consiglio nazionale Vincenzo Silvestri.
La risposta a
interpello 24.01.2013 n. 2/2013, diramata
dal Ministero del lavoro sentita la Direzione generale Inps,
ribadisce e ripristina principi generali del diritto più
volte e ripetutamente violati, sancendo -ove ve ne fosse
bisogno- la palese differenza e autonomia giuridica tra
persone fisiche e giuridiche. La disposizione è
immediatamente operativa e opponibile nel caso di diverso
orientamento amministrativo.
Il Consiglio nazionale dell'Ordine dei consulenti del Lavoro
ha avanzato istanza di interpello a questa Direzione per
conoscere se, in caso di richiesta di un Documento unico di
regolarità contributiva (Durc) che preveda la verifica della
posizione ai fini degli obblighi contributivi previdenziali
nei confronti dell'Inps di una società di capitali, la
stessa debba essere effettuata anche sulla posizione
personale dei singoli soci e, in tal caso, in presenza di
eventuali pregresse irregolarità contributive, se debba
essere negata la regolarità contributiva della società.
Al riguardo, acquisito il parere della Direzione generale
per le politiche previdenziali e assicurative e dell'Inps,
si rappresenta quanto segue.
Va anzitutto precisato quali sono gli adempimenti e le
verifiche da espletare in fase di rilascio del Durc in
relazione alle diverse tipologie di imprese richiedenti.
In particolare, in merito alle società di capitali,
trattandosi di persone giuridiche caratterizzate da
autonomia patrimoniale «perfetta» e, quindi, dalla
separazione completa tra il capitale sociale e il patrimonio
personale dei soci, il controllo di regolarità nei
versamenti contributivi deve essere effettuato sulla
contribuzione dovuta dai datori di lavoro per i lavoratori
con rapporto di lavoro subordinato e dai
committenti/associanti che occupano lavoratori con rapporti
di collaborazione coordinata e continuativa, resa anche
nella modalità a progetto, aventi per oggetto la prestazione
di attività svolte senza vincolo di subordinazione.
Ciò in considerazione del fatto che, nelle società di
capitali, l'irregolarità della posizione contributiva
personale dei singoli soci non può rilevare ai fini
dell'accertamento dell'irregolarità delle stesse società
che, in ragione del regime patrimoniale civilistico che le
regola, non possono essere chiamate a rispondere delle
irregolarità contributive riferibili ai medesimi soci.
Le società di capitali, infatti, in quanto titolari di un
proprio patrimonio del tutto autonomo e distinto da quello
dei soci, rispondono delle obbligazioni sociali nei limiti
del proprio patrimonio.
Ne deriva che sul patrimonio sociale non possono trovare
soddisfazione i creditori personali del socio e, al
contempo, i creditori sociali non possono escutere il
patrimonio personale dei soci.
La posizione dei soci, pertanto, non deve essere oggetto di
verifica al fine del rilascio del Durc che sia richiesto per
effettuare il controllo di regolarità della società di
capitali nella quale la stessa posizione è rivestita.
Tale verifica appare invece necessaria in caso di società di
persone ed in relazione al versamento contributivo dovuto
dal socio sulla propria posizione, così come del resto già
evidenziato da questo ministero con circ. n. 5/2008.
In linea con l'orientamento sopra esplicitato si ritiene,
pertanto, che nell'ambito della verifica della regolarità
contributiva delle società di capitali non rileva la
posizione contributiva dei singoli soci, con la conseguenza
che le eventuali pregresse irregolarità dei versamenti
contributivi riguardanti gli stessi non possono incidere sul
rilascio del Durc
(articolo ItaliaOggi del
29.01.2013). |
PUBBLICO
IMPIEGO: «Pa».
La Funzione pubblica: non affidare l'incarico a chi si
occupa di contratti e patrimonio.
Anticorruzione subito al via.
Il responsabile va individuato fra dirigenti stabili «non a
rischio».
LE ISTRUZIONI/
Ministeri ed enti territoriali devono individuare a breve il
«guardiano della legalità» per inviare il piano triennale
entro il 31 marzo.
Il «responsabile della prevenzione» dell'illegalità previsto
dalla legge anti-corruzione va individuato tra i dirigenti
«stabili» e lontani dagli uffici dove si annidano potenziali
conflitti d'interesse. La scelta, a carico dell'«organo
politico» (ministri, presidenti di Regione o di Provincia,
sindaci), va compiuta subito, perché entro il 31 marzo ogni
Pubblica amministrazione deve preparare e inviare alla
Funzione pubblica il proprio piano anti-corruzione.
A dettare le istruzioni operative per tradurre in pratica le
norme anticorruzione scritte nella legge 190/2012 è la
Funzione pubblica, che nella
circolare 25.01.2013 n. 1/2013 fissa tempi e
calendario per le nuove procedure.
Il perno intorno a cui ruotano le attività di «prevenzione»
di tangenti e affini previste dalla legge approvata il 6
novembre scorso è il «responsabile anti-corruzione», che va
scelto fra i vertici di ogni amministrazione. Nel caso di
Comuni e Province, è la stessa legge a indicare nel
segretario generale la figura "tipica" a cui assegnare il
compito (sindaci e presidenti possono comunque effettuare
scelte diverse, se motivate).
Il quadro è più articolato
nelle Pubbliche amministrazioni centrali, dove la legge
spiega che il responsabile della legalità va individuato «di
norma fra i dirigenti di prima fascia in servizio». Nelle
Regioni, dove la dirigenza non è divisa in prima e seconda
fascia, la nomina va indirizzata su chi guida un ufficio
articolato al proprio interno in ulteriori strutture
organizzative con un altro dirigente al vertice.
Il dato chiave è offerto dal peso dei compiti a carico del
"prescelto", che potrà essere oggetto di sanzioni per
responsabilità dirigenziale e disciplinare: se emerge un
reato di corruzione negli uffici soggetti al suo controllo,
il responsabile che non ha vigilato sull'attuazione delle
procedure scritte nel piano anti-corruzione potrà essere
sospeso dal servizio fino a un anno ed essere chiamato dalla
Corte dei conti a rispondere per danno erariale e danno
d'immagine nei confronti della Pubblica amministrazione.
Per questa ragione, Palazzo Vidoni sottolinea che il
responsabile anti-corruzione dovrà avere "spalle robuste".
Sono quindi banditi dalla scelta i dirigenti degli uffici di
diretta collaborazione di ministri e dirigenti, perché
titolari di un rapporto fiduciario con l'autorità politica,
ma più in generale è sconsigliato affidare i galloni ai
dirigenti a contratto: meglio i titolari di «posizioni di
relativa stabilità», anche per non compromettere
l'eventuale applicazione delle sanzioni.
Nella designazione, secondo la Funzione pubblica, è meglio
inoltre stare alla larga da chi guida strutture come gli
uffici che si occupano di contratti o di gestione del
patrimonio, considerati dalla circolare settori «più
esposti al rischio della corruzione», e il responsabile
dell'ufficio procedimenti disciplinari, perché in conflitto
d'interessi
(articolo Il
Sole 24 Ore del
29.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: Piccoli
enti. Con il 2013 al via l'obbligo di riorganizzazione dei
Comuni fino a 5mila abitanti.
Unioni a competenza ampia. Le gestioni associate devono
riguardare anche personale e finanze.
I Comuni fino a 5mila abitanti devono
associare tramite unione tra Comuni o convenzione le loro
«funzioni fondamentali». Il percorso associativo deve essere
avviato e completato entro il 2013 secondo le modalità
definite dalla legge statale e regionale.
Non è pacifica, prima di tutto, la delimitazione della prima
funzione indicata all'articolo 14, comma 27, del Dl 78/2010
(«organizzazione generale dell'amministrazione, gestione
finanziaria e contabile e controllo»). Va segnalata
anzitutto una posizione interpretativa più attenta al dato
formale, che sembra in effetti restringere l'obbligo al
semplice coordinamento dei servizi amministrativi oltre che
alla gestione finanziaria e contabile.
D'altra parte occorre considerare lo spirito della legge:
l'elenco comprende le «funzioni fondamentali»
rilevanti per la definizione dei costi standard e dei
fabbisogni finanziari delle autonomie locali. Sotto questo
profilo, i servizi interni complessivamente intesi
costituiscono una parte irrinunciabile, per cui l'obbligo
associativo non può non comprendere la gestione dei servizi
amministrativi oltre che di quelli contabili. Non avrebbe
molto senso, del resto, mettere in piedi un'organizzazione
complessa che unifica la gestione delle sole ragionerie e
mantiene nei singoli enti gli altri servizi interni. È stato
affermato allora che per una corretta definizione delle
funzioni fondamentali occorre fare riferimento alla Funzione
1 del bilancio o, meglio ancora, alla Missione 1 del nuovo
bilancio armonizzato che comprende una serie eterogenea di
servizi interni, con un'impostazione che pare più
convincente (si veda anche Corte dei conti, sezione di
controllo Piemonte, parere n. 304/2012). Occorre dunque
associare un'ampia serie di servizi, dalla segreteria alla
gestione del personale, dal servizio finanziario
all'economato (servizio acquisti), dalla gestione delle
entrate ai controlli interni (articolo 147, comma 5, Tuel
introdotto dal Dl 174/2012).
Tra i servizi da associare vi è certamente anche quello
informatico, come precisato anche dall'articolo 14, comma
28, del Dl 78/2010. Questa gestione obbligatoria è da
ricondurre alla forma associativa istituita per la
generalità dei servizi interni; l'articolo 19, comma 7, del
Dl 95/2012 ha abrogato i commi da 3-bis a 3-octies
dell'articolo 15 del D.Lgs. 82/2005, superando così
l'antinomia che si era determinata con la sovrapposizione
delle due diverse previsioni normative sulla gestione
associata delle funzioni Ict per i piccoli Comuni.
Altro servizio da associare è quello degli appalti per
lavori pubblici e acquisizione di beni e di servizi; tali
procedure devono essere accentrate secondo lo schema della «centrale
unica di committenza» (articolo 33, comma 3-bis, del
Dlgs 163/2006) con decorrenza 31.03.2013 (articolo 23, comma
5, Dl 201/2011; articolo 29, Dl 216/2011). È stato affermato
che l'obbligo riguarda solo le procedure di gara: ogni ente
rimane responsabile delle fasi a monte
(programmazione/progettazione) e a valle (esecuzione), a
parte le procedure eventualmente conferite ad altro ufficio
associato (ad esempio, al servizio acquisti); ogni ente (o
ufficio associato) provvede inoltre agli affidamenti diretti
nei casi consentiti (Corte dei conti, sezione Piemonte,
parere 271/2012).
Restano da chiarire gli obblighi sulla gestione di
patrimonio e lavori pubblici, per le fasi che precedono e
seguono la gara. Da un lato va richiamata la posizione più
formale, in base alla quale i lavori pubblici e la
manutenzione del patrimonio comunale non rientrerebbero tra
le funzioni da associare in via obbligatoria; dall'altro
lato, vi è chi considera essenziale l'unificazione dei
servizi interni nella loro globalità (servizi
amministrativi, finanziari, tecnici), per le ragioni sopra
illustrate. Seguendo quest'ultima impostazione, i servizi
tecnici devono essere computati tra i costi standard e
quindi devono essere associati. Sulla questione si attende
tuttavia un chiarimento ministeriale
(articolo Il
Sole 24 Ore del
28.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Personale.
Restano congelati gli stipendi individuali ma riparte
l'indennità di vacanza.
Il Governo «dimentica» il blocco dei contratti. Lo stop ai
rinnovi scaduto nel 2012 non è stato prorogato.
Scompare dalla legge di stabilità il
blocco dei contratti collettivi sia per la pubblica
amministrazione che per le società partecipate. Per lo
stesso motivo, da aprile 2013 dovrà essere riconosciuta
–nelle more della sottoscrizione dei Ccnl– l'indennità di
vacanza contrattuale. Su questo quadro quasi idilliaco,
considerando il contesto macroeconomico, incombe la spada di
Damocle dell'articolo 16 del Dl 98/2011 che potrebbe
prorogare l'austerity per altri due anni.
La vicenda parte qualche anno fa quando, con il Dl 78/2010,
venivano bloccati senza possibilità di recupero tutti i
contratti collettivi del comparto pubblico per il triennio
2010-2012, riconoscendo esclusivamente l'indennità di
vacanza contrattuale secondo le regole previste dagli
accordi sul costo del lavoro del 1993 e del 2009. Con il
decreto sulla spending review, i vincoli sono estesi
anche alle società partecipate, alle aziende speciali ed
alle istituzioni.
Nel disegno di legge di stabilità 2013, approvato dal
Governo il 9 ottobre, il blocco dei contratti collettivi
veniva prorogato anche al biennio 2013-2014 ovviamente senza
possibilità di recupero. In sede di approvazione definitiva
la previsione normativa scompare con l'evidente conseguenza
che dal 01.01.2013 nulla vieta che il Governo, per il
tramite dell'Aran, o i sindacati possano chiedere l'apertura
di una nuova stagione contrattuale. Rimane da capire se e
quante risorse sono o potranno essere disponibili. Nella
stessa direzione si pone il ministero dello Sviluppo
economico che, con parere condiviso dal Mef, consente alle
associazioni di categoria delle società partecipate di
sottoscrivere nuovi contratti collettivi.
Al contrario il blocco dei fondi per la contrattazione
decentrata e quello relativo al trattamento economico
individuale abbracciavano il triennio 2011-2013 e quindi non
necessitano, per l'anno in corso, di alcun intervento
normativo.
Più complessa la vicenda relativa all'indennità di vacanza
contrattuale prevista nella finanziaria del 2009 per il
biennio 2008-2009, successivamente riproposta dal Dl 78/2010
per il triennio 2010-2012 e infine confermata come norma a
regime dalla riforma Brunetta che ha modificato l'articolo
47-bis del Dlgs 165/2001. Sempre il Ddl sulla legge di
stabilità 2013 rinviava per un biennio anche l'erogazione
dell'indennità di vacanza. In sostanza, il progetto di
fondo, prevedeva un vuoto contrattuale per il 2013-2014,
tanto è vero che il successivo triennio sarebbe decorso dal
2015 (e non dal 2016). Anche questa previsione si perde
nell'iter parlamentare.
Quindi, da aprile 2013 i dipendenti della pubblica
amministrazione dovrebbero vedersi riconoscere un aumento
commisurato al 30% dell'Ipca (indice dei prezzi calcolato a
livello europeo) che salirà al 50% a partire dal mese di
luglio. L'Ivc per il triennio 2010-2012 era stata calcolata
al tasso dell'1,50%. Il nuovo tasso da applicare, secondo le
stime dell'Istat, sarà pari al 2 per cento. In pratica, da
gennaio 2013 si deve confermare l'importo relativo al
triennio precedente e da aprile, in aggiunta, scatterà la
prima tranche per il periodo 2013-2015 che andrà a regime
dalla mensilità di luglio.
Tuttavia, il Governo potrebbe stoppare l'aumento (mediamente
16 euro lordi al mese per il comparto degli enti locali)
adottando l'atto regolamentare previsto dall'articolo 16 del
Dl 98/2011, che consente la proroga a tutto il 2014 dei
limiti in termini di crescita dei trattamenti economici del
personale delle pubbliche amministrazioni. Con ogni
evidenza, stante l'attuale situazione politica, la decisione
verrà rinviata dal prossimo Governo e la decisione giungerà
a ridosso del pagamento degli stipendi di aprile.
In conclusione, in sede di predisposizione del bilancio di
previsione risulta opportuno prevedere un aumento pari
all'indennità di vacanza contrattuale relativa al triennio
2013-2015. Un importo più elevato sembra non trovare
fondamento nella legge di stabilità.
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In sintesi
01 | LA PREMESSA
Il blocco dei contratti collettivi sia per la pubblica
amministrazione che per le società partecipate non è entrato
nella legge di stabilità (legge 228/2012)
02 | LA CONSEGUENZA
Per effetto della cancellazione del blocco, in attesa della
sottoscrizione dei contratti collettivi, da aprile 2013
dovrà essere versata l'indennità di vacanza contrattuale
03 | LA CONTROMISURA
Il Governo, sfruttando l'articolo 16 del Dl 98/2011,
potrebbe prorogare di due anni il blocco dei contratti
(articolo Il
Sole 24 Ore del
28.01.2013 - tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI:
Pagamenti in 30-60
giorni senza alcuna discriminazione.
La risposta ministeriale alle associazioni di
settore: direttiva applicabile ai lavori pubblici.
I nuovi termini di pagamento nelle transazioni commerciali
previsti del dlgs 192/2012 (entro 30 giorni, prorogabili
fino a 60 solo in casi particolari) si applicano a tutti i
settori produttivi. Lavori pubblici compresi.
Lo ha chiarito
ufficialmente una
nota congiunta 23.01.2013 n. 1293 di prot. dei ministeri dello
sviluppo economico e delle infrastrutture e dei trasporti,
emanata mercoledì scorso.
I dubbi riguardavano soprattutto il settore dei lavori
pubblici, già escluso dalla portata della precedente
direttiva europea in materia (la n. 2000/35/Ce, recepita nel
nostro paese dal dlgs 231/2002). Tale lettura nasceva
dall'espresso riferimento, operato tanto dalla fonte
comunitaria quanto dal provvedimento interno di recepimento,
quali possibili oggetto delle transazioni commerciali
esclusivamente alla consegna di «merci» o alla prestazione
di «servizi», il che portava a escludere i contratti di
lavori. In tal senso, si era espressa anche l'Autorità
garante dei lavori pubblici con la determinazione n. 5 del
27.03.2002. La stessa relazione illustrativa al dlgs
231/2002, del resto, demandava a un apposito intervento
legislativo (finora mai effettuato) l'adeguamento della
disciplina degli appalti pubblici di lavori.
Per superare questo «doppio binario», nella nuova direttiva
(la n. 2011/7/Ue) è stato inserito un nuovo «considerando»,
che recita: «La fornitura di merci e la prestazione di
servizi dietro corrispettivo a cui si applica la presente
direttiva dovrebbero anche includere la progettazione e
l'esecuzione di opere ed edifici pubblici, nonché i lavori
di ingegneria civile».
Tuttavia, il dlgs 192 non ha espressamente accolto tale
indicazione e, per di più, si è limitato a modificare il
precedente dlgs 231, senza sostituirlo integralmente.
A sgombrare il campo da equivoci è ora intervenuta la
circolare ministeriale, fortemente sollecitata dagli
operatori del settore (fra i più colpiti dai ritardi nei
pagamenti da parte della p.a.), anche con la presentazione,
lo scorso mese di novembre, di un position paper. Nei giorni
scorsi, sul tema era nuovamente intervenuta l'Ance con un
proprio documento (si veda ItaliaOggi del 22 gennaio) che ha
in gran parte anticipato i contenuti della stessa circolare.
Del resto, la tesi dell'applicazione generale della nuova
disciplina è stata autorevolmente sostenuta anche dal
commissario europeo per l'industria e l'imprenditoria (e
vicepresidente della Commissione Ue) Antonio Tajani, che
aveva formalmente chiesto al governo di intervenire sul
punto. Nella lettera (inviata al ministro per lo sviluppo
economico, Corrado Passera, poco prima di Natale), peraltro,
si evidenziano anche altri aspetti critici della normativa
italiana, che andranno corretti.
Oltre alla questione (ora risolta) dell'ambito di
applicazione, infatti, Tajani ha anche contestato l'indebita
estensione e la genericità delle deroghe all'obbligo per la
p.a. di pagare a 30 giorni: secondo la direttiva, ciò
potrebbe essere previsto solo a favore degli enti pubblici
che forniscono assistenza sanitaria, solo a determinate
condizioni e fino a un massimo di 60 giorni. Viceversa, il
dlgs 192 lo consente a tutte le p.a. quando ciò sia
giustificato dalla natura o dall'oggetto del contratto o
dalle circostanze esistenti al momento della sua
conclusione: una formulazione effettivamente troppo
generica, che favorisce tentativi di elusione e quindi
rischia di ingenerare contenzioso. Manca, inoltre, una
previsione che precisi che i termini vanno computati in
giorni di calendario, domeniche comprese. Da rivedere
infine, le tutele giurisdizionali, anche con la previsione
di procedure accelerate, a prescindere dall'importo del
debito.
Su questi punti, la palla passa ora al prossimo governo, che
dovrà intervenire con tempestività per scongiurare il
rischio di incappare in una procedura di infrazione
comunitaria.
---------------
Gli effetti della direttiva sul codice contratti.
L'estensione del dlgs 192 al settore dei lavori pubblici,
ora espressamente riconosciuta dal governo (si veda
l'articolo nella pagina precedente), comporta alcune
rilevanti modifiche al codice dei contratti (dlgs 163/2006)
e al relativo regolamento di esecuzione e attuazione (dpr
207/2010).
Come noto, il nuovo art. 4, comma 2, del dlgs 231/2002
stabilisce per i pagamenti da parte della p.a. il termine di
30 giorni decorrenti, secondo le circostanze, dalla data
della prestazione, ovvero dalla data di ricevimento della
fattura o dalla data della verifica della prestazione. A
questo proposito, il successivo comma 6 prevede che, laddove
sia prevista una procedura diretta ad accertare il corretto
adempimento del contratto, essa non può avere una durata
superiore a 30 giorni dalla data della prestazione. In
sostanza, dunque, la nuova normativa prevede un termine di
30 giorni per la verifica delle prestazioni effettuate e un
termine di pari durata per le operazioni di pagamento.
Nel sistema delineato dal dpr 207/2010, la verifica della
conformità della prestazione al contratto, che si esplicita
essenzialmente nella verifica della conformità dei lavori
eseguiti al progetto, viene effettuata progressivamente, ai
sensi dell'art. 185, dal direttore dei lavori che li
certifica sui libretti delle misure in contraddittorio con
l'esecutore e li riporta successivamente sul registro di
contabilità. Rispetto a tale attività di verifica,
l'emanazione dello Stato avanzamento lavori (Sal) assume un
carattere ricognitivo (art. 194). La fase di verifica si
conclude con il rilascio da parte del responsabile del
procedimento del certificato di pagamento che costituisce
l'atto di liquidazione del credito (art. 195).
Al riguardo, la circolare ministeriale chiarisce che, in
base alla normativa sopravvenuta, tale fase non può avere
una durata superiore a 30 giorni dalla data della
prestazione e cioè dalla data in cui dalla contabilizzazione
risulta che i lavori hanno raggiunto l'importo
contrattualmente previsto per il pagamento. Pertanto, il
termine speciale di 45 giorni indicato dall'art. 143, comma
1, primo periodo, del regolamento è da intendersi sostituito
con quello ordinario di 30 giorni.
Discorso analogo vale per il termine di 90 giorni dal
collaudo fissato dall'art. 143, comma 2, del regolamento per
il pagamento del saldo, anch'esso da ritenersi sostituito
con quello ordinario di 30 giorni.
Secondo la circolare, è ancora possibile, tuttavia, pattuire
contrattualmente termini più lunghi, purché non superiori,
nel primo caso, a 45 giorni e nel secondo caso a 60. Di
diverso avviso l'Ance, secondo cui un temine più elevato per
la fase di verifica sarebbe ingiustificato e dunque iniquo
per il creditore, giacché la verifica relativa alla
conformità al progetto dei lavori eseguiti è effettuata in
modo progressivo dal direttore dei lavori e sostanzialmente
esaurita nel momento in cui i dati vengono riportati sul
registro di contabilità e da questo viene estratto lo stato
di avanzamento lavori, mentre le operazioni di verifica
effettuate dal responsabile del procedimento si sostanziano
essenzialmente nella richiesta del Durc. Più in generale,
valgono le perplessità già evidenziate nell'articolo nella
pagina precedente sulla legittimità delle deroghe previste
dal diritto interno rispetto al testo della direttiva.
È invece ancora applicabile il termine di 30 giorni previsto
dall'art. 143, comma 1, secondo periodo, del regolamento per
il pagamento delle rate di acconto e decorrente
dall'emissione del certificato di pagamento, in quanto
coincidente con quello fissato da citato art. 4, comma 2,
del dlgs 231.
---------------
Sale il conto degli interessi.
In base al dlgs 192, in caso di ritardato pagamento, scatta
(senza necessità di costituzione in mora) l'obbligo per il
debitore di corrispondere gli interessi ad un saggio pari al
tasso Bce (per il semestre in corso, lo 0,75%, come da
comunicato del Mef pubblicato sulla G.U. n. 14 del 17.01.2013), maggiorato dell'8%.
Anche in tal caso, rispetto al settore dei lavori pubblici,
la nuova disciplina ha tacitamente abrogato quella
previgente, prevista dall'art. 144, commi 2 e 3, del dpr
207/2010. In base a tali disposizioni, nei primi 60 giorni
di ritardo nel pagamento dell'acconto e del saldo si
applicava il tasse legale (oggi pari al 2,5%), mentre dal
sessantunesimo giorno il saggio stabilito annualmente con
decreto interministeriale (da ultimo fissato al 5,27%). Nei
fatti, con tempi medi di pagamento di circa 8 mesi, i
ritardi si registrano sia sul certificato che sul mandato e
quindi il tasso legale si applicava per i primi 4 mesi di
ritardo.
Secondo la circolare ministeriale, sempre in virtù del
principio del favor creditoris, dal 01.01.2013 si
applica, invece, il (più elevato) tasso previsto dal dlgs
192 (oggi, come detto, l'8,75%), fatta eccezione per il caso
(previsto dall'art. 144, comma 1, del regolamento) di
ritardo nell'emissione del certificato di pagamento.
Si tratta di una novità importante, in grado di correggere
almeno in parte la precedente distorsione che portava la
p.a. (e specialmente gli enti locali) a dare precedenza ai
pagamenti in altri settori, ai quali si applicava il tasso
più pesante previsto dal vecchio dlgs 231 (Bce+7%) (articolo ItaliaOggi
Sette del 28.01.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Detrazioni, tetti non
cumulabili.
Limiti sdoppiati (48 mila e 96 mila ) per lavori distinti.
Il Consiglio nazionale del notariato
interpreta le più recenti norme sul recupero edilizio.
Partenza con il dubbio per le detrazioni per il recupero
edilizio del 50% spettanti alle cessioni di fabbricati
ristrutturati dalle imprese costruttrici. L'agevolazione,
introdotta nel 1998 e prorogata più volte, è stata resa
permanente dal dl n. 201/2011 (il cosiddetto decreto Salva
Italia).
La disciplina è stata di recente modificata con il dl n.
83/2012 (il cosiddetto decreto crescita), che ha elevato,
anche se per un limitato periodo di tempo, la misura della
detrazione e il limite massimo di spesa ammessa al
beneficio. In particolare, per le spese sostenute dal 26.06.2012 (data di entrata in vigore del dl 83/2012) al 30.06.2013, la detrazione Irpef aumenta al 50% (in luogo di
quella precedente del 36%) e raddoppia il limite massimo di
spesa (96 mila euro per unità immobiliare).
Alla materia il Consiglio nazionale del notariato ha
dedicato lo
studio
21.09.2012 n. 129-2012/T, pubblicato lo scorso 08.01.2013, che esamina, in particolare, le novità di
maggior interesse per l'esercizio dell'attività notarile,
quali la possibilità di applicare le nuove disposizioni
anche agli acquisti di unità immobiliari abitative cedute da
imprese di costruzione che abbiano effettuato interventi di
recupero e/o ristrutturazione edilizia dell'intero edificio.
Il regime delle detrazioni. Le agevolazioni finalizzate al
recupero del patrimonio edilizio sono state potenziate
dall'art. 3, comma 1 del dl n. 83/2012, secondo cui nel
periodo compreso dalla data di entrata in vigore (26.06.2012) fino al 30.06.2013, sulle spese relative agli
interventi di cui all'art. 16-bis, comma 1, del dpr n.
916/1986, spetta una detrazione di imposta del 50%, fino a
un ammontare complessivo non superiore a 96 mila euro.
La disposizione non presenta in sé particolari difficoltà
interpretative, ma i problemi maggiori trovano origine nella
fase transitoria mancando un'espressa disciplina normativa.
Poiché vige il principio di cassa, è irrilevante che i
lavori siano stati materialmente eseguiti anche prima del 26.06.2012, assumendo esclusivamente rilevanza la data di
effettivo pagamento fatto tramite bonifico riportando
sull'ordinativo inoltrato alla banca tutti i dati necessari
al fine di conservare il diritto alla detrazione. Quindi, se
il contribuente ha effettuato il pagamento dei lavori entro
il 25.06.2012 in misura eccedente rispetto al precedente
limite di 48 mila euro, non potrà fruire della maggiore
detrazione prevista dal dl 83/2012. Il limite massimo sarà
quello precedente come pure la percentuale di detrazione
applicabile continuerà a essere quella del 36%.
La data di avvenuto pagamento assumerà rilevanza anche se i
lavori sono ancora in corso al 26.06.2012, cioè alla
data di entrata in vigore dell'intervento normativo. Tutti i
bonifici effettuati a partire da tale data per interventi di
manutenzione e ristrutturazione edilizia di abitazioni,
relative pertinenze e parti comuni condominiali, possono
fruire della maggiore detrazione.
I limiti. La somma massima su cui commisurare la detrazione,
per i lavori iniziati prima e terminati dopo il 26 giugno
2012, non può mai superare il limite di 96 mila euro. In
pratica non sarebbe corretto sommare il precedente limite di
48 mila euro, con quello nuovo (temporaneo) di 96 mila euro.
Il problema dell'applicabilità del «doppio» limite si è
posto anche nel caso in cui sullo stesso fabbricato il
contribuente avesse realizzato un duplice intervento, con un
differente provvedimento urbanistico, laddove il secondo
intervento fosse iniziato dopo il 25.06.2012. Il
problema è stato risolto prontamente con un intervento
chiarificatore del ministero dell'economia che rispondendo a
un'interrogazione parlamentare dello scorso 03.07.2012 ha
precisato che le spese detraibili anche per interventi
plurimi sul medesimo fabbricato non possono in ogni caso
superare l'importo di 96 mila euro. Secondo la risposta
ministeriale anche in questo caso troverà applicazione la
regola prevista per la prosecuzione dei lavori iniziati in
anni precedenti. Pertanto in caso di prosecuzione
dell'intervento non sarà mai possibile superare il limite
massimo di 96 mila euro.
A tale proposito, il Notariato ritiene, però, che
l'esecuzione di molteplici interventi di ristrutturazione
sulla stessa unità immobiliare non determini automaticamente
l'ipotesi di prosecuzione di un intervento iniziato in un
periodo precedente. La valutazione dovrà essere effettuata
di volta in volta avendo riguardo alle opere effettivamente
eseguite, alla tipologia di lavori e tenendo in
considerazione, quindi, anche i diversi provvedimenti
urbanistici. Un utile elemento di indagine potrà al limite
essere rappresentato anche dal tempo decorso dal termine di
un intervento rispetto all'inizio di quello successivo. Per
esempio se i lavori di rifacimento della facciata di un
fabbricato fossero stati ultimati nel 2009 e
successivamente, nell'anno 2012 (dopo il 26.06.2012),
fosse realizzato un successivo intervento relativo alla
impermeabilizzazione delle terrazze condominiali, non sembra
possa sostenersi che il secondo intervento costituisca, di
fatto, la prosecuzione del primo.
In questo caso sarà possibile beneficiare della detrazione
del 36% fino a un massimo di 48 mila euro per il rifacimento
della facciata e della detrazione del 50%, con il tetto
massimo di 96 mila euro, per il secondo intervento. La
possibilità di fruire della «doppia» detrazione risiede
proprio nella ragionevole certezza dell'esecuzione di due
distinti e autonomi interventi senza che il secondo
costituisca, la mera prosecuzione del primo.
Sotto questo profilo il lasso temporale esteso rende
sicuramente più agevole l'interpretazione, ma in alcuni casi
potrebbe non essere agevole distinguere l'una dall'altra
ipotesi (articolo ItaliaOggi
Sette del 28.01.2013). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’obbligo di richiedere
la licenza edilizia (ora permesso di costruire) per
realizzare nuove edificazioni è stato introdotto dall'art.
31, legge urbanistica n. 1150 del 942 esclusivamente per gli
immobili situati nei centri urbani.
Solo a seguito dell'approvazione della c.d. legge ponte n.
765 del 1967, tale obbligo di munirsi del titolo abilitativo
ad edificare è stato esteso all'intero territorio comunale.
Conseguentemente, è illegittima l'ordinanza demolitoria
emessa in relazione ad un immobile realizzato in data
antecedente al settembre 1967, ossia precedente
all'introduzione dell'obbligo di ottenere la licenza
edilizia per immobili siti al di fuori dei centri abitati.
Invero, come evidenziato da costante
giurisprudenza (cfr. TAR Napoli, Sez. VI, n. 17416 del
15.09.2010), “l’obbligo di richiedere la licenza edilizia
(ora permesso di costruire) per realizzare nuove
edificazioni è stato introdotto dall'art. 31, legge
urbanistica n. 1150 del 942 esclusivamente per gli immobili
situati nei centri urbani. Solo a seguito dell'approvazione
della c.d. legge ponte n. 765 del 1967, tale obbligo di
munirsi del titolo abilitativo ad edificare è stato esteso
all'intero territorio comunale. Conseguentemente, è
illegittima l'ordinanza demolitoria emessa in relazione ad
un immobile realizzato in data antecedente al settembre
1967, ossia precedente all'introduzione dell'obbligo di
ottenere la licenza edilizia per immobili siti al di fuori
dei centri abitati”
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 31.01.2013 n. 321 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Ai
fini della legittimità della procedura di realizzazione di
un parcheggio pertinenziale da realizzarsi ai sensi
dell'articolo 9 della l. 122 del 1989 non è indispensabile
che il numero dei proprietari di immobili siti nelle
vicinanze del realizzando parcheggio sia individuato prima
della costruzione di questo e che, quindi, il vincolo
pertinenziale debba preesistere, richiedendosi solo che
detto vincolo venga previsto e, poi, effettivamente
costituito e trascritto nelle forme prescritte.
---------------
Il comma 1 dell’articolo 9 della l. 122 del 1989 non limita
in modo esclusivo ai proprietari degli immobili interessati
la legittimazione a realizzare parcheggi di tipo
pertinenziale. Ed infatti, il tenore stesso della
disposizione in parola (la quale declina con formula
impersonale il riferimento ai “parcheggi da destinare a
pertinenza”) implica che i parcheggi collocati in aree
esterne rispetto ai fabbricati interessati non debbano
necessariamente essere realizzati dai proprietari
dell’immobile, ma possano essere realizzati anche da parte
di terzi soggetti.
Ai limitati fini che qui rilevano, si osserva che la più
recente evoluzione normativa ha attenuato il vincolo della
inalienabilità delle autorimesse realizzate avvalendosi
delle previsioni derogatorie di cui all’articolo 9 della l.
122, cit.
Si richiama, al riguardo, l’articolo 10 del decreto-legge
09.02.2012, n. 5 (come modificato dalla relativa legge di
conversione) il quale, novellando la previsione di cui al
comma 5 dell’articolo 9, cit., ha previsto che “(…) la
proprietà dei parcheggi realizzati a norma del comma 1 può
essere trasferita, anche in deroga a quanto previsto nel
titolo edilizio che ha legittimato la costruzione e nei
successivi atti convenzionali, solo con contestuale
destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza di altra
unità immobiliare sita nello stesso comune”.
---------------
La realizzazione del parcheggio pertinenziale (in deroga ex
lege Tognoli e sottostante ad un giardino vincolato) non
risulta in contrasto con la destinazione a giardino della
superficie soprastante: una siffatta incompatibilità non è
sancita da alcuna delle disposizioni dinanzi richiamate, né
è desumibile dalle concrete –e invero lievi, come ritenuto
in sede amministrativa- modificazioni che la realizzazione
del progetto apporterà allo stato estetico e funzionale del
giardino.
Ciò che il decreto impositivo del vincolo è volto a tutelare
è l’esistenza dell’area a giardino e la sua coessenzialità
con l’unicum funzionale rappresentato dai due corpi di
fabbrica e –appunto– dal giardino antistante. Al contrario
–come correttamente rilevato dai primi Giudici– la
sussistenza di un vincolo (anche) sul giardino non sta certo
a significare che tale giardino sia vincolato sotto il
profilo della sua assoluta immodificabilità per intero e
nella sua configurazione e strutturazione attuale (a tacer
d’altro, la relazione storico-artistica allegata al decreto
impositivo del vincolo nulla riferisce in ordine alla
struttura del giardino, alle essenze ivi impiantate e alla
loro consistenza complessiva, in tal modo confermando che
l’esistenza del vincolo sul giardino non sta a significare
l’assoluta intangibilità di ogni singolo arbusto ivi
esistente).
---------------
La circostanza per cui il comma 1 dell’articolo 9 della l.
122 del 1989 richiami in modo espresso unicamente deroghe
alla disciplina urbanistica e ai regolamenti edilizi, non
sta a significare che la realizzazione di parcheggi
pertinenziali interrati sia radicalmente preclusa nel caso
di immobili sottoposti a vincolo.
Più semplicemente, il silenzio sul punto da parte del
Legislatore deve essere inteso non già nel senso di impedire
in toto il ricorso alle procedure di cui all’articolo 9,
cit. nel caso di immobili sottoposti a vincolo, bensì nel
senso di non ammettere procedure derogatorie rispetto a
quelle ordinariamente esperibili in materia di gestione del
vincolo (nel caso di specie: vincolo storico-monumentale e
vincolo archeologico).
Al riguardo il Collegio ritiene di richiamare il condiviso
orientamento secondo cui -ai fini della legittimità della
procedura di realizzazione di un parcheggio pertinenziale da
realizzarsi ai sensi dell'articolo 9 della l. 122 del 1989-
non è indispensabile che il numero dei proprietari di
immobili siti nelle vicinanze del realizzando parcheggio sia
individuato prima della costruzione di questo e che, quindi,
il vincolo pertinenziale debba preesistere, richiedendosi
solo che detto vincolo venga previsto e, poi, effettivamente
costituito e trascritto nelle forme prescritte (in tal
senso: Cons. Stato, V, 26.05.2003, n. 2852).
Ora, una volta accertata la sussistenza del vincolo
pertinenziale in questione nei confronti dal compendio
immobiliare di ‘casa Cervi’, ciò non esclude che,
sussistendone i presupposti, venga operato il trasferimento
del vincolo stesso nei confronti di ulteriori unità
immobiliari nei cui confronti, parimenti, un siffatto
vincolo possa essere legittimamente istituito, conformemente
alle previsioni di cui all’articolo 66 della L.R. 12 del
2005 (la disposizione in questione –emanata in base alla
potestà legislativa regionale in materia di governo del
territorio- consente, infatti, ai proprietari di immobili di
realizzare, nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne,
parcheggi i quali possono anche essere collocati
esternamente al lotto di appartenenza, senza limiti di
distanza rispetto alle unità immobiliari alle quali sono
legati dal vincolo di pertinenzialità, purché nell’ambito
del medesimo comune o di comuni contermini).
Al riguardo si osserva che la giurisprudenza di questo
Consiglio di Stato ha stabilito che il comma 1 dell’articolo
9 della l. 122 del 1989 non limita in modo esclusivo ai
proprietari degli immobili interessati la legittimazione a
realizzare parcheggi di tipo pertinenziale. Ed infatti, il
tenore stesso della disposizione in parola (la quale declina
con formula impersonale il riferimento ai “parcheggi da
destinare a pertinenza”) implica che i parcheggi
collocati in aree esterne rispetto ai fabbricati interessati
non debbano necessariamente essere realizzati dai
proprietari dell’immobile, ma possano essere realizzati
anche da parte di terzi soggetti (in tal senso: Cons. Stato,
IV, 31.03.2010, n. 1842).
Ai limitati fini che qui rilevano, si osserva che la più
recente evoluzione normativa ha attenuato il vincolo della
inalienabilità delle autorimesse realizzate avvalendosi
delle previsioni derogatorie di cui all’articolo 9 della l.
122, cit.
Si richiama, al riguardo, l’articolo 10 del decreto-legge
09.02.2012, n. 5 (come modificato dalla relativa legge di
conversione) il quale, novellando la previsione di cui al
comma 5 dell’articolo 9, cit., ha previsto che “(…) la
proprietà dei parcheggi realizzati a norma del comma 1 può
essere trasferita, anche in deroga a quanto previsto nel
titolo edilizio che ha legittimato la costruzione e nei
successivi atti convenzionali, solo con contestuale
destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza di altra
unità immobiliare sita nello stesso comune”.
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Del pari, è infondato il quinto
motivo di appello (con cui si è lamentato che i primi
Giudici abbiano omesso di rilevare come l’affermazione
relativa alla salvaguardia del giardino antistante la ‘casa
Cervi’ fosse basata più su mere affermazioni di
principio, che non su dati concreti e dimostrati).
Ad avviso del Collegio, dagli atti di causa (e segnatamente,
dall’esame degli elaborati di progetto riguardati in
relazione al complessivo stato dei luoghi) non emerge alcuna
violazione:
a) né del comma 1 dell’articolo 9 della l. 122 del 1989
(secondo cui la realizzabilità dei parcheggi in deroga è
ammessa “tenuto conto dell’uso della superficie
sovrastante (…)”);
b) né dell’articolo 67 della L.R. 12 del 2005 (secondo cui “la
realizzazione dei parcheggi non può contrastare (…) con
l’uso delle superfici sovrastanti”);
c) né del decreto impositivo del vincolo (il quale imponeva
di evitare “improprie trasformazioni” dello stato dei
luoghi).
Si osserva al riguardo che la realizzazione del parcheggio
pertinenziale non risulta in contrasto con la destinazione a
giardino della superficie soprastante: una siffatta
incompatibilità non è sancita da alcuna delle disposizioni
dinanzi richiamate, né è desumibile dalle concrete –e invero
lievi, come ritenuto in sede amministrativa- modificazioni
che la realizzazione del progetto apporterà allo stato
estetico e funzionale del giardino.
Del resto, gli appellati hanno dimostrato in modo adeguato
che la realizzazione delle rimesse interrate non comporterà
alcuno stravolgimento dell’assetto del giardino, il quale
verrà salvaguardato nella sua funzione, nelle sue dimensioni
e nell’assetto di base delle essenze ivi esistenti (la
relazione agronomica prodotta in atti conferma che le
essenze arboree di maggior pregio verranno conservate).
Ad ogni modo, non appare irrilevante osservare che ciò che
il decreto impositivo del vincolo è volto a tutelare è
l’esistenza dell’area a giardino e la sua coessenzialità con
l’unicum funzionale rappresentato dai due corpi di
fabbrica e –appunto– dal giardino antistante. Al contrario
–come correttamente rilevato dai primi Giudici– la
sussistenza di un vincolo (anche) sul giardino non sta certo
a significare che tale giardino sia vincolato sotto il
profilo della sua assoluta immodificabilità per intero e
nella sua configurazione e strutturazione attuale (a tacer
d’altro, la relazione storico-artistica allegata al decreto
impositivo del vincolo nulla riferisce in ordine alla
struttura del giardino, alle essenze ivi impiantate e alla
loro consistenza complessiva, in tal modo confermando che
l’esistenza del vincolo sul giardino non sta a significare
l’assoluta intangibilità di ogni singolo arbusto ivi
esistente).
Per le medesime ragioni, non può ritenersi che il progetto
approvato abbia comportato violazioni delle previsioni di
cui all’articolo 63 delle N.T.A. al P.R.G. (secondo cui, nel
comparto per cui è causa sono ammessi unicamente interventi
di restauro e risanamento conservativo) e del successivo
articolo 67 (secondo cui, per ciò che riguarda i giardini, è
imposta la conservazione integrale e il mantenimento delle
piantumazioni esistenti e delle pavimentazioni
tradizionali).
Per ciò che riguarda, in particolare, la seconda delle
richiamate disposizioni, si ritiene che la complessiva
risistemazione del giardino –lo si ripete: rimasto intatto
nella sua funzione e struttura di fondo– risulti compatibile
con una lettura in senso sostanziale –e non meramente
formalistico– delle pertinenti prescrizioni di piano.
---------------
Il quarto motivo di
appello (con cui si è lamentata l’erroneità della sentenza
in epigrafe per la parte in cui ha respinto il motivo di
ricorso con il quale si era affermato che la procedura
derogatoria di cui all’articolo 9 della l. 122 del 1989 non
sarebbe in radice applicabile nel caso di immobili
sottoposti a vincolo) è infondato.
Si osserva al riguardo che la circostanza per cui il comma 1
dell’articolo 9 della l. 122 del 1989 cit. richiami in modo
espresso unicamente deroghe alla disciplina urbanistica e ai
regolamenti edilizi, non sta a significare che la
realizzazione di parcheggi pertinenziali interrati sia
radicalmente preclusa nel caso di immobili sottoposti a
vincolo.
Più semplicemente, il silenzio sul punto da parte del
Legislatore deve essere inteso (e correttamente è stato
inteso dai primi Giudici):
-
non già nel senso di impedire in toto il ricorso alle
procedure di cui all’articolo 9, cit. nel caso di immobili
sottoposti a vincolo, bensì
nel senso di non ammettere procedure derogatorie rispetto a
quelle ordinariamente esperibili in materia di gestione del
vincolo (nel caso di specie: vincolo storico-monumentale e
vincolo archeologico) (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.01.2013 n. 539 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Dopo la sentenza della
Corte costituzionale 14-27.07.2005, n. 336, pur non
potendosi escludere un potere di localizzazione del Comune
per le stazioni radio-base, tale possibilità è esclusa in
Lombardia dall'art. 4, comma 7, della L.r. n. 11 del 2001,
secondo il quale i detti impianti di telefonia mobile, se di
potenza totale non superore a 300 watt, non sottostanno ad
alcuna specifica regolamentazione urbanistica.
Ne consegue che sono illegittime le disposizioni
pianificatorie comunali che introducano in termini assoluti
divieti di installazione per simili impianti.
Venendo al merito del ricorso il primo motivo di
ricorso è fondato, atteso che, dopo la sentenza della Corte
costituzionale 14-27.07.2005, n. 336, pur non potendosi
escludere un potere di localizzazione del Comune per le
stazioni radio-base, tale possibilità è esclusa in Lombardia
dall'art. 4, comma 7, della L.r. n. 11 del 2001, secondo il
quale i detti impianti di telefonia mobile, se di potenza
totale non superore a 300 watt, non sottostanno ad alcuna
specifica regolamentazione urbanistica; ne consegue che sono
illegittime le disposizioni pianificatorie comunali che
introducano in termini assoluti divieti di installazione per
simili impianti (TAR Lombardia Milano, sez. I, 13.01.2010, n. 23; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 27.05.2005,
n. 1113)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 29.01.2013 n. 261 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In tema di distanze nelle costruzioni, qualora
gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze
dal confine e nulla aggiungano sulla possibilità di
costruire “in aderenza” od “in appoggio”, la preclusione di
dette facoltà non consente l’operatività del principio della
prevenzione; nel caso in cui, invece, tali facoltà siano
previste, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella
disciplinata dagli artt. 873 e segg. del c.c., con la
conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul
confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta
edificare, nell'alternativa di chiedere la comunione del
muro e di costruire in aderenza, ovvero di arretrare la sua
costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza
imposta dallo strumento urbanistico.
Di qui la funzione e la rilevanza della deroga, diretta a
consentire l'esercizio delle predette facoltà che,
diversamente, sarebbero precluse dalla regola ordinaria
sulle distanze dal confine e tra fabbricati.
In definitiva, laddove il regolamento edilizio locale
disponga la distanza minima dai confini con espressa
ammissibilità dell'edificazione in aderenza, tale previsione
deve essere intesa nel senso di fare salvo il principio
della prevenzione previsto dagli art. 873 e 875 c.c.,
secondo i quali il proprietario che costruisce per primo ha
la facoltà di scelta fra costruire alla distanza
regolamentare ed erigere il proprio fabbricato sul confine,
ponendo così il vicino che voglia a sua volta edificare
nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e
costruire in aderenza oppure di arretrare la sua costruzione
fino a rispettare la maggior distanza imposta dal
regolamento locale.
In tema di distanze nelle costruzioni, qualora
gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze
dal confine e nulla aggiungano sulla possibilità di
costruire “in aderenza” od “in appoggio”, la preclusione di
dette facoltà non consente l’operatività del principio della
prevenzione; nel caso in cui, invece, tali facoltà siano
previste, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella
disciplinata dagli artt. 873 e segg. del c.c., con la
conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul
confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta
edificare, nell'alternativa di chiedere la comunione del
muro e di costruire in aderenza, ovvero di arretrare la sua
costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza
imposta dallo strumento urbanistico (Corte di Cassazione,
sez. II civile – 12/10/2012 n. 17472). Di qui la funzione e
la rilevanza della deroga, diretta a consentire l'esercizio
delle predette facoltà che, diversamente, sarebbero precluse
dalla regola ordinaria sulle distanze dal confine e tra
fabbricati.
In definitiva, laddove il regolamento edilizio locale
disponga la distanza minima dai confini con espressa
ammissibilità dell'edificazione in aderenza, tale previsione
deve essere intesa nel senso di fare salvo il principio
della prevenzione previsto dagli art. 873 e 875 c.c.,
secondo i quali il proprietario che costruisce per primo ha
la facoltà di scelta fra costruire alla distanza
regolamentare ed erigere il proprio fabbricato sul confine,
ponendo così il vicino che voglia a sua volta edificare
nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e
costruire in aderenza oppure di arretrare la sua costruzione
fino a rispettare la maggior distanza imposta dal
regolamento locale (TAR Puglia Lecce, sez. III – 05/05/2011
n. 806)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 29.01.2013 n. 102 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
E’ vero da un lato che secondo la giurisprudenza
il computo del limite di altezza –entro il quale è
consentita l’edificazione– va effettuato prendendo come
parametro l'originario piano di campagna, cioè il livello
naturale del terreno di sedime e non la quota del terreno
sistemato, salvo deroga del principio ad opera di normative
regolamentari espresse.
Anche questo Tribunale ha rilevato che il piano di campagna
da assumere come riferimento –al fine di delineare la
posizione altimetrica del fabbricato edificando, con i
riflessi che ne derivano sotto il profilo della relativa
valutazione urbanistica– è quello non alterato da modifiche
indotte dall'attività umana, avente scopo edificatorio o
colturale: la quota naturale del terreno o piano di
campagna, quale nozione tradizionalmente contemplata dagli
strumenti urbanistici, si identifica con il livello dei
suoli vergini (piano originario), residuo finale delle
azioni di modellamento naturale, prima di qualsiasi
intervento umano (piano artificiale) che contempli ad es.
riporti o reinterri ovvero impianti di coltura.
E’ vero da un lato (come
sostiene parte ricorrente) che secondo la giurisprudenza il
computo del limite di altezza –entro il quale è consentita
l’edificazione– va effettuato prendendo come parametro
l'originario piano di campagna, cioè il livello naturale del
terreno di sedime e non la quota del terreno sistemato,
salvo deroga del principio ad opera di normative
regolamentari espresse (Consiglio di Stato, sez. IV –
04/04/2011 n. 2106 che richiama sez. IV – 24/04/2009 n. 2579).
Anche questo Tribunale (cfr. sez. I – 10/04/2012 n. 597) ha
rilevato che il piano di campagna da assumere come
riferimento –al fine di delineare la posizione altimetrica
del fabbricato edificando, con i riflessi che ne derivano
sotto il profilo della relativa valutazione urbanistica– è
quello non alterato da modifiche indotte dall'attività
umana, avente scopo edificatorio o colturale: la quota
naturale del terreno o piano di campagna, quale nozione
tradizionalmente contemplata dagli strumenti urbanistici, si
identifica con il livello dei suoli vergini (piano
originario), residuo finale delle azioni di modellamento
naturale, prima di qualsiasi intervento umano (piano
artificiale) che contempli ad es. riporti o reinterri ovvero
impianti di coltura.
Ad avviso del Collegio, tuttavia, si può accogliere la prospettazione avanzata dai resistenti in via subordinata,
considerando i fronti dell’edificio emergenti dalla quota
originaria di campagna, secondo il perimetro di tutto il
fabbricato: detto calcolo (denominato B) è racchiuso nella
scheda tecnica n. 2 al doc. 26, e contempla il computo di
tutte le superfici dell’edificio.
Parte ricorrente,
sottolinea come non sia corretto valorizzare anche la
porzione di manufatto destinata a rimessa e deposito, e
tuttavia il perimetro dell’ingombro esterno dei corpi di
fabbrica preso in esame è quello che segue la sagoma e si
sviluppa senza soluzione di continuità, cosicché il metodo
descritto può considerarsi logicamente conforme alla
normativa di piano
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 29.01.2013 n. 102 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La situazione
“giuridicamente rilevante” disciplinata dalla legge
07.08.1990, n. 241, per la cui tutela è attribuito il
diritto di accesso, è nozione diversa e più ampia rispetto
all’interesse all’impugnativa e non presuppone
necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in
termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo. Con
la conseguenza che la legittimazione all’accesso va
riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti
procedimentali oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano
idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi
confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione
giuridica, stante l’autonomia del diritto di accesso, inteso
come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla
situazione legittimante all’impugnativa dell’atto.
L’interesse giuridicamente rilevante che legittima
all’esercizio del diritto di accesso è perciò da intendere
in senso ampio ma deve essere non di meno collegato ad atti
che “siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti”
nei confronti di una specifica posizione giuridica
dell’istante.
Il Collegio ha ritenuto di richiamare specificamente
la sequenza degli atti poiché da essa emerge con chiarezza
l’insussistenza in capo alla ricorrente del presupposto
dell’interesse legittimante all’esercizio del diritto di
accesso.
Infatti:
- questo Consiglio di Stato ha chiarito che “la situazione
“giuridicamente rilevante” disciplinata dalla legge 07.08.1990, n. 241, per la cui tutela è attribuito il diritto di
accesso, è nozione diversa e più ampia rispetto
all’interesse all’impugnativa e non presuppone
necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in
termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo. Con
la conseguenza che la legittimazione all’accesso va
riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti
procedimentali oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano
idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi
confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione
giuridica, stante l’autonomia del diritto di accesso, inteso
come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla
situazione legittimante all’impugnativa dell’atto” (VI,
09.08.2011, n. 4741);
- l’interesse giuridicamente rilevante che legittima
all’esercizio del diritto di accesso è perciò da intendere
in senso ampio ma deve essere non di meno collegato ad atti
che “siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti”
nei confronti di una specifica posizione giuridica
dell’istante;
- nella specie il procedimento nel cui ambito è stato
redatto il parere legale di cui è richiesto l’accesso non ha
attinenza, diretta o indiretta, alla posizione giuridica
attestata dalla ricorrente quale titolo della propria
domanda;
- tale posizione giuridica è infatti asserita in quanto
“concorrente giudiziale” all’incanto; riguardo perciò ad un
procedimento antecedente e diverso da quello poi attivato
dall’istanza di riapertura del condono da parte del signor
A.; sul presupposto, quindi, di un’incidenza di
questo secondo procedimento su quello antecedente che, al
contrario, non si rinviene;
- la condonabilità o meno dei manufatti situati sui terreni
venuti in proprietà del signor A. non ha infatti
alcuna rilevanza sulla procedura di vendita all’asta cui la
ricorrente ha dapprima partecipato, non potendosi
individuare alcun effetto giuridico su tale procedura (in
ipotesi peraltro di portata retroattiva) del distinto
procedimento avviato dopo e ad altri fini, restando gli
immobili di proprietà dell’Albarelli anche in caso di
diniego del condono;
- per cui in conclusione: lo svolgimento del procedimento
sulla domanda di condono non ha incidenza giuridica sulla
previa e distinta procedura d’asta; la possibile attivazione
e conclusione di un eventuale procedimento di condono
avrebbe potuto assumere quindi rilevanza soltanto soggettiva
tra i moventi personali della partecipazione all’asta; è
insussistente, di conseguenza, una posizione giuridica
propria della ricorrente rispetto al procedimento sul
condono e manca dunque il collegamento giuridico
legittimante il diritto all’accesso ai relativi atti, come
correttamente ritenuto dal primo giudice;
- né il fatto che il Comune abbia rilasciato alla ricorrente
copia della domanda del signor A. è di per sé sufficiente a
superare le considerazioni sopra esposte, non potendo
singole iniziative dell’Amministrazione, come la consegna di
un atto o la comunicazione di informazioni, valere a
costituire la titolarità di un asserito diritto all’accesso
agli atti del procedimento
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 28.01.2013 n. 511 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il provvedimento di repressione degli abusi
edilizi costituisce un atto dovuto in mera dipendenza
dall’accertamento dell’abuso e dalla riconducibilità del
medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla
legge, circostanza, questa, che comporta che il
provvedimento sanzionatorio non richiede particolare
motivazione, essendo sufficiente la rappresentazione del
carattere illecito dell’opera realizzata, né previa espressa
comparazione tra l’interesse pubblico alla rimozione
dell’opera, che è in re ipsa, e quello privato alla relativa
conservazione, e ciò anche se l’intervento repressivo
avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso.
Quanto alla riproposta censura di carenza
di motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse
pubblico attuale alla rimozione dell’abuso molto tempo dopo
la relativa realizzazione, questo Collegio reputa non vi
siano ragioni per discostarsi dalla giurisprudenza
dominante, anche di questa Sezione, (cfr., ad esempio, Cons.
Stato, sez. IV, 20.07.2011, n. 4403; sez. VI, 11.05.2011, n. 2781; sez. V, 27.04.2011, n. 2526) secondo cui
il provvedimento di repressione degli abusi edilizi
costituisce un atto dovuto in mera dipendenza
dall’accertamento dell’abuso e dalla riconducibilità del
medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla
legge, circostanza, questa, che comporta che il
provvedimento sanzionatorio non richiede particolare
motivazione, essendo sufficiente la rappresentazione del
carattere illecito dell’opera realizzata, né previa espressa
comparazione tra l’interesse pubblico alla rimozione
dell’opera, che è in re ipsa, e quello privato alla
relativa conservazione, e ciò anche se l’intervento
repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione
dell’abuso
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.01.2013 n. 498 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’ordine di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato e non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e
l’interessato non può dolersi del fatto che
l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i
dovuti atti repressivi.
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è «un soggetto
che pone in essere un comportamento contrastante con le
prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione
dei controlli o comunque nella persistente inerzia
dell’amministrazione nell’esercizio del potere di
vigilanza». In questi caso il «fattore tempo non agisce qui
in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione
amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa
conforme alle statuizioni amministrative pregresse».
La giurisprudenza è costante nel ritenere che
l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e
l’interessato non può dolersi del fatto che
l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i
dovuti atti repressivi (es. Cons. Stato, VI, 11.05.2011,
n. 2781).
In particolare, si è affermato che nel caso di
abusi edilizi vi è «un soggetto che pone in essere un
comportamento contrastante con le prescrizioni
dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o
comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione
nell’esercizio del potere di vigilanza». In questi caso il
«fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente
legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela
di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative
pregresse» (Cons. Stato, IV, 04.05.2012, n. 2592)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 28.01.2013 n. 496 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La nozione di
pertinenzialità ai fini urbanistici ed edilizi ha connotati
diversi da quelli civilistici.
In particolare, ha rilievo determinante non tanto il legame
materiale tra pertinenza ed immobile principale quanto che:
1) la prima non abbia autonoma destinazione e autonomo
valore di mercato e che esaurisca la propria destinazione
d’uso nel rapporto funzionale con l’edificio principale,
così da non incidere sul carico urbanistico;
2) vengano in rilievo «manufatti di dimensioni estremamente
modeste e ridotte, inidonei, quindi, ad alterare in modo
significativo l’assetto del territorio».
La giurisprudenza è
costante nel ritenere che la nozione di pertinenzialità ai
fini urbanistici ed edilizi ha connotati diversi da quelli
civilistici.
In particolare, ha rilievo determinante non
tanto il legame materiale tra pertinenza ed immobile
principale quanto che:
1) la prima non abbia autonoma
destinazione e autonomo valore di mercato e che esaurisca la
propria destinazione d’uso nel rapporto funzionale con
l’edificio principale, così da non incidere sul carico
urbanistico (Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781);
2)
vengano in rilievo «manufatti di dimensioni estremamente
modeste e ridotte, inidonei, quindi, ad alterare in modo
significativo l’assetto del territorio» (Cons. Stato, VI, 13.01.2010,
n. 41)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 28.01.2013 n. 496 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La mera presentazione
dell'istanza di condono non autorizza la prosecuzione dei
lavori abusivi a completamento delle opere oggetto della
richiesta di sanatoria, le quali, fino al momento
dell'eventuale accoglimento della domanda di condono, devono
ritenersi comunque abusive.
Pertanto l'ingiunzione di demolizione è del tutto legittima
atteso che "in presenza di manufatti abusivi non condonati
né sanati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili,
nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione
straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo,
della ristrutturazione, della realizzazione di opere
costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale, alla
quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi
la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere
che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono
ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del
Comune di ordinarne la demolizione. Ciò non significa negare
in assoluto la possibilità di intervenire su immobili
rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo
affermare che, a pena di assoggettamento della medesima
sanzione prevista per l'immobile abusivo cui ineriscono, ciò
deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero
segnatamente dell'art. 35, l. n. 47 del 1985".
Detta norma consente -in presenza dei richiesti presupposti,
fra i quali che si tratti di opere di cui all'art. 31, non
comprese tra quelle indicate nell'art. 33 - queste non
suscettibili di sanatoria in quanto incidenti su aree
gravate da vincoli di inedificabilità assoluta- il
completamento "sotto la propria responsabilità" di quanto
già realizzato e fatto oggetto di domanda di condono
edilizio "solo al decorso del termine dilatorio di trenta
giorni dalla notifica al Comune del proprio intendimento,
con allegazione di perizia giurata ovvero documentazione
avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi".
Infatti, per giurisprudenza costante, la mera presentazione dell'istanza
di condono non autorizza la prosecuzione dei lavori abusivi
a completamento delle opere oggetto della richiesta di
sanatoria, le quali, fino al momento dell'eventuale
accoglimento della domanda di condono, devono ritenersi
comunque abusive (TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999; TAR Campania Salerno, sez. II, 01.03.2011, n. 379; TAR Campania Napoli, sez. VII, 03.11.2010, n. 22302; in senso analogo TAR Campania
Napoli, sez. IV, 24.11.2009, n. 7961 secondo cui
inoltre "laddove poi si tratti di opere eseguite in area
vincolata occorre che venga acquisito il parere delle
autorità competenti ai sensi dell'articolo 32 della stessa
legge ed è inapplicabile il meccanismo del silenzio assenso,
alla luce delle disposizioni di cui alla legge
summenzionata").
Pertanto l'ingiunzione di demolizione è del tutto
legittima atteso che "in presenza di manufatti abusivi non
condonati né sanati, gli interventi ulteriori (sia pure
riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della
manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento
conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di
opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale, alla
quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi
la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere
che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono
ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del
Comune di ordinarne la demolizione. Ciò non significa negare
in assoluto la possibilità di intervenire su immobili
rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo
affermare che, a pena di assoggettamento della medesima
sanzione prevista per l'immobile abusivo cui ineriscono, ciò
deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero
segnatamente dell'art. 35, l. n. 47 del 1985" (TAR
Campania Napoli, sez. VI, 03.12.2010, n. 26788).
Detta norma consente -in presenza dei richiesti
presupposti, fra i quali che si tratti di opere di cui
all'art. 31, non comprese tra quelle indicate nell'art. 33 -
queste non suscettibili di sanatoria in quanto incidenti su
aree gravate da vincoli di inedificabilità assoluta- il
completamento "sotto la propria responsabilità" di quanto
già realizzato e fatto oggetto di domanda di condono
edilizio "solo al decorso del termine dilatorio di trenta
giorni dalla notifica al Comune del proprio intendimento,
con allegazione di perizia giurata ovvero documentazione
avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi"
(TAR Campania Napoli, sez. VI, 12.11.2010, n.
24017).
Pertanto nell’ipotesi di specie l’ordinanza di demolizione è
sufficientemente e legittimamente motivata in riferimento al
carattere abusivo delle opere, realizzate -dopo la
presentazione dell’istanza di condono e dopo la scadenza dei
termini previsti per l’ultimazione dei lavori dalla L.
326/2003- venendo nella specie in rilievo un atto vincolato
il cui presupposto è dato dal mero carattere abusivo delle
opere realizzate, a prescindere dalla modestia delle
medesime, in quanto le stesse ripetono le medesime
caratteristiche di illegittimità dell’opera principale cui
ineriscono, salvo che la stessa non sia stata previamente
condonata (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.01.2013 n. 614 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Appalti,
il volontariato può partecipare.
Le associazioni di volontariato possono concorrere
all'aggiudicazione di appalti pubblici anche se non svolgono
fini di lucro e se l'attività connessa alla partecipazione
alla gara ha carattere «marginale»; la legittimazione deriva
dalla legge sul volontariato e dalla disciplina sulle
cosiddette imprese sociali di cui al decreto 155/2006.
È
quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 23.01.2013 n. 387 che riforma la sentenza
del Tar Campania, Napoli, sezione I, n. 1666/2008 che non
aveva riconosciuto legittima la partecipazione della
associazione alla gara.
I giudici affermano infatti che le
associazioni di volontariato possono essere aggiudicatarie
di gare di pubblici appalti, in quanto l'assenza di fine di
lucro non è di per sé ostativa della partecipazione ad
appalti pubblici. Tale affermazione viene motivata in primo
luogo con la nota giurisprudenza comunitaria del 2007 (in
particolare sez. III, 29.11.2007, causa C-119/06), ma
la parte più interessante della motivazione è quella in cui
la legittimazione si lega a quanto prevede in Italia la
legge quadro sul volontariato che, nell'elencare le entrate
di tali associazioni, menziona anche le entrate derivanti da
attività commerciali o produttive svolte a latere, con ciò
riconoscendo la capacità di svolgere attività di impresa.
Il
Consiglio di stato, infine, motiva la decisione riconducendo
le associazioni di volontariato nel novero delle cosiddette
«imprese sociali»: «esse possono essere ammesse alle gare
pubbliche quali “imprese sociali”, a cui il dlgs 24.03.2006
n. 155 ha riconosciuto la legittimazione a esercitare in via
stabile e principale un'attività economica organizzata per
la produzione e lo scambio di beni o di servizi di utilità
sociale, diretta a realizzare finalità d'interesse generale,
anche se non lucrativa». Infatti, si legge nella
sentenza, l'art. 5 della legge n. 266/2001, nell'indicare le
risorse economiche delle Onlus, menziona anche le «entrate
derivanti da attività commerciali e produttive marginali»,
con ciò dimostrando di riconoscere la capacità delle Onlus
di svolgere attività commerciali e produttive e, dunque,
anche quella di partecipare a gare di appalto, quanto meno
nei settori di specifica competenza.
È sì vero, dice il Consiglio di stato, che la norma fa
riferimento ad attività imprenditoriali «marginali»,
ma occorrerebbe dimostrare che la partecipazione
dell'associazione all'appalto non abbia il carattere di
marginalità
(articolo ItaliaOggi dell'01.02.2013). |
APPALTI:
E' ben possibile, ad
opera della stazione appaltante, cumulare il compito di
responsabile unico del procedimento con l’incarico di
presidente della Commissione giudicatrice. Nessuna norma,
infatti, neanche l’invocato art. 10, comma 2, del d.lgs. n.
163 del 2006, impedisce espressamente tale cumulo; anzi il
comma 4 dell'art. 84 del d.lgs. n. 163 del 2006 ne conferma,
indirettamente, la legittimità allorché prevede limiti solo
per i commissari diversi dal presidente.
E, d'altronde, la giurisprudenza ha avuto anche modo di
precisare che non sussiste incompatibilità tra le funzioni
di Presidente della Commissione di gara e quella di
responsabile del procedimento-RUP, mentre, per altro verso,
l'approvazione degli atti della Commissione non può essere
ricompresa nella nozione di controllo, risolvendosi in una
revisione interna, connessa alla responsabilità unitaria del
procedimento.
---------------
Pur nel doveroso rispetto di quanto prescritto dall’art. 84,
comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006, a norma del quale,
qualora la scelta della migliore offerta debba avvenire con
il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa,
tutti i componenti della commissione, ivi incluso il
presidente, devono essere “esperti nello specifico settore
cui si riferisce l’oggetto del contratto”– questa norma va
opportunamente intesa nel senso che l’esperienza richiesta
deve essere valutata, vieppiù con riferimento al presidente
della commissione ed ai compiti a lui pertinenti, con
riferimento non solo alle conoscenze prettamente tecniche,
ma anche con riguardo a quelle più genericamente intese come
gestionali ed organizzative, in rapporto alla necessità di
garantire il coordinamento e la concentrazione del
procedimento di gara.
Il comma 2 dell’art. 84 deve, infatti, necessariamente
coordinarsi con il successivo comma 3 il quale affida la
presidenza della commissione di gara ad un dirigente della
medesima stazione appaltante ovvero, in mancanza, ad un
funzionario incaricato di funzioni apicali, così
legittimando anche la nomina di un funzionario non
appartenente a ruoli tecnici specificamente specializzato
nel settore. La garanzia dell’“adeguata professionalità”,
per l’ipotesi di accertata carenza in organico, è peraltro
mantenuta dal successivo comma 8 solo per i componenti della
commissione diversi dal suo presidente, con ciò
implicitamente confermando che la professionalità di
quest’ultimo è già di per sé assicurata dal grado di
apicalità (e, quindi, di connesse conoscenze, nonché di
esperienza, di natura gestionale ed organizzativa) dal
medesimo rivestito nell’ambito dell’amministrazione
appaltante.
---------------
Deve ritenersi condivisibile l’orientamento che, in
proposito, è di gran lunga prevalente nella giurisprudenza
amministrativa secondo cui “la mancata dettagliata
indicazione nei verbali di gara delle specifiche modalità di
custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati per
garantire la segretezza delle offerte non costituisce di per
sé motivo di illegittimità dell'attività posta in essere
dalla commissione di gara per garantire la custodia di
plichi, in assenza di ulteriori elementi idonei a far
ipotizzare che si siano verificate in concreto manomissioni
o alterazione dei documenti”.
Ciò, sulla scorta dell’ulteriore osservazione secondo cui,
in caso di mancata verbalizzazione, allorché non ci siano
indizi di segno contrario, si deve presumere che la
documentazione di gara sia sempre conservata, a cura del
responsabile del procedimento o del presidente della
Commissione, in modo tale da non essere accessibile a
soggetti estranei: sul dipendente pubblico infatti grava,
ratione muneris, l’obbligo del segreto d’ufficio.
Nel merito, non può anzitutto trovare accoglimento il primo
motivo di gravame.
Secondo un consistente filone giurisprudenziale –già fatto
proprio da questa Sezione sin dalla sentenza n. 459 del 2005
e che questo Collegio condivide– è ben possibile, ad opera
della stazione appaltante, cumulare il compito di
responsabile unico del procedimento con l’incarico di
presidente della Commissione giudicatrice. Nessuna norma,
infatti, neanche l’invocato art. 10, comma 2, del d.lgs. n.
163 del 2006, impedisce espressamente tale cumulo; anzi il
comma 4 dell'art. 84 del d.lgs. n. 163 del 2006 ne conferma,
indirettamente, la legittimità allorché prevede limiti solo
per i commissari diversi dal presidente.
E, d'altronde, la giurisprudenza ha avuto anche modo di
precisare che non sussiste incompatibilità tra le funzioni
di Presidente della Commissione di gara e quella di
responsabile del procedimento-RUP, mentre, per altro verso,
l'approvazione degli atti della Commissione non può essere
ricompresa nella nozione di controllo, risolvendosi in una
revisione interna, connessa alla responsabilità unitaria del
procedimento (cfr., ex multis, di recente: TAR
Basilicata, n. 100 del 2010; TAR Calabria, Reggio Calabria,
sez. I, n. 474 del 2011; TAR Puglia, Bari, sez. I, n. 1183
del 2012).
Né è degno di positiva disamina l’altro profilo di censura,
sollevato nell’ambito del primo motivo di gravame, e
riguardante l’asserita inidoneità professionale dell’ing.
Leli ad assumere la presidenza della Commissione di gara.
Deve, in merito, anzitutto osservarsi che, come si evince
dal curriculum vitae depositato in giudizio dalla
S.C.R. (doc. n. 14), l’ing. Leli ha partecipato, in ambito
sanitario, a diversi gruppi di lavoro nominati dalla Regione
Piemonte per la definizione delle specifiche tecniche di
diverse categorie merceologiche le quali risultano attinenti
a quella per cui è stata bandito l’appalto de quo: “aghi
e siringhe, ausili per incontinenza, farmaci, soluzioni
infusionali, suturatrici, vaccini, ecc.”: donde deve
darsi per appurata la sussistenza di una sua pur minima
esperienza nel settore cui si riferiva l’oggetto del
contratto per cui è causa (riguardante la fornitura di
suturatrici).
Per altro verso, va poi osservato che –pur nel doveroso
rispetto di quanto prescritto dall’art. 84, comma 2, del
d.lgs. n. 163 del 2006, a norma del quale, qualora la scelta
della migliore offerta debba avvenire con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, tutti i
componenti della commissione, ivi incluso il presidente,
devono essere “esperti nello specifico settore cui si
riferisce l’oggetto del contratto”– questa norma va
opportunamente intesa nel senso che l’esperienza richiesta
deve essere valutata, vieppiù con riferimento al presidente
della commissione ed ai compiti a lui pertinenti, con
riferimento non solo alle conoscenze prettamente tecniche,
ma anche con riguardo a quelle più genericamente intese come
gestionali ed organizzative, in rapporto alla necessità di
garantire il coordinamento e la concentrazione del
procedimento di gara, aspetto che di certo risulta
soddisfatto in presenza di un presidente –come nella specie–
laureato in ingegneria gestionale nonché, già da diversi
anni, responsabile dell’“Ufficio Acquisti e Commesse
esterne” di S.C.R.
Il comma 2 dell’art. 84 deve, infatti, necessariamente
coordinarsi con il successivo comma 3 il quale affida la
presidenza della commissione di gara ad un dirigente della
medesima stazione appaltante ovvero, in mancanza, ad un
funzionario incaricato di funzioni apicali, così
legittimando anche la nomina di un funzionario non
appartenente a ruoli tecnici specificamente specializzato
nel settore (cfr., analogamente, Cons. Stato, sez. V, n.
7353 del 2009). La garanzia dell’“adeguata
professionalità”, per l’ipotesi di accertata carenza in
organico, è peraltro mantenuta dal successivo comma 8 solo
per i componenti della commissione diversi dal suo
presidente, con ciò implicitamente confermando che la
professionalità di quest’ultimo è già di per sé assicurata
dal grado di apicalità (e, quindi, di connesse conoscenze,
nonché di esperienza, di natura gestionale ed organizzativa)
dal medesimo rivestito nell’ambito dell’amministrazione
appaltante.
---------------
Venendo ora al terzo motivo di
gravame –concernente la mancata verbalizzazione delle
modalità di conservazione dei plichi contenenti le offerte
tecniche ed economiche– esso deve respingersi per le ragioni
che seguono.
Come già statuito da questo TAR in recenti occasioni (sez.
I, sentt. n. 569 e 1180 del 2012), deve ritenersi
condivisibile l’orientamento che, in proposito, è di gran
lunga prevalente nella giurisprudenza amministrativa secondo
cui “la mancata dettagliata indicazione nei verbali di
gara delle specifiche modalità di custodia dei plichi e
degli strumenti utilizzati per garantire la segretezza delle
offerte non costituisce di per sé motivo di illegittimità
dell'attività posta in essere dalla commissione di gara per
garantire la custodia di plichi, in assenza di ulteriori
elementi idonei a far ipotizzare che si siano verificate in
concreto manomissioni o alterazione dei documenti”
(Cons. Stato, sez. V, nn. 3079, 4055 e 5456 del 2011; Cons.
Stato, sez. III, n. 2908 del 2011 e n. 5050 del 2012; TAR
Emilia Romagna, Parma, sez. I, n. 424 del 2011; TAR Sicilia,
Catania, sez. III, n. 2003 del 2011; TAR Campania, Napoli,
sez. I, n. 1496 del 2011).
Ciò, sulla scorta dell’ulteriore osservazione secondo cui,
in caso di mancata verbalizzazione, allorché non ci siano
indizi di segno contrario, si deve presumere che la
documentazione di gara sia sempre conservata, a cura del
responsabile del procedimento o del presidente della
Commissione, in modo tale da non essere accessibile a
soggetti estranei: sul dipendente pubblico infatti grava,
ratione muneris, l’obbligo del segreto d’ufficio (così
TAR Marche, n. 576 del 2011)
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 18.01.2013 n. 85 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Dice
il cds. Fotovoltaico vietato vicino ai parchi.
No alla realizzazione di un parco fotovoltaico nelle aree di
protezione attorno alle riserve naturali. La realizzazione
dell'impianto andrebbe ad arrecare danni all'ambiente. E la
riserva naturale di Punta Aderci rientra tra i siti di
importanza comunitaria ed è inserita nell'elenco ufficiale
nazionale delle aree protette.
Questo è quanto stabilito dal
Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 15.01.2013 n. 176.
Il fatto in sintesi: una società presentava ricorso contro
la decisione del Tar Abruzzo che negava l'autorizzazione di
un parco fotovoltaico in un'area attigua alla riserva
naturale di Punta Aderci.
Il Consiglio di Stato ha però confermato il diniego
affermando che il parco fotovoltaico, «è stato previsto
nell'area di protezione esterna di una riserva naturale,
cioè in un luogo ove è stata già effettuata la valutazione
circa la preminenza dell'interesse alla salvaguardia
dell'ambiente rispetto ad altri interessi, come quello alla
gestione delle fonti di energia rinnovabile, che è
insuscettibile di deroga anche in relazione all'eventuale
modesto effettivo impatto ambientale delle opere di cui è
prevista la realizzazione»
(articolo ItaliaOggi del
29.01.2013). |
APPALTI:
Gare, trasparenza
per tutti.
Documenti in copia anche a chi non partecipa all'appalto.
Il Consiglio di stato allarga la
platea dei soggetti tutelati se vi sono interessi qualificati.
Appalti più trasparenti per tutti. Anche chi non ha
partecipato alla gara può avere la copia dei documenti
presentati dall'aggiudicatario. E non solo di quelli
amministrativi sui requisiti di partecipazione, ma anche sui
progetti relativi alle offerte tecniche.
La giurisprudenza
del Consiglio di stato (Sez.
VI
sentenza 11.01.2013 n. 110, si veda ItaliaOggi del 16.01.2013) apre
le porte a tutti, purché portatori di un interesse
qualificato, senza riserva per le imprese concorrenti,
nonostante il codice degli appalti sembri favorire i
concorrenti alla gara a discapito degli altri.
Il problema è se deve ritenersi vincente la trasparenza
degli atti che riguardano procedure pubbliche o se, invece,
debba darsi prevalenza all'esigenza delle imprese di tenere
segrete e riservate le informazioni sui processi produttivi,
organizzazione del lavoro, know how e caratteristiche dei
propri prodotti e servizi.
Non rappresenta un paradosso pensare a una
strumentalizzazione delle disposizioni sulla trasparenza per
lo scopo di copiare servizi, prodotti o progetti da proporre
sul mercato, magari in altre pubbliche gare.
L'articolo 13 del codice dei contratti cerca di bilanciare
gli opposti interessi. D'altra parte lo stesso Consiglio di
stato, nella sentenza citata, ricorda che l'articolo 13 del
Codice dei contratti contiene specifiche previsioni in
materia di accesso ai documenti di gara, e prescrive
l'inaccessibilità o l'accessibilità riservata ai soli
ricorrenti, i documenti che costituiscono, con motivata e
comprovata dichiarazione degli offerenti, segreti tecnici o
commerciali.
Tuttavia, osservano i giudici di Palazzo Spada, l'articolo
13 del Codice degli appalti fa espresso rinvio alla legge n.
241 del 1990 ed in particolare dall'articolo 24, per il
quale spetta ai richiedenti l'accesso ai documenti la cui
conoscenza è necessaria per curare o difendere i propri
interessi giuridici.
Inoltre si legge nella sentenza «la tutela del diritto di
accesso assicura la trasparenza dell'attività della pubblica
amministrazione, indipendentemente dall'effettiva lesione di
una determinata situazione di diritto soggettivo o di
interesse legittimo»: come dire anche chi non ha partecipato
alla gara può vantare un interesse (qualificato) ad
acquisire la documentazione.
Nel caso specifico si è trattato di una società che ha
attivato un ricorso parallelo per impugnare la gara, alla
quale non ha potuto partecipare.
La trasparenza si estende al massimo e ne beneficia anche un
soggetto che non è stato concorrente nella procedura di
appalto.
L'orientamento del Consiglio di stato è significativo in
quanto supera un precedente indirizzo contrario. Il Tar
Lazio Roma, sentenza Sez. III-ter, 10/05/2011, n. 4081 ha
sostenuto che il comma 6 dell'articolo 13 del codice degli
appalti consente l'accesso agli atti coperti da segreti
tecnici e commerciali, contenuti nelle offerte,
riservandolo, però «al concorrente che lo chieda in vista
della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione
alla procedura di affidamento del contratto nell'ambito
della quale viene formulata la richiesta di accesso».
Secondo il Tar Lazio l'articolo 13 collega l'interesse
all'accesso alla posizione giuridica non di chiunque vi
abbia interesse, ma del solo concorrente che abbia
intrapreso un giudizio avente ad oggetto la procedura di
gara in cui l'istanza di accesso è formulata.
---------------
Limitazioni all'accesso per evitare pressioni o accordi
illegittimi.
L'articolo 13 del codice degli appalti prevede una
disciplina ad hoc, pur richiamando le regole generali della
legge 241/1990.
Innanzi tutto la norma stabilisce un rinvio dell'accesso a
determinate fasi della procedura. Nel dettaglio il diritto
di accesso è differito: nelle procedure aperte, in relazione
all'elenco dei soggetti che hanno presentato offerte, fino
alla scadenza del termine per la presentazione delle
medesime nelle procedure ristrette e negoziate, e in ogni
ipotesi di gara informale, in relazione all'elenco dei
soggetti che hanno fatto richiesta di invito o che hanno
segnalato il loro interesse, e in relazione all'elenco dei
soggetti che sono stati invitati a presentare offerte e
all'elenco dei soggetti che hanno presentato offerte, fino
alla scadenza del termine per la presentazione delle offerte
medesime; ai soggetti la cui richiesta di invito sia stata
respinta, è consentito l'accesso all'elenco dei soggetti che
hanno fatto richiesta di invito o che hanno segnalato il
loro interesse, dopo la comunicazione ufficiale, da parte
delle stazioni appaltanti, dei nominativi dei candidati da
invitare.
Inoltre si verifica il differimento, in relazione alle
offerte, fino all'approvazione dell'aggiudicazione e, in
relazione al procedimento di verifica della anomalia
dell'offerta, fino all'aggiudicazione definitiva.
Le limitazioni all'accesso hanno l'obiettivo di preservare
la correttezza della gara ed evitare accordi illegittimi o
pressioni indebite.
Altra limitazione è rappresentata dai casi di esclusione del
diritto di accesso. L'accesso e ogni forma di divulgazione
sono vietati in relazione alle informazioni fornite dagli
offerenti nell'ambito delle offerte ovvero a giustificazione
delle medesime, che costituiscano, secondo motivata e
comprovata dichiarazione dell'offerente, segreti tecnici o
commerciali; a eventuali ulteriori aspetti riservati delle
offerte, da individuarsi in sede di regolamento; ai pareri
legali acquisiti dai soggetti tenuti all'applicazione del
presente codice, per la soluzione di liti, potenziali o in
atto, relative ai contratti pubblici; alle relazioni
riservate del direttore dei lavori e dell'organo di collaudo
sulle domande e sulle riserve del soggetto esecutore del
contratto.
C'è però un'eccezione al divieto di accesso ai segreti
tecnici e commerciali e agli aspetti riservati delle
offerte: lo stesso articolo 13 del codice appalti prevede
che «è comunque consentito l'accesso al concorrente che lo
chieda in vista della difesa in giudizio dei propri
interessi in relazione alla procedura di affidamento del
contratto nell'ambito della quale viene formulata la
richiesta di accesso». Quest'ultima disposizione sembra
limitare l'accesso alle offerte (motivato dal diritto di
difesa) al solo concorrente, e non a terzi. Ma è su questo
punto che la giurisprudenza amministrativa mostra
un'apertura a una maggiore trasparenza.
---------------
Resta protetto il know how industriale e commerciale.
Nelle gare pubbliche va tutelato anche il
know how
aziendale.
Non può, infatti, di regola essere data copia della
documentazione sul know how industriale e commerciale
contenuto nelle offerte delle imprese partecipanti. Questo
per evitare che operatori economici in diretta concorrenza
tra loro possano utilizzare l'accesso per giovarsi delle
specifiche conoscenze possedute da altri al fine di
conseguire un indebito vantaggio commerciale all'interno del
mercato. Anche in questo caso, però, è consentito l'accesso
al concorrente (ma anche ai terzi portatori di un interesse
qualificato stando all'ultimo orientamento del consiglio di
stato) che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei
propri interessi (Tar Lazio Roma Sez. III, 21/03/2011, n.
2422).
Tra l'altro le imprese non devono dimenticarsi che per
stendere un velo sulle proprie informazioni riservate devono
farlo presente alla stazione appaltante: quando gli atti di
gara cui l'interessato chieda di avere accesso concernano
informazioni fornite dall'azienda partecipante nell'ambito
dell'offerta, ma costituiscono nel contempo segreti tecnici
o commerciali della stessa, l'esclusione del diritto di
visionare ed estrarre copia degli atti amministrativi trova
applicazione solo a condizione che l'impresa cui le
informazioni si riferiscono abbia manifestato il proprio
interesse alla non divulgazione delle stesse (Cons. di stato
Sez. VI sent., 19/10/2009, n. 6393).
E le imprese non devono neppure dimenticarsi che a loro
carico sussiste l'onere della prova della segretezza o
riservatezza delle informazioni inserite nelle offerte
presentate nelle gare pubbliche.
Il Codice degli appalti, spiega il Consiglio di stato
(sentenza Sez. V, 21/11/2011, n. 6136), nel prevedere
l'esclusione dall'accesso per «le informazioni fornite dagli
offerenti nell'ambito delle offerte ovvero a giustificazione
delle medesime», esige a tal fine che le medesime integrino
segreti tecnici o commerciali «secondo motivata e comprovata
dichiarazione dell'offerente». Quindi l'esclusione
dall'accesso opera solo se il concorrente interessato
adempie allo specifico onere di fornire motivata
dichiarazione comprovante che effettivamente siano in
questione informazioni integranti segreti tecnici o
commerciali.
E comprovare non significa solo affermare, ma significa
spiegare le ragioni per le quali si può parlare di segreto o
riservatezza aziendale. Residua alla stazione appaltante
anche una valutazione relativa alla congruità della
motivazione e anche sull'idoneità delle giustificazioni.
Anche un parere legale acquisito dalla stazione appaltante
può essere acquisito. Purché il parere si riferisca ad una
fase endoprocedimentale amministrativa (per esempio, al fine
dell'adozione di successivi provvedimenti, che vi fanno
espresso riferimento) e non riguardi una lite in atto o
potenziale, ovvero una fase precontenziosa (Cons. di stato
Sez. V, 23/06/2011, n. 3812) (articolo ItaliaOggi
Sette del 28.01.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Appalti, responsabilità doppia.
Il direttore lavori risponde a titolo contrattuale ed extra.
La Cassazione: tra gli obblighi del
progettista c'è quello di evitare difetti costruttivi.
La responsabilità del direttore dei lavori nei confronti del
committente è configurabile sia a titolo extracontrattuale
sia a titolo contrattuale. E infatti, accanto alle
responsabilità connessa all'ipotesi del crollo
dell'edificio, è imputabile al professionista
l'inadempimento contrattuale tutte le volte che questi non
esegua correttamente le prestazioni alle quali è tenuto in
virtù del conferimento dell'incarico di direttore dei
lavori, agendo con imprudenza, imperizia, negligenza o non
rispettando le norme tecniche.
Questo il principio stabilito dalla III Sez. civile
della Corte di Cassazione nella recente
sentenza
11.12.2012 n. 22643.
Il caso concreto. Nella specie il tribunale aveva condannato
l'impresa appaltatrice di una serie di lavori a un
fabbricato al pagamento dei danni in favore dei committenti,
mentre aveva rigettato l'analoga domanda proposta nei
confronti del progettista e direttore dei lavori. La parte
danneggiata, premesso di avere appaltato a quest'ultimo il
progetto, l'espletamento delle pratiche amministrative e la
direzione dei lavori di ristrutturazione di un immobile e al
primo l'esecuzione delle relative opere edili, aveva infatti
denunciato il crollo parziale dell'edificio e, pertanto,
aveva chiesto il risarcimento del danno conseguente. I
committenti avevano quindi impugnato la sentenza in appello
relativamente al mancato riconoscimento della responsabilità
civile del direttore dei lavori. Ma anche la corte di merito
aveva ritenuto corretta la scelta di escludere la
responsabilità del progettista e direttore dei lavori, in
quanto la sua mancanza di abilitazione a progettare edifici
in cemento armato non poteva essere messa in correlazione
causale con la rovina dell'edificio, tanto più che
quest'ultimo aveva realizzato solo il progetto di massima e
non anche quello esecutivo e neppure il calcolo delle opere
strutturali in cemento armato. I giudici di secondo grado
avevano escluso altresì l'addebito del difetto di vigilanza
in qualità di direttore dei lavori, ritenendo che la
responsabilità di tale figura possa essere solo di natura
extracontrattuale, sulla base di quanto previsto dall'art.
1669 del codice civile. Di qui il ricorso in cassazione
presentato sempre dai committenti.
La decisione della Suprema corte. I giudici della terza
sezione civile della Cassazione hanno quindi accolto il
ricorso in questione, evidenziando come il direttore dei
lavori abbia un duplice titolo di responsabilità nei
confronti del committente, extracontrattuale, ai sensi
dell'art. 1669 c.c., e contrattuale, in base all'art. 1218
c.c. La Corte di legittimità ha, infatti, evidenziato come
fra le obbligazioni del direttore dei lavori rientri
l'accertamento della conformità, sia della progressiva
realizzazione dell'opera al progetto sia delle modalità
dell'esecuzione di essa, al capitolato e/o alle regole della
tecnica, nonché l'adozione di tutti i necessari accorgimenti
tecnici volti a garantire la realizzazione dell'opera senza
difetti costruttivi. Pertanto risponde civilmente il
professionista incaricato della direzione dei lavori che
ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni
circa l'esecuzione dell'opera, nonché di controllarne
l'ottemperanza da parte dell'appaltatore e di riferirne al
committente. Infatti, secondo la Cassazione, l'attività del
direttore dei lavori si concreta nell'alta sorveglianza
delle opere che, pur non richiedendo la presenza continua e
giornaliera sul cantiere né il compimento di operazioni di
natura elementare, comporta il controllo della realizzazione
dell'opera nelle sue varie fasi e pertanto l'obbligo del
professionista di verificare, attraverso periodiche visite e
contatti diretti con gli organi tecnici dell'impresa, se
siano state osservate le regole dell'arte e la
corrispondenza dei materiali impiegati.
---------------
Il ruolo del tecnico che sovraintende all'opera.
Quando il committente incarica un'impresa edile di eseguire
una determinata opera ha il diritto di nominare un tecnico
di sua fiducia che sovraintenda ai lavori. Così se il
condominio decide di rifare la facciata o il tetto è normale
che l'assemblea, nella stessa riunione in cui viene scelta
la ditta a cui affidare dette opere, deliberi pure di
nominare un direttore lavori, cioè un professionista capace
di tutelare gli interessi della collettività condominiale
nei confronti dell'impresa e dei terzi, controllando la
buona riuscita delle opere.
- I compiti del direttore lavori del committente. Il
direttore dei lavori è il responsabile tecnico dell'opera e
dei tempi tecnici di realizzazione dei lavori: in altre
parole ha la direzione e la sorveglianza dei lavori,
attività che comporta visite periodiche sul cantiere (nel
numero necessario, a suo esclusivo giudizio) per accertare
la progressiva realizzazione dell'opera e indicare alla
ditta incaricata l'adozione di tutti i necessari
accorgimenti tecnici volti a garantire la buona
realizzazione della stessa, segnalando le inesattezze
dell'esecuzione del progetto o l'inosservanza delle regole
tecniche o ulteriori inadempienze.
Si tratta dell'unica persona che può accedere al cantiere
senza la presenza o l'autorizzazione di alcuno e senza
l'obbligo di incontrare altri tecnici dell'appaltatore,
quali il direttore del cantiere o il direttore tecnico
dell'impresa, figure diverse dal direttore dei lavori, che
hanno la responsabilità della rispondenza dell'opera al
progetto, dell'osservanza delle prescrizioni di esecuzione
di quest'ultimo, della qualità dei materiali impiegati e
della sicurezza del cantiere.
In ogni caso, per adempiere ai suoi doveri, il direttore dei
lavori deve compilare durante lo svolgimento dell'opera
tutta una serie di documenti tecnici e contabili, ai quali
si aggiungono i verbali, le disposizioni, le relazioni
aggiuntive, i certificati necessari per far rispettare i
termini e le disposizioni contrattuali.
- La responsabilità. Il potere di controllo e di vigilanza
del direttore dei lavori preposto dal committente non
annullano l'autonomia dell'appaltatore che, salvo patto
contrario, rimane conseguentemente tenuto a rispettare,
nell'esecuzione dell'appalto, le regole dell'arte, al fine
di assicurare un risultato tecnico conforme alle esigenze
del committente (e, perciò, ad esempio, questi deve
controllare, tra l'altro, la qualità del materiale
impiegato, rispondendo dei relativi vizi anche quando questo
sia fornito dal committente o dal produttore da quest'ultimo
indicato).
Di conseguenza se i lavori commissionati risultano difettosi
la responsabilità è certamente dell'impresa incaricata.
Tuttavia detta responsabilità non esclude o assorbe quella
del direttore dei lavori che ometta di vigilare e di
impartire le opportune istruzioni, nonché di controllarne il
rispetto da parte della ditta e, in difetto, di riferirne al
committente. Ne consegue che tale professionista deve
adempiere all'incarico con la diligenza del buon padre di
famiglia e risponde anche per colpa lieve, rapportandosi la
sua responsabilità all'esistenza di errori determinati da
ignoranza di cognizioni tecniche o da inesperienza
professionale.
Così, per esempio, è chiaro che, in riferimento a un'opera
di particolare delicatezza e complessità, come ad esempio il
rifacimento del tetto di un edificio condominiale
comportante lo scoperchiamento del fabbricato, ricorra la
responsabilità del direttore dei lavori che ometta di
stabilire le modalità dell'intervento, contribuendo a
causare gravi infiltrazioni d'acqua piovana nelle scale per
la mancanza di coperture. Lo stesso dicasi se, nell'ambito
di lavori di rifacimento della facciata, il medesimo non
controlli che la rimozione dell'intonaco preesistente
avvenga secondo gli accordi o, nel certificato di regolare
esecuzione dell'appalto, liquidi il compenso spettante per
le lavorazioni più onerose nonostante queste non siano state
eseguite.
Allo stesso modo ricorre detta responsabilità per la mancata
coibentazione dei pilastri di un caseggiato, con conseguente
condensazione di umidità all'interno degli appartamenti,
anche se tale accorgimento non sia stato previsto dal
progetto: il direttore dei lavori, infatti, come
l'appaltatore (e a maggior ragione, considerata la sua
preparazione tecnica), è tenuto all'individuazione e alla
correzione di eventuali carenze progettuali che impediscano
quella buona riuscita del lavoro per la quale egli è tenuto
ad adoperarsi. In tali ipotesi si deve pertanto ritenere che
il direttore lavori non abbia operato con la dovuta
diligenza nell'espletamento dell'incarico affidatogli e sia
pertanto responsabile, in solido con l'impresa appaltatrice,
dei vizi riscontrati e dei conseguenti danni sopportati dal
committente per la loro eliminazione.
Tuttavia la ditta incaricata non può essere ritenuta
responsabile se, per accordi contrattuali, risulti passivo
strumento nelle mani del committente e del suo direttore dei
lavori, cioè se sia stata direttamente e totalmente
condizionata dalle istruzioni ricevute da questi ultimi,
senza alcuna possibilità di iniziativa e vaglio critico
delle direttive impartite (articolo ItaliaOggi
Sette del 28.01.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Circa la sanatoria, o meno, di una piscina privata scoperta
in zona ambientalmente vincolata.
La tesi non persuade nella premessa in
cui assume che l’edificazione dell’impianto natatorio
rientra tra le opere “relative ad ampliamenti o tipologie
d'abuso che non comportano aumento di superficie o di
volume”.
La prospettazione difensiva non considera, infatti, che il
vincolo richiamato dall’art. 32, 2° comma, L. 47/1985,
facendo riferimento a immobili soggetti alla L. 29.06.1939,
n. 1497 e al D.L. 27.06.1985, n. 312, è finalizzato a
preservare nel tempo la configurazione di bellezze naturali
o di zone di particolare interesse ambientale.
La previsione di interventi di minor impatto (non implicanti
aumenti di superficie o di volume), rispetto ai quali si
giustifica una modalità tacita di acquisizione del parere,
va quindi interpretata in relazione all’esigenza di tutela
dei beni ambientali, e quindi in termini compatibili con la
loro necessaria salvaguardia.
Alla luce di questa esigenza primaria, la tipologia di
intervento che viene in rilievo nel presente giudizio non
appare armonizzabile nel dettato dell’art. 32, 2° comma,
trattandosi di opera astrattamente idonea a creare un
impatto ambientale significativo e permanente, anche se
priva di volumi emergenti dal terreno o di superfici
calpestabili; ciò in quanto essa presenta dimensioni non
trascurabili, richiede scavi consistenti e prevede l'impiego
di materiali difficilmente compatibili con il contesto in
cui si pretende esso trovi inserimento.
Stando, quindi, ad un’interpretazione della norma che tenga
conto dell’intendimento alla stessa sotteso, si deve
concludere che l’intervento in oggetto esula dal novero
delle opere assentibili in via tacita.
D’altra parte, vi è unanimità di vedute in giurisprudenza
circa il principio, certamente pertinente al caso in esame,
secondo il quale la nozione di volume rilevante a fini
paesaggistici non può distinguere tra volumi esterni e
volumi interrati, essendo anche questi ultimi idonei a
determinare una modificazione del territorio e dell'assetto
edilizio esistente: ciò in quanto lo stesso volume che a
fini edilizi, per le sue caratteristiche, può non essere
considerato rilevante e non essere oggetto di computo fra le
volumetrie assentibili, ad esempio perché ritenuto volume
tecnico, ai fini paesaggistici può assumere una diversa
rilevanza, laddove si ritenga che determini una possibile
alterazione dello stato dei luoghi salvaguardato dalle
apposite norme di tutela, le quali, al preordinato fine di
conservare la sostanziale integrità di determinati ambiti
territoriali, ben possono vietare anche la realizzazione di
un volume edilizio tecnico od interrato, quand'anche
irrilevante secondo le norme che regolano l'attività
edilizia.
---------------
Non sussiste l'eccesso di potere per disparità di
trattamento per non avere l’autorità preposta alla tutela
del vincolo formulato rilievi in sede di controllo di altri
provvedimenti autorizzatori di analogo contenuto (relativi,
cioè, a piscine costruite nella stessa zona).
Invero, ogni singolo intervento è soggetto a specifica
valutazione, con particolare riguardo al suo inserimento nel
contesto paesistico e ambientale già esistente. Ciò posto,
la circostanza che in relazione ad altre istanze di
sanatoria aventi ad oggetto immobili ricadenti nel medesimo
contesto vincolato la Regione abbia ritenuto di avallare
interventi conservativi, non determina disparità di
trattamento in mancanza della prova -che incombeva al
ricorrente fornire- della identità della situazione
sostanziale qui in esame con quella oggetto di quelle
diverse domande di concessione in sanatoria.
Pertanto, non può tradursi in vizio di legittimità del
provvedimento la presenza, nell'area interessata
dall'intervento edilizio, di altre costruzioni asseritamene
omogenee a quella da assentire: e ciò sia perché ogni
manufatto è diverso per consistenza, ubicazione, periodo di
realizzazione; sia perché un eventuale pregresso
comportamento illegittimo dell'amministrazione non può
valere a sanare un'ulteriore illegittimità. Al contrario,
una situazione di compromissione del panorama naturale da
parte di preesistenti realizzazioni, anziché impedire,
maggiormente richiede che ulteriori costruzioni non
deturpino irreversibilmente l'ambiente protetto.
----------------
In relazione a manufatti abusivi realizzati in ambiti
soggetti a tutela paesaggistica, non è il diniego di
sanatoria a dover essere rigorosamente motivato, ma semmai,
l'eventuale provvedimento favorevole.
Ad integrare il profilo di incompatibilità ambientale,
sinteticamente espresso nella relazione richiamata,
concorrono le significative dimensioni della piscina,
l’irreversibile alterazione dello spazio che essa occupa
(non più recuperabile a verde) e la discontinuità panoramica
che un manufatto cementizio determina nel contesto
paesaggistico nel quale si situa.
... per l'annullamento:
- della deliberazione della Giunta Regionale n. 27-7518 del
03.04.1996 nella parte in cui esprime parere negativo ai
sensi dell'art. 32 della L. n. 47/1985, in relazione ad una
domanda presentata ai sensi dell'art. 39 L. 724/1994 per una
piscina di uso privato realizzata abusivamente su aree
protette dalla L. 1497/1939, in Comune di Ghiffa;
- della Relazione del servizio Beni Ambientali e Paesistici
dell'Assessorato Regionale per i Beni Ambientali prot. n.
13606 del 26.03.1996 che costituisce motivazione del parere
negativo anzidetto;
...
La tesi non persuade nella premessa in cui assume che
l’edificazione dell’impianto natatorio rientra tra le opere
“relative ad ampliamenti o tipologie d'abuso che non
comportano aumento di superficie o di volume”.
La prospettazione difensiva non considera, infatti, che il
vincolo richiamato dall’art. 32, 2° comma, L. 47/1985,
facendo riferimento a immobili soggetti alla L. 29.06.1939,
n. 1497 e al D.L. 27.06.1985, n. 312, è finalizzato a
preservare nel tempo la configurazione di bellezze naturali
o di zone di particolare interesse ambientale.
La previsione di interventi di minor impatto (non implicanti
aumenti di superficie o di volume), rispetto ai quali si
giustifica una modalità tacita di acquisizione del parere,
va quindi interpretata in relazione all’esigenza di tutela
dei beni ambientali, e quindi in termini compatibili con la
loro necessaria salvaguardia.
Alla luce di questa esigenza primaria, la tipologia di
intervento che viene in rilievo nel presente giudizio non
appare armonizzabile nel dettato dell’art. 32, 2° comma,
trattandosi di opera astrattamente idonea a creare un
impatto ambientale significativo e permanente, anche se
priva di volumi emergenti dal terreno o di superfici
calpestabili; ciò in quanto essa presenta dimensioni non
trascurabili, richiede scavi consistenti e prevede l'impiego
di materiali difficilmente compatibili con il contesto in
cui si pretende esso trovi inserimento (cfr. TAR Torino
Piemonte sez. I, 13.06.2007, n. 2599).
Stando, quindi, ad un’interpretazione della norma che tenga
conto dell’intendimento alla stessa sotteso, si deve
concludere che l’intervento in oggetto esula dal novero
delle opere assentibili in via tacita.
D’altra parte, vi è unanimità di vedute in giurisprudenza
circa il principio, certamente pertinente al caso in esame,
secondo il quale la nozione di volume rilevante a fini
paesaggistici non può distinguere tra volumi esterni e
volumi interrati, essendo anche questi ultimi idonei a
determinare una modificazione del territorio e dell'assetto
edilizio esistente: ciò in quanto lo stesso volume che a
fini edilizi, per le sue caratteristiche, può non essere
considerato rilevante e non essere oggetto di computo fra le
volumetrie assentibili, ad esempio perché ritenuto volume
tecnico, ai fini paesaggistici può assumere una diversa
rilevanza, laddove si ritenga che determini una possibile
alterazione dello stato dei luoghi salvaguardato dalle
apposite norme di tutela, le quali, al preordinato fine di
conservare la sostanziale integrità di determinati ambiti
territoriali, ben possono vietare anche la realizzazione di
un volume edilizio tecnico od interrato, quand'anche
irrilevante secondo le norme che regolano l'attività
edilizia (cfr. TAR Napoli Campania, sez. IV, 29.05.2012, n.
2529; TAR Salerno Campania, sez. I, 11.10.2011, n. 1642;
Consiglio Stato, sez. IV, 28.03.2011, n. 1879).
----------------
Le considerazioni che precedono
rendono conto dell’infondatezza anche della doglianza di
eccesso di potere per disparità di trattamento, per non
avere l’autorità preposta alla tutela del vincolo formulato
rilievi in sede di controllo di altri provvedimenti
autorizzatori di analogo contenuto (relativi, cioè, a
piscine costruite nella stessa zona).
Secondo quanto evidenziato nella stessa nota prot. 4329 del
06.08.93, ogni singolo intervento è soggetto a specifica
valutazione, con particolare riguardo al suo inserimento nel
contesto paesistico e ambientale già esistente. Ciò posto,
la circostanza che in relazione ad altre istanze di
sanatoria aventi ad oggetto immobili ricadenti nel medesimo
contesto vincolato la Regione abbia ritenuto di avallare
interventi conservativi, non determina disparità di
trattamento in mancanza della prova -che incombeva al
ricorrente fornire- della identità della situazione
sostanziale qui in esame con quella oggetto di quelle
diverse domande di concessione in sanatoria (TAR Torino
Piemonte sez. I, 15.06.2012, n. 721).
Pertanto, non può tradursi in vizio di legittimità del
provvedimento la presenza, nell'area interessata
dall'intervento edilizio, di altre costruzioni asseritamene
omogenee a quella da assentire: e ciò sia perché ogni
manufatto è diverso per consistenza, ubicazione, periodo di
realizzazione; sia perché un eventuale pregresso
comportamento illegittimo dell'amministrazione non può
valere a sanare un'ulteriore illegittimità (Cons. St., sez.
VI, 09.06.2009, n. 3557 e 22.11.2010, n. 8117). Al
contrario, una situazione di compromissione del panorama
naturale da parte di preesistenti realizzazioni, anziché
impedire, maggiormente richiede che ulteriori costruzioni
non deturpino irreversibilmente l'ambiente protetto (Cons.
St., sez. VI, 27.03.2012, n. 1813).
---------------
Con un terzo motivo si censurano i provvedimenti impugnati
per carenza di motivazione e di adeguata istruttoria.
In particolare, non sarebbe stato preso in adeguata
considerazione il minimo impatto ambientale del manufatto.
In particolare, la Regione non avrebbe considerato che la
piscina è preclusa alla vista sia dal lago che dagli altri
spazi pubblici; che la stessa è posizionata a raso prato, è
completamente circondata da arbusti e alberi ed è stata
costruita su un’area precedentemente lastricata e destinata
ad ospitare sedie e ombrelloni, quindi già priva di alberi e
verde.
Alla luce dei dati evidenziati, sarebbe vacua la manifestata
esigenza di non aumentare l’antropizzazione dell’area
situata tra la statale e la sponda del lago, trattandosi di
valutazione del tutto avulsa da un’effettiva disamina degli
elementi concreti caratterizzanti l’area in questione.
La motivazione addotta a fondamento del diniego è ricavabile
per relationem dal parere regionale, ovvero dalla
relazione istruttoria del competente Settore della Regione
Piemonte (relazione del Servizio Beni Ambientali e
Paesistici dell’Assessorato Regionale per i beni Ambientali,
prot. n. 13606 del 26.03.1996), che si esprime nei seguenti
termini: “... considerato che le opere realizzate
appaiono tali da alterare le caratteristiche ambientali
della località, si esprime parere negativo in merito alla
conservazione ai sensi dell’art. 32 L. 47/1985, poiché si
ritiene assolutamente inaccettabile l’inserimento di un
ulteriore elemento di antropizzazione all’interno di un
lotto posto tra la statale e la sponda del lago, dove gli
spazi a verde necessitano di una attenta salvaguardia”.
A parere del Collegio, il documento in esame giustifica in
modo certamente adeguato, benché succinto, le ragioni
sottostanti al diniego - da individuarsi nell’evidente
incompatibilità del manufatto con il pregevole contesto
naturalistico e paesaggistico sottoposto a specifica tutela.
La consistenza delle giustificazioni motivazionali deve
essere valutata tenendo altresì conto che, secondo
condivisibili principi giurisprudenziali, in relazione a
manufatti abusivi realizzati in ambiti soggetti a tutela
paesaggistica, non è il diniego di sanatoria a dover essere
rigorosamente motivato, ma semmai, l'eventuale provvedimento
favorevole (TAR Torino Piemonte sez. I, 15.06.2012, n. 721;
TAR Toscana, sez. III, 13.05.2011, n. 843; Cons. Stato, sez.
VI, 11.10.2007, n. 5330). Ad integrare il profilo di
incompatibilità ambientale, sinteticamente espresso nella
relazione richiamata, concorrono le significative dimensioni
della piscina, l’irreversibile alterazione dello spazio che
essa occupa (non più recuperabile a verde) e la
discontinuità panoramica che un manufatto cementizio
determina nel contesto paesaggistico nel quale si situa.
Tutti questi profili, benché non esplicitati, appartengono
al concetto di “alterazione delle caratteristiche
ambientali” e di “antropizzazione” degli spazi
vincolati. Si tratta di locuzioni certamente indicative di
una trasformazione dell’area protetta, incompatibile con la
conservazione dei suoi peculiari caratteri morfologici e
paesaggistici (TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 11.12.2012 n. 1321 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI:
L’art. 42, comma 4, d.lgs. n. 163/2006, chiarisce
che negli appalti di servizi e forniture (in cui non opera
il sistema di qualificazione SOA), i requisiti prescritti
nel bando possono essere provati, in sede di gara, mediante
dichiarazione sostitutiva; tuttavia al concorrente
aggiudicatario è chiesta la documentazione probatoria a
conferma di quanto dichiarato in sede di gara.
A sua volta l’art. 74, comma 6, nello stabilire che le
stazioni appaltanti non richiedono, in gara, documenti e
certificati per i quali le norme vigenti consentono la
presentazione di dichiarazioni sostitutive, fa tuttavia
salvi i controlli successivi in corso di gara sulla
veridicità delle dichiarazioni.
L’art. 48, relativo al controllo sul possesso dei requisiti,
nei confronti del primo e secondo classificato, nonché del
10% dei concorrenti individuati mediante sorteggio pubblico,
è disposizione di carattere generale, applicabile oltre che
agli appalti di lavori, anche a quelli di servizi e
forniture.
Esso consente alle stazioni appaltanti di esigere dai
concorrenti di provare i requisiti speciali mediante la
documentazione prescritta dalla lex specialis di gara.
Si tratta di una disposizione chiaramente derogatoria della
l. n. 241/1990 e dei principi in materia di dichiarazioni
sostitutive e autocertificazioni, a garanzia della serietà
delle gare pubbliche.
Si deve anche osservare che mentre il possesso dei requisiti
generali (di carattere morale) di cui all’art. 38, codice
appalti, può essere provato mediante certificazioni
pubbliche acquisibili agevolmente d’ufficio dalla stazione
appaltante, il possesso dei requisiti speciali di capacità
economico–finanziaria e tecnico-professionale attiene a
fatti propri del concorrente, che da lui sono conosciuti e
comprovabili. Non è invece esigibile che sia la stazione
appaltante ad andare alla ricerca della prova del possesso
dei requisiti, in relazione a dati che non sono nella sua
disponibilità.
E’ perfettamente comprensibile, sul piano dei principi, che
il codice appalti deroghi al principio di non aggravamento
del procedimento amministrativo, e non vi è alcun contrasto
con i generali principi di ragionevolezza e proporzionalità,
che sono pienamente rispettati, perché esigere dal
concorrente la prova di fatti propri del concorrente
medesimo non viola alcun canone di proporzionalità e
ragionevolezza.
Non senza considerare, poi, che i principi di ragionevolezza
e proporzionalità vanno coniugati con quello di speditezza
della gara di appalto (sicché non si possono imporre alla
stazione appaltante oneri esorbitanti e doveri di soccorso
non necessari) e con quelli di lealtà e buona fede dei
concorrenti, che, secondo un modello di concorrente
diligente, devono partecipare alle gare di appalto con
l’adeguata preparazione e predisposizione di tutta la
documentazione necessaria, che non può non essere in loro
possesso.
Un concorrente che dichiara in gara di aver svolto pregressi
servizi per committenti pubblici e privati, deve
diligentemente precostituirsi la prova delle sue
dichiarazioni, acquisendo tempestivamente la certificazione
di tali servizi (che in realtà dovrebbe procurarsi non
appena concluso l’espletamento del servizio) senza attendere
di essere sorteggiato per il controllo a campione, e poi
dolersi di avere solo dieci giorni di tempo per fornire una
prova che dovrebbe essere già in suo possesso.
In questa logica l’art. 48 codice appalti, laddove fissa un
termine di 10 giorni entro cui i concorrenti devono fornire
la prova dei requisiti dichiarati, non impone alcun onere
sproporzionato o esorbitante: esso esige che entro dieci
giorni il concorrente “fornisca” la prova, non già che entro
dieci giorni il concorrente “si procuri” la prova. Infatti è
ragionevole presumere che il concorrente, già nel momento in
cui presenta la domanda di partecipazione e l’offerta, abbia
la prova di ciò che dichiara, e dunque nei dieci giorni deve
solo inviare una documentazione già predisposta.
Giova osservare che l’Autorità di vigilanza dei lavori
pubblici ha ritenuto l’art. 48 codice appalti derogatorio
dell’art. 18, l. n. 241/1990, e ha statuito che la stazione
appaltante ben può esigere che il concorrente produca
documentazione in possesso di pubbliche amministrazioni
diverse dalla stazione appaltante (delibera n. 15/2000 e
determinazione n. 5/2009).
Anche secondo la giurisprudenza la disciplina sul controllo
a campione è speciale e successiva rispetto alla normativa
sulla semplificazione documentale (l. n. 127/1997 e d.P.R.
n. 403/1998), sicché è prevalente nel senso di imporre alle
imprese un onere di documentazione in deroga alla disciplina
della semplificazione documentale.
---------------
Quanto all’ambito di applicazione dell’art. 48 codice
appalti, erra l’appellante a sostenere che esso si applica
solo in caso di false dichiarazioni; al contrario, esso si
applica interamente anche nel caso di mancata produzione
tempestiva dei prescritti documenti; in entrambe le ipotesi
conseguono l’esclusione, l’incameramento della cauzione
provvisoria, la segnalazione all’Autorità di vigilanza.
Anche di recente la giurisprudenza della Sezione ha ribadito
che l’art. 48 codice appalti prevede un termine perentorio
per la produzione documentale, decorso il quale conseguono
inevitabilmente i tre effetti previsti dalla legge, vale a
dire l’esclusione, l’incameramento della cauzione e la
segnalazione all’Autorità; l’eventuale produzione tardiva
dei documenti può acquisire rilevanza, sempre che i
documenti siano veritieri, al solo diverso fine dei
provvedimenti sanzionatori dell’Autorità di vigilanza.
---------------
L’art. 48 codice appalti, nel prevedere un termine
perentorio per la prova dei requisiti in sede di controllo a
campione, prevede, quali automatiche conseguenze
dell’inosservanza del termine:
- l’esclusione dalla gara;
- l’incameramento della cauzione provvisoria;
- la segnalazione del fatto all’Autorità di vigilanza per i
provvedimenti sanzionatori e per la sospensione della
partecipazione alle procedure di affidamento da uno a dodici
mesi.
Le misure in questione conseguono automaticamente e senza
possibilità di apprezzamento discrezionale, sia al caso di
mancata produzione della documentazione richiesta, sia al
caso di produzione tardiva, sia al caso di produzione di
documenti inidonei, incompleti, o addirittura falsi.
Tutte tale ipotesi integrano la fattispecie che si denomina,
unitariamente e omnicomprensivamente, come inosservanza
dell’obbligo documentale sancito dall’art. 48, codice.
Non è consentita all’amministrazione una graduazione o una
scelta tra le tre misure, a seconda della gravità della
violazione e del tipo di violazione (inosservanza pura e
semplice dell’obbligo, risposta tardiva, risposta incompleta
o falsa).
La possibile diversa gravità dei fatti -omissione, ritardo,
documentazione incompleta o falsa- è suscettibile di
apprezzamento solo in sede di irrogazione delle sanzioni da
parte dell’Autorità di vigilanza.
In quella sede, in funzione della maggiore o minore gravità
del fatto, potrà essere comminata una sanzione pecuniaria di
importo più o meno elevato, e una sanzione interdittiva di
maggiore o minore durata.
Quanto alle ulteriori censure articolate con il primo motivo
di appello, il Collegio osserva che occorre distinguere,
nelle gare di appalto, la fase di presentazione delle
domande di partecipazione e delle offerte (che riguarda
tutti i concorrenti), dalla fase successiva di verifica del
possesso dei requisiti dichiarati in gara (che si svolge
ineluttabilmente nei confronti del primo e secondo
classificato, e per sorteggio nei confronti del 10% dei
partecipanti alla gara).
Nella fase di presentazione delle domande di partecipazione
e delle offerte, è consentito, per ragioni di speditezza del
procedimento, il ricorso alle autocertificazioni (art. 42,
comma 4; art. 74, comma 7).
Le disposizioni invocate da parte appellante, e in
particolare l’art. 42, comma 4, e l’art. 74, comma 7, codice
appalti, laddove richiamano le dichiarazioni sostitutive, e
l’art. 18, l. n. 241/1990 si riferiscono solo a tale fase di
presentazione delle domande di partecipazione e delle
offerte.
Nella fase di verifica del possesso dei requisiti, vuoi in
sede di controllo a campione, vuoi in sede di controllo nei
confronti del primo e secondo classificato, è invece
necessario che i concorrenti forniscano la documentazione
probatoria vera e propria, proveniente da enti pubblici e
privati, non essendo più sufficiente l’autocertificazione,
né essendo prescritto che le stazioni appaltanti
acquisiscano d’ufficio la documentazione probatoria dei
requisiti di capacità tecnico-economica.
Tanto si desume da puntuali disposizioni normative e dai
principi generali sottesi al codice appalti.
L’art. 42, comma 4, d.lgs. n. 163/2006, chiarisce che negli
appalti di servizi e forniture (in cui non opera il sistema
di qualificazione SOA), i requisiti prescritti nel bando
possono essere provati, in sede di gara, mediante
dichiarazione sostitutiva; tuttavia al concorrente
aggiudicatario è chiesta la documentazione probatoria a
conferma di quanto dichiarato in sede di gara.
A sua volta l’art. 74, comma 6, nello stabilire che le
stazioni appaltanti non richiedono, in gara, documenti e
certificati per i quali le norme vigenti consentono la
presentazione di dichiarazioni sostitutive, fa tuttavia
salvi i controlli successivi in corso di gara sulla
veridicità delle dichiarazioni.
L’art. 48, relativo al controllo sul possesso dei requisiti,
nei confronti del primo e secondo classificato, nonché del
10% dei concorrenti individuati mediante sorteggio pubblico,
è disposizione di carattere generale, applicabile oltre che
agli appalti di lavori, anche a quelli di servizi e
forniture.
Esso consente alle stazioni appaltanti di esigere dai
concorrenti di provare i requisiti speciali mediante la
documentazione prescritta dalla lex specialis di
gara.
Si tratta di una disposizione chiaramente derogatoria della
l. n. 241/1990 e dei principi in materia di dichiarazioni
sostitutive e autocertificazioni, a garanzia della serietà
delle gare pubbliche.
Si deve anche osservare che mentre il possesso dei requisiti
generali (di carattere morale) di cui all’art. 38, codice
appalti, può essere provato mediante certificazioni
pubbliche acquisibili agevolmente d’ufficio dalla stazione
appaltante, il possesso dei requisiti speciali di capacità
economico–finanziaria e tecnico-professionale attiene a
fatti propri del concorrente, che da lui sono conosciuti e
comprovabili. Non è invece esigibile che sia la stazione
appaltante ad andare alla ricerca della prova del possesso
dei requisiti, in relazione a dati che non sono nella sua
disponibilità.
E’ perfettamente comprensibile, sul piano dei principi, che
il codice appalti deroghi al principio di non aggravamento
del procedimento amministrativo, e non vi è alcun contrasto
con i generali principi di ragionevolezza e proporzionalità,
che sono pienamente rispettati, perché esigere dal
concorrente la prova di fatti propri del concorrente
medesimo non viola alcun canone di proporzionalità e
ragionevolezza.
Non senza considerare, poi, che i principi di ragionevolezza
e proporzionalità vanno coniugati con quello di speditezza
della gara di appalto (sicché non si possono imporre alla
stazione appaltante oneri esorbitanti e doveri di soccorso
non necessari) e con quelli di lealtà e buona fede dei
concorrenti, che, secondo un modello di concorrente
diligente, devono partecipare alle gare di appalto con
l’adeguata preparazione e predisposizione di tutta la
documentazione necessaria, che non può non essere in loro
possesso.
Un concorrente che dichiara in gara di aver svolto pregressi
servizi per committenti pubblici e privati, deve
diligentemente precostituirsi la prova delle sue
dichiarazioni, acquisendo tempestivamente la certificazione
di tali servizi (che in realtà dovrebbe procurarsi non
appena concluso l’espletamento del servizio) senza attendere
di essere sorteggiato per il controllo a campione, e poi
dolersi di avere solo dieci giorni di tempo per fornire una
prova che dovrebbe essere già in suo possesso.
In questa logica l’art. 48 codice appalti, laddove fissa un
termine di 10 giorni entro cui i concorrenti devono fornire
la prova dei requisiti dichiarati, non impone alcun onere
sproporzionato o esorbitante: esso esige che entro dieci
giorni il concorrente “fornisca” la prova, non già
che entro dieci giorni il concorrente “si procuri” la
prova. Infatti è ragionevole presumere che il concorrente,
già nel momento in cui presenta la domanda di partecipazione
e l’offerta, abbia la prova di ciò che dichiara, e dunque
nei dieci giorni deve solo inviare una documentazione già
predisposta.
Giova osservare che l’Autorità di vigilanza dei lavori
pubblici ha ritenuto l’art. 48 codice appalti derogatorio
dell’art. 18, l. n. 241/1990, e ha statuito che la stazione
appaltante ben può esigere che il concorrente produca
documentazione in possesso di pubbliche amministrazioni
diverse dalla stazione appaltante (delibera n. 15/2000 e
determinazione n. 5/2009).
Anche secondo la giurisprudenza la disciplina sul controllo
a campione è speciale e successiva rispetto alla normativa
sulla semplificazione documentale (l. n. 127/1997 e d.P.R.
n. 403/1998), sicché è prevalente nel senso di imporre alle
imprese un onere di documentazione in deroga alla disciplina
della semplificazione documentale (Cons. St., sez. V,
09.12.2002 n. 6768).
---------------
Il motivo è in parte ripetitivo
del primo motivo di appello e va respinto in parte qua
sulla scorta degli argomenti esposti in relazione al primo
motivo: ciò in relazione alle censure inerenti la
possibilità dell’autocertificazione in sede di prova del
possesso dei requisiti, la non imputabilità della mancanza
di prova, la asserita irragionevolezza dell’allegato 19 al
c.s.a., la pretesa che la stazione appaltante acquisisse
d’ufficio la documentazione probatoria.
Nel resto il motivo va respinto, salvo che per un limitato
profilo che non modifica tuttavia l’esito complessivo del
giudizio.
Non vi erano i presupposti per l’esercizio del potere di
soccorso della stazione appaltante ai sensi dell’art. 46
codice appalti.
Tale disposizione presuppone che le parti abbiano presentato
i documenti, certificati e dichiarazioni prescritti, e che
siano solo necessari chiarimenti.
La disposizione non mira a supplire a omissioni di documenti
e dichiarazioni la cui presentazione è imposta entro un
termine perentorio.
Nel caso di specie il concorrente sapeva sin dalla
pubblicazione del bando di gara che in corso di gara poteva
essere richiesto della prova dei requisiti dichiarati; ha
omesso di presentare i documenti nel termine perentorio
indicato dalla stazione appaltante; vi è dunque una
omissione imputabile al concorrente, si fa questione di
mancata produzione di documenti, non di necessità di
chiarimenti su documenti prodotti.
Va ribadito che la mancata produzione della certificazione
dei servizi è imputabile a negligenza del concorrente.
L’imprenditore che esegue servizi per committenti pubblici e
privati ha l’onere di farsi rilasciare un
certificato/dichiarazione di regolare esecuzione,
chiedendolo sin dalla fase di ultimazione del servizio, e
non solo in occasione di una gara successiva.
Quanto all’ambito di applicazione dell’art. 48 codice
appalti, erra l’appellante a sostenere che esso si applica
solo in caso di false dichiarazioni; al contrario, esso si
applica interamente anche nel caso di mancata produzione
tempestiva dei prescritti documenti; in entrambe le ipotesi
conseguono l’esclusione, l’incameramento della cauzione
provvisoria, la segnalazione all’Autorità di vigilanza.
Anche di recente la giurisprudenza della Sezione ha ribadito
che l’art. 48 codice appalti prevede un termine perentorio
per la produzione documentale, decorso il quale conseguono
inevitabilmente i tre effetti previsti dalla legge, vale a
dire l’esclusione, l’incameramento della cauzione e la
segnalazione all’Autorità; l’eventuale produzione tardiva
dei documenti può acquisire rilevanza, sempre che i
documenti siano veritieri, al solo diverso fine dei
provvedimenti sanzionatori dell’Autorità di vigilanza (Cons.
St., sez. VI, 28.09.2012 n. 5138).
---------------
L’art. 48 codice appalti, nel prevedere un termine
perentorio per la prova dei requisiti in sede di controllo a
campione, prevede, quali automatiche conseguenze
dell’inosservanza del termine:
- l’esclusione dalla gara;
- l’incameramento della cauzione provvisoria;
- la segnalazione del fatto all’Autorità di vigilanza per i
provvedimenti sanzionatori e per la sospensione della
partecipazione alle procedure di affidamento da uno a dodici
mesi.
Le misure in questione conseguono automaticamente e senza
possibilità di apprezzamento discrezionale, sia al caso di
mancata produzione della documentazione richiesta, sia al
caso di produzione tardiva, sia al caso di produzione di
documenti inidonei, incompleti, o addirittura falsi.
Tutte tale ipotesi integrano la fattispecie che si denomina,
unitariamente e omnicomprensivamente, come inosservanza
dell’obbligo documentale sancito dall’art. 48, codice.
Non è consentita all’amministrazione una graduazione o una
scelta tra le tre misure, a seconda della gravità della
violazione e del tipo di violazione (inosservanza pura e
semplice dell’obbligo, risposta tardiva, risposta incompleta
o falsa) (Cons. St., sez. V, 17.04.2003 n. 2081; Cons. St.,
sez. V, 08.05.2002 n. 2482).
La possibile diversa gravità dei fatti -omissione, ritardo,
documentazione incompleta o falsa- è suscettibile di
apprezzamento solo in sede di irrogazione delle sanzioni da
parte dell’Autorità di vigilanza.
In quella sede, in funzione della maggiore o minore gravità
del fatto, potrà essere comminata una sanzione pecuniaria di
importo più o meno elevato, e una sanzione interdittiva di
maggiore o minore durata.
Nel caso di specie, pertanto, correttamente la stazione
appaltante ha proceduto all’adozione di tutte e tre le
misure, esclusione, segnalazione, incameramento della
cauzione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 22.11.2012 n. 5921 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Vero è che l'art. 192 del dlgs 152/2006, ai fini
del coinvolgimento del proprietario delle aree nell’opera di
rimozione dei rifiuti e di ripristino dello stato dei
luoghi, richiede che la violazione sia a costui imputabile
per dolo o per colpa (così come, del resto, già prevedeva
l’art. 14 del d.lgs. n. 22 del 1997, che ne costituisce il
precedente normativo).
---------------
Le esigenze di tutela ambientale sottese alla norma di cui
all’art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006 rendono evidente che il
riferimento a chi è titolare di diritti reali o personali di
godimento va inteso in senso lato, essendo destinato a
comprendere qualunque soggetto si trovi con l'area
interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da
consentirgli –e per ciò stesso imporgli– di esercitare una
funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che
l'area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di
rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente; per altro
verso, il requisito della colpa postulato da detta norma ben
può consistere proprio nell'omissione degli accorgimenti e
delle cautele che l'ordinaria diligenza suggerisce per
realizzare un'efficace custodia e protezione dell'area, così
impedendo che possano essere in essa indebitamente
depositati rifiuti nocivi.
---------------
Vero è che l’art. 242, comma 2, in caso di potenziale
contaminazione di un sito, pone in capo al “responsabile
dell’inquinamento” la realizzazione degli interventi di
natura preventiva (successivi all’adozione delle misure di
prevenzione immediate da attuarsi nelle prime ventiquattr’ore),
tra i quali anche la predisposizione di un’indagine
preliminare sui parametri oggetto dell’inquinamento: con ciò
allineandosi al principio, di origine comunitaria, che
accolla al soggetto che ha dato causa all’inquinamento il
dovere di intervenire per eliminarlo (“chi inquina paga”:
art. 191, comma 2, del Trattato sul Funzionamento dell’U.E.;
direttiva n. 2004/35/CE).
Ma è anche vero che quel principio comunitario è
direttamente connesso al profilo della necessità di un
elevato livello di tutela ambientale e sanitaria, obiettivo
parimenti perseguito dal diritto dell'Unione Europea e che
risulta fondato sui principi della precauzione, dell'azione
preventiva e della correzione in via prioritaria alla fonte
dei danni causati all'ambiente; in tale contesto, e solo
quale misura di chiusura, vi è infine l'invocato principio
secondo cui il responsabile dell'inquinamento è responsabile
per le obbligazioni ripristinatorie e risarcitorie.
Ne consegue che le misure di tutela necessarie ed urgenti
che vengano poste a carico del proprietario del sito non
hanno natura né sanzionatoria né risarcitoria, bensì di
salvaguardia ambientale e sanitaria, nel superiore interesse
pubblico generale ambientale ed ai fini della tutela
dell'inviolabile diritto alla salute della popolazione
esposta, come si ricava sia dagli artt. 2, 9 e 32 della
Costituzione sia dal diritto europeo, fermi restando
l'obbligo dell'Amministrazione di procedere
all'individuazione del responsabile e la facoltà del
proprietario di rivalersi nei suoi confronti.
Tale ricostruzione, del resto, appare altresì pienamente
conforme al principio generale del nostro ordinamento
relativo alla funzione sociale della proprietà (art. 42
Cost.), che giustifica anche la conformazione, imposizione
di pesi o oneri, ed infine la stessa estinzione per
espropriazione del diritto.
---------------
Mentre la responsabilità dell’autore dell’inquinamento
costituisce una forma di responsabilità oggettiva per gli
obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino
ambientale conseguenti alla contaminazione delle aree,
sensibilmente diversa si presenta, invece, la posizione del
proprietario del sito per la responsabilità del quale
occorre fare riferimento ai commi 1 e 2 dell’art. 253 d.lgs.
n. 152 del 2006: chi è proprietario o chi subentra nella
proprietà o possesso del bene subentra anche negli obblighi
connessi all’onere reale ivi previsto, indipendentemente dal
fatto che ne abbia avuto preventiva conoscenza.
Quella posta in capo al proprietario è pertanto una
responsabilità “da posizione”, non solo svincolata dai
profili soggettivi del dolo o della colpa, ma che non
richiede neppure l’apporto causale del proprietario
responsabile al superamento o pericolo di superamento dei
valori limite di contaminazione.
È quindi evidente che il proprietario del suolo –che non
abbia apportato alcun contributo causale, neppure
incolpevole, all’inquinamento– non si trova in alcun modo in
una posizione analoga od assimilabile a quella
dell’inquinatore, essendo tenuto a sostenere i costi
connessi agli interventi di bonifica esclusivamente in
ragione dell’esistenza dell’onere reale sul sito.
Non fondata è, anzitutto, la doglianza concernente
l’asserita erronea individuazione del soggetto destinatario
della contestazione ex art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006.
Vero è, in proposito, che tale norma, ai fini del
coinvolgimento del proprietario delle aree nell’opera di
rimozione dei rifiuti e di ripristino dello stato dei
luoghi, richiede che la violazione sia a costui imputabile
per dolo o per colpa (così come, del resto, già prevedeva
l’art. 14 del d.lgs. n. 22 del 1997, che ne costituisce il
precedente normativo): ma è anche vero che, nel caso di
specie, non vi è dubbio che l’amministrazione abbia
richiamato proprio tale ipotesi di coinvolgimento colposo,
come è stato chiarito nella (parimenti impugnata) nota n.
16772 del 23.11.2011 (con la quale si respingeva l’istanza
di riesame in autotutela della precedente ordinanza n. 40).
L’amministrazione ha, infatti, chiamato in causa la ditta
ricorrente, pur solo proprietaria delle aree, “sotto il
profilo del mancato controllo”, ossia per l’omessa
vigilanza (che senz’altro ad essa spettava in quanto avente
la giuridica disponibilità dei luoghi) in ordine ai
materiali che erano stati depositati presso la cava. Anche
ammesso, pertanto, che risponda al vero quanto sostenuto
dalla ricorrente –ossia che i materiali sarebbero stati
depositati da un terzo, in violazione degli obblighi
contrattuali intercorrenti tra le parti (sul punto, si vd.
comunque infra, par. n. 4.4)– ciò che tuttavia conta, ai
fini della corretta applicazione dell’art. 192 d.lgs. n. 152
del 2006, è che l’amministrazione, in modo non
manifestamente irragionevole, abbia rinvenuto un
coinvolgimento colposo della ditta Ricciardo nell’abbandono
dei rifiuti: ciò, in particolare, in considerazione della
qualifica di “operatore professionale” della
ricorrente (come è correttamente notato dalla difesa della
Provincia di Novara), qualifica che, in base al diritto
comunitario dell’ambiente, fa sorgere una particolare
posizione di controllo ambientale sull’attività svolta (cfr.
la definizione offerta dall’art. 2, par. n. 6, della
direttiva n. 2004/35/CE).
Va del resto ricordato che, come sostenuto di recente dalle
Sezioni unite della Corte di cassazione, le esigenze di
tutela ambientale sottese alla norma di cui all’art. 192
d.lgs. n. 152 del 2006 rendono evidente che il riferimento a
chi è titolare di diritti reali o personali di godimento va
inteso in senso lato, essendo destinato a comprendere
qualunque soggetto si trovi con l'area interessata in un
rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli –e per
ciò stesso imporgli– di esercitare una funzione di
protezione e custodia finalizzata ad evitare che l'area
medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti
nocivi per la salvaguardia dell'ambiente; per altro verso,
il requisito della colpa postulato da detta norma ben può
consistere proprio nell'omissione degli accorgimenti e delle
cautele che l'ordinaria diligenza suggerisce per realizzare
un'efficace custodia e protezione dell'area, così impedendo
che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti
nocivi (così Cassaz., sez. un., sent. n. 4472 del 2009).
Né, per tornare al caso di specie, può ragionevolmente
sostenersi che i materiali rinvenuti fossero classificabili
come terre e rocce da scavo riutilizzabili per reinterri,
riempimenti o rimodellazioni, ai sensi degli artt. 186, 192
e 183 del d.lgs. n. 152 del 2006. A norma dell’(allora
vigente) art. 186 cit., infatti, condizione per cui possa
affermarsi ciò è che sia accertata la provenienza del
materiale da siti non contaminati e che non risultino rischi
per la salute: condizione qui senz’altro non ricorrente
perché, al momento dell’adozione dell’atto impugnato, c’era
già stato il pronunciamento dell’ARPA che aveva accertato la
nocività del materiale rinvenuto.
In quanto non utilizzate nel rispetto delle condizioni di
cui all’art. 186, pertanto, le terre e rocce da scavo
rinvenute dovevano considerarsi “rifiuti”, ai sensi
del comma 5 dell’art. 186 (quale vigente all’epoca dei
fatti). Non ha nessuna rilevanza, in proposito, la
circostanza –evidenziata dalla ricorrente– che gli
accertamenti dell’ARPA siano stati condotti in assenza di
contraddittorio e che –al momento della redazione del
ricorso– si fosse ancora in attesa di una loro “revisione”:
al fine di qualificare giuridicamente come rifiuti il
materiale rinvenuto, ai sensi dell’art. 192 d.lgs. n. 152
del 2006 (oggetto di applicazione con l’ordinanza
impugnata), erano infatti senz’altro sufficienti le
risultanze scientifiche fino a quel momento disponibili.
---------------
Venendo ora all’esame della
parte dell’ordinanza impugnata, con la quale
l’amministrazione ha intimato alla ditta ricorrente di
presentare un progetto di indagine ambientale, deve
respingersi la censura di violazione degli artt. 242 e 245
d.lgs. n. 152 del 2006.
Vero è che l’art. 242, comma 2, in caso di potenziale
contaminazione di un sito, pone in capo al “responsabile
dell’inquinamento” la realizzazione degli interventi di
natura preventiva (successivi all’adozione delle misure di
prevenzione immediate da attuarsi nelle prime ventiquattr’ore),
tra i quali anche la predisposizione di un’indagine
preliminare sui parametri oggetto dell’inquinamento: con ciò
allineandosi al principio, di origine comunitaria, che
accolla al soggetto che ha dato causa all’inquinamento il
dovere di intervenire per eliminarlo (“chi inquina paga”:
art. 191, comma 2, del Trattato sul Funzionamento dell’U.E.;
direttiva n. 2004/35/CE).
Ma è anche vero che –come sostenuto da un recente filone
giurisprudenziale, al quale il Collegio aderisce– quel
principio comunitario è direttamente connesso al profilo
della necessità di un elevato livello di tutela ambientale e
sanitaria, obiettivo parimenti perseguito dal diritto
dell'Unione Europea e che risulta fondato sui principi della
precauzione, dell'azione preventiva e della correzione in
via prioritaria alla fonte dei danni causati all'ambiente;
in tale contesto, e solo quale misura di chiusura, vi è
infine l'invocato principio secondo cui il responsabile
dell'inquinamento è responsabile per le obbligazioni
ripristinatorie e risarcitorie (così TAR Lazio, Roma, sez.
II-bis, n. 4215 del 2011).
Ne consegue che le misure di tutela necessarie ed urgenti
che vengano poste a carico del proprietario del sito non
hanno natura né sanzionatoria né risarcitoria, bensì di
salvaguardia ambientale e sanitaria, nel superiore interesse
pubblico generale ambientale ed ai fini della tutela
dell'inviolabile diritto alla salute della popolazione
esposta, come si ricava sia dagli artt. 2, 9 e 32 della
Costituzione sia dal diritto europeo, fermi restando
l'obbligo dell'Amministrazione di procedere
all'individuazione del responsabile e la facoltà del
proprietario di rivalersi nei suoi confronti.
Tale ricostruzione, del resto, appare altresì pienamente
conforme al principio generale del nostro ordinamento
relativo alla funzione sociale della proprietà (art. 42
Cost.), che giustifica anche la conformazione, imposizione
di pesi o oneri, ed infine la stessa estinzione per
espropriazione del diritto (così, ancora, TAR Lazio, sent.
n. 4215 del 2011).
Del resto, come pure affermato, recentemente ed a più
riprese, dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez.
VI, 15.07.2010, n. 4561; sez. II, parere n. 2038 del
30.04.2012), mentre la responsabilità dell’autore
dell’inquinamento costituisce una forma di responsabilità
oggettiva per gli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e
ripristino ambientale conseguenti alla contaminazione delle
aree, sensibilmente diversa si presenta, invece, la
posizione del proprietario del sito per la responsabilità
del quale occorre fare riferimento ai commi 1 e 2 dell’art.
253 d.lgs. n. 152 del 2006: chi è proprietario o chi
subentra nella proprietà o possesso del bene subentra anche
negli obblighi connessi all’onere reale ivi previsto,
indipendentemente dal fatto che ne abbia avuto preventiva
conoscenza.
Quella posta in capo al proprietario è pertanto una
responsabilità “da posizione”, non solo svincolata
dai profili soggettivi del dolo o della colpa, ma che non
richiede neppure l’apporto causale del proprietario
responsabile al superamento o pericolo di superamento dei
valori limite di contaminazione.
È quindi evidente che il proprietario del suolo –che non
abbia apportato alcun contributo causale, neppure
incolpevole, all’inquinamento– non si trova in alcun modo in
una posizione analoga od assimilabile a quella
dell’inquinatore, essendo tenuto a sostenere i costi
connessi agli interventi di bonifica esclusivamente in
ragione dell’esistenza dell’onere reale sul sito
(TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 22.11.2012 n. 1257 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Società semplici in gara.
Attestazioni Soa e partecipazione agli appalti.
Ordinanza della Corte di giustizia europea boccia
la legge italiana.
Anche le società semplici devono poter essere attestate Soa
e partecipare alle gare di appalto pubblico.
È quanto si
desume dall'ordinanza
04.10.2012 n. C-502/11, pubblicata sulla Guce del 12.01.2013, della Corte di giustizia europea
che ha dichiarato non conforme al diritto comunitario la
legge italiana che vieta a una società semplice di
partecipare a gare di appalto; per le direttive appalti si
tratta di società qualificabile come «imprenditore», che non
può essere discriminata in base alla sua forma giuridica.
La questione sulla quale la Corte ha emesso l'ordinanza (che
ribalta anche l'orientamento del Consiglio di stato del
2010, sez. VI, decisione 08 giugno n. 3638) riguardava una
società semplice che operava nel settore agricolo e che,
durante il periodo in cui l'ordinamento italiano prevedeva,
ai fini della partecipazione alle gare per appalti pubblici
di lavori, l'iscrizione all'Albo nazionale dei costruttori
(legge n. 57/1962), aveva ottenuto l'iscrizione nella
categoria S1 (opere di «movimento terra, demolizioni,
sterri, sistemazione agraria e forestale, verde pubblico e
relativo arredo urbano», oggi OS 24).
Dopo l'entrata in
vigore del dpr 34/2000 che ha istituito il nuovo sistema di
qualificazione delle imprese di costruzioni, sostituendo l'Anc,
con comunicazione n. 42/04, del 24.11.2004, l'Autorità
di vigilanza sui contratti pubblici ha vietato alle Soa di
rilasciare l'attestazione per la partecipazione alle gare
d'appalto in favore delle società semplici. Da qui la revoca
dell'attestazione alla società agricola e l'inizio di un
contenzioso prima presso il Tar del Lazio e poi di fronte al
Consiglio di stato che ha chiesto alla Corte europea di
pronunciarsi sulla compatibilità del nostro sistema rispetto
alle direttive europee.
La Corte ha preliminarmente
affermato qual è l'obiettivo della normativa dell'Unione in
materia di appalti pubblici: l'apertura alla concorrenza
nella misura più ampia possibile e la garanzia che sia
assicurata la partecipazione più ampia possibile di
offerenti, non soltanto con riguardo all'interesse
dell'Unione alla libera circolazione dei prodotti e dei
servizi, bensì anche nell'interesse stesso
dell'amministrazione aggiudicatrice, la quale disporrà così
di un'ampia scelta circa l'offerta più vantaggiosa e più
rispondente ai bisogni della collettività pubblica
interessata.
Per la giurisprudenza della Corte Ue l'approccio è di tipo
sostanziale, quindi, e non formale: deve essere ammesso a
partecipare alle gare di appalto «qualsiasi soggetto o ente
che, considerati i requisiti indicati nel bando di gara, si
reputi idoneo a garantire l'esecuzione di un appalto, in
modo diretto oppure facendo ricorso al subappalto,
indipendentemente dal suo status e dal fatto di essere
attivo sul mercato in modo sistematico oppure soltanto
occasionale».
Nel nostro ordinamento le società semplici si
caratterizzano per l'assenza di un capitale minimo, per la
responsabilità, in linea di principio, limitata ai soci che
hanno agito in nome e per conto della società, nonché per
essere escluse dalle procedure fallimentari. Ma per il
diritto Ue la forma giuridica non può rappresentare un
ostacolo alla partecipazione alle gare di appalto pubblico.
Da ciò la necessità di consentire alle Soa di attestare
anche le società semplici
(articolo ItaliaOggi del
30.01.2013 - tratto da www.corteconti.it). |
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