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AGGIORNAMENTO AL 28.01.2013 |
ã |
IN EVIDENZA |
Per coloro che
sono "duri di comprendonio", nonostante la
copiosa ed uniforme pareristica della Corte dei
Conti qui pubblicata a più riprese, ecco l'ennesima
conferma ... |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
Comune di Massa Martana - Richiesta di parere relativa
all’interpretazione della disposizione di cui all’art. 92,
commi 5 e 6, del D.Lgs. n. 163/2006 -“Codice dei contratti
pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in
attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18CE”-, in
merito all’attribuzione degli incentivi di legge al
Responsabile unico del procedimento per la redazione di atti
di pianificazione urbanistica.
La norma
contenuta nel comma 6 dell’art. 92 dlgs 163/2006, che
prevede la corresponsione al dipendente di un emolumento
pari al 30% della tariffa professionale applicabile al
professionista esterno per la redazione “di un atto di
pianificazione comunque denominato”, non va letta
isolatamente, ma in combinato disposto con il precedente
art. 90 e con il primo comma del detto art. 92, come la
Magistratura Contabile nell’esercizio della funzione di
controllo ha avuto modo di chiarire in molteplici occasioni.
---------------
Il riferimento
ad “un atto di pianificazione” contenuto al comma 6 del
detto art. 92 è da intendersi limitato agli atti che abbiano
ad oggetto la pianificazione collegata alla realizzazione di
opere pubbliche (ad es. varianti per la localizzazione di
un’opera, etc.) con esclusione, quindi, degli atti di
pianificazione generale (ad es. redazione del Piano
regolatore, di una variante generale, etc.).
---------------
L’incentivo può essere corrisposto dall’amministrazione non
per la posizione o il ruolo ricoperto formalmente dal
dipendente, ma, in una visione sostanziale, qualora vi sia
stata l’effettiva redazione dell’atto di pianificazione: in
altre parole l’incentivo spetta unicamente a coloro che
“abbiano redatto” l’atto di pianificazione in parola.
Recentemente la Magistratura Contabile nell’esercizio della
funzione di controllo ha meglio chiarito che l’incentivo
spetta solo al personale che partecipa direttamente alle
attività di redazione degli atti, quindi non in “ragione
della qualifica rivestita ma in relazione al complessivo
svolgimento interno dell’attività di progettazione. In
sostanza, qualora l’attività venga svolta internamente tutti
i soggetti che, a qualsivoglia titolo, collaborano, hanno
diritto, in base alle previsioni del Regolamento dell’Ente,
a partecipare alla distribuzione dell’incentivo. Qualora, al
contrario, l’attività di pianificazione, come sopra
specificata, venga svolta all’esterno, non sorgendo il
presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari
dipendenti dell’Ufficio, non vi è neppure un autonomo
diritto del Responsabile del procedimento ad ottenere un
compenso per un’attività che, al contrario, rientra fra i
suoi compiti e doveri d’ufficio.”.
Ed ancora “L’art. 92, comma 6, non potrebbe costituire
titolo per l’erogazione di speciali compensi ai dipendenti
che svolgono attività sussidiarie, strumentali o di supporto
alla redazione di atti di pianificazione affidata a
professionisti esterni. Tale disposizione, infatti, abilita
(nella misura autoritativamente fissata dalla legge) a
riconoscere uno speciale compenso, al di là del trattamento
economico ordinariamente spettante, solo in presenza dei due
seguenti elementi di fattispecie:
a) sul piano dell’oggetto, che la prestazione consista nella
diretta “redazione di un atto di pianificazione”, non in
attività variamente sussidiarie che rientrano nei doveri
d’ufficio dei dipendenti, …;
b) implicitamente, che la redazione dello stesso non sia
stata esternalizzata ad un professionista esterno ai sensi
dell’art. 90, comma 6”.
... il Sindaco del Comune di Massa Martana, per il tramite
del Consiglio delle Autonomie Locali dell’Umbria, ha
inoltrato a questa Sezione richiesta di parere, ai sensi
dell’articolo 7, comma 8, della legge n. 131 del 05.06.2003,
relativamente all’interpretazione della disposizione di cui
all’art. 92, commi 5 e 6, del D.Lgs. n. 163/2006 -“Codice
dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e
forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e
2004/18CE”-, in merito all’attribuzione degli incentivi
di legge al Responsabile unico del procedimento per la
redazione di atti di pianificazione urbanistica.
...
L’art. 92 del Codice dei contratti pubblici relativi a
lavori, servizi e forniture, Dlgs n. 163/2006, rubricato “Corrispettivi,
incentivi per la progettazione e fondi a disposizione delle
stazioni appaltanti” ai commi quinto e sesto prevede,
rispettivamente, che: - “5. Una somma non superiore al
due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera
o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali
e assistenziali a carico dell’amministrazione, a valere
direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93,
comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con
le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione
decentrata e assunti in un regolamento adottato
dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e
gli incaricati della redazione del progetto, del piano della
sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché
tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel
limite massimo del due per cento, è stabilita dal
regolamento in rapporto all'entità e alla complessità
dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle
responsabilità professionali connesse alle specifiche
prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è
disposta dal dirigente preposto alla struttura competente,
previo accertamento positivo delle specifiche attività
svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività
di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo
dipendente non può superare l'importo del rispettivo
trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote
parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte
dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale
esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero
prive del predetto accertamento, costituiscono economie. I
soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c),
possono adottare con proprio provvedimento analoghi criteri.
- 6. Il trenta per cento della tariffa professionale
relativa alla redazione di un atto di pianificazione
comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri
previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto.”
L’articolato normativo appena descritto contiene la
disciplina gli incentivi e corrispettivi che
l’amministrazione pubblica può erogare ai dipendenti per la
progettazione di opere pubbliche.
La ratio della disciplina dettata dal legislatore è
quella di ridurre i costi derivanti dalle attività di
progettazione delle opere pubbliche, incentivando il ricorso
alle attività di progettazione svolte all’interno degli
uffici dagli stessi dipendenti, cui vengono corrisposti
compensi aggiuntivi alla retribuzione, anziché far ricorso a
professionalità esterne alla amministrazione, che
determinerebbero una consistente lievitazione dei costi.
Il quesito posto dal Comune richiedente riguarda la
possibilità di corrispondere al Responsabile Unico del
Procedimento, relativamente ad un atto di pianificazione
urbanistica, lo speciale compenso incentivante da
corrispondersi per la progettazione c.d. interna, di cui al
richiamato comma 6 dell’art. 92 del Codice dei Contratti,
sebbene l’attività di progettazione sia stata affidata a
professionisti esterni all’amministrazione.
Ciò nella prospettazione dell’ente richiedente muove dalla
constatazione che i compensi di cui al quinto comma della
richiamata normativa (incentivi alla progettazione) possono
essere erogati ai dipendenti anche in caso di progettazione
affidata all’esterno, così che anche lo speciale compenso di
cui al successivo sesto comma possa essere erogato
nell’ipotesi analoga di affidamento esterno all’ente.
Nel merito questa Sezione, relativamente alla possibilità di
corrispondere al R.U.P. i compensi incentivanti per gli atti
di pianificazione urbanistica, osserva che
la norma contenuta nel sesto comma dell’art. 92 sopra
richiamato, che prevede la corresponsione al dipendente di
un emolumento pari al 30% della tariffa professionale
applicabile al professionista esterno per la redazione “di
un atto di pianificazione comunque denominato”, non va
letta isolatamente, ma in combinato disposto con il
precedente art. 90 e con il primo comma del detto art. 92,
come la Magistratura Contabile nell’esercizio della funzione
di controllo ha avuto modo di chiarire in molteplici
occasioni.
In altre parole il compenso incentivante di cui al comma 6
dell’art. 92 può essere attribuito ai “dipendenti che
hanno preso parte alla redazione esclusivamente di un piano
o progetto preliminare, definitivo ed esecutivo di lavori
pubblici”, in quanto l’art. 90 del D.lgs. n. 163/2006,
sia nella rubrica che nel primo comma, fa esclusivo
riferimento ai lavori pubblici, e l’art. 92, al primo comma,
“presuppone l’attività di progettazione nelle varie
fasi,.. come finalizzata alla costruzione dell’opera
pubblica progettata”.
Ed ancora, lo stesso sesto comma dell’art. 92, si riferisce
alla materia dei lavori pubblici, quando prevede che
l’incentivo vada ripartito tra i dipendenti
dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto,
presupponendo una procedura ad evidenza pubblica finalizzata
alla realizzazione di un’opera di pubblico interesse.
In sintesi dunque il riferimento ad “un
atto di pianificazione” contenuto al comma 6 del detto
art. 92 è da intendersi limitato agli atti che abbiano ad
oggetto la pianificazione collegata alla realizzazione di
opere pubbliche (ad es. varianti per la localizzazione di
un’opera, etc.) con esclusione, quindi, degli atti di
pianificazione generale (ad es. redazione del Piano
regolatore, di una variante generale, etc.)
(cfr. Corte conti, Sez. Contr. Campania
parere 10.07.2008 n. 14;
Veneto n.
parere 26.07.2011 n. 337; Toscana
parere 18.10.2011 n. 213; Piemonte
parere 30.08.2012 n. 290).
Alla luce delle considerazioni sopraesposte
il quesito posto dal Comune di Massa Martana, per la
parte riguardante il diritto al compenso del Responsabile
unico del procedimento sugli atti di pianificazione
urbanistica, è risolto in senso negativo, in quanto detti
atti non sono ricompresi tra quelli previsti dall’art. 92,
comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006.
Sotto ulteriore profilo il Comune richiedente si interroga
sulla possibilità di corrispondere al Responsabile unico del
procedimento il compenso incentivante più volte ridetto
quale dipendente dell’amministrazione aggiudicatrice che ha
redatto l’atto tenuto conto delle funzioni che la legge gli
attribuisce.
Malgrado la non chiara formulazione, sembra che la richiesta
del Comune sia volta a comprendere se possa essere
attribuito al Responsabile unico del procedimento
l’incentivo previsto dal comma 6 del detto art. 92,
semplicemente in funzione del ruolo svolto, ovverosia
indipendentemente dalla partecipazione effettiva alla
redazione degli atti, presumibilmente pur sempre in materia
dei lavori pubblici.
Dalla lettera della norma appena richiamata si evince che
l’incentivo può essere corrisposto
dall’amministrazione non per la posizione o il ruolo
ricoperto formalmente dal dipendente, ma, in una visione
sostanziale, qualora vi sia stata l’effettiva redazione
dell’atto di pianificazione: in altre parole l’incentivo
spetta unicamente a coloro che “abbiano redatto”
l’atto di pianificazione in parola.
Recentemente la Magistratura Contabile nell’esercizio della
funzione di controllo ha meglio chiarito che
l’incentivo spetta solo al personale che partecipa
direttamente alle attività di redazione degli atti, quindi
non in “ragione della qualifica rivestita ma in relazione
al complessivo svolgimento interno dell’attività di
progettazione. In sostanza, qualora l’attività venga svolta
internamente tutti i soggetti che, a qualsivoglia titolo,
collaborano, hanno diritto, in base alle previsioni del
Regolamento dell’Ente, a partecipare alla distribuzione
dell’incentivo. Qualora, al contrario, l’attività di
pianificazione, come sopra specificata, venga svolta
all’esterno, non sorgendo il presupposto per la ripartizione
di un incentivo fra i vari dipendenti dell’Ufficio, non vi è
neppure un autonomo diritto del Responsabile del
procedimento ad ottenere un compenso per un’attività che, al
contrario, rientra fra i suoi compiti e doveri d’ufficio.”
(cfr. Sez. reg. Contr. Piemonte
parere 30.08.2012 n. 290).
Ed ancora “L’art. 92, comma 6, non
potrebbe costituire titolo per l’erogazione di speciali
compensi ai dipendenti che svolgono attività sussidiarie,
strumentali o di supporto alla redazione di atti di
pianificazione affidata a professionisti esterni. Tale
disposizione, infatti, abilita (nella misura
autoritativamente fissata dalla legge) a riconoscere uno
speciale compenso, al di là del trattamento economico
ordinariamente spettante, solo in presenza dei due seguenti
elementi di fattispecie: a) sul piano dell’oggetto, che la
prestazione consista nella diretta “redazione di un atto di
pianificazione”, non in attività variamente sussidiarie che
rientrano nei doveri d’ufficio dei dipendenti, …; b)
implicitamente, che la redazione dello stesso non sia stata
esternalizzata ad un professionista esterno ai sensi
dell’art. 90, comma 6”.
(cfr. Sez. reg. Contr. Lombardia
parere 30.05.2012 n. 259) (Corte dei Conti, Sez.
controllo Umbria,
parere 21.12.2012 n.
284). |
Volenti o
nolenti, bisogna farsene una ragione !! |
28.01.2013 - LA
SEGRETERIA PTPL |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Oggetto: Legge n. 190 del 2012 - Disposizioni per la
prevenzione e la repressione della corruzione e
dell'illegalità nella pubblica amministrazione (circolare
25.01.2013 n. 1/2013). |
UTILITA' |
INCARICHI
PROGETTUALI:
Servizi di progettazione: ecco le linee guida sui contratti
professionali degli architetti!
Le ultime modifiche legislative hanno portato
all’abrogazione delle tariffe professionali.
Il principio di stabilire patti chiari tra professionista e
committente prima di assumere un incarico professionale è un
elemento fondamentale, sancito anche dall’articolo 9 della
Legge 27/2012.
Ricordiamo, brevemente, che il compenso per la prestazione
deve essere pattuito al momento del conferimento
dell’incarico e adeguato all'importanza dell'opera e alla
prestazione da eseguire. Inoltre, il professionista è tenuto
ad informare il cliente, attraverso un preventivo, riguardo:
● misura del compenso
●
grado di complessità dell’incarico
●
tutti gli oneri e le spese ipotizzabili
●
altro (IVA, contributi integrativi, ritenute, etc.)
Il Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori,
Paesaggisti e Conservatori (CNAPPC) ha pubblicato un
documento contenente delle Linee guida alla redazione del
contratto, con i seguenti tre esempi
●
esempio di contratto relativo a “Progettazione
Architettonica Integrata per Committenza Privata”
●
esempio di contratto “Semplificato” relativo a
“Progettazione Architettonica Integrata per Committenza
privata”
●
esempio di contratto relativo a Progettazione di Piani
Urbanistici Attuativi
Nelle premesse, il CNAPPC ricorda che non è sufficiente
l'accordo verbale e che il principio di stabilire patti
chiari tra professionista e committenti prima di assumere un
incarico professionale è un elemento fondamentale (24.01.2013
- link a www.acca.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI:
Oggetto: interpello ex art. 9, D.Lgs. n. 124/2004 – DURC
– posizione non regolare del socio di una società di
capitali (Ministero del Lavoro e delle Politiche
Sociali,
interpello 24.01.2013 n. 2/2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto : FAQ su FerCel e FerPas (Regione Lombardia,
Direzione Generale Ambiente, Energia e Reti,
nota 23.01.2013 n. 1677 di prot.). |
LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Decreto legislativo n. 192/2012, recante
modifiche al decreto legislativo 09.10.2002, n. 231, per
l'integrale recepimento della direttiva 2011/7/UE relativa
alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali
(Ministero dello Sviluppo Economico,
nota 23.01.2013 n. 1293 di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
VARI: G.U.
26.01.2013 n. 22 "Disposizioni in materia di professioni
non organizzate" (Legge
14.01.2013 n. 4). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
A. Rinaldi e M. Marzano,
Responsabilità solidale negli appalti: quali norme si
applicano agli Enti Locali ? (link a
www.entilocaliweb.info). |
EDILIZIA
PRIVATA:
F. Notaro, M. Mazzaro e C. Tarturici,
D.M. 07.08.2012 - Le
nuove istanze di prevenzione incendi (tratto da
www.ipsoa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
M. Grisanti,
SCIA, DIA alternativa e certificato di agibilità (link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
M. Grisanti,
DISTANZE TRA FABBRICATI (commento a caldo della sentenza
23.01.2013 n. 6/2013 della Corte costituzionale) (link a
www.lexambiente.it). |
APPALTI SERVIZI:
C. Volpe,
La “nuova normativa” sui servizi pubblici locali di
rilevanza economica. Dalle ceneri ad un nuovo effetto
“Lazzaro”. Ma è vera resurrezione? (link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CORTE DEI CONTI |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Se il provvedimento giuntale è illegittimo il dirigente non
lo esegue.
E' personalmente responsabile il
dirigente che, in spregio al principio di onnicomprensività
della retribuzione, riconosce ai dipendenti degli emolumenti
aggiuntivi per un adempimento rientrante negli ordinari
compiti di servizio. E poco importa se l'erogazione è stata
autorizzata con delibera di giunta, perché l'attività di
competenza del dirigente -soprattutto in materia di
attribuzione di emolumenti- implica sempre la previa
valutazione dell’esistenza di tutti i presupposti, di fatto
e diritto, che legittimano il suo operato.
Come ha sostenuto il pubblico ministero attore, la
liquidazione non era stata preceduta dal periodico processo
di valutazione delle prestazioni e dei risultati, né si era
tenuto conto del livello di conseguimento degli obiettivi
predefiniti nel PEG, e livello di performance oggetto di
specifica certificazione dal Servizio di Controllo Interno.
Era stato insomma conferito un emolumento facendo ricorso un
istituto contrattuale (compensi per la produttività) per
finalità diverse da quelle proprie dell’istituto stesso, e
per remunerare attività che, in quanto rientranti in quelle
istituzionali, dovevano altrimenti ritenersi comprese nella
retribuzione contrattuale.
Queste affermazioni appaiono condivisibili, dal momento che
nella fattispecie è stato attribuito un compenso
straordinario giustificato in relazione al compimento
dell’attività di organizzazione della nona edizione della
manifestazione l’”olio della poesia”, che, in quanto
svolta da un dipendente e rientrante nei compiti d’istituto,
non poteva comunque essere retribuita con un compenso ad
hoc, se non violando il principio di onnicomprensività
della retribuzione. Sotto altro profilo, tale principio
risulta eluso dalle modalità concrete con cui si è fatto
ricorso all’istituto del premio di produttività, la cui
erogazione avrebbe potuto avvenire solo dopo gli appositi
adempimenti procedurali concernenti la valutazione delle
prestazioni e degli obiettivi ad opera del servizio di
controllo interno.
Né può valere a giustificare l’operato dell’odierno
appellante la circostanza che il compenso in questione era
autorizzato dalla deliberazione della Giunta della Provincia
n. 403 del 2006.
Si deve infatti respingere la tesi secondo cui la
legittimità di tale delibera non era sindacabile da parte
dell’appellante in quanto titolare ufficio dirigenziale che
la doveva eseguire. Al contrario
l’emanazione degli atti di competenza del dirigente implica
sempre la valutazione dell’esistenza di tutti i presupposti
di fatto e di diritto, come peraltro espressamente
desumibile dalla legge 07.08.1990, n. 241
(Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di
diritto di accesso ai documenti amministrativi)
che a proposito dei compiti del responsabile del
procedimento (art. 6, comma 1) individua, tra gli altri,
quello di accertare, in via istruttoria, i presupposti
rilevanti ai fini dell’emanazione del provvedimento:
principio, questo, di carattere generale relativo
all’attività amministrativa certamente applicabile anche al
di fuori dell’ambito statale.
A ciò si deve aggiungere che ove si tratti,
come nel caso in esame, di provvedimento attuativo di altro
ritenuto illegittimo l’ufficio competente deve astenersi
dall’emanarlo, fornendo semmai ragguagli all’altro organo.
Per di più nel caso di specie si trattava di provvedimento
relativo all’attribuzione di emolumenti, certamente di
competenza dirigenziale, per cui la responsabilità
dell’odierno appellante deriva dai principi di competenza e
di responsabilità espressi dall’art 97, secondo comma della
Costituzione: “Nell’ordinamento degli uffici sono
determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le
responsabilità proprie dei funzionari”.
Ciò posto, va considerato che oggetto del giudizio contabile
non è tanto la valutazione della legittimità degli atti
quanto il giudizio sui comportamenti. Nel caso di specie
certamente il comportamento dei membri della Giunta
comunale, peraltro non presenti in questo giudizio, ha
influito in modo importante nel processo causale che ha
comportato l’emanazione del provvedimento dannoso (Corte
dei Conti, Sez. I giurisdiz. centrale d'appello,
sentenza 14.01.2013 n. 29 -
massima e sentenza tratta da www.respamm.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Se
l’espletamento dell’incarico di membro di una commissione di
gara costituisce obbligo di servizio per il dipendente
questo non può essere remunerato a parte.
Invero, premesso che il principio di onnicomprensività
della retribuzione nel pubblico impiego, insito tra quelli
generali dell’ordinamento giuridico, già da tempo ha trovato
la sua conferma nell’ambito del diritto positivo sia per
dirigenti che per gli altri pubblici dipendenti, la
giurisprudenza ha da tempo chiarito che il divieto di
percepire compensi, stabilito per i pubblici dipendenti
assoggettati al regime dell'onnicomprensività del
trattamento retributivo, opera inderogabilmente in tutti i
casi in cui l'attività svolta dall'impiegato sia
riconducibile a funzioni e poteri connessi alla di lui
qualifica e all'ufficio ricoperto, corrispondenti a mansioni
cui egli non possa sottrarsi perché rientranti nei normali
compiti di servizio.
Orbene, in primo luogo va osservato che il principio di
onnicomprensività della retribuzione nel pubblico impiego,
insito tra quelli generali dell’ordinamento giuridico, già
da tempo ha trovato la sua conferma nell’ambito del diritto
positivo sia per dirigenti che per gli altri pubblici
dipendenti.
In relazione ai dirigenti l’art. 24 del d.lgs. n. 29 del
1993 (ora del d.lgs. 30-03-2001 n. 165) ha stabilito che “la
retribuzione del personale con qualifica di dirigente è
determinata dai contratti collettivi per le aree
dirigenziali prevedendo che il trattamento economico
accessorio sia correlato alle funzioni attribuite e alle
connesse responsabilità” (comma 1) ed inoltre che “il
trattamento economico determinato ai sensi dei commi 1 e 2
remunera tutte le funzioni ed i compiti attribuiti ai
dirigenti in base a quanto previsto dal presente decreto,
nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del
loro ufficio o comunque conferito dall'amministrazione
presso cui prestano servizio o su designazione della stessa”
(comma 3).
Per ciò che concerne i dipendenti che non rivestono la
qualifica dirigenziale deve richiamarsi quanto disposto
dall’art. 45 del d.lgs. n. 165 del 2001 ossia che per le
prestazioni lavorative rese a favore dell’amministrazione di
appartenenza, spetta soltanto il trattamento economico
fondamentale ed accessorio definito dai contratti collettivi
salvo che non si tratti di attività che esuli dai compiti
istituzionali attribuiti a ciascun dipendente.
La giurisprudenza ha, inoltre, da tempo chiarito che il
divieto di percepire compensi, stabilito per i pubblici
dipendenti assoggettati al regime dell'onnicomprensività del
trattamento retributivo, opera inderogabilmente in tutti i
casi in cui l'attività svolta dall'impiegato sia
riconducibile a funzioni e poteri connessi alla di lui
qualifica e all'ufficio ricoperto, corrispondenti a mansioni
cui egli non possa sottrarsi perché rientranti nei normali
compiti di servizio (cfr., in tema, Cons. Stato, sez. V,
05.05.1995, n. 419, 09.09.1999, n. 1027, 02.10.2002, n.
5163; Cass. SS.UU. 04.01.1995 n. 94, Corte dei Conti Sez.
Puglia, 03.07.2001 n. 524 e 13.12.2004 n. 952) (Corte dei
Conti, Sez. giurisdiz. Campania,
sentenza 19.03.2012 n. 348 - massima tratta da
www.respamm.it - link a www.corteconti.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il pagamento avvenuto in forza di un lodo arbitrale oggetto
di impugnazione determina un danno indiretto certo ed
attuale.
Invero, con l’avvenuto pagamento, peraltro doveroso,
l’Amministrazione ha subito un’effettiva diminuzione
patrimoniale e il danno, prima solo potenziale, è divenuto
certo, concreto e attuale. Di conseguenza, a partire dalla
data di emissione del titolo di pagamento, decorre il dies a
quo della prescrizione dell’azione di responsabilità
riconosciuta alla Procura della Corte dei conti (si
richiama, in termini, Sezioni riunite 05.09.2011 n. 14/QM).
L’affermazione di tale principio da parte delle Sezioni
Riunite comporta che, a partire da tale data, il p.m.
contabile è tenuto ad agire senza dover attendere la
definizione del contenzioso giudiziale che, anzi, potrebbe
aver termine allorquando oramai è maturata la prescrizione
dell’azione.
Ne consegue ancora che l’emissione del mandato di pagamento
provoca l’effettivo depauperamento e la conseguente
certezza, concretezza e attualità del danno, il quale
peraltro non verrebbe meno, successivamente, neanche con una
favorevole decisione definitiva del Giudice civile, ma
soltanto con l’effettiva restituzione delle somme già
erogate dall’Amministrazione.
Al riguardo, questo Collegio rileva che, con l’avvenuto
pagamento, peraltro doveroso, l’Amministrazione ha subito
un’effettiva diminuzione patrimoniale e il danno, prima solo
potenziale, è divenuto certo, concreto e attuale.
Nel caso all’esame ricorre un‘ipotesi di danno indiretto:
pertanto, a partire dalla data di emissione del titolo di
pagamento, decorre il dies a quo della prescrizione
dell’azione di responsabilità riconosciuta alla Procura
della Corte dei conti (cfr., in terminis, Sezioni
riunite 05.09.2011 n. 14/QM). L’affermazione di tale
principio da parte delle Sezioni Riunite comporta che, a
partire da tale data, il p.m. contabile è tenuto ad agire
senza dover attendere la definizione del contenzioso
giudiziale che, anzi, potrebbe aver termine allorquando
oramai è maturata la prescrizione dell’azione (come peraltro
dichiarato in numerosi casi dalla giurisprudenza contabile:
ex multis, questa Sezione, 18.02.2002, n. 38).
Ne consegue che l’emissione del mandato di pagamento provoca
l’effettivo depauperamento e la conseguente certezza,
concretezza e attualità del danno, il quale peraltro non
verrebbe meno, successivamente, neanche con una favorevole
decisione definitiva del Giudice civile, ma soltanto con
l’effettiva restituzione delle somme già erogate
dall’Amministrazione (Corte
dei Conti,
Sez. III giurisdiz. centrale d'appello,
sentenza 27.02.2012 n. 150 - massima tratta da
www.respamm.it - link a www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L'esercizio non autorizzato di incarichi da parte del
dipendente pubblico non rientra nella giurisdizione
contabile.
Deve essere esclusa la sussistenza della giurisdizione
della Corte dei conti sul danno da mancato riversamento
all'amministrazione di appartenenza di quanto percepito dal
dipendente pubblico per l'esecuzione di incarichi non
autorizzati. Invero, premesso che un tale obbligo è posto
dall’art. 53, co. 7, d.lgs. 30.03.2001, n. 165, in primis
nei confronti del soggetto erogante e, in via subordinata, a
carico del dipendente della p.a., tale circostanza è
significativa della natura esclusivamente privatistica
dell’obbligazione di refusione, trattandosi del
soddisfacimento di un interesse meramente lavoristico; con
la conseguenza che la violazione del dovere di esclusività
in questo caso dà luogo ad un credito del datore di lavoro
nei confronti dei soggetti obbligati (ente erogante e
lavoratore), che non può in alcun modo ricondursi
all’esercizio di funzioni pubblicistiche.
Ancora in via pregiudiziale, deve essere esclusa la
sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti sulla
seconda posta di danno contestata dalla Procura attrice,
riguardante la violazione dell’art. 53, co. 7, d.lgs.
30.03.2001, n. 165, in relazione all’illecito svolgimento,
da parte della Sig.ra T., di due stabili rapporti lavorativi
non autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Il
relativo danno è stato quantificato in misura pari alle
somme che la convenuta ha ricevuto dai soggetti terzi, a
remunerazione del lavoro extraistituzionale (euro 57.000,00
+12.950,00 = euro 69.950,00).
L’art. 53, co. 7, d.lgs. n. 165/2001, stabilisce che <<I
dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi
retribuiti che non siano stati conferiti o previamente
autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. Con
riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli
statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri
e le procedure per il rilascio dell'autorizzazione nei casi
previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del
divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la
responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le
prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura
dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto
dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di
appartenenza del dipendente per essere destinato ad
incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti>>.
Dal testo letterale della norma (il compenso <<deve
essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del
percettore>>) si evince che dalla violazione
dell’obbligo di esclusività scaturisce un obbligo di
corresponsione di somme di denaro che è posto, in primis,
nei confronti del soggetto erogante e, in via subordinata, a
carico del dipendente di una p.a..
Tale circostanza è significativa della natura esclusivamente
privatistica dell’obbligazione di refusione, trattandosi del
soddisfacimento di un interesse meramente lavoristico. Ciò
vale a dire che la violazione del dovere di esclusività dà
luogo ad un credito del datore di lavoro nei confronti dei
soggetti obbligati (ente erogante e lavoratore), che non può
in alcun modo ricondursi all’esercizio di funzioni
pubblicistiche, come già ritenuto da questa Corte in
analoghe fattispecie (Sez. Trentino-Alto Adige, Trento,
15.12.2010, n. 66; id., 03.12.2009, n. 55).
Ma, pur volendo considerare in modo autonomo l’obbligo di
refusione a carico del lavoratore al servizio di una p.a.
(anziché obbligazione subordinata, com’è in effetti), la
giurisdizione contabile dovrebbe essere esclusa, trattandosi
di un obbligo che scaturisce dall’esercizio di un’attività
lavorativa extraistituzionale, mentre i presupposti per
radicare la giurisdizione della Corte dei conti si fondano
sul verificarsi di un danno erariale, cagionato da un
soggetto vincolato da un rapporto di servizio, inteso anche
in senso lato, con la p.a., e sulla circostanza che il danno
sia stato determinato nell'esercizio delle funzioni alle
quali il dipendente è stato preposto.
In un caso analogo di generica trasgressione di obblighi
incombenti dal lavoratore (controversia avente ad oggetto
l'accertamento dei canoni dovuti dal pubblico dipendente per
il godimento dell'alloggio di servizio), le Sezioni Unite
della Corte di Cassazione hanno ravvisato un inadempimento
contrattuale, integrante la violazione degli obblighi
connessi al rapporto di pubblico impiego, ma non anche
un’attività posta in essere dal dipendente pubblico <<nell'esercizio
delle sue funzioni>>, affermando che <<la relativa
controversia non può che essere demandata al solo giudice
avente giurisdizione sul rapporto di impiego, e, per
l'effetto, al giudice del lavoro>> (Cass., sez. un.,
30.04.2008, n. 10870/ord.). In senso conforme, il giudice di
legittimità ha ritenuto che <<il regime delle
incompatibilità>> è materia <<sottratta alla
disciplina propria dell'attività amministrativa, ed inclusa
nell'ambito dei comportamenti di gestione del rapporto di
lavoro>> (Cass., sez. lav., 26.03.2010, n. 7343).
Correlativamente, il giudice amministrativo ha ritenuto la
giurisdizione del giudice ordinario, come giudice del
rapporto di lavoro, in una controversia volta
all'annullamento del diniego opposto dalla p.a. di
appartenenza alla richiesta di svolgere un incarico
extraistituzionale formulata da un dipendente, ai sensi
dell'art. 63 d.lgs. n. 165/2001 (Cons. St., sez. IV,
07.06.2004, n. 3618).
L’esatta collocazione dell’istituto in esame proviene dalla
Corte Costituzionale (sentenza 11.06.2001, n. 189), secondo
cui l’obbligo di esclusività è uno dei canoni fondamentali
del rapporto di impiego pubblico, del quale costituisce
indice rivelatore, come la predeterminazione dell’orario di
lavoro e della retribuzione, l'inserimento del prestatore di
lavoro nell'organizzazione amministrativa e la
subordinazione gerarchica (v. TAR Toscana, 11.09.2008, n.
1910; Cons. St., Sez. V, 01.12.1999, n. 2022; id.,
03.05.1995, n. 681).
Nella mera violazione dell’obbligo di esclusività non è,
quindi, ravvisabile il nesso di occasionalità necessaria tra
danno alla amministrazione ed esercizio delle funzioni
nell’ambito del rapporto di servizio, che è il generale
presupposto della responsabilità amministrativa e della
giurisdizione di questa Corte, ai sensi degli artt. 82 e 83,
R.D. 18.11.1923, n. 2440 e degli artt. 13 e 52, R.D.
12.07.1934 , n. 1214.
Ciò pur considerando l’ottica ulteriormente espansiva della
giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità
amministrativa, secondo cui la giurisdizione attribuita alla
Corte dei conti <<presuppone che il soggetto, legato
all'amministrazione da un rapporto di impiego (o di
servizio), debba rispondere del danno da lui causato
nell'esercizio di un'attività illecita connessa con detto
rapporto, tale dovendosi considerare non solo quella
costituente svolgimento diretto della funzione propria del
rapporto d'impiego (o di servizio), ma anche quella
rivestente carattere strumentale per l'esercizio della
medesima funzione, sempre che detta attività rinvenga nel
rapporto l'occasione necessaria del suo manifestarsi>>
(Cass., sez. un., 02.12.2008, n. 28540; id., sez. un.,
25.11.2008, n. 28048; id. sez. un., 22.02.2002, n. 2628).
Questa giurisprudenza di legittimità si trova citata in
altra pronuncia della Corte di cassazione (02.11.2011, n.
22688/ord.), menzionata dal P.M. in udienza che, pur facendo
riferimento al predetto univoco indirizzo che estende la
competenza del giudice contabile alla cognizione
dell’attività strumentale all'esercizio della funzione
pubblica <<sempre che detta attività rinvenga nel
rapporto l'occasione necessaria del suo manifestarsi>>,
ha risolto in senso opposto il regolamento preventivo di
giurisdizione, senza spiegare le ragioni per le quali, nelle
conclusioni, ha inteso discostarsi dall’indirizzo
precedentemente richiamato. In relazione a ciò, il Collegio
non condivide l’avviso dell’Organo requirente circa la
presenza di un evidente revirement del giudice di
legittimità sulla questione di cui è causa.
In buona sostanza, il discrimine tra giurisdizione della
Corte dei conti, in materia di danno erariale, e quella del
giudice del rapporto di lavoro, resta confermato nel
verificarsi di un inadempimento riconducibile,
rispettivamente, all’esercizio di una funzione pubblica (sia
pure nel senso dell’occasionalità necessaria), oppure alle
obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro tra un
dipendente e l’amministrazione di appartenenza.
In particolare, la giurisdizione del giudice del lavoro si
radica nei casi di alterazione del sinallagma contrattuale
(assenze ingiustificate, per riscossione di retribuzioni non
dovute), allorché il dipendente pubblico venga in rilievo
come semplice debitore, alla stregua di un qualsiasi
lavoratore privato inadempiente e, in quanto tale, soggetto
alle normali sanzioni ed azioni civilistiche dell’ente di
appartenenza. Attualmente, la materia è posta sotto la
stretta sorveglianza del datore di lavoro pubblico: il
Dipartimento della funzione pubblica presso la Presidenza
del Consiglio dei Ministri (Ispettorato per la funzione
pubblica) può disporre verifiche, operando d'intesa con i
Servizi ispettivi di finanza pubblica del Dipartimento della
Ragioneria generale dello Stato (art. 53, co. 16-bis, d.lgs.
n. 165/2001, comma aggiunto dall’art. 47, d.l. 25.06.2008,
n. 112, e poi così sostituito dall’art. 52, co. 1, lett. b),
d.lgs. 27.10.2009, n. 150).
Si aggiunge che, in precedenza, l’art. 6, d.l. 28.03.1997,
n. 79, convertito dalla l. 28.05.1997, n. 140, prevedeva
sanzioni pecuniarie a carico <<dei soggetti pubblici e
privati che non abbiano ottemperato>> agli obblighi
previsti dalla disciplina del lavoro a tempo parziale e <<che
si avvalgano di prestazioni di lavoro autonomo o subordinato
rese dai dipendenti pubblici in violazione dell'articolo 1,
commi 56, 58, 60 e 61, della legge 23.12.1996, n. 662,
ovvero senza autorizzazione dell'amministrazione di
appartenenza>>. Ciò a ulteriore riprova dell’estraneità
della materia alla responsabilità amministrativo-contabile
del dipendente pubblico, fatto salvo un eventuale danno
erariale <<da mancata entrata>> per la cui configurabilità,
ad avviso della Sez. Puglia, 30.10.2008, n. 821, <<non
sarebbe, comunque, sufficiente che il dipendente percettore
abbia omesso di riversare in favore dell’Amministrazione di
appartenenza il compenso percepito, ma occorrerebbe,
altresì, che il diritto di quest’ultima ad esigerne il
riversamento si sia estinto in modo non satisfattivo ovvero
ne sia divenuto impossibile l’esercizio, per insolvibilità
del debitore o altrimenti>>.
Il Pubblico Ministero, dopo aver affermato, nell’atto di
citazione, che la violazione dell’obbligo di esclusività è
da ritenersi illecita e, quindi, foriera di danno erariale,
ha specificato, in udienza, che vi è danno per la semplice
ragione che tutte le energie lavorative devono essere spese
per il datore di lavoro in favore del quale l’obbligo è
posto. Al riguardo, l’Organo requirente ha citato la
sentenza della Sezione Emilia-Romagna (25.10.2007, n. 818),
che muovendo dalle stesse premesse, è pervenuta ad una
decisione di condanna, nei confronti del Direttore generale
dell’INAIL, per aver consentito lo svolgimento, da parte dei
medici dipendenti dell’Istituto, di attività
libero-professionale extra-muraria in costanza di rapporto a
tempo pieno, senza che gli stessi avessero optato per il
rapporto a tempo definito, economicamente meno favorevole.
Il Collegio ritiene che la richiamata pronuncia sia coerente
con le precedenti osservazioni, in relazione alla evidente
diversità del caso di specie rispetto a quello deciso dal
giudice bolognese che, correttamente, ha qualificato come
danno erariale l’avvenuta corresponsione, da parte
dell’Istituto, di un maggior trattamento economico
(corrispondente a una prestazione a tempo pieno anziché
part-time), a nulla rilevando i compensi percepiti dai
dipendenti pubblici nell’ambito dell’attività extra-muraria,
che sarebbero, invece, assimilabili a quelli oggetto di
contestazione in questa sede.
Per tutte le suesposte considerazioni, il Collegio esclude
la provvista di giurisdizione della Corte dei conti
sull’obbligo di refusione, da parte della convenuta, delle
somme ricevute dai soggetti terzi per il lavoro
extraistituzionale, quantificate in euro 69.950,00 (Corte
dei Conti, Sez. giurisdizionale Lombardia,
sentenza 27.01.2012 n. 31 - massima tratta da
www.respamm.it - link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: Risponde
per danno all’immagine il lavoratore dipendente che fa il
doppio lavoro esibendo falsi certificati di malattia.
La circostanza che il convenuto contumace non abbia
eccepito la nullità degli atti ex art. 17, comma 17-ter
(norma che circoscrive la perseguibilità del danno
all’immagine ai soli reati dei pubblici ufficiali contro la
pubblica amministrazione) –eccezione non rilevabile
d’ufficio secondo quanto disposto dalle SS.RR. con sentenza
n. 13/2011/QM– preclude al Giudice contabile l’esame della
relative eccezione di nullità e comporta la responsabilità
amministrativa per danno all’immagine del convenuto,
condannato in sede penale per il reato di truffa aggravata
per essersi assentato dal servizio inducendo in errore
l’Amministrazione di appartenenza attraverso l’esibizione di
falsi certificati di malattia [Si badi che, ai sensi
dell’art. 55-quinquies del d.lgs. n. 165/2001, introdotto
con d.lgs. n. 150/2009, è espressamente tenuto a risarcire
il danno all’immagine “il lavoratore dipendente di una
pubblica amministrazione che attesta falsamente la propria
presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di
rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente,
ovvero giustifica l'assenza dal servizio mediante una
certificazione medica falsa o falsamente attestante uno
stato di malattia”].
Dalla condotta illecita, di natura evidentemente dolosa,
serbata dal convenuto, è incontestabilmente derivato un
pregiudizio per l’immagine dell’Amministrazione
d’appartenenza.
La risarcibilità di tale tipologia di danno costituisce,
oramai, principio del tutto consolidato nella giurisprudenza
sia della Corte dei Conti (si veda, per tutte, C. Conti,
Sez. II, n. 114/1994; C. Conti, Sez. Lombardia, n. 31/1994;
C. Conti, Sez. Sardegna, n. 372/1997; C. Conti, Sez. I, n.
10/1998; C. Conti, Sez. II, n. 207/1998; C. Conti SS.RR. n.
16/99/QM; C. Conti, Sez. Lombardia, n. 1551/1999; C. Conti,
Sez. I, n. 96/2002; C. Conti, Sez. Lazio, n. 439/2003; C.
Conti, SS.RR., n. 10/2003/QM; C. Conti, Sez. Lombardia, n.
433/2004; C. Conti, Sez. I, n. 49/A/2004; C. Conti, Sez. I,
n. 173/A; C. Conti, Sez. II, n. 231/2007; C. Conti, Sez. I,
n. 202/2008; C. Conti, Sez. Campania, n. 686/2009; Corte
Conti, Sez. I, n. 97/2009) sia della Corte di Cassazione
(Cass., Sez. un., n. 5568/1997; Cass., Sez. un., n.
744/1999; Cass., Sez. un., n. 98/1998; Cass. Sez. un., n.
20886 del 06.04.2006).
Il predetto danno consiste, più in particolare, nel grave
nocumento arrecato al prestigio, all’immagine ed alla
personalità pubblica della P.A., in conseguenza della
condotta illecita serbata dai propri dipendenti.
Ogni azione dannosa compiuta dal pubblico agente in
violazione dell’art. 97 Cost. (in dispregio delle funzioni e
responsabilità degli agenti pubblici), infatti, “si
traduce in un’alterazione dell’identità della pubblica
amministrazione e, più ancora, nell’apparire di una sua
immagine negativa, in quanto struttura organizzata
confusamente, gestita in maniera inefficiente, non
responsabile e non responsabilizzata” (così,
testualmente, Corte Conti, Sez. riunite, 23.04.2003, n. 10/QM).
In altri termini, il danno all’immagine si atteggia quale “danno
pubblico” in quanto lesione del buon andamento della
P.A., la quale perde, con la condotta illecita dei suoi
dipendenti, credibilità ed affidabilità all’interno ed
all’esterno della propria organizzazione, ingenerando la
convinzione che i comportamenti patologici posti in essere
dai propri lavoratori siano un connotato usuale dell’azione
dell’Amministrazione (tra le tante, Corte Conti, Sez. II,
31.03.2008, n. 106; Corte Conti, Sez. Lombardia, nn.
95/2011, 284/2008 e 540/2008).
Quest’ultima evenienza si attaglia bene al caso di specie,
nell’ambito del quale il convenuto si è indebitamente
assentato dal proprio lavoro, per svolgere, nelle stesse ore
in cui avrebbe dovuto prestare la propria attività di
dipendente comunale, (altra) attività lavorativa presso
l’esercizio commerciale, di proprietà di un familiare, "Bar
del Commercio”, con annessa ricevitoria del lotto.
La condotta serbata dal convenuto ha denotato, invero, un
palese disprezzo dei doveri di lealtà e fedeltà, che
informano lo status di pubblico dipendente, (doveri) la cui
violazione è stata pubblicamente ostentata con lo
svolgimento, durante l’orario di lavoro, di altra attività
privata in un luogo per definizione frequentato da una
moltitudine di soggetti.
Può, dunque, agevolmente cogliersi il profondo vulnus
che l’Amministrazione d’appartenenza ha dovuto subire al
proprio decoro ed alla propria credibilità, sia esterna che
interna (di fronte, cioè, alla comunità amministrata ed agli
altri dipendenti), quale conseguenza della predetta
condotta.
Con riferimento al profilo della quantificazione del danno
riconosciuto sussistente al punto 4, si evidenzia che la
medesima quantificazione, in considerazione della natura
essenzialmente “immateriale” del bene leso, non può
avvenire che sulla base del criterio equitativo di cui
all’art. 1226 c.c..
Nondimeno, al fine precipuo di evitare soluzioni arbitrarie,
la giurisprudenza pressoché univoca di questa Corte (tra le
tante, Corte Conti, Sez. I, n. 222/A/2004; Corte Conti, Sez.
giur. Lazio, n. 439/2003; Corte Conti, Sez. giur. Lombardia,
n. 284/2008), richiede che la predetta quantificazione si
basi su di un’analisi in concreto delle singole fattispecie
di comportamento illecito e si fondi su una serie di
indicatori ragionevoli:
a) di natura oggettiva, inerenti alla natura del fatto, alle
modalità di perpetrazione dell’evento pregiudizievole, alla
eventuale reiterazione dello stesso, all’entità
dell’eventuale arricchimento;
b) di natura soggettiva, legati al ruolo rivestito dal
pubblico dipendente nell’ambito della Pubblica
Amministrazione;
c) di natura sociale, legati alla negativa impressione
suscitata nell’opinione pubblica locale ed anche all’interno
della stessa Amministrazione, all’eventuale clamor fori e
alla diffusione ed amplificazione del fatto operata dai
mass-media.
Nel caso di specie, il Collegio ritiene equo porre a carico
del convenuto, a titolo di condanna per lesione
dell’immagine dell’Amministrazione di appartenenza,
l’importo di euro 7.746,85, già comprensivo di
rivalutazione, in quanto importo ampiamente giustificato
dall’oggettiva ed intrinseca gravità dei fatti contestati,
di indubbio rilievo penale e disciplinare, dalla pervicace e
sfrontata reiterazione della condotta illecita, palesemente
ostentata, dalla rilevanza e risonanza della vicenda de qua,
suscettibile di immediata propagazione nel territorio
comunale interessato e per di più amplificata dagli organi
di stampa (vedasi articolo versato in atti, riportante i
fatti in termini particolarmente enfatici), senza
tralasciare il clamore comunque connesso alla instaurazione
e celebrazione del processo penale (Corte dei Conti, Sez.
giurisdiz. Campania,
sentenza 14.11.2011 n. 1942 - massima tratta da
www.respamm.it - link a www.corteconti.it). |
NEWS |
APPALTI: Appalti, responsabilità snella.
Possibile esclusione di alcune tipologie di contratto.
Attilio Befera, direttore delle Entrate, al convegno della Cna: in
arrivo una circolare.
Semplificazioni in arrivo per la responsabilità solidale
negli appalti, che pesa sulle imprese anche in termini
monetari. E adempimenti infrannuali, come la comunicazione
di intenti, raggruppati nella dichiarazione annuale.
Il direttore dell'Agenzia delle entrate, Attilio Befera,
intervenendo al convegno, «Fisco, competitività, sviluppo»,
della Cna, a Firenze, ieri, ha anticipato l'arrivo di una
circolare che tende a rendere più chiara e a smussare
l'ambito applicativo della disciplina introdotta dall'art.
13-ter, del dl n. 83/2011 (cosiddetto «Decreto crescita»)
per i contratti di appalto stipulati a partire dal 12.08.2012.
Claudio Carpentieri, responsabile fiscale dell'associazione,
durante il suo intervento, ha chiesto che l'intervento di
prassi amministrativa «chiarisca che la norma sulla
responsabilità solidale non si applichi ai contratti di
trasporto, di opera e su fornitura, settori», ha
sottolineato Carpentieri, «che esulano dalla lettera della
norma».
Befera sul punto ha quindi ricordato che con il prossimo
intervento di prassi si cercherà di intervenire sul tema,
con ogni probabilità, secondo quanto risulta a ItaliaOggi
nella direzione dell'alleggerimento del peso degli oneri. La
nuova disposizione, infatti, prevede la responsabilità
dell'appaltatore e del committente per il versamento
all'erario delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro
dipendente e del versamento dell'Iva dovuta dal
subappaltatore e dall'appaltatore con riferimento alle
prestazioni effettuate nell'ambito del contratto.
Si ricorda
che l'esclusione dalla responsabilità «solidale» è prevista
solo se l'appaltatore e/o committente ottiene la
documentazione ad hoc, attestante che i versamenti fiscali,
scaduti alla data del pagamento del corrispettivo, sono
stati correttamente eseguiti dal subappaltatore e/o
appaltatore; documentazione che può consistere anche
nell'asseverazione rilasciata da Caf o da professionisti
abilitati. Durante il convegno, il direttore delle Entrate
ha riconosciuto la complessità della disciplina recentemente
introdotta e ha anticipato, in aggiunta al documento di
prassi già emanato (circolare n. 40/E/2011), un'ulteriore
circolare che ha l'obiettivo di semplificare e rendere più
chiara l'applicazione pratica del nuovo adempimento che,
come indicato dal responsabile fiscale di Cna ha
ulteriormente compromesso le riscossioni, già difficili,
delle imprese.
Tutto questo si inserisce in un più ampio contesto di
semplificazione che vedrà, presumibilmente e già a partire
dalla prossima settimana, un tavolo di concertazione con i
professionisti e le associazioni di categoria, al fine di
rendere più snelli gli adempimenti che per i responsabili
fiscali dell'associazione organizzatrice arrivano fino a 120
all'anno, con ulteriori oneri, in termini monetari, posti a
carico delle stesse imprese. Cosa peraltro ricordata da
Carpientieri nel suo intervento: «Uno stato credibile è
anche semplice. Rivede in modo sistematico e periodico tutti
gli obblighi di comunicazione previsti per le imprese,
lasciando solamente quelli che sono realmente necessari alla
lotta all'evasione». Delle proposte presentate, lo scorso
ottobre, da Rete imprese Italia, la direzione intrapresa,
dall'amministrazione, secondo quanto risulta a ItaliaOggi, è
quella di uno snellimento degli adempimenti infrannuali,
convogliandoli nella dichiarazione annuale.
L'esempio è
quello della comunicazione di intenti che appunto potrebbe
essere inserita nella tempistica della dichiarazione
annuale. D'altra parte è lo stesso Attilio Befera che, in
apertura del proprio intervento, auspica prossimi
cambiamenti del testo unico delle imposte dirette (Tuir), il
via libera della riforma fiscale, con una riduzione e
semplificazione degli adempimenti per un fisco più «illuminato»
e una cooperazione «biunivoca» e una maggiore
assistenza e tutoraggio da parte degli uffici periferici
(articolo ItaliaOggi del 26.01.2013. |
EDILIZIA
PRIVATA: Igiene
precaria? Residenza possibile.
La mancanza dei requisiti igienico sanitari di un'abitazione
non preclude la possibile fissazione della residenza
anagrafica da parte dell'interessato. Le uniche
pregiudiziali in tal senso sono infatti previste solo per i
cittadini stranieri che richiedono il ricongiungimento
familiare.
Lo ha evidenziato il ministero dell'interno con la
circolare 14.01.2013 n. 1/2013.
Il dicastero ha richiesto un parere al Consiglio di stato
che si è espresso con la nota n. 4849/2012. In particolare
al collegio sono stati evidenziati i dubbi di alcuni sindaci
sulla possibilità di richiedere ai cittadini interessati
all'iscrizione anagrafica (ed in particolare agli stranieri)
documentazione integrativa attestante la sussistenza dei
requisiti igienico sanitari dell'immobile. A parere del
Consiglio di stato la vicenda igienico sanitaria è estranea
alle funzioni dell'ufficiale d'anagrafe.
In buona sostanza gli organi di vigilanza hanno facoltà di
effettuare anche controlli igienico-sanitari ma l'esito di
queste verifiche non può ordinariamente interferire con
l'iscrizione anagrafica dei richiedenti. A maggior ragione
non si può certo limitare questo tipo di accertamento
condizionato agli stranieri. Per quanto riguarda la
disciplina di questa categoria di soggetti occorre fare
riferimento al comma 19 dello stesso articolo 1 della legge
94/2009 il quale dispone che «lo straniero che richiede
il ricongiungimento deve dimostrare la disponibilità di un
alloggio conforme ai requisiti igienico-sanitari, nonché di
idoneità abitativa, accertati dai competenti uffici comunali».
In pratica per ottenere il nulla osta dalla questura lo
straniero che intende ricongiungersi con un proprio parente
o con il coniuge deve dimostrare la disponibilità di un
alloggio idoneo sia dal punto di vista dimensionale che
strutturale
(articolo ItaliaOggi del 26.01.2013). |
PUBBLICO
IMPIEGO: P.a., il personale a dieta.
Verso un taglio di oltre 7 mila dipendenti.
Tre dpcm revisionano le dotazioni organiche dopo la spending
review.
Scatta l'operazione del taglio delle dotazioni organiche
nelle pubbliche amministrazioni centrali, che potrebbe
portare alla dichiarazione di eccedenza, con conseguente
risoluzione anticipata del rapporto di lavoro, per oltre
7.000 dipendenti.
Con tre decreti del presidente del consiglio, inizia il
processo di attuazione dell'articolo del dl 95/2012,
convertito in legge 135/2012 (la cosiddetta «spending review»),
dal quale deriva l'obbligo di revisionare gli assetti
organizzativi delle amministrazioni pubbliche centrali, con
una sforbiciata alle dotazioni organiche.
Le amministrazioni
dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le agenzie, gli
enti pubblici non economici, gli enti di ricerca, nonché gli
enti pubblici previsti dall'articolo 70, comma 4, del dlgs
165/2001 debbono ridurre gli uffici dirigenziali, di livello
generale e di livello non generale e le relative dotazioni
organiche, in misura non inferiore, per entrambe le
tipologie di uffici e per ciascuna dotazione, al 20% di
quelli esistenti; per quanto concerne, invece, il personale
non dirigenziale, le dotazioni organiche vanno tagliate in
misura non inferiore al 10% della spesa complessiva relativa
al numero dei posti di organico.
Il Dpcm del 22.01.2013
riguarda 50 amministrazioni pubbliche (di cui 9 Ministeri,
21 enti di ricerca, 20 enti pubblici non economici);
un
decreto del 23.01.2013 ha applicato i tagli a Inps ed
Enac;
il terzo Dpcm, sempre del 23.01.2013 ha preso di
mira 24 enti Parco nazionali.
I provvedimenti adottati dal Presidente del consiglio non
sono ancora esecutivi, perché in attesa della registrazione
da parte della Corte dei conti.
Per le amministrazioni interessate, tuttavia, si apre il
percorso per la gestione delle possibili eccedenze. In
particolare, occorrerà attivarsi per individuare con
priorità i dipendenti che abbiano i requisiti per andare in
pensione o che, secondo un percorso graduale, ottengano il
pensionamento entro un quadriennio, nel rispetto delle
indicazioni fornite da Palazzo Vidoni con la direttiva
10/2012. Le stime della Funzione pubblica (riportate nella
tabella a fianco) sono di 7.416 dipendenti destinati alla
cessazione anticipata del rapporto di lavoro, come effetto
immediato della riduzione dei posti disponibili nelle
dotazioni organiche.
Gran parte di questi dipendenti, a seguito dei Dpcm varati
nei giorni scorsi, fa parte dell'Inps. La nuova dotazione
organica dell'Istituto vedrà 23.420 dipendenti in totale,
dei quali 345 sono dirigenti di prima e seconda fascia.
Il taglio è piuttosto consistente, se rapportato alla
dotazione organica rilevata per il 2011 dalla Corte dei
conti, sezione del controllo sugli enti, con determinazione
91/2012. La magistratura contabile aveva rilevato una
dotazione di 29.262 dipendenti ma, soprattutto una
«consistenza», cioè il personale effettivamente in servizio,
di 26.707 dipendenti. Il taglio sarebbe, dunque, di 3.287
dipendenti, una cifra che si avvicina alle stime circolate
nei mesi scorsi, anche se occorrerebbe verificare la
consistenza ufficialmente registrata nel 2012.
Gli effetti della revisione delle dotazioni organiche,
comunque, non si limiteranno solo ad una limatura dei posti
«teorici», ma incideranno effettivamente sul personale in
servizio. Per esempio, la nuova dotazione organica del
Ministero del lavoro e delle politiche sociali prevede
complessivamente 7.331 dipendenti (di cui 159 dirigenti) a
fronte di un numero di dipendenti registrato dalla
Ragioneria generale dello Stato nel Conto annuale del
personale di 7.646 dipendenti. In questo caso, il taglio
sarebbe di 315 lavoratori.
Replicando questi numeri per le
decine di amministrazioni coinvolte nell'operazione, le
stime della Funzione pubblica appaiono effettivamente vicine
alla realtà. Non mancano, comunque, le sorprese guardando le
dotazioni delle molte amministrazioni interessate dai Dpcm.
Se, per un verso, la riduzione degli oltre 7 mila dipendenti
appare effettiva, l'obiettivo più volte enunciato di avere
un dirigente ogni 30 dipendenti appare molto meno facile da
conseguire.
Presso l'Ente nazionale per il microcredito in dotazione vi
è un dirigente a fronte di 16 dipendenti; peggiore è
l'incidenza dirigenti/dipendenti nell'Unioncamere, ove sono
previsti 6 dirigenti e 61 dipendenti (un rapporto di uno a
dieci). Ma, ancora peggiori sono i dati della dotazione
dell'Agenzia nazionale per i servizi sanitari, con 7
dirigenti per 39 dipendenti (1 su 5,5 quasi) e quelli
dell'Agenzia nazionale di valutazione del sistema
universitario e della ricerca: 3 dirigenti e 15 dipendenti
(articolo ItaliaOggi del 26.01.2013). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Meno
corruzione con i controlli. Il decreto salva-enti si
interseca con la legge 190. Il
combinato disposto dei due provvedimenti potrà creare una
nuova classe dirigente.
Tra i provvedimenti approvati dal parlamento prima dello
scioglimento assume rilievo la conversione in legge del
decreto 174 che mira a ridurre i costi della politica e
soprattutto a introdurre controlli più penetranti
sull'attività delle regioni e degli enti locali. Quella dei
controlli è una storia antica che ogni tanto si ripete. Già
dal 1999, e ancora di più dopo la soppressione dei controlli
esterni sugli atti dei comuni e delle province per effetto
della legge costituzionale 3/2001, si è tentato di
introdurre un nuovo sistema di controlli interni articolato
nelle seguenti forme: controllo di regolarità amministrativa
e contabile, controllo di gestione, valutazione della
dirigenza, controllo strategico.
In base all'articolo 147 del Tuel, la prima forma di
controllo mirava sostanzialmente a ricondurre all'interno
dell'ente l'esame rivolto a garantire la legittimità degli
atti amministrativi in precedenza affidato ai Coreco. Le
altre forme, fortemente innovative, si collocavano invece
nel versante tracciato dai provvedimenti di riforma della
p.a. consistente nel controllo sui risultati conseguiti
dall'amministrazione in termini efficienza, efficacia ed
economicità. In sintesi, il controllo di gestione era
rivolto a ottimizzare il rapporto costi-risultati; la
valutazione dei dirigenti a verificare le prestazioni
effettuate e le competenze dimostrate; il controllo
strategico a rilevare i risultati finali conseguiti rispetto
agli obiettivi prestabiliti. Dopo oltre dieci anni di
esperienze, il sistema dei controlli interni non ha
funzionato.
Le cause sono diverse: mancata attuazione dei principi di
riforma della p.a., assenza di validi strumenti di
programmazione dell'azione di governo e della gestione cui
riferire l'attività di controllo, difficoltà di individuare
soggetti dotati di nuove professionalità, di introdurre
soluzioni organizzative adeguate, di ricercare e utilizzare
metodi e strumenti idonei a realizzare le nuove forme di
controllo, scarsa efficacia delle commissioni consiliari di
controllo sull'attività delle giunte. In una parola, assenza
diffusa di una cultura del risultato. Il decreto- legge 174
trova uno scenario nel quale i soli controlli che valgono
sono quelli del giudice penale e delle giurisdizioni
contabili. E così sceglie la via forse obbligata di
potenziare i controlli esterni della Corte dei conti al fine
di garantire la regolarità delle gestioni, gli equilibri del
bilancio e il funzionamento dei controlli interni.
Questi ultimi vengono rafforzati. In aggiunta al controllo
di regolarità amministrativa e contabile, del controllo di
gestione e del controllo strategico, viene introdotto il
controllo costante degli equilibri finanziari della gestione
e, negli enti di maggiori dimensioni, il controllo sulla
qualità dei servizi erogati e il controllo sull'attività
degli organismi gestionali esterni. La definizione degli
strumenti e delle modalità per rendere operativo il nuovo
sistema è attribuita al regolamento di ciascun ente da
adottare entro il 10.01.2013, pena lo scioglimento del
consiglio.
Di qui il panico, che l'Anci ha saggiamente mitigato
invitando gli enti a predisporre una prima deliberazione
consiliare di massima. Appare abbastanza evidente che la
disciplina dei controlli, specie quella attinente alla
regolarità amministrativa e contabile, interseca le
disposizioni per la prevenzione e la repressione della
corruzione e dell'illegalità nella p.a. dettate dalla legge
190/2012. È prevista l'individuazione del responsabile della
prevenzione della corruzione (di norma il segretario) che
predispone e verifica l'attuazione del Piano triennale di
prevenzione della corruzione.
Sono previsti meccanismi di controllo delle decisioni idonei
a prevenire il rischio di corruzione, verifiche sugli
obblighi della trasparenza, l'introduzione di un Codice
etico, azioni di monitoraggio del rispetto dei termini per
la conclusione dei procedimenti e dei rapporti tra
l'amministrazione e i soggetti che stipulano con essa
contratti. Ma la legge prevede anche percorsi di formazione
sui temi dell'etica e della legalità
(articolo ItaliaOggi del 25.01.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI: Per
il Durc non conta la posizione dei soci.
La posizione dei soci non rileva (e non
deve essere oggetto di verifica) al fine del rilascio del
Durc a una società di capitali (srl, spa ecc.).
Lo precisa il Ministero del Lavoro nell'interpello
24.01.2013 n. 2/2013, in risposta alla richiesta di
chiarimento dei consulenti del lavoro circa, appunto, la
rilevanza o meno delle posizioni personali dei singoli soci,
ai fini dell'attestazione della regolarità contributiva (Durc)
di una società di capitali.
Per il ministero le due posizioni sono indipendenti: quella
della società di capitali che, in quanto dotata di
personalità giuridica, è caratterizzata da autonomia
patrimoniale «perfetta»; e quella dei singoli soci.
Ne deriva, aggiunge il ministero, che sul patrimonio sociale
non possono trovare soddisfazione i creditori personali del
socio e, al contempo, i creditori sociali non possono
escutere il patrimonio personale dei soci.
La posizione dei soci, pertanto, non deve essere oggetto di
verifica al fine del rilascio del Durc della società di
capitali. Tale verifica, invece, è necessaria nel caso delle
società di persone (circolare del ministero del lavoro n.
5/2008 su ItaliaOggi del 31.01.2008)
(articolo ItaliaOggi del 25.01.2013). |
APPALTI: Notariato.
L'atto pubblico è digitale.
Il Notariato mette in pratica l'agenda digitale del governo
Monti (dl n. 179/2012) che prevede che a partire dal
01.01.2013 la stipula dei contratti pubblici di appalto di
lavori, servizi e forniture, possa essere redatta solo con
atto pubblico notarile informatico. Martedì scorso è stato
infatti stipulato il primo atto pubblico informatico.
È accaduto in Puglia, in provincia di Brindisi, tra un
comune e una società che si era aggiudicata l'appalto per la
gestione del servizio integrato di igiene urbana. Per la
conservazione degli atti notarili informatici, i notai si
avvalgono di una struttura tecnologica idonea a custodire la
validità giuridica nel tempo del documento informatico
(articolo ItaliaOggi del 25.01.2013). |
APPALTI: Pubblicità
legale obbligatoria. Bandi e avvisi di gara da pubblicare
sui quotidiani. Il decreto crescita
prevede che le spese della p.a. siano rimborsate
dall'aggiudicatario.
Anche dopo il 01.01.2013 le stazioni
appaltanti hanno l'obbligo di pubblicare per estratto sui
quotidiani i bandi e gli avvisi di gara per affidamento di
lavori, forniture e servizi e le avvenute aggiudicazioni; la
legge 69/2009 non ha toccato la disciplina del Codice, a sua
volta confermata dalla legge «anticorruzione»; possibile
pubblicare sui quotidiani anche gli avvisi per appalti di
lavori al di sotto dei 500 mila euro e per appalti di
forniture e servizi al dei sotto dei 200 mila euro.
È quanto si desume dalla lettura coordinata dalle
disposizioni che si sono succedute in questi ultimi anni e
che, anche alla luce della natura «rinforzata» del
Codice dei contratti pubblici e della novella della legge «Crescita
2», rendono superata la disciplina del 2009 che avrebbe
voluto mandare in soffitta la pubblicità legale sui giornali
(si veda ItaliaOggi del 30.11.2012).
Dal punto di vista dell'ambito oggettivo di applicazione,
l'obbligo di procedere alla pubblicazione per estratto su
almeno due quotidiani risulta applicabile agli appalti di
lavori, servizi e forniture per le gare sopra soglia
(secondo periodo del comma 7 dell'art. 66 e quindi oltre i 5
milioni per i lavori e oltre i 200 mila euro per servizi e
forniture) e alle procedure di affidamento di appalti di
lavori sotto soglia (secondo periodo del comma 5 dell'art.
122 che prevede la soglia superiore a 500 mila euro ma con
pubblicazione su un quotidiano a diffusione nazionale).
Va anche rilevato che, nonostante l'articolo 124, comma 5,
non preveda la pubblicazione sui quotidiani degli avvisi per
appalti sotto soglia di forniture e servizi, ai sensi
dell'art. 66, comma 15, del Codice le stazioni appaltanti
potrebbero (facoltà) anche prevedere forme aggiuntive di
pubblicità. In ipotesi, quindi, anche un contratto di
fornitura al di sotto dei 200 mila euro potrebbe, in base a
una scelta motivata della stazione appaltante, essere
pubblicato su un quotidiano a diffusione nazionale.
Dal punto di vista interpretativo è stato posto in dubbio
che l'articolo 66 del Codice dei contatti potesse essere
stato superato, nel 2009, dalla legge n. 69 che (articolo
32, comma 5) prevedeva che «dal 01.01.2013, le
pubblicazioni effettuate in forma cartacea non hanno effetto
di pubblicità legale, ferma restando la possibilità per le
amministrazioni e gli enti pubblici, in via integrativa, di
effettuare la pubblicità sui quotidiani a scopo di maggiore
diffusione, nei limiti degli ordinari stanziamenti di
bilancio».
In realtà, però, questa disposizione è risultata a sua volta
implicitamente abrogata dalla successiva legge «anticorruzione»
(190/12) che ha introdotto una disposizione «di
salvezza»
delle norme in materia di pubblicità contenute nel Codice
dei contratti pubblici, stabilendo che «restano ferme le
disposizioni in materia di pubblicità previste dal codice di
cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163».
Pertanto, se restano «ferme» le vigenti norme del Codice, in
base a una disposizione che entra in vigore prima del
01.01.2013, automaticamente la disposizione del 2009 deve
considerarsi superata e quindi inapplicabile per implicita
abrogazione. D'altro canto sarebbe stato difficile anche
sostenere che il comma 5 dell'articolo 32 della legge
69/2009 potesse avere abrogato o superato quanto stabilito
dall'articolo 66 del Codice dei contratti pubblici in
materia di pubblicità legale sui quotidiani.
L'articolo 255 del codice dei contratti pubblici, infatti,
stabilisce che «ogni intervento normativo incidente sul
codice, o sulle materie dallo stesso disciplinate, va
attuato mediante esplicita modifica, integrazione, deroga o
sospensione delle specifiche disposizioni in esso contenute».
Ma la legge. 69/2009 non ha certo disposto in tal senso, non
rinvenendosi in alcuna parte di essa l'abrogazione espressa
delle disposizioni di cui al secondo periodo del comma 7
dell'articolo 66 e al secondo periodo del comma 5
dell'articolo 122 del decreto legislativo 12.04.2006, n.
163, proprio richiamate dalla norma della legge «anticorruzione».
Ciò detto a conferma dell'operatività dell'obbligo, anche a
decorrere dal 01.01.2013, della pubblicità per estratto sui
quotidiani (certamente non quelle di pubblicazione sulla
Gazzetta Ufficiale), sta anche l'articolo 34, comma 35 del
dl n. 179/2012 (c.d. Crescita 2.0). In esso si prevede
infatti l'obbligo per l'aggiudicatario di rimborsare alla
stazione appaltante le spese di pubblicazione sui giornali
dei bandi e degli avvisi di gara.
In particolare, si prevede che «a partire dai bandi e
dagli avvisi pubblicati successivamente al 01.01.2013, le
spese per la pubblicazione di cui al secondo periodo del
comma 7 dell'articolo 66 e al secondo periodo del comma 5
dell'articolo 122 del dlgs 12.04.2006, n. 163, sono
rimborsate alla stazione appaltante dall'aggiudicatario
entro il termine di 60 giorni dall'aggiudicazione»
(articolo ItaliaOggi del 25.01.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI:
Tasse locali, aliquote modificabili fino al 30/9.
Ma si rischia il caos.
I comuni e le province che devono ripristinare gli equilibri
finanziari possono modificare le aliquote e le tariffe di
tributi locali fino al 30 settembre di ogni anno. Sono così
a rischio la certezza delle aliquote, in particolare quelle
dell'Imu.
Questa preoccupante novità è contenuta il comma 444
dell'art. 1 della legge 24.12.2012, n. 228 che,
nell'intervenire sull'art. 193, comma 3, del Tuel, accorda
ai comuni e alle province che sono tenuti a ripristinare gli
equilibri finanziari, la possibilità di modificare le
tariffe e le aliquote relative ai tributi di propria
competenza entro la data indicata al comma 2, dello stesso
art. 193, vale a dire il 30 settembre di ciascun anno.
Tutto ciò «in deroga all'articolo 1, comma 169, della
legge 27.12.2006, n. 296», che costituisce una delle
norme basilari del sistema dei tributi locali e che è
destinato a vacillare di fronte a una disposizione così
stramba. Infatti fino a oggi in base a detta norma vi erano
alcune fondamentali certezze, e cioè che:
- il termine di deliberazione delle tariffe e delle aliquote
dei tributi di competenza degli enti locali è stabilito
nella data fissata da norme statali per la deliberazione del
bilancio di previsione;
- le suddette deliberazioni, anche se approvate
successivamente all'inizio dell'esercizio, purché entro il
termine stabilito per la deliberazione del bilancio di
previsione, hanno effetto dal 1º gennaio dell'anno di
riferimento;
- le deliberazioni relative alle aliquote e alle tariffe per
i tributi locali sono automaticamente confermate nel caso in
cui l'ente non deliberi, modificandole, entro i termini di
approvazione del bilancio di previsione.
L'unico elemento di incertezza era ogni anno
l'individuazione dell'esatto termine stabilito per la
deliberazione del bilancio di previsione, che veniva spesso
fatto slittare ora con legge ora con un decreto
ministeriale, a seconda delle necessità manifestate dagli
enti locali.
Ebbene, se da un lato l'art. 1, della legge n. 228 del 2012,
offre al comma 381, un elemento di certezza fissando al
30.06.2013 il termine per l'approvazione del bilancio di
previsione per l'anno 2013, dall'altra il comma 444 consente
ai comuni e alle province di modificare le aliquote ben
oltre detta data.
Il termine del 30 settembre si ricava dal rinvio effettuato
dalla norma in esame al comma 2, dello stesso art. 193 che
delinea la procedura in base alla quale l'organo consiliare
dell'ente locale provvede al controllo degli equilibri
generali di bilancio apportando, in caso di squilibrio, i
necessari provvedimenti. La norma non consente, però, in
alcun modo ai comuni ed alle province di modificare le
aliquote o le tariffe dei tributi locali.
Ciò sarà, invece, possibile, a partire dal 2013, proprio
grazie alle modifiche apportate al comma 3 del citato art.
193 del Tuel dal comma 444 della legge di stabilità, che con
la sua dirompente portata finisce in concreto per minare il
sistema tributario locale, determinando l'estrema incertezza
dei contribuenti in ordine alla misura del tributo, che
potrà variare fino al 30 settembre di ogni anno.
Non va sottovalutato, inoltre, l'effetto deleterio che tale
norma provoca soprattutto in materia di Imu. Infatti per
tale tributo a decorrere dall'anno di imposta 2013, l'art.
13, comma 13-bis, del dl 06.12.2011, n. 201, convertito, con
modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214, ha introdotto
una forma di pubblicità costitutiva della misura del
tributo.
Detta norma prevede infatti, che le deliberazioni di
approvazione delle aliquote e della detrazione dell'Imu
devono essere inviate esclusivamente per via telematica per
la pubblicazione nello stesso sito informatico di cui
all'art. 1, comma 3, del dlgs 28.09.1998, n. 360, vale a
dire il sito previsto per la pubblicazione delle
deliberazioni in materia di addizionale comunale all'Irpef,
www.finanze.it. La norma precisa, inoltre, che l'efficacia
delle deliberazioni decorre dalla data di pubblicazione nel
sito informatico in questione e gli effetti delle
deliberazioni stesse retroagiscono al 1º gennaio dell'anno
di pubblicazione nel sito informatico, a condizione che
detta pubblicazione avvenga entro il 30 aprile dell'anno a
cui la delibera si riferisce. Detto invio deve avvenire
entro il termine del 23 aprile; in caso di mancata
pubblicazione entro il termine del 30 aprile, le aliquote e
la detrazione si intendono prorogate di anno in anno.
È indispensabile, quindi, un urgente «aggiustamento»
del un sistema che, ancor prima di decollare, è già
destinato a rimanere a terra.
Con la norma in questione si è creato, infatti, un gran
pasticcio che se da un lato può avvantaggiare i comuni che
possono rifare i conti tranquillamente fino a settembre,
crea un gran caos ai contribuenti che si vedono cambiare le
carte in tavola all'ultimo momento
(articolo ItaliaOggi del 25.01.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Stop dopo due mandati. No al terzo incarico dopo
il commissariamento. Il divieto non
opera se il sindaco resta fermo ai box per un turno.
Un amministratore comunale è stato
eletto alla carica di sindaco per la prima volta e tale
mandato è stato interrotto dallo scioglimento del consiglio
comunale, con la conseguente gestione commissariale
protrattasi fino al rinnovo degli organi amministrativi;
considerato che l'amministratore è stato eletto nuovamente
in occasione di tale tornata elettorale, che il primo
mandato ha avuto una durata ridotta (anche se superiore a
due anni, sei mesi e un giorno) e che il primo e il secondo
mandato sono stati intervallati dalla citata gestione
commissariale, è ancora possibile la rielezione del medesimo
amministratore locale per un ulteriore mandato consecutivo
alla carica sindacale attualmente ricoperta?
L'art. 51, comma 2, del dlgs. n. 267/2000 stabilisce che «chi
ha ricoperto per due mandati consecutivi la carica di
sindaco e di presidente della provincia non è, allo scadere
del secondo mandato, immediatamente rieleggibile alle
medesime cariche»; la continuità dei due mandati
consecutivi, al verificarsi dei quali tale norma dispone la
non rieleggibilità alla carica di sindaco, non viene meno
per effetto dell'interposizione di una gestione
commissariale.
La Corte di cassazione, sebbene chiamata a pronunciarsi su
un diverso caso, ha avuto modo di precisare che affinché non
si configuri la condizione ostativa prevista dal citato art.
51, è necessario che il secondo mandato amministrativo sia
stato seguito da una tornata elettorale alla quale il
sindaco uscente non si è candidato. In particolare, è stato
precisato che «l'ambito di operatività del divieto (ex
art. 51 cit.) è puntualmente e univocamente chiarito, nel
senso della sua correlazione a una sequenza temporale
caratterizzata dalla compresenza, oltreché dell'avverbio
«immediatamente» (già di per sé sufficiente ad escludere il
permanere dell'ineleggibilità oltre la tornata elettorale
successiva alla conclusione del secondo mandato) anche nella
incidentale (rafforzativa) allo scadere del secondo mandato,
che non lascia alcun margine di dubbio interpretativo in
ordine alla circostanza che per le elezioni diverse da
quelle immediatamente successive alla scadenza del mandato
non operi più la causa di ineleggibilità».
Nel caso in esame, considerato che tra il primo mandato
elettorale, poi seguito da una gestione commissariale, e il
secondo non si è verificata alcuna tornata elettorale
intermedia, interruttiva della sequenza temporale di cui al
citato art. 51, comma 2, del Tuel, sussiste la causa
ostativa alla terza candidatura di cui alla disposizione
normativa citata, atteso che le prossime elezioni sarebbero
quelle immediatamente successive alla scadenza del secondo
mandato
(articolo ItaliaOggi del 25.01.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Incompatibilità.
Sussiste l'ipotesi dell'incompatibilità per lite pendente,
ai sensi dell'art. 63, comma 1, n. 4 del decreto n.
267/2000, nel caso di un consigliere comunale chiamato in
giudizio davanti al Tar dall'ente presso cui esercita il
mandato amministrativo?
In linea di principio le cause ostative al mandato sono
previste dal legislatore al fine di assicurare il regolare
funzionamento dell'organo elettivo ed evitare l'insorgere di
possibile conflitto di interessi tra l'ente e
l'amministratore.
Nel caso di lite pendente l'incompatibilità si genera al
momento dell'iscrizione a ruolo della vertenza che vede
parti contrapposte l'ente locale e il singolo
amministratore.
Il caso di specie risulta riconducibile alla previsione
normativa, pertanto compete all'amministratore formulare le
proprie osservazioni al consiglio, che valuterà la
fondatezza delle deduzioni e, laddove riconosca sussistente
la causa di incompatibilità, inviterà il consigliere a
rimuoverla.
Nella fattispecie in esame, a fronte della tutela sia
procedurale che sostanziale che la disposizione normativa
citata introduce a tutela di opposti interessi di rango
costituzionale, rimane di dubbia praticabilità il ricorso
alla facoltà di opzione della rimozione della causa di
incompatibilità mediante la rinuncia alla lite, non avendo
il consigliere interessato, nella qualità di parte
convenuta, la piena disponibilità della lite.
In conformità al principio generale per cui ogni organo
collegiale è competente a deliberare sulla regolarità dei
titoli di appartenenza dei propri componenti, compete
all'organo comunale ogni definitiva determinazione in
proposito, ferma restando la possibilità di contestare per
le vie giudiziali le decisioni che saranno assunte
(articolo ItaliaOggi del 25.01.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
PRIVACY/ Lo stato di salute non va online.
Il divieto vale anche per le pubbliche amministrazioni.
Il Garante: in caso di violazione scatta il
blocco dell'ulteriore diffusione.
Vietato mettere online informazioni sullo stato di salute,
patologie o handicap di una persona. Il divieto vale anche
per le pubbliche amministrazioni. E in caso di violazione il
Garante privacy può intervenire per bloccare l'ulteriore
diffusione in internet dei dati sulla salute rispettivamente
di cittadini disabili e di persone che hanno beneficiato di
rimborsi per spese sanitarie.
Come è successo a un comune (provvedimento
29.11.2012 n. 369) e ad
una Asl (provvedimento 362/2012). Tra l'altro il divieto,
oltre che prescritto dal codice della privacy (articolo 22),
è anche ribadito dalle Linee guida del garante sulla
pubblicazione online di atti e documenti del 02.03.2011.
Le norme prevedono, nel dettaglio, il divieto assoluto di
diffusione di dati sulla salute.
Nei provvedimenti in esame
il Garante ha dichiarato illecito il trattamento di dati
effettuato dal Comune e dalla Asl perché in contrasto con la
norma che vieta ai soggetti pubblici di diffondere i dati da
cui si possano desumere malattie, patologie e qualsiasi
riferimento a invalidità, disabilità o handicap fisici o
psichici.
Dagli accertamenti è emerso infatti che sul sito del comune
era liberamente consultabile un allegato al Piano comunale
di protezione civile contenente l'elenco delle persone non
autosufficienti che abitano da sole o con altri inabili.
Nell'allegato erano riportati in chiaro il nome e cognome,
la sigla della disabilità oppure la sua indicazione per
esteso (ad esempio non vedente) e in alcuni casi anche la
data di nascita o l'indirizzo della persona non
autosufficiente.
Sul sito della Asl, nella sezione dedicata
all'albo pretorio, era presenti le determinazioni con le
liquidazioni degli indennizzi per patologie contratte per
cause di servizio, rimborsi per spese sanitarie (anche a
favore di trapiantati o di persone affette da determinate
patologie), che riportavano in chiaro il nominativo o il
codice fiscale degli interessati o dei familiari che avevano
beneficiato dei rimborsi. Comune e Asl rischiano anche una
eventuale sanzione amministrativa.
Con riferimento all'albo
pretorio sarebbe, tuttavia, utile un approfondimento
considerato che, per gli enti locali, in base all'articolo
124 del dl 267/2000, sussiste l'obbligo di pubblicare tutte
le deliberazioni e che, secondo il Consiglio di stato
(sentenza n. 1370 del 15/03/2006) la pubblicazione deve
riguardare anche le determinazioni. Ma se la pubblicazione è
obbligatoria, questa non potrebbe avvenire con omissis.
Adozioni
Con altro provvedimento (n. 329/2012) il garante si è
occupata di adozioni e ha stabilito che qualunque
attestazione di stato civile riferita a una persona adottata
deve essere rilasciata con la sola indicazione del nuovo
cognome e senza l'annotazione della sentenza di adozione.
Le notizie sullo stato di adozione di una persona, infatti,
possono essere fornite da un ufficiale pubblico solo su
espressa autorizzazione dell'autorità giudiziaria.
Nel caso specifico una persona ha contestato al Comune di
aver rilasciato ai parenti la copia integrale del suo atto
di nascita con incluse le informazioni sul provvedimento
giudiziario riguardante la sua adozione. I funzionari
comunali ritenevano che la consegna del documento recante le
informazioni sull'adozione fosse giustificata dalla
necessità degli eventuali eredi di poter difendere i propri
diritti in sede giudiziaria.
Il Garante ha spiegato che la normativa vigente prevede che
le indicazioni sul rapporto di adozione possano essere
fornite solo su espressa autorizzazione dell'autorità
giudiziaria. L'ufficiale di stato civile del Comune
commetterebbe una illecita comunicazione di dati personali a
soggetti diversi dal diretto interessato.
Il Garante ha vietato ai parenti dell'uomo l'ulteriore
utilizzo delle informazioni sull'adozione contenute nella
copia dell'atto di nascita. Al Comune è stato prescritto di
fornire al proprio personale di stato civile adeguate
istruzioni per evitare che si commettano ulteriori
violazioni sui dati relativi alle persone adottate.
Anche perché c'è il rischio di pesanti sanzioni pecuniarie
amministrative (articolo
ItaliaOggi del 24.01.2013 - tratto da
www.corteconti.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Pagamenti Pa, inclusi i lavori pubblici.
Circolare dello Sviluppo economico: tempi e sanzioni si
applicano a tutti gli appalti.
«La nuova disciplina dei ritardati pagamenti introdotta in
attuazione della normativa comunitaria 7/2011 si applica ai
contratti pubblici relativi a tutti i settori produttivi,
inclusi i lavori, stipulati a decorrere dal 01.01.2013,
ai sensi dell'articolo 3, comma 1, del Dlgs n. 192 del
2012».
È il passaggio chiave della
nota 23.01.2013 n. 1293 di prot. inviata dal
capo di gabinetto del ministero dello Sviluppo economico,
Mario Torsello, alle principali associazioni delle imprese
di costruzioni che avevano lamentato il rischio di
un'esclusione del settore dei lavori pubblici dalla nuova
normativa sui tempi di pagamento della Pa.
Nel Dlgs 192, che
ha recepito le norme Ue sui tempi di pagamento nelle
transazioni commerciali, dettando nuove regole anche per il
settore pubblico, non veniva citato espressamente il settore
edile e dei lavori pubblici: questo aveva messo in allarme
il presidente dell'Ance, Paolo Buzzetti, che si era rivolto
al Governo per chiedere un chiarimento e aveva minacciato il
ricorso a Bruxelles (si veda Il Sole 24 Ore del 15.11.2012).
Nel Governo era seguito un braccio di ferro tra il ministro
dello Sviluppo economico, Corrado Passera, che subito si era
pronunciato in favore di un inserimento esplicito dei lavori
pubblici, e il ministero dell'Economia e in particolare la
Ragioneria generale, contrari all'inclusione dei lavori.
Non a caso Passera, che ha impiegato due mesi per superare
le resistenze nell'Esecutivo, ora chiama in causa Palazzo
Chigi. «La Presidenza del Consiglio -afferma il documento
dello Sviluppo economico- ha precisato che, sebbene il
provvedimento non lo menzioni espressamente, esso deve
ritenersi applicabile anche al settore edile. Ciò è stato
argomentato sia sotto il profilo formale, rimarcando che
l'espressione «prestazione di servizi» abbraccia
inevitabilmente anche i lavori, sia a livello sistematico,
rilevando che la disciplina generale, di matrice
sovranazionale, in tema di ritardati pagamenti, non può che
prevalere su regolamentazioni nazionali con essa
eventualmente confliggenti».
Dopo aver risolto il nodo principale, la circolare fa una
seconda, importante operazione giuridica: rilegge il codice
degli appalti (Dlgs 163/2006) e il regolamento di settore (Dpr
207/2010) alla luce dei termini di pagamento (tempi e
sanzioni) disposti dalla nuova disciplina. «Le disposizione
dettate dal codice dei contratti pubblici e dal regolamento
di attuazione già vigenti per il settore dei lavori
pubblici, relative ai termini di pagamento delle rate di
acconto e di saldo nonché alla misura degli interessi da
corrispondere in caso di ritardato pagamento, devono essere
interpretate e chiarite alla luce delle disposizioni del
decreto legislativo 192/2012, ritenendosi prevalenti queste
ultime sulle disposizioni di settore confliggenti, tenendo
conto anche dell'espressa clausola di salvezza, secondo cui
restano "salve le vigenti disposizioni del codice civile e
delle leggi speciali che contengono una disciplina più
favorevole per il creditore"».
L'inasprimento più severo delle sanzioni per i ritardati
pagamenti della pubblica amministrazione nei lavori pubblici
riguarda non tanto gli stati di avanzamento lavori (i
cosiddetti Sal) quanto la liquidazione del saldo finale. In
questo caso, infatti, il termine temporale di 90 giorni
previsto oggi dal codice degli appalti è «incompatibile»
con la disciplina europea e nazionale che prevede il termine
di 30 giorni dalla verifica della prestazione (cioè dal
certificato di collaudo). In questo caso, in caso di mancato
rispetto, scatterebbe la corresponsione degli interessi
semplici di mora su base giornaliera a un tasso che è pari
al tasso di interesse applicato dalla Bce alle sue più
recenti operazioni di rifinanziamento principali, in vigore
all'inizio del semestre, maggiorato dell'8%, senza che sia
necessaria la costituzione in mora (articolo Il
Sole 24 Ore del 24.01.2013 - tratto da
www.corteconti.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Anticorruzione. Arriva con un Dpr il codice di
comportamento: se l'impiegato statale riceve omaggi o
utilità oltre il «modico valore» rischia il licenziamento.
Ai dipendenti Pa regali da 100 euro.
DIVIETO DI INSIDER/
I dipendenti delle amministrazioni non potranno usare a fini
privati le informazioni di cui dispongono per lavoro.
Nessun regalo o sconto che superi i 100 euro, che però
potrebbero essere anche meno o salire (nelle amministrazioni
che ne avranno il coraggio) fino a 150. Ma non un cent di
più. Come il possesso della «modica quantità» per un
consumatore di hashish, anche i regali e gli sconti ai
dipendenti pubblici avranno presto una precisa tariffa: il
«modico valore». Superato il quale, se c'è interesse in atti
d'ufficio, per impiegati e dirigenti infedeli scatterà il
licenziamento con preavviso. E attenzione: «Regali e altre
utilità» sopra soglia non si potranno ricevere dai
sottoposti né offrire al capo.
Lotta alla corruzione, atto secondo. Dopo le regole per i
politici ecco il decalogo per la pubblica amministrazione.
Proprio in omaggio alla legge (190/2012) di novembre, arriva
un «Codice di comportamento dei dipendenti pubblici»
anti-corruzione nuovo di zecca che detta gli obblighi di
«diligenza, lealtà, imparzialità e buona condotta» che dovrà
ispirare, dentro e fuori l'ufficio, i 3,3 milioni di
dipendenti della Pa.
Lo schema di Dpr (per il testo si veda
www.24oresanita.com), oggi al l'esame della Conferenza
Governo-autonomie, irrobustisce il «Codice» del contratto
2006-2009 e quello del 2001. Entrando a piedi uniti contro
comportamenti potenzialmente corruttivi: dal conflitto
d'interessi all'insider ai rapporti coi privati. Passando
per il dovere di non parlare male del proprio ufficio. Che
per i dirigenti diventa l'obbligo di difenderne
pubblicamente l'immagine. Fosse sempre possibile.
Le regole su «regali, compensi e altre utilità» occupano uno
dei primissimi articoli del Dpr. Il principio: mai chiedere
né accettare regali «salvo quelli di modico valore» e solo
se «effettuati occasionalmente nell'ambito delle normali
relazioni di cortesia». Va da sé che nessun omaggio, di
qualsiasi valore, potrà essere chiesto come corrispettivo di
un'attività d'ufficio. E che non potranno essere accettati
regali non «modici» dai sottoposti né offerti ai capi, «né
ai suoi parenti o conviventi». Chi poi riceva comunque il
regalo proibito, deve subito restituirlo.
Ma quant'è il «modico valore»? Finora non ci si era mai
avventurati su questa strada. Il «Codice» tenta di farlo
chiarendo a suo modo che –siano regali, utilità o sconti
per acquisti– arriva «in via orientativa, a euro 100». Ma
attenzione: i piani di prevenzione anti-corruzione potranno
modulare la cifra: per ridurla e anche per aumentarla fino a
«un importo massimo non superiore a euro 150». Ma non basta:
fatte salve le responsabilità già perseguibili di tipo
civile, amministrativo e contabile, ricevere regali fuori
ordinanza potrà portare fino al licenziamento con preavviso
se si dimostra la «correlazione» con il compimento di atti
d'ufficio o nel caso di recidiva.
Il buon dipendente pubblico non potrà poi fare l'insider:
usare, cioè, a fini privati le informazioni di cui dispone
per lavoro. E dovrà comunicare qualsiasi conflitto
d'interesse per i rapporti avuti negli ultimi tre anni con
soggetti privati: il precedente «Codice» però scendeva
indietro di 5 anni e fino ai parenti di quarto grado, mentre
ora si ferma al secondo grado.
Riservatezza, oculatezza nell'uso delle risorse, del
materiale e dei mezzi della Pa (auto e telefono d'ufficio
off limit da usi personali, se non per «urgenze»),
cortesia col pubblico, rispetto delle pratiche senza
favoritismi, nessun razzismo, silenzio con la stampa: il
travet fuori «Codice» perderà qualsiasi premio ancora
possibile. Mentre per i dirigenti, per i quali è confermato
il dovere di comunicare in anticipo il possesso (fino ai
parenti di secondo grado) di azioni e interessi finanziari
in potenziale conflitto d'interessi col nuovo ruolo, scatta
un altro obbligo di trasparenza: rendere nota la propria
situazione patrimoniale e tributaria. Prima poteva avvenire
solo su «motivata richiesta», ora diventa un obbligo. Chissà (articolo Il
Sole 24 Ore del 24.01.2013 - tratto da
www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Per l’impugnazione di
un’autorizzazione commerciale non è sufficiente la mera
vicinitas, occorrendo l’allegazione di uno specifico e
concreto pregiudizio: detto pregiudizio non deve
necessariamente concretarsi in una lesione alla concorrenza
connessa al fatto che il ricorrente sia a sua volta un
operatore commerciale, ma ben può consistere in una lesione
a beni della vita diversi e ulteriori (e, in definitiva, ben
può corrispondere alle “tradizionali” lesioni che il vicino
può derivare da qualsiasi opera o intervento che riguardi la
proprietà confinante).
Sul punto, la Sezione condivide l’avviso, conforme alla
maggioritaria giurisprudenza richiamata dalle parti
appellanti, secondo cui per l’impugnazione di
un’autorizzazione commerciale non è sufficiente la mera
vicinitas, occorrendo l’allegazione di uno specifico e
concreto pregiudizio: con l’importante precisazione che
detto pregiudizio non deve necessariamente concretarsi in
una lesione alla concorrenza connessa al fatto che il
ricorrente sia a sua volta un operatore commerciale, ma ben
può consistere in una lesione a beni della vita diversi e
ulteriori (e, in definitiva, ben può corrispondere alle “tradizionali”
lesioni che il vicino può derivare da qualsiasi opera o
intervento che riguardi la proprietà confinante) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.01.2013 n. 489 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il possesso dei requisiti di capacità generale di
cui all’art. 38 deve essere assicurato non solo all’atto di
presentazione della domanda ma per tutta la procedura di
gara ed anche, successivamente all’aggiudicazione, per tutta
la durata dell’appalto, al punto da ritenere che l’impresa
debba comunicare all’amministrazione appaltante ogni
variazione rilevante al riguardo.
Tutto questo legittima, ed anzi obbliga, la stessa
amministrazione appaltante ad un controllo periodico sul
possesso dei requisiti in capo alle imprese con le quali
contratta, da cui consegue, in linea generale (fatti salvi i
limiti di cui all’art. 21-nonies l. 241/1990), il potere di
intervenire in autotutela, ove l’esito di tale controllo sia
negativo.
Una volta chiarito tale aspetto, va ricordato come il
possesso dei requisiti di capacità generale di cui all’art.
38 debba essere assicurato non solo all’atto di
presentazione della domanda ma per tutta la procedura di
gara ed anche, successivamente all’aggiudicazione, per tutta
la durata dell’appalto (v., per tutte, Cons. St., IV, n.
6539/2012), al punto da ritenere che l’impresa debba
comunicare all’amministrazione appaltante ogni variazione
rilevante al riguardo.
Tutto questo legittima, ed anzi obbliga, la stessa
amministrazione appaltante ad un controllo periodico sul
possesso dei requisiti in capo alle imprese con le quali
contratta, da cui consegue, in linea generale (fatti salvi i
limiti di cui all’art. 21-nonies l. 241/1990), il potere di
intervenire in autotutela, ove l’esito di tale controllo sia
negativo (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 25.01.2013 n. 483 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Ai sensi dell'art. 14-ter
della L. n. 241/1990, per essere validamente espresso, il
dissenso deve, tra le altre cose, essere sorretto da congrua
motivazione e contenere altresì la critica costruens, volta
ad indicare le modifiche progettuali necessarie per il
superamento del dissenso medesimo.
Ed in conformità al precetto normativo, anche la
giurisprudenza di questo Consiglio ha più volte chiarito
come il dissenso di un'Amministrazione che partecipa alla
conferenza di servizi deve rispondere ai principi di
imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa,
predicato dall'art. 97 Cost., non potendo limitarsi ad una
mera opposizione al progetto in esame ma dovendo essere
costruttivo e motivato.
Ed invero, in relazione al primo profilo, osserva il
Collegio come nell'ambito della conferenza di servizi
convocata dalla Regione Sardegna in data 24.05.2011
l'Amministrazione comunale abbia espresso "il parere di
conformità alla disciplina urbanistica comunale",
limitandosi ad evidenziare che doveva "essere chiarita la
titolarità sia del terreno in cui insiste l'impianto che in
quello dove passeranno i cavidotti".
E', quindi, palese come il Comune di Isili non abbia
espresso alcun diniego formale in sede di conferenza di
servizi.
Infatti, ai sensi dell'art. 14-ter della L. n. 241/1990, per
essere validamente espresso, il dissenso deve, tra le altre
cose, essere sorretto da congrua motivazione e contenere
altresì la critica costruens, volta ad indicare le
modifiche progettuali necessarie per il superamento del
dissenso medesimo.
Ed in conformità al precetto normativo, anche la
giurisprudenza di questo Consiglio ha più volte chiarito
come il dissenso di un'Amministrazione che partecipa alla
conferenza di servizi deve rispondere ai principi di
imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa,
predicato dall'art. 97 Cost., non potendo limitarsi ad una
mera opposizione al progetto in esame ma dovendo essere
costruttivo e motivato (cfr. per tutte Sez. V, 23.05.2011,
n. 3099).
Privo di fondamento, pertanto, si appalesa l'assunto del
Comune appellante di non aver mai espresso il proprio
assenso alla realizzazione dell'impianto per cui è causa, ma
di essersi limitato ad esprimere un "generico punto di
vista" relativamente al profilo urbanistico.
Infatti, il modulo procedimentale della conferenza di
servizi ammette che l'ente regolarmente convocato possa
esprimersi unicamente in uno dei seguenti modi:
a) consenso espresso (art. 14-ter, comma 6, della Legge n.
241/1990);
b) consenso tacito proveniente dall'ente regolarmente
convocato il cui rappresentate non abbia espresso la volontà
dell'amministrazione rappresentata in modo definitivo (art.
14-ter, comma 7, della Legge n. 241/1990);
c) dissenso espresso, ammissibile solo se espresso in
conferenza di servizi, motivato e circostanziato (art.
14-quater, comma 7, della Legge n. 241/1990).
Pertanto, del tutto correttamente il primo giudice ha
dichiarato inammissibile il motivo, rilevando che "...il
Comune avrebbe dovuto correttamente e tempestivamente
dedurre tale ragione di dissenso nella sede della conferenza
di servizi svoltasi il 24.05.2011, convocata dalla Regione
Sardegna per l'esame dell'istanza di rilascio
dell'autorizzazione unica presentata dalla controinteressata",
mentre dal verbale risulta che lo stesso "sul punto, si è
limitato a chiedere che fosse «chiarita la titolarità sia
del terreno in cui insiste l'impianto, che in quello dove
passeranno i cavidotti, senza ulteriori specificazioni o
rivendicazioni in ordine alla reale proprietà degli
immobili. Peraltro, la generica osservazione del Comune,
sopra riferita, è stata comunque oggetto di esame nella
conferenza di servizi e si è tradotta anche in una specifica
condizione (l'acquisizione della documentazione in merito al
contratto definitivo di disponibilità delle aree di
impianto) cui subordinare l'esito positivo della
determinazione conclusiva della conferenza. Condizione che
si è, in seguito, realizzata (come risulta dalla
documentazione versata in atti)" (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 24.01.2013 n. 434 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Ai fini della tempestiva impugnazione del titolo
ad aedificandum rilasciato a terzi, l’effettiva, piena
conoscenza dell’atto autorizzativo deve essere ancorata
all’ultimazione dei lavori oppure al momento in cui la
costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi
in ordine alla portata dell’intervento.
Questa impostazione ha peraltro ricevuto significative
eccezioni e/o correzioni nei casi in cui, come quello
all’esame, il solo inizio dei lavori renda palese la
lesività dell’opera in relazione allo stato di fatto e di
diritto dell’area di intervento.
Così, quando si deduce la non edificabilità dell’area
interessata alla autorizzata costruzione, una siffatta
circostanza fa sì che il vicino legittimato a contestare il
titolo edilizio rilasciato a terzi deve insorgere al momento
dell’inizio dei lavori, giacché viene in rilevo una ipotesi
costruttiva che di per sé è idonea a concretizzare la
conoscenza di un profilo lesivo.
Questo Consiglio di Stato ha avuto più volte modo di
statuire che ai fini della tempestiva impugnazione del
titolo ad aedificandum rilasciato a terzi,
l’effettiva, piena conoscenza dell’atto autorizzativo deve
essere ancorata all’ultimazione dei lavori oppure al momento
in cui la costruzione realizzata è tale che non si possono
avere dubbi in ordine alla portata dell’intervento (Sez. IV
28.01.2011 n. 678; idem 28.06.2011 n. 5346) .
Questa impostazione ha peraltro ricevuto significative
eccezioni e/o correzioni nei casi in cui, come quello
all’esame, il solo inizio dei lavori renda palese la
lesività dell’opera in relazione allo stato di fatto e di
diritto dell’area di intervento (cfr., di recente, Cons.
Stato Sez. IV 16.07.2012 n. 4132).
Così, quando, come nella fattispecie, si deduce la non
edificabilità dell’area interessata alla autorizzata
costruzione, una siffatta circostanza fa sì che il vicino
legittimato a contestare il titolo edilizio rilasciato a
terzi deve insorgere al momento dell’inizio dei lavori,
giacché viene in rilevo una ipotesi costruttiva che di per
sé è idonea a concretizzare la conoscenza di un profilo
lesivo (Cons. Stato Sez. IV 10.12.2007 n. 6342) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 24.01.2013 n. 433 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
a) le scelte urbanistiche in ordine alla
zonizzazione del territorio sono rimesse al potere di tipo
squisitamente discrezionale dell’Amministrazione comunale
(Cons. Stato Sez. IV 07.06.2012 n. 3365);
b) la verifica e la scelta della destinazione edificatoria,
pure riservate al potere discrezionale, devono raccordarsi
con la più generale disciplina urbanistica e rivelarsi
altresì satisfattive dell’interesse pubblico al corretto ed
armonico utilizzo del territorio , nel contemperamento delle
varie esigenze della popolazione che su tale ambito insiste
ed opera.
Poi, le scelte espresse nello strumento urbanistico
generale, siccome caratterizzate da ampia discrezionalità,
non necessitano di altra motivazione, al di là del richiamo
ai criteri tecnico-urbanistici seguiti nell’impostazione del
piano e rinvenibili nella relazione d’accompagnamento al PRG.
Quest’ultima regola è pur sempre temperata dal principio per
cui la discrezionalità delle scelte urbanistiche relative
alla classificazione delle aree deve essere supportata da
una motivazione sufficiente, logica e ragionevole, proprio
per evitare che la discrezionalità possa trasmodare
nell’arbitrio.
Il Collegio ritiene qui di richiamare, in primo luogo, i
condivisibili orientamenti interpretativi più volte
affermati in subjecta materia da questa stessa
Sezione, così riassumibili:
a) le scelte urbanistiche in ordine alla zonizzazione del
territorio sono rimesse al potere di tipo squisitamente
discrezionale dell’Amministrazione comunale (Cons. Stato
Sez. IV 07.06.2012 n. 3365);
b) la verifica e la scelta della destinazione edificatoria,
pure riservate al potere discrezionale, devono raccordarsi
con la più generale disciplina urbanistica e rivelarsi
altresì satisfattive dell’interesse pubblico al corretto ed
armonico utilizzo del territorio , nel contemperamento delle
varie esigenze della popolazione che su tale ambito insiste
ed opera (Cons. Stato Sez. IV 25.09.2012 n. 5088) .
E’ poi opinione consolidata del giudice amministrativo che
le scelte espresse nello strumento urbanistico generale,
siccome caratterizzate da ampia discrezionalità, non
necessitano di altra motivazione, al di là del richiamo ai
criteri tecnico-urbanistici seguiti nell’impostazione del
piano e rinvenibili nella relazione d’accompagnamento al PRG
(Cons. Stato Sez. IV 09.10.2010 n. 8628; idem 18.01.2011 n.
352; 08.06.2011 n. 3497).
Quest’ultima regola è pur sempre temperata dal principio per
cui la discrezionalità delle scelte urbanistiche relative
alla classificazione delle aree deve essere supportata da
una motivazione sufficiente, logica e ragionevole, proprio
per evitare che la discrezionalità possa trasmodare
nell’arbitrio (Cons. Stato Sez. IV 06.07.2009) (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 24.01.2013 n. 431 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L’impugnativa di un
diniego di accesso agli atti ex art. 25 della legge n.
241/1990 sconta il regime processuale di tipo decadenziale e
la reiterazione dell’istanza di accesso, in assenza di
“elementi di novità”, comporta che l’ulteriore
determinazione di tipo negativo dell’Amministrazione assume
valore meramente confermativo, con conseguente
inammissibilità del gravame proposto avverso quest’ultimo
provvedimento.
Secondo un preciso orientamento giurisprudenziale,
confermato dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di
Stato con decisione n. 7 del 20.04.2006, l’impugnativa di un
diniego di accesso agli atti ex art. 25 della legge n.
241/1990 sconta il regime processuale di tipo decadenziale e
la reiterazione dell’istanza di accesso, in assenza di “elementi
di novità”, comporta che l’ulteriore determinazione di
tipo negativo dell’Amministrazione assume valore meramente
confermativo, con conseguente inammissibilità del gravame
proposto avverso quest’ultimo provvedimento.
La predetta regula iuris non appare però applicabile
alla vicenda all’esame, atteso che nella fattispecie vengono
in rilievo due istanze di accesso non perfettamente
sovrapponibili, nel senso che la seconda di queste domande
non si rivela meramente confermativa di quella
precedentemente formulata per la quale è stato a suo tempo
emesso un provvedimento di diniego non impugnato
dall’interessato.
Più specificatamente è possibile cogliere nelle due domande
di accesso, solo “apparentemente” coincidenti, degli
elementi di diversificazione sia sotto il profilo soggettivo
che in relazione all’aspetto oggettivo (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 24.01.2013 n. 428 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA
PRIVATA:
L’art. 116 c.p.p. stabilisce che "Durante il
procedimento e dopo la sua definizione, chiunque vi abbia
interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie,
estratti o certificati di singoli atti", rimettendo
all'autorità giudiziaria penale il delicato compito di
valutare e bilanciare le contrapposte esigenze implicate in
tali vicende (art. 116, comma 2).
Di fronte ad atti di polizia giudiziaria coperti dal segreto
istruttorio ex art. 329 c.p.p., vige il divieto di
pubblicazione sancito dall'art. 114 c.p.p..
Tuttavia, a tenore del comma 1 della citata norma, il
suddetto divieto può protrarsi, salve le ipotesi di cui al
terzo comma, non oltre la chiusura delle indagini
preliminari.
Premesso:
- che il ricorrente ha chiesto l’ottemperanza alla sentenza
n. 286 dell’11.10.2012 con cui la Sezione ha ordinato al
Comune di Parma di consentire l’accesso al documento
richiesto con l’istanza del 30.04.2012;
- che il Comune intimato si è costituito in giudizio
chiedendo la reiezione del ricorso in quanto il documento
richiesto (nota inviata dal Comune alla Procura della
Repubblica in data 25.10.2011) sarebbe soggetto a segreto
istruttorio in quanto oggetto di indagine penale, come
risultante dalla nota del Procuratore della Repubblica in
data 09.11.2012, in cui sono individuati i seguenti
procedimenti pendenti dinanzi alla Procura della Repubblica
presso il Tribunale di Parma: 1) n. 5086/10 MOD. 21; n.
1185/12 MOD. 21; 3) n. 5803/12 MOD. 21;
- che, in data 20.12.2012, il Comune intimato ha prodotto la
nota del 14.12.2012 inviata alla Procura della Repubblica,
in calce alla quale il Procuratore dott. Gerardo Laguardia
ha denegato l’autorizzazione all’ostensione del documento
richiesto dal sig. Cesare Piazza, in quanto coperto da
segreto istruttorio;
- che, preso atto di tale provvedimento, il ricorrente, in
via principale ha insistito per l’accoglimento del ricorso
censurando la condotta del Comune che, pur in mancanza di un
atto di secretazione dell’Autorità giudiziaria penale, ha
denegato l’accesso sebbene ordinato con la sentenza di cui è
chiesta l’ottemperanza;
- che, in subordine, il ricorrente ha chiesto ordinarsi
all’amministrazione resistente l’emissione di un
provvedimento idoneo a consentirgli l’accesso all’atto
richiesto, differendone l’emissione alla chiusura delle
indagini preliminari e nominando, per il caso di
inadempimento protratto oltre detto termine, un commissario
ad acta che provveda in luogo del Comune;
- che il Comune si è opposto alla avversa richiesta
chiedendo la reiezione del ricorso;
- che alla camera di consiglio del 23.01.2013, sentiti i
difensori presenti, la causa è stata trattenuta in
decisione;
Considerato:
- che l’art. 116 c.p.p. stabilisce che "Durante il
procedimento e dopo la sua definizione, chiunque vi abbia
interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie,
estratti o certificati di singoli atti", rimettendo
all'autorità giudiziaria penale il delicato compito di
valutare e bilanciare le contrapposte esigenze implicate in
tali vicende (art. 116, comma 2);
- che di fronte ad atti di polizia giudiziaria coperti, come
nel caso di specie, dal segreto istruttorio ex art. 329
c.p.p., vige il divieto di pubblicazione sancito dall'art.
114 c.p.p. (cfr. TAR Sicilia, Catania, sez. I, 20.09.2012,
n. 2220);
- che, tuttavia, a tenore del comma 1 della citata norma il
suddetto divieto può protrarsi, salve le ipotesi di cui al
terzo comma, non oltre la chiusura delle indagini
preliminari;
Ritenuto:
- che, per quanto precede, il ricorso può essere accolto
quanto alla subordinata domanda dovendosi ordinare, per
l’effetto, al Comune di Parma di provvedere, entro quindici
giorni dalla chiusura delle indagini preliminari relative ai
procedimenti penali indicati nella nota del Procuratore
della Repubblica in data 09.11.2012, all’ostensione del
documento richiesto dal ricorrente (nota inviata dal Comune
alla Procura della Repubblica in data 25.10.2011);
- che, per l’ipotesi di inerzia del Comune protratta oltre
il concesso termine, va, fin d’ora, nominato un Commissario
ad acta nella persona del Prefetto di Parma, o di un
suo delegato, che dovrà provvedere, in luogo del Comune
onerato, nel termine dei successivi quindici giorni ...
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 24.01.2013 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Circa
la destinazione a servizi pubblici
(verde e parco pubblico) è da escludere che tale vincolo
assuma carattere di vincolo espropriativo, trattandosi
invece di un vincolo conformativo della proprietà privata;
si ricordi sul punto che la più recente e diffusa
giurisprudenza amministrativa riconosce al vincolo a verde
pubblico o a verde urbano la succitata natura conformativa.
---------------
E' stato ribadito di recente in importanti arresti del
Giudice Amministrativo d’appello, circa l’ampia
discrezionalità di cui godono i Comuni nell’esercizio della
potestà pianificatoria urbanistica, nei confronti della
quale i privati possono godere di aspettative qualificate
soltanto in un numero limitato di casi, peraltro
insussistenti nella presente fattispecie.
In primo luogo, occorre ricordare come la destinazione
a servizi pubblici di interesse generale è finalizzata alla
realizzazione o meglio all’ampliamento di un parco pubblico,
con gli annessi parcheggi pubblici, a servizio sia dei
residenti sia di una scuola collocata a lato del parco (cfr.
doc. 17 della ricorrente, copia della relazione di progetto,
pag. 2 ed anche il doc. 5 del resistente).
L’art. 27 delle NTA del PGT, consente poi che i servizi
pubblici e di interesse pubblico siano realizzati mediante
iniziativa pubblica diretta (cfr. doc. 6 del resistente,
pag. 29), mentre il successivo art. 28 ne consente la
realizzazione anche ai proprietari delle aree, in conformità
alla vigente legislazione (cfr. il già citato doc. 6, pag.
30).
Inoltre, l’art. 11 delle stesse NTA (cfr. ancora il doc. 6,
pag. 8), prevede che, in caso di cessione gratuita delle
aree destinate a servizi ed attrezzature pubbliche, siano
riconosciuti a titolo di compensazione diritti edificatori,
da utilizzarsi negli ambiti di trasformazione, pari a 0,3
metri cubi/ metro quadrato.
Tale particolare disciplina urbanistica porta ad escludere
che il vincolo di cui è causa assuma carattere di vincolo
espropriativo, trattandosi invece –piuttosto– di un
vincolo conformativo della proprietà privata; si ricordi sul
punto che la più recente e diffusa giurisprudenza
amministrativa riconosce al vincolo a verde pubblico o a
verde urbano la succitata natura conformativa (cfr., fra le
più recenti, Consiglio di Stato, sez. IV, 28.12.2012, n.
6700 e sez. V, 13.04.2012, n. 2116 ed anche TAR Lombardia,
Milano, sez. IV, 11.11.2009, n. 5013).
In ogni caso e fermo restando quanto sopra esposto, avente
carattere assorbente, l’Amministrazione risulta avere
adeguatamente motivato la scelta compiuta in sede di
pianificazione urbanistica generale, volta ad attribuire
all’area la destinazione a servizi pubblici (verde e parco
pubblico), più volte sopra ricordata.
---------------
La destinazione a verde e
parco pubblico viene giustificata anche –il che appare
logico, intende precisare il Collegio- dalla presenza
dell’elettrodotto e della relativa zona di rispetto, che
copre quasi tutta l’area dell’esponente (cfr. il precedente
punto 2.1 della presente narrativa in diritto), e che rende
pressoché impossibile rilevanti interventi edificatori,
fatte salve talune funzioni urbanistiche, quali -appunto-
quelle di parco pubblico o parcheggio.
Il percorso motivazionale dell’Amministrazione di Lomagna
non appare né illogico né contraddittorio, tenuto conto
anche del pacifico indirizzo giurisprudenziale, ribadito di
recente in importanti arresti del Giudice Amministrativo
d’appello, circa l’ampia discrezionalità di cui godono i
Comuni nell’esercizio della potestà pianificatoria
urbanistica, nei confronti della quale i privati possono
godere di aspettative qualificate soltanto in un numero
limitato di casi, peraltro insussistenti nella presente
fattispecie (cfr., fra le tante, la fondamentale sentenza
del Consiglio di Stato, sez. IV, 10.05.2012, n. 2710,
richiamata e confermata dalla successiva sentenza della
stessa Sezione IV, 28.11.2012, n. 6040; Consiglio di Stato,
sez. IV, 28.12.2012, n. 6703, oltre che, fra le decisioni di
primo grado, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 08.02.2012, n.
437 e TAR Basilicata, 16.12.2011, n. 602).
Ciò premesso, non appare neppure illogica –nel caso di
specie- la scelta del Comune di Lomagna di individuare una
dotazione di standard superiore a quella minima prevista
dall’art. 9 della legge regionale 12/2005 (18 metri quadrati
per abitante), viste le già ricordate esigenze di
ampliamento del parco e dei parcheggi pubblici
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
23.01.2013 n. 203 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: In
ogni atto amministrativo devono esser indicati il termine e
l’autorità cui è possibile ricorrere. Tuttavia l’omessa
indicazione, in un atto, dell’autorità cui ricorrere, nonché
l’omessa indicazione dei termini d’impugnazione, non
costituisce illegittimità bensì mera irregolarità.
All’occorrenza tale omissione può comportare solo una
rimessione in termini per errore scusabile.
Infine, con riferimento alla censura
relativa alla mancata indicazione del termine e
dell’Autorità cui ricorrere, si osserva che, per
giurisprudenza consolidata, “in ogni atto amministrativo
devono esser indicati il termine e l’autorità cui è
possibile ricorrere. Tuttavia l’omessa indicazione, in un
atto, dell’autorità cui ricorrere, nonché l’omessa
indicazione dei termini d’impugnazione, non costituisce
illegittimità bensì mera irregolarità. All’occorrenza tale
omissione può comportare solo una rimessione in termini per
errore scusabile” (Tar Campania, Napoli, sez. I - 28.08.2012 n. 3733; Tar Lazio Roma, sez. I-bis -
03.11.2009 n. 10742)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
23.01.2013 n. 195 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
convenzioni urbanistiche rientrano nella categoria degli
accordi procedimentali ex art. 11 l. n. 241 del 1990.
Questi ultimi, anche definiti come accordi di diritto
pubblico ovvero ad oggetto pubblico, sono convenzioni
intercorrenti tra una parte pubblica e una privata, volte a
determinare il contenuto discrezionale dell’adottando
provvedimento, sottoposte, nei limiti della compatibilità,
ai principi stabiliti dal codice civile in materia di
obbligazioni e contratti.
Sicché, deve escludersi che dette convenzioni facciano
sorgere obblighi vigenti sine die a carico del soggetto che
si è obbligato, come pure che tali piani possano avere
l’efficacia di condizionare a tempo indeterminato la
pianificazione urbanistica futura, dovendosi ritenere
vigente un termine di loro durata massima pari a 10 anni,
mutuando il termine di cui all’art. 16, comma 5, della legge
urbanistica n. 1150/1942, concernente l’analoga figura dei
piani particolareggiati.
---------------
La scadenza del piano convenzionato legittima
l’Amministrazione a dettare una diversa regolamentazione
urbanistica ed edilizia alle aree nel medesimo ricomprese
che non siano state oggetto di sfruttamento edificatorio nel
termine di efficacia della relativa convenzione.
Allo stesso tempo, tale scadenza fa venir meno l’obbligo del
Comune di rilasciare i titoli edilizi previsti per
l’edificazione dell’area senza imposizione di oneri
ulteriori, senza che ciò si traduca in un indebito
arricchimento in favore del Comune, dovendo il costruttore
imputare alla propria inerzia l’impossibilità di avvalersi,
senza ulteriori pesi economici, dello sfruttamento edilizio
dell’area, come contemplato dalla convenzione.
---------------
In merito all’obbligo gravante sul costruttore di
corrispondere, all’atto del rilascio del permesso di
costruire gli oneri di urbanizzazione, giova evidenziare
come detti oneri, avendo natura di prestazioni patrimoniali
imposte, di carattere non tributario e di carattere
generale, prescindono dalle singole opere di urbanizzazione,
venendo determinato il relativo ammontare indipendentemente
sia dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo
edificatorio, sia dalle spese effettivamente occorrenti per
realizzare dette opere, senza che neanche rilevi la già
intervenuta realizzazione di siffatte opere di
urbanizzazione.
Pertanto, la scadenza della convenzione comporta
l’inefficacia dei relativi vincoli e la facoltà del Comune
di richiedere ulteriori oneri urbanizzativi per lo
sfruttamento edilizio delle aree ricomprese nel piano, ma
non tempestivamente utilizzate a fini edificatori, a
prescindere dall’avvenuta urbanizzazione della suddetta area
e senza determinare alcun indebito arricchimento ai danni
della ricorrente, data la precisata natura di tali oneri.
Ai fini del decidere, occorre prendere le
mosse dalla definizione della natura giuridica delle
convenzioni urbanistiche, in quanto dalla risoluzione della
relativa questione discendono conseguenze rilevanti.
Ebbene, esse rientrano nella categoria degli accordi
procedimentali ex art. 11 l. n. 241 del 1990.
Questi ultimi, anche definiti come accordi di diritto
pubblico ovvero ad oggetto pubblico, sono convenzioni
intercorrenti tra una parte pubblica e una privata, volte a
determinare il contenuto discrezionale dell’adottando
provvedimento, sottoposte, nei limiti della compatibilità,
ai principi stabiliti dal codice civile in materia di
obbligazioni e contratti.
Da ciò deriva, quale immediato corollario, dal punto di
vista processuale, l’attrazione delle relative controversie
alla giurisdizione esclusiva del g.a., attualmente
confermata dagli art. 7, 133, comma 1, lett. a), n. 2, e 133,
comma 1, lett. d), c.p.a. (C.d.S. sez. IV, 02.02.2012 n.
616) e la sottoposizione alle regole tipiche della
giurisdizione in materia di diritti soggettivi, tra cui
quella del rispetto del termine di prescrizione, ai fini
della tempestività del ricorso; dal punto di vista
sostanziale, la qualificazione del rapporto intercorrente
tra le parti, in termini di rapporto obbligatorio, fonte di
diritti ed obblighi per entrambi.
Il portato di tale qualificazione è che, deve escludersi
che dette convenzioni facciano sorgere obblighi vigenti sine
die a carico del soggetto che si è obbligato, come pure che
tali piani possano avere l’efficacia di condizionare a tempo
indeterminato la pianificazione urbanistica futura,
dovendosi ritenere vigente un termine di loro durata massima
pari a 10 anni, mutuando il termine di cui all’art. 16, comma
5, della legge urbanistica n. 1150/1942, concernente
l’analoga figura dei piani particolareggiati (C.d.S., Ad.
Pl. 03.12.2008 n. 13).
Nel caso di specie, siffatto limite temporale di
efficacia dell’accordo discende direttamente dalla
convenzione, avente forza di legge tra le parti (art. 1372
c.c.).
Detta scadenza del piano convenzionato –verificatasi a
far data dal lontano 1994 –ha legittimato, pertanto,
l’Amministrazione a dettare una diversa regolamentazione
urbanistica ed edilizia alle aree nel medesimo ricomprese
che non siano state oggetto di sfruttamento edificatorio nel
termine di efficacia della relativa convenzione (Tar
Lombardia, Brescia, 10.04.2006 n. 374 e n. 433 del 16.05.2007).
Allo stesso tempo, tale data, identificando il momento
estintivo dei diritti ed obblighi nascenti dal piano
convenzionato, ha fatto venir meno l’obbligo del Comune di
rilasciare i titoli edilizi previsti per l’edificazione
dell’area senza imposizione di oneri ulteriori, senza che
ciò si traduca in un indebito arricchimento in favore del
Comune, dovendo il costruttore imputare alla propria inerzia
l’impossibilità di avvalersi, senza ulteriori pesi
economici, dello sfruttamento edilizio dell’area, come
contemplato dalla convenzione.
In merito all’obbligo gravante sul costruttore di
corrispondere, all’atto del rilascio del permesso di
costruire gli oneri di urbanizzazione, giova evidenziare
come, per pacifica giurisprudenza, detti oneri, avendo
natura di prestazioni patrimoniali imposte, di carattere non
tributario, e di carattere generale, prescindono dalle
singole opere di urbanizzazione, venendo determinato il
relativo ammontare indipendentemente sia dall'utilità che il
concessionario ritrae dal titolo edificatorio, sia dalle
spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere,
senza che neanche rilevi la già intervenuta realizzazione di
siffatte opere di urbanizzazione (Cd.S., sez. IV, 30.07.2012 n. 4320, id., sez. V, 15.12.2005, n. 7140; id.,
06.05.1997, n. 462).
Pertanto, la scadenza della convenzione ha comportato
l’inefficacia dei relativi vincoli e la facoltà del Comune
di richiedere ulteriori oneri urbanizzativi per lo
sfruttamento edilizio delle aree ricomprese nel piano ”Ca
Magna”, ma non tempestivamente utilizzate a fini
edificatori, a prescindere dall’avvenuta urbanizzazione
della suddetta area e senza determinare alcun indebito
arricchimento ai danni della ricorrente, data la precisata
natura di tali oneri
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
22.01.2013 n. 192 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’omessa
notificazione degli atti del procedimento (di accertamento
abuso edilizio) al comproprietario non può comportare di per
sé l’illegittimità degli atti medesimi, ma consente semmai
al comproprietario la rituale impugnazione dei provvedimenti
lesivi, non appena venuto a conoscenza degli stessi.
---------------
La mancata notificazione al comproprietario non inficia di
per sé la legittimità della disposta misura
repressiva-ripristinatoria, semmai incidendo sulla relativa
conoscenza.
Ai fini della legittimità dell'iter procedimentale posto in
essere dall'amministrazione per il ripristino dei valori
giuridici offesi dalla realizzazione dell'opera abusiva è,
cioè, sufficiente la notifica dell'ordinanza di demolizione
così come degli atti consequenziali ad uno solo dei
comproprietari e in ogni caso al responsabile dell'illecito
dovendo questi adoperarsi in ragione della funzione
ripristinatoria e non sanzionatoria dell'atto, per eliminare
l'illecito onde sottrarsi, salvo comprovare
l'indisponibilità effettiva del bene, al pregiudizio della
perdita della propria quota ideale di comproprietà.
Il comproprietario pretermesso, poi, da un lato può comunque
autonomamente gravarsi nei confronti del provvedimento
sanzionatorio, facendo valere le proprie ragioni entro il
termine decorrente dalla piena conoscenza della ingiunzione.
Nel primo motivo di ricorso, si sostiene
l’illegittimità di tutti gli atti impugnati, relativi al
procedimento di accertamento degli abusi edilizi di cui è
causa, in quanto gli atti stessi non sono stati notificati
al sig. Giordano Villa, comproprietario con la sig.ra Butti
degli immobili di cui sopra.
La censura non è fondata, visto che l’omessa notificazione
degli atti del procedimento al comproprietario, sig. Villa,
non può comportare di per sé l’illegittimità degli atti
medesimi, ma consente semmai al comproprietario la rituale
impugnazione dei provvedimenti lesivi, non appena venuto a
conoscenza degli stessi (cfr. sul punto, TAR Lombardia,
Milano, sez. II, 26.07.2011, n. 1991).
Si badi che a tale conclusione perviene anche la
giurisprudenza citata nel ricorso a pag. 7, vale a dire la
sentenza del TAR Campania, Napoli, sez. II, 08.06.2011, n.
2992, nella quale si legge che: <<(…) A tal proposito,
costituisce orientamento in giurisprudenza quello secondo
cui "la mancata notificazione al comproprietario non inficia
di per sé la legittimità della disposta misura repressiva-ripristinatoria, semmai incidendo sulla relativa
conoscenza. Ai fini della legittimità dell'iter
procedimentale posto in essere dall'amministrazione per il
ripristino dei valori giuridici offesi dalla realizzazione
dell'opera abusiva è, cioè, sufficiente la notifica
dell'ordinanza di demolizione così come degli atti
consequenziali ad uno solo dei comproprietari e in ogni caso
al responsabile dell'illecito dovendo questi adoperarsi in
ragione della funzione ripristinatoria e non sanzionatoria
dell'atto, per eliminare l'illecito onde sottrarsi, salvo
comprovare l'indisponibilità effettiva del bene, al
pregiudizio della perdita della propria quota ideale di
comproprietà. Il comproprietario pretermesso, poi, da un
lato può comunque autonomamente gravarsi nei confronti del
provvedimento sanzionatorio, facendo valere le proprie
ragioni entro il termine decorrente dalla piena conoscenza
della ingiunzione (…)>>
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
22.01.2013 n. 188 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L'art.
38 del d.lgs. n. 163 del 2006, nella parte in cui elenca le
dichiarazioni di sussistenza dei requisiti morali e
professionali richiesti ai fini della partecipazione alle
procedure di gara, assume come destinatari tutti coloro che,
in quanto titolari della rappresentanza dell'impresa, siano
in grado di trasmettere, con il proprio comportamento, la
riprovazione dell'ordinamento nei riguardi della loro
personale condotta, al soggetto rappresentato.
Pertanto, deve ritenersi sussistente l'obbligo di
dichiarazione non soltanto da parte di chi rivesta
formalmente la carica di amministratore, ma anche da parte
di colui che, in qualità di procuratore ad negotia, abbia
ottenuto il conferimento di poteri consistenti nella
rappresentanza dell'impresa e nel compimento di atti
decisionali.
---------------
Costituisce causa di esclusione sia la mancanza di uno dei
requisiti soggettivi di cui all’art. 38 del Codice, a
prescindere dalle indicazioni riportate nel bando di gara,
che, oltre all’ipotesi di falsità, l’omissione o
l’incompletezza delle dichiarazioni da rendersi ai sensi
dell’art. 38 da parte di tutti i soggetti alle stesse
tenute. Tali omissioni costituiscono, di per sé, motivo di
esclusione dalla procedura ad evidenza pubblica anche in
assenza di una espressa previsione del bando di gara.
Del resto, tale interpretazione della norma si ricava anche
alla luce delle enunciazioni contenute nella direttiva
2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa
al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, il
cui art. 45, intitolato: “situazione personale del candidato
o dell’offerente” al par. 1, ultimo alinea, stabilisce che,
ai fini del controllo dell’insussistenza dei precedenti
penali in capo ai concorrenti, “le richieste riguarderanno
le persone giuridiche e/o le persone fisiche, compresi, se
del caso, i dirigenti delle imprese o qualsiasi persona che
eserciti il potere di rappresentanza, di decisione o di
controllo del candidato o dell’offerente”.
L’opzione ermeneutica sostanzialistica preferita dal
collegio risponde, dunque, anche ad un canone interpretativo
conforme al diritto europeo, dal quale deriva tutta la
disciplina sugli appalti pubblici vigente nell’ordinamento
italiano.
---------------
Riguardo all’unico motivo aggiunto concernente la asserita
violazione dell’art. 38, comma 1, lett. f), del d.lgs. n.
163/2006, deve premettersi che la norma di esclusione non ha
carattere sanzionatorio, ma contempla una misura a presidio
dell'elemento fiduciario, che esclude di per sé qualsiasi
automatismo, perché l'esclusione deve essere il risultato di
una "motivata valutazione"; in tema di contenzioso per
l'esclusione da gara di appalto ai sensi dell'art. 38, comma
1, lett. f), d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (inadempimenti in
precedenti contratti) la decisione di esclusione per
"deficit di fiducia" è frutto di una valutazione
discrezionale della stazione appaltante, alla quale il
legislatore riserva la individuazione del "punto di rottura
dell'affidamento" nel pregresso o futuro contraente;
pertanto il controllo del g.a. su tale valutazione
discrezionale deve essere svolto "ab estrinseco", ed è
diretto ad accertare il ricorrere di seri indici di
simulazione, ma non è mai sostitutivo.
In tema di esclusione da una gara pubblica ex art. 38, comma
1, lett. f), d.lgs. n. 163 del 2006, la gravità della
generica negligenza o dell'inadempimento a specifiche
obbligazioni contrattuali va commisurata al pregiudizio
arrecato alla fiducia, all'affidamento che la stazione
appaltante deve poter riporre, "ex ante", nell'impresa cui
decide di affidare l'esecuzione di un nuovo rapporto
contrattuale.
Il collegio, pur consapevole degli orientamenti
altalenanti della giurisprudenza amministrativa sul punto,
ritiene che, per le circostanze concrete della fattispecie,
sia da preferire senz’altro quello più rigoroso.
Ed invero, l’art. 38 del codice degli appalti, in ragione
della sua complessità e delle conseguenti difficoltà
interpretative –che ne hanno suggerito, finanche, la
parziale modifica da parte del legislatore- ha dato adito a
diverse elucubrazioni ermeneutiche confluite, per quel che
ci occupa, in due filoni principali.
Per il primo, ispirato al principio del favor partecipationis, l'obbligo di presentare le dichiarazioni di
cui all'art. 38 del codice dei contratti pubblici non opera
per i procuratori speciali indipendentemente dall'ampiezza
dei poteri rappresentativi di cui gli stessi sono investiti,
essendo richiesta a tale fine la compresenza della qualifica
di amministratore e del potere di rappresentanza dovendosi
"ancorare l'applicazione della norma su basi di oggettivo
rigore formale" (Cons. St., V, n. 3069/2011), occorrendo avere
riguardo alla posizione formale del singolo
nell'organizzazione societaria piuttosto che a malcerte
indagini "sostanzialistiche", e ciò anche per non scalfire
garanzie di certezza del diritto sotto il profilo della
possibilità di partecipare a pubblici appalti (sez. V, n.
513/11 cit., in cui si ribadisce che "una norma che limiti
la partecipazione alle gare e la libertà di iniziativa
economica delle imprese... assume carattere eccezionale ed
è, quindi, insuscettibile di applicazione analogica a
situazioni diverse, quale è quella dei procuratori") (cfr.
Cons. Stato, sez. V, 06.06.2012, n. 3340).
Per il secondo, dal quale trapela un’esegesi più severa
della norma, suggerita anche dall’intento di evitare
comportamenti elusivi della disciplina da parte degli
operatori, “non sfugge al Collegio l'esistenza di un
orientamento giurisprudenziale secondo il quale gli obblighi
di cui all'art. 38, comma 1, lettera c), sono riferibili ai
soli amministratori della società muniti di poteri di
rappresentanza e ai direttori tecnici, ma non anche ai
procuratori speciali, con la conseguenza che tali obblighi
non incombano anche su questi ultimi" (fra tutte: Cons.
Stato, V, 25.01.2011, n. 513).
Tuttavia, si ritiene che prevalenti ragioni sistematiche
inducano a preferire la diversa opzione interpretativa
secondo cui l'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, nella
parte in cui elenca le dichiarazioni di sussistenza dei
requisiti morali e professionali richiesti ai fini della
partecipazione alle procedure di gara, assume come
destinatari tutti coloro che, in quanto titolari della
rappresentanza dell'impresa, siano in grado di trasmettere,
con il proprio comportamento, la riprovazione
dell'ordinamento nei riguardi della loro personale condotta,
al soggetto rappresentato.
Pertanto, deve ritenersi sussistente l'obbligo di
dichiarazione non soltanto da parte di chi rivesta
formalmente la carica di amministratore, ma anche da parte
di colui che, in qualità di procuratore ad negotia, abbia
ottenuto il conferimento di poteri consistenti nella
rappresentanza dell'impresa e nel compimento di atti
decisionali (sul punto, cfr. -ex multis-: Cons. Stato, V,
09.03.2010, n. 1373; id., VI, 24.11.2009, n. 7380;
id., V, 26.01.2009 n. 375).
Le conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza da ultimo
richiamata risultano tanto più persuasive nel caso in esame,
laddove è accertato -ad esempio- che al signor Cl.
(procuratore speciale della società Projenia) era
riconosciuto un ampio potere di rappresentanza negoziale,
tale da consentirgli di adottare nei confronti dei soggetti
pubblici atti di valore fino a 100mila euro.
Si tratta, come è evidente, di poteri di rappresentanza di
rilevanza sostanziale e di contenuto economico tali da
giustificare senz'altro l'assoggettamento agli obblighi di
cui al più volte richiamato art. 38 (Cons. Stato, sez. VI,
18.01.2012, n. 178).
Tali considerazioni si attagliano perfettamente al caso di
specie, dovendosi ravvisare, sulla base della procura
versata in atti allo stesso conferita, la titolarità di ampi
poteri di rappresentanza in capo al sig. Julian Barrutia
Olasolo, in riferimento alla possibilità al medesimo
riconosciuta di partecipare alle gare e di firmare
contratti, ed in generale ad operare come sostanziale
rappresentante della società all’interno dell’intero
territorio italiano.
Ciò risulta confermato dalla più volte citata risposta della
stazione appaltante alla richiesta di chiarimenti formulata
da un concorrente (Precisazioni 9 del 18.07.2012,
versato in atti), nella quale la stessa, a fronte della
richiesta “se i procuratori sono più di uno, bisognerà
fornire tanti allegati B quanto il numero dei procuratori?”
aveva risposto affermativamente, evidenziando, in
alternativa, la possibilità da parte del concorrente di
“produrre, in luogo degli Allegati A e B, unicamente
l’Allegato A sottoscritto dal legale rappresentante che
elenchi ai punti c) e d) tutti i soggetti indicati nella
norma, compresi i procuratori”.
In ogni caso, come asserito finanche dall’Autorità per la
Vigilanza sui Contratti Pubblici nella determinazione n. 4
del 10.10.2012, costituisce causa di esclusione sia la
mancanza di uno dei requisiti soggettivi di cui all’art. 38
del Codice, a prescindere dalle indicazioni riportate nel
bando di gara, che, oltre all’ipotesi di falsità,
l’omissione o l’incompletezza delle dichiarazioni da
rendersi ai sensi dell’art. 38 da parte di tutti i soggetti
alle stesse tenute. Tali omissioni costituiscono, di per sé,
motivo di esclusione dalla procedura ad evidenza pubblica
anche in assenza di una espressa previsione del bando di
gara (cfr. pag. 8 della deliberazione succitata, oltre che
la deliberazione 16.05.2012, n. 74; cfr, altresì, Cons.
Stato, sez. III, 04.05.2012, n. 2557).
Del resto, tale interpretazione della norma si ricava anche
alla luce delle enunciazioni contenute nella direttiva
2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa
al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, il
cui art. 45, intitolato: “situazione personale del candidato
o dell’offerente” al par. 1, ultimo alinea, stabilisce che,
ai fini del controllo dell’insussistenza dei precedenti
penali in capo ai concorrenti, “le richieste riguarderanno
le persone giuridiche e/o le persone fisiche, compresi, se
del caso, i dirigenti delle imprese o qualsiasi persona che
eserciti il potere di rappresentanza, di decisione o di
controllo del candidato o dell’offerente”.
L’opzione ermeneutica sostanzialistica preferita dal
collegio risponde, dunque, anche ad un canone interpretativo
conforme al diritto europeo, dal quale deriva tutta la
disciplina sugli appalti pubblici vigente nell’ordinamento
italiano.
---------------
Riguardo, infine,
all’unico motivo aggiunto dedotto da CAF, concernente la
asserita violazione dell’art. 38, comma 1, lett. f), del
d.lgs. n. 163/2006, deve premettersi che, per giurisprudenza
consolidata, la norma di esclusione non ha carattere
sanzionatorio, ma contempla una misura a presidio
dell'elemento fiduciario, che esclude di per sé qualsiasi
automatismo, perché l'esclusione deve essere il risultato di
una "motivata valutazione"; in tema di contenzioso per
l'esclusione da gara di appalto ai sensi dell'art. 38, comma
1, lett. f), d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (inadempimenti in
precedenti contratti) la decisione di esclusione per
"deficit di fiducia" è frutto di una valutazione
discrezionale della stazione appaltante, alla quale il
legislatore riserva la individuazione del "punto di rottura
dell'affidamento" nel pregresso o futuro contraente;
pertanto il controllo del g.a. su tale valutazione
discrezionale deve essere svolto "ab estrinseco", ed è
diretto ad accertare il ricorrere di seri indici di
simulazione, ma non è mai sostitutivo (Cons. Stato, sez. VI,
15.05.2012, n. 2761);
In tema di esclusione da una gara pubblica ex art. 38, comma
1, lett. f), d.lgs. n. 163 del 2006, la gravità della
generica negligenza o dell'inadempimento a specifiche
obbligazioni contrattuali va commisurata al pregiudizio
arrecato alla fiducia, all'affidamento che la stazione
appaltante deve poter riporre, "ex ante",
nell'impresa cui decide di affidare l'esecuzione di un nuovo
rapporto contrattuale (Cons. Stato, sez. V, 21.01.2011, n.
409)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV
sentenza
22.01.2013 n. 183 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La
normativa in materia di bonifiche di cui all'art. 17 d.lgs.
05.02.1997 n. 22 è applicabile a qualunque situazione di
inquinamento ancora in atto al momento dell'entrata in
vigore del decreto legislativo, indipendentemente dal
momento in cui possa essere avvenuto il fatto o i fatti
generatori dell’attuale situazione patologica. A tale
conclusione si deve pervenire, ove si ponga mente al fatto
che l’inquinamento dà luogo ad una situazione di carattere
permanente che perdura finché non vengano rimosse le cause
ed i parametri ambientali alterati siano riportati entro i
limiti normativamente accettabili.
L’obbligo di messa in sicurezza e di successiva bonifica è
la semplice conseguenza oggettiva dell’aver cagionato
l’inquinamento. Il complesso delle norme in tema di bonifica
non sono altro che l’applicazione alla materia in esame (si
potrebbe dire, la procedimentalizzazione nella materia in
esame) della norma generale dell’art. 2043 c.c. (il cui
disposto esiste da quando esiste il diritto), secondo cui
ogni soggetto è tenuto a reintegrare il danno che abbia
cagionato con il proprio comportamento. Norma generale che,
d’altronde, è a sua volta espressione del principio, ancor
più generale, di responsabilità, in base al quale ciascuno
risponde delle proprie azioni (ed omissioni, naturalmente)
(il c.d. principio comunitario del chi inquina paga ne
costituisce ulteriore specificazione in materia ambientale).
---------------
La responsabilità dell'inquinatore e quella del proprietario
si fondano su presupposti giuridici diversi ed hanno
differente natura.
La responsabilità dell'autore dell'inquinamento, ai sensi
dell'art. 17, comma 2, del D.Lgs. 22/1997, costituisce una
vera e propria forma di responsabilità oggettiva per gli
obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino
ambientale conseguenti alla contaminazione delle aree
inquinate. La natura oggettiva della responsabilità in
questione è desumibile che l'obbligo di effettuare gli
interventi di legge sorge, in base all'art. 17, comma 2, del
D.Lgs. 22/1997, in connessione con una condotta "anche
accidentale", ossia a prescindere dall'esistenza di
qualsiasi elemento soggettivo doloso o colposo in capo
all'autore dell'inquinamento.
Ai fini della responsabilità in questione è comunque pur
sempre necessario il rapporto di causalità tra l'azione (o
l'omissione) dell'autore dell'inquinamento ed il superamento
-o pericolo concreto ed attuale di superamento- dei limiti
di contaminazione, in coerenza col principio comunitario
"chi inquina paga", principio che risulta espressamente
richiamato dall'art. 15 della direttiva n. 91/156, di cui il
D.Lgs. del 1997 costituisce recepimento.
Sensibilmente diversa si presenta invece la posizione del
proprietario del sito, per la responsabilità del quale
occorre fare riferimento al comma 10 dell'art. 17, che
dispone che gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e
ripristino ambientale costituiscono onere reale sulle aree
inquinate; il comma 11 del medesimo articolo dispone poi
altresì che le spese sostenute per la messa in sicurezza, la
bonifica e il ripristino ambientale sono assistite da
privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime,
esercitabile anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai
terzi sull'immobile.
Ne consegue che chi subentra nella proprietà o possesso del
bene subentra anche negli obblighi connessi all'onere reale,
indipendentemente dal fatto che ne abbia avuto preventiva
conoscenza. Quella posta in capo al proprietario dall'art.
17, commi 10 e 11, è pertanto una responsabilità "da
posizione", non solo svincolata dai profili soggettivi del
dolo o della colpa, ma che non richiede neppure l'apporto
causale del proprietario responsabile al superamento o
pericolo di superamento dei valori limite di contaminazione.
È quindi evidente che il proprietario del suolo -che non
abbia apportato alcun contributo causale, neppure
incolpevole, all'inquinamento- non si trova in alcun modo in
una posizione analoga od assimilabile a quella
dell'inquinatore, essendo tenuto a sostenere i costi
connessi agli interventi di bonifica esclusivamente in
ragione dell'esistenza dell'onere reale sul sito.
Il responsabile diretto e principale della bonifica, messa
in sicurezza e ripristino ambientale è invece individuato,
sia dall'art. 17, commi 2 e 3, del D.Lgs. 22/1997, che dagli
artt. 7 e 8 del D.M. 471/1999, esclusivamente in colui che
abbia cagionato l'inquinamento.
Ciò è stato reso ancora più evidente dall'art. 8 dal citato
D.M., il quale individua, in conformità all'art. 17, comma
3, nel responsabile dell'inquinamento il destinatario
dell'ordinanza comunale di diffida ad adottare gli
interventi necessari in relazione allo stato di
contaminazione dei suoli, prevedendo invece che la stessa
ordinanza debba essere "comunque notificata anche al
proprietario del sito" ma solo "ai sensi e per gli effetti
dell'articolo 17, commi 10 e 11, del decreto legislativo
05.02.1997, n. 22", e cioè in relazione all'esistenza
dell'onere reale sulle aree inquinate, che deve essere
indicato nel certificato di destinazione urbanistica, ed al
privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime.
Il proprietario del sito a cui non sia imputabile, neppure
in parte, la contaminazione dello stesso, non è pertanto
tenuto né ad attivare di propria iniziativa il procedimento
previsto dall'art. 17 comma 2, né ad ottemperare
all'ordinanza comunale che imponga la bonifica del sito
notificatagli, come si è detto, solo in ragione
dell'esistenza dell'onere reale.
---------------
Il complesso di questa disciplina è rispondente ai dettami
del diritto comunitario ed, in particolare, al principio
“chi inquina paga” che va -come è tradizione nella
giurisprudenza comunitaria– interpretato in senso
sostanzialistico, in modo da non pregiudicare l’efficacia
del diritto comunitario.
Il principio “chi inquina paga” consiste, in definitiva,
nell’imputazione dei costi ambientali (c.d. esternalità
ovvero costi sociali estranei alla contabilità ordinaria
dell’impresa) al soggetto che ha causato la compromissione
ecologica illecita (poiché esiste una compromissione
ecologica lecita data dall’attività di trasformazione
industriale dell’ambiente che non supera gli standards
legali).
Ciò, sia in una logica risarcitoria ex post factum, che in
una logica preventiva dei fatti dannosi, poiché il principio
esprime anche il tentativo di internalizzare detti costi
sociali e di incentivare –per effetto del calcolo dei rischi
di impresa- la loro generalizzata incorporazione nei prezzi
delle merci, e, quindi, nelle dinamiche di mercato dei costi
di alterazione dell’ambiente (con conseguente minor prezzo
delle merci prodotte senza incorrere nei predetti costi
sociali attribuibili alle imprese e conseguente indiretta
incentivazione per le imprese a non danneggiare l’ambiente).
Esso trova molteplici significative applicazioni nel campo
della disciplina dei rifiuti e del danno ambientale.
Con specifico riguardo alla contaminazione dei siti, pare
rilevante quanto stabilito dalla direttiva del Parlamento
europeo e del Consiglio del 21.04.2004, “sulla
responsabilità ambientale in materia di prevenzione e
riparazione del danno ambientale”. Anche tale direttiva è
conformata dal principio “chi inquina paga” che emerge dal
diciottesimo considerando della direttiva: “secondo il
principio “chi inquina paga, l’operatore che provoca un
danno ambientale o è all’origine di una minaccia imminente
di tale danno, dovrebbe di massima sostenere il costo delle
necessarie misure di prevenzione o di riparazione. Quando
l’autorità competente interviene direttamente o tramite
terzi al posto di un operatore, detta autorità dovrebbe far
sì che il costo da essa sostenuto sia a carico
dell’operatore. E’ inoltre opportuno che gli operatori
sostengano in via definitiva il costo della valutazione del
danno ambientale ed eventualmente della valutazione della
minaccia imminente di tale danno.”
La direttiva non si applica al danno di carattere diffuso se
non in presenza di un nesso causale tra il danno e
l’attività di singoli operatori.
Va quindi precisato, alla luce di tale esigenza di
effettività della protezione dell’ambiente, che, ferma la
doverosità degli accertamenti indirizzati ad individuare con
specifici elementi i responsabili dei fatti di
contaminazione, l’imputabilità dell’inquinamento può
avvenire per condotte attive ma anche per condotte omissive,
e che la prova può essere data in via diretta od indiretta,
ossia, in quest’ultimo caso, l’amministrazione pubblica
preposta alla tutela ambientale si può avvalere anche di
presunzioni semplici di cui all’art. 2727 cod. civ, (le
presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice
trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato),
prendendo in considerazione elementi di fatto dai quali
possano trarsi indizi gravi precisi e concordanti, che
inducano a ritenere verosimile, secondo l’“id quod plerumque
accidit” che sia verificato un inquinamento e che questo sia
attribuibile a determinati autori.
Il Collegio, pur dovendo dare atto che nel senso
propugnato dai ricorrenti si è recentemente espressa la
Cassazione (cfr. Sez. I civile 21.10.2011, n. 21887),
ritiene preferibile l’opposta tesi -già recentemente
affermata dalla Sezione (cfr. TAR Brescia, Sez. I,
19.07.2011, n. 1081) e costituente giurisprudenza consolidata
del G.A.- secondo cui la normativa in materia di bonifiche
di cui all'art. 17 d.lgs. 05.02.1997 n. 22 è applicabile
a qualunque situazione di inquinamento ancora in atto al
momento dell'entrata in vigore del decreto legislativo,
indipendentemente dal momento in cui possa essere avvenuto
il fatto o i fatti generatori dell’attuale situazione
patologica (cfr. Cons. St., Sez. VI, 09.10.2007, n. 5283,
TAR Parma, 28.06.2011, n. 218; TAR Toscana; Sez. II 01.04.2011, n. 573). A tale conclusione si deve pervenire, ove
si ponga mente al fatto che l’inquinamento dà luogo ad una
situazione di carattere permanente che perdura finché non
vengano rimosse le cause ed i parametri ambientali alterati
siano riportati entro i limiti normativamente accettabili
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 05.12.2008, n. 6055).
Con riguardo, poi, all’asserzione, fatta dai ricorrenti, che
nel 1975 il riempimento della cava costituisse attività
lecita, in quanto la prima disciplina in tema di discariche
è stata dettata dal D.P.R. n. 915 del 1982, vanno richiamati
i rilievi svolti nella sentenza n. 1081/2011 della Sezione,
con la quale è stato rilevato che <<l’obbligo di messa in
sicurezza e di successiva bonifica è la semplice conseguenza
oggettiva dell’aver cagionato l’inquinamento. Il complesso
delle norme in tema di bonifica non sono altro che
l’applicazione alla materia in esame (si potrebbe dire, la procedimentalizzazione nella materia in esame) della norma
generale dell’art. 2043 c.c. (il cui disposto esiste da
quando esiste il diritto), secondo cui ogni soggetto è
tenuto a reintegrare il danno che abbia cagionato con il
proprio comportamento. Norma generale che, d’altronde, è a
sua volta espressione del principio, ancor più generale, di
responsabilità, in base al quale ciascuno risponde delle
proprie azioni (ed omissioni, naturalmente) (il c.d.
principio comunitario del chi inquina paga ne costituisce
ulteriore specificazione in materia ambientale)>>.
---------------
In punto di diritto è
necessario ripercorrere il sistema normativo delineato dal D.Lgs. n. 22/1997, alla stregua della condivisibile
ricostruzione fattane del Consiglio di Stato (cfr. Sez. VI,
15.07.2010 n. 4561):
<<Il d.lgs. n. 22/1997, applicabile ratione temporis, alle
ordinanze impugnate …prevede che accanto alle responsabilità
dell'inquinatore si collocano, ad ulteriore garanzia
dell'esecuzione degli interventi previsti, quelle del
proprietario del sito inquinato.
La responsabilità dell'inquinatore e quella del proprietario
si fondano su presupposti giuridici diversi ed hanno
differente natura.
La responsabilità dell'autore dell'inquinamento, ai sensi
dell'art. 17, comma 2, del D.Lgs. 22/1997, costituisce una
vera e propria forma di responsabilità oggettiva per gli
obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino
ambientale conseguenti alla contaminazione delle aree
inquinate. La natura oggettiva della responsabilità in
questione è desumibile che l'obbligo di effettuare gli
interventi di legge sorge, in base all'art. 17, comma 2, del
D.Lgs. 22/1997, in connessione con una condotta "anche
accidentale", ossia a prescindere dall'esistenza di
qualsiasi elemento soggettivo doloso o colposo in capo
all'autore dell'inquinamento.
Ai fini della responsabilità in questione è comunque pur
sempre necessario il rapporto di causalità tra l'azione (o
l'omissione) dell'autore dell'inquinamento ed il superamento
-o pericolo concreto ed attuale di superamento- dei limiti
di contaminazione, in coerenza col principio comunitario
"chi inquina paga", principio che risulta espressamente
richiamato dall'art. 15 della direttiva n. 91/156, di cui il D.Lgs. del 1997 costituisce recepimento.
Sensibilmente diversa si presenta invece la posizione del
proprietario del sito, per la responsabilità del quale
occorre fare riferimento al comma 10 dell'art. 17, che
dispone che gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e
ripristino ambientale costituiscono onere reale sulle aree
inquinate; il comma 11 del medesimo articolo dispone poi
altresì che le spese sostenute per la messa in sicurezza, la
bonifica e il ripristino ambientale sono assistite da
privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime,
esercitabile anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai
terzi sull'immobile.
Ne consegue che chi subentra nella proprietà o possesso del
bene subentra anche negli obblighi connessi all'onere reale,
indipendentemente dal fatto che ne abbia avuto preventiva
conoscenza. Quella posta in capo al proprietario dall'art.
17, commi 10 e 11, è pertanto una responsabilità "da
posizione", non solo svincolata dai profili soggettivi del
dolo o della colpa, ma che non richiede neppure l'apporto
causale del proprietario responsabile al superamento o
pericolo di superamento dei valori limite di contaminazione.
È quindi evidente che il proprietario del suolo -che non
abbia apportato alcun contributo causale, neppure
incolpevole, all'inquinamento- non si trova in alcun modo
in una posizione analoga od assimilabile a quella
dell'inquinatore, essendo tenuto a sostenere i costi
connessi agli interventi di bonifica esclusivamente in
ragione dell'esistenza dell'onere reale sul sito.
Il responsabile diretto e principale della bonifica, messa
in sicurezza e ripristino ambientale è invece individuato,
sia dall'art. 17, commi 2 e 3, del D.Lgs. 22/1997, che dagli
artt. 7 e 8 del D.M. 471/1999, esclusivamente in colui che
abbia cagionato l'inquinamento.
Ciò è stato reso ancora più evidente dall'art. 8 dal citato
D.M., il quale individua, in conformità all'art. 17, comma
3, nel responsabile dell'inquinamento il destinatario
dell'ordinanza comunale di diffida ad adottare gli
interventi necessari in relazione allo stato di
contaminazione dei suoli, prevedendo invece che la stessa
ordinanza debba essere "comunque notificata anche al
proprietario del sito" ma solo "ai sensi e per gli effetti
dell'articolo 17, commi 10 e 11, del decreto legislativo 05.02.1997, n. 22", e cioè in relazione all'esistenza
dell'onere reale sulle aree inquinate, che deve essere
indicato nel certificato di destinazione urbanistica, ed al
privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime.
Il proprietario del sito a cui non sia imputabile, neppure
in parte, la contaminazione dello stesso, non è pertanto
tenuto né ad attivare di propria iniziativa il procedimento
previsto dall'art. 17 comma 2, né ad ottemperare
all'ordinanza comunale che imponga la bonifica del sito
notificatagli, come si è detto, solo in ragione
dell'esistenza dell'onere reale (C.d.S. n. 4525/2005)>>.
Ancora, è stato posto in luce dal Supremo Consesso
Amministrativo (cfr. Sez. V, 16.06.2009 n. 3885) che: <<Il
complesso di questa disciplina è rispondente ai dettami del
diritto comunitario ed, in particolare, al principio “chi
inquina paga” che va -come è tradizione nella
giurisprudenza comunitaria– interpretato in senso
sostanzialistico, in modo da non pregiudicare l’efficacia
del diritto comunitario (per un richiamo all’effettività
come criterio guida nell’interpretazione del diritto
comunitario ambientale cfr. Corte di giustizia Ce 15.06.2000 in causa Arco).
Il principio “chi inquina paga” consiste, in definitiva,
nell’imputazione dei costi ambientali (c.d. esternalità
ovvero costi sociali estranei alla contabilità ordinaria
dell’impresa) al soggetto che ha causato la compromissione
ecologica illecita (poiché esiste una compromissione
ecologica lecita data dall’attività di trasformazione
industriale dell’ambiente che non supera gli standards
legali).
Ciò, sia in una logica risarcitoria ex post factum, che in
una logica preventiva dei fatti dannosi, poiché il principio
esprime anche il tentativo di internalizzare detti costi
sociali e di incentivare –per effetto del calcolo dei
rischi di impresa- la loro generalizzata incorporazione nei
prezzi delle merci, e, quindi, nelle dinamiche di mercato
dei costi di alterazione dell’ambiente (con conseguente
minor prezzo delle merci prodotte senza incorrere nei
predetti costi sociali attribuibili alle imprese e
conseguente indiretta incentivazione per le imprese a non
danneggiare l’ambiente).
Esso trova molteplici significative applicazioni nel campo
della disciplina dei rifiuti e del danno ambientale.
Con specifico riguardo alla contaminazione dei siti, pare
rilevante quanto stabilito dalla direttiva del Parlamento
europeo e del Consiglio del 21.04.2004, “sulla
responsabilità ambientale in materia di prevenzione e
riparazione del danno ambientale”. Anche tale direttiva è
conformata dal principio “chi inquina paga” che emerge dal
diciottesimo considerando della direttiva: “secondo il
principio “chi inquina paga, l’operatore che provoca un
danno ambientale o è all’origine di una minaccia imminente
di tale danno, dovrebbe di massima sostenere il costo delle
necessarie misure di prevenzione o di riparazione. Quando
l’autorità competente interviene direttamente o tramite
terzi al posto di un operatore, detta autorità dovrebbe far
sì che il costo da essa sostenuto sia a carico
dell’operatore. E’ inoltre opportuno che gli operatori
sostengano in via definitiva il costo della valutazione del
danno ambientale ed eventualmente della valutazione della
minaccia imminente di tale danno.”
La direttiva non si applica al danno di carattere diffuso –ma tale non è il caso di specie- se non in presenza di un
nesso causale tra il danno e l’attività di singoli
operatori.
Va quindi precisato, alla luce di tale esigenza di
effettività della protezione dell’ambiente, che, ferma la
doverosità degli accertamenti indirizzati ad individuare con
specifici elementi i responsabili dei fatti di
contaminazione, l’imputabilità dell’inquinamento può
avvenire per condotte attive ma anche per condotte omissive,
e che la prova può essere data in via diretta od indiretta,
ossia, in quest’ultimo caso, l’amministrazione pubblica
preposta alla tutela ambientale si può avvalere anche di
presunzioni semplici di cui all’art. 2727 cod. civ, (le
presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice
trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato),
prendendo in considerazione elementi di fatto dai quali
possano trarsi indizi gravi precisi e concordanti, che
inducano a ritenere verosimile, secondo l’“id quod
plerumque accidit” che sia verificato un inquinamento e che
questo sia attribuibile a determinati autori.>> (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza
21.01.2013 n. 50 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’'istituto
della conferenza di servizi -disciplinato dagli artt. 14
ss., l. 07.08.1990 n. 241- è caratterizzato da una struttura
dicotomica, articolata in una fase che si conclude con la
determinazione della conferenza (anche se di tipo
decisorio), di valenza endoprocedimentale, e in una
successiva fase che si conclude con l'adozione del
provvedimento finale, di valenza esoprocedimentale
effettivamente determinativa della fattispecie.
Invero, secondo il
preferibile maggioritario indirizzo giurisprudenziale (cfr.
ex multis TAR Lazio, Sez. 2, 04.09.2012, n. 7533;
TAR Sardegna, Sez. II 15.09.2011, n. 929; Cons. St.
Sez. VI 18.04.2011 n. 2378), l’'istituto della conferenza di
servizi -disciplinato dagli artt. 14 ss., l. 07.08.1990
n. 241- è caratterizzato da una struttura dicotomica,
articolata in una fase che si conclude con la determinazione
della conferenza (anche se di tipo decisorio), di valenza endoprocedimentale, e in una successiva fase che si conclude
con l'adozione del provvedimento finale, di valenza
esoprocedimentale effettivamente determinativa della
fattispecie.
Pertanto, risulta inammissibile il ricorso proposto
direttamente avverso il verbale della conferenza di servizi (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza
21.01.2013 n. 50 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: In
sede giurisdizionale è possibile l’annullamento parziale di
un provvedimento amministrativo quando quest'ultimo abbia un
contenuto scindibile ed il vizio denunciato riguardi solo
una parte di esso, che conseguentemente possa essere
eliminata lasciando che il provvedimento continui, per la
parte residua, ad esplicare i propri effetti, sempre che la
parte eliminata non alteri o snaturi il contenuto dell’atto.
Si tratta dunque di fare applicazione del generale principio
di conservazione degli atti giuridici (che trova eco nel
brocardo utile per inutile non vitiatur), che è applicabile
anche al diritto amministrativo in quanto conforme ai
principi di legalità, imparzialità e buon andamento
dell’azione amministrativa espressi dall’articolo 97 della
Costituzione: infatti, sarebbe irragionevole ed illogico
annullare interamente un provvedimento amministrativo quando
soltanto una parte di esso è viziata ed il vizio non ha
effetti invalidanti su tutti gli effetti che esso è
destinato a produrre.
In generale, occorre
rammentare (cfr. Cons. St, Sez. IV, 17.07.1996, n. 869;
TAR Napoli. Sez. V, 02.08.2001 n. 3690) che in sede
giurisdizionale è possibile l’annullamento parziale di un
provvedimento amministrativo quando quest'ultimo abbia un
contenuto scindibile ed il vizio denunciato riguardi solo
una parte di esso, che conseguentemente possa essere
eliminata lasciando che il provvedimento continui, per la
parte residua, ad esplicare i propri effetti, sempre che la
parte eliminata non alteri o snaturi il contenuto dell’atto
(cfr. Cons. St., Sez. V, 03.10.1989, n. 592).
Si tratta dunque di fare applicazione del generale principio
di conservazione degli atti giuridici (che trova eco nel
brocardo utile per inutile non vitiatur), che è
applicabile anche al diritto amministrativo in quanto
conforme ai principi di legalità, imparzialità e buon
andamento dell’azione amministrativa espressi dall’articolo
97 della Costituzione: infatti, sarebbe irragionevole ed
illogico annullare interamente un provvedimento
amministrativo quando soltanto una parte di esso è viziata
ed il vizio non ha effetti invalidanti su tutti gli effetti
che esso è destinato a produrre
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza
21.01.2013 n. 50 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’avvenuta
equiparazione, ad opera dell’art. 86 del D.lgs. 259/2003,
alle opere di urbanizzazione primaria degli impianti di
telecomunicazione non priva l’Ente locale della prerogativa
di esercitare il potere di pianificazione anche nei riguardi
di detti impianti, sempre che, anche per l’aspetto
urbanistico, le misure previste non impediscano, in ragione
della loro eventuale portata restrittiva, l’attuarsi
dell’interesse, di rilievo nazionale, alla capillare
distribuzione del servizio.
Le stazioni radio-base per la telefonia mobile non possono,
infatti, essere considerate opere di scarsa "rilevanza
urbanistica", trattandosi, anzi, assai spesso di strutture
imponenti idonee a determinare una significativa
trasformazione della morfologia di un determinato
territorio, tant’è che è che lo stesso DPR 380/2001 sancisce
expressis verbis che la loro realizzazione deve essere
subordinata al previo ottenimento di un titolo edilizio.
---------------
La qualificazione nell’ambito di tale categoria non
comporta, infatti, la esenzione da ogni forma di
regolamentazione urbanistica, ma soltanto il fatto che la
disciplina del piano regolatore debba tener presente la
necessità che tutto il territorio comunale debba essere
coperto da un segnale sufficiente affinché che gli utenti
possano fruire del servizio di telefonia e collegarsi con la
rete ad una velocità adeguata agli standard odierni.
Sicché, mentre debbono considerarsi illegittime quelle
previsioni urbanistiche che precludono in toto
l’installazione delle s.r.b. in intere zone del territorio
comunale o in altro modo ostacolano il corretto svolgimento
del servizio, non altrettanto può dirsi di quelle previsioni
localizzative che, nel disciplinare la collocazione sul
territorio dei predetti impianti, non presentino elementi di
irragionevolezza e arbitrarietà tali da costituire un
ingiustificato ostacolo allo sviluppo della rete.
La giurisprudenza amministrativa ha,
infatti, avuto modo di statuire come l’avvenuta
equiparazione, ad opera dell’art. 86 del citato
D.lgs. 259/2003, alle opere di urbanizzazione primaria degli
impianti di telecomunicazione non priva l’Ente locale della
prerogativa di esercitare il potere di pianificazione anche
nei riguardi di detti impianti, sempre che, anche per
l’aspetto urbanistico, le misure previste non impediscano,
in ragione della loro eventuale portata restrittiva,
l’attuarsi dell’interesse, di rilievo nazionale, alla
capillare distribuzione del servizio.
Le stazioni radio-base per la telefonia mobile non
possono, infatti, essere considerate opere di scarsa
"rilevanza urbanistica", trattandosi, anzi, assai spesso di
strutture imponenti idonee a determinare una significativa
trasformazione della morfologia di un determinato
territorio, tant’è che è che lo stesso DPR 380/2001 sancisce
expressis verbis che la loro realizzazione deve essere
subordinata al previo ottenimento di un titolo edilizio.
Chiarito ciò a nulla rileva che si tratti di opere di
urbanizzazione.
La qualificazione nell’ambito di tale categoria non
comporta, infatti, la esenzione da ogni forma di
regolamentazione urbanistica, ma soltanto il fatto che la
disciplina del piano regolatore debba tener presente la
necessità che tutto il territorio comunale debba essere
coperto da un segnale sufficiente affinché che gli utenti
possano fruire del servizio di telefonia e collegarsi con la
rete ad una velocità adeguata agli standard odierni.
Sicché, mentre debbono considerarsi illegittime quelle
previsioni urbanistiche che precludono in toto
l’installazione delle s.r.b. in intere zone del territorio
comunale o in altro modo ostacolano il corretto svolgimento
del servizio, non altrettanto può dirsi di quelle previsioni
localizzative che, nel disciplinare la collocazione sul
territorio dei predetti impianti, non presentino elementi di
irragionevolezza e arbitrarietà tali da costituire un
ingiustificato ostacolo allo sviluppo della rete (Consiglio
di Stato Sezione VI nn. 3040/2005 e 6961/2005; TAR Toscana
sez. I, 05.03.2007, n. 285)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 18.01.2013 n. 164 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’art.
9, comma 1, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444 detta una
prescrizione tassativa e inderogabile, in quanto finalizzata
alla salvaguardia dell'interesse pubblico sanitario a
mantenere una determinata intercapedine tra gli edifici che
si fronteggiano quando uno dei due abbia una parete
finestrata.
La norma -emanata in forza dell'art. 41-quinquies l.
17.08.1942 n. 1150, aggiunto dall'art. 17 l. 06.08.1967 n.
765– è dettata in materia inerente all'ordinamento civile,
rientrante, come tale, nella competenza legislativa
esclusiva dello Stato: essa non può, pertanto, trovare un
limite nella classificazione -differente rispetto a quella
prevista dall’art. 2 del d.m. n. 1444/1968- delle zone
omogenee in cui è articolato il territorio comunale
delineata all’art. 10, l.reg. Lombardia n. 12/2005, pena
l’incostituzionalità della legge regionale stessa.
---------------
L’art. 103, c. 1-bis, l.reg. Lombardia n. 12/2005, inserito
dalla l.reg. Lombardia n. 4/2008, dispone che “Ai fini
dell'adeguamento, ai sensi dell'articolo 26, commi 2 e 3,
degli strumenti urbanistici vigenti, non si applicano le
disposizioni del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444
(Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di
distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi
destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e
spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al
verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della
formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione
di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge
06.08.1967, n. 765), fatto salvo, limitatamente agli
interventi di nuova costruzione, il rispetto della distanza
minima tra fabbricati pari a dieci metri, derogabile
all'interno di piani attuativi”.
Questa norma deve essere interpretata conformemente a quanto
sostenuto dalla giurisprudenza, nel senso che rientrano
nella nozione di nuova costruzione ai fini del computo delle
distanze legali dagli altri edifici, non solo l'edificazione
di un manufatto su un'area libera, ma anche interventi,
quali quelli di ristrutturazione che, in ragione dell'entità
delle modifiche apportate al volume e alla collocazione del
fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso
oggettivamente diversa da quella preesistente.
L’art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 02.04.1968 n.
1444 prescrive che la distanza tra pareti finestrate di
edifici frontisti non sia inferiore a dieci metri per le
nuove edificazioni consentite in zone diverse dal centro
storico (zona A), posto che in questo ultimo -dove vige il
generale divieto di costruzioni "ex novo"- la norma si
limita a disporre che la distanza non sia inferiore a quella
intercorrente tra i volumi edificati preesistenti.
Per giurisprudenza unanime, la norma detta una prescrizione
tassativa e inderogabile, in quanto finalizzata alla
salvaguardia dell'interesse pubblico sanitario a mantenere
una determinata intercapedine tra gli edifici che si
fronteggiano quando uno dei due abbia una parete finestrata
(Cassazione civile sez. II, 27.05.2011, n. 11842).
La norma -emanata in forza dell'art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, aggiunto dall'art. 17 l.
06.08.1967
n. 765– è dettata in materia inerente all'ordinamento
civile, rientrante, come tale, nella competenza legislativa
esclusiva dello Stato: essa non può, pertanto, trovare un
limite nella classificazione -differente rispetto a quella
prevista dall’art. 2 del d.m. n. 1444/1968- delle zone
omogenee in cui è articolato il territorio comunale
delineata all’art. 10, l.reg. Lombardia n. 12/2005, pena
l’incostituzionalità della legge regionale stessa.
Nel caso di specie, l’immobile non ricade nel centro storico
né all’interno del nucleo urbano di antica formazione (aree
in cui la facoltà di ampliamento in questione non è neppure
consentita dall’art. 3, c. 1, l.reg. Lombardia n. 13/2009),
zone che possono ritenersi corrispondenti alla zona A di cui
al d.m. n. 1444/1968: esso soggiace, pertanto alla norma
sulle distanze dettata all’art. 9, c. 1, n. 2.
Né, per escludere l’applicabilità della norma del d.m.
1444/1968 al caso di specie, può validamente invocarsi la
previsione di cui all’art. 103, l.reg. Lombardia n. 12/2005
e la qualificazione dell’intervento quale ristrutturazione e
non quale nuova costruzione.
L’art. 103, c. 1-bis, l.reg. Lombardia n. 12/2005, inserito
dalla l.reg. Lombardia n. 4/2008, dispone che “Ai fini
dell'adeguamento, ai sensi dell'articolo 26, commi 2 e 3,
degli strumenti urbanistici vigenti, non si applicano le
disposizioni del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444
(Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di
distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi
destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e
spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al
verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della
formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione
di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765), fatto salvo, limitatamente agli
interventi di nuova costruzione, il rispetto della distanza
minima tra fabbricati pari a dieci metri, derogabile
all'interno di piani attuativi”.
Questa norma deve essere interpretata conformemente a quanto
sostenuto dalla giurisprudenza, nel senso che rientrano
nella nozione di nuova costruzione ai fini del computo delle
distanze legali dagli altri edifici, non solo l'edificazione
di un manufatto su un'area libera, ma anche interventi,
quali quelli di ristrutturazione che, in ragione dell'entità
delle modifiche apportate al volume e alla collocazione del
fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso
oggettivamente diversa da quella preesistente (cfr.: cass.
civ., sez. 2, sent. 27.04.2006, n. 9637; cass. civ.,
sez. 2, sent. 26.10.2000, n. 14128; TAR Milano
Lombardia sez. II, 10.12.2010, n. 7505).
L’intervento edilizio in questione, che prevede
l’ampliamento, entro il limite del 20% della volumetria
esistente, così come consentito dall’art. 3, c. 1 e 2, l.reg. Lombardia n. 13/2009, a prescindere dalla sua
qualificazione quale nuova costruzione o quale
ristrutturazione edilizia, porta indubbiamente alla
realizzazione di un’opera oggettivamente diversa da quella
preesistente: esso soggiace, pertanto, al limite di distanza
previsto all’art. 9, c. 1, n. 2, d.m. n. 1444/1968.
Attesa la legittimità del motivo di diniego legato al
contrasto con l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, gli ulteriori
motivi di ricorso –che si appuntano avverso le altre ragioni
di diniego addotte dall’amministrazione- anche ove fondati,
non porterebbero comunque all’annullamento dell’atto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.01.2013 n. 157 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: In
presenza di un provvedimento sostenuto da più motivi,
ciascuno autonomamente idoneo a darne giustificazione, la
giurisprudenza è, difatti, concorde nel ritenere sufficiente
che sia verificata la legittimità di uno di essi, per
escludere che l’atto possa essere annullato in sede
giurisdizionale.
In presenza di un provvedimento sostenuto da più motivi,
ciascuno autonomamente idoneo a darne giustificazione, la
giurisprudenza è, difatti, concorde nel ritenere sufficiente
che sia verificata la legittimità di uno di essi, per
escludere che l’atto possa essere annullato in sede
giurisdizionale (Cons. Stato , sez. V, 29.05.2006, n. 3259)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.01.2013 n. 157 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
Sezione ha già avuto modo di rilevare che:
a) “la verifica circa il mancato rispetto della distanza dal
confine di proprietà private non costituisce incombente
istruttorio, atteso che le stazioni radio base, per le loro
caratteristiche strutturali, non paiono equiparabili alle
costruzioni ex art. 873 del codice civile, e che, di
conseguenza, l’onere di contestazione sullo specifico
profilo incombe sul proprietario privato eventualmente
leso”, quest’ultimo risultando l’unico legittimato attivo a
proporre la relativa azione;
b) in merito al rapporto tra i criteri di localizzazione e
gli standard urbanistici, la giurisprudenza costituzionale
ha statuito che “la genericità ed eterogeneità delle
categorie di aree e di edifici rispetto a cui il vincolo di
distanza minima viene previsto, configurano non già un
quadro di prescrizioni o standard urbanistici, bensì un
potere amministrativo in contrasto con il principio di
legalità sostanziale e tale da poter pregiudicare
l’interesse, protetto dalla legislazione nazionale, alla
realizzazione delle reti di telecomunicazione”.
---------------
In tema di distanze nelle costruzioni, qualora gli strumenti
urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine e
nulla aggiungano sulla possibilità di costruire “in
aderenza” o “in appoggio”, la preclusione di dette facoltà
non consente l’operatività del principio della prevenzione;
nel caso in cui, invece, tali facoltà siano previste, si
versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata
dall’articolo 873 c.c. e segg., con la conseguenza che è
consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il
vicino, che intenda a sua volta edificare, nell’alternativa
di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza
(eventualmente esercitando le opzioni previste dall’articolo
875 c.c. e articolo 877 c.c., comma 2), ovvero di arretrare
la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera
distanza imposta dallo strumento urbanistico.
Di qui la funzione e la rilevanza della deroga, diretta a
consentire l’esercizio delle predette facoltà che,
diversamente, sarebbero precluse dalla regola ordinaria
sulle distanze dal confine e tra fabbricati.
Con il terzo, quarto e quinto motivo –anche questi da
esaminare congiuntamente, in quanto incentrati sulla
violazione delle medesime disposizioni– la società
ricorrente ha dedotto che le caratteristiche costruttive e
dimensionali dello shelter (si tratta della cabina adibita
al contenimento degli apparati di trasmissione e ricezione
dei segnali telefonici) e la distanza di tale pertinenza dal
vicino magazzino non sarebbero ostative alla legittima
realizzazione della stazione radio-base (cfr. pag. 9); che
non vi sarebbe violazione della disciplina delle distanze
alla luce dell’assenza di intersoggettività (“vale a dire
dalla diversa proprietà dei due edifici”, cfr. pag. 10);
che, infine, le norme sul rispetto delle distanze non
sarebbero “automaticamente né analogicamente applicabili
agli impianti di telefonìa cellulare che hanno peculiarità e
caratteristiche costruttive tali da imporne una separata
valutazione” (cfr. pag. 12).
Sul punto, il Comune di Cesano Maderno ha replicato che
l’art. 9 del D.M. 1444/1968 per i nuovi edifici stabilisce
che “è prescritta in tutti i casi la distanza minima
assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti” (cfr. pag. 12).
Anche tali motivi meritano accoglimento, per tre diverse
ragioni.
In primo luogo, la Sezione (cfr. ordinanza TAR Lombardia–Milano, sez. I,
06.12.2012, n. 1681), ha già avuto modo
di rilevare che:
a) “la verifica circa il mancato rispetto della distanza dal
confine di proprietà private non costituisce incombente
istruttorio, atteso che le stazioni radio base, per le loro
caratteristiche strutturali, non paiono equiparabili alle
costruzioni ex art. 873 del codice civile, e che, di
conseguenza, l’onere di contestazione sullo specifico
profilo incombe sul proprietario privato eventualmente
leso”, quest’ultimo risultando l’unico legittimato attivo a
proporre la relativa azione (Corte di Cassazione, sez. II,
11.01.2006, n. 213);
b) in merito al rapporto tra i criteri di localizzazione e
gli standard urbanistici, la giurisprudenza costituzionale
ha statuito che “la genericità ed eterogeneità delle
categorie di aree e di edifici rispetto a cui il vincolo di
distanza minima viene previsto, configurano non già un
quadro di prescrizioni o standard urbanistici, bensì un
potere amministrativo in contrasto con il principio di
legalità sostanziale e tale da poter pregiudicare
l’interesse, protetto dalla legislazione nazionale, alla
realizzazione delle reti di telecomunicazione” (cfr. Corte
Costituzionale, 07.10.2003, n. 307).
In seconda battuta, osserva il Collegio che l’art. 40 del
regolamento edilizio, pur fissando il rispetto di una
distanza minima di 10 metri tra le costruzioni, ha nondimeno
previsto che “i privati possono convenzionare tra loro la
costruzione in aderenza, a confine”.
Trova, pertanto, applicazione il principio, di recente
ribadito dalla Corte di Cassazione, secondo cui “in tema di
distanze nelle costruzioni, qualora gli strumenti
urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine e
nulla aggiungano sulla possibilità di costruire “in
aderenza” o “in appoggio”, la preclusione di dette facoltà
non consente l’operatività del principio della prevenzione;
nel caso in cui, invece, tali facoltà siano previste, si
versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata
dall’articolo 873 c.c. e segg., con la conseguenza che è
consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il
vicino, che intenda a sua volta edificare, nell’alternativa
di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza
(eventualmente esercitando le opzioni previste dall’articolo
875 c.c. e articolo 877 c.c., comma 2), ovvero di arretrare
la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera
distanza imposta dallo strumento urbanistico (Cass. nn.
8465/2010, 11899/2002, 13286/2000 e 12103/1998). Di qui la funzione
e la rilevanza della deroga, diretta a consentire
l’esercizio delle predette facoltà che, diversamente,
sarebbero precluse dalla regola ordinaria sulle distanze dal
confine e tra fabbricati” (cfr. Corte di Cassazione, sez. II,
12.10.2012, n. 17472)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 16.01.2013 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Gli
impianti radio-base di telefonia mobile di potenza totale
non superiore a 300 Watt non richiedono, in ossequio al
disposto della normativa della regione Lombardia, specifica
regolamentazione urbanistica, per cui sono illegittime le
disposizioni pianificatorie comunali che introducano in
termini assoluti divieti di installazione per simili
impianti.
---------------
E' da escludere che il gestore del servizio di telefonia
mobile abbia la necessità di ottenere un ulteriore titolo
edilizio, diverso dall’autorizzazione ex d.lgs. n. 259/2003.
Invero, come già più volte ribadito anche
dalla giurisprudenza di questa Sezione, gli impianti
radio-base di telefonia mobile di potenza totale non
superiore a 300 Watt (come quello di cui è causa) non
richiedono, in ossequio al disposto della normativa della
regione Lombardia, specifica regolamentazione urbanistica,
per cui sono illegittime le disposizioni pianificatorie
comunali che introducano in termini assoluti divieti di
installazione per simili impianti (cfr., da ultimo: TAR
Lombardia, sez. I, sent. 23.10.2012, n. 2567).
Risulta altresì fondata l’affermazione della ricorrente
secondo cui avrebbe errato il comune di Lodi a pretendere,
nel caso di specie, una d.i.a. in forma di variante alla
concessione edilizia originaria, in quanto è da escludere
che il gestore del servizio di telefonia mobile abbia la
necessità di ottenere un ulteriore titolo edilizio, diverso
dall’autorizzazione ex d.lgs. n. 259/2003 (così, tra le
altre, Cons. di Stato, sez. VI, 12.01.2011, n. 98)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 16.01.2013 n. 134 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: La
Corte di Giustizia ha manifestato preferenza per un
approccio sostanzialista in tema di raggruppamenti
temporanei di imprese e, per logica estensione, riguardo ai
raggruppamenti temporanei di professionisti, specificando,
con riguardo all’istituto dell’avvalimento, ma con ricadute
di carattere sistematico sul piano generale, che “la
direttiva 92/50 va interpretata nel senso che consente ad un
prestatore, per comprovare il possesso dei requisiti
economici, finanziari e tecnici di partecipazione ad una
gara d'appalto ai fini dell'aggiudicazione di un appalto
pubblico di servizi, di far riferimento alle capacità di
altri soggetti, qualunque sia la natura giuridica dei
vincoli che ha con essi, a condizione che sia in grado di
provare di disporre effettivamente dei mezzi di tali
soggetti necessari all'esecuzione dell'appalto”.
Il Collegio muove, anzitutto, dal
principio di libertà di scelta delle forme di collaborazione
tra imprese, che costituisce diretta derivazione del diritto
comunitario e rappresenta, pertanto, il canone di
interpretazione dell’art. 53 del D.lgs. 163/2006, norma da
leggere nel senso del pieno riconoscimento della facoltà di
articolare liberamente i rapporti professionali tra
concorrenti e progettisti.
A tal riguardo, occorre, infatti, richiamare l’elaborazione
giurisprudenziale della Corte di Giustizia, che ha
manifestato preferenza per un approccio sostanzialista in
tema di raggruppamenti temporanei di imprese e, per logica
estensione, riguardo ai raggruppamenti temporanei di
professionisti, specificando, con riguardo all’istituto
dell’avvalimento, ma con ricadute di carattere sistematico
sul piano generale, che “la direttiva 92/50 va interpretata
nel senso che consente ad un prestatore, per comprovare il
possesso dei requisiti economici, finanziari e tecnici di
partecipazione ad una gara d'appalto ai fini
dell'aggiudicazione di un appalto pubblico di servizi, di
far riferimento alle capacità di altri soggetti, qualunque
sia la natura giuridica dei vincoli che ha con essi, a
condizione che sia in grado di provare di disporre
effettivamente dei mezzi di tali soggetti necessari
all'esecuzione dell'appalto” (cfr. Corte giustizia CE, sez.
V, 02.12.1999, C-176/98).
Sulla scorta di tale principio ermeneutico, il Collegio si
associa all’orientamento, reiteratamente affermato in
giurisprudenza (cfr., tra le tante, TAR Lazio – Roma, sez.
I, 17.04.2008 n. 3305), e fatto proprio dalle società
ricorrenti in via principale, secondo cui i progettisti non
assumono la qualità di concorrenti, né quella di titolari
del rapporto contrattuale con l’Amministrazione in caso di
eventuale aggiudicazione.
Non può, quindi, ritenersi compatibile con la disciplina
comunitaria, improntata al visto principio di
liberalizzazione delle forme di collaborazione
professionale, l’interpretazione restrittiva dell’art. 37,
comma 8, sostenuta dalla ricorrente incidentale, non
potendosi in alcun modo giustificare l’eventuale esclusione
dalla procedura di gara per mancanza della dichiarazione “D”
(cfr. pag. 7 del disciplinare di gara) relativa all’impegno
dei professionisti ad impegnarsi a costituire un
raggruppamento per l’esecuzione dei servizi di
progettazione: previsione che, pur prevedendo la
comminatoria di esclusione, deve considerarsi come non
apposta per contrasto diretto con il diritto comunitario.
Le medesime considerazioni conducono il Collegio a ritenere
infondato anche il secondo motivo del ricorso incidentale,
nel quale è stata dedotta la mancata indicazione, nella
documentazione amministrativa delle ricorrenti principali,
del professionista laureato con meno di cinque anni di
iscrizione all’albo professionale.
E ciò, non soltanto in ragione della tradizionale
interpretazione della disposizione di cui all’art. 253,
comma 5, del D.P.R. 207/2010 (e, prima di questa, dell’art.
51 del D.P.R. 554/1999), finalizzata a promuovere la
partecipazione dei giovani professionisti onde garantire a
questi la possibilità di svolgere “un utile apprendistato
e arricchire il proprio bagaglio curricolare” (cfr.
Consiglio di Stato, sez. V, 24.10.2006, n. 6347), quanto,
altresì, in esito all’esame obiettivo della disciplina di
gara
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 16.01.2013 n. 128 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Va
considerata “illegittima l’ordinanza di sgombero di rifiuti
rivolta al proprietario del fondo [e, a maggior ragione, ad
altro soggetto], in mancanza di adeguata dimostrazione da
parte dell’Amministrazione procedente dell’imputabilità
soggettiva della condotta, ancorché fondata su ragionevoli
presunzioni o su condivisibili massime d’esperienza, atteso
che, ai sensi dell’art. 192, d.lgs. 03.04.2006 n. 152, la
responsabilità [in tale ambito] non è di natura oggettiva,
ma è ravvisabile soltanto se l’Amministrazione dimostri la
sussistenza dell’elemento psicologico di dolo o colpa alla
base della condotta omissiva o commissiva”.
Come già sostenuto da questa Sezione con
riferimento alla medesima questione, va considerata
“illegittima l’ordinanza di sgombero di rifiuti rivolta al
proprietario del fondo [e, a maggior ragione, ad altro
soggetto], in mancanza di adeguata dimostrazione da parte
dell’Amministrazione procedente dell’imputabilità soggettiva
della condotta, ancorché fondata su ragionevoli presunzioni
o su condivisibili massime d’esperienza, atteso che, ai
sensi dell’art. 192, d.lgs. 03.04.2006 n. 152, la
responsabilità [in tale ambito] non è di natura oggettiva,
ma è ravvisabile soltanto se l’Amministrazione dimostri la
sussistenza dell’elemento psicologico di dolo o colpa alla
base della condotta omissiva o commissiva” (TAR
Lombardia, Milano, IV, 14.12.2012, n. 3042).
Nel caso di specie i rifiuti sono stati rinvenuti sull’area
di proprietà di un soggetto diverso dalla ricorrente, che ha
soltanto prestato la sua opera per conto del proprietario, e
tale area è situata nelle vicinanze di una piazzola
ecologica il cui accesso non risulta adeguatamente
regolamentato, con la conseguente maggiore difficoltà ad
individuare una responsabilità da parte di soggetti ben
specifici
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza
14.01.2013 n. 93 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
L’ordinamento
sovranazionale recepito dalla Repubblica, anche a fronte
della sopravvenuta irreversibile trasformazione del suolo
per effetto della realizzazione di un’opera pubblica
astrattamente riconducibile al compendio demaniale
necessario e nonostante l’espressa domanda in tal senso di
parte ricorrente, esclude la possibilità di una condanna
puramente risarcitoria a carico dell’amministrazione, poiché
una tale pronuncia postula l’avvenuto trasferimento della
proprietà del bene, per fatto illecito, dalla sfera
giuridica del ricorrente, originario proprietario, a quella
della P.A. che se ne è illecitamente impossessata; esito,
questo (comunque sia ricostruito in diritto: rinuncia
abdicativa implicita nella domanda solo risarcitoria, ovvero
accessione invertita), vietato dal primo protocollo
addizionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo
e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo.
Né la realizzazione dell’opera pubblica può costituire
impedimento alla restituzione dell’area illegittimamente
appresa e ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione
acquisitiva od usurpativa- di acquisizione del terreno.
Donde la necessità in ogni caso di un passaggio intermedio
finalizzato all’acquisto della proprietà del bene da parte
dell’ente espropriante.
Nel merito della controversia, occorre muovere dal mancato
perfezionamento della procedura espropriativa nel termine
dato e dall’irreversibile trasformazione dei beni occupati,
denunciata sin dal momento introduttivo del giudizio dinanzi
al giudice ordinario.
Orbene, osserva il collegio che l’ordinamento sovranazionale
recepito dalla Repubblica, anche a fronte della sopravvenuta
irreversibile trasformazione del suolo per effetto della
realizzazione di un’opera pubblica astrattamente
riconducibile al compendio demaniale necessario e nonostante
l’espressa domanda in tal senso di parte ricorrente, esclude
la possibilità di una condanna puramente risarcitoria a
carico dell’amministrazione, poiché una tale pronuncia
postula l’avvenuto trasferimento della proprietà del bene,
per fatto illecito, dalla sfera giuridica del ricorrente,
originario proprietario, a quella della P.A. che se ne è
illecitamente impossessata; esito, questo (comunque sia
ricostruito in diritto: rinuncia abdicativa implicita nella
domanda solo risarcitoria, ovvero accessione invertita),
vietato dal primo protocollo addizionale della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. Cons. Stato, Sez.
IV, 03.10.2012 n. 5189).
Né la realizzazione dell’opera pubblica può costituire
impedimento alla restituzione dell’area illegittimamente
appresa e ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione
acquisitiva od usurpativa- di acquisizione del terreno
(cfr. C. cost. 04.10.2010 n. 293; Cons. Stato, Sez. V, 02.11.2011 n. 5844).
Donde la necessità in ogni caso di un passaggio intermedio
finalizzato all’acquisto della proprietà del bene da parte
dell’ente espropriante (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16.11.2007 n. 5830; TAR Campania, Salerno, Sez. II, 14.01.2011 n. 43).
Tale passaggio, allo stato della legislazione vigente, è
costituito dall’art. 42-bis del T.U. 08.06.2001 n. 327
(rubricato: “utilizzazione senza titolo di un bene per scopi
di interesse pubblico”), introdotto dall’art. 34 del
decreto-legge 06.07.2011 n. 98, che così recita:
“1. Valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che
utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico,
modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento
di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può
disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al
suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia
corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e
non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente liquidato
nella misura del dieci per cento del valore venale del bene.
2. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato
anche quando sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il
vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia
dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di
esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere
adottato anche durante la pendenza di un giudizio per
l’annullamento degli atti di cui al primo periodo del
presente comma, se l’amministrazione che ha adottato l’atto
impugnato lo ritira. In tali casi, le somme eventualmente
già erogate al proprietario a titolo di indennizzo,
maggiorate dell’interesse legale, sono detratte da quelle
dovute ai sensi del presente articolo.
3. Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti,
l’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma
1 è determinato in misura corrispondente al valore venale
del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se
l’occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base
delle disposizioni dell’articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7.
Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a
titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non
risulta la prova di una diversa entità del danno,
l’interesse del cinque per cento annuo sul valore
determinato ai sensi del presente comma.
4. Il provvedimento di acquisizione, recante l’indicazione
delle circostanze che hanno condotto alla indebita
utilizzazione dell’area e se possibile la data dalla quale
essa ha avuto inizio, è specificamente motivato in
riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse
pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate
comparativamente con i contrapposti interessi privati ed
evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua
adozione; nell’atto è liquidato l’indennizzo di cui al comma
1 e ne è disposto il pagamento entro il termine di trenta
giorni. L’atto è notificato al proprietario e comporta il
passaggio del diritto di proprietà sotto condizione
sospensiva del pagamento delle somme dovute ai sensi del
comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi
dell’articolo 20, comma 14; è soggetto a trascrizione presso
la conservatoria dei registri immobiliari a cura
dell’amministrazione procedente ed è trasmesso in copia
all’ufficio istituito ai sensi dell’articolo 14, comma 2.
5 Se le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 4 sono applicate
quando un terreno sia stato utilizzato per finalità di
edilizia residenziale pubblica, agevolata o convenzionata,
ovvero quando si tratta di terreno destinato a essere
attribuito per finalità di interesse pubblico in uso
speciale a soggetti privati, il provvedimento è di
competenza dell’autorità che ha occupato il terreno e la
liquidazione forfetaria dell’indennizzo per il pregiudizio
non patrimoniale è pari al venti per cento del valore venale
del bene.
6. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano,
in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e
il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal
titolare di un altro diritto reale; in tal caso l’autorità
amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari,
può procedere all’eventuale acquisizione del diritto di
servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici,
titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che
svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei
trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia.
7. L’autorità che emana il provvedimento di acquisizione di
cui al presente articolo né dà comunicazione, entro trenta
giorni, alla Corte dei conti mediante trasmissione di copia
integrale.
8. Le disposizioni del presente articolo trovano altresì
applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore
ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione
successivamente ritirato o annullato, ma deve essere
comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza
dell’interesse pubblico a disporre l’acquisizione; in tal
caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate
dell’interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai
sensi del presente articolo”.
Ed allora, affinché l’interesse primario della parte lesa
possa essere soddisfatto, deve imporsi all’amministrazione
di rinnovare, entro trenta giorni dalla notificazione della
presente sentenza, la valutazione di attualità e prevalenza
dell’interesse pubblico all’eventuale acquisizione dei fondi
per cui è causa, adottando, all’esito di essa, un
provvedimento col quale gli stessi, in tutto od in parte,
siano alternativamente:
a) acquisiti non retroattivamente al patrimonio
indisponibile comunale;
b) restituiti in tutto od in parte al legittimo proprietario
entro novanta giorni, previo ripristino dello stato di fatto
esistente al momento dell’apprensione.
Nel primo caso, il provvedimento di acquisizione:
- dovrà specificare se interessa l’intero compendio occupato
o solo parte di esso, disponendo la restituzione del fondo
rimanente entro novanta giorni, previo ripristino dello
stato di fatto esistente al momento dell’apprensione;
- dovrà prevedere che, entro il termine di trenta giorni, ai
proprietari in solido sia corrisposto il valore venale del
bene, nonché un indennizzo per il pregiudizio non
patrimoniale, forfetariamente liquidato nella misura del
dieci per cento del medesimo valore venale;
- dovrà recare l’indicazione delle circostanze che hanno
condotto all’indebita utilizzazione dell’area e la data
dalla quale essa ha avuto inizio e dovrà specificamente
motivare sulle attuali ed eccezionali ragioni di interesse
pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate
comparativamente con i contrapposti interessi privati ed
evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua
adozione;
- dovrà essere notificato ai proprietari e comporterà il
passaggio del diritto di proprietà sotto condizione
sospensiva del pagamento delle somme dovute, ovvero del loro
deposito effettuato ai sensi dell’art. 20, comma 14, D.P.R.
08.06.2001 n. 327;
- sarà soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei
registri immobiliari a cura dell’amministrazione procedente
e sarà trasmesso in copia all’ufficio istituito ai sensi
dell’art. 14, comma 2, D.P.R. 08.06.2001 n. 327, nonché
comunicato, entro trenta giorni, alla Corte dei conti,
mediante trasmissione di copia integrale.
Resta inteso che i predetti termini, disposti nell’esclusivo
interesse del ricorrente, potranno essere aumentati su
autorizzazione scritta da parte di questi ed inoltre che
tutte le questioni che dovessero insorgere nella fase di
conformazione alla presente decisione potranno formare
oggetto di incidente di esecuzione e risolte, se del caso,
tramite commissario ad acta.
Sia nel caso a) che nel caso b), il provvedimento da
emanarsi dovrà contenere la liquidazione, in favore dei
ricorrenti ed a titolo risarcitorio, di una somma in denaro
pari all’applicazione del saggio di interesse del cinque per
cento annuo sul valore venale dell’intero bene occupato per
tutto il periodo di occupazione senza titolo, che decorre
dalla scadenza del termine finale per l’espropriazione (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 11.01.2013 n. 58 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il termine decadenziale
per l’impugnativa di una deliberazione comunale decorre
dalla data di notifica o comunicazione dell’atto, o da
quella dell’effettiva piena conoscenza, soltanto per i
soggetti direttamente contemplati nell’atto o che siano
immediatamente incisi dai suoi effetti anche se in esso non
contemplati, mentre per i terzi il termine decadenziale
dell’impugnativa decorre dalla data di pubblicazione
all’albo pretorio.
- che, per costante giurisprudenza (v., ex multis,
Cons. Stato, Sez. V, 13.07.2010 n. 4501), il termine
decadenziale per l’impugnativa di una deliberazione comunale
decorre dalla data di notifica o comunicazione dell’atto, o
da quella dell’effettiva piena conoscenza, soltanto per i
soggetti direttamente contemplati nell’atto o che siano
immediatamente incisi dai suoi effetti anche se in esso non
contemplati, mentre per i terzi il termine decadenziale
dell’impugnativa decorre dalla data di pubblicazione
all’albo pretorio;
- che nella fattispecie i ricorrenti non sono soggetti
destinatari del provvedimento e, per essere proprietari di
unità immobiliari ubicate in area estranea a quella
interessata dall’intervento, non hanno titolo alla notifica
nei loro confronti dell’atto di approvazione del progetto,
sicché vanno annoverati tra quelli per i quali il combinato
disposto dell’art. 41 cod.proc.amm. e dell’art. 124 del
d.lgs. n. 267 del 2000 considera sufficiente la
pubblicazione dell’atto all’albo pretorio (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 11.01.2013 n. 20 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA: La
gestione del servizio attinente alla rete autostradale è
senz’altro riconducibile alla nozione di servizio pubblico
essenziale, tale espressamente definito dal C.C.N.L.
06.07.1995, artt. 1, lett. f) e 2, n. 8, sicché il potere di
ordinanza riferito al contenimento dell’inquinamento
acustico derivante da tale servizio non può che essere
attribuito, come la disposizione sopra indicata chiaramente
prevede, al presidente del Consiglio dei Ministri.
Sicché, è illegittima l’ordinanza con la quale il Sindaco ha
ordinato alla società ricorrente l’esecuzione di alcune
opere e la predisposizione di misure idonee ed adeguate alla
riconduzione a limiti di legge delle immissioni rumorose
derivanti dall’esercizio della gestione del trasporto
autostradale nei tratti di pertinenza comunali per i quali
l’ARTA Abruzzo ha accertato l’avvenuto superamento dei
valori limite di immissione.
E’ in contestazione la legittimità dell’ordinanza sindacale
meglio in epigrafe individuata con la quale il Sindaco del
Comune di Silvi ha ordinato alla società ricorrente
l’esecuzione di alcune opere e la predisposizione di misure
idonee ed adeguate alla riconduzione a limiti di legge delle
immissioni rumorose derivanti dall’esercizio della gestione
del trasporto autostradale nei tratti di pertinenza comunali
per i quali l’ARTA Abruzzo ha accertato l’avvenuto
superamento dei valori limite di immissione.
La ricorrente deduce che la questione è regolamentata da
specifiche disposizioni normative e regolamentari che
disciplinerebbero modalità e tempi per la predisposizione,
per l’intera rete autostradale, delle misure in questione e
che quindi l’ordinanza sindacale sarebbe resa in elusione
delle norme sovraordinate (allo scopo di anticiparne gli
effetti) e comunque in difetto dei presupposti generalmente
richiesti per le ordinanze contingibili ed urgenti; inoltre,
l’ordinanza sarebbe resa in palese incompetenza, stante il
disposto di cui all’art. 9 della legge 447/1995 (legge
quadro in materia di inquinamento acustico), che
attribuirebbe detto potere, in caso di servizi pubblici
essenziali, al Presidente del Consiglio dei Ministri.
Reputa il Collegio preliminare la disamina di quest’ultimo
rilievo sollevato da parte ricorrente, ossia la prospettata
questione dell’incompetenza del Sindaco ad emanare ordinanze
contingibili ed urgenti in materia di inquinamento acustico
nel caso, che nella specie ricorrerebbe, di servizi pubblici
essenziali.
A termini dell’art. 9, comma 1, della l. n.447/1995 (“Legge
quadro sull’inquinamento acustico”), “qualora sia richiesto
da eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute
pubblica o dell’ambiente il sindaco, il presidente della
provincia, il presidente della giunta regionale, il
prefetto, il ministro dell’ambiente, secondo quanto previsto
dall’articolo 8 della L. 03.03.1987, n. 59, e il presidente
del consiglio dei ministri, nell’ambito delle rispettive
competenze, con provvedimento motivato, possono ordinare il
ricorso temporaneo a speciali forme di contenimento o di
abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l’inibitoria
parziale o totale di determinate attività. Nel caso di
servizi pubblici essenziali, tale facoltà è riservata
esclusivamente al presidente del consiglio dei ministri”.
La disposizione in questione anzitutto prevede espressamente
la possibilità di emanare, in subiecta materia, ordinanze contingibili ed urgenti in caso ricorrano “eccezionali ed
urgenti necessità di tutela della salute pubblica o
dell’ambiente”, ma riserva il potere di ordinanza alle
Autorità rispettivamente indicate, secondo le competenze di
ciascuno, individuando, tuttavia, il presidente del
Consiglio dei ministri “nel caso di servizi pubblici
essenziali”, all’evidente scopo di uniformare l’azione
amministrativa applicata alle enucleate peculiari
fattispecie ove incidenti su servizi pubblici essenziali.
La gestione del servizio attinente alla rete autostradale è
senz’altro riconducibile alla nozione di servizio pubblico
essenziale, tale espressamente definito dal C.C.N.L.
06.07.1995, artt. 1, lett. f) e 2, n. 8, sicché il potere di
ordinanza riferito al contenimento dell’inquinamento
acustico derivante da tale servizio non può che essere
attribuito, come la disposizione sopra indicata chiaramente
prevede, al presidente del Consiglio dei Ministri.
In positiva ed assorbente delibazione dell’indicato rilievo,
il ricorso va dunque accolto con l’annullamento dell’atto
impugnato
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 10.01.2013 n. 8 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Aria. Realizzazione di impianto in difetto di autorizzazione.
Il reato di realizzazione di impianto in difetto di
autorizzazione era previsto dall’art. 24, comma 1, del d.P.R.
n. 203 del 1998, ora sostituito dall'art. 279, comma 1, del
d.lgs. 03.04.2006, n. 152.
Appare evidente dalla lettura
della disposizione che l’avvio delle operazioni di
costruzione di un impianto che possa produrre immissioni in
atmosfera deve essere preceduto dal rilascio delle
autorizzazioni previste dalla disciplina vigente.
Appare,
altresì, evidente che la formulazione della norma e la
struttura del reato impongono di attribuire a quest’ultimo
natura di reato permanente (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.01.2013 n. 192 -
tratto da www.lexambiente.it). |
APPALTI: La
circostanza che un concorrente a gara pubblica abbia
puntualmente seguito le indicazioni fornite dalla medesima
stazione appaltante nella modulistica ufficiale non può
andare in danno del medesimo, anche nel caso in cui detta
modulistica non risulti esattamente conforme alle
prescrizioni della legge di gara, dovendo prevalere in tal
caso, a fronte di un'obiettiva incertezza ingenerata dagli
atti predisposti dalla stazione appaltante e della buona
fede che va riconosciuta al concorrente, il principio del
favor partecipationis.
... ritenuto che il ricorso cautelare non appare –ad un
primo sommario esame– provvisto di elementi di fumus boni
iuris, in quanto, con riferimento al primo motivo
dedotto:
a) l’oggetto dell’affidamento pare riconducibile ai servizi
di cui all’allegato II B (“Servizi relativi
all'istruzione”) del d.lgs. 163/2006 per i quali non si
applicano le disposizioni del medesimo testo legislativo,
salvo espresso e specifico richiamo, nel caso di specie
mancante;
b) la circostanza che un concorrente a gara pubblica abbia
puntualmente seguito le indicazioni fornite dalla medesima
stazione appaltante nella modulistica ufficiale non può
andare in danno del medesimo, anche nel caso in cui detta
modulistica non risulti esattamente conforme alle
prescrizioni della legge di gara, dovendo prevalere in tal
caso, a fronte di un'obiettiva incertezza ingenerata dagli
atti predisposti dalla stazione appaltante e della buona
fede che va riconosciuta al concorrente, il principio del
favor partecipationis (cfr. Cons. St., Sez. VI,
06.08.2012, n. 4519 e Cons. St., Sez. V, 05.07.2011 n. 4029;
TAR Torino Piemonte Sez. I, 19.04.2012, n. 458 e 15.06.2012,
n. 717) (TAR Piemonte,
Sez. I,
ordinanza 21.12.2012 n. 656
- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'identità di volumetria
e sagoma è condizione essenziale per distinguere
l'intervento di ristrutturazione o restauro/risanamento
conservativo da quello di nuova costruzione.
Gli interventi di restauro e risanamento conservativo (come
definiti dall'art. 31, comma 1, lett. c), l. 05.08.1978 n.
457) sono caratterizzati, infatti, dall'essere rivolti a
conservare l'organismo edilizio preesistente nel rispetto
dei suoi elementi tipologici, formali e strutturali, senza
modificarne l'identità, la fisionomia e la struttura, né la
volumetria, e senza comportare, quindi, la creazione di un
organismo edilizio, in tutto o in parte, diverso dal
precedente.
Gli interventi di "risanamento conservativo", in
particolare, si differenziano sostanzialmente dalla
"demolizione con ricostruzione", sia perché non prevedono,
come detto, un intervento autorizzato di demolizione diretto
alla completa eliminazione della struttura preesistente, sia
essa fatiscente o degradata oppure no; sia perché sono volti
a conservare, recuperandolo sul piano strutturale ed
estetico, l'aspetto e le caratteristiche originarie edilizie
attraverso una serie di opere -anche di decostruzione- che,
all'esito dei lavori, non determinano un aliquid novi, in
quanto assicurano non solo il rispetto della morfologia
della vecchia struttura, ma anche il mantenimento di una
parte dei precedenti elementi.
Ne consegue che qualora si realizzino nuovi volumi
sopraelevando o ampliando l'edificio originario sì da vita
ad un nuovo edificio.
Per appurare se le
opere per cui è causa rientrino nella nozione di “restauro
e risanamento conservativo”, occorre prendere in esame
le planimetrie allegate alla prima istanza di condono, dalle
quali risulta un’altezza del fabbricato di 3,20 m su un lato
e di 2,80 sull’altro, e metterle a confronto con il rapporto
dell’Ufficio Tecnico Comunale del 03.08.1995: da
quest’ultimo documento emerge che i muri sui quattro lati
presentano un’altezza di circa 3,20 m dal piano di campagna
circostante e che 17 colonne verticali sporgono dalle
murature perimetrali.
Dalla perizia di parte allegata in atti si evince che tali
pilastri sono stati progettati con “funzione strutturale
di supporto dell’eventuale solaio sottotetto e della
copertura”. Si tratta di strutture non presenti nel
preesistente fabbricato (come si evince dalla documentazione
fotografica allegata alla stessa perizia).
Si deve concludere che la realizzazione di pilastri
sporgenti dalle mura perimetrali che definivano l’altezza
del fabbricato preesistente, introduca un elemento di
difformità della sagoma, e quindi del volume, del manufatto
preesistente.
La circostanza assume rilievo in quanto l'identità di
volumetria e sagoma è condizione essenziale per distinguere
l'intervento di ristrutturazione o restauro/risanamento
conservativo da quello di nuova costruzione (cfr. Cons. St.,
sez. VI, 15.06.2010, n. 3744 e 09.07.2010, n. 4462; Cass.
Pen, Sez. III, 26.10.2007, n. 47046; TAR Campania Napoli
sez. IV 08.03.2012, n. 1169 e Sez. II, 25.03.2010, n. 1611).
Qualora, infatti, l'opera comporti la realizzazione di un
nuovo volume, essa esula dagli interventi del primo tipo.
Gli interventi di restauro e risanamento conservativo (come
definiti dall'art. 31, comma 1, lett. c), l. 05.08.1978 n.
457) sono caratterizzati, infatti, dall'essere rivolti a
conservare l'organismo edilizio preesistente nel rispetto
dei suoi elementi tipologici, formali e strutturali, senza
modificarne l'identità, la fisionomia e la struttura, né la
volumetria, e senza comportare, quindi, la creazione di un
organismo edilizio, in tutto o in parte, diverso dal
precedente.
Gli interventi di "risanamento conservativo", in
particolare, si differenziano sostanzialmente dalla "demolizione
con ricostruzione", sia perché non prevedono, come
detto, un intervento autorizzato di demolizione diretto alla
completa eliminazione della struttura preesistente, sia essa
fatiscente o degradata oppure no; sia perché sono volti a
conservare, recuperandolo sul piano strutturale ed estetico,
l'aspetto e le caratteristiche originarie edilizie
attraverso una serie di opere -anche di decostruzione- che,
all'esito dei lavori, non determinano un aliquid novi,
in quanto assicurano non solo il rispetto della morfologia
della vecchia struttura, ma anche il mantenimento di una
parte dei precedenti elementi (cfr. TAR Trento Trentino Alto
Adige sez. I, 09.06.2011, n. 172; TAR Napoli Campania sez.
VI, 10.02.2010, n. 844).
Ne consegue che qualora si realizzino nuovi volumi
sopraelevando o ampliando l'edificio originario sì da vita
ad un nuovo edificio (TAR Piemonte sez. II, 11.04.2012, n.
440; TAR Napoli Campania sez. VIII 23.02.2011, n. 1048; TAR
Liguria sez. I, 30.06.2009, n. 1621; nello stesso senso
Cassazione penale sez. III, 06.05.2010 n. 21351).
Stante l’ampliamento di volume e sagoma conseguente alla
sopraelevazione del solaio di copertura, va escluso che
l’intervento per cui è causa potesse essere ricollegato alla
precedente istanza di condono; va escluso, parimenti, che lo
stesso potesse essere qualificato come risanamento
conservativo, e quindi assentito tramite semplice d.i.a. (TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 11.12.2012 n. 1320 -
link a www.giustizia-amministrativa). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Beni culturali. Riconoscimento del particolare interesse
storico-artistico di un immobile ex art. 10 D.Lgs. 42/2003.
E’ Illegittimo l’avvio del procedimento della Soprintendenza
per i beni architettonici e paesistici della Sardegna, per
il riconoscimento del particolare interesse
storico-artistico con riferimento a tre villini siti in
Cagliari senza specifica motivazione.
La mera e generica
circostanza tipologica che un fabbricato rappresenti una
testimonianza di un tipo di costruzione di un particolare
periodo storico non è di per sé elemento sufficiente a
giustificare l’adozione di un provvedimento individuale e
concreto, che, con il suo effetto incide particolarmente
sulle facoltà inerenti al diritto di proprietà. Infatti,
qualsiasi fabbricato è di per sé testimonianza di un tipo di
costruzione del proprio periodo nella zona in cui si trova.
Al tempo stesso, un apprezzamento basato sulla mera valenza
documentaria non è sufficiente per individuare
giuridicamente un bene culturale, in questa operazione non
si può infatti prescindere da un elemento valutativo
concreto, incentrato sul pregio distinto, selettivo e
irripetibile della singola cosa e dunque sul riferimento
specifico agli elementi che costituiscono questo pregio
(l’interesse “particolarmente importante” dell’art. 10,
comma 3, lett. a), del D.Lgs 42/2004 Codice dei beni
culturali e del paesaggio)
(tratto da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.12.2012 n. 6293
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La parziale compromissione di un’area con vincolo
paesistico non giustifica il rilascio di provvedimenti di
sanatoria.
Non è consentito al Comune di prescindere dai valori
paesistici giuridicamente tutelati, in considerazione della
loro frequente violazione per effetto del fenomeno
dell’abusivismo. Infatti, come di recente chiarito dal
Consiglio di Stato “ove la trasformazione illecitamente
realizzata in assenza di autorizzazione e di concessione
edilizia dovesse condizionare, per le modificazioni
introdotte, di fatto, al territorio la valutazione
paesaggistica, da un lato non avrebbe significato che il
legislatore continui a condizionare la sanatoria alla previa
autorizzazione paesaggistica, e, d’altra parte,
vanificherebbe la tutela, sostanzialmente rimessa alla
volontà degli amministrati di non perpetrare e realizzare
interventi abusivi".
L’avvenuta parziale compromissione di un’area vincolata non
giustifica il rilascio di provvedimenti atti a comportarne
l’ulteriore degrado, ma richiede, semmai, una maggiore
attenzione da parte dell’autorità preposta alla tutela del
vincolo al fine di preservare gli spazi residui da un
ulteriore vulnus dei valori ambientali tutelati (tratto da
www.lexambiente.it - TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 05.12.2012 n. 10167 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Sviluppo sostenibile. Autorizzazione unica ex art. 12 del
D.Lgs. 387/2003 e conferenza di servizi.
L’articolo 12 del D.Lgs. 387/2003 prevede che
l'autorizzazione unica debba essere rilasciata a seguito di
un procedimento unico articolato secondo il modulo della
Conferenza di servizi. Alla conferenza, ai sensi del comma 4
dell'articolo 12 citato, "partecipano tutte le
Amministrazioni interessate", con il che è ribadito il
carattere di doverosità della presenza di tutti i soggetti
pubblici coinvolti nel procedimento autorizzatorio.
Ne
consegue che la mancata indizione della Conferenza di
servizi o la mancata partecipazione di amministrazioni
titolari per legge di una competenza primaria, non può che
comportare l’illegittimità dell'autorizzazione unica, in
quanto risulta frustrato l’intento, proprio di tale
normativa, di favorire la composizione degli interessi
coinvolti nel procedimento, attraverso la previsione di una
sede unitaria di confronto reputata come la più idonea a
superare eventuali ragioni di dissenso (tratto da
www.lexambiente.it -
TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 05.12.2012 n. 1291
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
FER, per l'autorizzazione unica procedimento
rigido.
L'autorizzazione unica prevista in
attuazione della direttiva comunitaria sullo sviluppo
dell'energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili nel
mercato interno dell'elettricità è illegittima nel caso di
mancata partecipazione alla conferenza di servizi, delle
Amministrazioni titolari per legge di una competenza
primaria, in quanto risulta frustrato l'intento della norma
di favorire la composizione degli interessi coinvolti nel
procedimento, attraverso la previsione di una sede unitaria
di confronto, reputata come la più idonea a superare
eventuali ragioni di dissenso.
L’art. 12 del decreto legislativo 29.12.2003, n. 387 di
attuazione della direttiva comunitaria sullo sviluppo
dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili nel
mercato interno dell’elettricità prevede che
l’autorizzazione unica debba essere rilasciata a seguito di
un procedimento unico articolato secondo il modulo della
conferenza di servizi decisoria, la cui obbligatorietà
discende dalla necessaria presenza di tutti i soggetti
pubblici coinvolti nel procedimento.
A chiarire ulteriormente la natura e la funzione del modello
procedimentale sopra menzionato, è intervenuto il Tribunale
Amministrativo Regionale per il Piemonte, Sezione Prima, che
ha accolto il ricorso proposto dallaFederazione Nazionale
Pro Natura e da un Comitato di cittadini per l’annullamento
della determinazione dirigenziale della Provincia di
Alessandria, con cui sono state autorizzate, in base al
citato articolo 12, l’installazione e la gestione di un
impianto di produzione di energia elettrica alimentato da
biocombustibili forestali e agricoli nel Comune di Carrosio.
Il Collegio ha osservato che la conferenza di servizi cui fa
riferimento l’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003 appartiene
al modello decisorio previsto dal secondo comma dell’art. 14
della legge n. 241 del 1990, a lettera del quale tale
istituto deve essere adottato quando l’Amministrazione
procedente debba acquisire atti di assenso di altri enti
pubblici e non li ottenga, entro trenta giorni dalla
ricezione della relativa richiesta. Giova precisare che le
singole Amministrazioni che partecipano ai lavori sono
titolari di competenze specifiche e autonome, esercitate,
per ragioni di semplificazione, nell’ambito di un solo
procedimento teso all’adozione di una decisione
pluristrutturata, che non ha valenza di provvedimento e che
in quanto tale non è suscettibile di autonoma impugnazione.
Nel caso in disamina, il Giudice ha dedotto che a fronte di
una determina di autorizzazione da cui emerge che il
contributo della Soprintendenza per i beni archeologici del
Piemonte è essenziale, l’esame dei suoi apporti è stato
sottratto al contraddittorio della conferenza dei servizi
che, da un lato, ha subordinato al rilascio del parere
definitivo della Soprintendenza medesima l’avvio del
cantiere, attribuendo valore vincolante a tutte le eventuali
relative prescrizioni, e, dall’altro, ha sottratto tali
prescrizioni ad ogni possibilità di verifica in
contraddittorio con le altre Amministrazioni partecipanti
alla conferenza.
Eppure, le Linee Guida nazionali di cui al D.M. 10/09/2010
n. 47987 dispongono che la Soprintendenza debba essere
informata dal proponente per verificare la sussistenza di
procedimenti di tutela ovvero di procedure di accertamento
della sussistenza di beni archeologici. Si tratta di
previsione che amplia l’oggetto dell’istruttoria,
ricomprendendovi l’accertamento dell’eventuale pendenza di
procedimenti finalizzati alla dichiarazione di interesse
culturale o paesaggistico del sito su cui deve sorgere
l’impianto, e che è volta, altresì, a consentire alla
Soprintendenza di far valere le esigenze di tutela
pertinenti a tale interesse, sia partecipando alla
conferenza di servizi, sia adottando provvedimenti
cautelativi (Tar Piemonte, Sez. I, 30.08.2012, n. 987).
Nel ritenere l’autorizzazione illegittima a causa del
mancato coinvolgimento degli organi della Soprintendenza
nelle attività della conferenza di servizi indetta dalla
Provincia di Alessandria, il Tar ha ribadito che lo
strumento della conferenza dei servizi unitaria, cui debbono
partecipare tutti i soggetti pubblici aventi titolo a
pronunciarsi sulla realizzazione dell’impianto di produzione
di energia elettrica con fonti rinnovabili, è stato
prescelto dal legislatore non solo per semplificare il
procedimento e renderlo più celere, ma soprattutto per far
sì che i soggetti pubblici coinvolti possano maturare il
proprio parere “nella piena consapevolezza del complesso
degli elementi di valutazione addotti da tutti i
partecipanti, in modo che la valutazione finale di sintesi
di competenza dell'autorità procedente sia sostenuta da una
istruttoria per quanto possibile completa e, comunque, non
risulti privata di alcun apporto previsto dalle norme dello
specifico procedimento.”
Il legislatore del 2003 ha tracciato un procedimento di
autorizzazione unitario per favorire il superamento di
possibili divergenze di opinioni e il raggiungimento di
posizioni condivise, così da non pregiudicare la
realizzazione di opere ritenute strategiche sia
dall’ordinamento nazionale che da quello comunitario.
Quanto detto è avvalorato dagli articoli 14-ter, comma 3
bis, e 14-quater, primo comma, della legge n. 241 del 1990,
secondo cui se le opere da autorizzare in conferenza di
servizi sono sottoposte anche ad autorizzazione
paesaggistica, il parere del Soprintendente deve essere
manifestato a pena di inammissibilità nella conferenza di
servizi stessa.
Per ragioni analoghe a quelle sopra esposte il Tribunale
amministrativo di primo grado ha annullato l’autorizzazione
impugnata per contrasto con il principio secondo cui il
procedimento unico definito dall’art. 12 del d.lgs. n.
387/2003 ha carattere omnicomprensivo ed assorbe ogni altro
procedimento, in quanto nella conferenza di servizi in
concreto espletata non è stato esaminato ed approvato anche
il progetto definitivo della rete di teleriscaldamento, che
è parte integrante del progetto medesimo, siccome
indispensabile per valutarne la funzionalità, l’impatto
ambientale e la razionalità dei costi in rapporto ai
benefici (commento ratto da www.ipsoa.it - TAR Piemonte,
Sez. I,
sentenza 05.12.2012 n. 1291 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Beni Ambientali. Condono edilizio e
autorizzazione paesaggistica.
In relazione al condono edilizio, la disciplina rilevante è
contenuta negli artt. 31 e seguenti della legge n. 47 del
1985. In particolare, l’art. 32 della predetta legge dispone
che «il rilascio del titolo abilitativo edilizio in
sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a
vincolo», quale è quello in esame, «è subordinato al
parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela
del vincolo stesso».
La giurisprudenza di questo Consiglio ha affermato che il
predetto parere ha natura e funzioni identiche
all’autorizzazione paesaggistica ex art. 7 della legge
29.06.1939 n. 1497, per essere entrambi gli atti il
presupposto legittimante la trasformazione urbanistico
edilizia della zona protetta, sicché resta fermo il potere
ministeriale di annullamento del parere favorevole alla
sanatoria di un manufatto realizzato in zona vincolata, in
quanto strumento affidato dall’ordinamento allo Stato, come
estrema difesa del paesaggio, valore costituzionale primario
(tale equiparazione opera anche per le autorizzazioni
paesaggistiche disciplinate dagli artt. 151 e 159 del d.lgs.
n. 490 del 1999 e per il parere previsto dall’art. 146 del
d.lgs. n. 42 del 2004) (tratto da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.12.2012 n. 6216 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In presenza di manufatti
abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori
(sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle
categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o
risanamento conservativo, della ristrutturazione, della
realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche)
ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera
principale alla quale ineriscono strutturalmente”, sicché
non può ammettersi “la prosecuzione dei lavori abusivi a
completamento di opere che, fino al momento di eventuali
sanatorie, devono ritenersi comunque abusive”, con
conseguente “obbligo del comune di ordinarne la demolizione.
Ciò nella precisazione che tanto non significa negare in
assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto
ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a
pena di assoggettamento della medesima sanzione prevista per
l’immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel
rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente
dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985, ancora applicabile per
effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione
condonistica (art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 ed art. 32
della l. 24.11.2003, n. 326); procedure a seguirsi
rigidamente, anche per quanto attiene alle modalità di
presentazione dell’istanza, sia al fine di conferire
certezze in ordine allo stato dei luoghi che ad evitarsi
postumi (tentativi di) disconoscimenti della circostanza
che, come previsto dalla legge, l’esecuzione delle opere,
pur se autorizzate, avviene sotto la propria responsabilità,
ovverosia nella piena consapevolezza -resa esplicita dal
ricorso espresso alla procedura ex art. 35 cit.- che,
sebbene interventi di natura eminentemente conservativa
possono essere ammessi, si sta agendo assumendo
espressamente a proprio carico rischi e pericoli connessi,
cosicché se il condono verrà negato si dovrà demolire anche
le migliorie apportate.
In definitiva, “in siffatte evenienze, ovvero in presenza di
reiterazione dei comportamenti abusivi, la misura repressiva
costituisce atto dovuto, che non può essere evitata
nell’assunto che per le opere realizzate non fosse
necessario il permesso di costruire o che avessero natura
pertinenziale; ciò perché, in caso di prosecuzione dei
lavori di un immobile già oggetto di domanda di condono,
vale il diverso principio in forza del quale è la
prosecuzione in sé dei lavori ad essere preclusa, senza che
sia possibile distinguere tra opere pertinenziali e non, tra
opere soggette al permesso di costruire ed opere
realizzabili con d.i.a.” ed avendo presente che la
valutazione degli interventi sanzionati va effettuata nel
loro insieme in quanto “la considerazione atomistica dei
singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva
portata dell'operazione”.
L’avviso del Collegio è nel senso
che la determinazione dell’amministrazione di ordinare, ex
art. 27 del d.P.R. 380 del 2001, la demolizione di dette
opere -afferenti ad un immobile realizzato abusivamente ab
origine, fatto oggetto di successivi interventi a loro volta
realizzati senza titolo via via nel tempo e per la cui
“sanatoria” sono state prodotte diverse istanze di condono,
tuttora pendenti, al sopravvenire dei diversi e progressivi
interventi legislativi che si sono succeduti nel tempo-
resista alle denunce di parte, che possono essere
congiuntamente esaminate.
Ed invero, non sono state offerte ragioni che
consentano di discostarsi dal costante orientamento della
Sezione, confortato da pronunce del giudice di appello (cfr.
Cons. Stato, sezione quarta, ord. n. 2182 del 18.05.2011):
- secondo cui “in presenza di manufatti abusivi non sanati
né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure
riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della
manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento
conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di
opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla
quale ineriscono strutturalmente”, sicché non può ammettersi
“la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere
che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono
ritenersi comunque abusive”, con conseguente “obbligo del
comune di ordinarne la demolizione” (cfr. Tar Campania,
Napoli, questa sesta sezione, ex multis, sentenze n. 2006
del 02.05.2012, n. 2624 del 11.05.2011, n. 1218 del
25.02.2011, n. 26788 del 03.12.2010; 05.05.2010, n. 2811, 10.02.2010, n. 847 e 28.01.2010,
n. 423; sezione seconda, 07.11.2008, n. 19372; negli
stessi sensi, Cass. penale, sezione terza, 24.10.2008,
n. 45070);
- ciò nella precisazione che “tanto non significa negare in
assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto
ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a
pena di assoggettamento della medesima sanzione prevista per
l’immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel
rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente
dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985, ancora applicabile per
effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione condonistica (art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 ed art. 32
della l. 24.11.2003, n. 326); procedure a seguirsi
rigidamente, anche per quanto attiene alle modalità di
presentazione dell’istanza, sia al fine di conferire
certezze in ordine allo stato dei luoghi che ad evitarsi
postumi (tentativi di) disconoscimenti della circostanza
che, come previsto dalla legge, l’esecuzione delle opere,
pur se autorizzate, avviene sotto la propria responsabilità,
ovverosia nella piena consapevolezza -resa esplicita dal
ricorso espresso alla procedura ex art. 35 cit.- che,
sebbene interventi di natura eminentemente conservativa
possono essere ammessi, si sta agendo assumendo
espressamente a proprio carico rischi e pericoli connessi,
cosicché se il condono verrà negato si dovrà demolire anche
le migliorie apportate” (cfr. la giurisprudenza della
Sezione, già sopra riportata);
- e tanto, nella ulteriore precisazione che l’art. 35 cit.
consente solo interventi di completamento: dell’opus già
ultimato per poter essere ammesso a condono e sempre che le
opere siano suscettibili di sanatoria, ossia “non siano
comprese tra quelle indicate dall’art. 33” cit. legge 47 del
1985 (recante prescrizioni di inedificabilità assoluta), e,
ove invece soggiacenti al regime di inedificabilità solo
relativa cui all’art. 32 precedente, abbiano ottenuto il
previo parere delle competenti amministrazioni (cfr. ancora
la giurisprudenza innanzi riportata della Sezione);
- in definitiva, “in siffatte evenienze, ovvero in presenza
di reiterazione dei comportamenti abusivi, la misura
repressiva costituisce atto dovuto, che non può essere
evitata nell’assunto che per le opere realizzate non fosse
necessario il permesso di costruire o che avessero natura pertinenziale; ciò perché, in caso di prosecuzione dei
lavori di un immobile già oggetto di domanda di condono,
vale il diverso principio in forza del quale è la
prosecuzione in sé dei lavori ad essere preclusa, senza che
sia possibile distinguere tra opere pertinenziali e non, tra
opere soggette al permesso di costruire ed opere
realizzabili con d.i.a.” (cfr. Tar Campania, Napoli, sempre
questa sesta sezione, 02.05.2012, n. 2006 cit., 11.05.2011, n. 2626 e sezione settima 14.01.2011, n. 160) ed
avendo presente che la valutazione degli interventi
sanzionati va effettuata nel loro insieme in quanto “la
considerazione atomistica dei singoli interventi non
consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione”
(cfr. in tali sensi, ex multis, Tar Campania, Napoli, sempre
questa sezione sesta, sentenza n. 1114 del 05.03.2012, n.
26787 del 03.12.2010; 16.04.2010, n. 1993; 25.02.2010, n. 1155;
09.11.2009, n. 7053; Tar
Lombardia, Milano, sezione seconda, 11.03.2010, n. 584).
Il descritto orientamento della Sezione trova conforto
anche in pronunce del giudice di appello, fra le quali
spicca quella che, di recente, sia pur in fattispecie non
sovrapponibile a quella qui data, ha avuto modo di chiarire
come non possa “ritenersi ammissibile una prospettazione che,
portata alle estreme conseguenze, implicherebbe che una
pervicace azione contraria ai provvedimenti penali ed
amministrativi, ove protratta nel tempo con successivi e
“nuovi” interventi, (seppur eventualmente modesti) sul
manufatto, impedisca sine die l’adozione dei prescritti
provvedimenti repressivi: la reiterazione delle violazioni
edilizie, insomma, finirebbe con il produrre un effetto
“premiale” sul reo…” (Cons. Stato, sezione quinta, 06.03.2012, n. 1260; Tar Campania, sezione sesta,
05.06.2012,
n. 2635).
A tal proposito e con più diretto riferimento alle vicende
quali quella qui in esame può aggiungersi come a tale
approdo giurisprudenziale non possa essere opposta la
perdurante inerzia dell’amministrazione nella mancata
definizione della risalente istanza di condono (o delle
risalenti istanze, come qui avviene) con quanto ne ha a
comportare in tema di mancata utilizzazione del bene o di
suo degrado.
Ed invero, -ferma la possibilità innanzi indicata di far
luogo agli interventi di mero completamento nel rispetto
delle procedure di legge- resta anche ferma la potestà del
privato che voglia veder definite ai più diversi fini
istanze di condono abbisognevoli di pronunce espresse,
ricadendo gli abusi, come qui accade, in territorio
vincolato, di utilizzare lo strumentario recato direttamente
dalla normativa statale (l. 47 del 1985 e successive) e/o
regionale (cfr. la legge regionale della Campania n. 10 del
2004) sul condono per costringere l’amministrazione a
procedere e provvedere.
Al riguardo va ricordato:
- che la stessa giurisprudenza del giudice delle leggi ha
avuto modo in più occasioni di far riferimento alla
normativa di settore che “conferisce all'interessato, in
caso di inerzia dell'Amministrazione, la legittimazione
attiva a tutelare in via giurisdizionale la propria
situazione soggettiva…”, avendo presente, aggiunge sempre la
Consulta, “che, in ogni caso, le regole sul responsabile del
procedimento amministrativo, sulla partecipazione e sul
diritto di accesso del privato interessato (previste dalla
legge 07.08.1990, n. 241, nonché dall'art. 7 della legge
12.06.1990, n. 142) assicurano un'ampia e costante
azione di rilevazione e controllo ab externo
dell'adeguatezza dell'azione amministrativa tanto degli
apparati statali quanto delle autonomie locali, anche in
carenza di una specifica procedimentalizzazione ex lege
della fattispecie normativa in oggetto” (Corte Cost., 04.06.1997, n. 170);
- che la giurisprudenza amministrativa -se pur in genere
adita (non dal soggetto che ha attivato l’istanza di
condono, ma) dal vicino leso dall’intervento abusivo la cui
demolizione è stata paralizzata dalla produzione
dell’istanza e dalla detta inerzia nel definirla in
dispregio dei termini imposti dalla normativa anche
regionale sopra ricordata- ha avuto modo di sancire non solo
l’obbligo di legge di farvi luogo, ma anche l’inopponibilità
da parte dell’amministrazione del rispetto di criteri
cronologici, a valere solo “in via tendenziale” (fra le
ultime, Tar Campania, questa sesta sezione, 25.10.2012,
n. 4220; 21.06.2012, n. 2944; 10.05.2012, n. 2151)
e, quindi, di certo non invocabili in presenza di impulso
dato alla pratica: non dal vicino (con l’opposizione
dell’istante, come notoriamente accade), ma da quest’ultimo
(senza opposizione alcuna)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 29.11.2012 n. 4879 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Nell’ambito del rapporto
di pubblico impiego, la retribuibilità delle prestazioni di
lavoro straordinario è condizionata all’esistenza di una
formale e preventiva autorizzazione allo svolgimento di tali
prestazioni di lavoro eccedenti l’orario d’ufficio: detta
autorizzazione svolge una pluralità di funzioni, tutte
riferibili alla concreta attuazione dei principi di
legalità, imparzialità e buon andamento cui, ai sensi
dell’articolo 97 Costituzione, deve essere improntata
l’azione della pubblica amministrazione.
In generale, infatti, la preventiva autorizzazione implica
la verifica in concreto delle ragioni di pubblico interesse
che rendono necessario il ricorso a prestazioni lavorative
eccedenti l’orario normale di lavoro e rappresenta lo
strumento per evitare che, attraverso incontrollate
erogazioni di somme di danaro per prestazioni di lavoro
straordinario, si possano superare i limiti di spesa fissati
dalle previsioni di bilancio con grave nocumento
dell’equilibrio finanziario dei conti pubblici.
Per altro verso, la normativa intende escludere che i
pubblici dipendenti siano assoggettati a prestazioni
lavorative che, eccedendo quelle ordinarie, individuate come
punto di equilibrio fra le esigenze dell’amministrazione e i
rispetto delle condizioni psico-fisiche del dipendente,
possano creare per l’impiegato nocumento alla sua salute ed
alla sua dignità di persona.
Sotto ulteriore profilo, la formale preventiva
autorizzazione al lavoro straordinario deve costituire, per
l’amministrazione, anche lo strumento per la valutazione
delle concrete esigenze delle proprie strutture quanto al
loro concreto funzionamento, alla loro effettiva capacità di
perseguire i compiti assegnati ed espletare le funzioni
attribuite dalla legge, nonché all’organizzazione delle
risorse umane ed alla loro adeguatezza, onde evitare che il
sistematico ed indiscriminato ricorso alle prestazioni
straordinarie costituisca elemento di programmazione
dell’ordinario lavoro.
Deve anche aggiungersi, non da ultimo, che come peraltro già
accennato, la preventiva autorizzazione costituisce
assunzione di responsabilità, gestionale e contabile, per il
dirigente che la emette, al fine di rispettare i ristretti
limiti finanziari entro cui è consentito liquidare siffatto
genere di prestazioni attesa anche la sopra evidenziata loro
eccezionalità.
La giurisprudenza ha affermato, a volte, che il principio
della indispensabilità della previa autorizzazione allo
svolgimento del lavoro straordinario subisce eccezione
quando l’attività sia svolta per obbligo d’ufficio (al
riguardo si parla di autorizzazione implicita), ma, nel
rispetto dei principi costituzionali sopra ricordati, ha
ribadito che deve pur sempre trattarsi di esigenze
indifferibili ed urgenti e che, in ogni caso, è sempre
necessaria una successiva autorizzazione, sia pure ex post.
Come rilevato da risalente giurisprudenza, nell’ambito del rapporto di
pubblico impiego, la retribuibilità delle prestazioni di
lavoro straordinario è condizionata all’esistenza di una
formale e preventiva autorizzazione allo svolgimento di tali
prestazioni di lavoro eccedenti l’orario d’ufficio: detta
autorizzazione svolge una pluralità di funzioni, tutte
riferibili alla concreta attuazione dei principi di
legalità, imparzialità e buon andamento cui, ai sensi
dell’articolo 97 Costituzione, deve essere improntata
l’azione della pubblica amministrazione.
In generale, infatti, la preventiva autorizzazione implica
la verifica in concreto delle ragioni di pubblico interesse
che rendono necessario il ricorso a prestazioni lavorative
eccedenti l’orario normale di lavoro e rappresenta lo
strumento per evitare che, attraverso incontrollate
erogazioni di somme di danaro per prestazioni di lavoro
straordinario, si possano superare i limiti di spesa fissati
dalle previsioni di bilancio con grave nocumento
dell’equilibrio finanziario dei conti pubblici.
Per altro verso, la normativa intende escludere che i
pubblici dipendenti siano assoggettati a prestazioni
lavorative che, eccedendo quelle ordinarie, individuate come
punto di equilibrio fra le esigenze dell’amministrazione e i
rispetto delle condizioni psico-fisiche del dipendente,
possano creare per l’impiegato nocumento alla sua salute ed
alla sua dignità di persona.
Sotto ulteriore profilo, la formale preventiva
autorizzazione al lavoro straordinario deve costituire, per
l’amministrazione, anche lo strumento per la valutazione
delle concrete esigenze delle proprie strutture quanto al
loro concreto funzionamento, alla loro effettiva capacità di
perseguire i compiti assegnati ed espletare le funzioni
attribuite dalla legge, nonché all’organizzazione delle
risorse umane ed alla loro adeguatezza, onde evitare che il
sistematico ed indiscriminato ricorso alle prestazioni
straordinarie costituisca elemento di programmazione
dell’ordinario lavoro.
Deve anche aggiungersi, non da ultimo, che come peraltro già
accennato, la preventiva autorizzazione costituisce
assunzione di responsabilità, gestionale e contabile, per il
dirigente che la emette, al fine di rispettare i ristretti
limiti finanziari entro cui è consentito liquidare siffatto
genere di prestazioni attesa anche la sopra evidenziata loro
eccezionalità.
La giurisprudenza ha affermato, a volte, che il principio
della indispensabilità della previa autorizzazione allo
svolgimento del lavoro straordinario subisce eccezione
quando l’attività sia svolta per obbligo d’ufficio (al
riguardo si parla di autorizzazione implicita), ma, nel
rispetto dei principi costituzionali sopra ricordati, ha
ribadito che deve pur sempre trattarsi di esigenze
indifferibili ed urgenti e che, in ogni caso, è sempre
necessaria una successiva autorizzazione, sia pure ex post.
Sulla scorta di tali consolidati principi l’appello in esame
non può trovare favorevole considerazione risultando in
punto di fatto che le prestazioni di lavoro straordinario di
cui l’interessata chiede il pagamento non sono mai state
autorizzate, né in via preventiva, come di norma dovrebbe
avvenire, né successivamente, in via di sanatoria, come pure
è ammesso in casi eccezionali, dal titolare amministrativo
dell’ente che ne abbia assunto anche la relativa
responsabilità contabile con imputazione della relativa
spesa.
Non può ritenersi a tal fine utile la circostanza che le
prestazioni svolte siano state rese in esecuzione di
appositi turni di servizio o tabulati, atteso che, atti di
tale genere, come rilevato dalla giurisprudenza della
Sezione, non possono automaticamente valere, anche sotto il
ripetuto profilo della compatibilità finanziaria, come
provvedimenti autorizzatori allo svolgimento di lavoro oltre
l’orario d’obbligo essendo comunque necessaria una formale
autorizzazione postuma a sanatoria del responsabile
amministrativo dell’ente (da ultimo, Cons. Stato, Sez. III,
15.02.2012, n. 783; VI, 09.11.2010, n.8626).
Né appare ammissibile in appello la singolare richiesta
istruttoria al fine di poter “accertare l’effettiva utilità
pubblica delle ore di lavoro straordinario effettuate…”, ed
anche il deposito di ulteriori nuovi documenti non prodotti
nel giudizio di primo grado tanto più che i nuovi documenti,
consistenti sempre in tabulati, ordini di servizio o altro,
quindi irrilevanti per i motivi sopra evidenziati, era
conoscibili dall’interessata usando la ordinaria diligenza
già in primo grado (Cons. Stato, Sez. VI, n. 265 del 20.01.2009).
Quanto alla domanda subordinata, non esaminata dal giudice
di prime cure, volta all'attribuzione di una somma a titolo
indennitario per l'ingiustificato arricchimento
dell'amministrazione, che si sarebbe avvalsa di attività
riconducibili a prestazioni di lavoro straordinario
dell'interessata non retribuendole con ciò arricchendosi
indebitamente, essa è priva di fondamento, giacché, come
affermato dalla giurisprudenza, il necessario presupposto
dell' azione non è l'infruttuoso esperimento di uno
specifico rimedio giudiziario, ma la sua inesistenza e la
sussidiarietà dell’azione va apprezzata in astratto, là dove
manchi qualsivoglia tutela giuridica, mentre irrilevante
risulta in concreto la circostanza del vano esperimento
della specifica azione diretta prevista dall'ordinamento ad
esempio per essere stata giudizialmente respinta o
dichiarata prescritta, atteso che se altra azione in
astratto è esperibile essa è in grado di esaurire
qualsivoglia tutela offerta dall'ordinamento .
Nella circostanza è pacifico che la ricorrente abbia
esperito l'azione a sostegno delle proprie ragioni
risultandone in primo grado soccombente mentre la
circostanza che ciò sarebbe avvenuto per una erronea
valutazione del primo giudice è fatto privo di qualsiasi
rilievo ai fini dell’esperimento dell’azione (ex plurimis,
Cass. Civ. Sez. II, 22.03.2012 n. 4620; vedi anche Cons.
St., sez. V, 03.11.2010, n. 7755) (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 24.11.2012 n. 5953 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In materia di accesso agli atti di gara è stato
statuito che:
- l’accesso deve comunque essere
garantito se la conoscenza dei documenti sia “necessaria per
curare o difendere i propri interessi giuridici”;
- per l’applicazione del comma 7 dell’art. 24 l. 241/1990
“Occorre…la dimostrazione di una rigida “necessità” e non
mera “utilità” del documento” cui si chiede di accedere
“Tanto più nei casi in cui l’accesso sia esercitato non già
in relazione agli atti di un procedimento amministrativo di
cui il richiedente è parte, ma in relazione agli atti di
procedimenti amministrativi rispetto ai quali il richiedente
è terzo”, non configurandosi, di conseguenza, la posizione
legittimante quando “i documenti richiesti non sono
necessari per la difesa in giudizio ma solo utili per
articolare la difesa in giudizio secondo una particolare
modalità, ossia per articolare una particolare censura”,
configurandosi altrimenti, si deve soggiungere, la
fattispecie del mero controllo generalizzato dell’attività
amministrativa precluso dall’articolo 24, comma 3, della
legge n. 241 del 1990;
- nella specie la società istante non dimostra che la
conoscenza degli atti della gara in questione, in cui non è
stata parte, sia rigidamente “necessaria” per la propria
difesa nel giudizio relativo ad una diversa gara, risultando
perciò tale conoscenza soltanto “utile”, in quanto
evidentemente articolazione di un particolare motivo
difensivo nell’ambito di un giudizio già instaurato; un
motivo, si deve anche considerare, la cui utilità difensiva
è peraltro del tutto potenziale non essendo sufficiente
soltanto asserire, a tal fine, un vizio invalidante di un
intero procedimento ma dovendo tale vizio essere stato
riconosciuto ad esito di un giudizio; neppure rivestendo
perciò l’asserito interesse all’accesso l’altresì previsto
carattere di effettiva concretezza (art. 22, comma 1, lett.
b), della legge n. 241 del 1990).
Nell’appello si deduce l’erroneità della sentenza di primo
grado, poiché:
a) la gestione del porto turistico, pur se svolta da un
soggetto in proprietà pubblica, non rientra nella nozione di
servizio pubblico locale; non si tratta infatti di
un’attività avente una finalità sociale di interesse
pubblico, cioè diretta a soddisfare le esigenze dei
residenti nel comune che istituisce il servizio, considerati
in quanto tali, o quelle di una cerchia indifferenziata di
utenti, con i connessi obblighi di continuità, qualità e
regolarità del servizio stesso, ma di un’attività
imprenditoriale, non tenuta perciò all’osservanza di
condizioni e tariffe uniformi rispetto a parametri generali
ma modulabile quanto alle modalità di prestazione del
servizio e all’area degli utenti secondo le esigenze proprie
di un tale tipo di attività;
b) gli atti oggetto dell’istanza di accesso riguardano, in
ogni caso, il servizio di pulizia parziale che è attività di
carattere interno e non inerente, perciò, alla gestione del
porto turistico;
c) non sussiste comunque nella specie l’interesse
legittimante l’esercizio del diritto di accesso, poiché: la
società istante non ha partecipato alla gara ai cui atti
richiede di accedere; non ha rilievo il mero interesse
strumentale alla rinnovazione della gara asserito soltanto
in quanto operatore del settore; mancano dunque i
presupposti di attualità, concretezza e adeguata motivazione
dell’interesse richiesti dalla legge risultando l’istanza,
di conseguenza, diretta ad una generica attività informativa
sull’operato della società Marina di Pescara.
Il Collegio ritiene che sia da accogliere il motivo ora
sintetizzato sub 2.c).
Infatti:
- l’interesse legittimante all’accesso è stato indicato
nelle istanze della s.p.a. Ecologica Sangro con il richiamo
all’art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990, per il
quale l’accesso deve comunque essere garantito se la
conoscenza dei documenti in questione sia “necessaria per
curare o difendere i propri interessi giuridici”, volendo
l’istante poter contestare la partecipazione della s.r.l. Mantini in altra gara se risultasse viziata l’aggiudicazione
a tale società dell’appalto da parte della società Marina di
Pescara nella gara afferente alla gestione del porto
turistico;
- tale interesse sarebbe tutelabile in considerazione del
fatto che, come affermato dal primo giudice “la soglia
richiesta per l’accesso risulta inferiore a quella
necessaria per legittimare un ricorso giurisdizionale,
risultando sufficiente anche solo una potenziale lesione
alla propria sfera giuridica e la mera eventualità di una
necessità di tutela in sede giurisdizionale”, ciò che si
verificherebbe nella specie data l’ipotesi di applicazione
dell’art. 23-bis della legge n. 133 del 2008;
- questa ricostruzione non appare rapportabile al caso in
esame; la giurisprudenza di questo Consiglio ha infatti
chiarito che, per l’applicazione del citato comma 7
dell’art. 24 “Occorre…la dimostrazione di una rigida
“necessità” e non mera “utilità” del documento” cui si
chiede di accedere “Tanto più nei casi in cui l’accesso sia
esercitato non già in relazione agli atti di un procedimento
amministrativo di cui il richiedente è parte, ma in
relazione agli atti di procedimenti amministrativi rispetto
ai quali il richiedente è terzo”, non configurandosi, di
conseguenza, la posizione legittimante quando “i documenti
richiesti non sono necessari per la difesa in giudizio ma
solo utili per articolare la difesa in giudizio secondo una
particolare modalità, ossia per articolare una particolare
censura” (Sez. VI, 12.01.2011, n. 117), configurandosi
altrimenti, si deve soggiungere, la fattispecie del mero
controllo generalizzato dell’attività amministrativa
precluso dall’articolo 24, comma 3, della legge n. 241 del
1990;
- nella specie la società istante non dimostra che la
conoscenza degli atti della gara in questione, in cui non è
stata parte, sia rigidamente “necessaria” per la propria
difesa nel giudizio relativo ad una diversa gara, risultando
perciò tale conoscenza soltanto “utile”, in quanto
evidentemente articolazione di un particolare motivo
difensivo nell’ambito di un giudizio già instaurato; un
motivo, si deve anche considerare, la cui utilità difensiva
è peraltro del tutto potenziale non essendo sufficiente
soltanto asserire, a tal fine, un vizio invalidante di un
intero procedimento ma dovendo tale vizio essere stato
riconosciuto ad esito di un giudizio; neppure rivestendo
perciò l’asserito interesse all’accesso l’altresì previsto
carattere di effettiva concretezza (art. 22, comma 1, lett.
b), della legge n. 241 del 1990);
- né l’accesso può riconoscersi nel caso in esame per il
solo interesse strumentale alla rinnovazione della procedura
di gara indetta dalla società Marina di Pescara non
sussistendo una regola generale di indifferenziata
titolarità della legittimazione al ricorso -con esercizio
perciò dell’accesso a fini di cura o difesa di interessi
giuridici collegati- basata sulla mera qualificazione
soggettiva di imprenditore potenzialmente aspirante
all’indizione di una nuova gara, salvo i casi del contrasto
in radice della scelta della stazione appaltante di indire
la procedura, dell’affidamento senza gara e della previsione
nel bando di una specifica e lesiva clausola escludente,
casi nella specie non provati (cfr. Cons. Stato, A.P. n. 4
del 2011) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 22.11.2012 n. 5936 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 24.01.2013 |
ã |
IN EVIDENZA |
VIZI, DURI A
MORIRE, DEI PUBBLICI DIPENDENTI ITALIANI !! |
PUBBLICO
IMPIEGO: E’
regola di diligenza e di corretto sentire il proprio
ruolo presentarsi sul luogo di lavoro immediatamente
pronti a svolgere, sin dal primo istante, le proprie
incombenze attenendosi ai doveri anche formali ed
esteriori che le caratterizzano: non a caso le
disposizioni di servizio acquisite in via
interlocutoria parlano di “funzionalità e
compostezza“ riferito al locale di servizio e,
quindi, a maggior ragione, al personale ivi addetto.
---------------
Risponde a canoni di comune diligenza e prudenza
prima di tutto prendere possesso della postazione di
servizio e, poi, semmai, svolgere le altre
incombenze ad essa connesse.
---------------
Quanto, poi, al ritiro di acqua e caffè dal
distributore automatico (ndr: subito dopo aver timbrato
in entrata al lavoro), esso non appare certo
l’esercizio di un diritto costituzionalmente
garantito, indebitamente conculcato
dall’amministrazione, come impropriamente
enfatizzato dall’interessata, ma solo un
comportamento (forse diffuso, ma) anche esso non
conforme a canoni di diligenza e scrupolo
professionale, in base ai quali non sembra certo
decoroso andare a prendere il caffè immediatamente
all’inizio del turno, quando si presume che una
persona già abbia fatto la colazione mattutina.
... per l'annullamento del provvedimento della
Questura di Trento, Ufficio del Personale sez.
Seconda, di data 12.01.2012 nel procedimento
disciplinare n. 16R/pers./Cat.2.8/2011 di
irrogazione della sanzione disciplinare del richiamo
scritto e di ogni altro atto presupposto, connesso e
consequenziale.
...
La ricorrente, ass. capo P.S. dipendente del
Ministero dell’Interno, con il presente ricorso ha
impugnato il provvedimento disciplinare in data
12.01.2012 con il quale le è stata inflitta la
sanzione del richiamo scritto.
I fatti addebitati alla ricorrente risalgono al
giorno 14.08.2011, quando il sost. comm. P.S. D.C.
redigeva relazione di servizio, in cui riferiva che
alle ore 7.03 del mattino, nel recarsi presso il
Palazzo del Commissario del Governo di Trento per
ritirare la posta, avrebbe suonato inutilmente più
volte al campanello di ingresso, insistendo fino
alle ore 7.11, quando la ricorrente apriva la porta
in abiti civili, nonostante il turno di servizio
fosse già iniziato.
Alla richiesta di spiegazioni la ricorrente avrebbe
risposto di essersi allontanata solo tre minuti
dalla postazione di lavoro per prendere un caffè ed
una bottiglia di acqua al distributore automatico
interno.
A seguito della predetta relazione, il Questore, in
data 25.08.2011, procedeva alla contestazione degli
addebiti.
...
Quanto al lamentato eccesso di potere per difetto di
motivazione e travisamento, anche tale motivo di
ricorso si manifesta privo di ogni consistenza.
Gli addebiti mossi alla ricorrente sono costituiti
da comportamento scorretto in servizio e
irriguardoso verso un superiore gerarchico: così
nell’atto di contestazione degli addebiti e nel
provvedimento disciplinare.
Quanto alla prima motivazione, circa
l’assunzione di comportamenti non conformi alle
regole di servizio, essa trova riscontro obiettivo
in due incontestate circostanze:
a) avere la ricorrente aperto in oggettivo ritardo
(non importa di quanti minuti) alle ripetute
chiamate del sost. comm. D.C. al portone
dell’ingresso principale dell’edificio del
Commissario di Governo (C.so III Novembre);
b) avere aperto non in divisa ma ancora in abiti
civili, nonostante il turno di servizio fosse già
iniziato alle ore sette del mattino.
Per giustificare tali due elementi oggettivi
l’interessata adduce:
- non essersi potuta tempestivamente cambiare di
abito essendo il bagno occupato da altro personale;
- essersi assentata momentaneamente dal posto di
guardia per effettuare un giro di ispezione alle
entrate dell’edificio poste su via Piave, nonché
altri adempimenti e per prendere un caffè ed una
bottiglietta d’acqua dal distributore automatico
posto all’interno dell’edificio stesso.
Si tratta di giustificazioni che il Collegio giudica
inaccettabili, come tali giustamente non prese in
considerazione, nell’an, dall’organo
disciplinare.
Quanto allo svolgimento del servizio non in divisa,
seppure a distanza di solo pochi minuti dall’inizio
del turno, si tratta di mancanza oggettivamente
incongrua e non conforme ai doveri di servizio di un
appartenente alle forze di polizia, non
giustificabile certo con prassi difformi, peraltro
neppure adeguatamente dimostrate dall’interessata
(ed anzi smentite dalle s.i. assunte dal collega
M.). E’, anzi, regola di diligenza e di corretto
sentire il proprio ruolo presentarsi sul luogo di
lavoro immediatamente pronti a svolgere, sin dal
primo istante, le proprie incombenze attenendosi ai
doveri anche formali ed esteriori che le
caratterizzano: non a caso le disposizioni di
servizio acquisite in via interlocutoria parlano di
“funzionalità e compostezza“ riferito al
locale di servizio e, quindi, a maggior ragione, al
personale ivi addetto.
Anche i motivi del ritardo non appaiono convincenti.
L’interessata non ha dato prova di prescrizioni o
prassi che impongano al dipendente, immediatamente
all’inizio del proprio turno, di effettuare, in
borghese, “un giro di controllo“ (come lo
chiama la ricorrente nelle sue giustificazioni
all’atto di contestazione e nel ricorso). Anche
nelle citate disposizioni di servizio non si fa
cenno a tale obbligo, il quale, anzi, appare
incongruo rispetto al limitatissimo orario di
apertura dell’ingresso su via Piave, disposto solo
dalle ore 10 alle ore 12. Peraltro, risponde a
canoni di comune diligenza e prudenza prima di tutto
prendere possesso della postazione di servizio e,
poi, semmai, svolgere le altre incombenze ad essa
connesse.
Quanto, poi, al ritiro di acqua e caffè dal
distributore automatico, esso non appare certo
l’esercizio di un diritto costituzionalmente
garantito, indebitamente conculcato
dall’amministrazione, come impropriamente
enfatizzato dall’interessata, ma solo un
comportamento (forse diffuso, ma) anche esso non
conforme a canoni di diligenza e scrupolo
professionale, in base ai quali non sembra certo
decoroso andare a prendere il caffè immediatamente
all’inizio del turno, quando si presume che una
persona già abbia fatto la colazione mattutina (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 09.01.2013 n. 1 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
Altro che
semplice richiamo scritto !! |
Proprio in questi ultimi giorni, le trasmissioni
televisive "Striscia la notizia" (Canale 5) e
"L'arena" (Rai 1) hanno mostrato -per
l'ennesima volta- filmati (ad opera delle Forze
dell'Ordine) di pubblici dipendenti che timbrano la
mattina, per sé e per altri colleghi, per uscire
subito dal posto di lavoro ed andarsene a farsi i
kazzi propri, anziché lavorare e guadagnarsi
onestamente la miketta a fine mese.
I "mass media" definiscono costoro come semplici
"furbetti" ... col cavolo, questi sono veri e
propri delinquenti, parassiti della società civile !!
Chi scrive, e sicuramente anche la stragrande
maggioranza degli Italiani (che sono onesti !!), è
stanco di lavorare anche per questa gentaglia.
Quindi, bando alle chiacchiere ed alla retorica e si
compiano i fatti una volta per tutte: |
LICENZIAMENTO IN
TRONCO !! |
24.01.2013 - LA SEGRETERIA PTPL |
dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
LAVORI PUBBLICI:
R. Troccoli,
SUBAPPALTO, ERGO SUM! - L’Autorità, con un inaspettato
parere (non vincolante), cambia direzione e va all’attacco
dell’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale in
materia di subappalto qualificante. E mentre la Merloni si
rivolta nella tomba, gli operatori si interrogano: errore di
percorso o definitivo cedimento del sistema di
qualificazione per l’esecuzione degli appalti pubblici? (21.01.2013). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
EDILIZIA
PRIVATA:
Lombardia,
Nuove disposizioni urbanistiche introdotte nella l.r. n. 12
del 2005 dalla l.r. n. 21 del 2012.
In materia di disciplina urbanistico-edilizia nei Comuni
privi di PGT il legislatore regionale è intervenuto nelle
scorse settimane dettando alcune disposizioni integrative
dell'art. 25 della
l.r. n. 12 del 2005; più precisamente, l'art. 4 della
l.r. n. 21 del 24.12.2012 (pubblicata sul BURL,
Supplemento n. 52 del 28.12.2012) ha inserito nel citato
art. 25 della l.r. n. 12 del 2005 i commi 1-ter, 1-quater e
1-quinquies.
Con la sola eccezione dei Comuni terremotati e in dissesto
finanziario dichiarato, è confermata la
perdita di efficacia dei previgenti PRG alla data prevista
dal comma 1 del predetto art. 25, ovvero il 31.12.2012;
sotto questo profilo, la soluzione inizialmente proposta
dalla Giunta regionale, che intendeva diversificare tra
Comuni che alla stessa data avessero adottato il PGT e
Comuni che invece non l'avessero adottato, non è stata alla
fine condivisa dal Consiglio regionale.
La scelta del legislatore regionale è stata piuttosto quella
di precisare, per tutti i Comuni divenuti privi di
strumentazione urbanistica, gli interventi possibili fino
all'approvazione del PGT; queste
disposizioni (nuovo comma 1-quater) sono evidentemente
sostitutive della disciplina generale statale stabilita per
i Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici, dettata
dall'art. 9 del d.p.r. n. 380 del 2001 che, infatti, al
comma 1 fa espressamente "salvi i più restrittivi limiti
fissati dalle leggi regionali".
Si precisa che la declaratoria degli interventi ammessi
(lett. a - b - c del comma 1-quater) ha
carattere esaustivo,
come attestato dall'uso dell'avverbio "unicamente";
pertanto, sono da considerare precluse
iniziative edificatorie diverse che non siano riconducibili
agli interventi espressamente contemplati dalla norma; in
particolare, non sono attivabili iniziative in variante al
(non più vigente) PRG, come gli accordi di programma, i
programmi integrati di intervento e i SUAP ex art. 97 della
l.r. n. 12 del 2005, come pure gli interventi ex lege
in deroga a specifiche previsioni di PRG (ad es. sottotetti,
parcheggi pertinenziali, riconversione di coperture in
cemento amianto, edifici ed impianti pubblici o di interesse
pubblico).
Si rammenta che gli interventi in deroga previsti dalla
disciplina a valenza temporanea del cosiddetto piano casa
regionale (art. 3, 4, 5 e 6 della
l.r. n. 4 del 2012) sono espressamente esclusi dal nuovo
comma 1-quinquies dell'art. 25 della l.r. n. 12 del 2005,
aggiunto dalla l.r. n. 21 del 2012.
Per quanto riguarda i cambi di destinazione
d'uso, connessi o non a opere edilizie, sono da considerare
in ogni caso preclusi, non potendo evidentemente essere
verificata la conformità "alle previsioni urbanistiche
comunali", richiesta dall'art. 52 della l.r. n. 12 del
2005.
Ovviamente, a seguito dell'adozione del PGT, intervenuta sia
entro il 31.12.2012 sia successivamente, gli interventi
ammessi secondo il nuovo comma 1-quater dell'art. 25 della
l.r. n. 12 del 2005 devono essere altresì verificati con le
previsioni adottate, operanti in regime di salvaguardia ex
art. 13, comma 12, della stessa l.r. n. 12 del 2005.
Si precisa che nei casi in cui alla data del 31.12.2012
risulti intervenuta l'approvazione definitiva del PGT ma non
ancora la relativa pubblicazione sul BURL che ne determina
l'efficacia ex art. 13, comma 11, della l.r. n. 12 del 2005,
nelle more di quest'ultimo adempimento e dunque anche oltre
la predetta data, non viene meno l'efficacia dei PRG; a tale
conclusione si deve addivenire sia in ragione del disposto
per il quale le salvaguardie del PGT trovano applicazione
per l'appunto fino alla "pubblicazione dell'avviso di
approvazione degli atti di PGT" (cfr. art. 13, comma 12,
della l.r. n. 12 del 2005), sia perché la sopra richiamata
disciplina restrittiva di cui al comma 1-quater, che il
legislatore regionale ha inteso dettare a fronte della
sopravvenuta inefficacia del PRG, è stata dallo stesso
legislatore espressamente riferita ai "Comuni che entro
il 31.12.2012 non hanno approvato il PGT".
Per quanto riguarda le procedure edilizie in corso alla data
del 31.12.2012, il nuovo comma 1-quinquies dell'art. 25 fa
espressamente "salve le istanze di permesso di costruire
e le denunce di inizio attività presentate entro il
31.12.2012" relativamente agli interventi in deroga
consentiti dal cosiddetto piano casa regionale (art. 3, 4, 5
e 6 della l.r. n. 4 del 2012). Non essendosi il legislatore
regionale espresso nei medesimi termini relativamente ad
altre iniziative edificatorie parimenti in corso di
definizione, tutti gli interventi non
riconducibili alla declaratoria di cui al comma 1-quater
(lett. a - b - c) sono da considerare preclusi a far tempo
dal 01.01.2013, compresi quelli oggetto di istanze di
permesso di costruire non definite con l'avvenuto rilascio
del titolo entro il 31.12.2012, ovvero di denunce di inizio
attività presentate successivamente al 01.12.2012.
Milano, il 16.01.2013 - Direzione Generale Territorio
e Urbanistica (link a www.territorio.regione.lombardia.it). |
LAVORI PUBBLICI:
IL RECEPIMENTO DELLA NUOVA DIRETTIVA EUROPEA SUI RITARDI
DI PAGAMENTO - Prime indicazioni operative relative
all'applicazione del D.Lgs. 09.11.2012 n. 192 (ANCE,
circolare 18.01.2013). |
APPALTI:
Parere del Garante sulla deliberazione dell'Avcp
attuativa dell'art. 6-bis del Codice dei contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture (d.lgs. 12.04.2006,
n. 163) (Garante per la protezione dei dati personali,
parere 19.12.2012 n. 420). |
SINDACATI |
PUBBLICO
IMPIEGO:
L’ILLEGITTIMA ATTRIBUZIONE DELLE FUNZIONI
DIRIGENZIALI NEGLI ENTI LOCALI (CGIL-FP
di Bergamo,
nota 20.01.2013).
---------------
Per la FP-CGIL di Bergamo è sempre uno stimolo quando un
amministratore ci accusa di vendere fumo ed infondatezze,
soprattutto se quell’amministratore rimane ben lontano dal
merito delle questioni.
Riprendiamo, quindi, l’annosa questione dell’illegittima
nomina di personale appartenente alla categoria C a
Responsabile degli Uffici e dei Servizi nel caso di presenza
all’interno dell’ente (non del servizio o settore) di altri
responsabili degli uffici e dei servizi appartenenti alla
categoria D. (... continua). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
APPALTI:
G.U. 21.01.2013 n. 17 "Linee Guida concernenti la
comunicazione alla stazione appaltante degli accertamenti
effettuati ai sensi 1-septies del D.L. 06.09.1982, n. 629,
convertito, con modificazioni, dalla legge 12.10.1982, n.
726" (Ministero dell'Interno, Comitato di coordinamento
per l'alta sorveglianza delle grandi opere,
comunicato 19.12.2012). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO
IMPIEGO: Il congedo non
abbassa l'importo. Non serve invece per la progressione di
carriera.
I periodi di congedo straordinario per gravi motivi
familiari, previsti dall'art.42 del decreto legislativo
151/2001, non valgono ai fini della progressione economica
di carriera. E quindi non sono utili a far maturare i
gradoni. Fermo restando che sono validi ai fini della
pensione, perché sono coperti da contribuzione figurativa.
É
questo l'avviso del ministero della funzione pubblica
guidato da Filippo Patroni Griffi contenuto nella
nota 15.01.2013 n. 2285 di prot..
Secondo palazzo Vidoni, i periodi di assenza fruiti per
effetto del congedo non possono essere valutati ai fini
della maturazione degli scatti di carriera, perché non sono
coperti da effettivo servizio. E quindi , di fatto, non si
verificherebbe la condizione prevista dalla normativa di
settore ai fini della progressione economica. Che consiste
appunto nell'arricchimento della professionalità e del
miglioramento delle capacità lavorative del lavoratore, che
fa seguito all'acquisizione dell'esperienza maturata sul
campo.
La questione era stata già affrontata dalla
ragioneria territoriale di Torino, con la nota prot. 77198
del 08/06/2012, con la quale aveva affermato che «i periodi di
congedo fruiti ai sensi dell'art. 42, comma 5, del D.L.vo
151/2011 sono da considerarsi interruttivi dell'anzianità di servizio_ (si veda la nota 346 del 20 luglio scorso
dell'ufficio scolastico provinciale di Torino)». L'ufficio
era giunto a tale conclusione sulla base di una precedente
pronuncia dell'Inps che, con la circolare 28 del 28 febbraio
scorso, aveva ritenuto che i periodi di congedo ex art. 42
del D.Lgs. 151/2001 non potessero essere «computabili
nell'anzianità giuridica valida ai fini della progressione
di carriera».
L'articolo 42, peraltro, non prevede alcuna
disposizione specifica in tal senso. Ma per quanto non
previsto dalla medesima norma, opera un rinvio espresso
all'articolo 4 comma 2 della legge 53/2000. Il quale dispone
che, durante il congedo, il lavoratore «non ha diritto alla
retribuzione». E siccome non ha diritto alla retribuzione,
non ha titolo neppure a vedersi riconoscere l'anzianità ai
fini dei gradoni. Giova ricordare, peraltro, che i suddetti
periodi danno titolo ad un'indennità pari all'importo della
retribuzione. Ma si tratta di una mera forma di ristoro
patrimoniale e non di un corrispettivo.
Di qui l'irrilevanza
ai fini della maturazione dei gradoni, che presuppongono
l'effettivo svolgimento della prestazione o la fruizione di
un'assenza equiparata al servizio che dia titolo alla
retribuzione
(articolo ItaliaOggi del 22.01.2013). |
CORTE DEI
CONTI |
ATTI
AMMINISTRATIVI - SEGRETARI
COMUNALI:
Ruolo del Segretario comunale e danno erariale.
E’ noto che tra i doveri del
segretario comunale sussiste anche quello, fondamentale, di
esprimere pareri di legittimità sulle delibere dell’ente
locale.
La circostanza che, nella specie, entrambi i suddetti
condannati/appellanti (ndr: segretario e vice-segretario
comunale) non si siano pronunciati -come se avessero da
espletare mera funzione di assistenza e collaborazione
giuridico/amministrativa nella redazione della delibera- non
può valere da esimente ma coinvolge ancor più la loro
responsabilità per il silenzio serbato mentre avrebbero
dovuto espressamente evidenziare la non conformità a legge
del provvedimento.
In tema, la giurisprudenza della Corte è assai chiara
nell’affermare che “L'affidamento, alla stregua della
previsione normativa di cui all'art. 97 T.U. 18.08.2000, n.
267, al segretario comunale di funzioni di assistenza e di
collaborazione giuridica e amministrativa con tutti gli
organi dell'ente locale assorbe, in qualche guisa, lo
specifico compito, dianzi espressamente previsto dall'art.
53 L. 08.06.1990, n. 142, di esprimere un previo parere di
legittimità sulle deliberazioni di giunta; l'evoluzione
normativa in materia ben lungi dall'evidenziare una
sottrazione del segretario in questione alla responsabilità
amministrativa per il parere eventualmente espresso su atti
della Giunta, ne ha invece sottolineato le maggiori
responsabilità in ragione della rilevata estensione di
funzioni, di tal che non assume alcun rilievo esimente
l'art. 17, commi 85 e 86, L. 15.05.1997, n. 127 che ha
espressamente abrogato l'istituto del previo parere di
legittimità del segretario comunale”.
Pertanto non può dubitarsi del fatto che il Segretario
comunale abbia il “preciso obbligo giuridico di segnalare
agli amministratori le illegittimità contenute negli
emanandi provvedimenti”, al fine di impedire atti e
comportamenti illegittimi forieri di danno erariale: si
tratta, invero, di una figura professionale alla quale è per
legge “demandato un ruolo di garanzia, affinché l'attività
dell'ente possa dispiegarsi nell'interesse del buon
andamento e dell'imparzialità”.
---------------
Non essendo possibile configurare un generale criterio di
valutazione della colpa grave, non è sufficiente a
integrarla la semplice “violazione della legge o di regole
di buona amministrazione ma è necessario che questa
violazione sia connotata da inescusabile negligenza o dalla
previsione dell'evento dannoso”.
Detta colpa consiste, infatti, “in un comportamento
avventato e caratterizzato da assenza di quel minimo di
diligenza che è lecito attendersi in relazione ai doveri di
servizio propri o specifici dei pubblici dipendenti (…)”
ossia nella “inammissibile trascuratezza e negligenza dei
propri doveri, coniugata alla prevedibilità delle
conseguenze dannose del comportamento” in relazione alle
modalità del fatto, all'atteggiamento soggettivo dell'autore
nonché al rapporto tra tale atteggiamento e l'evento
dannoso: “di guisa che il giudizio di riprovevolezza della
condotta venga in definitiva ad essere basato su un quid
pluris rispetto ai parametri di cui agli artt. 43 cod. pen.
e 1176 cod. civ.”.
Occorre far riferimento, insomma, “al grado di anomalia e di
incompatibilità dei comportamenti concreti rispetto agli
schemi normativi astratti, ivi compreso il dovere di
svolgere i propri compiti con il massimo di lealtà e
diligenza, dovendosi in particolare esaminare il concreto
atteggiarsi dell'agente, calato nella contestualità del
momento, nei fini del suo agire quali desumibili da indici
di presunzione di esperienza, perizia e buon senso, nel
grado di prevedibilità di eventi dannosi e nella quota di
esigibilità, anche alla stregua di altri doveri e fini
pubblici da seguire, della norma infranta”.
---------------
FATTO
Con la sentenza in epigrafe, la Sezione giurisdizionale per
la regione Basilicata -in disparte la reiezione di questioni
pregiudiziali e/o procedurali- ha condannato (tra gli altri)
i sig.ri ... al pagamento di importi tra loro diversi (oltre
agli interessi legali) -determinati in via equitativa, nella
misura del 20% di quanto chiesto nell’atto introduttivo e
comprensivi della rivalutazione- a favore dello Stato (50%
del totale), della Regione Basilicata (30% del totale) e del
Comune di LAURIA (PZ) (20% del totale).
I medesimi sono stati ritenuti responsabili -quali
amministratori e/o segretario e v. segretario comunale- del
danno conseguente a illegittimo affidamento a cinque
soggetti esterni, nel periodo 2002/2008, di numerosi e/o non
proficui incarichi per la gestione di pratiche relative alla
ricostruzione post terremoto del 09.09.1998.
...
E’ noto che tra i doveri del
segretario comunale sussiste anche quello, fondamentale, di
esprimere pareri di legittimità sulle delibere dell’ente
locale. La circostanza che, nella specie, entrambi i
suddetti condannati/appellanti non si siano pronunciati
-come se avessero da espletare mera funzione di assistenza e
collaborazione giuridico/amministrativa nella redazione
della delibera- non può valere da esimente ma coinvolge
ancor più la loro responsabilità per il silenzio serbato
mentre avrebbero dovuto espressamente evidenziare la non
conformità a legge del provvedimento.
In tema, la giurisprudenza della Corte è assai chiara
nell’affermare che “L'affidamento, alla stregua della
previsione normativa di cui all'art. 97 T.U. 18.08.2000, n.
267, al segretario comunale di funzioni di assistenza e di
collaborazione giuridica e amministrativa con tutti gli
organi dell'ente locale assorbe, in qualche guisa, lo
specifico compito, dianzi espressamente previsto dall'art.
53 L. 08.06.1990, n. 142, di esprimere un previo parere di
legittimità sulle deliberazioni di giunta; l'evoluzione
normativa in materia ben lungi dall'evidenziare una
sottrazione del segretario in questione alla responsabilità
amministrativa per il parere eventualmente espresso su atti
della Giunta, ne ha invece sottolineato le maggiori
responsabilità in ragione della rilevata estensione di
funzioni, di tal che non assume alcun rilievo esimente
l'art. 17, commi 85 e 86, L. 15.05.1997, n. 127 che ha
espressamente abrogato l'istituto del previo parere di
legittimità del segretario comunale” (cfr.: Sez. 2^ giur.
C.le d’appello,
sentenza 23.06.2004 n. 197; idem, sentenza 17.03.2004 n.
88).
Pertanto non può dubitarsi del fatto che il Segretario
comunale abbia il “preciso obbligo giuridico di segnalare
agli amministratori le illegittimità contenute negli
emanandi provvedimenti”, al fine di impedire atti e
comportamenti illegittimi forieri di danno erariale (Sez.
Giur. Lombardia,
sentenza 09.07.2009 n. 473): si tratta, invero, di una
figura professionale alla quale è per legge “demandato un
ruolo di garanzia, affinché l'attività dell'ente possa
dispiegarsi nell'interesse del buon andamento e
dell'imparzialità” (Sez. Giur. Lombardia,
sentenza 08.05.2009 n. 324).
Orbene, in proposito, è da
richiamare la consolidata e condivisibile giurisprudenza
della Corte dei conti secondo cui, non essendo possibile
configurare un generale criterio di valutazione della colpa
grave, non è sufficiente a integrarla la semplice “violazione
della legge o di regole di buona amministrazione ma è
necessario che questa violazione sia connotata da
inescusabile negligenza o dalla previsione dell'evento
dannoso” (Sez. 3^ giur. centrale di appello, sent. n. 75
del 12/02/2010; idem, sent. n. 424 del 09/10/ 2006).
Detta colpa consiste, infatti, “in un comportamento
avventato e caratterizzato da assenza di quel minimo di
diligenza che è lecito attendersi in relazione ai doveri di
servizio propri o specifici dei pubblici dipendenti (…)”
(Sez. 1^ centrale di appello, sent. n. 305 dell’08.05.2009)
ossia nella “inammissibile trascuratezza e negligenza dei
propri doveri, coniugata alla prevedibilità delle
conseguenze dannose del comportamento” (Sez. Giur.
Calabria, sent. 01/07/2005, n. 763) in relazione alle
modalità del fatto, all'atteggiamento soggettivo dell'autore
nonché al rapporto tra tale atteggiamento e l'evento
dannoso: “di guisa che il giudizio di riprovevolezza
della condotta venga in definitiva ad essere basato su un
quid pluris rispetto ai parametri di cui agli artt. 43 cod.
pen. e 1176 cod. civ.” (Sezioni Riunite, sent.
10/06/1997, n. 56).
Occorre far riferimento, insomma, “al grado di anomalia e
di incompatibilità dei comportamenti concreti rispetto agli
schemi normativi astratti, ivi compreso il dovere di
svolgere i propri compiti con il massimo di lealtà e
diligenza, dovendosi in particolare esaminare il concreto
atteggiarsi dell'agente, calato nella contestualità del
momento, nei fini del suo agire quali desumibili da indici
di presunzione di esperienza, perizia e buon senso, nel
grado di prevedibilità di eventi dannosi e nella quota di
esigibilità, anche alla stregua di altri doveri e fini
pubblici da seguire, della norma infranta” (Sez. Giur.
Piemonte, sent. 02/11/2005, n. 647).
In ragione di quanto precede, a questo Collegio
sembrano palesi la scarsa diligenza, superficialità,
contraddittorietà e/o trascuratezza del modus procedendi
degli (odierni) appellanti -per aver, in particolare,
provveduto al costante rinnovo delle convenzioni– tali da
configurare la loro piena responsabilità in ordine al
pregiudizio patrimoniale arrecato al Comune di Lauria, nel
cui nome e interesse hanno operato.
La gravata sentenza, al proposito, fondatamente ha
evidenziato che l’applicazione (contra legem) di
personale convenzionato all’espletamento delle pratiche
addirittura concernenti il lontano terremoto del 1980, 1981
e 1982 non solo ha inciso sull’efficacia ed efficienza della
gestione dell’attività amministrativa riguardante il sisma
del 1998 –risultata scarsa almeno nella parte della mancata
programmazione (e conseguente valutazione) di un risultato
minimo da raggiungere annualmente da parte dei tecnici
convenzionati– ma ha palesemente violato la legge (art. 5,
c. 3, della l. n. 32/1992).
E’ da convenire, dunque, sul “comportamento gravemente
colposo degli amministratori che hanno assunto le delibere
in tal senso, nonché dei soggetti che hanno svolto le
funzioni di Segretario Comunale nell’occasione, venendo meno
a quei compiti di assistenza giuridico-amministrativa nei
confronti degli organi elettivi e di garanti della
legittimità dell’azione amministrativa previsti dall’art. 97
del d.lgs. n. 267/2000” (pag. 25 della sentenza)
(Corte dei Conti, Sez. III giurisdiz. centrale d'appello,
sentenza 18.01.2013 n. 40 - link a
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Contratti
ex art. 110, comma 2, TUEL e art. 9, comma 28, d.l. 78/2010.
La Corte dei Conti, sezione regionale Sardegna, con il
parere 18.01.2013 n. 5 risponde
al Comune di Serramanna che chiede "se è possibile che le
conclusioni della deliberazione della Corte dei Conti
(Sezione Autonomie, deliberazione n. 12/AUT/2012), vale a
dire l'esclusione delle spese sostenute per incarichi
dirigenziali conferiti ai sensi dell'art. 110, comma 1,
dalla limitazioni dettate dall'art. 9, comma 28 ..., siano
applicabili anche ai Comuni che non hanno la dirigenza e che
intendono affidare incarichi ai sensi dell'art. 110 comma 2
del TUEL".
Di seguito alcuni passaggi della pronuncia e le
consequenziali conclusioni:
- "... argomentando dalla semplice sola applicazione dei
principi generali, nonché dalla stessa previsione testuale
dell'art. 19, comma 6-quater (d.lgs. n. 165/2001), e
rispondendo al quesito in esame, si ritiene che tale
disciplina derogatoria non possa essere estesa al personale
dirigenziale che un ente locale ritenga di dover assumere ai
sensi dell'art. 110, secondo comma, ovvero al di fuori della
dotazione organica";
- "Infatti, in primo luogo, le disposizioni che fanno
eccezione a regole generali non possono trovare applicazione
che nei casi e nei modi previsti (come previsto dall'art. 14
delle disposizioni sulla legge in generale, c.d. preleggi
del codice civile). Ma ancor prima è lo stesso art. 19,
comma 6-quater, a prevedere espressamente il riferimento al
solo primo comma dell'art. 110 TUEL";
- "... in merito alla ratio della disposizione, viene
meno anche la stessa ragione logica sottostante l'indicata
regola derogatoria, ovvero la necessità di garantire il
funzionamento ordinario e regolare dell'amministrazione con
riferimento ad importanti posizioni dirigenziali previste
dalla dotazione organica dell'Ente in quanto ordinario
predicato organizzativo dell'amministrazione";
- "E' evidente infatti che simile ragionamento non potrà
certo valere per quelle posizioni dirigenziali costituite
oltre la dotazione organica, che quindi costituiscono vere e
proprie assunzioni a tempo determinato per la copertura di
posizioni evidentemente non ritenute essenziali dalla
stabile organizzazione dell'ente. Per esse non potrà quindi
che operare il limite previsto dall'art. 9, comma 28, del
d.l. 78/2010" (tratto da www.publika.it). |
QUESITI &
PARERI |
EDILIZIA
PRIVATA:
Gli oneri di urbanizzazione.
DOMANDA:
Dall’esercizio 2013 cessa (non risulta alcuna proroga) la
deroga concessa dall’art. 2, comma 8, della legge 244/2007
(legge finanziaria) per l’utilizzo per spese correnti
(massimo 50%) e manutenzioni del patrimonio comunale
(massimo 25%).
Si chiede se il gettito degli oneri di urbanizzazione del
2013 dovrà essere destinato esclusivamente a opere di
urbanizzazione primarie e secondarie oppure è consentito
anche un utilizzo per spese in conto capitale diverse (ad.
Esempio acquisto mobili, attrezzature, ecc.)
RISPOSTA:
Facendo riferimento alla questione posta, si fa presente
quanto segue. Dal 2013 le entrate derivanti da oneri di
urbanizzazione dovranno essere destinate, per intero, solo
al finanziamento di investimenti, cioè di spese impegnabili
al titolo II.
Non esiste un vincolo di destinare queste risorse
all’esclusivo finanziamento di opere di urbanizzazione
primarie o secondarie (21.01.2013 - tratto da
www.ancirisponde.ancitel.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Autorizzazione
Unica Ambientale: Quale è la definizione? (21.01.2013
- link a www.ambientelegale.it). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI:
Obbligo di ricorso al MEPA e diritto di recesso dai
contratti.
Qualora la categoria merceologica
relativa al bene o il servizio oggettivamente necessario
alla p.a. non sia presente all'interno del MEPA,
l'Amministrazione, al fine di soddisfare l'interesse
pubblico cui è preposta, può provvedere all'acquisizione
anche al di fuori del MEPA, pur dovendo necessariamente
motivare (con attenta enunciazione degli elementi in fatto
ed in diritto rilevanti nei vari casi di specie) di aver
debitamente effettuato tale verifica istruttoria, e di non
aver tuttavia potuto materialmente reperire il bene o il
servizio all'interno del MEPA.
Il Comune chiede di conoscere, premesso il generale obbligo
di ricorrere al mercato elettronico per le acquisizioni
sotto soglia, se permane la possibilità di ricorrere al
mercato 'ordinario' in caso di mancato reperimento
nel mercato elettronico dei beni e dei servizi di cui l'Ente
medesimo necessita e se i contratti pluriennali, aventi
scadenza nel 2014, rimangano validi o debbano essere
rescissi.
Chiede, inoltre, di conoscere se, anche per gli enti locali
del Friuli Venezia Giulia, vi sia l'obbligo di esercitare in
forma associata almeno tre funzioni fondamentali entro il
01.01.2013, così come previsto dall'art. 19, comma 1, lett.
e), del DL 95/2012 convertito, con modificazioni, dalla
legge 07.08.2012, n. 135 che ha apportato modifiche e
integrazioni all'art. 14 del DL 78/2010, convertito, con
modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122.
Sentito, in relazione alla prima questione, il Servizio
provveditorato e servizi generali, si formulano le seguenti
considerazioni.
L'articolo 1, comma 450, della l. 296/2006, come modificato
dall'art. 7, comma 2, del DL 52/2012, convertito con la l.
94/2012 dispone: 'dal 01.07.2007, le amministrazioni
statali centrali e periferiche, ad esclusione degli istituti
e delle scuole di ogni ordine e grado, delle istituzioni
educative e delle istituzioni universitarie, per gli
acquisti di beni e servizi al di sotto della soglia di
rilievo comunitario, sono tenute a fare ricorso al mercato
elettronico della pubblica amministrazione di cui
all'articolo 328, comma 1, del regolamento di cui al decreto
del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207. Fermi
restando gli obblighi previsti al comma 449 del presente
articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui
all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165,
per gli acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla
soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al
mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad
altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo
articolo 328';
Tutti i Comuni, quindi, rientrando nell'ambito della
elencazione di cui al citato art. 1 del d.lgs. 165/2001,
sono obbligati a far ricorso al mercato elettronico per gli
acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla soglia
comunitaria.
L'art. 328 del DPR 207/2010 individua tre tipi diversi di
mercato elettronico: quello della medesima stazione
appaltante, quello realizzato dal Ministero dell'economia e
delle finanze tramite il sistema Consip, quello realizzato
dalle centrali di committenza di cui all'art. 33 del codice
dei contratti pubblici.
Per quanto riguarda la possibilità per il Comune instante di
avvalersi del 'mercato tradizionale', qualora non
reperisca all'interno del mercato elettronico i prodotti di
cui necessita, si rileva che non sussistono previsioni
normative in tal senso.
Come rilevato dalla dottrina, sulla natura di 'esclusività'
del ricorso al mercato elettronico 'possono tuttavia
nutrirsi dei dubbi, nel senso che il Mercato elettronico
messo a disposizione da CONSIP non sembra essere (ancora)
pienamente in grado di poter offrire tutti i servizi e i
beni necessari alle diverse p.a.; in esso potrebbe quindi
non essere oggettivamente presente ogni specifico
bene/servizio volta per volta occorrente per soddisfare le
esigenze pubbliche.
A tale proposito, è indispensabile premettere che
nell'attuale contesto normativo ed economico, non sembra
legittimo scegliere di non ricorrere al MEPA affermando
semplicemente che i beni/servizi, benché presenti in esso,
non siano però coerenti con le necessità della p.a.
acquirente, in quanto privi di requisiti tecnici non
essenziali o perché -addirittura- privi di requisiti di
carattere meramente estetico. [...]. Ciò doverosamente
premesso, potrebbe però accadere che, in effetti, il bene o
il servizio oggettivamente necessario alla p.a. [1] non sia
presente all'interno del MEPA: in questo caso, si deve
ragionevolmente ritenere che la stessa p.a. -al fine di
soddisfare l'interesse pubblico cui la stessa è preposta-
sia comunque abilitata all'acquisizione anche al di fuori
del MEPA, pur dovendo necessariamente motivare (con attenta
enunciazione degli elementi in fatto ed in diritto rilevanti
nei vari casi di specie) di aver debitamente effettuato tale
verifica istruttoria, e di non aver tuttavia potuto
materialmente reperire il bene o il servizio all'interno del
MEPA.'. [2]
Quanto alla validità dei contratti già in essere al
15/08/2012 (data di entrata in vigore dell'art. 1 D.L.
95/2012), l'articolo 1, comma 13, del DL 95/2012 prevede che
le amministrazioni pubbliche che abbiano validamente
stipulato un contratto di fornitura o di servizi hanno
diritto di recedere in qualsiasi tempo dal contratto, previa
formale comunicazione all'appaltatore con preavviso non
inferiore a quindici giorni e previo pagamento delle
prestazioni già eseguite oltre al decimo delle prestazioni
non ancora eseguite. Il diritto di recesso è esercitabile
ogni volta che, tenuto conto anche dell'importo dovuto per
le prestazioni non ancora eseguite, i parametri Consip
risultino migliorativi rispetto a quelli del contratto
stipulato e l'aggiudicatario non acconsenta alla
rinegoziazione.
La norma prevede che la clausola di recesso si inserisca
automaticamente nei contratti in corso e che il suo mancato
esercizio da parte dell'amministrazione vada segnalato alla
Corte dei conti entro il 30 giugno di ogni anno.
Con riferimento alla seconda questione proposta dall'Ente
instante, circa l'applicabilità agli enti locali della
nostra regione dell'obbligo di esercizio associato di
funzioni di cui alle norme indicate in premessa, si
richiamano integralmente i contenuti dei pareri prot. n.
7273 e n. 7274 dd. 29.02.2012, resi dallo scrivente Ufficio
in ordine alla non diretta applicabilità, in ambito
regionale, delle norme statali in materia di esercizio in
forma associata di funzioni tra enti locali [3].
---------------
[1] Corre l'obbligo di precisare che, ad avviso dello
scrivente Ufficio, per 'bene' e 'servizio' qui dovrebbe
intendersi la relativa categoria merceologica.
[2] Cfr. 'Ricorso al MEPA: obblighi, deroghe e modalità
operative' a cura di Ilenia Filippetti su
www.appaltiecontratti.it dd. 12/09/2012.
[3] I pareri sono consultabili all'indirizzo: http://autonomielocali.regione.fvg.it/aall/opencms/AALL/Servizi/pareri/
(21.12.2012 - link a www.regione.fvg.it). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: Acquisti
in economia e ricorso al mercato elettronico.
L'art. 1, comma 450, della L. 296/2006,
come modificato dall'art. 7, comma 2 del DL 52/2012, facendo
generico riferimento all'acquisto di beni e servizi di
importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario, sembra
ricomprendere anche gli affidamenti in economia.
Il Comune chiede di conoscere se l'obbligo di ricorso al
mercato elettronico riguardi anche le acquisizioni in
economia di cui al Titolo V Capo II del DPR 207/2010 [1],
atteso che l'art. 335 dispone, relativamente a dette
acquisizioni, la facoltà e non l'obbligo del ricorso al
mercato elettronico.
Sentito il Servizio provveditorato e servizi generali, si
formulano le seguenti considerazioni.
L'articolo 7, comma 2, del D.L. n. 52/2012 [2] ha modificato
il comma 450, dell'articolo 1, della L. n. 296/2006,
disponendo che 'fermi restando gli obblighi previsti al
comma 449 del presente articolo, le altre amministrazioni
pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165, per gli acquisti di beni e servizi di
importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono
tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica
amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici
istituiti ai sensi del medesimo articolo 328'.
Viene in sostanza sancito l'obbligo per tutti gli enti
pubblici, e quindi anche per gli enti locali, di ricorrere
al MEPA (o ad altri mercati elettronici) per l'acquisizione
di beni e servizi sotto soglia.
Il tenore letterale della citata norma non sembra lasciar
spazio a deroghe: gli enti devono necessariamente ricorrere
al mercato elettronico per il reperimento di beni e servizi
se il valore dell'importo è inferiore alla soglia
comunitaria. Alla norma in esame parrebbe altresì
applicabile il dettato dell'articolo 1, comma 1, del D.L. n.
95/2012, il quale dispone che 'i contratti stipulati in
violazione degli obblighi di approvvigionarsi attraverso gli
strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip S.p.A.
sono nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa
di responsabilità amministrativa'. Tra gli strumenti di
acquisto messi a disposizione da Consip, infatti, rientra
anche il MEPA.
Il mercato elettronico è disciplinato dall'art. 328 del DPR
n. 207/2010 che ne individua tre tipi diversi: quello della
medesima stazione appaltante, quello realizzato dal
Ministero dell'economia e delle finanze tramite il sistema
Consip, quello realizzato dalle centrali di committenza di
cui all'art. 33 del codice dei contratti pubblici.
Il comma 4 del predetto articolo 328 prevede, poi, che: 'Avvalendosi
del mercato elettronico le stazioni appaltanti possono
effettuare acquisti di beni e servizi sotto soglia:
a) attraverso un confronto concorrenziale delle offerte
pubblicate all'interno del mercato elettronico o delle
offerte ricevute sulla base di una richiesta di offerta
rivolta ai fornitori abilitati;
b) in applicazione delle procedure di acquisto in economia
di cui al capo II'.
Con particolare riferimento al quesito dell'Ente concernente
le acquisizioni in economia, si osserva come l'art. 1, comma
450, della L. 296/2006, come modificato dall'art. 7, comma
2, del DL 52/2012, facendo generico riferimento all'acquisto
di beni e servizi di importo inferiore alla soglia di
rilievo comunitario, sembri ricomprendere anche gli
affidamenti in economia.
Detti affidamenti, infatti, nell'ambito del d.lgs. 163/2006
(Codice contratti), sono disciplinati dall'articolo 125, il
quale è a sua volta inserito, nella parte II del Codice,
all'interno del Titolo II, rubricato 'Contratti sotto
soglia comunitaria'.
L'interpretazione letterale della norma, pertanto,
sembrerebbe contemplare anche gli affidamenti in economia
tra quelli sotto soglia richiamati dal legislatore statale.
Si osserva, tuttavia, che, come peraltro evidenziato
dall'Ente instante, il DPR 207/2010 disciplina le
acquisizioni sotto soglia e quelle in economia in due capi
distinti (rispettivamente capi I e II del Titolo V).
Un tanto rende non agevole comprendere in quale accezione,
nell'ambito del citato articolo 1, comma 450, L. 296/2006,
il legislatore statale abbia inteso utilizzare la dicitura 'sotto
soglia', ossia se riferendosi ai 'Contratti sotto
soglia comunitaria' di cui alla parte II, Titolo II del
Codice dei contratti (ricomprendente anche le acquisizioni
in economia) o riferendosi alle sole 'Acquisizioni sotto
soglia' disciplinate dal Titolo V, capo I del
Regolamento sui contratti (con esclusione, quindi delle
acquisizioni in economia).
In senso conforme alla seconda ipotesi interpretativa, si
segnala un primo orientamento dell'ANCI [3] che si basa su
una interpretazione sistematica dell'art. 328 cit. e su una
lettura degli atti dei lavori del Senato in sede di
conversione del DL 52/2012, i quali parrebbero circoscrivere
l'obbligo di acquisto a mezzo di mercato elettronico solo
agli acquisti sotto soglia effettuati in regime di 'appalto'
in base agli articoli da 121 a 124 del Codice, con
esclusione, perciò, degli acquisti eseguiti con il diverso
regime 'in economia' i quali rimangono disciplinati
dall'art. 125 del Codice (Capo II, rubricato 'Acquisizione
di servizi e forniture in economia') e dal DPR n.
207/2010 (artt. 329 e ss.).
Tuttavia, nel successivo parere dd. 14.11.2012, la stessa
ANCI ha affermato che «il capo II del Tit. V del DPR n.
207/2010 che disciplina specificatamente l''acquisizione di
servizi e forniture in economia' menziona in vari articoli
la possibilità di utilizzazione del mercato elettronico (v.
art. 332, comma 1; 335, comma 2), onde sembra potersi
ritenere che i due istituti, 'acquisizioni in economia' e
'mercato elettronico' siano stati concepiti dal legislatore
non in termini di esclusività o di alternatività ma di
possibile integrazione tra di loro;
- In tale lettura sembra ammissibile concludere che
l'obbligo di cui al comma 2 dell'art. 7 cit. [DL 52/2012] di
far ricorso al mercato elettronico sia da intendersi nei
modi e termini previsti dalle disposizioni contenute nello
stesso capo II del Tit. V del DPR 207/2010 e che quindi
anche l'art. 125 del codice dei contratti pubblici non
risulti affatto implicitamente abrogato dalla recente norma
sulla spending review sopra ricordata, dovendo piuttosto le
norme di interesse correttamente applicarsi in combinato
disposto tra di loro;
- In sostanza i comuni potranno scegliere le proposte di
acquisto più convenienti nell'ambito del mercato elettronico
(ove saranno presenti beni e servizi offerti da fornitori
abilitati a inserire i propri cataloghi nel sistema)
seguendo le proprie procedure in economia;
- In particolare si ritiene che, le indagini di mercato
effettuate dalla stazione appaltante debbano essere
effettuate mediante la consultazione di cataloghi
elettronici di cui all'art. 328 cit. (v. anche art. 332).».
In conclusione, fermo restando che l'interpretazione delle
norme in commento spetta ai competenti uffici ministeriali,
nelle more di auspicabili chiarimenti, si ritiene che la
lettura coordinata della citata normativa induca a ritenere
opportuno procedere anche per le acquisizioni in economia
ricorrendo al mercato elettronico. Un tanto anche al fine di
evitare le responsabilità e le conseguenze pregiudizievoli
sui contratti previste dal citato articolo 1, comma 1, del
DL 95/2012.
--------------
[1] 'Regolamento di esecuzione ed attuazione del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, recante «Codice dei
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in
attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE»'
[2] Convertito con modifiche dalla l. 06.07.2012, n. 94.
[3] Parere ANCI del 10.09.2012 (19.12.2012 - link
a www.regione.fvg.it). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: Obbligo
di avvalersi di Consip per i comuni montani con popolazione
inferiore ai 5.000 abitanti per l'approvvigionamento dei
beni di cui all'art. 1, comma 7, del D.L. 95/2012.
L'art. 1, comma 7, del D.L. 95/2012 -che
stabilisce una disciplina speciale per l'approvvigionamento
di beni, quali energia elettrica, gas, carburanti,
combustibili per riscaldamento, telefonia, da parte delle
pubbliche amministrazioni- non ammette deroghe o procedure
particolari per i piccoli comuni. Tali norme dettano,
infatti, modalità di acquisto che si applicano a tutte le
amministrazioni pubbliche e le società inserite nel conto
economico consolidato della pubblica amministrazione, come
individuate dall'Istat ai sensi dell'articolo 1 della legge
31.12.2009, n. 196.
Il Comune riporta che, ai sensi dell'art. 26, comma 3, della legge
23.12.1999, n. 488 [1], i comuni montani con popolazione
fino a 5.000 abitanti sono esentati, per l'acquisto di beni
e servizi, dall'obbligo di ricorrere alle convenzioni
stipulate dal Ministero del tesoro, del bilancio e della
programmazione economica ovvero ad utilizzarne i parametri
di prezzo-qualità come limiti massimi.
Premesso un tanto, l'Ente chiede se tale clausola di
salvaguardia si applichi anche per l'approvvigionamento di
determinate categorie di beni (energia elettrica, gas,
carburanti, telefonia) per i quali l'art. 1, comma 7, del
decreto legge 06.07.2012, n. 95 [2], prevede l'utilizzo di
specifiche modalità di acquisto prescritte dalla legge.
Sentito il Servizio provveditorato e servizi generali di
questa Direzione centrale, si formulano le seguenti
considerazioni.
Le norme statali succedutesi in materia di acquisti della
pubblica amministrazione hanno distinto, in più occasioni,
la disciplina applicabile ai comuni più piccoli da quella
relativa agli enti con popolazione più numerosa, permettendo
ai primi l'utilizzo di procedure più consone alla propria
organizzazione sebbene comunque dirette ad una riduzione
delle spese per gli approvvigionamenti [3].
Si rileva, tuttavia, che l'art. 1, comma 7, del D.L. 95/2012
-che stabilisce una disciplina speciale per
l'approvvigionamento di beni, quali energia elettrica, gas,
carburanti, combustibili per riscaldamento, telefonia, da
parte delle pubbliche amministrazioni- non sembra ammettere
deroghe o procedure particolari per i piccoli comuni. Tali
norme dettano, infatti, modalità di acquisto che si
applicano a tutte le amministrazioni pubbliche e le società
inserite nel conto economico consolidato della pubblica
amministrazione, come individuate dall'Istat ai sensi
dell'articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196 [4].
L'art. 1, comma 7, del D.L. 95/2012, richiede alle pubbliche
amministrazioni di approvvigionarsi mediante le convenzioni
o gli accordi quadro messi a disposizione da Consip o da
centrali di committenza regionali ovvero attraverso proprie
autonome procedure, nel rispetto della normativa vigente,
utilizzando i sistemi telematici di negoziazione messi a
disposizione dai soggetti sopra indicati.
Va tuttavia evidenziato che il dettato normativo, a seguito
della riscrittura del comma operata dalla legge di
conversione 135/2012, ha ampliato il novero di modalità di
approvvigionamento di tali specifici beni consentendo, nel
rispetto di alcune condizioni, di potere effettuare
affidamenti anche al di fuori delle procedure sopra
indicate.
La legge di conversione ha, infatti, introdotto, come
alternativa, per le stesse amministrazioni pubbliche, la
possibilità di procedere ad affidamenti che conseguano ad
approvvigionamenti da altre centrali di committenza o a
procedure ad evidenza pubblica i cui i corrispettivi siano
inferiori (e, quindi, migliorativi) rispetto a quelli delle
convenzioni e degli accordi quadro messi a disposizione da
Consip e dalle centrali regionali di committenza. In tale
caso, i contratti dovranno essere sottoposti a condizione
risolutiva, con possibilità di adeguamento da parte del
contraente, per il caso in cui intervengano convenzioni
Consip o delle centrali regionali di committenza che
prevedano condizioni economiche di maggiore vantaggio.
---------------
[1] Comma modificato prima dall'art. 3, comma 166, della
legge 24.12.2003, n. 350 e poi dall'art. 1 del decreto legge
12.07.2004, n. 168, convertito, con modificazioni, dalla
legge 30.07.2004, n. 191.
[2] Convertito in legge, con modificazioni, dalla legge
07.08.2012, n. 135.
[3] Oltre a quanto richiamato dall'Ente sull'utilizzo delle
convenzioni-quadro ai sensi dell'art. 26, comma 3, della L.
488/1999, i comuni della Regione con meno di 3.000 abitanti
dovranno considerare anche quanto disposto, in merito
all'utilizzo per le proprie acquisizioni delle centrali
uniche di committenza, dall'art. 33, comma 3-bis, del
decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, come recepito in
Friuli Venezia Giulia dall'art. 4 della legge regionale
09.03.2012, n. 3, con le modifiche apportate dalla 'legge di
manutenzione dell'ordinamento regionale 2012' (approvata
l'11 dicembre u.s. e in corso di pubblicazione).
[4] La cui ultima versione è stata pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale n. 227 del 28.09.2012 (17.12.2012 -
link a www.regione.fvg.it). |
NEWS |
CONSIGLIERI
COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Politici, i redditi trasparenti.
Dichiarazioni online altrimenti scatta la sanzione.
Il governo ha approvato il dlgs sulla trasparenza
della pubblica amministrazione.
In piazza i redditi dei dirigenti pubblici e di chi riveste
cariche politiche. Il governo ha approvato lo
schema di
decreto legislativo attuativo della delega prevista
dall'articolo 1, comma 35, della legge 190/2012
(anticorruzione), finalizzato al riordino delle tantissime
norme che impongono di pubblicizzare una molteplicità di
dati.
E l'omissione delle informazioni sarà punita con delle
sanzioni da un minimo di 500 euro a un massimo di 10 mila
euro, con la pubblicazione sul sito internet
dell'amministrazione del provvedimento con cui si è colpito
il dirigente o il politico.
Spicca, in particolare, una decisa volontà del legislatore
di far conoscere ai cittadini anche il trattamento economico
e l'intero stato patrimoniale della dirigenza.
Patrimonio dei dirigenti. Lo schema di decreto legislativo
sottrae alle cautele della privacy le informazioni sui
dirigenti pubblici e vuole mettere in condizione i cittadini
di conoscere ogni aspetto della loro attività e del
patrimonio. Per tutti i titolari di incarichi amministrativi
di vertice e di incarichi dirigenziali e per i collaboratori
o consulenti, si impone di rendere pubblici l'atto di
conferimento dell'incarico, il curriculum vitae, i dati
relativi ad incarichi o alla titolarità di cariche in enti
di diritto privato finanziati dall'erario o lo svolgimento
di attività professionali, le retribuzioni, fisse e
variabili.
Nei confronti dei consulenti esterni, le
pubblicazioni dei dati relativi ai loro incarichi sarà
condizione di efficacia dell'atto e di conferimento e per la
liquidazione dei relativi compensi. Il dirigente che vìoli
questa prescrizione risponde sul piano disciplinare del e
dovrà pagare una sanzione pari alla somma corrisposta, oltre
all'eventuale risarcimento del danno da ritardo. Infine, le
pubbliche amministrazioni dovranno pubblicare ed aggiornare
l'elenco dei dirigenti esterni, assunti a tempo determinato,
con tanto di curriculum.
Compensi dei politici. Altrettanto rigoroso e ampio è
l'elenco delle informazioni riguardanti i componenti degli
organi politici.
Sul sito istituzionale, ogni amministrazione dovrà inserire
l'atto di nomina o di proclamazione dell'elezione,
specificando la durata dell'incarico o del mandato elettivo;
il curriculum (anche se non si capisce quanto possa influire
il curriculum per una carica elettiva politica); i compensi,
di natura fissa o variabile, connessi con l'assunzione della
carica; le spese per viaggi di servizio e missioni pagati
con fondi pubblici; dati relativi all'assunzione di altre
cariche, presso enti pubblici o privati, ed i relativi
compensi a qualsiasi titolo corrisposti; l'elenco di altri
eventuali incarichi con oneri a carico della finanza
pubblica e l'indicazione dei compensi spettanti.
Anche per
gli eletti lo schema di decreto legislativo prevede la
pubblicazione di dichiarazioni sul patrimonio (beni
immobili, mobili registrati, azioni), dichiarazioni Irpef e
una dichiarazione concernente le spese sostenute e le
obbligazioni assunte per la propaganda elettorale,.
Sanzioni. Nel caso in cui i componenti degli organi di
governo omettano di fornire le informazioni sul loro stato
patrimoniale o, comunque, diano informazioni incomplete, lo
schema di decreto legislativo prevede luogo a una sanzione
amministrativa pecuniaria da un minimo di 500 a un massimo
di 10 mila euro e il relativo provvedimento sanzionatorio
deve essere pubblicato sul sito internet dell'amministrazione.
La
sanzione si applica anche nel caso di omessa o incompleta
informazione in merito alla titolarità di imprese, alle
partecipazioni azionarie proprie, del coniuge e dei parenti
entro il secondo grado di parentela dei componenti degli
organi politici
(articolo ItaliaOggi del 23.01.2013). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Per
i funzionari p.a. laurea obbligatoria.
Reclutamento dei funzionari della p.a. al restyling. Laurea
obbligatoria per l'ammissione ai corsi-concorso. La
formazione sarà almeno semestrale e a agli allievi che non
sono già dipendenti pubblici sarà riconosciuto un compenso
netto di mille euro al mese. Le selezioni saranno bandite
dalla Scuola nazionale dell'amministrazione e dalle altre
Scuole del sistema unico del reclutamento e della formazione
pubblica. I bandi dovranno specificare il titolo di studio
minimo richiesto (laurea magistrale o specialistica per gli
esterni e laurea triennale per chi è già dipendente della
p.a.), le diverse classi di concorso e i criteri relativi
alle prove (due scritti e un orale, volto anche ad accertare
la conoscenza di una lingua straniera comunitaria).
È quanto
prevede lo schema di dpr recante disposizioni sui
corsi-concorso per funzionari e dirigenti pubblici approvato
ieri dal consiglio dei ministri.
Le commissioni esaminatrici
saranno nominate dalle scuole che bandiscono le selezioni.
Gli ammessi ai corsi-concorsi saranno il 20% in più del
numero dei posti da coprire. All'esame finale, dopo un
semestre di formazione, accederanno soltanto coloro che
conseguono nella valutazione continua una media pari almeno
a 80 su 100.
Le graduatorie, per ciascuna amministrazione di
assegnazione degli allievi, saranno approvate con appositi dpcm. Gli allievi estranei alla p.a. percepiranno una borsa
di studio stabilita in mille euro mensili, rivalutata
secondo l'indice Istat-Foi all'inizio di ciascun corso. I
candidati che risultano già dipendenti della p.a., invece,
continueranno a godere del proprio trattamento economico,
senza alcuna indennità di missione. La partecipazione ai
corsi-concorsi darà diritto al riconoscimento dell'anzianità
di servizio.
Sfarinati.
Nel corso della riunione di ieri, palazzo Chigi ha anche
esaminato il regolamento che modifica il dpr n. 187/2001 in
materia di produzione e commercializzazione di sfarinati e
paste alimentari. Fatta salva quella destinata all'export,
per la fabbricazione della pasta secca sarà vietato
l'utilizzo di sfarinati di grano tenero
(articolo ItaliaOggi del 23.01.2013
- link a www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Anticorruzione.
Varati dal Consiglio dei ministri due decreti legislativi
per dare attuazione alla legge del novembre scorso.
Politici e funzionari, sanzioni pro-trasparenza.
PATRIMONI E ENTRATE EXTRA/ Multe da 500 a 10mila euro
e stop agli stipendi per la mancata pubblicazione sui siti
istituzionali di incarichi e situazione patrimoniale.
Arrivano multe e controlli rigidi per politici e funzionari
pubblici poco trasparenti su patrimoni personali e conflitti
d'interesse lavorativi. In particolare, scatta una sanzione
amministrativa pecuniaria da 500 a 10mila euro nei confronti
di membri del Governo, parlamentari, assessori e consiglieri
regionali e di tutti i titolari di incarichi e elettivi e di
esercizio politico per la mancata, o non corretta,
pubblicazione sui siti istituzionali della situazione
patrimoniale complessiva «propria» e dei parenti entro il
secondo grado.
A introdurre il nuovo sistema sanzionatorio
per i vari livelli di governo è il
decreto legislativo
varato ieri pomeriggio dal Consiglio dei ministri per dare
attuazione alla legge anticorruzione nella Pa approvato lo
scorso autunno e per rafforzare le misure già in vigore
sulla trasparenza nella Pa.
Anche i vari livelli dirigenziali della pubblica
amministrazioni sono vincolati all'obbligo di rendere
pubblici gli incarichi ricoperti e anche la situazione
patrimoniale ma in questo caso con un meccanismo più
elastico rispetto ai politici: in caso di violazione può
scattare anche lo stop agli stipendi. L'obbligo di
pubblicità riguarda anche i procedimenti di approvazione dei
piani regolatori e delle varianti urbanistiche e, sul
versante sanitario, i dati relativi alle nomine dei
direttori generali e agli accreditamenti delle strutture
cliniche.
Non manca un capitolo dedicato ai costi della politica a
livello locale dando. Regioni e province dovranno pubblicare
i rendiconti dei gruppi consiliari regionali e provinciali e
gli atti e le relazioni degli organi di controllo. In
evidenza dovranno essere messe soprattutto le risorse
trasferite a ciascun gruppo.
Il provvedimento introduce anche il principio del diritto di
accesso civico agli atti e ai dati della pubblica
amministrazione rafforzando notevolmente, anche a fini
anti-corruttivi, il dispositivo già previsto dalla legge
241/1990 per garantire ai cittadini la possibilità di
visionare documenti e pratiche degli uffici pubblici. Gli
utenti della Pa potranno ora pretendere la pubblicazione di
quelle informazioni che le strutture statali, pur essendo
obbligate, non provvedono a divulgare sui propri siti
istituzionali. In tutti i casi l'obbligo di pubblicazione
avrà una durata quinquennale.
Il Consiglio dei ministri ha
varato anche un secondo decreto legislativo di attuazione
della legge anti-corruzione che individua ulteriori
incarichi, apicali e semi-apicali, presso istituzioni ed
enti pubblici che comportano il collocamento fuori ruolo di
magistrati e avvocati e procuratori dello Stato
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.01.2013
- link a www.corteconti.it). |
TRIBUTI: Tares prorogata a luglio.
Sì definitivo della Camera anche alla gestione rifiuti in
Campania.
Enti locali. Slitta il termine per
pagare la prima rata del prelievo che costerà un miliardo in
più.
La Tares slitta a luglio. Con l'approvazione definitiva
della conversione in legge del Dl 1/2013, ieri alla Camera,
l'articolo 1-bis, introdotto dal Senato, posticipa, per il
solo anno 2013, al mese di luglio il termine di versamento
della prima rata del tributo comunale sui rifiuti e sui
servizi, disciplinato all'articolo 14, comma 35, del Dl 211
del 2011, precedentemente fissato in gennaio e poi spostato
al mese di aprile dalla legge di stabilità 2013. Sempre
ferma restando la facoltà, per i Comune, di posticipare
ulteriormente tale termine.
Gli altri provvedimenti contenuti nel Dl 1/2013 prevedono
una serie di modifiche all'attuale disciplina dei rifiuti.
L'articolo 1 proroga il regime speciale vigente in Campania,
che attribuisce alle province la gestione delle attività di
raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani e differisce
l'entrata in vigore del divieto di smaltire in discarica i
rifiuti che non possono essere ulteriormente valorizzati
attraverso il riciclaggio.
Viene anche messa a regime la
disciplina dei Raee (Rifiuti di apparecchiature elettriche
ed elettroniche). L'articolo 2 proroga fino al 31.12.2013 gli incarichi dei Commissari per le emergenze
ambientali (tra cui la nave Concordia). L'articolo 2-bis
interviene sui contributi in favore dei soggetti residenti
nelle regioni colpite dal sisma in Emilia del maggio 2012,
in modo da coprire integralmente le spese per la
riparazione, il ripristino o la ricostruzione degli
immobili.
Tra gli altri, il Governo ha accolto l'ordine del
giorno presentato da Simonetta Rubinato (Pd), il cui gruppo
ha peraltro votato a favore della proroga, con cui si
impegna ad assumere le iniziative necessarie a rimediare
all'introduzione della Tares: «Il rinvio del pagamento della
prima rata a luglio 2013, approvato la scorsa settimana dal
Senato –spiega Simonetta Rubinato– non risolve i problemi.
Anzi, li complica ulteriormente, perché le famiglie si
troveranno a pagare un vero e proprio salasso, aggiuntivo
all'Imu».
Il rinvio del pagamento della Tares è strettamente legato
all'appuntamento elettorale, anche se ufficialmente è
legato alla possibilità per il nuovo Governo di rivederne
l'impianto; alla commissione Ambiente del Senato era stato
chiesto con un emendamento del presidente D'Alì anche per
«restituirle la sua natura di tariffa contro un servizio
corrisposto». Federambiente, però, aveva sottolineato i
rischi del mancato afflusso di liquidità agli operatori.
Il
nodo è quello economico, infatti: la Tares prevede una
componente legata alla raccolta e smaltimento rifiuti, che
deve coprire il costo del servizio, ma anche una
«maggiorazione» da 30 centesimi al metro quadrato (elevabile
a 40 dal Comune) per pagare i «servizi indivisibili».
Quindi, sicuramente almeno un miliardo in più per i
contribuenti: oneri che sotto elezioni non era il caso di
chiedere.
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Le novità approvate
01 | LA PROROGA
Viene posticipato per il solo anno 2013, al mese di luglio
il termine di versamento della prima rata Tares,
precedentemente fissato al mese di aprile dalla legge di
stabilità 2013. In ogni caso i Comuni possono posticipare
ulteriormente il termine
02 | IN CAMPANIA
Prorogato anche il regime speciale vigente in Campania, che
attribuisce alle province la gestione delle attività di
raccolta e di smaltimento dei rifiuti urbani e differisce
l'entrata in vigore del divieto di smaltire in discarica i
rifiuti non riciclabili
03 | RAEE
Viene anche messa a regime la disciplina dei Raee (Rifiuti
di apparecchiature elettriche ed elettroniche), in
precedenza provvisoria
04 | COMMISSARI
Proroga al 31.12.2013 degli incarichi dei Commissari
per le emergenze ambientali a Giugliano (Na) e
Castelvolturno (Ce), allo stabilimento Stoppani del comune
di Cogoleto (Ge), alle isole Eolie e al naufragio della nave
Concordia all'Isola del Giglio
05 | SISMA IN EMILIA
I contributi in favore dei soggetti residenti nelle regioni
colpite dal sisma in Emilia del maggio 2012, dovranno
coprire integralmente le spese per la riparazione, il
ripristino o la ricostruzione degli immobili
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.01.2013
- link a www.ecostampa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Ance:
la direttiva Ue sui pagamenti lumaca si applica ai lavori
pubblici. Costruttori, crediti ricchi. In caso di ritardo
interessi pari all'8,75%.
Anche al settore dei lavori pubblici si applicano i termini
previsti della direttiva europea sui ritardati pagamenti. In
caso di ritardo, a favore dei costruttori scattano gli
interessi nella misura stabilita dal nuovo provvedimento
(oggi l'8,75%), non essendo più applicabile la disciplina
pregressa (meno favorevole ai creditori).
Sono queste due importanti precisazioni contenute nella
circolare 18.01.2013
diffusa ieri dall'Ance per fornire alcune prime
indicazioni operative relative all'applicazione del dlgs
192/2012.
Mediante tale provvedimento, come noto, è stato disposto
l'integrale recepimento della nuova direttiva europea
2011/7/Ue relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento
nelle transazioni commerciali. Proprio argomentando a
partire dal fatto che il recepimento della direttiva è stato
«integrale» e che essa riguarda tutti i settori, compreso
quello dell'edilizia, l'Ance afferma che le nuove
disposizioni devono ritenersi applicabili anche al settore
delle costruzioni.
La questione, in effetti, è piuttosto
controversa, anche perché il nuovo decreto si limita a
modificare il precedente dlgs 231/2002, il quale non si
applicava a tale settore. Sul punto, nei mesi scorsi, è
intervento più volte anche il Vice-Presidente della
Commissione europea, Antonio Tajani, anch'egli sostenendo la
tesi dell'applicazione a 360° della nuova direttiva e quindi
dei relativi provvedimenti nazionali di recepimento.
Tuttavia, al momento, non si registrano conferme ufficiali
da parte del governo. Nelle scorse settimane era stata
annunciata una circolare congiunta del ministero dello
sviluppo economico, che tuttavia non dovrebbe vedere la luce
prima di febbraio.
Altrettanto importante il secondo chiarimento fornito
dall'Ance e che riguarda la decorrenza e la misura degli
interessi legali di mora in caso di ritardato pagamento.
Secondo i costruttori, l'approvazione del dlgs 192 ha
comportato alcune modifiche alla disciplina settoriale per i
lavori pubblici definita dal codice dei contratti e dal
relativo regolamento di esecuzione ed attuazione.
Per
effetto di tali modifiche, anche al settore in questione si
applica il duplice termine di 30 giorni+30 giorni per la
verifica delle prestazioni effettuate (consacrata
dall'emanazione del c.d. SAL) e per le operazioni di
pagamento. Il primo termine, secondo l'Ance, sostituisce
quello di 45 giorni previsto dall'art. 143 del predetto
regolamento. Quanto al secondo termine, in base al dlgs 192,
esso dovrebbe scattare dal momento della emissione della
fattura. In tal caso, tuttavia, l'Ance ritiene che rimanga
in vigore la previsione del regolamento, in quanto più
favorevole per il creditore: il conto alla rovescia, quindi,
scatterebbe dall'emissione del certificato di pagamento, che
normalmente arriva prima del rilascio della fattura.
Infine,
l'Ance chiarisce che la misura degli interessi di mora è in
ogni caso quella prevista dal dlgs 192. Secondo i
costruttori, infatti, quest'ultimo ha abrogato i commi 2 e 3
dell'art. 144 del regolamento dei codice dei contratti, che
prevedevano che nei primi 60 giorni di ritardo nel pagamento
dell'acconto e del saldo si applicasse il tasse legale (oggi
pari al 2,5%) e che dal sessantunesimo giorno scattasse il
saggio stabilito annualmente con decreto interministeriale
(da ultimo fissato al 5,27%).
Nei fatti, con tempi medi di
pagamento di circa 8 mesi, i ritardi si registrano sia sul
certificato che sul mandato e quindi il tasso legale si
applica per i primi 4 mesi di ritardo. Dal 1° gennaio
scorso, invece, sin dal primo giorno di ritardo si applica
il tasso Bce (per il semestre in corso pari allo 0,75%, come
da comunicato del Mef pubblicato sulla G.U. n. 14 del
17.01.2013), maggiorato dell'8%. Secondo l'Ance, in tal modo
si corregge la precedente distorsione che portava gli
operatori (specialmente negli enti locali) a dare precedenza
ai pagamenti in altri settori
(articolo ItaliaOggi del 22.01.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Addio alla discarica. Anzi no.
Presto un decreto sul riutilizzo energetico dei residui.
Spostato al 31/12/ 2013 il divieto di
stoccaggio finale dei rifiuti ad alto potere calorifico.
Rifiuti ad alto potere calorifico nuovamente in rotta verso
le discariche, ma con la prospettiva di un loro (futuro ed)
effettivo dirottamento verso il riutilizzo energetico.
Se da
un lato, infatti, con il primo provvedimento d'urgenza del
nuovo anno (il dl 1/2013) è stato nuovamente spostato in
avanti il divieto di ammissibilità in discarica dei rifiuti
con potere calorifero («Pci») superiore a 13 mila kJ/kg
(portandolo al 31.12.2013), dall'altro si affaccia
all'orizzonte il decreto ministeriale che (in attuazione del
«Codice ambientale») semplificherà l'utilizzo dei
combustibili da rifiuti stabilendo le condizioni per
gestirli come veri e propri beni.
La proroga dell'«addio alla discarica».
Sebbene dopo due settimane dall'entrata in vigore del
divieto generale della loro ammissibilità in discarica, e
dell'operatività delle relative sanzioni penali, il nuovo
slittamento dell'«addio alla discarica» per i rifiuti con
«Potere calorifico inferiore» > a 13 mila kJ/kg è arrivato
con il decreto legge 14.01.2013 n. 1 (pubblicato sulla
G.U. del giorno successivo, n. 11).
L'articolo 1 del dl,
infatti, ha differito (per la nona volta) di un anno il
divieto di stoccaggio definitivo previsto dall'articolo 6
del dlgs 36/2003 in relazione ai rifiuti in questione,
portandolo dal 31 dicembre del 2012 a quello del 2013. In
base allo stesso dlgs 36/2003, lo ricordiamo, unica
eccezione al generale divieto di ammissibilità in discarica
dei rifiuti ad alto «Pci» è quella relativa ai residui
provenienti dalla frantumazione degli autoveicoli e dei
rottami ferrosi destinati a impianti di stoccaggio «monodedicati»,
che potranno continuare a operare nei limiti delle capacità
autorizzate alla data di entrata in vigore della legge di
conversione del decreto legge 29.12.2010, n. 225
(ossia alla data del 27.02.2011).
Energia da rifiuti, novità in arrivo. L'ennesimo rinvio
dell'obbligo di valorizzazione energetica dei rifiuti
potrebbe però presto lasciare il posto a un nuovo regime
giuridico che, secondo uno schema di decreto già predisposto
dal Minambiente e licenziato dal consiglio dei ministri nel
corso del 2012, dovrà incoraggiare il reimpiego energetico
dei rifiuti ad alto potere calorifico permettendone la
gestione come veri e propri beni. Il divieto di
ammissibilità in discarica dei rifiuti previsto dal dlgs
36/2003 (di attuazione della direttiva 1999/31/Ce) risponde
infatti alla logica (di matrice comunitaria, trasposta
nell'articolo 179 del «Codice ambientale») della priorità
del loro impiego nel recupero di energia rispetto allo
smaltimento.
In base a tale logica ha trovato infatti
collocazione nello stesso dlgs 152/2006 la previsione di una
gestione agevolata dei rifiuti destinati a recupero
energetico, e ciò prima in riferimento ai «Cds»
(combustibile da rifiuto) e poi ai «Css» (combustibile
solido secondario, in seguito alla riforma dell'articolo 183
del «Codice ambientale» ex dlgs 205/2010). L'attuale «Css»,
lo ricordiamo, è secondo la definizione del dlgs 152/2006 il
combustibile prodotto da rifiuti che rispetta determinate
caratteristiche «Uni» (compatibili con i rifiuti a «Pci» >
13 mila kJ/kg), attualmente classificato come rifiuto
speciale, ma che potrà essere (in futuro) riabilitato a vero
e proprio «bene» (secondo quanto prevede l'articolo 184-ter,
dlgs 152/2006) se processato secondo criteri tecnici
elaborati dall'Unione europea o da singoli stati membri.
E
proprio in attuazione del citato articolo 184-ter, dlgs
152/2006 (in linea con lo stesso e citato principio
comunitario della gerarchia della gestione dei rifiuti, che
prima ancora del loro recupero ne impone ove possibile il
riutilizzo) dovrebbe presto essere definitivamente adottato
dal dicastero dell'ambiente il regolamento in materia di
«end of waste» del combustibile solido secondario.
Già predisposto nel corso del 2012, e attualmente al vaglio
delle competenti autorità per i necessari pareri, il decreto
ministeriale in questione dovrebbe, infatti, stabilire le
condizioni specifiche alle quali il «Css» cesserà di essere
qualificato come rifiuto (per diventare un bene, il «Css-combustibile») (articolo
ItaliaOggi Sette del 21.01.2013). |
VARI: Tablet, a ognuno la sua tariffa.
Abbonamenti o ricariche: un'offerta per tutte le tasche.
Dagli operatori di tlc a quelli virtuali, come scegliere in base
alla frequenza di utilizzo.
La sfera della tecnologia si è arricchita da qualche anno
con l'arrivo dei tablet, tavolette touchscreen il cui
utilizzo, soprattutto per navigare in Internet, è in forte
aumento tra gli italiani. Non stupisce, dunque, che gli
operatori tlc si siano attrezzati lanciando delle tariffe ad
hoc, ciascuna pensata per una determinata fascia di utenti.
Vediamo le principali offerte.
Aspetti da tenere d'occhio. Per chi è interessato a
utilizzare il tablet per la navigazione sul web la
possibilità di scelta tra le proposte dei diversi operatori
è molto ampia, con la possibilità di sottoscrivere un
abbonamento o di affidarsi a delle ricariche; alcune
compagnie permettono poi, a chi non ne fosse già in
possesso, di acquistare un tablet direttamente dal loro
sito.
Per effettuare la scelta migliore è però consigliabile
capire in quale fascia di utenza si rientra, a seconda che
si faccia un uso sporadico del web con qualche accesso al
mese, standard oppure intenso per chi è sempre collegato.
Un
altro fattore da tenere d'occhio è la voce extra-soglia che,
anche quando si supera la soglia prestabilita
dall'operatore, permette di continuare a navigare senza
maggiorazioni sulla spesa di traffico, con una riduzione
però della velocità di connessione. (... continua) (articolo
ItaliaOggi Sette del 21.01.2013). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA: L’art.
1, secondo comma, della legge regionale Marche n. 31 del
1979 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo,
in quanto eccede la competenza regionale concorrente del
«governo del territorio», violando il limite
dell’«ordinamento civile», di competenza legislativa
esclusiva dello Stato.
Invero, la norma de qua consente (ndr: consentiva)
espressamente ai Comuni di derogare alle distanze minime
fissate nel d.m. n. 1444 del 1968, senza rispettare le
condizioni stabilite dall’art. 9, ultimo comma, del medesimo
decreto ministeriale, il quale esige che le deroghe siano
inserite in appositi strumenti urbanistici, a garanzia
dell’interesse pubblico relativo al governo del territorio.
La disposizione regionale impugnata, al contrario, autorizza
i Comuni ad «individuare gli edifici» dispensati dal
rispetto delle distanze minime. La deroga non risulta,
dunque, ancorata all’esigenza di realizzare la conformazione
omogenea dell’assetto urbanistico di una determinata zona,
ma può riguardare singole costruzioni, anche individualmente
considerate.
---------------
La regolazione
delle distanze tra i fabbricati deve essere inquadrata nella
materia «ordinamento civile», di competenza legislativa
esclusiva dello Stato. Infatti, tale disciplina attiene in
via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi
finitimi e ha la sua collocazione innanzitutto nel codice
civile.
La regolazione delle distanze è poi precisata in ulteriori
interventi normativi, tra cui rileva, in particolare, il
citato d.m. n. 1444 del 1968. Tuttavia, la giurisprudenza
costituzionale ha altresì chiarito che, poiché «i fabbricati
insistono su di un territorio che può avere rispetto ad
altri –per ragioni naturali e storiche– specifiche
caratteristiche, la disciplina che li riguarda –ed in
particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso–
esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca
anche interessi pubblici», la cui cura è stata affidata alle
Regioni, in base alla competenza concorrente in materia di
«governo del territorio», ex art. 117, terzo comma, Cost..
Per queste ragioni, in linea di principio la disciplina
delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia
dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza
legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare
limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle
normative statali, solo a condizione che la deroga sia
giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici
legati al governo del territorio.
Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una
competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra
gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento
civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo –il
governo del territorio– che ne detta anche le modalità di
esercizio. Pertanto, la legislazione regionale che
interviene in tale ambito è legittima solo in quanto
persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico,
rimettendo l’operatività dei suoi precetti a «strumenti
urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario
di determinate zone del territorio».
Le norme regionali che, disciplinando le distanze tra
edifici, esulino da tali finalità, ricadono illegittimamente
nella materia «ordinamento civile», riservata alla
competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Il punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale
in materia di «ordinamento civile» e quella regionale in
materia di «governo del territorio», come identificato dalla
Corte costituzionale, trova una sintesi normativa
nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che
la Corte costituzionale ha più volte ritenuto dotato di
«efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio
giurisprudenziale consolidato». Quest’ultima disposizione
consente che siano fissate distanze inferiori a quelle
stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di
gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche».
Le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici
sono, dunque, consentite nei limiti ora indicati, se
inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare
un assetto complessivo e unitario di determinate zone del
territorio.
Come ricorda correttamente l’ordinanza di rimessione, questa
Corte ha già affermato che la regolazione delle distanze tra
i fabbricati deve essere inquadrata nella materia «ordinamento
civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato
(sentenze n. 114 del 2012, n. 173 del 2011, n. 232 del
2005). Infatti, tale disciplina attiene in via primaria e
diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi e ha
la sua collocazione innanzitutto nel codice civile.
La regolazione delle distanze è poi precisata in ulteriori
interventi normativi, tra cui rileva, in particolare, il
citato d.m. n. 1444 del 1968. Tuttavia, la giurisprudenza
costituzionale ha altresì chiarito che, poiché «i
fabbricati insistono su di un territorio che può avere
rispetto ad altri –per ragioni naturali e storiche–
specifiche caratteristiche, la disciplina che li riguarda
–ed in particolare quella dei loro rapporti nel territorio
stesso– esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati
e tocca anche interessi pubblici» (sentenza n. 232 del
2005), la cui cura è stata affidata alle Regioni, in base
alla competenza concorrente in materia di «governo del
territorio», ex art. 117, terzo comma, Cost..
Per queste ragioni, in linea di principio la disciplina
delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia
dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza
legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare
limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle
normative statali, solo a condizione che la deroga sia
giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici
legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non
può essere del tutto esclusa una competenza legislativa
regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro
essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente
circoscritta dal suo scopo –il governo del territorio– che
ne detta anche le modalità di esercizio. Pertanto, la
legislazione regionale che interviene in tale ambito è
legittima solo in quanto persegue chiaramente finalità di
carattere urbanistico, rimettendo l’operatività dei suoi
precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un
assetto complessivo ed unitario di determinate zone del
territorio» (sentenza n. 232 del 2005).
Le norme regionali che, disciplinando le distanze tra
edifici, esulino da tali finalità, ricadono illegittimamente
nella materia «ordinamento civile», riservata alla
competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Il punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale
in materia di «ordinamento civile» e quella regionale in
materia di «governo del territorio», come identificato
dalla Corte costituzionale, trova una sintesi normativa
nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che
la Corte costituzionale ha più volte ritenuto dotato di «efficacia
precettiva e inderogabile, secondo un principio
giurisprudenziale consolidato» (sentenza n. 114 del
2012; ordinanza n. 173 del 2011; sentenza n. 232 del 2005).
Quest’ultima disposizione consente che siano fissate
distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa
statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che
formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni planovolumetriche». Le
deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici
sono, dunque, consentite nei limiti ora indicati, se
inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare
un assetto complessivo e unitario di determinate zone del
territorio.
La norma regionale censurata infrange i principi sopra
ricordati, in quanto consente espressamente ai Comuni di
derogare alle distanze minime fissate nel d.m. n. 1444 del
1968, senza rispettare le condizioni stabilite dall’art. 9,
ultimo comma, del medesimo decreto ministeriale, che, come
si è detto, esige che le deroghe siano inserite in appositi
strumenti urbanistici, a garanzia dell’interesse pubblico
relativo al governo del territorio. La disposizione
regionale impugnata, al contrario, autorizza i Comuni ad «individuare
gli edifici» dispensati dal rispetto delle distanze
minime. La deroga non risulta, dunque, ancorata all’esigenza
di realizzare la conformazione omogenea dell’assetto
urbanistico di una determinata zona, ma può riguardare
singole costruzioni, anche individualmente considerate.
La procedura delineata dal legislatore regionale non è
dunque conforme ai principi sopra enunciati, né il vizio può
ritenersi insussistente in ragione dell’art. 2, quarto
comma, della legge regionale impugnata, che intende
conferire a tale procedura «efficacia di piano
particolareggiato», ex lege. Anzi, attraverso
tale autoqualificazione, il legislatore regionale pretende
di attribuire gli effetti tipici degli strumenti urbanistici
a un procedimento che non ne rispecchia la sostanza e le
finalità. L’attribuzione, per via legislativa, della
qualifica formale di piano particolareggiato ad una
procedura che del piano urbanistico non ha le
caratteristiche, perché permette di derogare caso per caso
alle regole sulle distanze tra edifici, non offre alcuna
garanzia che la legge regionale persegua quelle finalità
pubbliche di governo del territorio che, sole, possono
giustificare l’esercizio di una competenza legislativa
regionale in un ambito strettamente connesso alla competenza
statale in materia di «ordinamento civile».
Pertanto, l’art. 1, secondo comma, della legge regionale
Marche n. 31 del 1979 deve essere dichiarato
costituzionalmente illegittimo, in quanto eccede la
competenza regionale concorrente del «governo del
territorio», violando il limite dell’«ordinamento
civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato
(Corte Costituzionale,
sentenza 23.01.2013 n. 6). |
CONSIGLIERI
COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Per
la concussione serve la minaccia. La
pronuncia dopo la riforma introdotta dalla legge 190/2012.
Concussione solo con minaccia. Dopo la riforma introdotta
dalla legge 190/2012 affinché si configuri il reato ex
articolo 317 c.p. serve la minaccia, per quanto implicita,
da parte del politico al dirigente pubblico che
l'imprenditore andrà incontro a una lesione patrimoniale e
non, che può essere costituita da danno emergente o lucro
cessante. Nella fattispecie nuova dell'induzione ex articolo
319-quater c.p. rientra invece un'azione più blanda, che si
configura quando chi è a caccia della mazzetta prefigura chi
tratta con la pubblica amministrazione conseguenze sì
sfavorevoli, ma che comunque scaturiscono dall'applicazione
della legge: ecco perché in questo caso è punibile anche il
soggetto indotto che pure mira a un risultato illegittimo
per il suo tornaconto. La riforma comunque non affossa i
processi perché c'è perfetta continuità fra vecchie e nuove
norme.
È quanto emerge dalla sentenza 22.01.2013 n. 3251 della
VI Sez. penale della Corte di Cassazione.
Si parte sempre dall'abuso di qualità o di poteri. Nella
specie il sindaco del Comune pretende soldi
dall'imprenditore, facendo intendere che altrimenti la
commissione edilizia rinvierà sistematicamente la
trattazione delle richieste dei permessi di costruire.
La novella risulta rilevante ai fini del favor rei. Non può
essere l'abuso prospettato in forma più o meno blanda il
criterio per distinguere fra la vecchia concussione e la
nuova fattispecie di induzione. Non sarebbe giusto punire
anche l'imprenditore che si piega a una minaccia. Risulta
invece legittimo sanzionare chi aderisce a una violazione
della legge per un suo tornaconto. Scatta il reato di cui
all'articolo 317 c.p. solo se c'è una qualunque forma di
violenza morale ai danni dell'imprenditore.
Si configura invece l'induzione quando il danno prospettato
scaturisce comunque dalla legge. Parola al giudice del
rinvio
(articolo ItaliaOggi del 23.01.2013
- link a www.corteconti.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Quando viene presentata una
domanda di condono edilizio l’Amministrazione non può
emettere un provvedimento sanzionatorio senza avere prima
definito il procedimento scaturente dall’avvenuta
presentazione della predetta domanda, ostandovi i principi
di lealtà, coerenza, efficienza ed economicità che impongono
la previa definizione dell’istanza di condono prima di
assumere iniziative potenzialmente pregiudizievoli per lo
stesso esito della sanatoria edilizia.
Invero, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza (tra le tante,
Cons. Stato Sez. IV 02.02.2005 n. 585; idem 16.01.2007 n. 226;
06.07.2009 n. 4335) quando viene presentata
una domanda di condono edilizio l’Amministrazione non può
emettere un provvedimento sanzionatorio senza avere prima
definito il procedimento scaturente dall’avvenuta
presentazione della predetta domanda, ostandovi i principi
di lealtà, coerenza, efficienza ed economicità che
impongono la previa definizione dell’istanza di condono
prima di assumere iniziative potenzialmente pregiudizievoli
per lo stesso esito della sanatoria edilizia.
Nel caso di specie, dunque, in applicazione della su illustrata
regula iuris, l’ordinanza di demolizione, in quanto
emessa in pendenza di domanda di condono (presentata il
05.02.2004) ed in assenza di definizione della stessa deve
considerarsi illegittima (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.01.2013 n. 362 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: In
Cassa i geometri effettivi.
L'iscrizione alla Cassa geometri è inefficace se il
professionista non ha svolto l'attività con continuità,
essendo del tutto irrilevante aver esercitato in qualità di
amministratore della propria società.
Lo ha sancito la Corte
di Cassazione che, con la
sentenza
21.01.2013 n. 1305, ha accolto il ricorso della Cassa.
Dunque la sezione
lavoro della Suprema corte ha bocciato la decisione della
Corte d'Appello di Roma che aveva ritenuto efficace
l'iscrizione alla Cassa di un geometra che, dal '96 al 2002
aveva versato ma non esercitato, essendo l'amministratore di
una società da lui fondata.
L'uomo si era rivolto ai giudici
per ottenere la declaratoria di efficacia della sua
iscrizione o, almeno, la restituzione dei contributi in
relazione a quel periodo. Il Tribunale e la Corte d'Appello
della Capitale gli avevano dato ragione. Ora la Cassazione,
su ricorso presentato dalla Cassa alla quale ha dato
ragione, ha ribaltato completamente le sorti della vicenda.
Ad avviso dei giudici con l'Ermellino, infatti, la
necessità, ai fini dell'iscrizione alla Cassa, del requisito
dell'esercizio con carattere di continuità dell'attività
libero professionale è espressamente prevista dall'art. 22
della legge n. 773 del 1982, come modificato nel 1990. In
tal senso è l'inequivoco tenore letterale del primo comma il
quale così recita: «L'iscrizione alla Cassa è
obbligatoria per gli iscritti agli Albi professionali dei
geometri che esercitano la libera professione con carattere
di continuità, se non iscritti ad altra forma di previdenza
obbligatoria».
Questa interpretazione, ad avviso di Piazza Cavour, risulta,
inoltre avvalorata da ulteriori disposizioni contenute nella
legge quali il secondo comma dell'art. 22 nel testo
modificato, il quale sancisce che «l'iscrizione alla
Cassa è facoltativa per gli iscritti agli Albi dei geometri
che esercitano la libera professione con carattere di
continuità, se iscritti a forma di previdenza obbligatoria o
beneficiari di altra pensione in conseguenza di diversa
attività da loro svolta, anche precedentemente alla
iscrizione all'Albo professionale».
In altri termini il legislatore ha inteso ribadire
nuovamente la necessità che vi sia espletamento di attività
libero professionale con carattere di continuità
(articolo ItaliaOggi del 22.01.2013). |
APPALTI:
Deve ritenersi necessaria
e sufficiente una modalità di sigillatura del plico tale da
impedire che il plico possa essere aperto e manomesso senza
che ne resti traccia visibile. Ne deriva che, anche in caso
di mancata osservanza pedissequa e cumulativa di ciascuna
delle singole modalità di chiusura contemplate dal
disciplinare di gara, deve ritenersi preclusa l’esclusione
di un’impresa concorrente in presenza di una modalità di
sigillatura comunque idonea a garantire l’ermetica e
inalterabile chiusura del plico.
A tal fine, l’uso di un sigillo in ceralacca non può
ritenersi strumento esclusivo indispensabile per impedirne
la manomissione (apertura + richiusura) a plico inalterato,
costituendo invero l’apposizione dei timbri e la controfirma
sul lembo di chiusura –da intendersi quale imboccatura della
busta soggetta ad operazione di chiusura a sé stante, talché
è sufficiente che l’adempimento formale imposto alle imprese
concorrenti venga limitato ai lembi della busta chiusi
dall’utilizzatore, con esclusione di quelli preincollati dal
fabbricante– una modalità di sigillatura di per sé idonea
prevenire eventuali manomissioni.
Si premette, in linea di diritto, che alla presente controversia, avente
ad oggetto una gara d’appalto indetta con bando di gara del
28.12.2011, è applicabile l’art. 46, comma 1-bis,
d.lgs. 16.04.2006, n. 163 –aggiunto dall’art. 4, comma
2, lett. d), d.l. 13.05.2011, n. 70, convertito, con
modificazioni, dalla l. 12.07.2011, n.106, secondo la
disciplina transitoria dettata dal comma 3 del citato art. 4
applicabile alle procedure i cui bandi siano pubblicati
successivamente alla data di entrata in vigore del
decreto-legge–, il quale introduce un criterio d’impronta
sostanzialistica nella configurazione delle cause di
esclusione dalla gara connesse, tra l’altro, all’irregolare
chiusura dei plichi contenenti le offerte o le domande di
partecipazione, prevedendo, per quanto qui interessa, che
“(…) la stazione appaltante esclude i candidati o i
concorrenti (…) in caso di non integrità del plico
contenente l’offerta o la domanda di partecipazione o altre
irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far
ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato
violato il principio di segretezza delle offerte (…)”, e al
contempo comminando la sanzione della nullità per le
prescrizioni della lex specialis che contemplino cause di
esclusione diverse da quelle tassativamente previste dalla
legge.
Nel caso di specie, il disciplinare di gara prevede
testualmente che “(…) il plico contenente l’offerta e la
documentazione amministrativa dovrà, pena l’esclusione dalla
gara: (…) b) essere idoneamente sigillato con ceralacca,
timbrato, controfirmato sui lembi di chiusura (…)”.
Orbene, interpretando la citata clausola della lex specialis
alla luce del criterio valutativo introdotto dal comma 1-bis
dell’art. 46 d.lgs. n. 163 del 2006, in maniera non
formalistica al fine di garantire la massima partecipazione
alla gara, deve ritenersi necessaria e sufficiente una
modalità di sigillatura del plico tale da impedire che il
plico potesse essere aperto e manomesso senza che ne
restasse traccia visibile. Ne deriva che, anche in caso di
mancata osservanza pedissequa e cumulativa di ciascuna delle
singole modalità di chiusura contemplate dal disciplinare di
gara, deve ritenersi preclusa l’esclusione di un’impresa
concorrente in presenza di una modalità di sigillatura
comunque idonea a garantire l’ermetica e inalterabile
chiusura del plico.
A tal fine, l’uso di un sigillo in
ceralacca non può ritenersi strumento esclusivo
indispensabile per impedirne la manomissione (apertura +
richiusura) a plico inalterato, costituendo invero
l’apposizione dei timbri e la controfirma sul lembo di
chiusura –da intendersi quale imboccatura della busta
soggetta ad operazione di chiusura a sé stante, talché è
sufficiente che l’adempimento formale imposto alle imprese
concorrenti venga limitato ai lembi della busta chiusi
dall’utilizzatore, con esclusione di quelli preincollati dal
fabbricante– una modalità di sigillatura di per sé idonea
prevenire eventuali manomissioni (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 21.01.2013 n. 319 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
►
Nelle gare d'appalto, una volta accertata la correttezza
dell'applicazione del metodo del confronto a coppie ovvero
quando non ne sia stato accertato l'uso distorto o
irrazionale, non c'è spazio alcuno per un sindacato del
Giudice Amministrativo nel merito dei singoli apprezzamenti
effettuati ed in particolare sui punteggi attribuiti nel
confronto a coppie, che indicano il grado di preferenza
riconosciuto ad ogni singola offerta in gara, con
l'ulteriore conseguenza che la motivazione delle valutazioni
sugli elementi qualitativi risiede nelle stesse preferenze
attribuite ai singoli elementi di valutazione considerati
nei raffronti con gli stessi elementi delle altre offerte.
►
Nel caso in cui un bando abbia indicato criteri valutativi
dettagliati e adeguati rispetto allo specifico oggetto del
contratto messo a gara, e qualora la commissione
giudicatrice abbia previamente individuato correlativi
criteri motivazionali, con successiva comparazione delle
offerte segnalandone i pregi e i difetti, allora non vi è
alcun bisogno di integrare, sul piano motivazionale i
punteggi attribuiti dai commissari con il metodo del
confronto a coppie, dal momento che detti punteggi si
limitano a esprimere le varie preferenze accordate, le
quali, costituendo il precipitato dei criteri prestabiliti e
delle analisi preliminari compiute, si sottraggono
all'obbligo di una specifica, ulteriore motivazione.
►
E' legittima la valutazione
resa in termini numerici da una commissione giudicatrice
qualora il relativo bando di gara, prevedendo lo svolgimento
di siffatta attività mediante il metodo del cd. "confronto a
coppie", attribuisca valenza di motivazione al grado di
preferenza che ogni commissario attribuisce a ciascuna
offerta nel raffronto con le altre.
Va innanzitutto ribadito che, laddove –come nel caso di specie- il
metodo di valutazione delle offerte sia quello del c.d.
“confronto a coppie”, la motivazione aritmetica è ben
sufficiente e non richiede alcun supplemento motivazionale
in quanto emerge con chiarezza la preferenza accordata
all’uno piuttosto che all’altro elemento (ex multis: “nelle
gare d'appalto, una volta accertata la correttezza
dell'applicazione del metodo del confronto a coppie ovvero
quando non ne sia stato accertato l'uso distorto o
irrazionale, non c'è spazio alcuno per un sindacato del
Giudice Amministrativo nel merito dei singoli apprezzamenti
effettuati ed in particolare sui punteggi attribuiti nel
confronto a coppie, che indicano il grado di preferenza
riconosciuto ad ogni singola offerta in gara, con
l'ulteriore conseguenza che la motivazione delle valutazioni
sugli elementi qualitativi risiede nelle stesse preferenze
attribuite ai singoli elementi di valutazione considerati
nei raffronti con gli stessi elementi delle altre offerte” -Cons. Stato Sez. V, 28-02-2012, n. 1150-; “nel caso in cui
un bando abbia indicato criteri valutativi dettagliati e
adeguati rispetto allo specifico oggetto del contratto messo
a gara, e qualora la commissione giudicatrice abbia
previamente individuato correlativi criteri motivazionali,
con successiva comparazione delle offerte segnalandone i
pregi e i difetti, allora non vi è alcun bisogno di
integrare, sul piano motivazionale i punteggi attribuiti dai
commissari con il metodo del confronto a coppie, dal momento
che detti punteggi si limitano a esprimere le varie
preferenze accordate, le quali, costituendo il precipitato
dei criteri prestabiliti e delle analisi preliminari
compiute, si sottraggono all'obbligo di una specifica,
ulteriore motivazione” -Cons. Stato Sez. V, 05-03-2010, n.
01281-; “è legittima la valutazione resa in termini
numerici da una commissione giudicatrice qualora il relativo
bando di gara, prevedendo lo svolgimento di siffatta
attività mediante il metodo del cd. "confronto a coppie",
attribuisca valenza di motivazione al grado di preferenza
che ogni commissario attribuisce a ciascuna offerta nel
raffronto con le altre” -TAR Marche Ancona Sez. I,
10-05-2012, n. 320)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.01.2013 n. 341 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In materia di gare di
appalto, in una situazione di obiettiva incertezza (quando
cioè le clausole della lex specialis risultino
imprecisamente formulate o si prestino comunque ad
incertezze interpretative) la risposta dell'amministrazione
appaltante ad una richiesta di chiarimenti avanzata da un
concorrente non costituisce un'indebita, e perciò
illegittima, modifica delle regole di gara, ma una sorta di
interpretazione autentica, con cui l'amministrazione
chiarisce la propria volontà provvedimentale in un primo
momento poco intelligibile, precisando e meglio delucidando
le previsioni della lex specialis.
Si rammenta in proposito
che, per consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di
Stato, “in materia di gare di appalto (D.Lgs. n. 163/2006 -
Codice degli appalti) in una situazione di obiettiva
incertezza (quando cioè le clausole della lex specialis
risultino imprecisamente formulate o si prestino comunque ad
incertezze interpretative) la risposta dell'amministrazione
appaltante ad una richiesta di chiarimenti avanzata da un
concorrente non costituisce un'indebita, e perciò
illegittima, modifica delle regole di gara, ma una sorta di
interpretazione autentica, con cui l'amministrazione
chiarisce la propria volontà provvedimentale in un primo
momento poco intelligibile, precisando e meglio delucidando
le previsioni della lex specialis" (Cons. Stato Sez. V,
17-10-2012, n. 5296) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.01.2013 n. 341 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
in materia di appalti pubblici, stante quanto
disposto dall'art. 38, comma 1, lett. i), del D.Lgs. n. 163
del 2006 -Codice dei contratti pubblici- e dall'art. 5 del
D.M. n. 28578 del 2007, la stazione appaltante deve
verificare la sussistenza in capo ai vari concorrenti della
regolarità contributiva e fiscale che è un requisito
indispensabile per la partecipazione alla gara, in quanto
indice di affidabilità, diligenza e serietà delle imprese e
della loro correttezza nei rapporti con le maestranze.
Tale requisito può essere desunto dal DURC -Documento Unico
Regolarità Contributiva- atteso che da esso la stazione
appaltante può valutare se sussistono procedimenti diretti a
contestare gli accertamenti degli enti previdenziali
riportati nel documento predetto, o condoni, nonché
verificare se la violazione riportata nello stesso, in
relazione all'appalto o fornitura in esame o alla
consistenza economica del partecipante o ad altre
circostanze, è o meno grave.
Ciò premesso, nel caso di specie, si è ritenuta corretta la
sentenza di prime cure che aveva considerato legittima
l'esclusione della società ricorrente dalla gara pubblica
indetta dall'Amministrazione resistente per l'affidamento
del servizio di pulizia, in quanto, in capo alla predetta
società, si erano rinvenute, sebbene in epoca successiva
alla presentazione della domanda di partecipazione alla gara
in parola, delle irregolarità contributive costituenti
elemento impeditivo per l'affidamento dell'appalto e non
sanabili con una regolarizzazione postuma, tenuto conto che
la regolarità contributiva deve essere presente fin dalla
presentazione della domanda e permanere per tutto l'iter
della procedura di gara nonché durante la pendenza del
relativo rapporto contrattuale.
Tra l'altro, la consapevolezza da parte della società
ricorrente di non essere in regola in ordine agli obblighi
contributivi è stato considerato quale elemento che ha
connotato di gravità la violazione, in quanto la succitata
società era tenuta, al momento della domanda di
partecipazione, a rappresentare l'eventuale insoluto, la sua
entità e le ragioni che l'avessero determinato, non solo per
evitare false dichiarazioni, ma anche per instaurare un
contraddittorio sul punto e, quindi, dar modo alla stazione
appaltante di escludere la gravità e definitività della
violazione.
Deve innanzitutto
rimarcarsi che il Collegio non intende discostarsi dal
condivisibile principio a più riprese affermato da questo
Consiglio di Stato ed aderente alla ratio ed alla logica
della prescrizione positiva di cui all’art. 38 del d.Lvo n.
163/2006, secondo cui le imprese concorrenti
all’aggiudicazione di contratti pubblici debbono possedere
il requisito della regolarità contributiva lungo l’intero
arco della procedura di gara, nel momento della stipula del
contratto e nel corso del successivo svolgimento del
rapporto contrattuale con l’amministrazione (si veda, tra le
tante, Cons. St., sez. V, 16.09.2011, n. 5194, ma
anche “in materia di appalti pubblici, stante quanto
disposto dall'art. 38, comma 1, lett. i), del D.Lgs. n. 163
del 2006 -Codice dei contratti pubblici- e dall'art. 5 del
D.M. n. 28578 del 2007, la stazione appaltante deve
verificare la sussistenza in capo ai vari concorrenti della
regolarità contributiva e fiscale che è un requisito
indispensabile per la partecipazione alla gara, in quanto
indice di affidabilità, diligenza e serietà delle imprese e
della loro correttezza nei rapporti con le maestranze.
Tale
requisito può essere desunto dal DURC -Documento Unico
Regolarità Contributiva- atteso che da esso la stazione
appaltante può valutare se sussistono procedimenti diretti a
contestare gli accertamenti degli enti previdenziali
riportati nel documento predetto, o condoni, nonché
verificare se la violazione riportata nello stesso, in
relazione all'appalto o fornitura in esame o alla
consistenza economica del partecipante o ad altre
circostanze, è o meno grave.
Ciò premesso, nel caso di
specie, si è ritenuta corretta la sentenza di prime cure che
aveva considerato legittima l'esclusione della società
ricorrente dalla gara pubblica indetta dall'Amministrazione
resistente per l'affidamento del servizio di pulizia, in
quanto, in capo alla predetta società, si erano rinvenute,
sebbene in epoca successiva alla presentazione della domanda
di partecipazione alla gara in parola, delle irregolarità
contributive costituenti elemento impeditivo per
l'affidamento dell'appalto e non sanabili con una
regolarizzazione postuma, tenuto conto che la regolarità
contributiva deve essere presente fin dalla presentazione
della domanda e permanere per tutto l'iter della procedura
di gara nonché durante la pendenza del relativo rapporto
contrattuale.
Tra l'altro, la consapevolezza da parte della
società ricorrente di non essere in regola in ordine agli
obblighi contributivi è stato considerato quale elemento che
ha connotato di gravità la violazione, in quanto la
succitata società era tenuta, al momento della domanda di
partecipazione, a rappresentare l'eventuale insoluto, la sua
entità e le ragioni che l'avessero determinato, non solo per
evitare false dichiarazioni, ma anche per instaurare un
contraddittorio sul punto e, quindi, dar modo alla stazione
appaltante di escludere la gravità e definitività della
violazione” -Cons. Stato Sez. IV, 15-09-2010, n. 6907-)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.01.2013 n. 341 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: La
Cassazione sulle prestazioni legali. La nota spese è
rettificabile
La nota spese inviata dall'avvocato non è vincolante per il
professionista che ne può spedire una di importo molto
superiore se il cliente non l'ha accettata.
Lo ha stabilito
la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la
sentenza
18.01.2013 n. 1284.
La seconda sezione civile ha dato ragione a un
professionista che, dopo aver seguito una causa ereditaria,
aveva inviato una prima parcella. E in un secondo momento ne
aveva spedita un'altra di importo quasi raddoppiato. La
cliente non aveva pagato tanto che il legale aveva ottenuto
un decreto ingiuntivo per la liquidazione del compenso. La
signora si era opposta ma senza successo.
Ora la Cassazione
ha reso definitivo il verdetto pro-professionista. La Corte
territoriale ha disatteso la tesi della difesa che
rivendicava la vincolatività, per il professionista, della
prima richiesta di parcella sulla base del rilievo che
questa, che equivaleva ad una proposta, ex art. 1344 cod.
civ., non essendo mai stata accettata dalla cliente, poteva
essere validamente revocata dal legale.
Non solo. I giudici
di secondo grado hanno aggiunto che il professionista aveva
validamente giustificato l'invio della seconda richiesta per
essere stata la prima erroneamente calcolata al di sotto dei
parametri tabellari, avendo applicato lo scaglione della
tariffa professionale corrispondente al valore della quota
della cliente invece che a quello dell'asse ereditario,
errore che la Corte ha considerato effettivamente esistente,
dal momento che il legale si era occupato direttamente della
stessa individuazione della massa ereditaria. Ecco perché
per la Cassazione la motivazione della decisione impugnata
appare esauriente e logicamente coerente tra le sue premesse
e conclusioni, esponendo in modo adeguato e congruo le
ragioni per cui il giudice ha ritenuto che la prima parcella
non vincolasse il professionista.
Insomma ora la signora non ha più chance e dovrà pagare al
professionista gli 80 mila euro che questo le ha chiesto con
la seconda nota spese invece dei 42mila sollecitati con la
prima parcella. Anche la Procura generale di Piazza Cavour
ha sollecitato in aula il rigetto del ricorso della cliente
(articolo ItaliaOggi del 22.01.2013
- link a www.corteconti.it). |
APPALTI:
Sull'obbligo di richiedere nel bando di gara,
pena la nullità del bando, l'obbligo per gli
aggiudicatari di indicare un numero di conto corrente unico
sul quale gli enti appaltanti fanno confluire tutte le somme
relative all'appalto
In secondo luogo, il collegio prende brevemente posizione sulla
questione sollevata d’ufficio con l’ordinanza cautelare n.
706 del 2012, relativa a possibili profili di nullità del
bando, in ordine all’applicazione dell’art. 2, comma 1,
della l.r. 20.11.2008 n. 15, atteso che la lett. s)
del bando non riproduce pedissequamente la suddetta
disposizione (che stabilisce l'obbligo per gli aggiudicatari
di indicare un numero di conto corrente unico) ma consente,
a differenza di questa, l’apertura di più conti correnti,
anche non esclusivi, dedicati alle commesse pubbliche e
finalizzati alla movimentazione finanziaria relativa
all’appalto.
Detta questione, infatti, se fondata, porterebbe alla
declaratoria di nullità della lex specialis della gara e, di
conseguenza, renderebbe improcedibili tutte le impugnazione
proposte avverso quest’ultima.
Il collegio premette che negli ultimi anni la
giurisprudenza di questo Tribunale ha preso posizione sulla
questione suddetta, dichiarando nulli i bandi privi degli
avvisi di cui all’art. 2 della l.r. 20.11.2008 n. 15.
La suddetta disposizione stabilisce, al comma 1, che “Per
gli appalti di importo superiore a 100 migliaia di Euro, i
bandi di gara prevedono, pena la nullità del bando,
l'obbligo per gli aggiudicatari di indicare un numero di
conto corrente unico sul quale gli enti appaltanti fanno
confluire tutte le somme relative all'appalto.
L'aggiudicatario si avvale di tale conto corrente per tutte
le operazioni relative all'appalto, compresi i pagamenti
delle retribuzioni al personale da effettuarsi
esclusivamente a mezzo di bonifico postale o assegno
circolare non trasferibile. Il mancato rispetto dell'obbligo
di cui al presente comma comporta la risoluzione per
inadempimento contrattuale”.
La norma in questione “è finalizzata alla garanzia della
trasparenza e della tracciabilità dei pagamenti posti in
essere nell' esecuzione degli appalti, garanzia ritenuta
prevalente, mediante la previsione della nullità del bando
in caso di omessa previsione, rispetto ad ogni altro
interesse pubblico o privato concorrente, nella
considerazione dell'alto rischio di infiltrazioni mafiose
nel campo degli appalti che, data la rilevanza degli
interessi economici in gioco, richiama da sempre
l'attenzione della criminalità organizzata” (Tar Sicilia,
Palermo, III, 25.02.2011, n. 361; nello stesso senso: Tar Sicilia, Palermo, III, 19.12.2011, n. 2406,
confermata dal C.g.a. con sentenza 27.07.2012, n. 721;
TAR Sicilia, Catania, III, 20.07.2010, n. 3127; da
ultimo, TAR Sicilia Palermo Sez. I, Sent., 21.12.2012, n. 2752).
Si è ritenuto anche che l'applicabilità della citata norma,
prescinde, da un lato, dal fatto che sia stata proposta
apposita censura, di talché è onere del giudice di rilevare
d'ufficio la questione di nullità, e dall'altro lato, dal
fatto che il ricorso sia eventualmente, per altre, ragioni
infondato (cfr. Tar Sicilia, Palermo, sez. III, 25.02.2011, n. 361).
Se certamente non vi sono dubbi che siano nulli i bandi
privi dell’avviso in questione (ex multis, TAR Sicilia
Palermo Sez. III, Sent., 31.10.2012, n. 2147; id., 19.12.2011, n. 2406), la situazione è un po’ diversa nei
casi in cui, come quello che qui interessa, il bando
riproduca la citata disposizione operando un commistione tra
norma regionale e norma nazionale corrispondente, che è
l’art. 3, comma 1, della l. 136 del 2010, la quale stabilisce
che “per assicurare la tracciabilità dei flussi finanziari
finalizzata a prevenire infiltrazioni criminali, gli
appaltatori, i subappaltatori e i subcontraenti della
filiera delle imprese nonché i concessionari di
finanziamenti pubblici anche europei a qualsiasi titolo
interessati ai lavori, ai servizi e alle forniture pubblici
devono utilizzare uno o più conti correnti bancari o
postali, accesi presso banche o presso la società Poste
italiane Spa, dedicati, anche non in via esclusiva, fermo
restando quanto previsto dal comma 5, alle commesse
pubbliche“.
Il bando di gara, infatti, alla lett. s), stabilisce che “l’aggiudicatario dovrà indicare uno o più numeri di conto
corrente bancario o postale accesi presso banche o Poste
Italiane s.p.a. dedicati, anche in via non esclusiva, alle
commesse pubbliche”, mentre alla lett. t) stabilisce che “per le finalità di cui all’art. 2, comma 1, della l.r.
15/2008 e all’art. 3 L. 136/2010, il mancato rispetto dei
suddetti obblighi da parte dell’aggiudicatario comporterà la
risoluzione del contratto per inadempimento ai sensi
dell’art. 3, comma 8, L. 136/2010”.
Fermo restando che la disposizione regionale non è stata
implicitamente abrogata dalla legge nazionale, perché, come
ribadito da ultimo dal CGA, 27.07.2012, n. 721, “la nota
peculiarità della criminalità organizzata in Sicilia può
giustificare l'adozione di una disciplina diversa e più
severa di quella nazionale” (si vedano anche TAR Sicilia
Palermo Sez. I, 12.07.2012, n. 1530; id., 27.06.2012, n. 1311; id., 11.05.2012, n. 959; Sez. III, Sent.,
30.11.2012, n. 2511), il collegio si è dovuto
necessariamente porre la questione (sottoponendola al
contraddittorio delle parti già in primo grado) circa la
compatibilità tra il testo del bando e la norma regionale:
non essendovi corrispondenza, infatti, potrebbe ritenersi
che la lex specialis della gara sia formalmente priva della
disposizione di cui all’art. 2 della l.r. 15/2008 e,
pertanto, nulla.
Infatti, la norma regionale è senza dubbio più restrittiva
di quella nazionale, prevedendo la necessità di un unico
conto da destinare all’appalto (laddove la legge nazionale
menziona più conti, anche non esclusivi), e commina la
nullità del bando in mancanza di avviso (sanzione,
quest’ultima, assente a livello nazionale).
Sul punto, il collegio osserva, da un lato, che la ratio di
entrambe le norme è la tracciabilità; sotto questo profilo,
la circostanza che vi sia un unico conto oppure più conti
appare del tutto irrilevante, posto che i partecipanti alle
gare debbono comunque comunicarli alla stazione appaltante;
dall’altro, la comminatoria di nullità, che rende la legge
speciale più restrittiva e degna di sopravvivenza
all'avvento della legge 136/2010, non può però essere
interpretata in modo del tutto irragionevole e
discriminatorio con riguardo al numero dei conti
utilizzabili, nel senso che se nel bando si consente la
possibilità di averne più di uno (a differenza della legge
regionale), ciò non toglie che nella sostanza il precetto
della norma regionale potrà essere comunque rispettato, per
il principio che il più contiene il meno, imponendo
all’aggiudicatario (a gara terminata) di utilizzare un unico
conto corrente.
In pratica, non è con la comminatoria di nullità del bando
che si risolve l'eventuale inadempienza dell'aggiudicatario
al precetto di legge, che può dirsi rispettato se la
stazione appaltante comunica a questi –laddove avesse
indicato più conti– che deve restringere il campo a uno
solo, pena la risoluzione del contratto.
Si tratta, in ogni caso, di situazioni successive alla
chiusura della procedura di gara e che saranno valutate
dalle stazioni appaltanti caso per caso, senza che la gara
venga invalidata in radice.
A conferma di ciò, va detto che in una fattispecie simile,
nella quale, quindi, il bando recava l’avviso sulla
tracciabilità riproducendo la legge nazionale, anziché
quella regionale, questo Tribunale non ha ritenuto di dover
comminare la nullità del medesimo (TAR Sicilia Palermo
Sez. III, 08.06.2012, n. 1207)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 11.01.2013 n. 28 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'onere di immediata
impugnazione del bando di gara riguarda le sole clausole che
concernono i requisiti soggettivi di partecipazione dei
soggetti interessati, che risultino esattamente e
storicamente identificate, preesistenti alla gara stessa, e
non siano suscettibili di essere condizionate dal suo
svolgimento e perciò in condizioni di ledere immediatamente
e direttamente l'interesse sostanziale del soggetto che ha
chiesto di partecipare alla procedura, nonché quelle che
impongono oneri incomprensibili o manifestamente
sproporzionati, come tali immediatamente ostativi alla
partecipazione alla gara.
Ogni diversa questione riguardante l'assunta illegittimità
della procedura di gara può e deve essere proposta
unitamente agli atti che delle clausole dimostratesi lesive
fanno diretta applicazione (provvedimento di esclusione o
dell'aggiudicazione del contratto o di altro provvedimento
che segni comunque, per l'interessato, un arresto
procedimentale), atteso che sono essi atti che rendono
attuale e concreta la lesione della situazione
dell'interessato.
Pertanto, sussiste l'onere di immediata impugnazione del
bando di gara o lettera di invito solo in relazione alle
clausole che impediscono in limine la partecipazione alla
procedura di determinati soggetti e non richiedano alcuna
significativa attività interpretativa né dei destinatari del
bando, né degli organi dell'Amministrazione che ne debbano
fare applicazione sicché in tutti gli altri casi deve
ritenersi tempestiva l'impugnazione della lex specialis
contestualmente a quella degli atti che di essa fanno
applicazione, atteso che solo questi ultimi identificano il
concorrente leso e rendono attuale e concreta la lesione
della relativa situazione soggettiva in relazione
all'eventuale esito negativo della gara, mentre
anteriormente la lesività delle clausole contestate resta
sul piano dell'astrattezza e potenzialità.
Sul punto, la
giurisprudenza amministrativa afferma in modo costante, da
anni, che “l'onere di immediata impugnazione del bando di
gara riguarda le sole clausole che concernono i requisiti
soggettivi di partecipazione dei soggetti interessati, che
risultino esattamente e storicamente identificate,
preesistenti alla gara stessa, e non siano suscettibili di
essere condizionate dal suo svolgimento e perciò in
condizioni di ledere immediatamente e direttamente
l'interesse sostanziale del soggetto che ha chiesto di
partecipare alla procedura, nonché quelle che impongono
oneri incomprensibili o manifestamente sproporzionati, come
tali immediatamente ostativi alla partecipazione alla gara.
Ogni diversa questione riguardante l'assunta illegittimità
della procedura di gara può e deve essere proposta
unitamente agli atti che delle clausole dimostratesi lesive
fanno diretta applicazione (provvedimento di esclusione o
dell'aggiudicazione del contratto o di altro provvedimento
che segni comunque, per l'interessato, un arresto
procedimentale), atteso che sono essi atti che rendono
attuale e concreta la lesione della situazione
dell'interessato.
Pertanto, sussiste l'onere di immediata
impugnazione del bando di gara o lettera di invito solo in
relazione alle clausole che impediscono in limine la
partecipazione alla procedura di determinati soggetti e non
richiedano alcuna significativa attività interpretativa né
dei destinatari del bando, né degli organi
dell'Amministrazione che ne debbano fare applicazione sicché
in tutti gli altri casi deve ritenersi tempestiva
l'impugnazione della lex specialis contestualmente a quella
degli atti che di essa fanno applicazione, atteso che solo
questi ultimi identificano il concorrente leso e rendono
attuale e concreta la lesione della relativa situazione
soggettiva in relazione all'eventuale esito negativo della
gara, mentre anteriormente la lesività delle clausole
contestate resta sul piano dell'astrattezza e potenzialità”
(così TAR Campania, Napoli, sez. I, 03.04.2012, n.
1550; ex plurimis, Cons. St., sez. V, 28.05.2012, n.
3128; id., sez. VI, 04.10.2011, n. 5434; id., sez. V,
id., sez. V, 07.09.2001 n. 4679; id. 04.03.2011 n.
1380; id, 21.02.2011 n. 1071; id., sez. VI, 24.02.2011 n. 1166; id., sez. V,
04.03.2008 n. 901;
TAR Campania, Napoli, sez. I, 09.10.2012, n. 4037;
TAR Lazio sez. I, 06.07.2012, n. 6163; TAR Lazio
sez. III, 14.01.2012, n. 354; TAR Campania, Napoli,
sez. I, 03.04.2012, n. 1550; TAR Lazio sez. I, 01.06.2012, n. 5000; TAR Campania, Napoli, sez. III,
01.06.2012, n. 2610)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 11.01.2013 n. 28 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI: Bilanci.
Effetto crisi. Il Tar può bloccare Corte conti sul dissesto.
L'intimazione della Corte dei conti a dichiarare il dissesto
di un Comune, secondo il meccanismo introdotto nel 2011 con
i decreti attuativi del federalismo fiscale, non ha
carattere «giurisdizionale» e quindi non è «assolutamente
insindacabile»; dal momento che il dissesto crea «un sicuro
e gravissimo pregiudizio alla comunità cittadina», e
impedisce di accedere agli aiuti anti-default introdotti a
ottobre con il decreto enti locali, il Tar Sicilia con
un'inedita decisione blocca il "fallimento" del comune di
Cefalù.
La decisione, contenuta nella sentenza n. 19/2013,
non è nel merito, e per il momento si limita alla
sospensiva; le considerazioni dei giudici però sono
inequivocabili, arrivano a sottolineare il fatto che le
responsabilità della paralisi contabile sono «chiaramente
attribuibili ai precedenti Governi del Comune», e in
questo modo offrono elementi concreti per prevedere
l'indirizzo del giudizio di merito che sarà pronunciato il
14 febbraio.
Le settimane di sospensione bastano da sole a permettere al
Comune di elaborare un piano di rientro da presentare al
Viminale per chiedere l'aiuto statale. La portata della
pronuncia, con cui per la prima volta un Tar blocca una
decisione della Corte dei conti interessa da vicino i tanti
enti locali che si trovano in situazioni analoghe. L'inedito
conflitto fra magistrature nasce dal nuovo meccanismo
anti-default messo in piedi a ottobre per decreto dal
Governo Monti.
Per accedere al fondo rotativo, il comune (o la provincia)
deve elaborare un piano di rientro che ambisca a sanare gli
squilibri strutturali dei bilanci, e riesca anche a ripagare
nel tempo, entro dieci anni, l'assegno iniziale ricevuto
dallo Stato. Questa chance è preclusa agli enti locali in
cui il "dissesto obbligato" sia già arrivato all'atto
finale, quando cioè la Corte conti dichiara che le
contromisure necessarie non sono state elaborate e di
conseguenza intima al consiglio comunale di dichiarare il
default.
Il Tar ora arriva a bloccare la diffida della magistratura
contabile offrendo di conseguenza un'opportunità ulteriore
agli enti già invischiati nel "dissesto obbligato"
quando è stato creato il nuovo fondo, anche sulla base del
fatto che lo strumento anti-default offre fino a 10 anni
(invece di tre) al Comune per risalire la china
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.01.2013
- link a www.corteconti.it) |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Ai
sensi dell'art. 6 della legge n. 249 del 1968,
l'amministrazione ha il potere di convalidare o ratificare
un provvedimento viziato (da incompetenza) nonostante la
pendenza di un giudizio sugli atti presupposti. Tale
disposizione di carattere generale è da considerare tuttora
vigente, anche a seguito dell'entrata in vigore dell'art.
21-nonies, co. 2, della legge n. 241 del 1990.
---------------
Una motivazione incompleta può esser integrata e ricostruita
attraverso gli atti del procedimento amministrativo, così
come può ipotizzarsi che l'amministrazione convalidi il
provvedimento integrandone in un secondo momento la
motivazione, fermo restando che tale attività deve pur
sempre avvenire da parte dell'amministrazione competente,
mediante gli atti del procedimento medesimo o un successivo
provvedimento di convalida.
Con riguardo alla successione di atti impugnati con il
ricorso introduttivo e con il seguente ricorso per motivi
aggiunti, è il caso di osservare che, ai sensi dell'art. 6
della legge n. 249 del 1968, l'amministrazione ha il potere
di convalidare o ratificare un provvedimento viziato
nonostante la pendenza di un giudizio sugli atti
presupposti. Tale disposizione di carattere generale è da
considerare tuttora vigente, anche a seguito dell'entrata in
vigore dell'art. 21-nonies, co. 2, della legge n. 241 del
1990 (cfr. Cons. St., sez. V, 07.05.2009, n. 2840).
Inoltre, pur costituendo principio consolidato in
giurisprudenza l'inammissibilità dell'integrazione postuma
in sede giudiziale della motivazione dell'atto
amministrativo, nondimeno è stato precisato che una
motivazione incompleta può esser integrata e ricostruita
attraverso gli atti del procedimento amministrativo, così
come può ipotizzarsi che l'amministrazione convalidi il
provvedimento integrandone in un secondo momento la
motivazione, fermo restando che tale attività deve pur
sempre avvenire da parte dell'amministrazione competente,
mediante gli atti del procedimento medesimo o un successivo
provvedimento di convalida (cfr. Cons. St., sez. VI,
19.08.2009, n. 4993).
In stretta connessione al profilo in esame va rilevato
infine che, qualora l'amministrazione, sulla scorta di una
rinnovata istruttoria e sulla base di una nuova motivazione,
dimostri di voler confermare la volizione espressa in un
precedente provvedimento, si palesa l'improcedibilità, per
sopravvenuta carenza di interesse, dell'impugnativa proposta
avverso gli atti adottati a monte del provvedimento che, in
pendenza del giudizio, ha sostituito le precedenti
determinazioni (cfr. Cons. St., sez. V, 25.08.2011, n. 4807;
TAR Napoli, sez. I, 11.07.2012, n. 3350)
(TAR Piemonte,
Sez. I, con
sentenza 10.01.2013 n. 24
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Pari opportunità in giunta, il TAR: si rispettino
sempre quote rosa.
Il TAR Piemonte, Sez. I, con
sentenza 10.01.2013 n. 24, ha sancito l'illegittimità
della nomina di due nuovi assessori di sesso maschile in una
giunta comunale, motivata con le loro qualità politiche,
amministrative e professionali, senza alcun argomento
relativo all'impossibilità di attuare la pari opportunità.
Secondo i giudici amministrativi piemontesi, "è oramai
pacificamente acquisita la portata precettiva -e non solo
riduttivamente programmatica- del principio di pari
opportunità all'accesso agli uffici pubblici e alle cariche
pubbliche di cui all'art. 51 della carta Costituzionale,
inteso come esplicazione del principio fondamentale di
eguaglianza sostanziale (art. 3) e a quest’ultimo accomunato
dalla natura di diritto fondamentale".
Ma non solo. Il Tar precisa anche come "Al principio di
pari opportunità viene riconosciuta immediata efficacia
applicativa, integrando lo stesso un parametro di
legittimità sostanziale di attività amministrative
discrezionali, rispetto alle quali si pone come limite
conformativo. La sua diretta applicazione -si legge nella
sentenza- va di pari passo con l'interposizione di fonti
attuative primarie o di altro livello, quali il d.lgs.
11.04.2006 n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e
donna) e gli statuti comunali e provinciali".
Pertanto, i giudici sanciscono la precettività del principio
di pari opportunità, che incide anche sullo statuto del
Comune, nel quale si affermava soltanto che si doveva «tendere
a equilibrare la presenza di entrambi i sessi» (commento
tratto da www.giurdanella.it).
---------------
STRALCIO DELLA SENTENZA
Nel merito, ai
fini della individuazione dei principi normativi di
riferimento, va osservato che è oramai pacificamente
acquisita la portata precettiva -e non solo riduttivamente
programmatica- del principio di pari opportunità all'accesso
agli uffici pubblici e alle cariche pubbliche di cui
all'art. 51 della carta Costituzionale, inteso come
esplicazione del principio fondamentale di eguaglianza
sostanziale (art. 3) e a quest’ultimo accomunato dalla
natura di diritto fondamentale (così TAR Sardegna, sez. II,
02.08.2011, n. 864).
Al principio di pari opportunità viene riconosciuta
immediata efficacia applicativa, integrando lo stesso un
parametro di legittimità sostanziale di attività
amministrative discrezionali, rispetto alle quali si pone
come limite conformativo.
La sua diretta applicazione -tra l'altro confermata per
espresso dictum costituzionale nella parte in cui l'art. 51
opera un riferimento ai "provvedimenti"- va di pari passo
con l'interposizione di fonti attuative primarie o di altro
livello, quali il d.lgs. 11.04.2006 n. 198 (Codice delle
pari opportunità tra uomo e donna) e gli statuti comunali e
provinciali. Da un lato, il Codice, all'art. 1, riprendendo
le coordinate costituzionali, assicura la pari opportunità
in tutti i campi, assegnando tale obiettivo a tutti gli
attori istituzionali attraverso ogni possibile strumento di
disciplina, normativo e non.
Dal canto loro, gli statuti comunali e provinciali
introducono, ai sensi dell'art. 6 del d.lgs. 18.08.2000
n. 267, "norme per assicurare condizioni di pari opportunità
tra uomo e donna ai sensi della legge 10.04.1991, n.
125, e per promuovere la presenza di entrambi i sessi nelle
giunte e negli organi collegiali del comune e della
provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi
dipendenti".
Per quanto attiene all’ambito regionale, l'art. 117, comma
7°, Cost. ulteriormente precisa che "le leggi regionali
rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli
uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed
economica e promuovono la parità di accesso tra donne e
uomini alle cariche elettive".
Nel caso specifico, e in coerenza con il delineato quadro
normativo, viene in rilievo quale fonte di diretta
regolamentazione della materia l’art. 9, comma 4, dello
Statuto del Comune di Rivoli, il quale prevede che “nella
composizione della Giunta si deve tendere ad equilibrare la
presenza di entrambi i sessi”.
Tale norma statutaria costituisce il parametro di
valutazione della legittimità del provvedimento impugnato.
E’ tuttavia opportuno precisare, in via preliminare, che
l'atto con il quale il Sindaco o Presidente della Giunta
regionale o provinciale nomina un assessore, non costituisce
atto politico -per esso intendendosi l'atto espressione
della libertà (politica) riconosciuta dalla Costituzione ai
supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione
di esigenze unitarie ed indivisibili ad esso inerenti e,
quindi, libero nella scelta dei fini- ma atto di alta
amministrazione che, seppure espressione di ampia
discrezionalità, è comunque soggetto, ex art. 113 cost., al
sindacato giurisdizionale (cfr. Cons. St., Sez. V, 27.07.2011, n. 4502).
Tornando alla norma statutaria (art. 9, comma 4), va
osservato che la stessa, pur non prevedendo "quote rigide"
(cioè riserve fisse di posti per le donne, che peraltro non
sembrano avere copertura costituzionale: cfr. Corte Cost.,
13.02.2003, n. 49), dispone che nella composizione
della Giunta sia assicurata, di norma, la presenza di ambo i
sessi, e in tal modo pone un limite conformativo, seppure
elastico, alla composizione dell’organo di governo.
Ciò comporta che la mancata nomina di una componente di
sesso femminile nella Giunta comunale, pur se, in assoluto,
non illegittima, deve essere motivata mediante illustrazione
delle ragioni e delle modalità di siffatta scelta, inidonea
a realizzare il "riequilibrio di genere".
La necessità del rispetto del principio delle pari
opportunità nella composizione della giunta locale è stata
recentemente affermata dalla giurisprudenza amministrativa
con particolare riferimento ad ipotesi, analoghe alla
fattispecie oggetto del presente giudizio, in cui lo statuto
dell’ente conteneva espressa previsione in tal senso (cfr.
TAR Bari, Sez. III, 18.12.2008, n. 2913 e Sez. I,
22.10.2009, n. 2443; TAR Lazio, Sez. II, 25.07.2011, n. 6673; TAR Napoli, Sez. I,
07.04.2011, n.
1985).
Nel caso in esame, la motivazione addotta a supporto del
provvedimento di convalida assunto in data 05.09.2012, fa
leva su quattro passaggi argomentativi: due indicati come
prioritari –attinenti all’equa rappresentanza nella Giunta
delle forze di maggioranza e alle indicazioni nominative
avanzate da tali forze politiche; due indicati come
complementari, attinenti alle qualità politico–amministrative e professionali vantate dai due soggetti
elevati all’incarico di assessore.
La valenza di tali due ultimi criteri motivazionali appare
trascurabile, tenuto conto dell’assenza di elementi di
confronto tra i profili soggettivi presi in esame e quelli
di potenziali candidati alternativi. Le referenze dei due
nuovi assessori, infatti, vengono valutate isolatamente, e
non raffrontate a quelle di terzi potenziali concorrenti. Il
provvedimento, in altri termini, lungi dall’operare una
comparazione selettiva preliminare alla scelta, si limita a
illustrare i curricula dei due soggetti nominati: così
facendo, tuttavia, non apporta alcun utile elemento
valutativo in ordine alla praticabilità di eventuali
candidature femminili. In particolare, nessun accenno si
rinviene in ordine all’unico nominativo di genere femminile
pure inserito tra le candidature avanzate dai partiti.
I primi due criteri, invece, risultano incentrati sulla
manifestata esigenza di un’equa rappresentanza nella Giunta
delle forze di maggioranza e sulla particolare rilevanza
tributata alle indicazioni nominative avanzate da tali forze
politiche. Si tratta di argomentazioni squisitamente
politiche, entro certi limiti suscettibili di sindacato
giurisdizionale.
Allorché, infatti, l'ambito di estensione del potere
discrezionale, anche quello amplissimo che connota un'azione
di governo, è conformato da vincoli di rango superiore che
ne segnano in parte l'esercizio, il rispetto dei tali limiti
costituisce comunque requisito di legittimità formale e
sostanziale.
Ed è questa un'indagine senz’altro consentita al giudice di
legittimità, non trattandosi di sindacare l'opportunità
della scelta ma l'osservanza effettiva di un limite al
potere.
In questa direzione, la natura politica della scelta
incontra il limite esterno dell'invocato principio di pari
opportunità; ne discende che, concretamente, non possono
essere posti a sostegno di condotte elusive aprioristiche
ragioni di opportunità politica, perché in questo modo si
determinerebbe una netta prevalenza della libertà di scelta
che invece deve contenersi nel rispetto dell'attuazione di
principi costituzionali.
Circa poi la consistenza delle motivazioni “politiche”,
essa appare evanescente se affidata a enunciazioni vaghe e
indeterminate, quali quelle in esame, non leggibili
attraverso criteri interpretativi rapportati a dati
concreti.
- In particolare, l’atto impugnato non dà dimostrazione di
alcuna condizione di assoluta impossibilità di attuazione
del principio delle pari opportunità, in quanto non spiega,
nemmeno in termini sommari o essenziali, le concrete ragioni
che hanno impedito di promuovere candidature diversificate
tra generi, all’interno delle compagini partitiche o dello
stesso consesso consiliare, in grado di conciliarsi al
contempo con le concorrenti esigenze di equilibrio politico.
- Con riguardo all’ulteriore argomento attinente alle
indicazioni dei partiti, deve osservarsi che il principio di
pari opportunità non può ritenersi non violato per effetto
della mancata indicazione, da parte dei partiti di
maggioranza, di nominativi di genere femminile: si
affiderebbe, altrimenti, ancora una volta ad una valutazione
di opportunità politica la preliminare individuazione degli
assessori in termini confacenti all’esigenza
dell’equilibrata rappresentanza di genere.
- L’indicazione dei partiti va inoltre coniugata con la
regola che fa della scelta in esame un'autonoma
determinazione del Presidente della Giunta. A questi è
richiesto di dimostrare di essersi concretamente e
personalmente attivato, anche al di fuori dei suggerimenti
dei partiti della coalizione di maggioranza, per individuare
delle figure idonee, disponibili a rivestire l'incarico.
- Sempre in tema, è bene chiarire che ai sensi dell'art. 47
del t.u.e.l. è possibile la nomina degli assessori anche al
di fuori dei componenti del Consiglio, fra i cittadini in
possesso dei requisiti di candidabilità, eleggibilità e
compatibilità alla carica di consigliere.
Pertanto, salvo diverse e motivate condizioni ostative, non
costituisce ostacolo alla composizione diversificata della
giunta la mancanza di donne nelle liste collegate al
candidato poi eletto Sindaco (così TAR Umbria sez. I, 20.06.2012, n. 242).
- Il ragionamento sin qui condotto si completa osservando
che la presenza di un solo assessore di genere femminile
nella giunta del Comune di Rivoli, non vale certamente a
soddisfare il principio di una equilibrata presenza di donne
e uomini nella composizione dell’organo di governo.
Con riguardo alla portata della norma statutaria di cui
all’art. 9 comma 4, va rilevato che il vincolo “tendenziale”
posto dalla stessa, rivela una consistenza “procedimentale”
che si evidenzia nei passaggi di un’adeguata istruttoria,
preliminare alla scelta dei candidati, e di una congrua
motivazione, che dia conto dei risultati dello sforzo
propositivo attuato e delle ragioni che ne hanno impedito un
esito positivo.
- In questo contesto, ha cittadinanza anche la valutazione
politica di gradimento, purché l’eventuale dissenso rispetto
a qualunque candidatura femminile venga giustificato da
concrete ragioni di inidoneità o incompatibilità politica
alla funzione, nonché dalla mancanza di alternative valide,
compatibili con il quadro politico, diversamente
traducendosi in un'ingiustificata elusione di un cogente
precetto costituzionale.
- Tenendo conto delle considerazioni sin qui esposte, si
giunge alla conclusione della illegittimità dell’atto
impugnato, in quanto viziato dall’inosservanza della
disposizione di cui all’art. 9 dello statuto comunale,
presentando lo stesso la consistenza di determinazione
discrezionale, non leggibile alla stregua dei criteri
conformativi sin qui descritti e dunque irrispettosa dei
limiti posti ad argine di un uso libero e non adeguatamente
motivato del potere di nomina.
- Né la pur coesistente discrezionalità realizzativa del
principio di "riequilibrio" può apparire in sé compressa
oltre i suoi limiti, essendo la violazione rilevata
risultante da una verifica di legittimità afferente alla
sproporzione manifesta e ad un assetto in concreto inferiore
alla soglia della ragionevolezza.
- In definitiva, l’attività di nomina degli assessori
risulta essersi svolta in assenza di comprovate preliminari
attività istruttorie volte ad acquisire la disponibilità
alla candidatura di persone di genere diverso e in difetto
di adeguate motivazioni in ordine alle ragioni della mancata
applicazione del principio di cui all'art. 51 della
Costituzione, non rinvenibili neppure in una dimostrata
condizione politica assolutamente preclusiva all’attuazione
del principio di pari opportunità.
Ampliando la trattazione in esame al confronto con la
casistica presa in considerazione dalla recente
giurisprudenza amministrativa, si traggono elementi di
supporto alle conclusioni qui accolte.
Con riferimento ad analoghe disposizioni contenute negli
Statuti regionali della Campania (art. 46, comma 3: "il
Presidente della Giunta regionale nomina, nel pieno rispetto
del principio di una equilibrata presenza di donne ed
uomini, i componenti la Giunta") e della Lombardia (art. 11,
comma 3: "la Regione promuove il riequilibrio tra entrambi i
generi negli organi di governo della Regione"), il Consiglio
di Stato, concludendo per l’inosservanza del principio della
pari opportunità, ha valorizzato -pur a fronte di scelte
lessicali diverse- il dato, comune ai due statuti, della
imposizione di una specifica "azione positiva per obiettivo
legale", intesa come misura volta al perseguimento di uno
specifico risultato (di "riequilibrio") conformato ad un
interesse definito dalla legge.
Il giudice d’appello ha quindi ritenuto che la nomina degli
organi di governo della Regione è subordinata, nei casi
esaminati, per espressa autolimitazione statutaria,
“all'espletamento di un’azione positiva, consistente nella
"promozione del riequilibrio tra entrambi i generi", e che
“la violazione di tale vincolo determina l'illegittimità
della o delle nomine, in quanto gli spazi della
discrezionalità politica hanno superato i confini stabiliti
dai principi di natura giuridica posti dall'ordinamento,
tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo”
(cfr. Cons. St., sez. V, 27.07.2011 n. 4502 e 21.06.2012, n. 3670).
Il dettato dello statuto del Comune resistente nel presente
giudizio (“nella composizione della Giunta si deve tendere
ad equilibrare la presenza di entrambi i sessi”) -oltre a
condividere qualificanti elementi lessicali con le
disposizioni sopra richiamate- accentua il rilievo modale
del vincolo di scopo tramite l’uso della forma imperativa
(“si deve”).
Su un fronte alternativo a quello sin qui vagliato si pone
il caso oggetto della recente pronuncia del Consiglio di
Stato, Sez. V, n. 6228 del 05.12.2012, in cui veniva in
rilievo una norma statutaria che, tra i "principi
fondamentali" cui il Comune “ispira” la propria azione,
annovera la “finalità di promuovere e favorire iniziative
che assicurino condizioni sostanziali di pari opportunità
per il superamento di ogni discriminazione tra i sessi".
In questa fattispecie si è ritenuto che la previsione
statutaria non disponesse né predeterminasse alcun vincolo
specifico in ordine alla composizione degli organi di
governo comunale, in quanto “priva di contenuti precettivi,
in ragione della sua vaga e generica formulazione, di
rilievo puramente enfatico, non contenente neppure una
regola di cd. "positive action" di tipo promozionale, che
deve sempre essere enunciata in modo specifico, determinato
e preciso, come è proprio delle norme giuridiche, anche di
principio”.
Il riferimento alle due tipologie di disposizioni prese in
esame dalla giurisprudenza, nelle loro diverse
configurazioni lessicali, consente di percepire la portata
precettiva e conformativa della diposizione statutaria
assunta dalle ricorrenti come violata, dovendosene
escludere, in termini analoghi a quelli dei primi due casi
citati, il rilievo meramente retorico ed enunciativo.
Da ultimo va osservato che la soluzione qui accolta
risulta coerente con i criteri di indirizzo desumibili dalla
recenti disposizioni contenute nella legge 23.11.2012,
n. 215 (in G.U. n. 288 dell'11.12.2012 -in vigore dal
26.12.2012)- finalizzate a promuovere il riequilibrio
delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte
degli enti locali e nei consigli regionali (oltre che nella
composizione delle commissioni di concorso nelle pubbliche
amministrazioni).
Per quanto di interesse ai fini della presente decisione, va
posto rilievo sulla accentuazione -frutto dei recenti
apporti legislativi- del tenore precettivo delle
disposizioni intese a vincolare, in senso paritario, la
composizione delle giunte comunali e provinciali. In
particolare, l’articolo 6, comma 3, del d.lgs. 267/2000
(riguardante gli Statuti comunali e provinciali) ha visto
rafforzata la cogenza del principio della paritaria
rappresentanza, per effetto della sostituzione della voce
“promuovere” con la più prescrittiva forma “garantire” (“Gli
statuti comunali e provinciali stabiliscono norme per
assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna
ai sensi della legge 10.04.1991, n. 125, e per garantire
la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi
collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché
degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti").
Similmente, all’art. 46, comma 2, del d.lgs. 267/2000, in tema
di nomina della Giunta da parte del sindaco e del presidente
della provincia, si è disposto, con un inciso di nuovo
conio, che tali nomine devono avvenire “nel rispetto del
principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo
la presenza di entrambi i sessi”.
Analoghe revisioni testuali, convergenti nella linea del
rafforzamento della rappresentanza di genere, si ripetono
agli artt. 71 (in tema di elezione del sindaco e del
consiglio comunale nei comuni sino a 15.000 abitanti) e 73
del d.lgs. 267/2000 (in materia di elezione del consiglio
comunale nei comuni con popolazione superiore a 15.000
abitanti).
Il diritto vivente consolidatosi in materia trova oggi,
pertanto, nuovi argomenti esegetici per rinnovare la
valutazione di tendenziale vincolatività attribuita ai
precetti conformativi presenti negli statuti degli enti
locali, volti a sollecitare la composizione degli organi di
governo in senso tendenzialmente egualitario tra i generi.
In conclusione, per tutti i motivi esposti, il
provvedimento impugnato va annullato, dovendo il Sindaco del
Comune procedere alla nomina dei nuovi assessori in
rispondenza ai criteri evidenziati al paragrafo 11
(TAR Piemonte, Sez. I, con
sentenza 10.01.2013 n. 24
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Personale.
Possibile licenziamento dopo il giudizio penale.
L'assoluzione non salva il posto.
Il dipendente pubblico assolto nel giudizio penale «perché
il fatto non costituisce reato» può essere comunque
licenziato per lo stesso fatto dopo la riapertura del
procedimento disciplinare.
A rendere legittimo il licenziamento è la condotta
incompatibile con il proseguimento del rapporto di lavoro,
anche se l'azione non ha rilevanza penale.
Una volta concluso il procedimento penale, deve quindi
essere riaperto il quello disciplinare.
Il principio è stato
sancito dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nella
sentenza
08.01.2013 n. 206.
La Suprema corte ha chiarito che la Pa deve valutare in
maniera autonoma rispetto all'accertamento penale l'idoneità
dei fatti contestati a integrare gli estremi della giusta
causa o del giustificato motivo di licenziamento e, sulla
base di elementi scaturenti dalle prove raccolte nel
giudizio penale, l'incidenza dei fatti sul rapporto
fiduciario.
I giudici hanno precisato che l'interpretazione secondo cui
in caso di assoluzione o proscioglimento gli stessi fatti
restavano definitivamente sottratti alla valutazione
disciplinare non è condivisibile. Solo se l'assoluzione è
disposta «perché il fatto non sussiste» o «perché l'imputato
non l'ha commesso» è esclusa anche ogni responsabilità
disciplinare.
Al contrario, l'assoluzione dovuta alla non rilevanza penale
dei fatti contestati, non impedisce la valutazione in sede
disciplinare della stessa condotta. In caso contrario,
sarebbero pregiudicate le esigenze di buon andamento e
imparzialità della Pa: principi che sono stati recepiti
anche dal Dlgs 150/2009.
La riforma Brunetta ha previsto che il procedimento
disciplinare vada concluso anche in caso di pendenza di
procedimento penale, ammettendone la sospensione solo per le
infrazioni di maggiore gravità se per la complessità di
accertamento mancano elementi sufficienti per proseguire
nell'accertamento disciplinare. Solo se il procedimento
disciplinare, non sospeso, si concluda con una sanzione, e
poi quello penale sia definito con sentenza irrevocabile di
assoluzione piena, la Pa potrà riaprire il procedimento
disciplinare per modificarne o confermarne l'atto conclusivo
in relazione all'esito del giudizio penale (articolo Il
Sole 24 Ore del 21.01.2013). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Incarico
dirigenziale, enti locali, revoca, motivi disciplinari,
illegittimità, reintegra.
Il provvedimento di revoca di un
incarico dirigenziale pubblico deve essere motivato da
ragioni di carattere disciplinare. In caso di illegittima
rimozione dunque, il dirigente ha diritto ad essere
reintegrato nelle sue funzioni in quanto il mero
risarcimento del danno non costituisce un’efficace forma di
tutela in caso di incarico pubblico.
Infatti, i principi di buon andamento ed imparzialità della
pubblica amministrazione enunciati dall’art. 97 Cost.
impongono, rispettivamente, che il rapporto d’ufficio del
dirigente, anche se caratterizzato dalla temporaneità
dell’incarico, sia connotato da specifiche garanzie dirette
ad assicurare la tendenziale continuità dell’azione
amministrativa e che i compiti di indirizzo
politico-amministrativo e quelli di gestione siano
chiaramente distinti.
È quanto ha stabilito il TRIBUNALE di Enna con
sentenza 19.12.2012 n. 647, conforme a Sezioni Unite
16.02.2009, n. 3677.
Nel caso in esame un dirigente pubblico ricorreva al giudice
del lavoro avverso il provvedimento di revoca dell’incarico
conferitogli con delibera comunale “per tutta la durata
del mandato sindacale”.
Secondo la sentenza in commento, tale delibera, seppur
conforme alla previsione dello statuto comunale per cui “gli
incarichi dirigenziali hanno durata corrispondente a quella
del mandato del Sindaco che li ha nominati”, si pone in
contrasto con il quadro normativo vigente in materia di
revoca degli incarichi dirigenziali. In particolare, con
l’art. 19, D.Lgs. n. 165/2001, per cui “gli incarichi
dirigenziali possono essere revocati esclusivamente nei casi
e con le modalità di cui all’articolo 21, comma 1, secondo
periodo”, ovvero per ragioni di carattere disciplinare.
Inoltre, ed è questo l’aspetto più significativo, il
giudice, nell’interpretare le norme in materia di revoca
degli incarichi conferiti ai dirigenti pubblici, ha ritenuto
di applicare i principi affermati dalla Corte Costituzionale
in materia di spoils system.
In tal senso, il rapporto d’ufficio del dirigente, anche se
caratterizzato dalla temporaneità dell’incarico, deve essere
connotato da specifiche garanzie in modo da assicurare la
tendenziale continuità dell’azione amministrativa e una
chiara distinzione tra i compiti di indirizzo
politico-amministrativo e quelli di gestione, si da
garantire il rispetto dei principi di imparzialità e buon
andamento dell'azione amministrativa.
Pertanto, la revoca delle funzioni conferite ai dirigenti
pubblici può essere disposta solo a seguito
dell’accertamento della responsabilità dirigenziale, in
presenza di determinati presupposti ed all'esito di un
procedimento di garanzia puntualmente disciplinato.
Le garanzie procedimentali devono essenzialmente consistere
in un momento di confronto dialettico tra le parti,
nell’ambito del quale l’Amministrazione esterni le ragioni
per le quali ritenga di disporre la revoca anticipata
dell’incarico ed il dirigente sia posto in condizione di
difendersi, prospettando i risultati delle proprie
prestazioni; nel rispetto dei principi del giusto
procedimento; nella motivazione dell’atto di revoca, a
prescindere dalla sua natura giuridica, di diritto pubblico
o di diritto privato.
In caso di illegittima revoca del dirigente pubblico, le
forme di riparazione economica (quali il risarcimento del
danno o la corresponsione di indennità) proprie della
disciplina privatistica, non rappresentano efficaci
strumenti di tutela, posto che le garanzie procedimentali
mirano a tutelare non solo il dirigente, ma anche gli
interessi pubblici dell’imparzialità e buon andamento della
pubblica amministrazione. L’unica forma di tutela efficace è
la reintegrazione del dirigente nelle funzioni dirigenziali
svolte sulla base dell’originario provvedimento di
conferimento dell’incarico, fino alla scadenza naturale
dello stesso.
Conseguentemente, il giudice del lavoro ha annullato il
provvedimento di revoca dell’incarico dirigenziale e, per
l’effetto, ha ordinato al comune di reintegrare il
ricorrente nelle funzioni dirigenziali precedentemente
svolte (link a
www.altalex.com). |
CONDOMINIO: Case, inagibilità da
dimostrare.
Senza prove non c'è il diritto al risarcimento dei danni.
Una sentenza della Cassazione su un caso
di abbandono dell'abitazione per infiltrazioni.
Il proprietario che a causa di lavori condominiali non
eseguiti a regola d'arte lamenti infiltrazioni
nell'appartamento non può lasciare la propria abitazione e
chiedere il risarcimento del danno per mancato utilizzo
della casa se non prova rigorosamente che l'abbandono
dell'immobile è dipeso dalle oggettive malsane condizioni
che lo avevano reso di fatto inabitabile.
È il principio
affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. III civile, nella
sentenza
13.12.2012 n. 22923.
I fatti. Questa la vicenda che ha portato alla decisione
della Cassazione: il pavimento dell'appartamento al piano
terra di un condominio veniva rimosso per consentire
riparazioni alle tubature dell'impianto di riscaldamento
condominiale. Le imprese incaricate però non avevano
eseguito a regola d'arte le opere di ripristino e, di
conseguenza, il condomino del piano terra aveva trovato
l'appartamento danneggiato da infiltrazioni provenienti
dalle reti fognarie condominiali e dai connessi fenomeni di
presenza di muffe organiche.
Secondo il danneggiato l'appartamento non poteva più essere
abitato e questa convinzione veniva confermata da un tecnico
a cui era stata richiesta una perizia sullo stato dei
luoghi. Successivamente il proprietario si rivolgeva al
tribunale per richiedere la condanna del condominio al
risarcimento di tutti i danni subiti (compresi quelli per
mancato utilizzo dell'immobile) a causa della cattiva
esecuzione dei lavori di ripristino del pavimento e delle
conseguenti infiltrazioni provenienti dall'impianto di
scarico condominiale e da umidità ascendente. Il condominio
convenuto contestava la domanda e, comunque, chiedeva e
otteneva di chiamare in garanzia le imprese esecutrici dei
lavori. Il tribunale dichiarava quindi la responsabilità del
condominio, che veniva condannato al risarcimento dei danni
per rifacimento di pavimentazione e battiscopa, per danni da
infiltrazioni, nonché per mancato uso dell'immobile,
abbandonato per oltre un anno fino all'ultimazione dei
lavori.
La Corte di appello, invece, occupandosi dell'impugnazione
della sentenza di primo grado presentata dal condominio,
respingeva la specifica domanda di risarcimento per il
mancato utilizzo dell'immobile. Ciò perché il danneggiato
aveva effettivamente lasciato la casa, ma non era stata
provata la necessità effettiva di abbandonare l'alloggio,
con la conseguenza che la condotta tenuta dal condomino del
piano terreno si doveva considerare come un volontario
abbandono dell'appartamento che, come tale, non era
risarcibile. Nel corso del giudizio di merito era stata
fatta anche una consulenza tecnica d'ufficio, che però si
era limitata a rilevare i segni dell'abbandono del bene e a
descrivere lo stato di fatto dei locali senza tuttavia
indicare in modo univoco l'intollerabilità o in ogni caso
l'idoneità a determinare l'inevitabile necessità di non
abitare l'appartamento.
La posizione della Cassazione. Le precedenti considerazioni
sono state pienamente condivise dalla Suprema corte, secondo
cui il singolo condomino il cui appartamento è stato reso
inabitabile da inesatta esecuzione di lavori condominiali
per avere diritto al risarcimento del danno da mancato
godimento dell'immobile deve provare di essere stato
costretto ad abbandonarlo perché divenuto insalubre e
radicalmente inabitabile a causa delle infiltrazioni
provenienti dalle reti fognarie condominiali e dei connessi
fenomeni di presenza di muffe. Tale prova però, come
chiariscono i giudici supremi, non può essere rappresentata
da argomentazioni e comunicazioni di dati fornite dal
tecnico di fiducia al quale il danneggiato si sia rivolto
per un parere sulle cause dei danni subiti prima del
procedimento in giudizio. In ogni caso una perizia avrebbe
solo il valore di indizio, il cui apprezzamento è affidato
alla valutazione discrezionale del giudice, ma della quale
quest'ultimo non è obbligato in nessun caso a tenere conto.
Secondo la Cassazione il tecnico di parte avrebbe solamente
potuto, se chiamato quale testimone, confermare lo stato dei
luoghi da lui personalmente percepito, ma appunto quale mera
situazione di fatto e con esclusione di qualunque
valutazione. Del resto non è possibile neppure provare le
necessità dell'abbandono utilizzando le parole del
consulente tecnico di ufficio incaricato dal giudice se
quest'ultimo si limita solamente a descrivere i segni
dell'abbandono e lo stato di fatto dei locali
dell'appartamento, ma senza indicarne le ragioni che hanno
costretto il condomino danneggiato a lasciare la sua casa
per trasferirsi altrove.
In tali casi quindi, per avere diritto al risarcimento del
danno da mancato godimento dell'immobile è necessaria una
valida prova che confermi la necessità dell'abbandono e, con
esso, sulle condizioni di inabitabilità del medesimo: in
caso contrario ne deriva la conclusione della volontarietà
della condotta del danneggiato, la quale non potrebbe quindi
mai costituire fondamento per un diritto al risarcimento del
danno a carico di altri, in virtù dei principi generali in
materia. Tuttavia le imprese esecutrici dei lavori
eventualmente chiamate in causa in garanzia, come nel caso
di specie, sono comunque tenute al risarcimento di tutti gli
altri danni conseguenti alle opere non eseguite a regola
d'arte a meno che il diritto di garanzia del condominio non
sia prescritto (articolo
ItaliaOggi Sette del 21.01.2013). |
URBANISTICA: Anche
se l'art. 35 della legge 22.10.1971 n. 865, prevede una
certa sequenza procedimentale in materia di attuazione dei
Piani di zona per l'edilizia economica e popolare statuente
prima l'espropriazione delle aree e poi la loro assegnazione
in proprietà od in superficie, non è tuttavia illegittimo il
provvedimento di assegnazione adottato prima del
perfezionamento della procedura espropriativa.
Nessuna illegittimità è rinvenibile nel caso che
l'assegnazione dell'area ai <<proprietari>> avvenga prima
del procedimento espropriativo”, e ciò in quanto l’Ente
locale ben può prevedere un'assegnazione "diretta" ai
proprietari dell'area da assegnare, non risultando
ragionevole procedere all'espropriazione dell'area e alla
successiva riassegnazione al medesimo soggetto proprietario,
ovviamente in possesso dei requisiti per essere assegnatario
di un'area nell'ambito di un PEEP.
La facoltà di svolgere le procedure di assegnazione senza
attendere il compimento delle espropriazioni risulta
accettabile anche alla luce dello stesso art. 35 invocato,
nella parte in cui prescrive la realizzazione del P.E.E.P.
"in pareggio", per cui “i corrispettivi della concessione in
superficie … ed i prezzi delle aree cedute in proprietà
devono, nel loro insieme, assicurare la copertura delle
spese sostenute dal comune o dal consorzio per
l'acquisizione delle aree comprese in ciascun piano
approvato … ciò allo scopo, evidentemente, di assicurare la
copertura delle spese complessivamente sostenute o da
sostenere da parte dell'Amministrazione, con conseguente
diritto del Comune di recuperare quanto speso sia per
l'acquisizione delle aree (da adeguare all'effettiva somma
dovuta agli espropriati a seguito della definizione della
pratica espropriativa), sia per la loro urbanizzazione”.
La necessità di raggiungere la completa copertura dei costi
sostenuti giustifica l’anticipazione della procedura
selettiva per l’individuazione degli assegnatari, la quale è
in grado di offrire una ragionevole certezza sulle somme che
l’Ente pubblico potrà percepire a garanzia dell’equilibrio
economico della complessa operazione posta in essere, e
dunque può confermare entro un termine non eccessivamente
lungo la bontà e la realizzabilità della scelta effettuata
per soddisfare il fabbisogno delle Aziende che operano nelle
realtà produttive locali.
L’invocato art. 35 della 865/1971 statuisce al
comma 11 che “Le aree di cui al secondo comma, destinate
alla costruzione di case economiche e popolari, sono
concesse in diritto di superficie, ai sensi dei commi
precedenti, o cedute in proprietà a cooperative edilizie e
loro consorzi, ad imprese di costruzione e loro consorzi ed
ai singoli, con preferenza per i proprietari espropriati ai
sensi della presente legge sempre che questi abbiano i
requisiti previsti dalle vigenti disposizioni per
l'assegnazione di alloggi di edilizia agevolata”.
La regole
introdotte sono pacificamente applicabili alle procedure di
approvazione di un P.I.P., l'attuazione del quale tende al
soddisfacimento del fabbisogno degli operatori economici di
disporre di aree a prezzi calmierati, attraverso il
reperimento e l'espropriazione di porzioni fabbricabili da
cedere a terzi in superficie o in proprietà, sulla base di
un corrispettivo o prezzo di cessione corrispondente (nel
complesso) al costo di acquisizione.
I proprietari espropriati vantano dunque un titolo di
preferenza da far valere nel procedimento di assegnazione
dei lotti (PEEP o P.I.P.), per ottenere la cessione in
proprietà degli stessi. La giurisprudenza che ha avuto modo
di affrontare la questione sottoposta ha affermato che
“Anche se l'art. 35 della legge 22.10.1971 n. 865,
prevede una certa sequenza procedimentale in materia di
attuazione dei Piani di zona per l'edilizia economica e
popolare statuente prima l'espropriazione delle aree e poi
la loro assegnazione in proprietà od in superficie, non è
tuttavia illegittimo il provvedimento di assegnazione
adottato prima del perfezionamento della procedura
espropriativa” (Consiglio di Stato, sez. IV – 07/02/1990 n.
66).
In altra pronuncia è stato rilevato come “nessuna
illegittimità sia rinvenibile nel caso che l'assegnazione
dell'area ai <<proprietari>> avvenga prima del procedimento
espropriativo”, e ciò in quanto l’Ente locale ben può
prevedere un'assegnazione "diretta" ai proprietari dell'area
da assegnare, non risultando ragionevole procedere
all'espropriazione dell'area e alla successiva riassegnazione al medesimo soggetto proprietario, ovviamente
in possesso dei requisiti per essere assegnatario di un'area
nell'ambito di un PEEP (TAR Toscana, sez. I –08/05/2001 n.
800– confermata in appello da Consiglio di Stato, sez. IV,
19/03/2009 n. 1656 – che richiama Consiglio di Stato, sez. IV
– 3154/2000).
La facoltà di svolgere le procedure di assegnazione
senza attendere il compimento delle espropriazioni risulta
accettabile anche alla luce dello stesso art. 35 invocato,
nella parte in cui prescrive la realizzazione del P.E.E.P. "in
pareggio", per cui “i corrispettivi della concessione
in superficie … ed i prezzi delle aree cedute in proprietà
devono, nel loro insieme, assicurare la copertura delle
spese sostenute dal comune o dal consorzio per
l'acquisizione delle aree comprese in ciascun piano
approvato … ciò allo scopo, evidentemente, di assicurare la
copertura delle spese complessivamente sostenute o da
sostenere da parte dell'Amministrazione, con conseguente
diritto del Comune di recuperare quanto speso sia per
l'acquisizione delle aree (da adeguare all'effettiva somma
dovuta agli espropriati a seguito della definizione della
pratica espropriativa), sia per la loro urbanizzazione”
(Corte di Cassazione, sez. I civile – 22/10/2008 n. 25582).
La necessità di raggiungere la completa copertura dei costi
sostenuti giustifica l’anticipazione della procedura
selettiva per l’individuazione degli assegnatari, la quale è
in grado di offrire una ragionevole certezza sulle somme che
l’Ente pubblico potrà percepire a garanzia dell’equilibrio
economico della complessa operazione posta in essere, e
dunque può confermare entro un termine non eccessivamente
lungo la bontà e la realizzabilità della scelta effettuata
per soddisfare il fabbisogno delle Aziende che operano nelle
realtà produttive locali
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 12.12.2012 n. 1942 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Comunicazione
esclusione gara via fax: per il Tar, è tutto legittimo.
Il fax con il quale la stazione appaltante comunica la
sconfitta di un concorrente nella gara d'appalto e indica
contemporaneamente il nome del vincitore costituisce uno
strumento idoneo a determinare la piena conoscenza del
provvedimento amministrativo.
Il principio è stato affermato dal
TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 06.12.2012 n. 1942.
I giudici amministrativi dichiarano così irricevibile il
ricorso proposto dall'impresa perdente contro
l’aggiudicazione della gara in quanto la trasmissione via
fax dell’esito della procedura è valida a tutti gli effetti.
Naturalmente a prova del corretto esito dell'informazione, è
necessario per la stazione appaltante produrre la ricevuta
positiva del rapporto di trasmissione (cfr. Consiglio di
Stato 6208/2011).
Pertanto il termine entro cui si sarebbe dovuta impugnare
l’aggiudicazione dei lavori iniziava a decorre dalla data in
cui la comunicazione risultava ricevuta e non da quella di
altre comunicazioni. Tutt'al più l'impresa avrebbe dovuto
dimostrare il malfunzionamento dell’apparecchio (commento
tratto da www.giurdanella.it).
---------------
STRALCIO DELLA SENTENZA
Premesso che con
il presente ricorso è impugnata l’aggiudicazione a favore
della controinteressata di un appalto per la realizzazione
di lavori pubblici, lamentando che nel progetto tecnico
dell’aggiudicataria mancasse documentazione relativa alla
sua offerta migliorativa di cui sarebbe stata prevista,
dalla legge di gara, la produzione a pena di esclusione;
Considerato che:
- il provvedimento di aggiudicazione definitiva è stato
comunicato tramite fax, e risulta ricevuto dalla ricorrente,
il 14.02.2012 mentre il ricorso è stato notificato il
10.04.2012, tardivamente rispetto alla conoscenza del
provvedimento gravato;
- il fax rappresenta strumento idoneo a determinare la piena
conoscenza del provvedimento amministrativo e garantisce in
via generale una sufficiente certezza sulla ricezione del
messaggio, sì da essere idoneo a fare decorrere termini
perentori salva la prova contraria concernente la
funzionalità dell’apparecchio ricevente (C.d.S. VI,
24.11.2011 n. 6208), che nel caso di specie non è stata
fornita;
- la ricorrente non ha effettuato il procedimento di accesso
informale ex art. 79, comma 5-quater, d.lgs. 12.04.2006, n.
163, che presumibilmente le avrebbe consentito di avere
cognizione degli atti di gara e dei vizi denunciati;
Ritenuto pertanto di dichiarare irricevibile il ricorso e di
condannare la ricorrente al pagamento delle spese
processuali nella misura di € 3.000,00 (tremila/00) a favore
della stazione appaltante, nulla spese per la
controinteressata non costituita
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 06.12.2012 n. 1942 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI:
Debiti della PA, somme per istruzione e verde
pubblico senza esecuzione forzata.
Nella delibera d'individuazione
semestrale delle somme destinate a voci di spesa sottratte
all'esecuzione forzata è legittimamente inclusa la voce
relativa per la manutenzione del verde pubblico,
annoverabile tra i servizi locali indispensabili quale
servizio connesso e complementare ai servizi viabilità e di
igiene urbana. Deve parimenti rilevarsi che le spese
relative all'istruzione primaria e secondaria rientrano
anch'esse nel vincolo d'impignorabilità.
La riserva di potestà esclusiva in favore dello Stato ex
art. 117 Cost., avente ad oggetto le funzioni fondamentali
degli enti locali, costituisce circostanza idonea a
determinare la perdurante validità e vigenza del D.M.
28.05.1993, adottato dal Ministero dell'interno di concerto
con il Ministero del tesoro, che contiene l'elencazione dei
servizi locali indispensabili per i comuni, in cui devono
ritenersi inclusi anche i servizi di istruzione primaria e
secondaria e il servizio di tutela del verde pubblico.
Nella delibera d'individuazione semestrale delle somme
destinate a voci di spesa sottratte all'esecuzione forzata è
legittimamente inclusa la voce relativa per la manutenzione
del verde pubblico, annoverabile tra i servizi locali
indispensabili quale servizio connesso e complementare ai
servizi viabilità e di igiene urbana.
Deve parimenti rilevarsi che le spese relative
all'istruzione primaria e secondaria rientrano anch'esse
nell'elencazione di cui al citato D.M. e sono riconducibili
quindi nel vincolo d'impignorabilità di cui all'art. 159
TUEL (commento tratto da www.ispoa.it - Corte di Cassazione
penale, sentenza 28.11.2012 n. 46299). |
LAVORI PUBBLICI:
Insidia stradale, infortunio, pedone, Comune,
responsabilità, custodia.
La responsabilità ex art. 2051 c.c.
presuppone che il soggetto a cui la si imputa abbia con la
cosa un rapporto definibile come custodia (potere di
sorveglianza e di modifica dello stato, con esclusione di
analogo potere da parte di altri).
Accertato tale potere e accertato il danno causato
dall’anomalia della cosa custodita, la responsabilità del
custode sussisterà, salvo che l’evento –in assenza comunque
di un eventuale difetto di diligenza del custode– si sia
verificato in modo improvviso e imprevedibile (P. es.,
situazione di pericolo provocata dallo stesso danneggiato o
da terzi che, nonostante la diligente attività di controllo
o di manutenzione esigibile dal custode per garantire un
intervento tempestivo, non possa esser rimossa o segnalata
con tempestività. Nella specie, invece, tale non poteva
esser considerata la circostanza secondo cui l’attrice
abitava nelle immediate vicinanze del luogo del sinistro,
posto che, insieme a tale circostanza, si sarebbe in ogni
caso dovuta provare la precedente conoscenza in capo
all’attrice della buca in questione, né che la stessa, al
momento dell’infortunio, stesse parlando con l’amica che le
stava al fianco, posto che insieme a tale circostanza, si
sarebbe dovuto provare come, a causa di ciò, la sua
attenzione fosse assolutamente e colposamente sviata, né
infine che avrebbe potuto notare ed evitare la buca
comunque, posto che era provato come l’illuminazione
pubblica fosse carente).
---------------
In tema di danni da insidia stradale, la Sentenza del
Tribunale di Verona, G.U. Dott. Ernesto D’Amico, n.
1951/2012 si colloca a pieno titolo nel solco ormai
definitivamente tracciato da dottrina e giurisprudenza,
rivolto ad affermare l’applicabilità tout court dell’art.
2051 c.c. anche al Comune, con riferimento ai tratti di
strada comunale rispetto ai quali l’ente pubblico in
questione è destinato ad assumere a tutti gli effetti la
qualifica di custode.
Non solo. Il Giudice del Tribunale torna a sottolineare,
anche sotto questo profilo in linea con i più recenti
indirizzi, la natura oggettiva dell’ipotesi di
responsabilità prevista dal menzionato art. 2051 c.c. in
materia di danni cagionati da cosa in custodia.
Il congiunto operare, sul piano esegetico ed applicativo,
dei due principi testé richiamati è destinato a produrre
-come effettivamente si sta progressivamente verificando da
diversi anni- un innalzamento del grado di tutela accordato
agli utenti della strada rimasti vittima di insidie e,
specularmente, un aumento del rischio risarcitorio sulle
spalle dei Comuni.
In punto di diritto, la richiamata sentenza del Tribunale di
Verona si distingue per la lucida e opportunamente sintetica
ricostruzione dell’excursus della giurisprudenza di
legittimità che ha condotto ad un’estensione nei confronti
dei Comuni della regola sancita dall’art. 2051 c.c. e, per
altro verso, per la specificazione –sul piano pratico e
operativo– dell’affermata natura oggettiva della
responsabilità prevista dalla disposizione codicistica.
La configurabilità di una responsabilità oggettiva ex art.
2051 c.c., in particolare, ha come presupposto la
sussistenza del nesso causale tra la cosa in custodia e il
danno arrecato. Sussistendo tale presupposto, la
responsabilità risarcitoria si imputerà al soggetto che è in
condizione di controllare i rischi inerenti alla cosa
essendone il custode.
Accertati tali presupposti, il custode avrà un’unica
possibilità di andare esente da responsabilità, da
ricercarsi nella prova del caso fortuito.
Trattandosi di responsabilità oggettiva, il caso fortuito
non può identificarsi nella mera assenza di colpa del
custode, ma deve risolversi in un vero e proprio fattore
oggettivamente individuabile, esterno alla cosa e dotato dei
caratteri dell’imprevedibilità ed inevitabilità da parte del
custode, che incida –interrompendola– sulla serie causale
che dalla cosa conduce al danno.
I fattori esterni alla cosa, potenzialmente forieri di un
pericolo non connaturato alla cosa e come tali suscettibili
di integrare il caso fortuito, possono essere determinati
dallo stesso danneggiato o da terzi e rilevano, ai fini
dell’esclusione della responsabilità, se (e solo se) esulino
dalla sfera di controllo del custode e, in particolare,
dall’attività di controllo e di manutenzione da esso
esigibile per garantire un intervento tempestivo di
rimozione.
L’impostazione appena prospetta ha delle evidenti e
sostanziali ricadute sul piano probatorio: una volta che
l’attore/danneggiato abbia dato la prova del nesso causale,
incomberà all’ente convenuto, per liberarsi dalla
responsabilità, dare la prova del caso fortuito così
rigorosamente inteso (TRIBUNALE
di Verona, Sez. II civile,
sentenza 22.09.2012 n. 1951 -
link a www.altalex.com). |
EDILIZIA
PRIVATA: Le
controversie in tema di oneri di urbanizzazione e di costo
di costruzione introducono un giudizio su un rapporto
prescindendo dalla impugnazione di atti. Ed infatti tutte le
controversie, concernenti l’an e il quantum delle somme
dovute a titolo di contributo in dipendenza di norme di
legge e regolamentari, attengono a diritti soggettivi
azionabili nei termini di prescrizione; pertanto alcuna
acquiescenza può opporsi in materia di diritti soggettivi
patrimoniali, il cui versamento, ove non dovuto, è
suscettibile in ogni caso di legittimare un’azione di
ripetizione dell’indebito oggettivo ai sensi dell’art. 2041
cod. civ..
L’amministrazione, nella determinazione delle somme dovute a
titolo di contributo non esercita poteri autoritativi
discrezionali ma compie attività di mero accertamento della
fattispecie in base ai parametri fissati da leggi e da
regolamenti. Le relative controversie, dunque, rientrano
nella categoria di quelle aventi ad oggetto atti paritetici,
inerenti diritti soggettivi e non sono sottoposte ai termini
decadenziali propri dei giudizi impugnatori.
Inoltre, le controversie concernenti la determinazione,
liquidazione e corresponsione degli oneri concessori già
devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo ai sensi dell'art. 16 l. 28.01.1977 n. 10,
abrogato a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs.
104/2010, rientrano oggi nella previsione dell’art. 133,
lett. f), del codice del processo amministrativo secondo cui
sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, tra l'altro: "le controversie aventi ad
oggetto gli atti e i provvedimenti delle pubbliche
amministrazioni in materia urbanistica e edilizia,
concernente tutti gli aspetti dell'uso del territorio".
---------------
La partecipazione del privato al costo delle opere di
urbanizzazione è dovuta allorquando l’intervento determini
un incremento del peso insediativo con un’oggettiva
rivalutazione dell’immobile, sicché l’onerosità del permesso
di costruire è funzionale a sopportare il carico socio
economico che la realizzazione comporta sotto il profilo
urbanistico.
Tale principio opera ed è valevole anche per gli interventi
di ristrutturazione che comportino un aumento del carico
urbanistico di zona, sicché la giurisprudenza ha ravvisato
l’onerosità del titolo in caso di interventi comportanti un
incremento di unità abitative, oppure un incremento della
superficie utile pur in assenza di aumento della cubatura,
nonché per il caso di alterazione dei parametri edilizi e
per quelle ristrutturazioni che mutino la realtà strutturale
e la fruibilità urbanistica dell’organismo edilizio oggetto
di trasformazione.
---------------
L’esenzione dal contributo di costruzione di cui all’art.
17, comma 3, lett. b, del d.p.r. n. 380/2001 per il caso di
interventi di ristrutturazione di edifici unifamiliari entro
il limite di ampliamento del 20%, costituisce oggetto di una
previsione di carattere eccezionale, la cui ratio è di
natura sociale ed è diretta sostanzialmente ad apprestare
uno strumento di tutela e di salvaguardia della piccola
proprietà immobiliare per gli interventi funzionali
all’adeguamento dell’immobile alle necessità abitative del
nucleo familiare. In tal caso rileva innanzitutto la
destinazione unifamiliare del fabbricato nonché la natura
dell’intervento edilizio quale di “ristrutturazione e di
ampliamento non superiore al 20%” quale limite entro il
quale è ammessa l’operatività dell’esonero in parola.
La disposizione intende evidentemente incentivare le opere
atte ad adeguare le case unifamiliari alle necessità
abitative del nucleo familiare, circoscrivendone
l’operatività agli interventi che non mutino l’entità
strutturale e la dimensione spaziale dell’immobile e non ne
trasformino il valore economico.
Trattandosi di una norma di natura eccezionale,
l’applicazione della fattispecie va circoscritta in un
ambito di stretta interpretazione ancorato ai parametri
predefiniti dal legislatore per cui deve escludersi che la
disposizione in esame possa trovare applicazione in ogni
ipotesi di ristrutturazione con demolizione e ricostruzione
a parità di volume, entro il limite di ampliamento fissato
dal legislatore.
---------------
La Corte Costituzionale ha osservato che, ai fini del
riconoscimento dell’esonero dal versamento del contributo di
costruzione, il concetto di ristrutturazione mal si presta a
comprendere la fattispecie della demolizione accompagnata
dalla ricostruzione dell'edificio sullo stesso suolo
“essendo caratterizzata da elementi (territoriali e
costruttivi) e da risultato che le conferiscono fisionomia
autonoma e differenziata” ed ha ritenuto quindi pienamente
giustificata la previsione dell'esonero limitatamente alle
ipotesi di ristrutturazioni ed ampliamenti e non anche alle
ipotesi di integrale ricostruzione.
Tale accezione interpretativa è stata altresì ribadita più
di recente dalla giurisprudenza amministrativa che ha
chiarito che la gratuità va limitata agli interventi edilizi
su edifici aventi destinazione residenziale e non anche su
quelli con destinazione agricola, sicché deve escludersi che
la esenzione in argomento possa trovare spazio nella
fattispecie in esame relativa ad un intervento di
demolizione e di utilizzazione ad uso abitativo per un’unica
unità immobiliare della rispettiva volumetria di due
preesistenti fabbricati rurali.
Per consolidata giurisprudenza le controversie in tema di
oneri di urbanizzazione e di costo di costruzione
introducono un giudizio su un rapporto prescindendo dalla
impugnazione di atti. Ed infatti tutte le controversie,
concernenti l’an e il quantum delle somme dovute a titolo di
contributo in dipendenza di norme di legge e regolamentari,
attengono a diritti soggettivi azionabili nei termini di
prescrizione; pertanto alcuna acquiescenza può opporsi in
materia di diritti soggettivi patrimoniali, il cui
versamento, ove non dovuto, è suscettibile in ogni caso di
legittimare un’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo
ai sensi dell’art. 2041 cod. civ..
L’amministrazione, nella
determinazione delle somme dovute a titolo di contributo non
esercita poteri autoritativi discrezionali ma compie
attività di mero accertamento della fattispecie in base ai
parametri fissati da leggi e da regolamenti. Le relative
controversie, dunque, rientrano nella categoria di quelle
aventi ad oggetto atti paritetici, inerenti diritti
soggettivi e non sono sottoposte ai termini decadenziali
propri dei giudizi impugnatori (Cons. St. Sez. , sez. V, 17.10.2002, n. 5678).
Inoltre, le controversie
concernenti la determinazione, liquidazione e corresponsione
degli oneri concessori già devolute alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell'art. 16
l. 28.01.1977 n. 10, abrogato a seguito dell’entrata in
vigore del D.Lgs. 104/2010, rientrano oggi nella previsione
dell’art. 133, lett. f), del codice del processo
amministrativo secondo cui sono devolute alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo, tra l'altro: "le
controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti
delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e
edilizia, concernente tutti gli aspetti dell'uso del
territorio" (Cons. St., Sez. V, 10.07.2003 n. 4102; Cons.
St., Sez. V, 19.07.2004 n. 5197).
Ciò premesso, nel presente giudizio si discute circa
l’applicabilità nella fattispecie del beneficio di cui
all’art. 17, comma 3, lett. b, del d.p.r. n. 380/2001 a tenore
del quale il contributo di costruzione non è dovuto per gli
interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura
non superiore al 20%, di edifici unifamiliari.
Come noto, la partecipazione del privato al costo delle
opere di urbanizzazione è dovuta allorquando l’intervento
determini un incremento del peso insediativo con
un’oggettiva rivalutazione dell’immobile, sicché l’onerosità
del permesso di costruire è funzionale a sopportare il
carico socio economico che la realizzazione comporta sotto
il profilo urbanistico (cfr. C.d. S. sez. V, 03.03.2002 n.
1180; C.d.S. sez. V. 29.04.2004 n. 2611).
Tale principio opera ed è valevole anche per gli interventi
di ristrutturazione che comportino un aumento del carico
urbanistico di zona, sicché la giurisprudenza ha ravvisato
l’onerosità del titolo in caso di interventi comportanti un
incremento di unità abitative (cfr. Tar Lombardia, Milano
21.07.2009 n. 4455), oppure un incremento della superficie
utile pur in assenza di aumento della cubatura (cfr. C.d.S,
sez. V, 27.08.1999 n. 999), nonché per il caso di
alterazione dei parametri edilizi (cfr. Tar Piemonte, sez.
I, 04.12.1997 n. 821) e per quelle ristrutturazioni che
mutino la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica
dell’organismo edilizio oggetto di trasformazione (cfr.
Tar Emilia, Parma 19.02.2008 n. 100).
Tanto premesso occorre considerare che l’esenzione dal
contributo di costruzione di cui all’art. 17, comma 3, lett. b,
del d.p.r. n. 380/2001 per il caso di interventi di
ristrutturazione di edifici unifamiliari entro il limite di
ampliamento del 20%, costituisce oggetto di una previsione
di carattere eccezionale, la cui ratio è di natura sociale
ed è diretta sostanzialmente ad apprestare uno strumento di
tutela e di salvaguardia della piccola proprietà immobiliare
per gli interventi funzionali all’adeguamento dell’immobile
alle necessità abitative del nucleo familiare. In tal caso
rileva innanzitutto la destinazione unifamiliare del
fabbricato nonché la natura dell’intervento edilizio quale
di “ristrutturazione e di ampliamento non superiore al 20%”
quale limite entro il quale è ammessa l’operatività
dell’esonero in parola.
La disposizione intende evidentemente incentivare le opere
atte ad adeguare le case unifamiliari alle necessità
abitative del nucleo familiare, circoscrivendone
l’operatività agli interventi che non mutino l’entità
strutturale e la dimensione spaziale dell’immobile e non ne
trasformino il valore economico.
Trattandosi di una norma di natura eccezionale,
l’applicazione della fattispecie va circoscritta in un
ambito di stretta interpretazione ancorato ai parametri
predefiniti dal legislatore per cui deve escludersi che la
disposizione in esame possa trovare applicazione in ogni
ipotesi di ristrutturazione con demolizione e ricostruzione
a parità di volume, entro il limite di ampliamento fissato
dal legislatore.
Nel caso in esame il permesso di costruire n. 328/2006
che si intende assoggettare a gratuità ai sensi dell’art. 17,
comma 3, lett. b cit., è stato rilasciato al ricorrente M.G. dal Comune di Castelvolturno per un
intervento di ristrutturazione edilizia consistente nella
demolizione di due preesistenti fabbricati rurali e nella
realizzazione di un unico immobile con destinazione
abitativa.
Il Comune, nella memoria del 15.03.2012, ha escluso che un
siffatto intervento possa rientrare nella ipotesi di
gratuità invocata dal ricorrente e riferibile alle sole
ristrutturazioni edilizie c.d. “leggere” ossia miranti a
conservare il patrimonio edilizio esistente.
Il Comune ha infatti precisato che, come evincesi dai
grafici e dalle riproduzioni fotografiche allegate in atti
quali gli elaborati prodotti a sostegno della richiesta di
rilascio del permesso di costruire, l’intervento è
consistito in una ristrutturazione edilizia c.d. “pesante”
per aver comportato la realizzazione di un organismo in
tutto diverso dal precedente con conseguente incremento del
carico urbanistico di zona rapportato alla sostituzione di
fabbricati rurali diruti ed inutilizzati con un'unica unità
immobiliare tipo “villetta” composta da piano terra e primo
piano.
Ciò premesso rileva il Collegio che la disciplina
invocata a sostegno del ricorso non è applicabile agli
interventi di demolizione e ricostruzione di un fabbricato
preesistente. In tal senso si è espressa chiaramente la
Corte Costituzionale nella sentenza 26.06.1991 n. 296
pronunciata rispetto alla analoga previgente previsione di
cui all'art. 9, lett. d), della legge 28.01.1977 n. 10 -di
cui l’art. 17 d.p.r., comma 3, lett. b), costituisce analoga
riproduzione- che esonerava dal contributo "gli interventi
di restauro, di risanamento conservativo, di
ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore
al venti per cento, di edifici unifamiliari".
Ivi la Corte Costituzionale con una sentenza interpretativa di rigetto ha
escluso l’illegittimità della norma, prospettata dal Tar
Friuli Venezia Giulia rispetto all’art. 9 cit., nella parte
in cui non comprendeva nella previsione di esenzione dal
contributo per il rilascio della concessione, accanto
all'ipotesi di ristrutturazione ed ampliamento nei limiti
del venti per cento, anche quella della “integrale
ricostruzione del fabbricato demolito”.
La Corte ha al
riguardo osservato che, ai fini del riconoscimento
dell’esonero in questione, il concetto di ristrutturazione
mal si presta a comprendere la fattispecie della demolizione
accompagnata dalla ricostruzione dell'edificio sullo stesso
suolo “essendo caratterizzata da elementi (territoriali e
costruttivi) e da risultato che le conferiscono fisionomia
autonoma e differenziata” ed ha ritenuto quindi pienamente
giustificata la previsione dell'esonero limitatamente alle
ipotesi di ristrutturazioni ed ampliamenti e non anche alle
ipotesi di integrale ricostruzione.
Tale accezione
interpretativa è stata altresì ribadita più di recente dalla
giurisprudenza amministrativa che ha chiarito che la
gratuità va limitata agli interventi edilizi su edifici
aventi destinazione residenziale e non anche su quelli con
destinazione agricola (cfr C.d.S. 6290/2004), sicché deve
escludersi che la esenzione in argomento possa trovare
spazio nella fattispecie in esame relativa ad un intervento
di demolizione e di utilizzazione ad uso abitativo per
un’unica unità immobiliare della rispettiva volumetria di
due preesistenti fabbricati rurali
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 08.05.2012 n. 2136 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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possono essere letti
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APPALTI: M.
Urbani,
Adempimenti, comunicazioni e tempistiche per l’espletamento
delle procedure di gara (Bollettino di Legislazione
Tecnica n. 1/2013). |
APPALTI:
La responsabilità solidale negli appalti.
Come e a chi si applica l'articolo 13-ter del decreto
crescita (articolo
ItaliaOggi Sette del 14.01.2013). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
COMMERCIO -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 4 del 21.01.2013, "Indicazioni
relative ai criteri e ai parametri di valutazione della
compatibilità e della sostenibilità delle grandi strutture
di vendita ai sensi della d.g.r. 04.07.2007 n. 8/5054 e
s.m.i. - Revoca dei dd.dd.gg. 07.02.2008 n. 970 e 19.12.2008
n. 15387" (decreto
D.G. 11.01.2013 n. 102). |
VARI:
G.U. 18.01.2013 n. 15 "Nuova disciplina dell’ordinamento
della professione forense"
(Legge
31.12.2012 n. 247). |
APPALTI: G.U.
17.01.2013 n. 14 "Saggio degli interessi da applicare a
favore del creditore nei casi di ritardo nei pagamenti nelle
transazioni commerciali - periodo 01.01.-30.06.2013" (Ministero
dell'Economia e delle Finanze,
comunicato). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 17.01.2013, "Realizzazione
di opere inerenti impianti per il recupero dei rifiuti e
autorizzazione paesaggistica (d.lgs. 152/2006 e d.lgs.
42/2004) - Competenze e procedure" (circolare
regionale 16.01.2013 n. 1). |
LAVORI PUBBLICI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 15.01.2013, "Approvazione
iniziativa anno 2013 per l’accesso ai contributi in conto
interessi a valere sui mutui dell’Istituto per il credito
sportivo per la realizzazione di impianti sportivi di uso
pubblico in Lombardia"
(decreto
D.S. 19.12.2012 n. 12338). |
SINDACATI |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Personale: 10 risposte a 10 domande
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 14.01.2013).
---------------
1. Le progressioni orizzontali giuridiche - 2. La posizione
organizzativa piccoli comuni - 3. L’indennità di
trasferimento per cambiamento di comune - 4. Delega di
funzioni dirigenziali - 5. Il conferimento di posizione
organizzativa - 6. La mobilità negli enti locali - 7. Lo
scorrimento della graduatoria a tempo determinato - 8. La
liquidazione della produttività - 9. Il rimborso delle spese
viaggio - 10. Misura della retribuzione di posizione. |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Importante condanna del comune di Bergamo per
comportamento antisindacale
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 14.01.2013).
-------------
Con sentenza 03.01.2013 n. R.G. 3289/12 il Tribunale di
Bergamo ha accolto il ricorso per comportamento
antisindacale presentato dalla FP-CGIL di Bergamo contro il
comune di Bergamo.
Con tale sentenza il Tribunale di Bergamo ha ritenuto
sussistere il comportamento antisindacale in quanto con
determinazione dirigenziale n. 1205/12 del 22.06.2012 il
comune ha deciso di affidare all’esterno una serie di
servizi sociali prima gestiti tramite gli uffici comunali
senza dare alcuna informazione in merito alla FP-CGIL di
Bergamo. (... continua). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Termine del regime transitorio riguardante il
regolamento di attuazione del Codice 163/2006 e le categorie
SOA variate (ANCE Bergamo,
circolare 18.01.2013 n. 20). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: Censimento amianto entro il 30.01.2013 (ANCE
Bergamo,
circolare 18.01.2013 n. 19). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: Articolo 1, comma secondo, della legge
24.12.1954, n. 1228, modificato dall'articolo 1, comma 18,
della legge 15.07.2009, n. 94. Iscrizione anagrafica. Parere
del Consiglio di Stato, Sez. I, n. 4849/2012
(Ministero dell'Interno, Dipartimento per gli Affari Interni
e Territoriali,
circolare 14.01.2013 n. 1/2013).
---------------
Alcune Prefetture hanno evidenziato la presenza di
incertezze interpretative riguardanti la disposizione recata
dall'articolo 1, comma secondo, della legge 24.12.1954, n.
1228, come modificata dall'articolo 1, comma 18, della legge
15.07.2009, n. 94, in base alla quale "L'iscrizione e la
richiesta di variazione anagrafica possono dar luogo alla
verifica, da parte dei competenti uffici comunali, delle
condizioni igienico-sanitarie dell'immobile in cui il
richiedente intende fissare la propria residenza ai sensi
delle vigenti norme sanitarie".
In particolare, sono emerse talune divergenze con riguardo
alle modalità di applicazione di tale disposizione nei casi
in cui le verifiche sulle condizioni dell'immobile presso il
quale l'interessato dichiara di fissare la propria dimora
abituale dia esito negativo. (... continua) |
QUESITI &
PARERI |
ATTI
AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI
La firma sulle transazioni.
DOMANDA:
Il Comune deve firmare con urgenza una transazione che
all'uopo viene approvata con deliberazione giuntale; nella
deliberazione de qua la giunta autorizza testé il
sindaco -in qualità di legale rappresentante dell'ente- alla
firma dell'atto.
Il segretario generale sostiene che è necessario il parere
del revisore contabile e che, la firma sulla transazione non
deve essere apposta dal sindaco ma dal dirigente del settore
contenzioso: è corretto?
RISPOSTA:
Facendo riferimento alla questione posta, si fa presente
quanto segue:
In linea generale si sottolinea che, sulla base di quanto
stabilito dall’articolo 239 del Tuel, è previsto che
l’Organo di revisione svolga una attività di collaborazione
nei confronti dell’organo consiliare. Le modifiche
introdotte dalla legge 283/2012, hanno allargato l’elenco
delle materie sulle quali l’organo di revisione deve
esprimere il proprio parere; in particolare, è stato
previsto che l’organo di revisione esprima un parere anche
sulle “proposte di riconoscimento dei debiti fuori
bilancio e transazioni”.
La materia della autorizzazione alle “transazioni”
rientra tra le competenze della Giunta. Pertanto si potrebbe
ritenere che il parere dell’Organo di revisione su questi
provvedimenti non sia dovuto. Però, in considerazione del
fatto che la nuova versione dell’articolo 239 prevede
espressamente questa tipologia di provvedimenti, si ritiene
opportuno e prudenziale sottoporre anche questi
provvedimenti al preventivo parere dell’Organo di revisione.
Si condivide quanto affermato nel quesito a proposito di chi
deve sottoscrivere l’atto. Infatti, sulla base di quanto
stabilito dall’articolo 107 del Tuel, la firma sulla
transazione deve essere apposta dal dirigente del settore di
competenza (20.12.2012 - tratto da
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CORTE DEI
CONTI |
PUBBLICO
IMPIEGO: Stretta sugli aumenti illegittimi.
La responsabilità ricade su chi effettua la liquidazione.
Corte conti Veneto sulla gestione delle risorse decentrate e
i vincoli alle progressioni.
La responsabilità per la materiale erogazione di risorse
decentrate al personale in violazione dei vincoli posti
dalla legge e dai contratti ricade sul soggetto che effettua
la liquidazione. Incomberebbe tale responsabilità su chi
dovesse erogare aumenti per progressioni orizzontali
retroattive o assegnare i risparmi sulle progressioni solo
giuridiche come salario per produttività.
Il
parere 09.11.2012 n. 918
della Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il
Veneto, chiarisce in modo tranciante su chi incombono le
responsabilità della gestione delle risorse decentrate e i
vincoli sulle progressioni orizzontali. Anche se resta
ancora il nodo del «valore giuridico» di tali progressioni.
Liquidazione. La normativa sulla gestione delle risorse
contrattuali è particolarmente rigorosa. Il legislatore
appresta due rimedi all'eventualità che le amministrazioni
concordino con i sindacati contratti o clausole che vìolino
i limiti di spesa in vario modo previsti dalla legge o dalla
contrattazione collettiva.
L'articolo 40, comma 3-quinquies del dlgs 165/2001
stabilisce, in proposito che «nei casi di violazione dei
vincoli e dei limiti di competenza imposti dalla
contrattazione nazionale o dalle norme di legge, le clausole
sono nulle, non possono essere applicate e sono sostituite
ai sensi degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del
codice civile»; e già da prima, l'articolo 4, comma 5, del ccnl
01.04.1999 ribadiva: «I contratti collettivi decentrati
integrativi non possono essere in contrasto con vincoli
risultanti dai contratti collettivi nazionali o comportare
oneri non previsti rispetto a quanto indicato nel comma 1,
salvo quanto previsto dall'art. 15, comma 5, e dall'art. 16.
Le clausole difformi sono nulle e non possono essere
applicate».
Dunque, vi sono due livelli di tutela. Il primo è la nullità
delle clausole (oggi, per altro, sostituite automaticamente
dalla legge). Ma, come spesso avviene, potrebbe darsi che
nessuno eccepisca la nullità, anche per l'erronea
convinzione che essa possa essere rilevata solo dal giudice.
Scatta, allora, il secondo livello: il divieto di applicare
la clausola nulla.
È evidente che la liquidazione di somme il cui titolo
discendesse da clausole contrattuali nulle, sicché in realtà
il pagamento risulterebbe privo di titolo, costituisce
violazione al divieto di applicarle. Dunque, la
responsabilità principale del danno erariale conseguente
incombe non tanto su chi le clausole le stipula, quanto su
chi le esegue. Ecco perché la sezione Veneto sottolinea la
responsabilità derivante dalla liquidazione delle somme.
Progressioni orizzontali. Nonostante l'articolo 9, commi 1 e
21, del dl 78/2012, convertito in legge 122/2012 sia
piuttosto chiaro, moltissimi enti insistono col provare ad
avviare procedure di progressione orizzontale nel corso del
triennio 2011-2013 durante il quale vi è il congelamento dei
trattamenti economici fondamentali (fissi e ricorrenti),
effetto proprio delle citate norme.
La teoria che si propugna è che se i criteri per le
progressioni orizzontali fossero stati predeterminati prima
dell'avvento della legge finanziaria del 2010, si potrebbe
dare corso comunque alle progressioni, con effetti economici
dal primo gennaio 2010 (dunque antecedente alla manovra di
quell'anno). O, quanto meno, utilizzare le risorse previste
per le progressioni, ma economizzate a causa del
congelamento delle retribuzioni, per assegnarle al personale
come salario di produttività.
Il parere della magistratura contabile veneta è tranciante.
Da un lato, ricorda che le progressioni orizzontali (come
qualsiasi riconoscimento di trattamenti retributivi
accessori) in mancanza di accordi stipulati in sede di
contrattazione decentrata anteriormente al periodo da
prendere in considerazione non sono legittimi. Dall'altro
lato, la Corte nega recisamente la possibilità di utilizzare
i risparmi per le progressioni, se effettuate solo con
valore giuridico e non economico, allo scopo di incrementare
il fondo per il risultato
(articolo ItaliaOggi del 18.01.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA - PUBBLICO IMPIEGO:
S. Fifi,
LE “IRRESPONSABILITÀ” DEL DIRIGENTE PUBBLICO (Gazzetta
Amministrativa n. 3/2012).
---------------
Non è perseguibile il dirigente, privo di specifici
compiti sui rifiuti, che predispone il deposito sul terreno
comunale di rifiuti organici senza autorizzazione, in
esecuzione di un’ordinanza emergenziale del sindaco priva di
qual si voglia indicazione sul successivo deposito e
smaltimento. Ad occuparsi della gestione delle alghe dopo la
loro raccolta avrebbe dovuto essere il dirigente
dell’ufficio ambiente del Comune, e non il dirigente al
patrimonio, che pure con il primo aveva comunque tentato di
coordinarsi. La Suprema Corte (Cass. Pen., Sez. III,
12.04.2012, n. 13927) ha annullato la sentenza di condanna
di primo grado per gestione illecita di rifiuti (articolo
256 del d.lgs. 152/2006) ... |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
A. Cernelli,
L’INAMMISSIBILITÀ DEL “DISSENSO POSTUMO” NELLA CONFERENZA DI
SERVIZI (Gazzetta Amministrativa n. 3/2012).
---------------
In aderenza al dettato normativo la giurisprudenza ha
statuito il consolidato principio secondo cui è
inammissibile il parere negativo espresso al di fuori della
conferenza, una volta che questa si sia conclusa con
l’adozione del provvedimento finale ... |
EDILIZIA
PRIVATA:
M. Amitrano, Zingale,
LA GIURISPRUDENZA SUI RAPPORTI TRA PROCEDIMENTI
AMMINISTRATIVI DI VIGILANZA EDILIZIA E PROCEDIMENTI DI
SANATORIA (Gazzetta Amministrativa n. 3/2012).
---------------
La giurisprudenza ha chiarito che la definizione del
procedimento sanzionatorio in materia edilizia è
condizionata alla previa definizione del procedimento volto
ad ottenere un permesso di costruire in sanatoria per le
medesime opere abusive ... |
EDILIZIA
PRIVATA:
M. Amitrano Zingale,
L’ACQUISIZIONE GRATUITA AL PATRIMONIO DEL COMUNE NELLA
RICOSTRUZIONE GIURISPRUDENZIALE (Gazzetta Amministrativa
n. 3/2012).
---------------
Gli strumenti repressivi che il legislatore ha approntato
per contrastare il fenomeno dell’abusivismo edilizio e
meglio tutelare il territorio risultano essere i più idonei
a costituire un efficace deterrente per l’attività abusiva,
proprio in ragione della sua incidenza sulla res abusiva ... |
EDILIZIA
PRIVATA:
V. Pavone,
L’ATTIVITÀ EDILIZIA IN ASSENZA DI PIANIFICAZIONE ATTUATIVA:
LA RECENTE GIURISPRUDENZA SUL C.D. LOTTO INTERCLUSO
(Gazzetta Amministrativa n. 3/2012).
---------------
Evidenziato il ruolo fondamentale della pianificazione
attuativa come condizione indispensabile per la
realizzazione di legittimi interventi costruttivi
all’interno del tessuto urbano, l’A. analizza le soluzioni
offerte dalla giurisprudenza e dalla legge per affrontare il
problema della mancata adozione da parte degli organi
competenti dei piani attuativi con conseguente paralisi
dell’attività di trasformazione del territorio. In
particolare si analizzano gli sviluppi della giurisprudenza
amministrativa di fronte alla fattispecie del c.d. lotto
intercluso ... |
LAVORI PUBBLICI:
E. Gai,
LA GIURISDIZIONE IN MATERIA DI ADEGUAMENTO PREZZI NEGLI
APPALTI PUBBLICI DI LAVORI (Gazzetta Amministrativa n.
3/2012).
---------------
La corretta interpretazione dell’art. 133, co. 1, lett.
e), n. 2), del d.lgs. n. 104/2010 prevede l’estensione della
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a tutte
le controversie relative alle questioni dell’adeguamento dei
prezzi degli appalti pubblici di lavori e non soltanto a
quelle concernenti i provvedimenti applicativi ... |
APPALTI:
L. Lavitola,
LA LEGITTIMAZIONE ALL’ACCESSO AGLI ATTI DI GARA DA PARTE
DELL’OPERATORE ECONOMICO CHE NON ABBIA PRESO PARTE ALLA
PROCEDURA AD EVIDENZA PUBBLICA (Gazzetta Amministrativa
n. 3/2012).
---------------
Il TAR Lazio, con la sentenza 05.09.2012, n. 213, ha
chiarito alcuni principi in materia di accesso agli atti di
gara, ex artt. 13, co. 6, d.lgs. n. 163/2006 e 22 l. n.
241/1990, in particolare con riferimento al problema della
legittimazione del soggetto che, pur non avendo partecipato
ad una procedura ad evidenza pubblica, chieda di accedere
agli atti relativi ad essa ... |
APPALTI:
A. Di Stazio,
LA RISOLUZIONE DEL CONTRATTO D'APPALTO PER GRAVE NEGLIGENZA
O GRAVE RITARDO AI SENSI DELL'ART. 136 DEL D.LGS 163/2006
(Gazzetta Amministrativa n. 3/2012).
---------------
Guida per le amministrazioni alla risoluzione del
contratto per inadempienza dell'appaltatore ... |
APPALTI:
A. Pistilli,
ESCLUSIONE DALLA GARA D’APPALTO PER VIOLAZIONE DEGLI
OBBLIGHI CONTRIBUTIVI PREVIDENZIALI ED ASSISTENZIALI: IL
GIUDIZIO SULLA “GRAVITÀ” DELLA VIOLAZIONE E LA
CONFIGURABILITÀ DI UNA FALSA DICHIARAZIONE IN CASO DI BANDO
GENERICO, ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI ED INTERVENUTE
MODIFICHE NORMATIVE (Gazzetta Amministrativa n. 3/2012).
---------------
Brevi note circa l’esclusione dalla gara d’appalto ai
sensi dell’art. 38, co. 1, lett. i), del d. lgs. n. 163/2006
in considerazione della normativa vigente e delle pronunce
giurisprudenziali ... |
APPALTI:
S. Napolitano,
IL FALSO NON È PIÙ INNOCUO (Gazzetta Amministrativa n.
3/2012).
---------------
La teoria penalistica del falso innocuo non è più
applicabile ai procedimenti ad evidenza pubblica ... |
APPALTI:
F. Manganaro,
Effettività della tutela giurisdizionale e
riammissione alla gara di un concorrente illegittimamente
escluso (Urbanistica e appalti n. 12/2012 - tratto da
www.ispoa.it). |
TRIBUTI:
G. Debenedetto,
Tares - nuovo tributo sui rifiuti e sui servizi - NOVITÀ
della L. 228/2012 (link a
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com). |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
Non è conforme all’art. 92, comma 5, del D.Lgs. 12.04.2006
n. 163, un Regolamento comunale che pur prevedendo
l’erogazione dell’incentivo al responsabile del
procedimento, ai progettisti, al direttore dei lavori, al
collaudatore, al coordinatore della sicurezza e loro
collaboratori, non fornisce una chiara e logica ripartizione
dell’emolumento tra tali soggetti.
I dipendenti assunti con contratto a tempo determinato,
anche ai sensi dell’art. 110, comma 2, del D.Lgs.
08.08.2000, n. 267 hanno diritto all’incentivo di cui
all’art. 92, comma 5, del D.Lgs. 12.04.2006 n. 163 per le
prestazioni professionali svolte nell’interesse dell’Ente di
cui sono dipendenti al momento dell’incarico, in quanto
professionisti interni (deliberazione
08.04.2009 n. 35 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
Per quanto attiene alla quota di incentivo da riconoscere ai
coordinatori per l’esecuzione, essa non è specificamente
prevista, come non lo era neppure nel precedente D.M. n.
134/2000. La mancanza di una esplicita previsione, deve
farsi risalire alla lett. h), comma 2, art. 124 del DPR n.
554/1999, la quale pone l’attività del coordinatore della
sicurezza nella fase di esecuzione del contratto, bene
intesi, quando non affidata all’esterno, in capo al
direttore operativo dei lavori (ovvero, se non designato, al
direttore dei lavori).
Dunque, in termini di riparto dell’incentivo, l’attività in
parola del coordinatore dell’esecuzione, deve trovare
copertura all’interno dell’aliquota attribuita all’ufficio
del direttore dei lavori (parere
sulla normativa 21.01.2009 - rif. AG41-08
- link a www.autoritalavoripubblici.it). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
Anche ai soggetti di cui all’art. 32, comma 1, lett. c),
D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 è applicabile l’art. 92, co. 5,
del medesimo decreto che prevede, quale incentivo per le
attività svolte, una somma nel limite massimo del 2%
dell’importo a base di gara di un’opera o un lavoro da
ripartire tra il responsabile del procedimento e gli
incaricati della redazione del progetto, del piano di
sicurezza, della direzione lavori, del collaudo nonché tra i
loro collaboratori (deliberazione
30.07.2008 n. 29 -
link a www.autoritalavoripubblici.it). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
Non è conforme al dettato normativo in materia di incentivo,
quanto disposto dal Regolamento interno di una stazione
appaltante che prevede una graduazione dell’incentivo stesso
in ragione dell’importo delle opere, senza tener conto anche
della complessità dell’opera da realizzare.
Nel caso di affidamento all’esterno di una parte
dell’attività di progettazione ovvero nel caso di
progettazione interna ma con l’apporto di consulenze esterne
l’incentivo deve essere ridotto in misura proporzionale
all’apporto del personale esterno (deliberazione
07.05.2008 n. 18
- link a www.autoritalavoripubblici.it). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
Dal tenore letterale dell’art. 18, comma 1, L. 109/1994 (ora
art. 92, comma 5, D.Lgs. 163/2006) risulta evidente che la
disciplina del compenso è rimessa all’autonomia di ogni
singola amministrazione, ma la percentuale deve essere
stabilita dal regolamento adottato dall’amministrazione in
rapporto all’entità e alla complessità dell’opera da
realizzare e alle responsabilità professionali connesse alle
specifiche prestazioni da svolgere.
I tecnici, vale a dire coloro che assumono la responsabilità
della progettazione, l’incaricato della redazione del piano
di sicurezza e gli incaricati della D.L. dovrebbero
percepire dal 50% al 75% circa dell’ammontare
dell’incentivo. Altri collaboratori tecnici, che redigono e
firmano elaborati di tipo descrittivo, dovrebbero percepire
tra il 20% e il 40% dell’incentivo. Ad altri componenti
dell’ufficio tecnico, che hanno contribuito al progetto pur
non sottoscrivendo elaborati, sarebbe da corrispondere una
cifra tra il 5% e il 10%, al responsabile del procedimento
una cifra tra l’1% e il 5% e agli incaricati del collaudo e
loro tecnici o collaboratori il 10% circa.
Non è possibile comprendere tra i soggetti destinatari
dell’incentivo il coordinatore della sicurezza in fase di
esecuzione, in quanto tale funzione, ai sensi dell’art. 127
del D.P.R. 554/1999, è affidata al Direttore dei Lavori.
Pertanto, nel regolamento che ripartisce l’incentivo
bisognerà tenere conto di questa doppia attribuzione e si
dovrà prevedere la quota di incentivo a favore del direttore
operativo, ove nominato (deliberazione
13.12.2007 n. 315 -
link a www.autoritalavoripubblici.it). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
Nelle more dell’adozione di uno specifico regolamento,
secondo quanto specificato dall’Autorità (ad es. con la
deliberazione n. 70 del 22.06.2005), l’Amministrazione non
può procedere al pagamento degli incentivi per la
progettazione di opere pubbliche e per altre attività
indicate dall’art. 18 della legge 11.02.1994 e s.m. e ora
confermate dall’art. 92 del Decreto Legislativo 12.04.2006,
n. 163 (deliberazione
28.11.2006 n. 100
- link a www.autoritalavoripubblici.it). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Oggetto: congedo straordinario retribuito ex art. 42,
commi 5 e ss, del d.lgs. 151 del 2001 - computabilità ai
fini dell'anzianità di servizio e della progressione
economica (nota
15.01.2013 n. 2285 di prot.).
---------------
Il congedo non va in paga.
I periodi di permesso inutili per gli scatti.
Una nota della Funzione pubblica sui periodi di
assistenza ai disabili.
Stipendio stabile per l'impiegato pubblico che prende il
congedo straordinario. Infatti, i periodi di permesso fruiti
per l'assistenza a un familiare con handicap sono validi ai
fini pensionistici ma non ai fini della progressione
economica.
Lo precisa la funzione pubblica nella
nota
15.01.2013 n. 2285 di prot., rispondendo al ministero
dell'istruzione che aveva appunto chiesto chiarimenti sugli
effetti che le assenze a tale titolo producono sulla
maturazione dell'anzianità di servizio.
Congedo straordinario. Il congedo in esame è quello
cosiddetto straordinario, previsto all'articolo 42 del T.u.
maternità (dlgs n. 151/2001), che spetta al coniuge di
soggetto con handicap grave ovvero, nell'ordine, al padre o
alla madre anche adottivi, a uno dei figli conviventi oppure
a uno dei fratelli o sorelle conviventi, nelle ipotesi di
mancanza, decesso o invalidità del soggetto avente diritto
più prossimo al disabile (nell'ordine indicato). Durante la
fruizione del conge
do il lavoratore ha diritto a percepire
un'indennità pari all'ultima retribuzione, con riferimento
alle voci fisse e continuative, e il periodo è coperto da
contribuzione figurativa. Indennità e contribuzione
figurativa spettano fino a 46.836 euro annui per il congedo
di durata annuale (importo valido per l'anno 2013,
rivalutato annualmente in base all'Istat).
I chiarimenti.
La funzione pubblica, prima di tutto, fa presente che già
con circolare n. 1/2012 aveva spiegato che i «periodi di
congedo straordinario non sono computati ai fini della
maturazione di tredicesima, ferie, trattamento di fine
rapporto e trattamenti di fine servizio, ma, essendo coperti
da contribuzione, sono validi ai fini del calcolo
dell'anzianità». Ciò sta a significare, precisa ora, che
il periodo di congedo deve essere riconosciuto utile sia ai
fini dell'anzianità di servizio valevole per raggiungere il
diritto a pensione che per la misura stessa della pensione.
Tuttavia, poiché si tratta di diritti scaturenti
dall'istituto della contribuzione figurativa, praticamente
trovano validità soltanto per i lavoratori del settore
privato, atteso che per i pubblici dipendenti la
contribuzione è connessa alla retribuzione effettivamente
versata dal datore di lavoro. Lo stesso congedo, invece, è
previsto che non sia computabile nell'anzianità di servizio,
laddove per anzianità di servizio non si intende quella ai
fini previdenziali. In conclusione, i periodi di fruizione
del congedo straordinario sono validi ai fini pensionistici,
ma non ai fini della progressione economica.
Tale conclusione, aggiunge la Funzione pubblica, è
confermata dalla considerazione che, di regola, i periodi
rilevanti ai fini delle progressioni economiche
presuppongono un'attività lavorativa effettivamente svolta,
situazione che non ricorre nel momento in cui il dipendente
usufruisce del congedo
(articolo ItaliaOggi del 16.01.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
NEWS |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Avvocati,
le spese generali tornano in parcella.
Ok del cds alle correzioni dei parametri giudiziali.
Torna il rimborso delle spese generali nelle parcelle degli
avvocati, che hanno diritto a un compenso specifico per la
attività investigativa.
Lo prevede lo schema di decreto
correttivo del decreto 140/2012 sui parametri giudiziali sui
compensi professionali, su cui il Consiglio di Stato ha dato
il suo parere 18.01.2013 n. 161, con alcuni rilievi
critici: secondo Palazzo Spada rischia di essere intaccato
il principio di omnicomprensività del compenso. Ma vediamo
le modifiche più significative.
Spese forfettarie. Con la prima modifica si prevede che al
compenso sia aggiunto un importo per spese forfettarie di
studio, calcolato in misura compresa tra il 10 e il 20%. Per
gli avvocati la vecchia tariffa prevedeva un rimborso spese
forfetario del 12,5%.
Stragiudiziale. Per l'attività stragiudiziale degli avvocati
viene previsto un compenso forfettizzato quantificato in una
percentuale calcolata tra il 5 e il 20% del valore
dell'affare. Viene, inoltre, aggiunta una disposizione, che
prevede l'aumento del compenso fino ad un terzo in favore
dell'avvocato che assiste una parte nel procedimento di
mediazione di cui al decreto legislativo 28/2010.
Difesa di più persone. Il decreto correttivo stabilisce che
l'aumento fino al doppio del compenso spettante
all'avvocato, che difende più persone con la medesima
posizione processuale, è sostituito dalla introduzione di un
incremento fino al triplo di tale compenso.
Riduzione patrocinio stato. Viene stabilita la soppressione
della possibile riduzione a metà del compenso spettante
all'avvocato che presta la sua assistenza a soggetti ammessi
al patrocinio a spese dello Stato nel procedimento penale.
Manifesta ragione. Con una nuova disposizione si introduce
la «soccombenza qualificata»: la norma prevede un aumento
del compenso liquidato a carico della parte soccombente
quando le difese della parte vittoriosa siano risultate
manifestamente fondate.
Due nuovi scaglioni. Una ulteriore modifica introduce due
ulteriori scaglioni: uno da euro 1.500.001 a euro 5 milioni,
l'altro oltre euro 5 milioni. Inoltre è disposto un
incremento, tra il 30% e il 50%, dei parametri per il
procedimento di ingiunzione e per il precetto.
Investigazione. Per l'attività giudiziale penale lo schema
introduce una nuova fase che si aggiunge alle altre: quella
della investigazione.
Voci. Nel settore civile si introduce la voce «studio» per
la fase esecutiva sia mobiliare sia immobiliare: la voce,
inserita con riferimento a ogni scaglione, contiene valori
corrispondenti al 35-50% degli importi previsti per la voce
«procedimento».
Minorenne.
Viene soppressa la possibilità della riduzione alla metà del
compenso dell'avvocato che assiste d'ufficio un minorenne
(articolo ItaliaOggi del 19.01.2013). |
ENTI LOCALI: Comuni,
unioni per lo sviluppo.
Più efficaci delle convenzioni nella gestione dei fondi Ue.
In un paper sulla programmazione
europea Barca interviene sull'associazionismo.
Le scelte aggregative dei piccoli comuni devono essere
funzionali, oltre che alla ottimale gestione delle funzioni
fondamentali, anche allo svolgimento di politiche di
sviluppo che richiedono (e sempre più richiederanno in
futuro) un approccio di tipo integrato. Anche da questo
punto di vista, il modello da preferire pare essere quello
dell'unione, a discapito della semplice convenzione.
La riflessione origina dalla lettura del documento su
«Metodi e obiettivi per un uso efficace dei fondi comunitari
2014-2020» presentato nelle scorse settimane dal ministro
alla coesione territoriale, Fabrizio Barca.
Si tratta di un'indicazione importante e tempestiva, che
arriva proprio nel momento in cui stanno maturando le scelte
degli amministratori locali circa le modalità di adempimento
dell'obbligo di gestione associata previsto dalla manovra
estiva 2010 (dl 78) e rilanciato lo scorso anno dalla
cosiddetta spending review (dl 95).
Al di là, infatti, della scadenza formale del 01.01.2013 (termine entro il quale, come noto, occorreva attestare
di aver messo in «comunione» almeno tre delle nove funzioni
fondamentali comunali, associando le restanti sei entro la
fine dell'anno corrente), la situazione in molti territori è
ancora piuttosto magmatica.
Ciò anche in conseguenza della legislazione regionale, che
talora ha previsto meccanismi e procedure più articolati per
la revisione degli assetti delle pa locali, sovrapponendo
agli obiettivi di risparmio previsti dal legislatore statale
finalità di carattere più marcatamente istituzionale, come
per esempio la trasformazione delle comunità montane.
Nell'alternativa fra il modello (più strutturato)
dell'unione e quello (più snello) della convenzione, il
paper di Barca invita a puntare l'attenzione soprattutto sul
primo, esaltandone le capacità di gestire in modo organico
sia le funzioni ordinarie sia, soprattutto, i progetti
speciali. Si tratta di un profilo diverso da puramente
amministrativo e finanziario, rispetto al quale le unioni
presentano parimenti evidenti vantaggi, soprattutto per
quanto concerne il Patto di stabilità interno, la gestione
dei trasferimenti sia da parte degli enti sovraordinati che
fra i comuni associati e i vincoli relativi alla spesa di
personale (si veda ItaliaOggi del 14 dicembre).
In vista del nuovo ciclo di programmazione europea, è
fondamentale non disperdere capacità professionali e
risorse, aggregandole in enti dotati della dimensione di
scala e della capacità amministrativa necessarie a
intercettare le risorse e a gestirle secondo una logica che
non potrà che essere di area vasta.
Tale esigenza si pone oggi, a maggior ragione, a fronte
dell'incertezza e delle difficoltà finanziarie che
attanagliano le province e che costringono in molti contesti
a impostare meccanismi alternativi di livello sovracomunale.
In ogni caso, sarà fondamentale garantire la necessaria
continuità rispetto all'azione dei soggetti che, in questi
anni, hanno gestito le principali policies di sviluppo
locale nelle aree marginali (rurali e montane). Fra questi,
i bacini imbriferi montani (Bim) e i gruppi di azione locale
(Gal). Questi ultimi, in particolare, sono consorzi a natura
mista pubblico-privata che svolgono un ruolo importante in
settori come il turismo, l'agricoltura e l'artigianato e che
hanno proprio nei comuni i loro soci di riferimento.
Ovviamente, è fondamentale che tutti gli attori facciano la
loro parte, non solo quelli locali, ma anche lo stato e le
regioni, chiamati a incentivare adeguatamente la formazione
di compagini quanto più possibile coese e stabili. Da questo
punto di vista, sarebbe opportuno prevedere che una quota
delle risorse di provenienza statale o regionale, siano
destinate al finanziamento di spese correnti o di
investimenti, confluisca direttamente nei bilanci chiamati a
gestirle (in primis le unioni), evitando inutili e
defatiganti passaggi intermedi. Un'occasione importante per
provvedere in tal senso è rappresentata dalla prossima
definizione dei criteri di riparto del nuovo fondo statale
di solidarietà comunale, istituito dalla legge di stabilità
2013. Analogamente potrebbero prevedere le regioni, che
quest'anno dovranno procedere alla fiscalizzazione dei
trasferimenti a favore degli enti locali del proprio
territorio.
Sul tema l'Uncem Piemonte organizzerà il 24 febbraio a
Torino un seminario dal titolo «La nuova geografia del
territorio montano»
(articolo ItaliaOggi del 18.01.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Ferie non trasformabili.
L'ente può rifiutare la conversione in permesso.
La disciplina per i consiglieri comunali
lavoratori dipendenti.
Un consigliere comunale, dipendente dell'Inps, può
presentare al proprio datore di lavoro istanza di
«sospensione delle ferie» già richieste per la
partecipazione a sedute di consiglio e commissioni presso
l'ente in cui esplica il mandato elettivo?
Fermo restando il diritto, costituzionalmente garantito,
dell'amministratore di disporre del tempo necessario per il
mandato, l'istituto del permesso si differenzia da quello
dell'aspettativa in quanto l'amministratore-lavoratore
dipendente mantiene il rapporto con l'amministrazione di
appartenenza con tutti i vincoli, anche di orario, che tale
rapporto comporta.
Il diritto dell'amministratore a fruire dei permessi
lavorativi va, pertanto, contemperato con il diritto
dell'ente di appartenenza con cui l'amministratore locale ha
mantenuto il rapporto lavorativo, al rispetto delle norme
ordinamentali e organizzative interne.
L'ente di appartenenza può, quindi, legittimamente rifiutare
l'accoglimento dell'istanza del dipendente volta alla revoca
delle ferie già richieste, anche se motivate con la
possibilità di fruire di altro diritto.
Per completezza del quadro normativo si soggiunge che, sulla
materia dei permessi, sono intervenute le modifiche
normative apportate dall'art. 16 del dl 13.08.2011, n. 138,
convertito nella legge 14.09.2011, n. 148 che ha rivisitato
il 1° comma dell'art. 79 Tuel
(articolo ItaliaOggi del 18.01.2013). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Incompatibilità.
Sussiste un'ipotesi di incompatibilità di cui all'art. 63,
comma 1, n. 1, a carico di un consigliere e assessore di un
comune che riveste la carica di presidente di una società
sportiva, legata all'ente da una convenzione triennale, alla
quale vengono assegnati contributi da parte del comune in
misura inferiore al 10% del bilancio dell'ente beneficiario?
L'art. 63, comma 1, n. 1 del decreto legislativo n. 267/2000
prevede due ipotesi di incompatibilità con la carica di
consigliere alternative fra loro (cfr. Cass. civ. sez. I,
28.12.2000, 16203): una relativa alla posizione
dell'amministratore di un ente soggetto a vigilanza del
comune, in cui vi sia almeno il 20% di partecipazione da
parte dello stesso; l'altra connessa, invece, alla posizione
dell'amministratore di un ente che riceva dal comune, in via
continuativa, sovvenzioni facoltative che superino nell'anno
il 10% del totale delle proprie entrate.
Il caso in esame ricade nella seconda ipotesi sopra indicata
considerato che non supera il 10% del bilancio dell'ente
beneficiario; nella fattispecie, non sembrerebbero
sussistere forme di ingerenza dell'ente nell'attività del
sodalizio, tali da consentire al comune di concorrere alla
formazione della volontà della società.
Una causa ostativa all'esercizio del mandato potrebbe,
invece, configurarsi in base all'ipotesi di cui al n. 2 del
comma 1 del citato art. 63, qualora la società avesse parte,
direttamente o indirettamente, in servizi nell'interesse del
comune. In proposito occorrerebbe accertare se il consiglio
comunale si è già espresso sulla posizione dell'interessato
in sede di convalida degli eletti o, successivamente, in
esito alla procedura prevista dall'art. 69 del Tuel.
Se il consiglio non si fosse pronunciato, la questione
dovrebbe essere posta alla sua attenzione, poiché in
ottemperanza al principio generale per cui ogni organo
collegiale delibera circa la regolarità dei titoli di
appartenenza dei propri componenti, la verifica delle cause
ostative all'espletamento del mandato è compiuta con la
procedura consiliare prevista dall'art. 69 del decreto
legislativo citato, che garantisce il contraddittorio tra
organo e amministratore, assicurando a quest'ultimo
l'esercizio del diritto alla difesa e la possibilità di
rimuovere, entro un congruo termine, la causa di
incompatibilità contestata.
Pertanto, le eventuali determinazioni autonomamente assunte
dal consiglio comunale, ai sensi dell'art. 69 del decreto
legislativo n. 267/2000, possono formare oggetto di ricorso
innanzi all'autorità giudiziaria, competente a pronunciarsi
anche a seguito dell'esercizio dell'azione popolare di cui
all'art. 70 dello stesso decreto
(articolo ItaliaOggi del 18.01.2013). |
ENTI LOCALI: Alessandria, condanne record sul Patto. Corte
dei conti. Danno erariale per 7,6 milioni per l'ex Giunta e
la vecchia maggioranza di centrodestra.
IL QUADRO/ A carico dell'ex sindaco Pdl e dell'ex assessore al bilancio
il colpo più duro (1,5 milioni) La stessa vicenda è al
centro anche di un processo penale.
Un conto record, da 7,6 milioni. È quello presentato dalla
sezione giurisdizionale piemontese della Corte dei conti
agli ex amministratori del Comune di Alessandria, nella
condanna per danno erariale depositata mercoledì scorso.
All'ex sindaco Piercarlo Fabbio (Pdl), all'ex assessore al
Bilancio Luciano Vandone e all'ex ragioniere capo Carlo
Alberto Ravazzano tocca la fetta più pesante, da 1,53
milioni a testa; altri 380mila euro pro capite vengono
chiesti a sei assessori della vecchia Giunta, mentre 33mila
euro sono a carico di ciascuno dei 23 consiglieri
dell'allora maggioranza.
A causare il maxi-danno erariale
sono gli artifici contabili contestati nel bilancio 2010, i
cui numeri furono aggiustati per rispettare sulla carta un
patto di stabilità sforato nei fatti.
Sui conti alessandrini ha lavorato a lungo la sezione
regionale di controllo della Corte, in una complessa
istruttoria che ha portato la Giunta (di centrosinistra)
uscita dalle elezioni di maggio a dichiarare il dissesto nel
primo mese di vita, portando nella città piemontese il primo
caso di capoluogo finito nel «default obbligatorio» secondo
le regole federaliste (Dlgs 149/2011). Il maquillage
contabile che ha coperto lo sforamento del Patto, però, non
ha fatto scattare le sanzioni, che avrebbero ridotto la
spesa corrente, tagliato del 30% le indennità dei politici
locali e impedito al Comune di assumere personale e di
accendere mutui.
Proprio per questo, la Procura aveva
inizialmente ipotizzato un danno da 39,5 milioni (27,95
milioni per eccesso di spesa corrente, 10,66 di mutui e il
resto diviso fra nuove assunzioni e mancati tagli alle
indennità), poi ridotti a poco più di 10. La sezione
giurisdizionale ha operato un'altra limatura da 3 milioni,
ma ha in larga parte accolto le conclusioni del Pm
contabile: ora la palla passa a una delle tre sezioni
centrali d'appello, l'ultimo grado del processo contabile a
cui i difensori hanno già annunciato naturalmente di far
ricorso.
Anche se rivista rispetto alla richiesta iniziale, quella
pronunciata dai giudici piemontesi è di gran lunga la
sentenza più pesante nella storia recente del danno
erariale. Per trovare numeri simili occorre andare a Terni,
dove la Corte dei conti ha contestato 2,7 milioni all'ex
giunta guidata da Paolo Raffaelli (Pd) per le perdite legate
agli swap: in questo caso, comunque, la sentenza va ancora
pronunciata (l'udienza è in calendario per il 6 marzo), e in
ogni caso i valori in gioco sono più bassi (all'ex sindaco
toccherebbero 93mila euro) anche perché la platea è più
ampia. A rendere innovativa la pronuncia piemontese è poi
l'oggetto del contendere, perché è la prima volta che il
mancato rispetto del Patto di stabilità, realizzato con il
"trucco", si traduce in un danno erariale.
Il lavorio sui conti alessandrini è anche al centro di un
processo penale iniziato il 21 novembre per truffa allo
Stato, abuso d'ufficio e falso ideologico. Gli imputati,
ancora una volta, sono Vandone, Ravazzano e l'ex sindaco
Fabbio, che nei giorni scorsi il direttivo provinciale del
Pdl ha indicato come candidato locale per la Camera nelle
politiche di febbraio
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.01.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Le nuove istruzioni per le comunicazioni ambientali. Fuori
solo le emissioni industriali. Un Mud per tutti. O quasi.
Nella dichiarazione rientrano dagli imballaggi ai Rae.
Sospeso (per ora) il Sistri, tornano tutte sotto il «Mud»,
con parallelo allargamento dei soggetti obbligati, le
principali dichiarazioni ambientali da effettuare entro il
prossimo 30.04.2013. Comunicazione «E-ptr» sulle
emissioni industriali a parte (che continua a funzionare
secondo il dpr 157/2011) tutte le altre dichiarazioni
annuali (ossia quelle aventi a oggetto rifiuti speciali e
urbani, veicoli fuori uso, imballaggi, apparecchiature
elettriche ed elettroniche e relativi rifiuti) dovranno,
infatti, essere effettuate utilizzando un'unica modalità:
quella prevista dal dpcm 20.12.2012, il provvedimento
recante il nuovo «Modello unico di dichiarazione Ambientale
per l'anno 2013».
Le novità in sintesi. Prendendo atto della sospensione
dell'operatività del Sistri (sancita dal dl 83/2012) il
nuovo dpcm (So n. 213 alla Gu 29.12.2012 n. 302) fa
confluire in un unico percorso il «doppio binario» previsto
lo scorso anno per la rituale dichiarazione ambientale:
comunicazione rifiuti speciali da un lato (che doveva essere
effettuata ricorrendo alla modulistica prevista dal dm
52/2011, cd. «Mudino») e dichiarazione relativa a tutte le
altre citate categorie di beni e residui dall'altro (da
farsi secondo le regole sancite dal dpcm 23/12/2011, ora
abrogato dal nuovo omonimo provvedimento).
Insieme alla
fusione delle citate dichiarazioni ambientali (dichiarazioni
previste a monte, lo ricordiamo, dalla legge 70/1994 e poi
declinate nel dlgs 152/2006 sui rifiuti, nel dlgs 209/2003
sui veicoli fuori uso e nel dlgs 151/2005 su Aee e Raee), il
dpcm 20.12.2012 introduce anche tre novità di rilievo:
il ripristino dell'obbligo di comunicazione per i soggetti
che effettuano a titolo professionale il trasporto di
rifiuti (esclusi nel 2012 dal citato dm 52/2011); una
specifica comunicazione per i rifiuti di apparecchiature
elettriche ed elettroniche (cd. «Raee»); la rivisitazione di
alcune schede del modello unico che i soggetti storicamente
tenuti alla compilazione del «vecchio Mud rifiuti» (quello «pre»
riforma Sistri, contenuto nell'archiviato dpcm 27.04.2010) erano abituati a compilare.
La comunicazione rifiuti speciali. La prima delle (sei)
comunicazioni nelle quali è articolato il nuovo modello «Mud»
previsto dal Dpcm 20.12.2012 è quella relativa ai
rifiuti speciali. A tale dichiarazione sono tenuti i
seguenti soggetti (come individuati a monte dal Dlgs
152/2006, cd. «Codice ambientale»):
- produttori iniziali di
rifiuti pericolosi (a eccezione dei soggetti del cd.
«comparto del benessere» individuati dal Dl 201/2011 e delle
imprese agricole ex articolo 2135 del Codice civile con
volume annuo di affari non superiore a 8 mila euro);
- produttori iniziali di rifiuti speciali non pericolosi di
cui all'articolo 184/3, lettere c), d), g) del Dlgs 152/2006
(ossia rifiuti da lavorazioni industriali, artigianali, da
attività di smaltimento/recupero rifiuti, fanghi prodotti
dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acque e
dalla depurazione delle acque reflue e da abbattimento di
fumi) con più di 10 dipendenti;
- imprese ed Enti che effettuano operazioni di
recupero/smaltimento rifiuti; soggetti che svolgono
professionalmente raccolta e trasporto di rifiuti;
commercianti e intermediari di rifiuti senza detenzione (articolo ItaliaOggi Sette
del 14.01.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Semplificazioni. Due decreti della Pubblica amministrazione
per tagliare gli adempimenti di cittadini e imprese.
Nuovi oneri solo con tariffario.
Indicare i costi consentirà di eliminare altri obblighi di
importo analogo.
Meno burocrazia per cittadini e imprese. È l'obiettivo di
due decreti messi a punto dal ministero della Pubblica
amministrazione e vicini al traguardo. Con il primo,
attualmente all'esame della Corte dei conti, si chiede che
ogni nuovo atto amministrativo di carattere generale
contenga il consuntivo degli adempimenti introdotti e di
quelli eliminati. Il secondo, prossimo alla «Gazzetta
Ufficiale», fa un passo ulteriore e cerca di quantificare,
attraverso un apposito tariffario, quanto costa alla
collettività ogni onere amministrativo di nuovo conio.
L'obiettivo di entrambi i provvedimenti è di tenere sotto
controllo la burocrazia e di fare in modo che gli obblighi a
carico di cittadini e imprese non crescano. Semmai, si
riducano.
I due decreti, che rendono attuative alcune disposizioni
dello Statuto delle imprese (legge 180/2011) e si saldano
con le novità del decreto "semplifica-Italia" (Dl 5/2012),
sono complementari. Il primo, infatti, impone la
trasparenza: ogni amministrazione deve preoccuparsi, nella
predisposizione di un nuovo atto normativo di carattere
amministrativo, di stilare l'elenco degli adempimenti,
esclusi quelli di natura fiscale, introdotti e di quelli
tagliati. Non solo, deve anche pubblicare quell'elenco sul
proprio sito istituzionale.
L'altro decreto permette di calcolare in moneta sonante
quanto quegli oneri costano a chi vi deve adempiere. Per
questo è stato messo a punto dalla Pubblica amministrazione,
in collaborazione con le associazioni imprenditoriali, un
vero e proprio tariffario con differenti voci, costruito
sulla base del tempo richiesto al dipendente per adempiere
all'onere e dell'onorario, laddove necessario, del
consulente.
L'acquisizione della modulistica ha, per esempio, un costo
che varia da 10 a 70 euro. La forbice è, in questo caso,
dovuta alla facilità o meno di reperire i documenti: se
disponibili online il costo è basso (10 euro), se invece ci
si deve recare presso l'ufficio che si trova in un'altra
città, l'esborso cresce (70 euro). Il criterio si ripete,
seppure con riferimento ad altre variabili (per esempio, nel
caso della compilazione di un'istanza entra in gioco la
complessità delle informazioni richieste), per tutte le
altre voci. A titolo esemplificativo, si può così
quantificare che una denuncia di malattia professionale
costa a un'impresa –tra acquisizione della modulistica,
compilazione, trasmissione e archiviazione– circa 150 euro
a pratica.
Stesso discorso per gli oneri gravanti sui cittadini, anche
se in questo caso i parametri di calcolo sono stati espressi
in minuti, cioè nel tempo necessario per sbrigare una
pratica. Si tratta, in ogni caso, di un indicatore che dovrà
essere tradotto in euro, così da poter rendere il sistema di
calcolo omogeneo con quello adottato per le imprese.
Tariffari alla mano, ogni amministrazione dovrà, quando
predispone una nuova normativa, calcolare quanto costano gli
eventuali oneri amministrativi introdotti e fare poi il
saldo con quelli eventualmente eliminati. A fine anno si
potrà fare un bilancio generale di quanto si è risparmiato.
Perché l'obiettivo è ridurre gli adempimenti, eliminando
quelli ridondanti o semplificando le procedure, così da
limare ulteriormente quei 26,5 miliardi annui che
rappresentano il costo complessivo degli oneri
amministrativi (esclusi quelli fiscali). Importo che dal
2008, cioè da quando la legge 133 ha fatto debuttare
l'operazione taglia-oneri, a oggi si è ridotto di 8
miliardi. Con, però, un'avvertenza: si tratta di cifre
calcolate sulla carta, proiettando nel tempo gli effetti dei
provvedimenti di semplificazione fin qui varati. La vera
sfida è ora tradurre quei provvedimenti in pratica (articolo Il Sole 24 Ore
del 14.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Anticorruzione. Entro la fine di gennaio.
Censimento subito per i dirigenti senza concorso.
Entro la fine del mese di gennaio tutte le amministrazioni
pubbliche dovranno comunicare al Dipartimento della Funzione
Pubblica nomi, titoli e curricula dei soggetti a cui sono
conferiti incarichi dirigenziali senza procedure selettive
pubbliche.
Questa comunicazione dovrà essere fatta dagli Organismi
indipendenti di valutazione nell'ambito del monitoraggio che
deve essere trasmesso annualmente, entro il 31 gennaio, da
parte di ogni ente alla stessa Funzione pubblica sulle
assunzioni flessibili e sul conferimento di incarichi di
collaborazione coordinata e continuativa, adempimento che da
questo anno è pienamente operativo.
È quanto prevede la
legge anticorruzione (commi 39 e 40 della legge n.
190/2012). La disposizione riguarda sia gli incarichi di
nuova attribuzione che quelli conferiti in precedenza e
ancora in corso.
L'obbligo di comunicazione riguarda tutti gli incarichi
dirigenziali che sono stati conferiti "discrezionalmente".
Quindi negli enti locali si applica alle assunzioni
effettuate ai sensi dell'articolo 110, commi 1 e 2, del Dlgs
267/2000, cioè sia per posti vacanti in dotazione organica
che per posti extra dotazione organica. Per esplicita
previsione, la disposizione stabilisce che le comunicazioni
riguardino tanto i casi in cui questi incarichi sono stati
conferiti a dipendenti dell'ente, quanto la individuazione
di dipendenti di altre Pa, quanto il conferimento a soggetti
esterni alla Pa.
L'ambito di applicazione si deve ritenere
esteso anche agli incarichi di responsabilità conferiti
negli enti privi di dirigenti. La formulazione utilizzata
esclude solo gli incarichi conferiti sulla base di
«procedure pubbliche di selezione», formula che non sembra
includere il mero confronto di curricula. Gli obiettivi
della disposizione sono numerosi: individuazione nominativa
dei dirigenti "fiduciari", accertamento dei loro requisiti,
verifica della imparzialità, salvaguardia della distinzione
delle competenze tra organi politici e dirigenti.
Gli Organismi indipendenti di valutazione (Oiv) ed i Nuclei
di valutazione, a dimostrazione dell'accentuazione del loro
ruolo di strumento di controllo, vengono responsabilizzati
direttamente alla effettuazione di questa comunicazione,
ovviamente sulla base dei dati elaborati dagli uffici.
Occorre ricordare che, sulla base delle previsioni di cui
all'articolo 36 del Dlgs 165/2001, gli Oiv sono
responsabilizzati ad accertare che nell'ente siano
rispettati i vincoli, sia procedurali che di spesa, dettati
dal legislatore per le assunzioni flessibili e per il
conferimento di incarichi di collaborazione coordinata e
continuativa. Spetta infatti ad essi sanzionare i dirigenti
che hanno gestito in modo irregolare le assunzioni
flessibili e/o gli incarichi di co.co.co con la mancata
erogazione della indennità di risultato.
Anche se non sono stati ancora preparati i modelli da
utilizzare per effettuare queste comunicazioni, gli enti
locali e le Regioni sono comunque tenuti a raccogliere e
trasmettere queste informazioni. Essi possono utilizzare i
modelli che la Funzione pubblica ha realizzato per le
amministrazioni statali e per gli enti pubblici nazionali.
---------------
L'obbligo
01 | IL MONITORAGGIO
Ogni amministrazione pubblica deve rendere noti gli
incarichi dirigenziali conferiti senza procedure di
selezione pubblica, ma in via fiduciaria
02 | LA SCADENZA
Gli organismi indipendenti di valutazione devono comunicare
i dati alla Funzione pubblica va fatta entro il 31 gennaio
03 | IL PERIMETRO
Vanno segnalati gli incarichi concessi a dipendenti interni,
sia agli esterni che quelli a dipendenti di altre
amministrazioni
04 | I MODELLI
In attesa della predisposizione di moduli ad hoc per gli
enti locali si possono usare quelli già pronti per le
amministrazioni statali (articolo Il Sole 24 Ore del 14.01.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA: La
natura pubblica della strada costituisce il presupposto per
l’adozione dell’ordine di rimozione (di un cancello), e,
qualora difetti, l'iscrizione della strada nell'elenco delle
strade comunali e vicinali di uso pubblico è
l'Amministrazione che ha l'onere di accertare con rigorosa
istruttoria la sussistenza di un titolo valido a sorreggere
l'affermazione del diritto di uso pubblico e la concreta
idoneità della strada a soddisfare attualmente esigenze di
pubblica utilità.
... per l'annullamento:
1) dell’ordinanza n. 47 del 09/08/2012, con la quale il
Sindaco del Comune di Sant’Agata li Battiati -nell’esercizio
dei propri poteri di massima autorità di Protezione Civile
nell’ambito della pianificazione d’emergenza comunale e
rilevata la necessità, l’urgenza e l’indifferibilità
dell’adozione del provvedimento- ha imposto ai ricorrenti,
la rimozione a propria cura e spese, entro il termine di 30
giorni, del cancello esistente dopo il civico 1 e 2 della
via Lavatoio e della porzione di muro adiacente al cancello;
...
RITENUTO che -a prescindere dalle censure sulla competenza
del Sindaco (che appaio comunque fondate, non essendo
ravvisabili i presupposti per l’adozione di un’ordinanza in
relazione alle esigenze di “salvaguardia della pubblica
incolumità”, nella quale, tuttavia, non risultano
indicate le specifiche ragioni di pericolo la pubblica
incolumità, né il rischio concreto di un danno grave e
imminente per l’incolumità pubblica, riferendosi
esclusivamente alla circostanza che il cancello “può
rappresentare un ostacolo all’ingresso dei mezzi di
soccorso...”)- i profili di doglianza concernenti il
difetto d’istruttoria e la contraddittorietà della
motivazione, sono fondati e assorbenti di ogni altra
censura.
Infatti, in disparte ogni questione sull’accertamento della
proprietà della strada che, ovviamente, esula dalla
giurisdizione del giudice amministrativo ed è devoluta alla
giurisdizione del giudice ordinario, giacché investe
l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di diritti
soggettivi, dei privati o della p.a. (Cassazione civile,
Sezioni unite, 27.01.2010, n. 1624), va rilevato, tuttavia,
come la natura pubblica della strada costituisce il
presupposto per l’adozione dell’ordine di rimozione, e,
qualora difetti, come nel caso di specie, l'iscrizione della
strada nell'elenco delle strade comunali e vicinali di uso
pubblico, è l'Amministrazione che ha l'onere di accertare
con rigorosa istruttoria la sussistenza di un titolo valido
a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico
(cfr., Cons. di Stato, sez. V, 24.05.2007, n. 2618) e la
concreta idoneità della strada a soddisfare attualmente
esigenze di pubblica utilità.
Pertanto, l'Amministrazione, prima di emettere il
provvedimento impugnato, avrebbe dovuto accertare attraverso
un’adeguata attività istruttoria -i cui contenuti ed esiti
avrebbero dovuto essere riportati nella motivazione
dell’ordinanza di rimozione- se effettivamente nel caso di
specie sussistessero tutti i requisiti per poter qualificare
la strada in questione come strada destinata ad uso
pubblico. Istruttoria che, nella specie, s’imponeva in
considerazione alcune determinazioni di Uffici comunali cha
avevano affermato la natura privata della strada in
questione. (cfr. in particolare, nota del 25/06/2005, nella
quale il Capo Settore UTC, dopo aver rilevato che “…
tutta l’altra documentazione, agli atti di questo ufficio,
dimostra (a partire almeno dal 1942) la proprietà privata
della strada” e che “non esistono altri elementi che
possano far presupporre la proprietà comunale della
stradella”, ha informato il Sindaco della inesistenza di
validi presupposti per reclamare la proprietà comunale della
strada affermando che “Il Comune non è in possesso di
altri elementi che possano dimostrare la proprietà del bene”
e che “la strada allo stato attuale non è di nessun
interesse pubblico, in quanto non ha sbocco ed è di limitata
sezione, a fondo naturale e priva di illuminazione”.
E’ evidente, quindi, una situazione di obiettiva incertezza
e contraddittorietà sullo stato dei luoghi, che avrebbe
dovuto indurre il Comune, prima di emettere il provvedimento
impugnato, ad eseguire un’idonea istruttoria sulla natura
della strada che, nella specie, è, invece, mancata, non
potendo nemmeno supplire l’integrazione della motivazione
contenuta nella memoria difensiva, laddove si fa riferimento
a circostanze (presenza della numerazione civica e
riconoscimento della natura pubblica della strada da parte
di un privato in una bozza di convenzione di lottizzazione)
assolutamente inidonee a qualificare gli indici rilevatori
della natura "pubblica" della strada (cfr. Consiglio
Stato, sez. V, 01.12.2003, n. 7831; Cons. Stato, Sez. V,
24.10.2000 n. 5692; id., Sez. IV, 02.03.2001 n. 1155).
RITENUTO, quindi, che l’omissione di un rigoroso
accertamento circa gli elementi di fatto e di diritto
rilevatori della natura "pubblica" della strada in
questione evidenzia il difetto istruttorio in cui è incorso
il Comune di Sant’Agata Li Battiati nell'adozione
dell’ordine di rimozione impugnato.
CONSIDERATO che per quanto sopra, il ricorso è fondato e va
accolto, con conseguente annullamento del provvedimento
impugnato, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti che
l'Amministrazione potrà adottare in esito ad una rinnovata
ed idonea attività istruttoria
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 18.01.2013 n. 176 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Allorché
il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire
ovvero anche quando sia intervenuta la decadenza del titolo
edilizio, sorge in capo alla p.a., anche ex artt. 2033 o,
comunque, 2041 c.c., l’obbligo di restituzione delle somme
corrisposte a titolo di contributo per oneri di
urbanizzazione e costo di costruzione e conseguentemente il
diritto del privato a pretenderne la restituzione.
Il contributo concessorio è, infatti, strettamente connesso
all'attività di trasformazione del territorio e quindi, ove
tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento
risulta privo della causa dell’originaria obbligazione di
dare cosicché l’importo versato va restituito; il diritto
alla restituzione sorge non solamente nel caso in cui la
mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove
il permesso di costruire sia stato utilizzato solo
parzialmente.
Sulle somme da restituire vanno applicati gli interessi al
tasso legale con decorrenza, nella peculiare fattispecie,
dalla data di ricezione da parte del Comune della richiesta
di restituzione inviata dagli odierni ricorrenti, atteso che
questi ultimi, pur avendo inutilmente dato luogo ad una
complessa ed articolata attività amministrativa, hanno poi
tenuto un comportamento non significativo che in ipotesi
avrebbe potuto sfociare anche in un riutilizzo del titolo
abilitativo edilizio.
Allorché il privato rinunci o non utilizzi il permesso di
costruire ovvero anche quando sia intervenuta la decadenza
del titolo edilizio, sorge in capo alla p.a., anche ex artt.
2033 o, comunque, 2041 c.c., l’obbligo di restituzione delle
somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di
urbanizzazione e costo di costruzione e conseguentemente il
diritto del privato a pretenderne la restituzione. Il
contributo concessorio è, infatti, strettamente connesso
all'attività di trasformazione del territorio e quindi, ove
tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento
risulta privo della causa dell’originaria obbligazione di
dare cosicché l’importo versato va restituito; il diritto
alla restituzione sorge non solamente nel caso in cui la
mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove
il permesso di costruire sia stato utilizzato solo
parzialmente (cfr: CS, V, 02.02.1988 n. 105, 12.06.1995 n.
894 e 23.06.2003 n. 3714; TAR Lombardia, Sez. II,
24.03.2010, n. 728 e TAR Abruzzo 15.12.2006 n. 890, TAR
Parma 07.04.1998 n. 149).
Sulle somme da restituire vanno applicati gli interessi al
tasso legale con decorrenza, nella peculiare fattispecie,
dalla data di ricezione da parte del Comune (9.08.2011)
della richiesta di restituzione inviata dagli odierni
ricorrenti, atteso che questi ultimi, pur avendo inutilmente
dato luogo ad una complessa ed articolata attività
amministrativa, hanno poi tenuto un comportamento non
significativo che in ipotesi avrebbe potuto sfociare anche
in un riutilizzo del titolo abilitativo edilizio.
In conclusione, va dichiarato il diritto dei ricorrenti alla
restituzione, da parte del Comune di Tremestieri Etneo,
della somma di € 158.000,00 oltre interessi al tasso legale
a partire dal 09.08.2011 all’effettivo soddisfo, con
conseguente condanna del Comune medesimo al pagamento di
tali importi
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 18.01.2013 n. 159 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: E’
indiscutibile la natura espropriativa del vincolo a “sede
stradale” imposto dal PRG, trattandosi di prescrizione che
incide sul diritto di proprietà sull’area.
---------------
Più complesso è il discorso con riferimento alla
destinazione di parte dell’area a “verde pubblico”, dal
momento che tale classificazione non è di per sé
automaticamente foriera di un vincolo a carattere
espropriativo, potendosi anche configurare un vincolo di
natura meramente conformativa in ragione delle potenzialità
edificatorie e/o di utilizzo concretamente concesse al
privato proprietario.
Tuttavia, poiché la effettiva portata della destinazione a
“verde pubblico” non risulta chiarita nel presente giudizio,
la tesi del carattere sostanzialmente espropriativo del
vincolo sostenuta dal ricorrente appare corroborata dal
comportamento della PA resistente, che sembra aver avviato
–come si dice nella comunicazione di avvio del procedimento–
una revisione totale della destinazione dell’area, sul
presupposto evidente che tutti i vincoli (incluso quello
relativo al “verde pubblico”) siano ritenuti non più
vigenti.
E’ indiscutibile la natura espropriativa del vincolo a “sede
stradale” imposto dal PRG, trattandosi di prescrizione
che incide sul diritto di proprietà sull’area; altrettanto
indiscutibile è l’avvenuta decadenza del vincolo per
decorrenza del relativo termine di durata.
Più complesso è il discorso con riferimento alla
destinazione di parte dell’area a “verde pubblico”,
dal momento che tale classificazione non è di per sé
automaticamente foriera di un vincolo a carattere
espropriativo, potendosi anche configurare un vincolo di
natura meramente conformativa in ragione delle potenzialità
edificatorie e/o di utilizzo concretamente concesse al
privato proprietario (si vedano, in proposito, le
precisazioni contenute nella sentenza Corte cost. 179/1999 e
nella giurisprudenza amministrativa: C.G.A. 1113/2008; Tar
Firenze 2012/2010; Tar Catania 423/2011).
Tuttavia, poiché la effettiva portata della destinazione a “verde
pubblico” non risulta chiarita nel presente giudizio, la
tesi del carattere sostanzialmente espropriativo del vincolo
sostenuta dal ricorrente appare corroborata dal
comportamento della PA resistente, che sembra aver avviato
–come si dice nella comunicazione di avvio del procedimento–
una revisione totale della destinazione dell’area, sul
presupposto evidente che tutti i vincoli (incluso quello
relativo al “verde pubblico”) siano ritenuti non più
vigenti.
Alla luce di quanto fin qui esposto, richiamata la
giurisprudenza di questa Sezione riguardante le ipotesi di
silenzio serbato dalle amministrazioni sulle istanze di
riqualificazione urbanistica e la conseguente violazione
dell’obbligo legale di conclusione del procedimento fissato
nell’art. 2 della L. 241/90 (ex multis, fra le più
recenti, Tar Catania, I, 1573/2009 e 518/2012), il ricorso
merita accoglimento, non apparendo utile ad interrompere la
denunciata inerzia della PA né il mero avvio delle
operazioni di riqualificazione, né la presentazione al
Consiglio comunale del progetto generale di un nuovo PRG,
stante la persistente mancanza di deliberazioni su tale
nuovo strumento urbanistico.
In conclusione, va dichiarato l’obbligo del Comune di
Catania di concludere il procedimento di destinazione
urbanistica del terreno del ricorrente entro il termine di
120 giorni dalla comunicazione della presente sentenza o sua
notifica a cura di parte.
Non è tuttavia possibile, in questa sede, stabilire anche
quale sia il contenuto concreto che l’atto di
classificazione urbanistica dovrà assumere, ossia la
destinazione specifica da attribuire all’area, venendo in
rilievo in questo contesto una attività amministrativa
discrezionale, di stretta competenza del Comune, che non può
essere indirizzata dal giudicante pena lo sconfinamento in
settori non propri
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 18.01.2013 n. 151 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
termine per la formazione del silenzio-assenso di cui
all'art. 87, comma 9, del D.Lgs. n. 259 del 2003 decorre
dalla presentazione della domanda corredata dal progetto; né
rileva la data della ricezione da parte del Comune del
parere dell'A.R.P.A., in quanto il deposito del parere
preventivo favorevole dell'A.R.P.A. non è prescritto per la
formazione del titolo edilizio ovvero per l'inizio dei
lavori, ma solo per l'attivazione dell'impianto.
RITENUTO che il ricorso è fondato sotto il profilo
dell’illegittimità dei provvedimenti negativi adottati dal
Comune di Capo d’Orlando dopo la formazione del titolo
autorizzativo.
Infatti, secondo giurisprudenza consolidata, il termine per
la formazione del silenzio-assenso di cui all'art. 87, comma
9, del D.Lgs. n. 259 del 2003 decorre dalla presentazione
della domanda corredata dal progetto (cfr. Cons. Stato, sez.
VI, 18.08.2009, n. 4941 e 17.03.2009, n. 1578); né rileva la
data della ricezione da parte del Comune del parere dell'A.R.P.A.,
in quanto il deposito del parere preventivo favorevole dell'A.R.P.A.
non è prescritto per la formazione del titolo edilizio
ovvero per l'inizio dei lavori, ma solo per l'attivazione
dell'impianto (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 24.09.2010, n.
7128).
Né, infine, la nota del 17.05.2012 può ritenersi idonea ad
interrompere il termine per la formazione del
silenzio-assenso, giacché ai sensi del comma 5° dell’art. 87
del D.Lgs. 259/2003 “Il responsabile del procedimento può
richiedere, per una sola volta, entro quindici giorni dalla
data di ricezione dell'istanza, il rilascio di dichiarazioni
e l'integrazione della documentazione prodotta”, mentre
nel caso in esame, a fronte della domanda di autorizzazione
ricevuta il 23.04.2012, il predetto termine di quindici
giorni non è stato precisato
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 18.01.2013 n. 149 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Il singolo condòmino ha
la facoltà di eseguire opere che siano strettamente
pertinenti alla sua unità immobiliare, sotto i profili
funzionale e spaziale, con la conseguenza che egli va
considerato come soggetto avente titolo per ottenere a nome
proprio l’autorizzazione o la concessione edilizia
relativamente a tali opere (vedansi, in particolare, gli
articoli 1122 e 1127 del codice civile).
- Premesso:
Alla signora G., persona disabile proprietaria con il
coniuge di due unità residenziali (5^ piano ed attico) nel
condominio in via ... di Conegliano, venivano ingiunti dal
comune la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi
per l’abusiva realizzazione al piano attico di un locale
accessorio ad uso lavanderia-stenditoio (ordinanza
16.02.2006 n. 33-prot. 8098), in conseguenza del voto
contrario all’esecuzione dei lavori espresso dall’assemblea
condominiale.
Tale parere era motivato con richiamo all’art. 53 del
regolamento edilizio, il quale consente la costruzione di
locali accessori con un massimo di mc. 150 per fabbricato,
da realizzare esclusivamente in aderenza al corpo di
fabbrica principale.
...
- Considerato:
L’odierna controversia è caratterizzata dal fatto che le
opere edili in questione -destinate ad alleviare la
disabilità della ricorrente ma contestate dal comune
resistente con riguardo al dissenso manifestato dal
condominio, il quale non intende neanche adattare la
lavanderia condominiale non agibile- devono essere
realizzate all’attico nella porzione di piano in proprietà
individuale della condòmina deducente, a sue cure e spese,
senza interessamento delle parti comuni dell’edificio se non
per l’aderenza a murature perimetrali condominiali e senza
arrecare pregiudizio agl’immobili di proprietà esclusiva di
altri condòmini (i quali perciò non sono privati, né
collettivamente né singolarmente, di nessuna pur minima
utilità dominicale, concreta o potenziale).
Dette opere, le quali non rendono talune parti comuni
dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un
solo condomino, non sono quindi in contrasto con la
specifica destinazione delle parti comuni e non vanno ad
incidere sulla proprietà condominiale, laddove il
condominio, che è un mero ente di gestione unicamente
deputato a gestire le parti comuni dell’edificio e la
funzionalità dei servizi d’interesse comune dei singoli
condòmini, ha assunto una condotta emulativa nel negare
comodità elementari per nulla pregiudizievoli agli altri
condòmini, ma indispensabili per la ricorrente.
La legge 09.01.1989 n. 13, recante disposizioni per favorire
l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici
privati e che consente, tra l’altro, le innovazioni
finalizzate a realizzare idonei accessi alle parti comuni
degli edifici e alle singole unità immobiliari a determinate
condizioni (maggioranze previste dall’art. 1136, commi
secondo e terzo, del codice civile, ovvero l’esecuzione
diretta a proprie spese, in caso di rifiuto o silenzio da
parte del condominio), nel caso qui in trattazione non è
neppure rilevante, perché il singolo condòmino ha la facoltà
di eseguire opere che siano strettamente pertinenti alla sua
unità immobiliare, sotto i profili funzionale e spaziale,
con la conseguenza che egli va considerato come soggetto
avente titolo per ottenere a nome proprio l’autorizzazione o
la concessione edilizia relativamente a tali opere (vedansi,
in particolare, gli articoli 1122 e 1127 del codice civile).
Non è pertanto comprensibile neanche il comportamento
contraddittorio assunto nella vicenda dal comune, il quale
da un canto attribuisce valore ostativo al parere contrario
all’esecuzione dei lavori in argomento espresso
dall’assemblea condominiale, e dall’altro assume come
possibile l’utilizzazione da parte della ricorrente della
volumetria autorizzabile di 150 mc. per la realizzazione di
locali accessori (art. 53 del regolamento edilizio), in
quota proporzionale ai millesimi di proprietà.
Per concludere, il ricorso va accolto sotto i profili della
contraddittorietà e del difetto d’istruttoria della domanda
edilizia, annullando l’atto impugnato e fatti salvi gli
ulteriori provvedimenti dell’amministrazione comunale,
tenuta a riprovvedere sulla questione (Consiglio di Stato,
Sez. I,
parere 18.01.2013 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Ai fini della validità
dei contratti pubblici di appalto, è necessaria, ad
substantiam, la forma scritta.
Altresì, nelle procedure di affidamento dei contratti in
parola, l'offerta esprime, in via unilaterale e con
carattere vincolante, l'impegno negoziale del concorrente ad
eseguire l’appalto con prestazioni conformi al relativo
oggetto, nonché con modalità tecniche e corrispettivo
economico che la qualificano agli effetti della valutazione
comparativa sottesa all'aggiudicazione.
In un simile contesto, connotato dalla tassatività della
forma scritta e dalla coattività della dichiarazione
unilaterale di impegno negoziale da parte del concorrente,
la firma serve a rendere nota la paternità ed a vincolare
l'autore al contenuto del documento ritraente detta
dichiarazione; assolve, cioè, la funzione indefettibile di
assicurare provenienza, serietà, affidabilità e
insostituibilità dell'offerta e costituisce elemento
essenziale per la sua ammissibilità, sotto il profilo sia
formale sia sostanziale, potendosi solo ad essa riconnettere
gli effetti propri della manifestazione di volontà volta
alla costituzione di un rapporto giuridico.
La clausola di gara che imponga la sottoscrizione (anche)
della documentazione tecnica da parte del soggetto
concorrente corrisponde, dunque, all’illustrata esigenza che
l'offerta sia formalmente imputata al soggetto titolato ad
assumere le obbligazioni in essa contemplate per
l'esecuzione dell’appalto.
Conseguentemente, la mancanza della richiesta
sottoscrizione, pregiudicando un interesse sostanziale
pubblicistico, comporta che l'offerta non possa essere ‘tal
quale’ accettata; non integra, cioè, una mera irregolarità
formale, sanabile nel corso del procedimento, ma inficia
irrimediabilmente la validità e la ricevibilità della
dichiarazione di offerta, senza che, all’uopo, sia
necessaria una espressa previsione della lex specialis,
stante la diretta comminatoria di esclusione enunciata
dall'art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006 con
riferimento ai “casi di incertezza assoluta sul contenuto o
sulla provenienza dell'offerta, per difetto di
sottoscrizione”.
Ciò posto, occorre richiamare in appresso l’orientamento
giurisprudenziale formatosi in ordine alla tassatività della
sottoscrizione in calce (anche) dell’offerta tecnica, dal
quale il Collegio non ritiene di doversi discostare:
- in particolare, una ‘sottoscrizione’ deve, per
definizione, essere apposta in calce al documento al quale
si riferisce;
- in tale prospettiva, la sottoscrizione conclusiva della
dichiarazione di impegno non è stata reputata surrogabile
dalla sottoscrizione solo parziale delle pagine precedenti
ovvero dall'apposizione della controfirma sui lembi
sigillati della busta che la contiene (mirando, quest’ultima
formalità, a garantire il principio della segretezza
dell'offerta e della integrità del plico, piuttosto che
–come, invece, la firma in calce– l’imputazione della
manifestazione di volontà al concorrente);
- nella stessa prospettiva, e in omaggio al principio della
par condicio tra concorrenti, alla firma in calce di un
documento non è equiparabile quella apposta solo in apertura
di esso (‘in testa’) ovvero sul solo frontespizio di un
testo di più pagine, in quanto unicamente con la firma in
calce si manifesta la consapevole assunzione della paternità
di una dichiarazione e la responsabilità in ordine al suo
contenuto; né, tanto meno, alla firma in calce di singoli ed
autonomi documenti è equiparabile la sottoscrizione
dell’elenco riproduttivo della mera intitolazione dei
documenti medesimi, del cui contenuto rimane, dunque,
incerta l’imputabilità al soggetto offerente;
- siffatto approccio è stato, peraltro, mantenuto fermo,
anche allorquando sono state ripudiate interpretazioni
puramente formali delle regole di gara, essendosi ritenuta
conseguita la finalità della sottoscrizione –consistente
nell’assicurare la riferibilità della dichiarazione di
offerta al relativo presentatore– pur sempre in presenza
almeno della sigla in calce di quest’ultimo.
- al riguardo, giova, in primis, rammentare che, ai
fini della validità dei contratti pubblici di appalto, è
necessaria, ad substantiam, la forma scritta (cfr.
Cass. civ., sez. un., n. 6827/2010; sez. I, n. 1614/2009; n.
19209/2009; sez. III, n. 20340/2010);
- giova, altresì, rammentare che, nelle procedure di
affidamento dei contratti in parola, l'offerta esprime, in
via unilaterale e con carattere vincolante, l'impegno
negoziale del concorrente ad eseguire l’appalto con
prestazioni conformi al relativo oggetto, nonché con
modalità tecniche e corrispettivo economico che la
qualificano agli effetti della valutazione comparativa
sottesa all'aggiudicazione (cfr. Cons. Stato, sez. VI, n.
7987/2010);
- in un simile contesto, connotato dalla tassatività della
forma scritta e dalla coattività della dichiarazione
unilaterale di impegno negoziale da parte del concorrente,
la firma serve a rendere nota la paternità ed a vincolare
l'autore al contenuto del documento ritraente detta
dichiarazione; assolve, cioè, la funzione indefettibile di
assicurare provenienza, serietà, affidabilità e
insostituibilità dell'offerta e costituisce elemento
essenziale per la sua ammissibilità, sotto il profilo sia
formale sia sostanziale, potendosi solo ad essa riconnettere
gli effetti propri della manifestazione di volontà volta
alla costituzione di un rapporto giuridico;
- la clausola di gara che imponga la sottoscrizione (anche)
della documentazione tecnica da parte del soggetto
concorrente corrisponde, dunque, all’illustrata esigenza che
l'offerta sia formalmente imputata al soggetto titolato ad
assumere le obbligazioni in essa contemplate per
l'esecuzione dell’appalto;
- conseguentemente, la mancanza della richiesta
sottoscrizione, pregiudicando un interesse sostanziale
pubblicistico, comporta che l'offerta non possa essere ‘tal
quale’ accettata (cfr. TAR Liguria, Genova, sez. II, n.
630/2010); non integra, cioè, una mera irregolarità formale,
sanabile nel corso del procedimento, ma inficia
irrimediabilmente la validità e la ricevibilità della
dichiarazione di offerta, senza che, all’uopo, sia
necessaria una espressa previsione della lex specialis
(cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 5547/2008; sez. IV, n.
1832/2010; sez. V, n. 528/2011; TAR Sicilia, Palermo, sez.
III, n. 5498/2010), stante la diretta comminatoria di
esclusione enunciata dall'art. 46, comma 1-bis, del d.lgs.
n. 163/2006 con riferimento ai “casi di incertezza
assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per
difetto di sottoscrizione”;
- ciò posto, occorre richiamare in appresso l’orientamento
giurisprudenziale formatosi in ordine alla tassatività della
sottoscrizione in calce (anche) dell’offerta tecnica, dal
quale il Collegio non ritiene di doversi discostare;
- in particolare, una ‘sottoscrizione’ –ha osservato
Cons. Stato, sez. V, n. 2317/2912, con riferimento ad una
fattispecie omologa a quella dedotta nel presente giudizio–
deve, per definizione, essere apposta in calce al documento
al quale si riferisce;
- in tale prospettiva, la sottoscrizione conclusiva della
dichiarazione di impegno non è stata reputata surrogabile
dalla sottoscrizione solo parziale delle pagine precedenti
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 1832/2010) ovvero
dall'apposizione della controfirma sui lembi sigillati della
busta che la contiene (mirando, quest’ultima formalità, a
garantire il principio della segretezza dell'offerta e della
integrità del plico, piuttosto che –come, invece, la firma
in calce– l’imputazione della manifestazione di volontà al
concorrente: cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 528/2011);
- nella stessa prospettiva, e in omaggio al principio della
par condicio tra concorrenti, alla firma in calce di un
documento non è equiparabile –prosegue Cons. Stato, sez. V,
n. 2317/2912– quella apposta solo in apertura di esso (‘in
testa’) ovvero –come nel caso dei sopra indicati
elaborati prodotti in gara dall’ATI Italimpianti– Matera –
sul solo frontespizio di un testo di più pagine, in quanto
unicamente con la firma in calce si manifesta la consapevole
assunzione della paternità di una dichiarazione e la
responsabilità in ordine al suo contenuto (cfr. TAR Puglia,
Lecce, sez. III, n. 625/2011; TAR Sardegna, Cagliari, sez.
I, n. 634/2012); né, tanto meno, alla firma in calce di
singoli ed autonomi documenti è equiparabile –a dispetto
degli assunti delle ricorrenti principali– la sottoscrizione
dell’elenco riproduttivo della mera intitolazione dei
documenti medesimi, del cui contenuto rimane, dunque,
incerta l’imputabilità al soggetto offerente;
- siffatto approccio è stato, peraltro, mantenuto fermo,
anche allorquando sono state ripudiate interpretazioni
puramente formali delle regole di gara, essendosi ritenuta
conseguita la finalità della sottoscrizione –consistente
nell’assicurare la riferibilità della dichiarazione di
offerta al relativo presentatore– pur sempre in presenza
almeno della sigla in calce di quest’ultimo (cfr. Cons.
Stato, sez. VI, n. 8933/2010) (TAR Campania-Napoli, Sez.
VIII,
sentenza 17.01.2013 n. 368 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'interpretazione degli atti amministrativi, ivi
compreso il bando di gara pubblica, soggiace alle stesse
regole dettate dall'art. 1362 e ss. c.c. per
l'interpretazione dei contratti, tra le quali assume
carattere preminente quella collegata all'interpretazione
letterale in quanto compatibile con il provvedimento
amministrativo, dovendo in ogni caso il giudice ricostruire
l'intento dell'Amministrazione, ed il potere che essa ha
inteso esercitare, in base al contenuto complessivo
dell'atto (cd. interpretazione sistematica), tenendo conto
del rapporto tra le premesse ed il suo dispositivo e del
fatto che, secondo il criterio di interpretazione di buona
fede ex art. 1366 c.c., gli effetti degli atti
amministrativi devono essere individuati solo in base a ciò
che il destinatario può ragionevolmente intendere, anche in
ragione del principio costituzionale di buon andamento, che
impone alla P.A. di operare in modo chiaro e lineare, tale
da fornire ai cittadini regole di condotte certe e sicure,
soprattutto quando da esse possano derivare conseguenze
negative.
Conseguentemente, solo in caso di oscurità ed equivocità
delle clausole del bando e degli atti che regolano i
rapporti tra cittadini e Amministrazione può ammettersi una
lettura idonea a tutela dell'affidamento degli interessati
in buona fede, non potendo generalmente addebitarsi al
cittadino un onere di ricostruzione dell'effettiva volontà
dell'Amministrazione mediante complesse indagini
ermeneutiche ed integrative.
Come è noto, per conforme giurisprudenza di questo Consiglio,
l'interpretazione degli atti amministrativi, ivi compreso il
bando di gara pubblica, soggiace alle stesse regole dettate
dall'art. 1362 e ss. c.c. per l'interpretazione dei
contratti, tra le quali assume carattere preminente quella
collegata all'interpretazione letterale in quanto
compatibile con il provvedimento amministrativo, dovendo in
ogni caso il giudice ricostruire l'intento
dell'Amministrazione, ed il potere che essa ha inteso
esercitare, in base al contenuto complessivo dell'atto (cd.
interpretazione sistematica), tenendo conto del rapporto tra
le premesse ed il suo dispositivo e del fatto che, secondo
il criterio di interpretazione di buona fede ex art. 1366
c.c., gli effetti degli atti amministrativi devono essere
individuati solo in base a ciò che il destinatario può
ragionevolmente intendere, anche in ragione del principio
costituzionale di buon andamento, che impone alla P.A. di
operare in modo chiaro e lineare, tale da fornire ai
cittadini regole di condotte certe e sicure, soprattutto
quando da esse possano derivare conseguenze negative (cfr.,
ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 05.09.2011, n.
4980).
Da tale premessa, deriva, quale diretto corollario, la
regola secondo la quale solo in caso di oscurità ed
equivocità delle clausole del bando e degli atti che
regolano i rapporti tra cittadini e Amministrazione può
ammettersi una lettura idonea a tutela dell'affidamento
degli interessati in buona fede, non potendo generalmente
addebitarsi al cittadino un onere di ricostruzione
dell'effettiva volontà dell'Amministrazione mediante
complesse indagini ermeneutiche ed integrative
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 16.01.2013 n. 238 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Le verifiche che devono
essere effettuate su un progetto in gara devono, ovviamente,
rispondere ad uno specifico ed oggettivo interesse
dell’Amministrazione; in particolare, con riguardo al
progetto definitivo, non solo le verifiche devono riguardare
la documentazione espressamente stabilita all’art. 93, comma
4, del Codice, ma devono anche controllare che esso sia
stato redatto nel rispetto delle esigenze, dei vincoli,
degli indirizzi e delle indicazioni stabilite nel progetto
preliminare secondo le indicazioni fornite
dall’Amministrazione nell’esercizio della sua potestà
discrezionale.
---------------
L’inosservanza delle prescrizioni del capitolato speciale
prestazionale in ordine alla documentazione (asseverazione
dei progettisti) da allegare all’offerta tecnica (progetto
definitivo), implica l’esclusione dalla gara in quanto si
tratta di prescrizione rispondente ad un particolare
interesse dell’Amministrazione appaltante: speditezza
dell’azione amministrativa e del buon funzionamento
dell’operato dell’apparato organizzativo chiamato a
verificare la rispondenza degli elaborati del progetto
definitivo prescelto ai documenti di cui all’art. 93, commi
1 e 2, del d.lgs. n. 163/2006 e la loro conformità alla
normativa vigente.
L’asseverazione del progetto definitivo richiesto in gara è,
quindi, finalizzato all’accelerazione del procedimento di
validazione ex art. 47 D.P.R. 554/1999 che costituisce fase
necessaria e prodromica all’affidamento dei lavori, cui non
può prescindersi, atteso che il procedimento di D.I.A., cui
si riferisce l’appellante presuppone invece il già avvenuto
affidamento dei lavori; pertanto, la relativa disciplina
sull’asseverazione del progetto opera su di un piano
logico-temporale e regolamentare non sovrapponibile a quello
in esame.
In via generale,
peraltro, è noto che le verifiche che devono essere
effettuate su un progetto in gara devono, ovviamente,
rispondere ad uno specifico ed oggettivo interesse
dell’Amministrazione; in particolare, con riguardo al
progetto definitivo, non solo le verifiche devono riguardare
la documentazione espressamente stabilita all’art. 93, comma
4, del Codice, ma devono anche controllare che esso sia
stato redatto nel rispetto delle esigenze, dei vincoli,
degli indirizzi e delle indicazioni stabilite nel progetto
preliminare secondo le indicazioni fornite
dall’Amministrazione nell’esercizio della sua potestà
discrezionale.
La descritta clausola di cui all’art. 9, comma 7, del
capitolato speciale, relativamente all’asseveramento dei
progettisti sulla rispondenza del progetto al disposto di
cui all’art. 47 del D.P.R n, 554/1999, rientra a pieno titolo
in tale potestà discrezionale della stazione appaltante che
può prevedere negli atti di gara un onere documentale a
carico delle ditte concorrenti e a pena di esclusione
ulteriore rispetto alle disposizioni vigenti in materia,
purché detto onere sia ragionevole.
La suddetta prescrizione appare del tutto adeguata
all’effettivo controllo che ha inteso effettuare la stazione
appaltante.
Infatti, l’inosservanza delle prescrizioni del capitolato
speciale prestazionale in ordine alla documentazione
(asseverazione dei progettisti) da allegare all’offerta
tecnica (progetto definitivo), implica l’esclusione dalla
gara in quanto si tratta di prescrizione rispondente ad un
particolare interesse dell’Amministrazione appaltante:
speditezza dell’azione amministrativa e del buon
funzionamento dell’operato dell’apparato organizzativo
chiamato a verificare la rispondenza degli elaborati del
progetto definitivo prescelto ai documenti di cui all’art.
93, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 163/2006 e la loro conformità
alla normativa vigente.
Inoltre, con tale prescrizione la stazione appaltante ha
evidentemente inteso tutelarsi nei confronti degli autori
del progetto nell’eventualità in cui, nonostante il rilascio
della dichiarazione di asseverazione, dopo la conclusione
del procedimento amministrativo si renda necessario
apportare al progetto prescelto integrazioni,
perfezionamenti e miglioramenti, al fine di eliminare gli
errori o le omissioni della progettazione.
L’asseverazione del progetto definitivo richiesto in gara è,
quindi, finalizzato all’accelerazione del procedimento di
validazione ex art. 47 D.P.R. 554/1999 che costituisce fase
necessaria e prodromica all’affidamento dei lavori, cui non
può prescindersi, atteso che il procedimento di D.I.A., cui
si riferisce l’appellante presuppone invece il già avvenuto
affidamento dei lavori; pertanto, la relativa disciplina
sull’asseverazione del progetto opera su di un piano
logico-temporale e regolamentare non sovrapponibile a quello
in esame.
In sostanza, la validazione operata dalla stazione
appaltante e il controllo sul progetto definitivo effettuato
dal Comune nel procedimento di D.I.A., non possono essere
assimilati dato che presentano un diverso campo
d’applicazione
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 16.01.2013 n. 238 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
ristrutturazione è una categoria duale, in quanto contiene
al proprio interno una fattispecie pesante, parificata alla
nuova costruzione (v. art. 10, comma 1-c, del DPR 06.06.2001
n. 380), e una leggera, che riguarda gli interventi edilizi
meno impattanti, individuati per residualità e in definitiva
consistenti in opere sottoposte, se considerate
singolarmente, ad autorizzazione edilizia o a DIA semplice.
---------------
Sul piano edilizio bisogna precisare innanzitutto che nel
caso di difformità dalla concessione edilizia (o dal
permesso di costruire) l’abuso deve essere valutato come
opera a sé stante, immaginando la situazione abusiva come
un’autonoma edificazione senza titolo. Pertanto, opere che
se osservate ex ante si collegano ad altri interventi per
formare un insieme sistematico e come tali, configurando una
ristrutturazione pesante o una nuova costruzione,
richiederebbero la concessione edilizia (o il permesso di
costruire), se osservate ex post, ai fini dell’eventuale
regolarizzazione, devono essere considerate solo per la
consistenza della parte abusiva.
Nello specifico, la demolizione di una canna fumaria con
ricostruzione della stessa in altra posizione e con
differenti modalità costruttive è un intervento soggetto ad
autorizzazione (v. art. 7, comma 2-a, del DL 23.01.1982 n.
9) e poi a DIA semplice (v. art. 4, comma 7-f, del DL
05.10.1993 n. 398; art. 22, commi 1 e 2, del DPR 380/2001).
Questo inquadramento si fonda sull’assimilazione delle canne
fumarie ai volumi tecnici e sul collegamento funzionale tra
le canne fumarie e gli impianti tecnologici. Ne consegue che l’esecuzione
in difformità dalla concessione edilizia delle predette
opere costituisce abuso minore, non qualificabile come
variazione essenziale (v. art. 8, comma 2, della legge
47/1985; art. 32, comma 2, del DPR 380/2001), e dunque
ricadente nella disciplina sulla regolarizzazione di cui
all’art. 37 del DPR 380/2001.
---------------
L’art. 37 del DPR 380/2001 contempla due ipotesi principali:
la regolarizzazione in presenza di conformità urbanistica
(v. comma 4) e la regolarizzazione in assenza di conformità
urbanistica (v. comma 1). La diversità delle due ipotesi è
rimarcata dal differente sistema di calcolo della sanzione
pecuniaria. Al contrario di quanto avviene per gli abusi
maggiori, dove è comunque richiesta la conformità
urbanistica (v. art. 36 del DPR 380/2001), gli abusi minori
consentono quindi la sanatoria edilizia anche nel caso di
difformità urbanistica.
Nella vicenda in esame vi è in effetti contrasto con la
disciplina urbanistica, perché l’art. 3.4.43 del regolamento
locale di igiene (nel testo in vigore all’epoca dei fatti)
stabilisce che le canne fumarie devono superare di almeno 40
cm il colmo del tetto e prevede che in caso contrario siano
collocate ad almeno 8 metri dall’edificio più vicino.
In proposito si deve però osservare che il regolamento
locale di igiene ha una doppia funzione, in quanto integra
la disciplina urbanistica ma tutela interessi pubblici di
natura igienico-sanitaria (nel caso delle canne fumarie la
tutela pubblica ha come scopo la protezione dei cittadini
dalle emissioni moleste e inquinanti).
Dunque la norma può essere scissa in due componenti. Sul
piano edilizio il mancato rispetto dell’altezza del camino e
della distanza dall’edificio prossimo, riguardando volumi
tecnici e impianti tecnologici, è regolarizzabile mediante
la sanzione pecuniaria di cui all’art. 37, comma 1, del DPR
380/2001. La possibilità della regolarizzazione è però
subordinata alla concessione di una deroga sul piano
igienico-sanitario.
---------------
La preesistenza della canna fumaria può assumere rilievo ma
non è decisiva. In realtà, considerata la natura degli
interessi pubblici tutelati, la preesistenza non
garantirebbe la possibilità di utilizzare indefinitamente la
canna fumaria neppure nella configurazione originaria, e
quindi a maggior ragione non assicura il mantenimento
dell’opera modificata.
Tuttavia perché possa essere adottato un ordine di
demolizione occorre che il disturbo provocato ai vicini sia
intollerabile e non meramente presunto in base al mancato
rispetto della distanza minima. Il maggiore o minore grado
di tollerabilità delle emissioni della canna fumaria non
dipende solo dalla distanza ma anche dalla natura degli
inquinanti. Il grado di pericolosità dei fumi delle stufe a
legna è superiore a quello dei fumi degli impianti a metano,
e tra le stufe a legna occorre distinguere quelle
tradizionali e quelle più moderne ad alta efficienza e
dotate di filtri.
Ne consegue che la distanza massima dalle abitazioni vicine
deve essere applicata quando le canne fumarie siano
collegate a impianti a legna obsoleti e molto inquinanti,
mentre nelle altre ipotesi è possibile concedere delle
deroghe.
... per l'annullamento dell’ordinanza del responsabile del
procedimento n. 3 del 22.01.2002, con la quale è stato
intimato alla ricorrente di demolire entro 90 giorni la
canna fumaria e la cassonatura esterna posizionando il
comignolo a una distanza non inferiore a 8 metri dagli
edifici confinanti;
...
Sulle questioni sollevate nel ricorso si possono svolgere le
seguenti considerazioni:
Intervento edilizio complessivo e opere
abusive
(a) la ricorrente ha eseguito un insieme di lavori che sono
classificabili come ristrutturazione edilizia. Peraltro la
ristrutturazione è una categoria duale, in quanto contiene
al proprio interno una fattispecie pesante, parificata alla
nuova costruzione (v. art. 10, comma 1-c, del DPR 06.06.2001
n. 380), e una leggera, che riguarda gli interventi edilizi
meno impattanti, individuati per residualità e in definitiva
consistenti in opere sottoposte, se considerate
singolarmente, ad autorizzazione edilizia o a DIA semplice
(v. TAR Brescia Sez. II 24.08.2012 n. 1462; TAR Brescia Sez.
I 01.12.2009 n. 2379);
(b) nello specifico si tratta certamente di ristrutturazione
pesante, in quanto tra i lavori è presente il recupero del
sottotetto. Questo tipo di intervento amplia la superficie
lorda di pavimento e la volumetria abitabile del fabbricato
storico, e dunque determina automaticamente la creazione di
un organismo edilizio in parte diverso dal precedente. Le
altre opere hanno un rilievo minore ma sono sottoposte al
medesimo titolo edilizio (concessione edilizia, e in seguito
permesso di costruire) per il loro collegamento con
l’intervento principale;
(c) la parte abusiva dei lavori consiste nella
trasformazione (non evidenziata nel progetto) di una delle
canne fumarie preesistenti in un nuovo camino con
cassonatura esterna. Sulla preesistenza delle canne fumarie
possono essere accettate come prove idonee le dichiarazioni
di terzi prodotte dalla ricorrente. D’altra parte il Comune
nel provvedimento impugnato, pur dimostrando di conoscere le
suddette dichiarazioni, non ha espressamente controdedotto
circa la veridicità o l’attendibilità di quanto affermato;
(d) occorre a questo punto stabilire se si tratta di un
abuso formale (sanabile) o sostanziale (passibile di
remissione in pristino). La valutazione deve essere condotta
sia con riferimento alla disciplina edilizia sia con
riguardo alle norme igienico-sanitarie;
Qualificazione edilizia dell’opera abusiva
(e) sul piano edilizio bisogna precisare innanzitutto che
nel caso di difformità dalla concessione edilizia (o dal
permesso di costruire) l’abuso deve essere valutato come
opera a sé stante, immaginando la situazione abusiva come
un’autonoma edificazione senza titolo. Pertanto, opere che
se osservate ex ante si collegano ad altri interventi
per formare un insieme sistematico e come tali, configurando
una ristrutturazione pesante o una nuova costruzione,
richiederebbero la concessione edilizia (o il permesso di
costruire), se osservate ex post, ai fini
dell’eventuale regolarizzazione, devono essere considerate
solo per la consistenza della parte abusiva;
(f) nello specifico la demolizione di una canna fumaria con
ricostruzione della stessa in altra posizione e con
differenti modalità costruttive è un intervento soggetto ad
autorizzazione (v. art. 7, comma 2-a, del DL 23.01.1982 n.
9) e poi a DIA semplice (v. art. 4, comma 7-f, del DL
05.10.1993 n. 398; art. 22, commi 1 e 2, del DPR 380/2001).
Questo inquadramento si fonda sull’assimilazione delle canne
fumarie ai volumi tecnici e sul collegamento funzionale tra
le canne fumarie e gli impianti tecnologici (v. TAR Bari
Sez. III 30.10.2012 n. 1859). Ne consegue che l’esecuzione
in difformità dalla concessione edilizia delle predette
opere costituisce abuso minore, non qualificabile come
variazione essenziale (v. art. 8, comma 2, della legge
47/1985; art. 32, comma 2, del DPR 380/2001), e dunque
ricadente nella disciplina sulla regolarizzazione di cui
all’art. 37 del DPR 380/2001;
Sanabilità dell’abuso sotto il profilo
edilizio
(g) l’art. 37 del DPR 380/2001 contempla due ipotesi
principali: la regolarizzazione in presenza di conformità
urbanistica (v. comma 4) e la regolarizzazione in assenza di
conformità urbanistica (v. comma 1). La diversità delle due
ipotesi è rimarcata dal differente sistema di calcolo della
sanzione pecuniaria. Al contrario di quanto avviene per gli
abusi maggiori, dove è comunque richiesta la conformità
urbanistica (v. art. 36 del DPR 380/2001), gli abusi minori
consentono quindi la sanatoria edilizia anche nel caso di
difformità urbanistica;
(h) nella vicenda in esame vi è in effetti contrasto con la
disciplina urbanistica, perché l’art. 3.4.43 del regolamento
locale di igiene (nel testo in vigore all’epoca dei fatti)
stabilisce che le canne fumarie devono superare di almeno 40
cm il colmo del tetto e prevede che in caso contrario siano
collocate ad almeno 8 metri dall’edificio più vicino;
(i) in proposito si deve però osservare che il regolamento
locale di igiene ha una doppia funzione, in quanto integra
la disciplina urbanistica ma tutela interessi pubblici di
natura igienico-sanitaria (nel caso delle canne fumarie la
tutela pubblica ha come scopo la protezione dei cittadini
dalle emissioni moleste e inquinanti);
(j) dunque la norma può essere scissa in due componenti. Sul
piano edilizio il mancato rispetto dell’altezza del camino e
della distanza dall’edificio prossimo, riguardando volumi
tecnici e impianti tecnologici, è regolarizzabile mediante
la sanzione pecuniaria di cui all’art. 37, comma 1, del DPR
380/2001. La possibilità della regolarizzazione è però
subordinata alla concessione di una deroga sul piano
igienico-sanitario;
Derogabilità della disciplina del
regolamento locale di igiene
(k) sotto quest’ultimo profilo occorre affrontare il
problema del fastidio provocato ai vicini. Al riguardo si
osserva che la preesistenza della canna fumaria può assumere
rilievo ma non è decisiva. In realtà, considerata la natura
degli interessi pubblici tutelati, la preesistenza non
garantirebbe la possibilità di utilizzare indefinitamente la
canna fumaria neppure nella configurazione originaria, e
quindi a maggior ragione non assicura il mantenimento
dell’opera modificata.
Tuttavia perché possa essere adottato un ordine di
demolizione occorre che il disturbo provocato ai vicini sia
intollerabile e non meramente presunto in base al mancato
rispetto della distanza minima. Il maggiore o minore grado
di tollerabilità delle emissioni della canna fumaria non
dipende solo dalla distanza ma anche dalla natura degli
inquinanti. Il grado di pericolosità dei fumi delle stufe a
legna è superiore a quello dei fumi degli impianti a metano,
e tra le stufe a legna occorre distinguere quelle
tradizionali e quelle più moderne ad alta efficienza e
dotate di filtri. Ne consegue che la distanza massima dalle
abitazioni vicine deve essere applicata quando le canne
fumarie siano collegate a impianti a legna obsoleti e molto
inquinanti, mentre nelle altre ipotesi è possibile concedere
delle deroghe;
(l) come si è visto sopra, nel caso in esame l’impianto
collegato alla canna fumaria è alimentato a metano. Vi è
stato quindi un netto miglioramento rispetto alla situazione
precedente, quando sia la canna fumaria oggetto dell’abuso
edilizio sia quella posta nelle vicinanze servivano stufe
alimentate a legna. Sembra quindi che sia stato raggiunto un
punto di equilibrio: la canna fumaria può rimanere al suo
posto purché sia collegata esclusivamente a impianti che
producono fumi poco inquinanti e non particolarmente
molesti;
(m) è possibile che la ristrutturazione dell’edificio e il
recupero del sottotetto come volume abitabile aumentino
l’utilizzo della canna fumaria in questione e delle altre
poste a distanza insufficiente. Questa eventualità non
interferisce tuttavia con la deroga alla distanza necessaria
per la sanatoria edilizia. Se in conseguenza del maggiore
utilizzo delle canne fumarie si determinasse un notevole
incremento del disturbo a danno dei vicini il Comune
disporrebbe comunque del potere di ingiungere alla
ricorrente l’adozione di impianti di riscaldamento
tecnologicamente più avanzati e meno inquinanti;
(n) in ogni caso, poiché la regolarizzazione dell’abuso
edilizio è condizionata al contenimento dei fumi molesti, la
ricorrente è tenuta a evidenziare anticipatamente al Comune
ogni modifica negli impianti collegati alla canna fumaria in
questione, per dare modo agli uffici di verificare se la
situazione di disagio per le abitazioni vicine sia destinata
ad aggravarsi;
Conclusioni
(o) il ricorso deve quindi essere accolto, con il
conseguente annullamento dell’ordinanza impugnata. Per
l’effetto conformativo derivante dalla presente pronuncia il
Comune non può negare la regolarizzazione della canna
fumaria e della relativa cassonatura sotto il profilo
edilizio, ma conserva il potere di adottare provvedimenti di
natura igienico-sanitaria, come si è visto sopra;
(p) tenendo conto della particolarità della vicenda e
dell’intreccio di profili edilizi e igienico-sanitari è
possibile disporre la compensazione delle spese di giudizio
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 16.01.2013 n. 37 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Sussiste
l’onere di immediata impugnazione del bando di gara o della
lettera di invito solo per quelle prescrizioni che
impediscono “in limine” la partecipazione alla procedura di
determinati soggetti, e che non richiedono alcuna
significativa attività interpretativa, fissando i requisiti
di partecipazione alla procedura selettiva “con prescrizioni
inequivoche”.
La decisione dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
29/01/2003 n. 1 ha ritenuto esservi un onere di immediata
impugnazione:
a) delle clausole del bando che, imponendo requisiti
soggettivi di ammissione non posseduti dal concorrente, gli
impediscono in via immediata e diretta la partecipazione;
b) delle clausole del bando in quei limitati casi in cui gli
oneri imposti all'interessato ai fini della partecipazione
risultino manifestamente incomprensibili o implicanti oneri
per la partecipazione del tutto sproporzionati per eccesso
rispetto ai contenuti della gara o della procedura
concorsuale.
In tutti gli altri casi le clausole del bando e degli altri
documenti di gara vanno impugnate unitamente agli atti della
procedura concretamente ed immediatamente lesivi.
---------------
L’art. 83, comma 4, del D.Lgs. 12/04/2006 n. 163, nello
stabilire che il bando di gara, per ciascun criterio di
valutazione prescelto, può prevedere (ove necessario)
sub-criteri e sub-pesi o sub-punteggi, ha effettuato una
scelta che trova giustificazione nell'esigenza di ridurre
gli apprezzamenti soggettivi della commissione giudicatrice,
garantendo in tale modo l'imparzialità delle valutazioni
nell’essenziale tutela della par condicio tra i concorrenti,
i quali sono tutti messi in condizione di formulare
un'offerta che consenta di concorrere effettivamente
all’aggiudicazione del contratto in gara.
E’ stato anche ripetutamente affermato che –quanto alla
valutazione delle offerte da parte della commissione di
gara– l’attribuzione dei punteggi in forma soltanto numerica
è accettabile soltanto in presenza di parametri di
valutazione (con sotto-voci e relativi punteggi)
sufficientemente analitici, tali da ridurre gli spazi di
discrezionalità tecnica rimessi all’organo collegiale, con
la delimitazione del giudizio tra un minimo ed un massimo
entro cui effettuare la graduazione dei punteggi in
conformità ai criteri. Diversamente, l’obbligo motivazionale
dovrà essere assolto attraverso i tradizionali canoni di
esternazione mediante i verbali, per cui è necessario che,
oltre al punteggio numerico, sia espresso un giudizio
motivato con il quale la commissione espliciti le ragioni
del punteggio attribuito.
I principi generali, anche di matrice comunitaria, di
uguaglianza e trasparenza dell’azione amministrativa esigono
in buona sostanza di definire preventivamente le modalità di
valutazione delle offerte e di garantire –ex post– la
leggibilità delle decisioni adottate dalla stazione
appaltante, e quindi la controllabilità della sua attività
ai sensi degli artt. 24 e 113 della Costituzione.
Sussiste l’onere di immediata impugnazione
del bando di gara o della lettera di invito solo per quelle
prescrizioni che impediscono “in limine” la partecipazione
alla procedura di determinati soggetti, e che non richiedono
alcuna significativa attività interpretativa, fissando i
requisiti di partecipazione alla procedura selettiva “con
prescrizioni inequivoche” (TAR Lombardia Milano, sez. IV
– 21/11/2012 n. 2828). La decisione dell’Adunanza plenaria
del Consiglio di Stato 29/01/2003 n. 1 ha ritenuto esservi un
onere di immediata impugnazione:
a) delle clausole del bando che, imponendo requisiti
soggettivi di ammissione non posseduti dal concorrente, gli
impediscono in via immediata e diretta la partecipazione;
b) delle clausole del bando in quei limitati casi in cui gli
oneri imposti all'interessato ai fini della partecipazione
risultino manifestamente incomprensibili o implicanti oneri
per la partecipazione del tutto sproporzionati per eccesso
rispetto ai contenuti della gara o della procedura
concorsuale (Consiglio di Stato, sez. VI – 14/11/2012 n.
5748).
In tutti gli altri casi le clausole del bando e degli altri
documenti di gara vanno impugnate unitamente agli atti della
procedura concretamente ed immediatamente lesivi (cfr. ex plurimis Consiglio di Stato, sez. V –
06/06/2012 n. 3344).
Nel caso esaminato il ricorso introduttivo è stato
tempestivamente proposto nei confronti dell’esclusione dalla
gara, mentre con la disposta riammissione i connotati dei
parametri di valutazione, le modalità di assegnazione dei
punteggi e di nomina della Commissione hanno assunto una
valenza pregiudizievole soltanto in seguito alla disposta
aggiudicazione a favore della vincitrice.
Il profilo afferente alla violazione dell’art. 83 del D. Lgs. 163/2006, dell’art. 283 del D.P.R. 207/2010 e del
principio di trasparenza, e all’eccesso di potere per
indeterminatezza, difetto dei presupposti e di istruttoria è
fondato.
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale (cfr.
per tutte Consiglio di Stato, sez. V – 12/06/2012 n. 3445),
l’art. 83, comma 4, del D.Lgs. 12/04/2006 n. 163, nello
stabilire che il bando di gara, per ciascun criterio di
valutazione prescelto, può prevedere (ove necessario)
sub-criteri e sub-pesi o sub-punteggi, ha effettuato una
scelta che trova giustificazione nell'esigenza di ridurre
gli apprezzamenti soggettivi della commissione giudicatrice,
garantendo in tale modo l'imparzialità delle valutazioni
nell’essenziale tutela della par condicio tra i concorrenti,
i quali sono tutti messi in condizione di formulare
un'offerta che consenta di concorrere effettivamente
all’aggiudicazione del contratto in gara.
E’ stato anche
ripetutamente affermato che –quanto alla valutazione delle
offerte da parte della commissione di gara– l’attribuzione
dei punteggi in forma soltanto numerica è accettabile
soltanto in presenza di parametri di valutazione (con
sotto-voci e relativi punteggi) sufficientemente analitici,
tali da ridurre gli spazi di discrezionalità tecnica rimessi
all’organo collegiale, con la delimitazione del giudizio tra
un minimo ed un massimo entro cui effettuare la graduazione
dei punteggi in conformità ai criteri. Diversamente,
l’obbligo motivazionale dovrà essere assolto attraverso i
tradizionali canoni di esternazione mediante i verbali, per
cui è necessario che, oltre al punteggio numerico, sia
espresso un giudizio motivato con il quale la commissione
espliciti le ragioni del punteggio attribuito (Consiglio di
Stato, sez. VI – 08/03/2012 n. 1332).
I principi generali, anche di matrice comunitaria, di
uguaglianza e trasparenza dell’azione amministrativa esigono
in buona sostanza di definire preventivamente le modalità di
valutazione delle offerte e di garantire –ex post– la
leggibilità delle decisioni adottate dalla stazione
appaltante, e quindi la controllabilità della sua attività
ai sensi degli artt. 24 e 113 della Costituzione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 16.01.2013 n. 36 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Discariche,
il cittadino dice la sua.
Diritto del cittadino di partecipare alle procedure di
autorizzazione dei progetti aventi un notevole impatto
sull'ambiente nella specie costruzione di una discarica. E
la tutela del segreto commerciale non può essere utilizzata
per rifiutare l'accesso alle informazioni ambientali.
Questo il tracciato giurisprudenziale previsto dalla Corte
di giustizia dell'Ue con la
sentenza 15.01.2013 n. C-416/10.
Il fatto: nel Comune di Pezinok in Slovacchia veniva
previsto l'insediamento di una discarica di rifiuti in una
cava di terra per mattoni. L'ufficio urbanistico di
Bratislava (Slovacchia) autorizzava l'insediamento della
discarica. I cittadini eccepivano in sede giudiziaria
l'illegittimità delle decisioni dell'amministrazione che
aveva autorizzato la costruzione e la gestione della
discarica.
In particolare gli interessati evidenziavano
l'errore di diritto derivante dal fatto che la procedura di
autorizzazione integrata era stata avviata senza disporre
della decisione di assenso urbanistico-edilizio
all'insediamento della discarica, e che tale decisione era
stata depositata, senza pubblicazione della stessa, per il
fatto che avrebbe costituito un segreto commerciale. I
cittadini interessati si sono rivolti ai giudici slovacchi e
la Corte suprema di cassazione della repubblica slovacca ha
chiesto alla Corte di giustizia europea di illustrare la
portata del diritto del pubblico di partecipare alle
procedure di autorizzazione dei progetti aventi un notevole
impatto sull'ambiente.
La Corte di giustizia Ue afferma che l'art. 17 della
direttiva 96/61/CE, esige che «il pubblico interessato
abbia accesso a una decisione di assenso urbanistico
edilizio sin dall'inizio del procedimento di autorizzazione
dell'impianto di cui trattasi». E «non consente alle
autorità nazionali competenti di rifiutare al pubblico
interessato l'accesso alla decisione adducendo la tutela
della riservatezza delle informazioni commerciali o
industriali prevista dal diritto nazionale o dell'Unione al
fine di proteggere un legittimo interesse economico»
(articolo ItaliaOggi del 18.01.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L'illegittimità del
provvedimento impugnato è condizione necessaria per
accordare il risarcimento richiesto; con la conseguenza che
la reiezione della parte impugnatoria del gravame impedisce
che il danno stesso possa essere considerato ingiusto o
illecita la condotta tenuta dall'Amministrazione.
Quanto alla richiesta di risarcimento danni, formulata nell’assunto che
gli atti ed i comportamenti delle Amministrazioni resistenti
avevano arrecato un ingente danno alla appellante, sia per
mancato guadagno che per perdita degli incentivi e del
requisito curriculare, come da consulenza tecnica di parte
prodotta, la Sezione non può prestare ad essa assenso.
Invero l'infondatezza nel merito del ricorso comporta il
rigetto della domanda di risarcimento del danno atteso che
l'illegittimità del provvedimento impugnato è condizione
necessaria per accordare il risarcimento richiesto
(Consiglio di Stato, Sezione V, 14.02.2011, n. 965);
con la conseguenza che la reiezione della parte impugnatoria
del gravame impedisce che il danno stesso possa essere
considerato ingiusto o illecita la condotta tenuta
dall'Amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 15.01.2013 n. 176 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: In
forza di tali nozioni (cioè quelle di mero servizio e
servizio pubblico, n.d.r.) non vi è dubbio che il servizio
di pubblica illuminazione debba essere considerato servizio
pubblico, poiché dell'erogazione dello stesso, da parte
dell'appaltatore, beneficia direttamente ed esclusivamente
la collettività (o il singolo utente) senza alcuna
intermediazione del Comune nello svolgimento del processo
produttivo.
Ciò chiarito, al fine di verificare la
fondatezza della tesi sostenuta da parte ricorrente, si
rende, dunque, preliminarmente necessario accertare se il
servizio di illuminazione pubblica possa essere considerato
un servizio pubblico locale ovvero un semplice servizio di
cui l’ente locale appalta la fornitura per poter espletare
la propria attività.
Sul punto il Collegio ritiene di poter condividere la tesi
già affermata da questo Tribunale (cfr la sentenza TAR
Brescia 27.12.2007, n. 1373), secondo cui: “In forza
di tali nozioni (cioè quelle di mero servizio e servizio
pubblico, n.d.r.) non vi è dubbio che il servizio di
pubblica illuminazione debba essere considerato servizio
pubblico, poiché dell'erogazione dello stesso, da parte
dell'appaltatore, beneficia direttamente ed esclusivamente
la collettività (o il singolo utente) senza alcuna
intermediazione del Comune nello svolgimento del processo
produttivo”
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 15.01.2013 n. 30 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’annullamento
d’ufficio è un atto discrezionale da assumere entro un
termine ragionevole e solo dopo un attento bilanciamento di
tutti gli interessi pubblici e privati coinvolti. Occorre
tuttavia precisare che in giurisprudenza sono stati
individuate anche delle fattispecie nelle quali la
discrezionalità si azzera e l’annullamento diventa doveroso.
In particolare questo avviene in due casi:
(1) quando il destinatario abbia ottenuto il titolo edilizio
inducendo in errore l’amministrazione attraverso una falsa
rappresentazione della realtà, non necessariamente operando
con dolo (v. CS Sez. IV 12.03.2007 n. 1189, giudizio
riguardante un annullamento d’ufficio sopraggiunto a 10 anni
dal provvedimento illegittimo);
(2) quando la conservazione del provvedimento illegittimo
sia “semplicemente insopportabile” per l’evidente
insufficienza dell’affidamento del destinatario rispetto al
danno subito dall’amministrazione o da altri soggetti.
Sulle questioni sollevate dalle parti si possono
svolgere le seguenti considerazioni:
(a) per quanto riguarda la tempestività dell’ordinanza di
inibizione, in effetti risultano agli atti due copie della
DIA, entrambe con il timbro degli uffici comunali: una
riporta la data di ricezione del 21.09.2002 e l’altra
la data del 24.09.2002. Il motivo del doppio deposito
non è chiaro, tuttavia sembra necessario fare riferimento
alla prima data, in quanto il Comune non ha evidenziato
modifiche sostanziali nel progetto;
(b) peraltro, anche considerando fuori termine l’ordinanza
di inibizione adottata il 12.10.2002, non è possibile
considerare acquisiti i diritti edificatori in capo ai
ricorrenti. In realtà occorre distinguere tra vizi formali e
vizi sostanziali della DIA. Se il decorso del termine rende
inattaccabili i primi, e consolida quindi sotto questo
profilo la posizione dei soggetti proponenti, la presenza di
vizi sostanziali non cancella il potere di autotutela, sia a
favore dell’interesse pubblico (destinazione urbanistica,
indici edilizi, distanze), sia a garanzia dei privati
(diritti dei terzi incompatibili con l’edificazione);
(c) l’autotutela deve essere esercitata nel rispetto dei
principi posti dall’art. 21-nonies della legge 07.08.1990
n. 241, ossia valutando adeguatamente l’ampiezza del tempo
trascorso, l’attualità dell’interesse pubblico, e il
contenuto degli interessi privati dei destinatari e dei controinteressati;
(d) in sintesi l’annullamento d’ufficio è un atto
discrezionale da assumere entro un termine ragionevole e
solo dopo un attento bilanciamento di tutti gli interessi
pubblici e privati coinvolti. Occorre tuttavia precisare che
in giurisprudenza sono stati individuate anche delle
fattispecie nelle quali la discrezionalità si azzera e
l’annullamento diventa doveroso (v. TAR Brescia Sez. I 14.05.2010 n. 1733).
In particolare questo avviene in due
casi: (1) quando il destinatario abbia ottenuto il titolo
edilizio inducendo in errore l’amministrazione attraverso
una falsa rappresentazione della realtà, non necessariamente
operando con dolo (v. CS Sez. IV 12.03.2007 n. 1189,
giudizio riguardante un annullamento d’ufficio sopraggiunto
a 10 anni dal provvedimento illegittimo); (2) quando la
conservazione del provvedimento illegittimo sia
“semplicemente insopportabile” per l’evidente insufficienza
dell’affidamento del destinatario rispetto al danno subito
dall’amministrazione o da altri soggetti (v. TRGA Trento 16.12.2009 n. 305, giudizio che si pone specificamente
nella prospettiva della tutela del terzo);
(e) tornando alla vicenda in esame e applicando i parametri
sopra esposti si può osservare che: (1) il tempo trascorso
oltre i venti giorni previsti dall’art. 4, commi 11 e 15, del DL 398/1993 è minimo; (2) i vicini hanno dettagliatamente
evidenziato al Comune i pregiudizi derivanti dalla
recinzione della proprietà dei ricorrenti e dallo
spostamento del percorso delle servitù di passo pedonale;
(3) l’esistenza di diritti di terzi incompatibili con
l’edificazione appare quindi sufficientemente dimostrata,
almeno sul piano amministrativo, e permette di ritenere che
dall’emissione o dalla conservazione di un titolo edilizio
avrebbe origine una situazione intollerabile per i vicini;
(4) a questo punto la contrapposizione tra i soggetti
privati può essere superata soltanto con un accordo delle
parti sulla larghezza e sull’esatta collocazione del
percorso delle servitù di passo pedonale, o in alternativa
con una pronuncia del giudice ordinario (in eventuali
giudizi di usucapione, vindicatio servitutis, oppure
negatoria servitutis);
(f) risulta pertanto corretta la decisione del Comune di
impedire gli interventi edilizi in grado di interferire nei
rapporti privatistici finché la situazione non venga
chiarita come sopra indicato. Non vi sono invece ostacoli
all’autorizzazione delle opere che non possono arrecare
pregiudizio ai diritti dei terzi, ma al riguardo è
necessaria una preventiva riformulazione del progetto da
parte dei ricorrenti.
In conclusione il ricorso deve essere respinto. La
particolarità di alcune questioni consente l’integrale
compensazione delle spese di giudizio
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 15.01.2013 n. 18 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
I piani di lottizzazione, pur essendo assimilati
sul piano funzionale ai piani particolareggiati di cui
all’art. 16 della L. 17.08.1942 n. 1150, hanno natura
negoziale, ossia -in particolare- di “accordi sostitutivi
del provvedimento”, con la conseguenza che le relative
convenzioni e gli atti ad esse prodromici sono assoggettati
alla disciplina dettata dall’art. 11 della L. 07.08.1990 n.
241; e, in particolare, da ciò discende che ogni
controversia riguardante la validità della clausola di una
convenzione urbanistica rientrava all’epoca dei fatti di
causa, a’ sensi del comma 5 del medesimo art. 11 (e rientra,
ad oggi, a’ sensi dell’attualmente vigente art. 133, comma
1, lett. a, n. 2 cod. proc. amm.) nella giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo, notoriamente
contraddistinta da una cognizione piena ed estesa quindi
anche ai diritti mediante la proposizione di un’azione anche
indipendentemente dall’impugnazione di singoli atti
amministrativi connessi al rapporto controverso: azione che
pertanto non ha carattere impugnatorio e non soggiace a
termini di decadenza.
L’approvazione di un piano di lottizzazione e del relativo
schema di convenzione non impedisce all’amministrazione
Comunale di rifiutare la stipula della convenzione, essendo
l’amministrazione medesima legittimata a rivedere le proprie
determinazioni pianificatorie sulla medesima area e quindi,
ove del caso, di decidere anche di non stipulare più la
convenzione di lottizzazione.
Va innanzitutto rimarcato che i piani di lottizzazione, pur essendo
assimilati sul piano funzionale ai piani particolareggiati
di cui all’art. 16 della L. 17.08.1942 n. 1150, hanno
natura negoziale, ossia -in particolare- di “accordi
sostitutivi del provvedimento” (cfr., ad es., Cons. Stato,
Sez. IV, 15.09.2003 n. 5152 e 19.02.2008 n.
534), con la conseguenza che le relative convenzioni e gli
atti ad esse prodromici sono assoggettati alla disciplina
dettata dall’art. 11 della L. 07.08.1990 n. 241 (cfr. in
particolare Cons. Stato, Sez., IV, 13.01.2005 n. 222);
e, in particolare, da ciò discende che ogni controversia
riguardante la validità della clausola di una convenzione
urbanistica rientrava all’epoca dei fatti di causa, a’ sensi
del comma 5 del medesimo art. 11 (e rientra, ad oggi, a’
sensi dell’attualmente vigente art. 133, comma 1, lett. a,
n. 2 cod. proc. amm.) nella giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo, notoriamente contraddistinta da una
cognizione piena ed estesa quindi anche ai diritti mediante
la proposizione di un’azione anche indipendentemente
dall’impugnazione di singoli atti amministrativi connessi al
rapporto controverso: azione che pertanto non ha carattere
impugnatorio e non soggiace a termini di decadenza.
Del resto, risulta altrettanto assodato che l’approvazione
di un piano di lottizzazione e del relativo schema di
convenzione non impedisce all’amministrazione Comunale di
rifiutare la stipula della convenzione, essendo
l’amministrazione medesima legittimata a rivedere le proprie
determinazioni pianificatorie sulla medesima area e quindi,
ove del caso, di decidere anche di non stipulare più la
convenzione di lottizzazione (cfr. al riguardo, ad es.,
Cons. Stato, Sez. V, 12.04.2001 n. 2284) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.01.2013 n. 159 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L’impugnazione dell’atto
presupposto, di per sé lesivo dell’interesse del soggetto
leso, consente di soprassedere alla susseguente impugnazione
dell’atto consequenziale, ma soltanto nell’ipotesi in cui
l’eventuale annullamento del primo atto sia in grado di
determinare l’automatica caducazione del secondo, ossia
soltanto se l’atto successivo abbia carattere meramente
esecutivo dell’atto presupposto, ovvero faccia parte di una
sequenza procedimentale che lo pone in rapporto di immediata
derivazione dall’atto precedente (ad es., per questa seconda
ipotesi, l’annullamento del provvedimento di adozione di uno
strumento di pianificazione che determina anche la
caducazione del provvedimento di approvazione dello
strumento medesimo).
Come è ben noto, infatti, l’impugnazione dell’atto
presupposto, di per sé lesivo dell’interesse del soggetto
leso, consente di soprassedere alla susseguente impugnazione
dell’atto consequenziale, ma soltanto nell’ipotesi in cui
l’eventuale annullamento del primo atto sia in grado di
determinare l’automatica caducazione del secondo, ossia
soltanto se l’atto successivo abbia carattere meramente
esecutivo dell’atto presupposto, ovvero faccia parte di una
sequenza procedimentale che lo pone in rapporto di immediata
derivazione dall’atto precedente (ad es., per questa seconda
ipotesi, l’annullamento del provvedimento di adozione di uno
strumento di pianificazione che determina anche la
caducazione del provvedimento di approvazione dello
strumento medesimo: cfr. sul punto, ex plurimis, Cons.
Stato, Sez. IV, 06.05.2003 n. 2386).
Nella specie, non si è viceversa verificata una tale
situazione, dal momento che il c.d. atto consequenziale è
dotato di una sua precisa autonomia in grado di realizzare
il definitivo trasferimento del titolo proprietario mediante
una rivalutazione del pubblico interesse all’apprensione del
bene (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 27.03.2009 n. 1869 e 30.01.2006 n. 2693, nonché Sez.
III, 03.11.2009 n. 2797, tutte segnatamente riguardanti
il procedimento ablatorio).
In dipendenza di tutto ciò, quindi, l’indennità di
espropriazione fissata dal provvedimento di esproprio n. 367
dd. 13.04.2000, divenuto inoppugnabile per omessa
proposizione di ricorso in sede straordinaria o innanzi al
giudice amministrativo, va reputata necessariamente idonea
al fine del ristoro dell’interesse degli attuali appellati,
salva restando l’impugnazione del relativo ammontare innanzi
al giudice ordinario entro i termini dovuti; mentre, per
quanto attiene all’occupazione d’urgenza dei medesimi
terreni, la caducazione del relativo provvedimento abilitava
gli interessati a proporre al riguardo apposita domanda
risarcitoria nel primo grado di giudizio entro il termine
quinquennale all’epoca vigente (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.01.2013 n. 157 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Una interpretazione
-costituzionalmente orientata e coerente con le norme di
legge- della clausola del bando, che consente alla Pubblica
amministrazione “la facoltà di annullare la gara senza che
le partecipanti possano avanzare richiesta per eventuali
rimborsi, compensi o indennizzi a qualsiasi titolo",
comporta che i soli “indennizzi” esclusi in via preventiva
sono quelli che non presuppongono responsabilità della
Pubblica Amministrazione, non essendo al contrario
ammissibile una limitazione preventiva della responsabilità
per illecito della P.A..
Come è infatti noto (e come sarà meglio di seguito esposto), sia il
provvedimento di revoca (ex art. 21-quinquies l. n.
241/1990), sia il provvedimento di annullamento di ufficio
(ex art. 1, co. 136, l. n. 311/2004), prevedono forme di
indennizzo dei soggetti direttamente interessati.
L’obbligo di indennizzo gravante sulla Pubblica
Amministrazione non presuppone elementi di responsabilità
della stessa, ma si fonda su valori puramente equitativi
presi in considerazione dal legislatore, onde consentire il
giusto bilanciamento tra il perseguimento dell’interesse
pubblico attuale da parte dell’amministrazione e la sfera
patrimoniale del destinatario (incolpevole) dell’atto di
revoca o di annullamento, al quale non possono essere
addossati integralmente i conseguenti sacrifici.
Orbene, se tale forma di indennizzo, pur prevista dalla
legge, può essere esclusa da un atto della pubblica
amministrazione (nel caso di specie, dal bando di gara), con
il quale si richiede, in sostanza, al privato un atto
unilaterale abdicativo di un diritto patrimoniale (e quindi
disponibile), e ciò proprio in quanto l’attribuzione
dell’indennizzo non dipende da responsabilità
dell’amministrazione stessa; al contrario la pubblica
amministrazione non può adottare atti ovvero pretendere dal
privato, in via preliminare e quale condizione di
partecipazione ad un procedimento amministrativo volto alla
individuazione di un (futuro) contraente, un atto abdicativo
del diritto alla tutela giurisdizionale avverso atti e/o
comportamenti (anche futuri) della stessa pubblica
amministrazione illegittimi o illeciti, (eventualmente)
causativi di danno e quindi di responsabilità per il suo
risarcimento.
Tale clausola –lungi dal giustificarsi sostenendo che la
stessa è, in definitiva, riferita a diritti patrimoniali
disponibili– nella misura in cui esclude in via preventiva
la responsabilità della P.A. per illecito, si risolve in una
limitazione della responsabilità della Pubblica
Amministrazione contra legem (argomentando ex art. 1229 cod.
civ.), ed in violazione degli artt. 28 e 97 Cost..
Alla luce di quanto esposto, deve affermarsi che una
interpretazione -costituzionalmente orientata e coerente
con le norme di legge innanzi evocate- della clausola del
bando, che consente alla Pubblica amministrazione “la
facoltà di annullare la gara senza che le partecipanti
possano avanzare richiesta per eventuali rimborsi, compensi
o indennizzi a qualsiasi titolo", comporta che i soli
“indennizzi” esclusi in via preventiva sono quelli che non
presuppongono responsabilità della Pubblica Amministrazione,
non essendo al contrario ammissibile una limitazione
preventiva della responsabilità per illecito della P.A.
Nel caso di specie, quindi, non è la natura dell’atto
(revoca e non annullamento) ad escludere il diritto alla
tutela giurisdizionale dei partecipanti alla gara, onde far
accertare dal giudice la eventuale responsabilità
dell’amministrazione (in ciò concordando con
l’amministrazione appellante che estende l’interpretazione
della clausola a tutti gli atti adottati in esercizio del
potere di autotutela).
Ciò che rende ammissibile la domanda di accertamento della
responsabilità della P.A. (e, se del caso, di conseguente
condanna della medesima al risarcimento del danno) è la
irriferibilità della clausola medesima alle ipotesi in cui
si controverte, appunto, di responsabilità della P.A., nei
sensi innanzi chiariti (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.01.2013 n. 156 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nel caso di responsabilità precontrattuale della
pubblica amministrazione, la misura del risarcimento
comprende anche il danno curriculare.
L’intervenuta stipulazione di un contratto di appalto non
costituisce circostanza preclusiva all’esercizio del potere
di annullamento di ufficio; pertanto, è ben possibile
l’esercizio di potere di autotutela sugli atti di gara,
nonostante la (eventuale) adozione di un atto di
aggiudicazione provvisoria ed anche in presenza di contratto
stipulato.
Lo evidenzia il Consiglio di Stato, IV Sez., con la
sentenza 14.01.2013 n. 156.
Il Collegio, poi, rileva che, secondo un orientamento
affermato in giurisprudenza, il danno risarcibile a titolo
di responsabilità precontrattuale da parte della P.A. a
seguito della mancata stipula dal contratto, debba
intendersi limitato:
a) al rimborso dalle spese inutilmente sopportate nel corso
delle trattative svolte in vista della conclusione del
contratto (danno emergente);
b) al ristoro della perdita, se adeguatamente provata, di
ulteriori occasioni di stipulazione con altri di contratti
altrettanto o maggiormente vantaggiosi, impedite proprio
dalle trattative indebitamente interrotte (lucro cessante),
con esclusione del mancato guadagno che sarebbe stato
realizzato con la stipulazione e l'esecuzione del contratto
A tali voci, ritiene il Collegio che possa essere aggiunto
il cd. “danno curriculare”, cioè quel danno
consistente nell’impossibilità di far valere, nelle future
contrattazioni, il requisito economico pari al valore
dell’appalto non eseguito.
Ciò nei casi in cui la responsabilità precontrattuale della
P.A. non si configura con riferimento ad una interruzione
delle trattative, che determina la mancata stipula del
contratto, intervenuta in un generico momento delle stesse,
bensì laddove si era già addivenuti alla sicura
individuazione del contraente, a maggior ragione se per il
tramite dell’aggiudicazione definitiva ed in presenza di un
contenuto contrattuale già compiutamente definito, per il
tramite del bando di gara e dell’offerta aggiudicataria
(commento tratto da www.diritto.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Non basta affermare il
mero difetto di custodia dei plichi per concludere
l’illegittimità della procedura, servendo piuttosto un serio
e non emulativo principio di prova da cui dedurre, con
ragionevole probabilità, come l’imprecisione nelle modalità
della loro conservazione sia causa di sottrazione o di
manomissione dei plichi stessi.
Né al riguardo occorre che il seggio di gara, nell’incipit
del verbale di ciascuna seduta, ribadisca che i plichi siano
ben custoditi o, alla fine, impartisca la medesima regola di
conservazione già posta all’inizio, stante l’inutilità
d’entrambe le precisazioni che si danno invece per
implicite, ove la situazione di fatto non si scopra alterata
o non venga modificata.
Parimenti da respingere è la censura con cui l’appellante si duole della
sentenza che, a suo dire, avrebbe errato nel non tener in
considerazione le sue osservazioni sulla non corretta
conservazione e custodia dei plichi contenenti l’offerta.
Prescindendo da ogni considerazione sull’ammissibilità di
detta censura, consta in atti che il seggio di gara, fin
dalla sua prima seduta, diede disposizioni al RUP per la
conservazione dei plichi stessi presso il di lui ufficio e
sotto la di lui responsabilità. L’integrità dei plichi fu
fatta verificare dal seggio di gara, nella seduta del
02.12.2011 e prima della loro apertura, ai rappresentanti
delle imprese, compresi il direttore degli affari legali e
l’amministratore unico della Società appellante, procedendo
quindi alla lettura delle offerte economiche.
D’altro canto, non basta affermare il mero difetto di
custodia dei plichi per concludere l’illegittimità della
procedura, servendo piuttosto un serio e non emulativo
principio di prova da cui dedurre, con ragionevole
probabilità, come l’imprecisione nelle modalità della loro
conservazione sia causa di sottrazione o di manomissione dei
plichi stessi. Né al riguardo occorre che il seggio di gara,
nell’incipit del verbale di ciascuna seduta,
ribadisca che i plichi siano ben custoditi o, alla fine,
impartisca la medesima regola di conservazione già posta
all’inizio, stante l’inutilità d’entrambe le precisazioni
che si danno invece per implicite, ove la situazione di
fatto non si scopra alterata o non venga modificata (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 14.01.2013 n. 148 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: I
fatti sopravvenuti che possono legittimare la proroga del
termine di inizio o completamento dei lavori ai sensi
dell'art. 15, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001, non hanno un
rilievo automatico, ma possono costituire oggetto di
valutazione e di verifica in sede amministrativa qualora
l'interessato proponga un'apposita domanda di proroga.
Con ulteriore censura i ricorrenti si dolgono
dell’eccesso di potere per contraddittorietà con precedenti
atti e travisamento, dato che l’opera abusiva è collegata
alla C.E. 710/80 (come attestato nell’ordinanza di
demolizione) e non alla C.E. 523/77: in questo modo il
Comune avrebbe indebitamente evitato di applicare la
normativa regionale entrata in vigore nel 1980.
Anche detta prospettazione non è condivisibile.
Ai sensi dell’art. 31 della L. 1150/1942 “La licenza
edilizia non può avere validità superiore ad un anno;
qualora entro tale termine i lavori non siano stati iniziati
l'interessato dovrà presentare istanza diretta ad ottenere
il rinnovo della licenza”.
L’art. 4, comma 4, della L. 10/1977 puntualizza che “Il termine
per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno;
il termine di ultimazione, entro il quale l'opera deve
essere abitabile o agibile, non può essere superiore a tre
anni e può essere prorogato, con provvedimento motivato,
solo per fatti estranei alla volontà del concessionario, che
siano sopravvenuti a ritardare i lavori durante la loro
esecuzione. Un periodo più lungo per l'ultimazione dei
lavori può essere concesso esclusivamente in considerazione
della mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari
caratteristiche tecnico-costruttive; ovvero quando si tratti
di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più
esercizi finanziari”.
La giurisprudenza –intervenuta sull’art. 15, comma 2, del
D.P.R. 380/2001 formulato in modo analogo all’art. 4– ha
affermato che i fatti sopravvenuti che possono legittimare
la proroga del termine di inizio o completamento dei lavori
ai sensi dell'art. 15, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001, non
hanno un rilievo automatico, ma possono costituire oggetto
di valutazione e di verifica in sede amministrativa qualora
l'interessato proponga un'apposita domanda di proroga
(Consiglio di Stato, sez. IV – 10/08/2007 n. 4423).
Ciò premesso in punto di diritto, osserva il Collegio che la
concessione edilizia n. 710/80, in quanto non ritirata dal
richiedente, non ha mai avuto un principio di attuazione ed
è irrimediabilmente decaduta essendo spirati i termini per
l’inizio e l’ultimazione dei lavori. Per questo il Comune ha
potuto unicamente fare riferimento (in sede di attivazione
del procedimento repressivo) al titolo abilitativo n.
523/77, l’unico che risultava operativo in quanto
regolarmente portato ad esecuzione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 14.01.2013 n. 9 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
specialità del procedimento di condono edilizio rispetto
all'ordinario procedimento di rilascio della concessione ad
edificare e l'assenza di una specifica previsione in ordine
alla sua necessità rendono, per il rilascio della
concessione in sanatoria c.d. straordinaria (o condono), il
parere della Commissione edilizia non obbligatorio, ma,
tutt'al più, facoltativo, in quelle specifiche ipotesi in
cui l'amministrazione ritenga discrezionalmente di acquisire
eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a
particolari e sporadici casi incerti e complessi.
In assenza dei predetti casi di acquisizione facoltativa del
parere dell'organo collegiale, il rilascio della concessione
in sanatoria è subordinato alla semplice verifica dei
presupposti e condizioni espressamente e chiaramente fissati
dal legislatore.
Dette considerazioni ben possono essere estese a tutti i
procedimenti per il rilascio della concessione in sanatoria,
che comunque si distinguono rispetto all’iter fisiologico di
emissione del titolo abilitativo previa istanza di parte
contemplato dall’art. 4, comma 3, del D.L. 05/10/1993 n.
398.
E’ infondato anche il
terzo motivo, afferente alla violazione dell’art. 4, comma 3,
del D.L. 05/10/1993 n. 398 conv. in L. 04/12/1993 n. 493 come
modificato dall’art. 2, comma 60, della L. 662/1996, per omessa
acquisizione del parere della Commissione edilizia.
Ad
avviso della giurisprudenza (TAR Piemonte Torino Sez. II,
11-04-2012, n. 438; TAR Lazio Latina Sez. I, 28-12-2011,
n. 1104, TAR Campania Salerno Sez. II, 24.07.2012, n. 1432)
la specialità del procedimento di condono edilizio rispetto
all'ordinario procedimento di rilascio della concessione ad
edificare e l'assenza di una specifica previsione in ordine
alla sua necessità rendono, per il rilascio della
concessione in sanatoria c.d. straordinaria (o condono), il
parere della Commissione edilizia non obbligatorio, ma,
tutt'al più, facoltativo, in quelle specifiche ipotesi in
cui l'amministrazione ritenga discrezionalmente di acquisire
eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a
particolari e sporadici casi incerti e complessi.
In assenza dei predetti casi di acquisizione facoltativa del
parere dell'organo collegiale, il rilascio della concessione
in sanatoria è subordinato alla semplice verifica dei
presupposti e condizioni espressamente e chiaramente fissati
dal legislatore.
Dette considerazioni ben possono essere estese a tutti i
procedimenti per il rilascio della concessione in sanatoria,
che comunque si distinguono rispetto all’iter fisiologico di
emissione del titolo abilitativo previa istanza di parte
contemplato dall’art. 4, comma 3, del D.L. 05/10/1993 n.
398, evocato in questa sede
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 14.01.2013 n. 9 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Le prestazioni di lavoro
straordinario si caratterizzano per essere facoltative ed
effettuate in aggiunta al normale orario di lavoro, come
tali soggette al potere organizzatorio dell’Amministrazione
datrice di lavoro; la pretesa della parte ricorrente sarebbe
dunque qualificabile come diritto soggettivo solo in quanto
la prestazione sia avvenuta in base ad una deliberazione
autorizzativa, valida ed efficace per cui, fino a quando
l’Ente non esercita il potere autoritativo di scegliere se
ed entro quali limiti autorizzare lo svolgimento di attività
di lavoro straordinario, saranno configurabili solo delle
posizioni di interesse legittimo, con relativa
inammissibilità di azioni di accertamento e di condanna.
In altri termini è possibile estendere al caso di specie il
principio per il quale nessun compenso per ulteriori
prestazioni, anche facoltative, può essere riconosciuto in
assenza di una formale autorizzazione da parte del datore di
lavoro, in quanto solo attraverso questa autorizzazione può
essere verificata la sussistenza delle ragioni di pubblico
interesse che rendono opportuno il ricorso a prestazioni
lavorative eccezionali, nel rispetto dell'art. 97 Cost..
In definitiva, l’organizzazione delle prestazioni di lavoro
deve avvenire attraverso la predisposizione di orari e
turni, mediante la programmazione dei piani di lavoro e
prescrivendo altresì la loro verifica con sistemi obiettivi
di controllo degli orari di servizio, tali da assicurare che
dette prestazioni siano rese in aggiunta rispetto all’orario
nomale; non può neanche dedursi la violazione dell'art. 36
Cost. nella misura in cui salvaguarda il diritto alla
retribuzione, atteso che risulta in ogni caso prevalente il
canone dell'esigenza di buona amministrazione da cui è
permeata la disciplina di settore secondo cui non è
possibile prescindere dalla preventiva autorizzazione allo
svolgimento di prestazioni lavorative ulteriori, o dal
riconoscimento delle stesse ex post per esigenze d'ufficio,
ai fini del riconoscimento del diritto del pubblico
dipendente al pagamento del relativo compenso.
---------------
Coloro che appartengono ad una categoria di personale
svolgente una prestazione lavorativa necessariamente e
naturalmente articolata su turni, non hanno titolo per
invocare il pagamento di prestazioni straordinarie. Solo
l’Amministrazione può deliberare di retribuirle nei limiti
preventivamente programmati ed autorizzati, in quanto solo
ad essa spetta la valutazione ed il controllo preventivo
circa la compatibilità finanziaria nonché, una volta
deliberato lo svolgimento di tali prestazioni entro i tetti
massimi di ore e di retribuzione, la verifica delle stesse
attraverso sistemi obiettivi di controllo degli orari di
servizio anche in funzione del conseguimento degli obiettivi
prefissati.
In relazione alle pretese azionate con il presente ricorso, la
Sezione evidenzia, come in analoghe fattispecie (ex multis,
01.02.2010, n. 26517), che le prestazioni di lavoro
straordinario si caratterizzano per essere facoltative ed
effettuate in aggiunta al normale orario di lavoro, come
tali soggette al potere organizzatorio dell’Amministrazione
datrice di lavoro (Cass. Civ., SS. UU., 25.10.1996, n. 9336);
la pretesa della parte ricorrente sarebbe dunque
qualificabile come diritto soggettivo solo in quanto la
prestazione sia avvenuta in base ad una deliberazione autorizzativa, valida ed efficace (TAR Basilicata,
06.08.1999, n. 313) per cui, fino a quando l’Ente non esercita
il potere autoritativo di scegliere se ed entro quali limiti
autorizzare lo svolgimento di attività di lavoro
straordinario, saranno configurabili solo delle posizioni di
interesse legittimo, con relativa inammissibilità di azioni
di accertamento e di condanna (TAR Basilicata,
29.10.1999, n. 553; 24.09.1999, n. 390).
In altri termini è
possibile estendere al caso di specie il principio per il
quale nessun compenso per ulteriori prestazioni, anche
facoltative, può essere riconosciuto in assenza di una
formale autorizzazione da parte del datore di lavoro, in
quanto solo attraverso questa autorizzazione può essere
verificata la sussistenza delle ragioni di pubblico
interesse che rendono opportuno il ricorso a prestazioni
lavorative eccezionali, nel rispetto dell'art. 97 Cost. (cfr.
Consiglio di Stato, V, 09.03.2010, n.1370; n. 844 del 2009; IV,
n. 2282 del 2007; V, 24.09.1999, n. 1147; IV, 14.02.1994, n. 139;
TAR Calabria, Reggio Calabria, 26.03.2001, n. 242;
29.09.2000, n. 1531; TAR Marche, 27.10.1994, n. 292; TAR
Toscana, 27.12.1994, n. 459).
Il Collegio ritiene in definitiva, con trattazione
unitaria dei motivi dedotti in diritto, di aderire
all’orientamento secondo il quale l’organizzazione delle
prestazioni di lavoro deve avvenire attraverso la
predisposizione di orari e turni, mediante la programmazione
dei piani di lavoro e prescrivendo altresì la loro verifica
con sistemi obiettivi di controllo degli orari di servizio,
tali da assicurare che dette prestazioni siano rese in
aggiunta rispetto all’orario nomale (Cons. Stato, V,
15.11.1999, n. 1911); non può neanche dedursi la violazione
dell'art. 36 Cost. nella misura in cui salvaguarda il diritto
alla retribuzione, atteso che risulta in ogni caso
prevalente il canone dell'esigenza di buona amministrazione
da cui è permeata la disciplina di settore secondo cui non è
possibile prescindere dalla preventiva autorizzazione allo
svolgimento di prestazioni lavorative ulteriori, o dal
riconoscimento delle stesse ex post per esigenze d'ufficio,
ai fini del riconoscimento del diritto del pubblico
dipendente al pagamento del relativo compenso.
Con riferimento, poi, alla specifica ipotesi del lavoro
straordinario prestato da dipendenti che svolgono la loro
attività con modalità di turnazione, si ritiene di non
discostarsi dalla prevalente giurisprudenza (ex multis,
Cons. Stato, V, 23.01.2007, nn. 226 e 218; 01.12.2006, n. 7065;
16.10.2006, n. 6152; TAR Campania, Salerno, II, 28.06.2006,
n. 872) secondo la quale coloro che, come parte ricorrente,
appartengono ad una categoria di personale svolgente una
prestazione lavorativa necessariamente e naturalmente
articolata su turni, non hanno titolo per invocare il
pagamento di prestazioni straordinarie. Solo
l’Amministrazione può deliberare di retribuirle nei limiti
preventivamente programmati ed autorizzati, in quanto solo
ad essa spetta la valutazione ed il controllo preventivo
circa la compatibilità finanziaria nonché, una volta
deliberato lo svolgimento di tali prestazioni entro i tetti
massimi di ore e di retribuzione, la verifica delle stesse
attraverso sistemi obiettivi di controllo degli orari di
servizio anche in funzione del conseguimento degli obiettivi
prefissati.
Nella fattispecie parte ricorrente non ha esibito alcuna
prova idonea a dimostrare una specifica determinazione
dell’Amministrazione in ordine all’organizzazione, al
controllo, al riconoscimento ed alla qualificazione delle
prestazioni del servizio in maggiorazione di orario,
difettando un’effettiva e preventiva autorizzazione ad
effettuare prestazioni lavorative in eccedenza rispetto
all'orario ordinario (cfr. Cons. Stato, sez. V, 06.10.2003,
n. 5886 che ha confermato pronuncia di questa Sezione 02.08.1999, n. 2152; 31.12.1998, n. 1979) (TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 11.01.2013 n. 275 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’opera edilizia
consistente nella realizzazione di una tettoia si
caratterizza secondo la giurisprudenza più recente, in
termini di “nuova costruzione”, tale da necessitare di
previo rilascio di titolo abilitativo.
Interventi come quelli di specie, secondo la stessa
giurisprudenza, innovano infatti il preesistente immobile in
quanto si perviene ad un manufatto del tutto nuovo per
consistenza e materiali utilizzati, come tale non
riconducibile a quello già esistente che anzi viene alterato
sia dal punto di vista morfologico che funzionale: dinanzi a
tali significative modificazioni si impone di conseguenza la
verifica di compatibilità delle opere a mezzo della previa
concessione edilizia.
Opere siffatte –nella specie peraltro di rilevanti
dimensioni, dato che essa sarebbe destinata a coprire
un’intera area adibita a parcheggio– sono destinate in altre
parole ad essere considerate quali importanti modificazioni
del territorio e dunque alla stregua di nuove costruzioni,
ai sensi dell’art. 3 del DPR n. 380 del 2001, in quanto tali
suscettive di titolo abilitativo.
Quanto invece alla tettoia osserva il collegio come l’opera edilizia
consistente nella realizzazione di una tettoia si
caratterizza secondo la giurisprudenza più recente, anche di
questo TAR (sez. III, 12.03.2012, n. 1246), in termini di
“nuova costruzione”, tale da necessitare di previo rilascio
di titolo abilitativo.
Interventi come quelli di specie, secondo la stessa
giurisprudenza, innovano infatti il preesistente immobile in
quanto si perviene ad un manufatto del tutto nuovo per
consistenza e materiali utilizzati, come tale non
riconducibile a quello già esistente che anzi viene alterato
sia dal punto di vista morfologico che funzionale: dinanzi a
tali significative modificazioni si impone di conseguenza la
verifica di compatibilità delle opere a mezzo della previa
concessione edilizia (cfr. TAR Toscana, sez. III, 26.02.2010, n. 516; Cons. Stato, sez. VI,
09.09.2005, n. 4668).
Opere siffatte –nella specie peraltro di rilevanti
dimensioni, dato che essa sarebbe destinata a coprire
un’intera area adibita a parcheggio– sono destinate in altre
parole ad essere considerate quali importanti modificazioni
del territorio e dunque alla stregua di nuove costruzioni,
ai sensi dell’art. 3 del DPR n. 380 del 2001, in quanto tali
suscettive di titolo abilitativo (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 11.01.2013 n. 265 - link a
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EDILIZIA
PRIVATA:
La mancata notificazione
al proprietario dell’ordine di demolizione preclude
l’emanazione del provvedimento di acquisizione gratuita al
patrimonio comunale dell’area, stante il carattere
sanzionatorio di detta misura.
- Considerato che l’ordinanza n. 67 del 27.02.2006, con la
quale è stata ingiunta la demolizione delle opere abusive,
oggetto di acquisizione con il provvedimento gravato in
questa sede, non è stata notificata all’odierno ricorrente,
in qualità di proprietario dell’area;
-
Considerato che non sono stati notificati al ricorrente
neanche l’ordinanza di sospensione lavori e demolizione n.
10/2006 emessa dal Parco di Veio in data 22.11.2006 e il
verbale di inottemperanza all’ordinanza n. 67/2008;
-
Ritenuto che la mancata notificazione al proprietario
dell’ordine di demolizione preclude l’emanazione del
provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio
comunale dell’area, stante il carattere sanzionatorio di
detta misura ( cfr. fra le pronunce più recenti, Tar Liguria
I, 31.10.2012 n. 1332; Tar Basilicata I, 17.11.2009 n. 765);
- Ritenuto pertanto che il ricorso è fondato e va accolto,
con conseguente pronuncia di annullamento dell’atto
impugnato (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 11.01.2013 n. 242 - link a
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EDILIZIA
PRIVATA:
Quanto al rapporto tra la tutela dei valori
paesaggistici e la pianificazione urbanistica, e relativi
strumenti attuativi, si osserva che la Corte costituzionale
ha affermato con giurisprudenza costante il valore “primario
e assoluto” della tutela del paesaggio, con la conseguente
affermazione della prevalenza dell’impronta unitaria della
tutela paesaggistica sulle determinazioni urbanistiche, pur
nella necessaria considerazione della compresenza degli
interessi pubblici intestati alle due funzioni; ciò che è a
sua volta sancito dall’art. 145 del Codice, per il cui comma
3 le previsioni dei piani paesaggistici, nei quali si
integrano, come anche visto, i provvedimenti ministeriali di
cui qui si tratta, “non sono derogabili da parte di piani,
programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo
economico, sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei
comuni, delle città metropolitane e delle province, sono
immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi
eventualmente contenute negli strumenti urbanistici…”.
L’iniziativa economica privata, altresì costituzionalmente
tutelata, non può dunque essere immotivatamente compressa
ma, in quanto attuata nel contesto e per mezzo della
strumentazione urbanistica, deve essere correlata al
rapporto di questa con i sovraordinati valori della tutela
del paesaggio.
Quanto al rapporto tra la tutela dei valori paesaggistici e la
pianificazione urbanistica, e relativi strumenti attuativi,
si osserva che la Corte costituzionale ha affermato con
giurisprudenza costante il valore “primario e assoluto”
della tutela del paesaggio, con la conseguente affermazione
della prevalenza dell’impronta unitaria della tutela
paesaggistica sulle determinazioni urbanistiche, pur nella
necessaria considerazione della compresenza degli interessi
pubblici intestati alle due funzioni (sentenza n. 367 del
2007, in cui sono richiamate le precedenti in materia;
sentenze n. 226 del 2009 e n. 101 del 2010); ciò che è a sua
volta sancito dall’art. 145 del Codice, per il cui comma 3
le previsioni dei piani paesaggistici, nei quali si
integrano, come anche visto, i provvedimenti ministeriali di
cui qui si tratta, “non sono derogabili da parte di piani,
programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo
economico, sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei
comuni, delle città metropolitane e delle province, sono
immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi
eventualmente contenute negli strumenti urbanistici…”.
L’iniziativa economica privata, altresì costituzionalmente
tutelata, non può dunque essere immotivatamente compressa
ma, in quanto attuata nel contesto e per mezzo della
strumentazione urbanistica, deve essere correlata al
rapporto di questa con i sovraordinati valori della tutela
del paesaggio (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 11.01.2013 n. 120 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Accessibili
a tutti le carte delle gare.
Ammesso l'accesso agli atti sull'offerta tecnica
dell'aggiudicatario di un appalto anche per chi non ha
partecipato alla gara; prevale la legge sul procedimento
amministrativo rispetto al Codice dei contratti pubblici.
È
questo l'interessante principio affermato dal Consiglio di
Stato, Sez. VI, con la
sentenza 11.01.2013
n. 110.
Nella fattispecie esaminata, una società non partecipante a
una gara di appalto aveva instaurato un giudizio tendente a
contestare gli atti di gara chiedendo l'annullamento della
procedura di gara e riservandosi la facoltà di presentare
motivi aggiunti una volta esaminati i documenti richiesti
(offerta dell'aggiudicatario provvisorio).
In primo grado il Tar Lazio (sentenza n. 4081/2011) aveva
rigettato (con silenzio-rifiuto) la domanda di accesso
sostenendo, fra le altre cose, che la disciplina del codice
dei contratti pubblici (articolo 13) , pur rinviando alla
legge 241/1990, ammette l'accesso soltanto al concorrente
che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei propri
interessi, mentre la società non aveva assunto un ruolo da
partecipante. Il Consiglio di stato ribalta la sentenza di
primo grado e ritiene che l'articolo 13, comma 6, del Codice
contenga specifiche previsioni in materia di accesso ai
documenti di gara che, però, non possono essere tali da
impedire la tutela generalizzata sul buon esito del
procedimento garantita dalla legge sul procedimento
amministrativo.
In particolare, secondo i giudici, lo stesso articolo 13,
nel richiamare la legge 241, rende applicabile alla
disciplina degli appalti pubblici anche l'articolo 24 della
normativa del 1990, per il quale spetta ai richiedenti
l'accesso ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per
curare o difendere i propri interessi giuridici. E, al di là
di quanto disciplinato dal Codice dei contratti pubblici,
dice la sentenza, non può non riconoscersi che «con la
tutela del diritto di accesso il legislatore ha voluto
assicurare all'amministrato la trasparenza dell'attività
della pubblica amministrazione, indipendentemente
dall'effettiva lesione di una determinata situazione di
diritto soggettivo o di interesse legittimo».
In altre parole, quindi, prevale l'interesse generale
stabilito dalle disciplina della legge 241 in quanto è il
complessivo interesse alla trasparenza dell'azione
amministrativa a dovere prevalere sugli specifici interessi
soggettivi. Ancorché disciplina «speciale», quella
del Codice, deve ritenersi quindi recessiva rispetto a
quella generale
(articolo ItaliaOggi del 16.01.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La presentazione di una
domanda di sanatoria comporta l’inefficacia degli atti
sanzionatori impugnati (ordini di demolizione, inibitorie,
ordini di sospensione dei lavori), in quanto il comune è
tenuto ad effettuare una nuova valutazione della situazione
e determina l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta
carenza di interesse.
Rilevato che la presentazione di una domanda di sanatoria comporta
l’inefficacia degli atti sanzionatori impugnati (ordini di
demolizione, inibitorie, ordini di sospensione dei lavori),
in quanto il comune è tenuto ad effettuare una nuova
valutazione della situazione e determina l’improcedibilità
del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse (cfr.
Cons. Stato, Sez. V, 31.10.2012 n. 5553 e 29.12.2009 n. 8935; Sez. II,
11.07.2007 n. 624/05) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 11.01.2013 n. 65 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’interesse pubblico alla
rimozione dell’illecito edilizio è in re ipsa e non può
ammettersi nessun legittimo affidamento alla conservazione
di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può
avere legittimato, con la conseguenza che, ove sussistano i
presupposti per l’adozione del provvedimento di demolizione,
il detto provvedimento costituisce atto dovuto.
---------------
Pure da confutare è la tesi secondo cui l’esistenza di un
sequestro penale sul manufatto abusivo è d’ostacolo
all’adozione dell’ordinanza di demolizione, ben potendo il
destinatario chiedere al giudice penale il dissequestro del
cantiere proprio al fine di ottemperare alla prescrizione
demolitoria.
---------------
L’ingiunzione di demolizione non deve necessariamente
contenere anche la descrizione precisa dell’area di sedime
che potrebbe essere confiscata in caso di mancata spontanea
esecuzione da parte dell'autore dell’abuso, trattandosi
evidentemente di elemento afferente all’eventuale successiva
ordinanza di acquisizione gratuita.
A ciò si aggiunga che l’acquisizione gratuita, quale
sanzione autonoma conseguente all’inottemperanza
all’ingiunzione di demolizione, non affranca da
responsabilità il proprietario dell’area, qualora risulti
che egli abbia acquistato o riacquistato la disponibilità
del bene e non si sia attivato per dare esecuzione
all’ordine di demolizione, o qualora emerga che, pur essendo
in grado di dare esecuzione all’ingiunzione, non vi abbia
comunque provveduto.
Occorre premettere che per le opere in contestazione, che vanno valutate
nella loro unitarietà, costituendo nell’insieme un complesso
immobiliare sorto a beneficio di attività imprenditoriali
già insistenti sull’area, non risulta rilasciato alcun
provvedimento edilizio assentivo, tant’è che è lo stesso
ricorrente ad invocare il proprio “affidamento sulla
legittimità della situazione”, risalente a numerosi anni
addietro.
Tuttavia, per pacifica giurisprudenza, l’interesse pubblico
alla rimozione dell’illecito edilizio è in re ipsa e non può
ammettersi nessun legittimo affidamento alla conservazione
di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può
avere legittimato, con la conseguenza che, ove sussistano i
presupposti per l’adozione del provvedimento di demolizione,
il detto provvedimento costituisce atto dovuto (cfr. C.G.A.
09.02.2012 n. 140).
Pure da confutare è la tesi secondo cui l’esistenza di un
sequestro penale sul manufatto abusivo è d’ostacolo
all’adozione dell’ordinanza di demolizione, ben potendo il
destinatario chiedere al giudice penale il dissequestro del
cantiere proprio al fine di ottemperare alla prescrizione
demolitoria (cfr. TAR Puglia, Bari, Sez. III, 10.03.2011 n. 429).
Restano quindi da valutare le doglianze concernenti la
comminazione della sanzione di acquisizione gratuita delle
opere al patrimonio comunale, in caso di inottemperanza alla
demolizione.
In proposito, si lamenta in ricorso per un verso l’assenza,
nell’ordinanza demolitoria, di riferimenti idonei ad
individuare con esattezza l’area da eventualmente acquisire
e, per altro verso, la non elevabilità della sanzione in
danno del proprietario del fondo, in difetto di ogni
responsabilità da parte sua rispetto alla realizzazione
dell’abuso.
E però, quanto al primo profilo, va rilevato che
l’ingiunzione di demolizione non deve necessariamente
contenere anche la descrizione precisa dell’area di sedime
che potrebbe essere confiscata in caso di mancata spontanea
esecuzione da parte dell'autore dell’abuso, trattandosi
evidentemente di elemento afferente all’eventuale successiva
ordinanza di acquisizione gratuita (cfr. TAR Campania,
Napoli, Sez. II, 20.04.2009 n. 2035).
A ciò si aggiunga che, diversamente da quanto sostenuto in
ricorso, l’acquisizione gratuita, quale sanzione autonoma
conseguente all’inottemperanza all’ingiunzione di
demolizione, non affranca da responsabilità il proprietario
dell’area, qualora risulti che egli abbia acquistato o
riacquistato la disponibilità del bene e non si sia attivato
per dare esecuzione all’ordine di demolizione, o qualora
emerga che, pur essendo in grado di dare esecuzione
all’ingiunzione, non vi abbia comunque provveduto (cfr.
TAR Lazio, Sez. I-quater, 28.12.2011 n. 10254) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 11.01.2013 n. 64 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La presentazione di
un’istanza di condono o di sanatoria edilizia
successivamente all’impugnazione dell’ordinanza di
demolizione e dell’accertamento di inottemperanza produce
l’effetto di rendere inefficace tali provvedimenti e,
quindi, improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuta
carenza di interesse, in quanto la nuova valutazione
provocata dall’istanza comporterà la necessaria formazione
di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto),
che vale comunque a superare i provvedimenti oggetto
dell’impugnativa, in tal modo spostandosi l’interesse del
responsabile dell’abuso edilizio dall’annullamento del
provvedimento già adottato all’eventuale annullamento del
provvedimento di rigetto.
Invero, la presentazione di un’istanza di condono o di sanatoria edilizia
successivamente all’impugnazione dell’ordinanza di
demolizione e dell’accertamento di inottemperanza produce
l’effetto di rendere inefficace tali provvedimenti e,
quindi, improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuta
carenza di interesse, in quanto la nuova valutazione
provocata dall’istanza comporterà la necessaria formazione
di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto),
che vale comunque a superare i provvedimenti oggetto
dell’impugnativa, in tal modo spostandosi l’interesse del
responsabile dell’abuso edilizio dall’annullamento del
provvedimento già adottato all’eventuale annullamento del
provvedimento di rigetto (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 31.10.2012 n. 5553 e 29.12.2009 n. 8935; Sez. II, 11.07.2007 n. 624/2005; TAR Campania, Napoli, Sez. IV,
07.11.2008 n. 19341) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 11.01.2013 n. 62 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Presupposto legittimante la domanda di
risarcimento del danno da c.d. occupazione espropriativa è
che il bene irreversibilmente trasformato nell’ambito di una
procedura ablativa non abbia mai costituito oggetto di un
decreto di esproprio.
Infatti, l’esistenza di un decreto di esproprio preclude al
proprietario ogni pretesa di carattere risarcitorio e gli
consente di ristorarsi solo mediante l’indennizzo
determinato nelle forme di legge, sindacabile tramite
giudizio di opposizione alla stima, da proporsi dinanzi alla
Corte d’appello competente per territorio.
Presupposto legittimante la domanda di risarcimento del
danno da c.d. occupazione espropriativa è che il bene
irreversibilmente trasformato nell’ambito di una procedura
ablativa non abbia mai costituito oggetto di un decreto di
esproprio.
Infatti, l’esistenza di un decreto di esproprio preclude al
proprietario ogni pretesa di carattere risarcitorio e gli
consente di ristorarsi solo mediante l’indennizzo
determinato nelle forme di legge, sindacabile tramite
giudizio di opposizione alla stima, da proporsi dinanzi alla
Corte d’appello competente per territorio.
Per contro, nella fattispecie in esame risulta che, in
relazione al fondo della ricorrente, il comune di Vallata ha
adottato il decreto di esproprio 14.05.2009 n. 18,
formalmente comunicato il 12.06.2009.
Ciò rende inammissibile il ricorso per risarcimento del
danno.
Né può valere in senso contrario la richiesta,
tuzioristicamente effettuata nelle sole conclusioni del
ricorso, di “previo annullamento del decreto di
espropriazione innanzi analiticamente indicato”.
Tale domanda, infatti, va ritenuta tamquam non esset, in
mancanza dei requisiti essenziali della stessa, in primis la
prospettazione delle specifiche censure di legittimità da
cui l’atto sarebbe affetto (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 11.01.2013 n. 59 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’aggiudicazione
provvisoria costituisce un mero atto endoprocedimentale, la
cui autonoma impugnabilità è condizionata, ai fini della sua
procedibilità, dalla tempestiva impugnazione con motivi
aggiunti anche dell’aggiudicazione definitiva che
successivamente intervenga.
La ricorrente Philips ha impugnato, con l'atto introduttivo del giudizio,
la comunicazione di aggiudicazione ricevuta in data 13.08.2012, comunicazione con la quale la ricorrente è
stata informata dell'avvenuta aggiudicazione provvisoria a
Siemens.
Philips s.p.a. ha poi impugnato, con motivi aggiunti
notificati in data 14.12.2012, la delibera di
aggiudicazione definitiva. Secondo una giurisprudenza
pacifica, l’aggiudicazione provvisoria costituisce un mero
atto endoprocedimentale, la cui autonoma impugnabilità è
condizionata, ai fini della sua procedibilità, dalla
tempestiva impugnazione con motivi aggiunti anche dell’aggiudicazione definitiva che successivamente intervenga
(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 27.04.2011, n. 2482; sez. V,
26.11.2008, n. 5485; sez. VI, 18.03.2003, n. 1417
e, da ultimo, Ad. Plen. 31.07.2012 n. 31).
L’art. 10 del Disciplinare di Gara (Norme Finali), prevedeva
che "La comunicazione di cui all'art. 11, comma 10, d.lgs.
163/2006 si intende effettuata ad ogni effetto di legge
mediante la pubblicazione
del relativo provvedimento d'aggiudicazione definitiva
sull'albo pretorio di quest'Azienda e sul sito internet il
cui indirizzo è: www.aziendaospedalieracosenza.it”.
Nel caso di specie l'aggiudicazione definitiva è intervenuta
con deliberazione del Direttore Generale n. 820 in data 13.08.2012, pubblicata sul sito Internet dell’Azienda il 20.08.2012, mentre i motivi aggiunti sono stati notificati
il 14.12.2012, quindi, ben oltre il termine previsto
in materia di appalti dall’art. 120 c.p.a.
Il ricorso è improcedibile, quanto alla impugnazione rivolta
contro l'aggiudicazione provvisoria (per effetto
dell'intervenuta aggiudicazione definitiva) e irricevibile
quanto alla impugnazione rivolta contro l'aggiudicazione
definitiva, poiché tardivo (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 11.01.2013 n. 52 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Si ha ristrutturazione
edilizia solo in caso di preesistenza di un organismo
edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e
copertura, e non anche nelle ipotesi di ricostruzione su
ruderi.
Ciò comporta, come riconosciuto da unanime giurisprudenza,
sia amministrativa sia del giudice penale, che la
ricostruzione su ruderi, o su di un edificio da tempo
demolito, costituisce nuova costruzione e, quindi, richiede
un'apposita concessione edilizia o il titolo corrispondente
secondo la vigente normativa.
Appare, peraltro, opportuno ricordare, anche alla luce di quanto
emerge dagli atti di causa, che si ha ristrutturazione
edilizia solo in caso di preesistenza di un organismo
edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e
copertura, e non anche nelle ipotesi di ricostruzione su
ruderi.
Ciò comporta, come riconosciuto da unanime giurisprudenza,
sia amministrativa sia del giudice penale (CdS IV 1669/2007;
Sez. V, 15.04.2004 n. 2142; TAR Liguria, Sez. I, 24.01.2002 n. 53; Consiglio di Stato, Sez. V,
01.12.1991 n. 2021; Cass. penale, Sez. III, 20.02.2001, n.
658; id. 20.02.2001 n. 13982; 45240/07), che la
ricostruzione su ruderi, o su di un edificio da tempo
demolito, costituisce nuova costruzione e, quindi, richiede
un'apposita concessione edilizia o il titolo corrispondente
secondo la vigente normativa (cfr. anche, più di recente,
Tar Toscana, 437/2012).
Come già osservato, peraltro, la ricorrente non ha fornito
neanche un principio di prova della preesistenza delle
opere, oggetto della presunta manutenzione straordinaria,
confermando così la legittimità dell’ingiunzione di
demolizione di interventi edilizi recenti e privi di titolo
edilizio (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 11.01.2013 n. 52 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La ricostruzione su
ruderi o su di un edificio da tempo demolito costituisce
nuova costruzione e non certo restauro conservativo o
manutenzione straordinaria.
Inoltre, la giurisprudenza, dalla quale il Collegio non trova ragioni per
discostarsi, è da tempo consolidata nel ritenere che la
ricostruzione su ruderi o su di un edificio da tempo
demolito (perché di questo presumibilmente si tratta nel
caso in oggetto) costituisce nuova costruzione e non certo
restauro conservativo o manutenzione straordinaria (cfr. CdS
IV 1669/07; Sez. V, 15.04.2004 n. 2142; TAR Liguria,
Sez. I, 24.01.2002 n. 53; Consiglio di Stato, Sez. V, 01.12.1991 n. 2021; Cass. penale, Sez. III,
20.02.2001, n. 658; id. 20.02.2001 n. 13982; 45240/07) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 11.01.2013 n. 51 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La questione centrale
posta dall’odierno ricorso è stabilire se la realizzazione
di un vano tecnico possa rientrare tra i cosiddetti “abusi
minori” per i quali è ammissibile la relativa sanatoria ai
sensi del combinato disposto degli artt. 146, comma 4 e 167,
comma 4, del decreto legislativo n. 42 del 2004, e dell’art.
181, comma 1-ter, avente lo stesso contenuto del citato art.
167, comma 4, articoli questi ultimi disciplinanti,
rispettivamente, le sanzioni amministrative e le sanzioni
penali.
In punto di diritto l’art. 146, comma 4, del decreto
legislativo n. 42 del 2004 esclude dal divieto di rilasciare
ex post l’autorizzazione paesaggistica -che, sempre ai sensi
dell’art. 146, comma 4, costituisce atto presupposto
rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli
legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio, ivi compresi
quelli in sanatoria- i casi previsti dall’articolo 167,
comma 4, del medesimo decreto legislativo n. 42 del 2004 e
costituiti oltre che dall’impiego di materiali in difformità
dall’autorizzazione paesaggistica e dai lavori comunque
configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria proprio dai “lavori, realizzati in assenza o
difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non
abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Al riguardo il Collegio ritiene che l’interpretazione
teleologica induce inevitabilmente a ritenere che,
nonostante l’utilizzo della particella disgiuntiva “o” nella
frase “che non abbiano determinato creazione di superfici
utili o volumi”, il duplice riferimento alle nuove superfici
utili e ai nuovi volumi costituisca un’endiadi, ossia una
modalità di esprimere un concetto unitario con due termini
coordinati.
In altri termini, la necessità di interpretare le eccezioni
al divieto di rilasciare l'autorizzazione paesistica in
sanatoria (previste dall'articolo 167, comma 4, del decreto
legislativo n. 42 del 2004) in coerenza con la ratio
dell'introduzione di tale divieto, induce il Collegio a
ritenere, confermando l’orientamento di questa Sezione dal
quale non si ha motivo di discostarsi che esulino dalla
eccezione prevista dall'articolo 167, comma 4, lettera a),
gli interventi che abbiano contestualmente determinato la
realizzazione di nuove superfici utili e di nuovi volumi e
che, di converso, siano suscettibili di accertamento della
compatibilità paesistica anche i soppalchi, i volumi
interrati ed i volumi tecnici atteso che i volumi tecnici,
proprio in ragione dei caratteri che li contraddistinguono,
trattandosi di opera priva di autonoma rilevanza
urbanistico-funzionale che non risultano particolarmente
pregiudizievole per il territorio, sono inidonei ad
introdurre un impatto sul territorio eccedente la
costruzione principale.
Alla luce di quanto sopra esposto, passando ad analizzare la
fattispecie oggetto di gravame, il Collegio, considerato che
l’intervento abusivo consiste in un “vano tecnologico”,
ritiene che esso sia astrattamente sanabile ai sensi
dell’articolo 167, comma 4, del decreto legislativo n. 42
del 2004; che conseguentemente la Soprintendenza avrebbe
dovuto esprimere il giudizio di sua competenza valutando
l’effettiva incidenza dell’opera assentita dall’organo
comunale sui valori paesaggistici.
...
per l'annullamento:
- della nota della Soprintendenza per i Beni Ambientali,
Architettonici, Artistici e Storici della Puglia, prot. n.
1332 del 25.03.2008, tramite la quale la Soprintendenza
ha espresso parere contrario di compatibilità paesaggistica
giusto art. 181, comma 1-ter, del D.lvo n. 42 del 2004, in
relazione al progetto di sanatoria per “la realizzazione di
lavori sull’immobile sito in Vico del Gargano alla via Laganella n. 31”;
- della nota prot. n. 3312 del 04.04.2008, notificata il
successivo 6 aprile, con la quale l’Ufficio Tecnico III
Settore del Comune di Vico del Gargano ha denegato il
permesso di costruire relativo alla costruzione
dell’intervento di cui al punto precedente;
...
Premesso che nella fattispecie oggetto di gravame è pacifico
in atti che l’intervento abusivo consiste in un “vano
tecnologico”, in quanto espressamente riconosciuto come tale
anche dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e per
il Paesaggio per le Province di Bari e Foggia nella
relazione illustrativa prot. n. 5212 del 10.07.2008,
depositata in giudizio dall’Avvocatura Distrettuale dello
Stato in data 16.07.2008, la questione centrale posta
dall’odierno ricorso è stabilire se la realizzazione di un
vano tecnico possa rientrare tra i cosiddetti “abusi minori”
per i quali è ammissibile la relativa sanatoria ai sensi del
combinato disposto degli artt. 146, comma 4 e 167, comma 4,
del decreto legislativo n. 42 del 2004, e dell’art. 181,
comma 1-ter, avente lo stesso contenuto del citato art. 167,
comma 4, articoli questi ultimi disciplinanti,
rispettivamente, le sanzioni amministrative e le sanzioni
penali.
In punto di diritto l’art. 146, comma 4, del decreto
legislativo n. 42 del 2004 esclude dal divieto di rilasciare
ex post l’autorizzazione paesaggistica -che, sempre ai
sensi dell’art. 146, comma 4, costituisce atto presupposto
rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli
legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio, ivi compresi
quelli in sanatoria- i casi previsti dall’articolo 167,
comma 4, del medesimo decreto legislativo n. 42 del 2004 e
costituiti oltre che dall’impiego di materiali in difformità
dall’autorizzazione paesaggistica e dai lavori comunque
configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria proprio dai “lavori, realizzati in assenza o
difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non
abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Al riguardo il Collegio ritiene che l’interpretazione
teleologica induce inevitabilmente a ritenere che,
nonostante l’utilizzo della particella disgiuntiva “o” nella
frase “che non abbiano determinato creazione di superfici
utili o volumi”, il duplice riferimento alle nuove superfici
utili e ai nuovi volumi costituisca un’endiadi, ossia una
modalità di esprimere un concetto unitario con due termini
coordinati (cfr. in senso conforme TAR Campania Napoli,
Sezione VII, 01.09.2011).
In altri termini, la necessità di interpretare le eccezioni
al divieto di rilasciare l'autorizzazione paesistica in
sanatoria (previste dall'articolo 167, comma 4, del decreto
legislativo n. 42 del 2004) in coerenza con la ratio
dell'introduzione di tale divieto, induce il Collegio a
ritenere, confermando l’orientamento di questa Sezione dal
quale non si ha motivo di discostarsi (cfr. TAR Bari,
Sezione III, 30.10.2012, n. 1859) che esulino dalla
eccezione prevista dall'articolo 167, comma 4, lettera a),
gli interventi che abbiano contestualmente determinato la
realizzazione di nuove superfici utili e di nuovi volumi e
che, di converso, siano suscettibili di accertamento della
compatibilità paesistica anche i soppalchi, i volumi
interrati ed i volumi tecnici atteso che i volumi tecnici,
proprio in ragione dei caratteri che li contraddistinguono,
trattandosi di opera priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale che non risultano particolarmente
pregiudizievole per il territorio, sono inidonei ad
introdurre un impatto sul territorio eccedente la
costruzione principale (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. VII, 15.12.2010, n. 27380).
Alla luce di quanto sopra esposto, passando ad analizzare la
fattispecie oggetto di gravame, il Collegio, considerato che
l’intervento abusivo consiste in un “vano tecnologico”,
ritiene che esso sia astrattamente sanabile ai sensi
dell’articolo 167, comma 4, del decreto legislativo n. 42
del 2004; che conseguentemente la Soprintendenza avrebbe
dovuto esprimere il giudizio di sua competenza valutando
l’effettiva incidenza dell’opera assentita dall’organo
comunale sui valori paesaggistici.
Conclusivamente, per i suesposti motivi, il ricorso deve
essere accolto e, conseguentemente, devono essere annullati
i provvedimenti impugnati (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 11.01.2013 n. 35 - link a
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EDILIZIA
PRIVATA:
L’accertamento
dell’inottemperanza è atto dovuto, che consegue al mero
decorso del termine di 90 giorni per dare esecuzione
all’ordinanza di demolizione.
Pertanto, una volta dimostrato che la titolare dell’abuso
era a conoscenza dell’obbligo di demolire quanto contestato
dall’Amministrazione e non vi si è opposta, qualsiasi
censura avverso il successivo provvedimento non ha ragione
di essere accolta se non per vizi propri.
Il Comune ha infatti prodotto copia dell’ordinanza di demolizione n.
145/2010, a suo tempo notificata alla ricorrente Testa
Giuseppa Sabrina in data 19.08.2010 e che non risulta
impugnata, sicché essa ormai è divenuta definitiva.
Di conseguenza, è del tutto infondato l’assunto della
ricorrente laddove afferma che la mancata notifica
dell’ordine di demolizione renderebbe illegittimo
l’accertamento, successivo, della inottemperanza allo
stesso.
Per giurisprudenza costante, l’accertamento
dell’inottemperanza è atto dovuto, che consegue al mero
decorso del termine di 90 giorni per dare esecuzione
all’ordinanza di demolizione.
Pertanto, una volta dimostrato che la titolare dell’abuso
era a conoscenza dell’obbligo di demolire quanto contestato
dall’Amministrazione e non vi si è opposta, qualsiasi
censura avverso il successivo provvedimento non ha ragione
di essere accolta se non per vizi propri (inesistenti nel
caso di specie) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 11.01.2013 n. 34 - link a
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EDILIZIA
PRIVATA:
Il provvedimento di rigetto dell'istanza di
concessione edilizia in sanatoria non deve essere preceduto
dall'avviso dell'inizio del procedimento, essendo questo
iniziato ad istanza di parte.
Inoltre, nemmeno i provvedimenti repressivi di abusi edilizi
devono essere preceduti dall'avviso dell'inizio del
procedimento, trattandosi di procedimenti tipizzati e
vincolati e considerato che i provvedimenti sanzionatori
presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza
delle opere realizzate, nonché sul carattere non assentito
delle medesime.
Con riferimento al secondo motivo di ricorso (violazione delle norme sul
procedimento amministrativo - art. 7 L. 241/1990) deve intanto
osservarsi che per consolidata giurisprudenza amministrativa
il provvedimento di rigetto dell'istanza di concessione
edilizia in sanatoria non deve essere preceduto dall'avviso
dell'inizio del procedimento, essendo questo iniziato ad
istanza di parte (TAR Campania, sez. IV, 24.07.2001,
n. 3540; 19.03.2002, n. 1433, 17.06.2002, n. 3611; 20.02.2003, n. 1021, 20.10.2003, n. 12924; TAR
Sicilia, sez. II, 13.03.2007, n. 791).
Inoltre, costituisce altrettanto principio pacifico che
nemmeno i provvedimenti repressivi di abusi edilizi devono
essere preceduti dall'avviso dell'inizio del procedimento,
trattandosi di procedimenti tipizzati e vincolati e
considerato che i provvedimenti sanzionatori presuppongono
un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate, nonché sul carattere non assentito delle
medesime (Cons. Stato, sez. IV, 30.03.2000, n. 1814;
TAR Campania, sez. IV, 28.03.2001, n. 1404, 14.06.2002, n. 3499, 12.02.2003, n. 797; TAR Sicilia,
Catania sez. III, 03.03.2003, n. 374; TAR Sicilia,
Palermo, sez. III, 20.04.2005, n. 577, 20.03.2006, n.
608; sez. II, 27.03.2007, n. 979, 06.06.2007, n. 1617) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 11.01.2013 n. 26 - link a
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PUBBLICO
IMPIEGO:
Nell'ambito del
procedimento di concorso, i titoli che il candidato intende
sottoporre alla valutazione della commissione esaminatrice,
onde ottenerne l'attribuzione del relativo punteggio,
rientrano nella sua piena disponibilità, di modo che non
possono essere attribuiti al candidato punteggi per titoli
non allegati, anche se afferenti ad attività svolte presso
la medesima Amministrazione che ha indetto il concorso, né
titoli il cui possesso è indicato, ma non documentato, a
fronte di una prescrizione del bando che preveda un onere di
allegazione documentale a carico del candidato; e ciò a
maggior ragione se si considera che la commissione
esaminatrice non è organo ordinario dell'Amministrazione di
modo che, facendo parte della sua stabile organizzazione,
potrebbe essere intesa come depositaria dei relativi
documenti, bensì organo straordinario, cui compete solo di
sovrintendere alle prove, valutare le stesse e, nei concorsi
che prevedono anche titoli valutabili, attribuire i punteggi
a questi ultimi, secondo criteri predefiniti.
Infatti, laddove il bando di concorso preveda
obbligatoriamente a carico dei candidati l'onere di
allegazione di tutti quei documenti scientifici e di
carriera che il candidato ritenga opportuno presentare agli
effetti della valutazione di merito e della formazione della
graduatoria, deve escludersi la possibilità di configurare
in capo alla commissione esaminatrice un'attività
istruttoria diretta all'acquisizione dei titoli, che
l'interessato ha dichiarato di possedere, perché a tutela
della «par condicio» tra i concorrenti di un pubblico
concorso possono essere valutati i soli titoli prodotti
dagli interessati entro il termine di presentazione della
domanda stabilito dal bando.
Sul punto, la giurisprudenza amministrativa è coerente nel
sostenere che nell'ambito del procedimento di concorso, i
titoli che il candidato intende sottoporre alla valutazione
della commissione esaminatrice, onde ottenerne
l'attribuzione del relativo punteggio, rientrano nella sua
piena disponibilità, di modo che non possono essere
attribuiti al candidato punteggi per titoli non allegati,
anche se afferenti ad attività svolte presso la medesima
Amministrazione che ha indetto il concorso, né titoli il cui
possesso è indicato, ma non documentato, a fronte di una
prescrizione del bando che preveda un onere di allegazione
documentale a carico del candidato; e ciò a maggior ragione
se si considera che la commissione esaminatrice non è organo
ordinario dell'Amministrazione di modo che, facendo parte
della sua stabile organizzazione, potrebbe essere intesa
come depositaria dei relativi documenti, bensì organo
straordinario, cui compete solo di sovrintendere alle prove,
valutare le stesse e, nei concorsi che prevedono anche
titoli valutabili, attribuire i punteggi a questi ultimi,
secondo criteri predefiniti (ex multis, Cons. St., sez. IV,
16.06.2011, n. 3659; TAR Lazio, sez. I, 11.04.2011, n. 3166).
Infatti, laddove il bando di concorso preveda
obbligatoriamente a carico dei candidati l'onere di
allegazione di tutti quei documenti scientifici e di
carriera che il candidato ritenga opportuno presentare agli
effetti della valutazione di merito e della formazione della
graduatoria, deve escludersi la possibilità di configurare
in capo alla commissione esaminatrice un'attività
istruttoria diretta all'acquisizione dei titoli, che
l'interessato ha dichiarato di possedere, perché a tutela
della «par condicio» tra i concorrenti di un pubblico
concorso possono essere valutati i soli titoli prodotti
dagli interessati entro il termine di presentazione della
domanda stabilito dal bando (TAR Lazio, sez. III,
11.09.2008, n. 8266) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 11.01.2013 n. 21- link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI:
Laddove un ricorso non è
sia stato notificato all’Amministrazione in persona del
Sindaco quale legale rappresentante dell’Ente bensì soltanto
al dirigente, va preliminarmente esclusa la legittimazione
passiva del responsabile del procedimento, in quanto l'atto
impugnato è imputabile al Comune intimato, rappresentato in
sede processuale dal sindaco pro tempore; di conseguenza va
estromesso dal processo il responsabile dell'ufficio tecnico
urbanistico comunale.
Invero, il ricorso è inammissibile non essendo stata
ritualmente intimata l’amministrazione comunale poiché il
ricorso non risulta notificato alla stessa in persona del
Sindaco pro tempore che è l’organo che rappresenta l'Ente in
giudizio ai sensi dell’art. 50, co. 2, del d.lgs. 18.08.2000
n. 262, che riproduce l'art. 36, co. 1, della legge
08.06.1990 n. 142.
E’, infatti, irrituale la notifica del ricorso non
effettuata al Comune in persona del Sindaco pro tempore
bensì al dirigente, in quanto, anche se quest'ultimo è
competente ad emanare i provvedimenti, che attengono alla
specifica materia e settore, l'attività in tal senso svolta
è sempre complessivamente riferibile all'amministrazione
comunale, a capo della quale si colloca il Sindaco, nella
sua qualità di legale rappresentante dell'ente munito di
legittimazione passiva.
Del resto il riconosciuto eventuale potere dei dirigenti di
promuovere o resistere alle liti riguarda la loro
legittimazione processuale e non già la rappresentanza
dell'Ente, che è l'elemento rilevante in materia di notifica
degli atti.
Il ricorrente ha adito il Tar per ottenere l’annullamento del parziale
diniego di accesso ai documenti amministrativi richiesti.
Il ricorso non è stato notificato all’Amministrazione in
persona del Sindaco quale legale rappresentante dell’Ente
bensì soltanto al dirigente ed al difensore civico.
Si è costituito in giudizio il solo dirigente intimato.
All’odierna camera di consiglio la causa è stata trattenuta
in decisione.
Va preliminarmente esclusa la legittimazione passiva
del responsabile del procedimento, in quanto l'atto
impugnato è imputabile al Comune intimato, rappresentato in
sede processuale dal sindaco pro tempore; di conseguenza va
estromesso dal processo il responsabile dell'ufficio tecnico
urbanistico comunale (TAR Catanzaro Calabria, sez. II, 13.12.2011).
Ciò premesso il ricorso è inammissibile non essendo stata
ritualmente intimata l’amministrazione comunale poiché il
ricorso non risulta notificato alla stessa in persona del
Sindaco pro tempore che è l’organo che rappresenta l'Ente in
giudizio ai sensi dell’art. 50, co. 2, del d.lgs. 18.08.2000 n. 262, che riproduce l'art. 36, co. 1, della legge
08.06.1990 n. 142 (Consiglio di Stato sez. V, 18.10.2011, n. 5584; Consiglio Stato sez. V, 21.01.2009, n. 280).
E’, infatti, irrituale la notifica del ricorso non
effettuata al Comune in persona del Sindaco pro tempore
bensì al dirigente, in quanto, anche se quest'ultimo è
competente ad emanare i provvedimenti, che attengono alla
specifica materia e settore, l'attività in tal senso svolta
è sempre complessivamente riferibile all'amministrazione
comunale, a capo della quale si colloca il Sindaco, nella
sua qualità di legale rappresentante dell'ente munito di
legittimazione passiva (cfr. Consiglio di Stato, Sezione V,
25.01.2005, n. 155; TAR Sicilia, Palermo, Sezione II,
13.03.2007 n. 799; Sezione III, 06.06.2005 n. 954 e 11.07.2005 n. 1198; TAR Marche, 20.01.2003 n. 8;
TAR Basilicata, 03.02.2004 n. 50; TAR Lazio,
Sezione II, 08.09.2005, n. 6664).
Del resto il riconosciuto eventuale potere dei dirigenti di
promuovere o resistere alle liti riguarda la loro
legittimazione processuale e non già la rappresentanza
dell'Ente, che è l'elemento rilevante in materia di notifica
degli atti (Consiglio Stato, sez. V, 25.01.2005, n. 155) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 11.01.2013 n. 17 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
In base all’art. 7, comma
1, della l. 241/1990 può derogarsi all’obbligo della
comunicazione di avvio del procedimento solo per ragioni di
impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità
del procedimento, che devono essere esternate mediante
motivazione idonea a dimostrare che a causa dell’adempimento
dell’obbligo di comunicazione potrebbe essere compromesso il
soddisfacimento dell’interesse pubblico cui il provvedimento
è rivolto.
---------------
L’art. 7 della l. n. 241/1990 dispone la comunicazione
dell’avvio del procedimento ove non sussistano ragioni di
impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità
del procedimento stesso.
La giurisprudenza ha precisato che esse ragioni, che devono
essere “qualificate” solo in caso di adozione di
provvedimenti contingibili ed urgenti, debbano essere
adeguatamente e puntualmente esplicitate nella motivazione
del provvedimento in concreto adottato.
Con il primo motivo di appello è stato dedotto che il Giudice di primo
grado non ha ritenuto fondata la censura relativa alla
mancata comunicazione di avvio del procedimento prima della
adozione delle deliberazioni comunali di revoca della
convenzione in atto con la attuale appellante erroneamente
ritenendo che sussistessero ragioni di urgenza, consistenti
nella incuria del verde, giustificanti l’omissione delle
garanzie di cui agli artt. 3, 7 e 10 della l. n. 241/1990.
Invero in base all’art. 7, comma 1, della legge sopra citata
può derogarsi all’obbligo della comunicazione suddetta solo
per ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze
di celerità del procedimento, che devono essere esternate
mediante motivazione idonea a dimostrare che a causa
dell’adempimento dell’obbligo di comunicazione potrebbe
essere compromesso il soddisfacimento dell’interesse
pubblico cui il provvedimento è rivolto.
Nel caso che occupa la motivazione, indicata nella mera
“incuria del verde”, sarebbe da considerare inadeguata,
tenuto conto sia del fatto che non è sufficiente la
sussistenza di una qualsiasi urgenza, che deve essere
“qualificata” (cioè riferita a casi eccezionali), sia della
gravità degli effetti del provvedimento impugnato e sia
della circostanza che la attuale appellante se le fosse
stato comunicato l’avvio del procedimento avrebbe avuto la
possibilità di controdedurre al riguardo, evidenziando che
non sussisteva alcuna ragione di gravità ed urgenza tale da
giustificare la omissione di detta comunicazione perché il
Comune avrebbe potuto, in caso di effettivo pericolo di
incendio derivante dall’incuria del verde, comunque
intervenire senza problemi.
La insussistenza di ragioni di urgenza sarebbe dimostrata
anche dalla circostanza che con la deliberazione n. 12 del
10.6.2008 del Consiglio Comunale di Bivongi era stato dato
mandato al Sindaco di prendere preventivamente contatti con
l’Arcidiocesi Ortodossa al fine di pervenire ad una nuova
intesa e non di procedere alla frettolosa sostituzione di
essa Arcidiocesi nella direzione della Basilica oggetto
della pregressa convenzione di concessione in uso.
Tanto sarebbe stato ignorato dal Giudice di prime cure, che
non avrebbe nemmeno considerato che detta deliberazione non
è stata mai notificata, né altrimenti comunicata alla
Arcidiocesi appellante, con comportamento lesivo delle
regole di buona fede che devono caratterizzare i rapporti
negoziali e contrario alle effettive intenzioni del
Consiglio Comunale.
La Sezione osserva che l’art. 7 della l. n. 241/1990
dispone la comunicazione dell’avvio del procedimento ove non
sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari
esigenze di celerità del procedimento stesso.
La giurisprudenza ha precisato che esse ragioni, che devono
essere “qualificate” solo in caso di adozione di
provvedimenti contingibili ed urgenti, debbano essere
adeguatamente e puntualmente esplicitate nella motivazione
del provvedimento in concreto adottato (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 10.01.2013 n. 91 - link a
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EDILIZIA
PRIVATA:
Alle Regioni ed ai Comuni
è consentito -nell’ambito delle proprie e rispettive
competenze- individuare criteri localizzativi degli impianti
di telefonia mobile (anche espressi sotto forma di divieto)
quali ad esempio il divieto di collocare antenne su
specifici edifici (ospedali, case di cura ecc.) mentre non è
loro consentito introdurre limitazioni alla localizzazione,
consistenti in criteri distanziali generici ed eterogenei
(prescrizione di distanze minime, da rispettare
nell’installazione degli impianti, dal perimetro esterno di
edifici destinati ad abitazioni, a luoghi di lavoro o ad
attività diverse da quelle specificamente connesse
all’esercizio degli impianti stessi, di ospedali, case di
cura e di riposo, edifici adibiti al culto, scuole ed asili
nido nonché di immobili vincolati ai sensi della
legislazione sui beni storico-artistici o individuati come
edifici di pregio storico-architettonico, di parchi
pubblici, parchi gioco, aree verdi attrezzate ed impianti
sportivi).
Ne deriva che la scelta di individuare, come nel caso di
specie, un’area ove collocare gli impianti in base al
criterio della massima distanza possibile dal centro abitato
non può ritenersi condivisibile, costituendo un limite alla
localizzazione (non consentito) e non un criterio di
localizzazione (consentito).
A ciò deve aggiungersi che la potestà attribuita
all’amministrazione comunale di individuare aree dove
collocare gli impianti è condizionata dal fatto che
l’esercizio di tale facoltà deve essere rivolto alla
realizzazione di una rete completa di infrastrutture di
telecomunicazioni, tale da non pregiudicare, come ritenuto
dalla giurisprudenza, l’interesse nazionale alla copertura
del territorio e all’efficiente distribuzione del servizio.
Nel merito, il Collegio osserva che i criteri con cui procedere
all’individuazione dei siti dove collocare gli impianti di
telefonia mobile sono stati già oggetto di decisione del
Consiglio di Stato (Sez. VI, 09.06.2006, n. 3452), da cui
il Collegio non ravvisa motivate ragioni per discostarsi.
In base a tali indirizzi giurisprudenziali è stato ritenuto
che alle Regioni ed ai Comuni è consentito -nell’ambito
delle proprie e rispettive competenze- individuare criteri
localizzativi degli impianti di telefonia mobile (anche
espressi sotto forma di divieto) quali ad esempio il divieto
di collocare antenne su specifici edifici (ospedali, case di
cura ecc.) mentre non è loro consentito introdurre
limitazioni alla localizzazione, consistenti in criteri
distanziali generici ed eterogenei (prescrizione di distanze
minime, da rispettare nell’installazione degli impianti, dal
perimetro esterno di edifici destinati ad abitazioni, a
luoghi di lavoro o ad attività diverse da quelle
specificamente connesse all’esercizio degli impianti stessi,
di ospedali, case di cura e di riposo, edifici adibiti al
culto, scuole ed asili nido nonché di immobili vincolati ai
sensi della legislazione sui beni storico-artistici o
individuati come edifici di pregio storico-architettonico,
di parchi pubblici, parchi gioco, aree verdi attrezzate ed
impianti sportivi).
Ne deriva che la scelta di individuare, come nel caso di
specie, un’area ove collocare gli impianti in base al
criterio della massima distanza possibile dal centro abitato
non può ritenersi condivisibile, costituendo un limite alla
localizzazione (non consentito) e non un criterio di
localizzazione (consentito).
A ciò deve aggiungersi che la potestà attribuita
all’amministrazione comunale di individuare aree dove
collocare gli impianti è condizionata dal fatto che
l’esercizio di tale facoltà deve essere rivolto alla
realizzazione di una rete completa di infrastrutture di
telecomunicazioni, tale da non pregiudicare, come ritenuto
dalla giurisprudenza, l’interesse nazionale alla copertura
del territorio e all’efficiente distribuzione del servizio
(Cons. di Stato, Sez. VI, 05.12.2005, n. 6961) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.01.2013 n. 44 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
"Servizi religiosi" e normativa urbanistica.
Con
sentenza 04.01.2013 n. 21 il TAR Lombardia-Milano, Sez.
II, si pronuncia sull’art. 72, co. 4-bis, l.r. 12/2005, che
ammette la realizzazione di “nuove attrezzature per i
servizi religiosi” esclusivamente nelle aree
classificate a standard fino all’approvazione del piano dei
servizi, giudicando indimostrato, nel caso di specie, che
una richiesta di permesso di costruire per cambio di
destinazione d’uso avanzata da un’associazione di diritto
privato per la realizzazione di un centro culturale possa
rientrare in tale definizione ed essere sottoposta a tale
disciplina.
L’Unione Comunità islamica valtellinese è un’associazione
che ha come scopo statutario “la realizzazione di
iniziative utili sia a promuovere la conoscenza dell’Islam
in Italia che a rendere più autenticamente islamica la vita
delle famiglie musulmane in Italia”.
Proprietaria di un immobile a Sondrio, presenta in Comune
una richiesta di permesso di costruire per cambio di
destinazione d’uso “per l’adeguamento degli spazi
attualmente destinati a palestra per la realizzazione di un
centro culturale con relativi servizi”.
Il Comune, con preavviso di rigetto ex art. 10-bis l.
241/1990, rappresenta la mancanza del parere di conformità
alla normativa antincendio (ex art. 2 d.p.r. 37/1998),
assimilando l’attività dell’associazione a quella dei “locali
di spettacolo e trattenimento in genere con capienza
superiore a 100 posti” (n. 83 dell’allegato al d.m.
16.02.1982).
Successivamente, il Comune comunica il diniego definitivo di
permesso di costruire, fondato essenzialmente su ragioni di
natura urbanistica, asserendo il contrasto del progetto con
le previsioni di PRG relative alla zona B1 e la violazione
dell’art. 72, co. 4-bis, della l.r. 12/2005.
Tuttavia, sostiene il TAR, non è stato
dimostrato che la destinazione richiesta dall’Associazione
sia riconducibile alle “nuove attrezzature per i servizi
religiosi” di cui all’art. 72, co. 4-bis, l.r. 12/2005
e, di conseguenza, non è possibile stabilire la
compatibilità della destinazione richiesta con quelle
ammesse nella zona di ubicazione dell’immobile da parte
della pianificazione comunale.
In particolare, il giudice amministrativo rileva e censura
la discrasia tra preavviso di diniego e diniego definitivo:
quest’ultimo, come detto, fa riferimento a questioni
urbanistiche di cui il preavviso di diniego non fa menzione,
con ciò integrando una violazione dell’art. 10-bis l.
241/1990.
Scopo precipuo del preavviso di diniego, ove correttamente
effettuato, è quello di garantire un apporto in funzione
collaborativa da parte dell’interessato nel procedimento
amministrativo. Nella vicenda in esame, invece,
l’amministrazione (“in modo parziale e incompleto”)
ha omesso di riferire in via preliminare sulle possibili
problematiche di carattere urbanistico, pregiudicando così
l’apporto collaborativo dell’Unione Comunità islamica
valtellinese.
Un apporto del richiedente sarebbe stato sicuramente
auspicabile e avrebbe potuto fare maggior chiarezza sulla
natura dell’Unione, in funzione della corretta
individuazione della normativa applicabile.
L’Associazione ricorrente, infatti, in quanto associazione
di diritto privato non qualificabile come confessione
religiosa, nega che, ai fini urbanistici, la sua attività e
le sue strutture possano rientrare nel novero dei “servizi
religiosi” ex art. 72, co. 4-bis. Tuttavia, nella
richiesta di permesso di costruire, essa stessa si definisce
a volte come “associazione culturale”, altre volte
come “luogo di culto”.
Similmente il Comune, che a fini urbanistici considera
l’associazione islamica alla stregua dei “servizi
religiosi”, sotto il profilo della normativa antincendio
assimila l’attività dell’Unione a quella dei “locali di
spettacolo e trattenimento in genere”.
Il TAR accoglie pertanto il ricorso e annulla il diniego di
permesso di costruire; sulla richiesta presentata
dall’Unione islamica l’amministrazione “dovrà
ripronunciarsi mediante riesercizio del potere previo il
concreto coinvolgimento in sede procedimentale
dell’Associazione”.
Resta così assorbito il motivo con cui la ricorrente
chiedeva di sollevare questione di legittimità
costituzionale dell’art. 72, co. 4-bis, l.r. 12/2005 in
riferimento agli artt. 17–20 Cost. (libertà di riunione, di
associazione, libertà religiosa) (link a http://studiospallino.blogspot.it). |
URBANISTICA:
Il limite temporale del
quinquennio, riguardante l’efficacia delle prescrizioni dei
piani regolatori generali nella parte in cui incidono su
beni determinati ed assoggettano i beni stessi a vincoli
preordinati all’espropriazione od a vincoli che comportino
l’inedificabilità, è valevole unicamente per quei vincoli
che producano un effetto sostanzialmente espropriativo, tale
da annullare o ridurre notevolmente il valore degli immobili
cui si riferiscono.
La censura va disattesa, sottolineando come il limite temporale del
quinquennio, riguardante l’efficacia delle prescrizioni dei
piani regolatori generali nella parte in cui incidono su
beni determinati ed assoggettano i beni stessi a vincoli
preordinati all’espropriazione od a vincoli che comportino
l’inedificabilità, è valevole unicamente per quei vincoli
che producano un effetto sostanzialmente espropriativo, tale
da annullare o ridurre notevolmente il valore degli immobili
cui si riferiscono.
Nel caso in esame, invece, si verte in
tema di decadenza del vincolo strumentale, ossia quello che
subordina l’edificabilità di un’area all’inserimento della
stessa in un programma pluriennale oppure alla formazione di
uno strumento esecutivo. In tale circostanza, venendo meno
la configurabilità dello schema ablatorio, è esclusa anche
la decadenza quinquennale del relativo vincolo (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.01.2013 n. 5 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Appalti
tra enti con gara.
No alla stipula di contratti di appalto tra due enti
pubblici senza gara. In materia di appalti pubblici, il
diritto dell'Ue, osta ad una normativa nazionale che
autorizzi la stipulazione, senza previa gara, di un
contratto. Mediante il quale taluni enti pubblici
istituiscono tra loro una cooperazione, nel caso in cui tale
contratto non abbia il fine di garantire l'adempimento di
una funzione di servizio pubblico comune agli enti medesimi,
non sia retto unicamente da considerazioni ed esigenze
connesse al perseguimento di obiettivi d'interesse pubblico,
oppure sia tale da porre un prestatore privato in una
situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti.
Questo è quanto previsto dalla Corte di giustizia europea,
grande sezione, nella
sentenza 19.12.2012 n. C-159/11.
Il fatto in sintesi: L'Asl di Lecce e l'università del
Salento hanno siglato un contratto di consulenza avente ad
oggetto lo studio e la valutazione della vulnerabilità
sismica delle strutture ospedaliere della Provincia di Lecce
. I giudici di Lussemburgo osservano che il contratto a
titolo oneroso redatto per iscritto tra un operatore
economico e un'amministrazione aggiudicatrice costituisce a
tutti gli effetti un appalto pubblico.
Sottolineano, inoltre, che è ininfluente la circostanza
secondo la quale tale operatore sia esso stesso
un'amministrazione aggiudicatrice (nella specie università)
e non persegua un preminente scopo di lucro, non abbia una
struttura imprenditoriale e non assicuri una presenza
continua sul mercato. La Corte sottolinea che due tipi di
appalti conclusi da enti pubblici sfuggono all'ambito di
applicazione del diritto dell'unione.
Si tratta dei contratti stipulati da un ente pubblico con un
soggetto giuridicamente distinto da esso, quando detto ente
eserciti su tale soggetto un controllo analogo a quello che
esercita sui propri servizi e il soggetto in questione
realizzi la parte più importante della propria attività con
l'ente o con gli enti che lo controllano. Oppure nel caso
dei contratti che istituiscono una cooperazione tra enti
pubblici finalizzata a garantire l'adempimento di una
funzione di servizio pubblico comune a questi ultimi
(articolo ItaliaOggi del 18.01.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il Cds sulle strutture dei ristoranti non più asportabili. Il
gazebo abusivo.
È illegale se difficile da smontare.
È abusivo il gazebo installato in un ristorante se non è più
amovibile e facilmente smontabile e asportabile. Infatti, se
un gazebo perde le sue caratteristiche di precarietà per la
sostituzione delle strutture portanti (dirette a soddisfare
esigenze permanenti), si determina un'alterazione dello
stato dei luoghi e un sicuro incremento del carico
urbanistico.
Questo è il costrutto normativo tracciato dal
Consiglio di Stato (Sez. VI) con la
sentenza del 12.12.2012 n. 6382.
Il fatto, in sintesi: il proprietario
di un ristorante nel comune di Malcesine, nel febbraio 2001
veniva autorizzato in area paesisticamente vincolata, alla
posa di quattro gazebo in legno sulla terrazza di pertinenza
del ristorante, caratterizzati da una struttura precaria,
facilmente smontabile e asportabile.
Nel febbraio 2009,
previa segnalazione, i tecnici della polizia municipale
eseguivano un sopralluogo, riscontrando che erano in corso
interventi sulla copertura, con la sostituzione del telo
plastificato bianco con una struttura in grosse travi di
legno e non, come invece previsto, con materiali in perline
di legno e lamiera aggraffata, nonché con la
ripavimentazione e la dotazione di un impianto elettrico, di
climatizzazione e sonoro.
In seguito ai rilievi effettuati
dalla polizia municipale, il comune aveva quindi adottato
un'ordinanza di demolizione, alla quale il proprietario del
ristorante aveva risposto con la presentazione di una
domanda di sanatoria per le opere abusive realizzate.
Domanda rigettata perché la volumetria realizzata, era
incompatibile con il rispetto della disciplina urbanistico-edilizia
e con le norme tutelanti il vigente vincolo paesaggistico.
Il proprietario del ristorante, vedendosi negata la
sanatoria dei lavori apportati ai gazebo, proponeva ricorso.
I giudici amministrativi concludevano che il gazebo aveva
perso i connotati di precarietà e amovibilità che ne avevano
legittimato l'installazione
(articolo ItaliaOggi del 15.01.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Mancanza di autorizzazione paesaggistica - Natura
del delitto paesaggistico - Reato di pericolo – Fattispecie
- Artt. 149, lett. b), e 181 D. Lgs. n. 42/2004.
Il delitto paesaggistico di cui all'art. 181, comma 1, del
D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, ha natura di reato di
pericolo e non richiede, per la sua configurabilità, un
effettivo pregiudizio per l'ambiente, potendo escludersi dal
novero delle condotte penalmente rilevanti soltanto quelle
che si prospettino inidonee, pure in astratto, a
compromettere i valori del paesaggio e l'aspetto esteriore
degli edifici (Cass., Sez. 3, 20/10/2009, n. 2903 Soverini).
Nella specie l'opera, seppure realizzata in legno, poggiava
su un solido basamento in calcestruzzo e presentava
copertura in coppi, sì che deve senz'altro escludersi la
mancanza di lesione del bene protetto. Né è individuabile
una violazione di legge nella mancata applicazione della
previsione dell'art. 149, lett. b), del D.Lgs. 2004, n. 42,
atteso che la mancanza di autorizzazione paesaggistica è da
tale norma espressamente limitata agli interventi che non
comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con
costruzioni edilizie.
Reato paesaggistico - Norme urbanistiche
e paesaggistiche - Effetti e differenze.
Nei casi di reato paesaggistico, la concessione rilasciata a
seguito di accertamento di conformità estingue i reati
contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti,
ma non i reati paesaggistici previsti dal D.Lgs. 22.01.2004,
n. 42, che sono soggetti ad una disciplina difforme e
differenziata, legittimamente e costituzionalmente distinta,
avente oggettività giuridica diversa, rispetto a quella che
riguarda l'assetto del territorio sotto il profilo edilizio.
(Cass., Sez. 3, n. 37318 del 03/07/2007, Carusotto e altro;
v. anche Corte Cost., ord. 21/07/2000, n. 327) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.12.2012 n. 47646 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Sanatoria - Limiti - C.d. sanatoria
"giurisprudenziale" o "impropria" - Estinzione del reato
urbanistico - Esclusione - Artt. 3, 36, 44 lett. c), 45 Dpr
n. 380/2001.
In materia urbanistica, non è sanabile l'opera che non sia
"conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente
sia al momento della realizzazione dell'intervento, sia al
momento della presentazione della domanda" ex art. 36 del
Dpr n. 380 del 2001 (Cass. Sez. 3, n. 111149 del 15/02/2002,
Rossi).
Né appare invocabile la cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale",
secondo cui sarebbe ammissibile la sanatoria di opere che,
benché non conformi alle norme urbanistico-edilizie ed alle
previsioni degli strumenti di pianificazione al momento in
cui siano state eseguite, lo siano diventate
successivamente. L'orientamento che riconosce tale
possibilità di sanatoria (c.d. "giurisprudenziale" o
"impropria") si basa essenzialmente sull'argomento
secondo cui non avrebbe senso dare corso alla demolizione di
un'opera che subito dopo potrebbe essere assentita.
In nessun caso, tuttavia, tale tipo di sanatoria può
comportare l'estinzione del reato urbanistico, non essendo
applicabile il disposto di cui all'art. 45 del d.P.R. n. 380
del 2001 (Cass. Sez. 3, n. 24451 del 26/04/2007, P.G. in
proc. Micolucci) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.12.2012 n. 47646 -
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EDILIZIA
PRIVATA:
Pertinenza urbanistica - Caratteristiche del
manufatto pertinenziale - Natura pertinenziale di un
manufatto - Oggettiva compresenza dei requisiti - Necessità.
Le caratteristiche peculiari della pertinenza urbanistica
sono state più volte indicate e possono essere così
sintetizzate:
- deve trattarsi di un'opera che abbia comunque una propria
individualità fisica ed una propria conformazione
strutturale e non sia parte integrante o costitutiva di
altro fabbricato;
- deve essere preordinata ad un'oggettiva esigenza
dell'edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente
inserita al servizio dello stesso onde renderne più agevole
e funzionale l'uso;
- deve essere sfornita di un autonomo valore di mercato e
non deve essere valutabile in termini di cubatura o comunque
dotata di un volume minimo (non superiore, in ogni caso, al
20% di quello dell'edificio principale) tale da non
consentire, in relazione anche alle caratteristiche
dell'edificio principale, una sua destinazione autonoma e
diversa da quella a servizio dell'immobile cui accede;
- la relazione con la costruzione preesistente deve essere,
in ogni caso, non di integrazione ma "di servizio",
allo scopo di renderne più agevole e funzionale l'uso.
Si è ulteriormente chiarito, che il manufatto pertinenziale,
oltre a dover accedere ad un edificio preesistente edificato
legittimamente, deve necessariamente presentare la
caratteristica della ridotta dimensione anche in assoluto, a
prescindere dal rapporto con l'edificio principale e non
deve essere in contrasto con gli strumenti urbanistici
vigenti e con quelli eventualmente soltanto adottati.
È dunque evidente che la natura pertinenziale di un
manufatto non può essere astrattamente desunta,
esclusivamente dalla destinazione (peraltro soltanto
dichiarata e pure incerta: "lavanderia o legnala") o
dalle caratteristiche costruttive, ma deve risultare dalla
oggettiva compresenza dei requisiti menzionati (Cass. Sez.3,
n. 25669 del 30/05/2012, Zeno e altro) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.12.2012 n. 47646 -
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EDILIZIA
PRIVATA:
Reati urbanistici - Diniego di sanatoria -
Ricorso al giudice amministrativo - Sospensione dell'azione
penale - Esclusione - Giudice penale - Poteri.
In materia di reati urbanistici, il ricorso al giudice
amministrativo avverso il diniego di sanatoria per abuso
edilizio non comporta la sospensione dell'azione penale
promossa per la relativa violazione, essendo detta
sospensione limitata temporalmente sino alla decisione degli
organi comunali sulla relativa domanda di sanatoria,
manifestata anche nella forma del silenzio-rifiuto (Sez. 3,
n. 24245 del 24/03/2010, Chiarello).
Così, con riferimento a fattispecie di ricorso al giudice
amministrativo avverso diniego di concessione in sanatoria,
la legge non stabilisce, in materia, una pregiudiziale
amministrativa ed attribuisce anzi al giudice penale il
potere-dovere di espletare ogni accertamento per stabilire
l'applicabilità della causa di estinzione del reato, né il
giudice penale è vincolato all'esito del procedimento
instaurato davanti al giudice amministrativo, da cui
l'inutilità di ogni sospensione del giudizio penale (Cass.
Sez. 3, n. 1188 del 05/11/1999, Fornaca) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.12.2012 n. 47646 -
link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Possibile la nomina di due commissioni nella stessa gara di
appalto.
E' possibile che in una gara di appalto siano nominate due
commissioni con competenze diverse ma la loro nomina deve
avvenire con i criteri previsti dall'articolo 84, primo
comma, del D.Lgs. 163/2006, altrimenti la gara è da
annullare.
E' sostanzialmente quanto affermato dal TAR
Liguria, Sez. II, con la
sentenza
07.12.2012 n. 1570.
La questione riguarda una società per azioni che era ricorsa
ai giudici amministrativi del TAR impugnando l’atto di
aggiudicazione con cui una azienda ospedaliera-universitaria
aveva affidato un contratto di appalto ad una ditta
concorrente per lavori di manutenzione ordinaria e di
manutenzione straordinaria degli impianti elevatori.
L’aggiudicazione si era svolta con il criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa.
Tra le motivazioni del ricorso vi era anche il fatto che la
ditta ricorrente lamentava la radicale illegittimità delle
operazioni di gara per l’omessa costituzione della
Commissione aggiudicatrice che, avrebbe dovuto espletare
tutte le operazioni, ad eccezione della valutazione delle
offerte tecniche riservata ad apposita altra Commissione.
Il TAR nell’esaminare il ricorso osserva che il bando di
gara ha specificamente previsto la nomina di due
Commissioni. La prima, composta ai sensi del regolamento dei
contratti pubblici di cui al DPR 05.10.2010, n. 207,
avrebbe dovuto provvedere ad eseguire tutte le operazioni di
gara fino all’esame delle offerte tecniche; la seconda,
esaurita la prima fase, avrebbe dovuto procedere
autonomamente alla valutazione delle offerte tecniche.
In sostanza il bando ha espressamente previsto due
commissioni, assegnando a ciascuna di esse distinte e
specifiche funzioni.
La finalità con la quale la stazione appaltante ha scelto
il percorso delle due commissioni risiede nel fatto che la
specialità tecnica delle prestazioni contrattuali messe in
gara giustificava la duplicità delle commissioni preposte
rispettivamente alla verifica tecnica ed amministrativa
delle offerte.
Di fatto, però, la commissione deputata allo svolgimento
delle operazioni di gara, anteriori alla valutazione delle
offerte tecniche, non è mai stata costituita.
Come risulta dai verbali di gara, un solo funzionario,
auto-qualificatosi come presidente di Commissione, “alla
presenza di due testimoni”, ha compiuto tutte le operazioni.
Tale condotta ha comportato, per i giudici amministrativi,
una serie di errori che possono essere così riassunti:
a. viola la lex specialis che espressamente ha previsto
l’istituzione di una Commissione costituita “secondo il
regolamento dei contratti vigente”;
b. viola l’art. 84, comma
1, D.Lgs. n. 163/2006 che nelle procedure di gara secondo il
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa,
prescrive la nomina di una commissione aggiudicatrice che
opera nel plenum dei (singoli) membri che la compongono.
Occorre ricordare, ai sensi dell’articolo 84 del D.Lgs.
163/2006, che la Commissione aggiudicatrice, nominata
dall'organo della stazione appaltante competente ad
effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto,
è composta da un numero dispari di componenti, in numero
massimo di cinque, esperti nello specifico settore cui si
riferisce l'oggetto del contratto; è presieduta di norma da
un dirigente della stazione appaltante e, in caso di
mancanza in organico, da un funzionario della stazione
appaltante incaricato di funzioni apicali, nominato
dall'organo competente. I commissari diversi dal Presidente
non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra
funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente
al contratto del cui affidamento si tratta. Non possono
essere nominati commissari coloro che nel biennio precedente
hanno rivestito cariche di pubblico amministratore
relativamente a contratti affidati dalle amministrazioni
presso le quali hanno prestato servizio; sono esclusi da
successivi incarichi di commissario coloro che, in qualità
di membri delle commissioni giudicatrici, abbiano concorso,
con dolo o colpa grave accertati in sede giurisdizionale con
sentenza non sospesa, all'approvazione di atti dichiarati
illegittimi.
I commissari diversi dal presidente sono selezionati tra i
funzionari della stazione appaltante; in caso di accertata
carenza in organico di adeguate professionalità, nonché
negli altri casi previsti dal regolamento in cui ricorrono
esigenze oggettive e comprovate, i commissari diversi dal
presidente sono scelti tra funzionari di amministrazioni
aggiudicatrici ovvero con un criterio di rotazione tra gli
appartenenti alle seguenti categorie:
a. professionisti, con almeno dieci anni di iscrizione nei
rispettivi albi professionali, nell'ambito di un elenco,
formato sulla base di rose di candidati fornite dagli ordini
professionali;
b. professori universitari di ruolo,
nell'ambito di un elenco, formato sulla base di rose di
candidati fornite dalle facoltà di appartenenza.
La nomina dei commissari e la costituzione della commissione
devono avvenire dopo la scadenza del termine fissato per la
presentazione delle offerte.
Il Tribunale amministrativo richiamando un consolidato
orientamento giurisprudenziale rileva che non è surrogabile
da parte del singolo funzionario, sia esso il RUP,
l’attività che la lex specialis devolve alla Commissione
quale organo collegiale tecnico deputato al compimento della
valutazione delle offerte .
In sostanza il TAR ligure, nel caso in esame, ha rilevato
l’incompatibilità con il Codice degli Appalti Pubblici il
quale prescrive la nomina con i tempi e nel “plenum dei
membri che la compongono non potendo surrogarsi l’attività
collegiale tipica della commissione con quella del singolo
soggetto, ancorché, per ipotesi, dovesse trattarsi del
responsabile unico del procedimento” (commento tratto da
www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Lecito il no all'esposizione di merce anche su
una ''porzione'' di marciapiede.
E' legittimo il provvedimento con cui un ente locale ha
rigettato un'istanza tendente a ottenere il rinnovo di una
concessione di suolo pubblico riguardante una ristretta
porzione di marciapiede per l'esposizione di merce, motivato
con riferimento alla circostanza che il marciapiede è stato
da sempre destinato all'uso della collettività e consente un
generale passaggio esercitato iure servitutis publicae da
una quantità indeterminata di persone.
La ricorrente, titolare di un esercizio commerciale deputato
alla vendita di oggetti di ferramenta, ha impugnato il
provvedimento con cui il Comune le aveva negato il rinnovo
della concessione di occupazione di un suolo pubblico (una
porzione di marciapiede) per l’esposizione della merce.
In particolare, ha esposto che il menzionato atto negativo
era stato adottato sulla base della circostanza per cui, a
seguito di alcuni lavori, la dimensione del predetto
marciapiede era risultata talmente ridotta da non consentire
più alcuno spazio espositivo.
Pertanto, insorto avverso siffatto diniego, la deducente ha
contestato la violazione dell’art. 20, D.Lgs. n. 285/1992,
nonché svariati profili di eccesso di potere per
travisamento di fatti ed erronea presupposizione, atteso che
-a suo ritenere– lo spazio antistante il proprio locale
commerciale sarebbe stato di proprietà privata e, così,
destinato al servizio dell’immobile principale.
Il ricorso è stato respinto.
Il Collegio di Perugia, con riferimento all’inosservanza
delle disposizioni contenute nel Codice della Strada, ha
esaminato la questione attinente la presunta
contraddittorietà tra l’impugnato provvedimento e
l’originaria concessione nel cui contesto era stato
richiamato il menzionato decreto.
Invero, il giudicante, prescindendo dalla genericità del
suddetto richiamo formale, ha evidenziato l’insussistenza
del suddetto vizio, atteso che l’errore commesso in sede di
rilascio della prima concessione non avrebbe potuto
costringere l’Amministrazione a rinnovarla.
Sul proposito, ha infatti precisato che il contestato atto
rinviava a una nota istruttoria con cui la civica P.A.,
nell’evidenziare la larghezza del marciapiede nel tratto
della richiesta occupazione per esposizione di materiali in
vendita, aveva dichiarato l’impossibilità di procedere al
rinnovo della concessione, in quanto lo stesso avrebbe
riguardato una zona destinata alla circolazione dei pedoni
per un’ampiezza pari a due metri.
Del resto, l’art. 20, comma 3, D.Lgs. n. 285/1992, sancisce
espressamente che: “Nei centri abitati, ferme restando le
limitazioni e i divieti di cui agli articoli e commi
precedenti, l'occupazione di marciapiedi da parte di
chioschi, edicole o altre installazioni può essere
consentita fino a un massimo della metà della loro
larghezza, purché in adiacenza ai fabbricati e sempre che
rimanga libera una zona per la circolazione dei pedoni larga
non meno di 2 metri. Le occupazioni non possono comunque
ricadere all'interno dei triangoli di visibilità delle
intersezioni, di cui all'art. 18, comma 2. Nelle zone di
rilevanza storico-ambientale, ovvero quando sussistano
particolari caratteristiche geometriche della strada, è
ammessa l'occupazione dei marciapiedi a condizione che sia
garantita una zona adeguata per la circolazione dei pedoni e
delle persone con limitata o impedita capacità motoria”.
Sicché, all’adito G.A. è risultato evidente che il
contestato diniego era stato adottato dal Comune al fine di
garantire alla collettività la fruizione del bene pubblico
che in alcun modo avrebbe potuto essere “piegato” alle
esigenze (commerciali) di un unico cittadino.
Peraltro, il Collegio è giunto alla medesima conclusione
anche in relazione alla circostanza opposta
dall’interessata, secondo cui lo spazio oggetto dell’istanza
di concessione di suolo pubblico sarebbe stato di proprietà
della ricorrente, in tal modo escludendo la configurabilità
di un marciapiede.
Al proposito, richiamando il disposto di cui all’art. 3
C.d.s., ha rilevato che il tratto di marciapiede in
questione era stato da sempre destinato all’uso della
collettività; peraltro, la suddetta disposizione prevede che
il marciapiede è: “… una parte della strada, esterna alla
carreggiata, rialzata o altrimenti delimitata e protetta,
destinata ai pedoni”.
Al contempo, il TAR perugino, sempre con riferimento ai
“marciapiedi”, ha richiamato un consolidato orientamento
giurisprudenziale per cui: “Secondo i principi generali in
materia, sussiste servitù di uso pubblico nel caso in cui il
bene abbia un’intrinseca idoneità a essere utilizzato da
parte di una collettività, configurandosi un uso a carattere
generale e non uti singuli per un periodo prolungato nel
tempo” (Cons. Stato, Sez. IV, 08.06.2011, n. 3509; TAR
Veneto, Sez. II, 18.11.2004, n. 4035).
Dunque, quanto alla vicenda, ha osservato che il marciapiede
de quo consentiva un generale passaggio esercitato iure
servitutis publicae da una collettività indeterminata di
persone, in assenza di restrizioni all’accesso o di vincoli
di proprietà o condominio.
Per siffatte ragioni, il G.A. di Perugia, ritenendo che lo
spazio antistante l’esercizio commerciale della ricorrente
era destinato esclusivamente alla pubblica fruizione, ha
respinto il gravame e, per l’effetto confermato la
legittimità del provvedimento di diniego di rinnovo della
concessione dell’area pubblica (commento tratto da
www.ispoa.it - TAR Umbria,
sentenza 28.11.2012 n. 502 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Quando ricavare un locale abitabile nel sottotetto
è
lottizzazione abusiva?
La trasformazione di un sottotetto in locale abitabile non
è, di per sé, idonea ad integrare il reato di lottizzazione
abusiva nel caso in cui l'edificio sia destinato ad uso
residenziale ed ubicato in zona per la quale risultano
previsti interventi di urbanizzazione, non rilevando in
senso contrario la mera trasformazione ad uso abitativo
delle superfici costituenti sottotetto dell'immobile, in
quanto attività inidonea a conferire un diverso assetto ad
una porzione del territorio rispetto alla pianificazione
originariamente prevista, né rendendo tale attività
necessaria la realizzazione di ulteriori opere di
urbanizzazione.
La Corte di Cassazione interviene opportunamente con la
sentenza in esame sul tormentato reato di lottizzazione
abusiva, oggetto in questi ultimi anni di numerosi
interventi esegetici da parte della giurisprudenza di
legittimità. Stavolta il tema affrontato dalla Corte è
quello della possibile configurabilità dell’illecito
lottizzatorio nel caso, invero assai diffuso, della
trasformazione di locali sottotetto di un appartamento in
locali abitabili, in assenza di qualsivoglia titolo
abilitativo.
La giurisprudenza tradizionale, com’è noto,
ritiene che tale attività di trasformazione costituisca un
mutamento di destinazione d'uso per il quale è necessario il
rilascio preventivo del permesso di costruire, atteso che la
variazione avviene tra categorie non omogenee. Parte della
giurisprudenza, invece, con un’interpretazione più rigorosa,
sostiene invece che in presenza di un’attività non
consentita di trasformazione urbanistica od edilizia del
territorio, realizzata anche mediante una forma di
suddivisione fattuale dell’immobile, sia configurabile
l’illecito lottizzatorio. Da qui, dunque, il quesito: la
trasformazione di un sottotetto in locale abitabile,
realizzando una diversa suddivisione in fatto dell’immobile,
può astrattamente integrare la fattispecie di lottizzazione
abusiva, o è necessario un quid pluris affinché ciò si
verifichi?
Il fatto
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte
di occuparsi della questione vedeva indagate numerose
persone cui era stata addebitata la violazione dell’art. 44,
comma 2, d.P.R. n. 380/2001 (sub specie di lottizzazione
abusiva mista, negoziale e materiale), a seguito
dell'accertamento che cinque vani sottotetto, facenti parte
del medesimo fabbricato, destinati a ripostiglio a servizio
dell'appartamento sottostante, della superficie variabile
tra 24 e 39 mq. ciascuno, erano stati trasformati in
immobili ad uso abitativo autonomo, mediante la eliminazione
del collegamento con l'appartamento sottostante, la
realizzazione di un ingresso dal vano scale condominiale e
la dotazione di servizi, con successivo frazionamento ed
alienazione a terzi.
I predetti interventi erano stati
eseguiti in base a D.I.A., mentre uno dei vani sottotetto
era stato destinato dai proprietari ad uso abitativo, di
camera da letto, mediante il posizionamento del relativo
arredo, senza l'esecuzione di interventi edilizi.
In sede
cautelare, il Tribunale del riesame aveva rigettato
l'appello proposto dal P.M. avverso il provvedimento del
G.I.P. con cui era stata respinta la richiesta del P.M. di
sequestro preventivo di alcuni immobili, in particolare
osservando che la modificazione della destinazione d'uso di
cinque unità destinate a servizi in unità abitative non
appare idonea a conferire un diverso assetto alla
pianificazione urbana, dato che le opere di urbanizzazione
erano già previste dai titoli originari e non comportando la
modificazione la necessità per la pubblica amministrazione
di realizzare ulteriori opere di urbanizzazione.
In
sostanza, secondo i giudici del riesame, le condotte poste
in essere dovevano qualificarsi esclusivamente come abuso
edilizio, mentre la sanzione della confisca deve riferirsi
ad ipotesi di lottizzazione di terreni e delle opere su di
essi costruite ovvero di un intero edificio.
Il ricorso
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione il P.M.
in sintesi sostenendo che il Tribunale avesse erroneamente
escluso il reato di lottizzazione abusiva in base ad un
criterio quantitativo, considerata l'estensione complessiva
degli immobili di poco più di 150 mq. complessivi,
trattandosi di reato di pericolo. La lottizzazione
accertata, a giudizio della Pubblica Accusa, si palesava
inoltre idonea ad incidere sul cosiddetto carico
urbanistico, trattandosi di interventi che, al di là del
formale titolo abilitativo, non avrebbero potuto mai essere
autorizzati, peraltro ponendosi in contrasto con la
destinazione programmata del territorio.
Peraltro,
concludeva il P.M., anche nell'ipotesi in cui fosse stata
configurata la sola violazione edilizia, avrebbe dovuto
comunque essere disposta la misura cautelare, essendo i
lavori ancora in corso di esecuzione in contrasto con le
previsioni del regolamento edilizio comunale.
La decisione della Cassazione
La tesi è stata però respinta dai giudici della Suprema
Corte che hanno condiviso le argomentazioni poste a sostegno
dell’ordinanza del Tribunale del riesame.
In sintesi, la
Corte ha anzitutto osservato che il reato di lottizzazione
abusiva è configurabile, nell'ipotesi in cui lo strumento
urbanistico generale consenta l'utilizzo della zona ai fini
residenziali, in due casi:
a) quando il complesso
alberghiero sia stato edificato alla stregua di previsioni
derogatorie non estensibili ad immobili residenziali;
b)
quando la destinazione d'uso residenziale comporti un
incremento degli "standards" richiesti per l'edificazione
alberghiera e tali "standars" aggiuntivi non risultino
reperibili ovvero reperiti in concreto (Cass. pen., Sez. III,
n. 24096 del 07/03/2008, P.M. in proc. D., in Ced Cass. n.
240725).
Ha, poi, aggiunto che la trasformazione urbanistica
od edilizia del territorio, peraltro, deve
risultare di consistenza tale da incidere in modo rilevante
sull'assetto urbanistico della zona, sia nel senso
d'intervento innovativo sul tessuto urbanistico, che sotto
il profilo della necessità dell'esecuzione di nuove opere
d'urbanizzazione o di potenziamento di quelle già esistenti
(Cass. pen., sez. IV, n. 33150 del 08/07/2008, N. ed altri,
in Ced Cass. n. 240970).
Il reato di lottizzazione abusiva
deve, invece, escludersi –precisa la Cassazione- con
riferimento a zone completamente urbanizzate, mentre è
configurabile con riferimento a zone parzialmente
urbanizzate, in cui sussista un'esigenza di raccordo con il
preesistente aggregato abitativo e di potenziamento delle
opere di urbanizzazione (Cass. pen., sez. III, n. 37472 del
26/06/2008, B. e altri, in Ced Cass. n. 241097).
Orbene, il Tribunale del riesame, al fine di escludere nel
caso in esame l'esistenza del fumus del reato di
lottizzazione abusiva, ha evidenziato che l'edificio è
destinato ad uso residenziale ed ubicato in zona per la
quale erano già previsti interventi di urbanizzazione,
mentre ha escluso che la trasformazione ad uso abitativo
delle superfici costituenti sottotetto dell'immobile fosse
idonea a conferire un diverso assetto ad una porzione del
territorio rispetto alla pianificazione originariamente
prevista o renda necessaria la realizzazione di ulteriori
opere di urbanizzazione.
Corretta, quindi, per gli Ermellini si manifesta la
valutazione del giudice di merito in ordine alla esclusione
del fumus del reato di lottizzazione abusiva. La Corte,
infine, pur ammettendo in astratto la configurabilità della
violazione edilizia, ravvisabile nella predetta
trasformazione d'uso del sottotetto dell'edificio, ha
condiviso gli argomenti del Tribunale del riesame, nel senso
di escludere l'esistenza delle esigenze cautelari, non
risultando in atto l'esecuzione di lavori in corso laddove,
inoltre, vi sarebbe stato un ripristino della destinazione
d'uso non residenziale dei predetti locali (in precedenza,
sulla configurabilità del reato edilizio ex art. 44, comma
1, lett. b), d.P.R. n. 380/2001: v. Cass. pen., sez. III, n.
17359 dell’08.05.2007, P.M. in proc. V., in Ced Cass. n.
236493) (commento tratto da www.ispoa.it - Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.11.2012 n. 45732). |
TRIBUTI: I
terreni agricoli non rincarano. Se a
fianco c'è un terreno edificabile.
La rettifica del valore di un terreno agricolo non può
essere giustificata dalla sua «edificabilità di fatto»; per
cui, né le adiacenze del terreno a un altro terreno
edificabile, né la circostanza che l'acquirente disponga di
una potenziale volumetria (proveniente da un'altra area) a
questo asservibile, legittimano la rettifica.
Sono le interessanti conclusioni che si leggono nella
sentenza 25.10.2012 n. 144/65/2012 emessa dalla sede staccata di Brescia
della Commissione Tributaria Regionale di Milano.
La sentenza in commento
fissa dei precisi paletti al potere di accertamento dei
terreni agricoli e, in definitiva, stabilisce che il valore
di un terreno debba essere strettamente legato alla
destinazione urbanistica, che ne determina il valore
oggettivo; «Di conseguenza», precisa il Collegio regionale,
«nessuna valenza può assumere il richiamo dell'Agenzia delle
entrate al principio della «edificabilità di fatto», non
contemplato da alcuna disposizione normativa per le aree
censite in catasto». La Commissione prosegue l'esame delle
norme e rileva come le norme legislative vigenti dispongano
espressamente che il riferimento debba essere alle
risultanze ufficiali vigenti, a livello urbanistico, al
momento della cessione.
Per quanto concerne le norme di
riferimento esse sono: ai fini Ici, l'articolo 2, comma
primo, lettera b), del dlgs n.504/1992 nella formulazione
introdotta dall'articolo 11-quaterdecies comma sedicesimo dl
n. 203/2005, che dispone che un'area è da considerare
comunque fabbricabile se è utilizzabile a scopo edificatorio
in base allo strumento urbanistico generale,
indipendentemente dall'adozione di strumenti attuativi del
medesimo.
Analogamente, ai fini delle imposte dirette,
l'articolo 67, comma primo, lettera b), del dpr n. 917/1986
(Nuovo Tuir) fa riferimento alla «utilizzazione
edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al
momento della cessione». La Commissione rileva come
l'accertamento erariale sia basato su un valore non
corrispondente alle caratteristiche oggettiva dell'area
compravenduta, bensì è stato determinato con la comparazione
con una compravendita riguardante un terreno contiguo avente
natura edificabile, e dunque, diversa e più pregiata
(articolo ItaliaOggi del 18.01.2013). |
AGGIORNAMENTO AL 14.01.2013 |
ã |
IN EVIDENZA |
L'incentivo per la progettazione, in materia urbanistica,
spetta solamente se l’attività di pianificazione è
contestualizzata nell’ambito dei lavori pubblici, in un
rapporto di necessaria strumentalità con l’attività di
progettazione di opere pubbliche. |
Forse scopriamo l'acqua calda ... tuttavia, è meglio
ribadirlo a chiare lettere (per coloro che sono duri
d'orecchi ...) tenuto conto che negli ultimi mesi la Corte
dei Conti, sez. di controllo, di varie regioni ha chiarito
e ribadito -a più riprese- la portata dell'incentivo per la
progettazione in materia urbanistica ex art. 92, comma 6,
del D.Lgs. n. 163/2006.
Ebbene, da ultima si è pronunciata la Corte dei Conti
siciliana il cui parere è di seguito riportato. |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
Con
la nota in epigrafe, il Sindaco del comune di Adrano
chiede di sapere se gli incarichi a tecnici interni per la
redazione del piano di rischio sismico e del piano per il
rischio idrogeologico ed idraulico possano essere remunerati
con l’incentivo per la progettazione interna di cui all’art.
18 della L. n. 109/1994 come recepita dalla L.R. n. 7/2002 e
di cui all’art. 92 del D. Lgs. n. 163/2006, come recepito
dalla L.R. n. 12/2011.
...
Venendo al merito, bisogna ricordare che l’art. 92, comma 6,
del D.Lgs. n. 163/2006, come recepito dalla L.R. n. 12/2011,
prevede che il trenta per cento della tariffa professionale
relativa alla redazione di un atto di pianificazione
comunque denominato possa essere ripartito, con le modalità
e i criteri previsti nell’apposito regolamento interno tra i
dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo
abbiano redatto.
La norma ricalca sostanzialmente quanto disposto dal
previgente art. 18, comma 2, della L. n. 109/1994, recepito
dalla L.R. n. 7/2002.
Nella genericità dell’espressione usata dal legislatore, che
dovrebbe trovare nel regolamento comunale un’idonea fonte
esplicativa, queste Sezioni Riunite
ritengono che per “atto di pianificazione comunque
denominato” vada inteso qualsiasi elaborato complesso,
previsto dalla legislazione statale o regionale, composto da
parte grafica/cartografica, da testi illustrativi e da testi
normativi (es., norme tecniche di attuazione), finalizzato a
programmare, definire e regolare, in tutto o in parte, il
corretto assetto del territorio comunale, coerentemente con
le prescrizioni normative e con la pianificazione
territoriale degli altri livelli di governo.
In tale specifico contesto, pertanto, l’assoggettabilità ad
incentivo discende innanzitutto dal contenuto tecnico
documentale degli elaborati, che richiede necessariamente
l’utilizzo di specifiche competenze professionali reperite
esclusivamente all’interno dell’ente.
In secondo luogo, come peraltro osservato da consolidato
orientamento della giurisprudenza contabile (Sezione
regionale di controllo Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213,
Sezione controllo Puglia,
parere 16.01.2012 n. 1,
Sezione controllo Campania,
parere 10.07.2008 n. 14),
si ritiene che l’attività di pianificazione
debba essere contestualizzata nell’ambito dei lavori
pubblici, in un rapporto di necessaria strumentalità con
l’attività di progettazione di opere pubbliche.
L’attività di pianificazione, ai fini dell’incentivabilità
delle prestazioni tecniche del personale dipendente, si
ritiene, infatti, che debba prevedere una localizzazione di
interventi pubblici o di opere di pubblico interesse, in
relazione alle quali l’ente agirà in veste di stazione
appaltante, nei termini previsti dal Codice dei contratti e
dalle direttive n. 2004/17/CE e 2004/18/CE.
A conforto di questa tesi risiede non solo la collocazione
sistematica della norma (sezione I dedicata alla “progettazione
interna ed esterna, livelli della progettazione” del
capo IV del codice dei contratti pubblici denominato “servizi
attinenti all’architettura e all’ingegneria”, la cui
norma iniziale, l’art. 90, è rubricata “progettazione
interna ed esterna alle amministrazioni aggiudicatrici in
materia di lavori pubblici”), ma anche il riferimento
testuale dell’art. 92, comma 6, ai “dipendenti
dell’amministrazione aggiudicatrice”.
In ogni caso, competerà alla fonte
regolamentare prevista dall’art. 92, commi 5 e 6, del D.Lgs.
n. 163/2006 chiarire l’esatta portata ermeneutica del
concetto di “atto di pianificazione comunque denominato”,
magari attraverso idonea elencazione delle fattispecie di
riferimento che, in assenza di chiari riferimenti testuali o
ermeneutici alla sua natura meramente esemplificativa, si
ritiene debba ritenersi tassativa
(Corte dei Conti,
SS.RR. di controllo per la Regione Siciliana,
parere 03.01.2013 n. 2). |
Allora, tutto chiaro??
Detto altrimenti, non è possibile
erogare l'incentivo per la progettazione allorquando, per
esempio, si proceda all'interno dell'ufficio tecnico: a
redigere il P.R.G./P.G.T. e/o relativa variante fine a sé
stessa piuttosto che la redazione del Regolamento Edilizio.
Invero, nel passato anche recente si è avuta notizia di
come (in qualche comune) si procedesse ugualmente
all'erogazione dell'incentivo ... ma nel passato,
evidentemente, non si avevano le idee chiare oppure
il convincimento, ancorché in buona fede, era un'altro e
-evidentemente- errato.
Ora non ci sono più alibi ... e chi vuole rischiare col
proprio portafoglio, nel liquidare e/o auto-liquidarsi
ugualmente l'incentivo non spettante, s'accomodi (per consultare altri pareri
in tal senso visitare il nostro
dossier INCENTIVO PROGETTAZIONE).
14.01.2013 - LA SEGRETERIA PTPL |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA:
Lombardia -
Pgt, Giovannelli: dal Consiglio la deroga per il sisma.
"Solamente per 7 Comuni colpiti dal terremoto lo scorso
maggio (Borgoforte, Gonzaga, Pegognaga, Poggio Rusco, Rodigo,
Serravalle a Po e Suzzara, tutti in provincia di Mantova) e
per quelli dichiarati in dissesto finanziario entro il
31.12.2012, rimane in vigore il Piano regolatore generale (Prg)
fino al 31.12.2013. Per tutti gli altri che, come questi,
non hanno approvato il Piano di governo del territorio (Pgt)
è confermata l'inefficacia, dal 01.01.2013, dei vecchi Prg".
Lo precisa l'assessore al Territorio e Urbanistica Nazzareno
Giovannelli, chiarendo che questo è ciò che il Consiglio
regionale ha approvato (martedì 19 dicembre), modificando
l'emendamento avanzato dall'Assessorato.
I Comuni che non avevano ancora adottato il Pgt ieri, 20
dicembre, erano ancora 388; mentre quelli che lo hanno
adottato, ma non approvato (e che lo potrebbero quindi
approvare entro i primi mesi dell'anno) erano 248.
COSA SUCCEDE AI COMUNI SENZA PGT -
Il testo definisce anche gli interventi che i Comuni,
sprovvisti di strumenti urbanistici, possono approvare.
- Nelle zone A-B-C-D (come individuate dai previgenti Prg),
vale a dire sostanzialmente nei centri storici, nei centri
urbanizzati consolidati, nelle zone a espansione e nelle
aree produttive e commerciali, possono essere autorizzati
esclusivamente interventi sull'esistente. Quindi di
manutenzione ordinaria, straordinaria e di
restauro/risanamento conservativo (no ristrutturazione, no
nuova costruzione);
- nelle zone E-F, cioè quelle agricole e quelle destinate a
servizi, gli interventi consentiti sono quelli previsti dal
previgente Prg e da altri strumenti attuativi già
consolidati (ad esempio, Piani particolareggiati e Piani di
recupero);
- gli interventi in esecuzione di piani attuativi approvati
entro la data di entrata in vigore della nuova Legge e la
cui convenzione, stipulata entro il medesimo termine, sia in
corso di validità.
Inoltre, rimane preclusa la possibilità di qualsiasi
procedura di variante urbanistica e, per i Comuni che non
avevano adottato il Pgt entro il 30.09.2011, di dar corso
all'approvazione di piani attuativi del Prg.
IL PIANO CASA REGIONALE -
Infine la norma stabilisce che nei Comuni che, al prossimo
31 dicembre, non avranno ancora approvato il Pgt, dal
01.01.2013 e fino all'approvazione del Pgt, non sono
attivabili gli interventi in deroga previsti dal cosiddetto
'Piano casa regionale' (l.r. 4/2012), fatte salve le
istanze di permesso di costruire e le denunce di inizio
attività presentate entro il 31.12.2012.
Anche questa disposizione, per i Comuni terremotati e in
dissesto finanziario, troverà applicazione dal 01.01.2014 (21.12.2012
- link a www.territorio.regione.lombardia.it). |
SINDACATI |
ENI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Un esempio di come non scrivere una
convenzione per la gestione associata di finzioni
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 08.01.2013).
---------------
Pare che i comuni di Pontida e Filago siano intenzionati ad
esercitare le funzioni di polizia locale anche per il
triennio 2013-2015 in forma associata tramite convenzione,
la formula dubitativa deriva dal fatto che fino ad oggi
risulta che entrambi i comuni hanno comunicato alla
scrivente organizzazione sindacale lo schema di convenzione
che intendono adottare, ma che il solo comune di Filago
abbia approvato con deliberazione consiliare n. 67 del
27.12.2012 tale schema. Probabilmente è solo una questione
di velocità, per la precisione di velocità di trasparenza,
risulterebbe, infatti, meno rapida dalle parti di Pontida.
Risulta, comunque, evidente a chi scrive che, approvata da
entrambi i comuni la convenzione, si riprodurranno gli
stessi problemi e l’esatta illegittima situazione prodottasi
nel corso del 2012, aspetti che certamente non hanno
favorito lo sviluppo di corrette relazioni sindacali, ciò in
considerazione che il personale appartenente ai servizi di
polizia locale è lo stesso e che probamente la
responsabilità del servizio associato verrà affidata
nuovamente a personale appartenente alla cat. C, in
contrasto con quanto disposto dal CCNL vigente. (...
continua). |
ENI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Accolto il ricorso contro il Comune di
Filago per comportamento antisindacale
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 08.01.2013).
---------------
Con sentenza del 19.12.2012 n. 2769/12 il Tribunale di
Bergamo ha in parte accolto il ricorso presentato dalla
FP-CGIL di Bergamo contro il comune di Filago.
Nella citata sentenza il Tribunale di Bergamo pur non
ritenendo che il comune di Filago con la deliberazione del
26.07.2012 abbia voluto ripartire unilateralmente le risorse
del fondo di cui all’art. 15 del CCNL del 01.04.1999,
palesando in tal modo una condotta antisindacale, ha
ritenuto, invece, sussistere tale comportamento per la
mancata informazione preventiva in merito alla gestione
associata tramite convenzione con il comune di Pontida del
servizio di polizia locale. (... continua). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La ricongiunzione dei contributi dopo la
legge di stabilità 2013
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 08.01.2013).
---------------
La nuova legge di stabilità, con il comma 239 del
lunghissimo articolo unico, cerca di porre un minimo rimedio
all’ingiustizia creata dal governo Berlusconi che, tramite
il d.l. 78/2010, aveva introdotto il pagamento della
ricongiunzione dei contributi per chi aveva più gestioni
pensionistiche. Per semplificare, chi è passato da un lavoro
privato ad un lavoro pubblico o chi ha visto cambiata la sua
gestione pensionistica e non ha maturato il diritto alla
pensione in una delle due casse alle quali ha versato i
contributi, potrà andare in pensione con il requisito
dell’età (dal 2013 66 anni e 3 mesi ed almeno 20 anni di
contributi) unificando i contributi pensionistici delle
varie casse nelle quali li ha versati. (...continua). |
UTILITA' |
ENTI LOCALI:
Esercizio associato di funzioni e servizi dal'01.01.2013.
Interessante la pagina web della Regione Piemonte dedicata
alle risposte ai più frequenti quesiti interpretativi ed
applicativi circa l'obbligatorio esercizio di funzioni di
che trattasi dallo scorso 01.01.2013.
Ancorché il dossier inerisca la propria legge regionale di
disciplina puntuale della materia, ci sono comunque spunti
interessanti di interesse generale degni di essere letti
(link a http://www.regione.piemonte.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
D.Lgs. 09.04.2008 n. 81 - Testo coordinato ed aggiornato a
gennaio 2013 - TESTO UNICO SULLA SALUTE E SICUREZZA SUL
LAVORO (link a www.lavoro.gov.it). |
APPALTI: AVCPass,
arriva il nuovo sistema informatico per la verifica dei
requisiti per l’accesso alle gare.
L’art. 6-bis del D.Lgs. 163/2006 (come modificato dal
Decreto Semplificazioni) dispone che dal primo gennaio 2013
stazioni appaltanti ed enti aggiudicatori possano verificare
il possesso dei requisiti degli operatori che partecipano
alle gare esclusivamente tramite la Banca Dati nazionale dei
contratti pubblici (BDNCP).
A tal proposito, l’AVCP (Autorità per la Vigilanza sui
Contratti Pubblici) ha sviluppato e reso disponibile il
nuovo sistema AVCpass che permette:
● alle stazioni appaltanti e agli enti aggiudicatori
l’acquisizione dei documenti relativi al possesso dei
requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed
economico-finanziario per l’affidamento dei contratti
pubblici;
● agli operatori economici di inserire a sistema i documenti
la cui produzione è a proprio carico ai sensi dell’art.
6-bis, comma 4, del Codice
(10.01.2013 - link a www.acca.it. |
EDILIZIA
PRIVATA: Impianti
e D.M. 37/2008: dal Ministero la Raccolta con pareri e
circolari esplicative.
Il Ministero dello Sviluppo Economico ha pubblicato il “Massimario
sulla 37/2008”, rivolto alle imprese di
installazione di impianti all'interno degli edifici e agli
operatori del settore, che contiene una raccolta dei pareri,
circolari e lettere circolari in materia di attività
regolamentate dal D.M. n. 37/2008.
Tra gli argomenti trattati, segnaliamo:
- Tipologie di impianti e relativa pertinente abilitazione
- Uffici Tecnici Interni
- Requisiti tecnici
- Esperienza professionale
- Cumulo dei requisiti in forma combinata
- Competenza territoriale CCIAA per accertamento requisiti
- Conversioni abilitazioni da 46/1990 a 37/2008
- Nomina e sostituzione del responsabile tecnico
- Dichiarazioni di conformità e di rispondenza
- Attestazione requisiti
- Pene accessorie e fallimento amministratori
- Attestazione SOA
- Sanzioni
(10.01.2013 - link a www.acca.it. |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ENTI LOCALI - EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 11.01.2013 n. 9 "Ripubblicazione
del testo del decreto-legge 18.10.2012, n. 179, coordinato
con la legge di conversione 17.12.2012, n. 221, recante:
«Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese»". |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI:
G.U. 10.01.2013 n. 8 "Norme di attuazione dell’articolo
1, comma 453, della legge 27.12.2006, n. 296, come
sostituito dall’art. 11, comma 11, del decreto-legge
06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla
legge 15.07.2011, n. 111, in tema di meccanismi di
remunerazione sugli acquisti" (Ministero
dell'Economia e delle Finanze,
decreto 23.11.2012).
---------------
Chi
vince l'appalto dà l'1,5% alla Consip.
Una commissione da parte delle imprese aggiudicatarie. Per
finanziare parzialmente i costi di funzionamento della
Consip e le attività da essa svolte nella sua qualità di
centrale di committenza per conto di altre amministrazioni
affidanti.
A dare attuazione della norma, modificata da
ultimo dalla legge 111/2011, è il decreto del ministero
dell'economia 23.11.2012, apparso sulla G.U. n. 8 di
ieri.
I soggetti che dovranno pagare la commissione sono
l'aggiudicatario delle convenzioni stipulate da Consip,
l'aggiudicatario di gare su delega bandite da Consip Spa
nell'ambito del Programma di razionalizzazione degli
acquisti del Dipartimento dell'amministrazione generale, del
personale e dei servizi, l'aggiudicatario degli appalti
basati su accordi quadro conclusi da Consip Spa nell'ambito
del Programma di razionalizzazione degli acquisti del
Dipartimento dell'amministrazione generale, del personale e
dei servizi.
La commissione non deve essere superiore
all'1,5% da calcolarsi sul valore, al netto di Iva, del
fatturato realizzato, con riferimento agli acquisti
effettuati dalle pubbliche amministrazioni e dagli altri
soggetti legittimati risultante dalla rendicontazione delle
fatture. Al fine del calcolo dell'entità della commissione,
gli aggiudicatari trasmettono a Consip, per via telematica,
entro 30 giorni dal termine di ciascuno dei due semestri
dell'anno solare, una dichiarazione sostitutiva, attestante
l'importo delle fatture.
Successivamente Consip procede all'emissione della fattura
relativa alla commissione e gli aggiudicatari provvedono al
versamento entro 60 giorni dalla data di ricevimento della
fattura. Per chi non paga, scattano le procedure esecutive
previste dal codice di procedura civile
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2013). |
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI:
Congedo obbligatorio per il padre lavoratore.
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali emana il
decreto 22.12.2012 contenente le modalità per la
fruizione del congedo obbligatorio di un giorno e di quello
facoltativo (di due giorni) da parte del padre lavoratore,
previsto dall'art. 4, comma 24, lettera a) della legge 28.06.2012.
n. 92 (tratto da www.publika.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
G. Giustiniani,
IL TERMINE PER L’IMPUGNAZIONE E L’ANNULLAMENTO D’UFFICIO
DEGLI ATTI DI GARA (link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
V. Capuzza,
LE ESCLUSIONI NON CODIFICATE DAL D.LGS. N. 163/2006 E DAL
D.P.R. 207/2010 (link a
www.osservatorioappalti.unitn.it). |
APPALTI SERVIZI:
M. Cozzio,
IN HOUSE: TUTTI I SOCI DEVONO POTER ESERCITARE UN CONTROLLO
APPREZZABILE E PROPORZIONATO SULLA SOCIETÀ -
Osservazioni alle Conclusioni dell’Avv. generale Pedro Crùz
Villalòn del 19.07.2012, rinvio pregiudiziale alla CGCE,
cause C-182/11 e C-183/11 (link a
www.osservatorioappalti.unitn.it). |
APPALTI:
A. Bonanni,
L'AVVALIMENTO NELLE PROCEDURE DI GARA - BREVE COMMENTO ALLA
DETERMINAZIONE N. 2 DELL’01.08.2012 DELL’AUTORITÀ PER LA
VIGILANZA SUI CONTRATTI PUBBLICI (link a
www.osservatorioappalti.unitn.it). |
QUESITI &
PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Interventi di bonifica in siti di interesse nazionale.
Domanda.
In un comune, sito in Lombardia, devo costruire un immobile.
Ho diritto a qualche agevolazione dei costi di bonifica?
Risposta.
La regione Lombardia, con la legge regionale del 12.12.2003, numero 26, prevede per gli operatori che effettuano
interventi di bonifica in siti di interesse nazionale (Sin)
una forma di agevolazione consistente nello scomputo del 50%
dei costi di bonifica.
La stessa regione Lombardia, con la legge numero 10, del
2009, ha incentivato e promosso la bonifica, o la messa in
sicurezza, dei siti contaminati in Lombardia attraverso la
riscrittura dell'articolo della citata legge regionale del
12.12.2003, numero 26. In particolare, il legislatore
regionale lombardo ha ammesso la possibilità di scomputare i
relativi costi degli oneri di urbanizzazione a determinate
condizioni. Una delle condizioni basilari per avere lo
scomputo è che il responsabile della contaminazione non deve
essere lo stesso soggetto che chiede il beneficio portato
dalla suddetta legge. Lo stesso, poi, deve avere acquistato
l'area non conoscendo le problematiche ambientali a essa
connesse. Inoltre, il predetto non deve avere acquistato
l'area da una procedura concorsuale. È fatta salva, in ogni
caso, la facoltà dei comuni di ammettere il detto beneficio
in considerazione della rilevanza della bonifica, anche per
quote ulteriori.
Il comune, comunque, ha l'obbligo di motivare un eventuale
diniego alla concessione del predetto beneficio. Al
riguardo, il Consiglio di stato, sezione V, con la sentenza
numero 716, del 2003, ha affermato che il diritto del
titolare della concessione edilizia di realizzare in tutto o
in parte le opere di urbanizzazione, sia primarie sia
secondarie, a scomputo dei relativi oneri, non implica una
pretesa indiscriminata allo scomputo del valore di qualsiasi
opera di urbanizzazione volontariamente eseguita dallo
stesso al di fuori di un preventivo accordo con il comune,
ma esclude che il medesimo comune possa, senza adeguata
motivazione e con oggettivo indebito arricchimento, porre a
servizio della collettività e dello stesso concessionario
opere da quest'ultimo eseguite, senza che il relativo valore
venga scomputato dalla prestazione patrimoniale imposta, di
tipo causale, ovvero finalizzata appunto alla
predisposizione di infrastrutture, corrispondente agli oneri
di urbanizzazione (articolo ItaliaOggi
Sette del 07.01.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Trattamento acque reflue.
Domanda.
Il sindaco che ometta il trattamento delle acque reflue
urbane e, in assenza dell'apposita autorizzazione, proceda
allo scarico diretto delle stesse all'interno di acque
superficiali a quali sanzioni va incontro?
Risposta.
Ai sensi degli articoli 100, 101, 105 del decreto
legislativo 03.04.2006, numero 152, le acque reflue devono
essere sottoposte, prima dello scarico, a un trattamento
secondario o a n trattamento equivalente in conformità con
le indicazioni dell'Allegato 5 alla parte terza del suddetto
decreto. Ai sensi del successivo articolo 124 tutti gli
scarichi devono essere preventivamente autorizzati.
L'autorizzazione è rilasciata al titolare dell'attività da
cui origina lo scarico. Ove uno o più stabilimenti
conferiscano, tramite condotta, a un terzo soggetto,
titolare dello scarico finale, le acque reflue provenienti
dalle loro attività, oppure qualora tra più stabilimenti sia
costituito un consorzio per l'effettuazione in comune dello
scarico delle acque reflue provenienti dalle attività dei
consorziati, l'autorizzazione è rilasciata in capo al
titolare dello scarico finale o al consorzio medesimo, ferme
restando le responsabilità dei singoli titolari delle
attività suddette e del gestore del relativo impianto di
depurazione in caso di violazioni.
Il Tribunale di Santa Maria di Capua Vetere, con la sentenza
del 05.05.2011, ha affermato che il sindaco che ometta il
trattamento delle acque reflue urbane e, in assenza
dell'apposita autorizzazione, proceda allo scarico diretto
delle stesse all'interno di acque superficiali risponde,
oltre che delle sanzioni amministrative di cui all'articolo
133 del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, su
citato, anche dei delitti di danneggiamento, di cui
all'articolo 635, del codice penale, nonché di omissione di
atti d'ufficio, ai sensi dell'articolo 328 del codice
penale.
Il regime autorizzatorio degli scarichi di acque reflue
domestiche e di reti fognarie, servite o meno da impianti di
depurazione delle acque reflue urbane, è definito dalle
regioni nell'ambito della disciplina di cui all'articolo
101, commi 1 e 2.
Le regioni disciplinano le fasi di autorizzazione
provvisoria agli scarichi degli impianti di depurazione
delle acque reflue per il tempo necessario al loro avvio.
Salvo diversa disciplina regionale, la domanda di
autorizzazione è presentata alla provincia ovvero
all'Autorità d'ambito se lo scarico è in pubblica fognatura.
L'autorità competente provvede entro novanta giorni dalla
ricezione della domanda.
Salvo quanto previsto dal decreto legislativo 18.02.2005, n.
59, l'autorizzazione è valida per quattro anni dal momento
del rilascio. Un anno prima della scadenza ne deve essere
chiesto il rinnovo. Lo scarico può essere provvisoriamente
mantenuto in funzione nel rispetto delle prescrizioni
contenute nella precedente autorizzazione, fino all'adozione
di un nuovo provvedimento, se la domanda di rinnovo è stata
tempestivamente presentata (articolo ItaliaOggi
Sette del 07.01.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Avendo titolo per effettuare il trasporto c/terzi si può
effettuare anche il trasporto c/proprio? (27.12.2012
- link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L’impianto di destino può procedere a consegnare
direttamente al produttore la IV copia del FIR? E se
quest’ultima vada smarrita? (27.12.2012 - link a
www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Cosa è la sterilizzazione dei rifiuti sanitari? (27.12.2012
- link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Albo gestori ambientali: Quali devono essere le dotazioni
minime di veicoli e di personale per lo svolgimento
esclusivo dell’attività di raccolta differenziata e
trasporto di tipologie di rifiuti urbani che non risultano
avere una significativa produzione annua? (27.12.2012
- link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
In ordine a quali criteri i rottami di vetro destinati alla
produzione di sostanze od oggetti di vetro cessano di essere
rifiuti? (27.12.2012 - link a
www.ambientelegale.it). |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI: Appalti p.a., requisiti on-line.
Dal 2013 è partito il sistema di verifica delle imprese.
L'Autorità di vigilanza ha fornito le indicazioni
procedurali per l'accesso ad Avcpass.
Dal 01.01.2013 ha preso il via il sistema di verifica
dei requisiti dichiarati dalle imprese in sede di gara per
l'affidamento di contratti pubblici attraverso la banca dati
nazionali dei contratti pubblici ex art. 6-bis del dlgs
163/2006 istituita presso l'Autorità per la vigilanza su
contratti pubblici di lavori, servizi e forniture.
Il 24
dicembre scorso è stata formalizzata la deliberazione
dell'Autorità di vigilanza contenente le indicazioni
procedurali per il nuovo sistema di verifica Avcpass -
Authority virtual company passport.
La finalità del nuovo sistema Avcpass è quella di consentire
alle stazioni appaltanti di acquisire in via telematica la
documentazione comprovante il possesso dei requisiti di
carattere generale, tecnico-organizzativo ed
economico-finanziario per l'affidamento dei contratti
pubblici.
Per l'utilizzo del sistema Avcpass tutte le stazioni
appaltanti, tramite il responsabile del procedimento,
dovranno preventivamente registrarsi al sistema informativo
di monitoraggio gare acquisendo in tal modo per ogni
procedura di affidamento bandita lo specifico codice
identificativo della gara. Analogamente anche i concorrenti
che intendono partecipare alla procedura saranno tenuti alla
registrazione al sistema Avcpass che rilascerà un apposito
documento «Passoe» che attesta che l'operatore economico
partecipante alla procedura potrà essere verificato tramite
il nuovo sistema.
Gli operatori economici poi, fermo restando l'obbligo di
presentazione delle autocertificazioni richieste dalla
normativa sul possesso dei requisiti, dovranno riportare in
sede di offerta all'interno della busta relativa alla
documentazione amministrativa tale attestazione. All'interno
dei documenti di gara le amministrazioni aggiudicatrici
dovranno indicare specificatamente che la verifica dei
requisiti sarà effettuata tramite Avcpass e prevedere
l'obbligatorietà per tutti i partecipanti di registrazione
al nuovo sistema.
Per le comunicazioni effettuate nell'ambito Avcpass sarà
necessario che i diversi attori interessati dalla procedura
di aggiudicazione (stazione appaltante/enti aggiudicatori,
responsabile del procedimento, legale rappresentante o
delegato dell'operatore economico, presidente e membri della
commissione di gara) dispongano di un indirizzo di posta
elettronica certificata (Pec).
Il responsabile del procedimento o il soggetto incaricato
che si occuperà della verifica dei requisiti procederà con
la richiesta della documentazione comprovante il possesso
dei requisiti che l'Autorità a sua volta richiederà agli
specifici enti interessati che renderanno disponibile tale
documentazione sempre in via telematica.
I documenti in questione concerneranno il possesso dei
requisiti di carattere generale di cui agli articoli 38 e 39
del Codice dei contratti e, pertanto, riguarderanno
l'iscrizione al registro delle imprese fornita da
Unioncamere, il certificato del casellario giudiziale e
l'anagrafe delle sanzioni amministrative forniti dal
ministero della giustizia, il certificato di regolarità
contributiva per ingegneri, architetti e studi associati
fornito da Inarcassa, il certificato di regolarità fiscale
rilasciato dall'Agenzia delle entrate, il documento unico di
regolarità contributiva fornito da Inail, la comunicazione
antimafia rilasciata dal ministero dell'interno.
Per i
requisiti di carattere tecnico-organizzativo ed
economico-finanziario le informazioni che potranno essere
acquisite concerneranno documentazione e dati che saranno
messi a disposizione dagli enti preposti, dall'Autorithy e
anche dagli operatori economici. Il riferimento alle
informazioni rilasciate dagli enti è relativa ai bilanci
delle società da parte di Unioncamere, certificazioni di
qualità da parte di Accredia, fatturato globale e
ammortamenti degli operatori economici in caso di impresa
individuale o società di persone da parte dell'Agenzia delle
entrate, dati relativi alla consistenza del personale da
parte di Inps.
La documentazione messa a disposizione
dall'Autorità concernerà le attestazioni Soa, i certificati
di esecuzione lavori, i certificati di avvenuta esecuzione
di servizi e forniture prestati a enti pubblici e le
ricevute di pagamento del contributo obbligatorio
all'Autorità da parte dei soggetti partecipanti alla
procedura. L'ulteriore documentazione comprovante il
possesso dei requisiti sarà resa disponibile direttamente
dagli operatori economici sulla base di quanto indicato dal
responsabile di procedimento in relazione alla procedura di
gara.
La
deliberazione 20.12.2012
n. 111 prevede, infine, una gradualità per
l'entrata a regime della nuova procedura di verifica nel
corso del 2013. Relativamente agli appalti di lavori nel
settore ordinario di importo pari o superiore a 20 milioni è
consentito, in deroga all'obbligo di utilizzo di Avcpass
vigente per gli stessi dall'01/01/2013, procedere alla
verifica dei requisiti con le precedenti modalità fino al
30/06/2013.
Per tutti gli appalti di importo pari o superiore a 40.000,
a eccezione di quelli svolti attraverso procedure gestite in
via telematica e di quelli nei settori speciali, l'obbligo
di utilizzo del nuovo sistema decorrerà a partire
dall'01/03/2013 prevedendo, tuttavia, fino al prossimo 30
giugno la possibilità di verifica sulla base delle
precedenti procedure. L'obbligo di verifica con il nuovo
sistema scatterà per gli appalti di importo pari o superiore
a 40.000 gestiti in via telematica e per i settori speciali
dall'01/10/2013 con possibilità di utilizzo delle precedenti
modalità fino al 31/12/2013
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2013). |
LAVORI PUBBLICI: Il business deciso dopo la gara.
Piano economico elastico nel partenariato pubblico-privato.
L'Autorità di vigilanza sui
contratti pubblici apre alla definizione successiva dell'investimento.
Nel partenariato pubblico privato, è legittima la stipula di
un «contratto accessorio» finalizzato alla definizione del
piano economico e finanziario, laddove si tratti di Ppp
istituzionalizzato tramite creazione di una società mista in
cui il socio privato sia stato scelto in gara; in questa
ipotesi anche il piano economico può essere definito
successivamente all'aggiudicazione dalla gara.
È quanto
afferma l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici
con la
deliberazione 20.12.2012 n. 105 (relatore il
consigliere Luciano Berarducci) relativa all'operazione di Ppp avviata dal Comune di Milano sulla linea metropolitana
M4 (Lorenteggio-Linate, valore dell'opera quasi 1,7
miliardi, di cui 9,9 milioni di progettazione, che doveva
favorire l'accesso all'area di Expo 2015).
Per questo intervento il Comune aveva infatti avviato, con
un bando di gara pubblicato prima dell'entrata in vigore del
codice dei contratti pubblici, la scelta di un socio privato
per la costituzione di una società mista (poi
concessionaria) avente ad oggetto la costruzione e la
gestione dell'opera, nel presupposto quindi di dare vita a
un Ppp cosiddetto «istituzionalizzato».
L'Autorità si
esprime favorevolmente su tutta la procedura seguita per la
selezione del socio privato che, si legge nella delibera,
«appare conforme alla normativa all'epoca rinvenibile
nell'art.116 del dlgs n. 267 del 2000, nella legge n. 109/94
e successivamente, in quanto applicabile, nel dlgs n.
163/2006». La parte di maggiore rilievo della delibera
riguarda però la parte in cui la delibera prende in
considerazione uno strumento giuridico inusuale e non
previsto dalla normativa vigente quale il «contratto
accessorio», previsto nel bando di gara per disciplinare la
fase precontrattuale (intercorrente fra aggiudicazione
definitiva e stipula della convenzione).
In particolare si
tratta di uno strumento finalizzato ad assicurare i vari
adempimenti propedeutici alla sottoscrizione del contratto
(fra cui l'acquisizione della progettazione esecutiva), in
maniera analoga allo strumento dell'ordine di servizio che
il responsabile del procedimento emette nelle procedure
dell'appalto integrato o della finanza di progetto, dove la
progettazione, gli espropri, ecc. sono trasferiti in capo al
contraente (dopo la sottoscrizione del contratto), ma con,
in più, diverse attività fra cui anche quelle relative alla
costituzione della società concessionaria (Statuto della
società ecc.) e, aspetto forse più rilevante, al reperimento
del contratto di finanziamento pro quota dei privati (30 %
circa dell'investimento complessivo) e alla predisposizione
del Pef contrattuale (cosiddetta di offerta).
Trattandosi di
un Ppp istituzionalizzato, l'effetto è quindi quello per cui
una serie di attività che nelle usuali procedure di Ppp
contrattuale vengono svolte prima della gara, in questa
specifica a particolare fattispecie vengono poste in essere
successivamente alla gara che, infatti, riguardava la scelta
del socio privato.
Questo strumento giuridico, viene quindi
dall'Autorità valutato (oltre che come «idoneo a governare
la fase compresa dall'aggiudicazione alla costituzione della
società mista pubblico-privato per la costruzione e gestione
dell'opera, attesa la specificità del contratto di
partenariato pubblico privato istituzionalizzato», ma anche
«necessitato» visti i complessi adempimenti burocratici, con
un valore, però «transeunto, fino alla sottoscrizione
della convenzione».
In sostanza si tratta di un meccanismo per vincolare
l'aggiudicatario (sono previste anche clausole di
risoluzione del contratto) ma anche per conferirgli la
possibilità di procedere ad adempimenti che, secondo le
procedure usuali avrebbe potuto svolgere soltanto in una
fase successiva
(articolo ItaliaOggi del 10.01.2013). |
CORTE DEI
CONTI |
INCARICHI
PROFESSIONALI - URBANISTICA:
Elaborazione di un nuovo PRG - Incarico a
professionista esterno - Grave pregiudizio alle casse
dell'Ente - Condotte commissive e omissive - Responsabilità
del Sindaco e del Dirigente - Configurabilità.
Il Dirigente dell'Ufficio di Piano, essendo funzionalmente
perfettamente edotto sull’iter progettuale e sul lavoro
svolto dalla struttura preposta all'elaborazione di un nuovo
PRG, ha l'obbligo di rappresentare al Sindaco e agli altri
Organi dell'Ente l'irragionevolezza di eventuali scelte (per
es. di avviare ex novo un lavoro già svolto).
Nella specie, entrambi (Sindaco e Dirigente), con le
rispettive condotte commissive e omissive, hanno arrecato un
grave pregiudizio alle casse dell'Ente che ha pagato un
professionista esterno per il perseguimento di un obiettivo
dichiarato (progetto del nuovo PRG) mai attuato e che nella
realtà dei fatti si è limitato a fornire supporto lavorativo
nell'ordinaria gestione dell'attività dell'Ufficio, quali
l'aggiornamento dei dati e la collaborazione per la
predisposizione di varianti parziali o minori.
In particolare, il Dirigente anziché ottemperare ai propri
obblighi di funzionario pubblico a difesa delle ragioni
dell'Ente, ha preferito adottare un comportamento meramente
acquiescente conformandosi pedissequamente alla volontà
dell'Organo politico.
Responsabilità contabile - Affidamento
incarichi di consulenza esterna - Illegittima acquisizione
di un'ulteriore unità di personale - Configurabilità - Art.
110, c. 6, T.U. n. 267/2000 - Art. 97 Cost..
In materia di responsabilità contabile, gli enti locali
possono fare ricorso all'affidamento di incarichi a
professionisti, anche per lo svolgimento di funzioni
istituzionali, ogni qual volta non sia possibile utilizzare
personale in servizio nell'Amministrazione locale. Ciò
nell'ipotesi in cui tale impossibilità dipenda dalla carenza
nell'ambito della struttura locale di personale,
qualitativamente o quantitativamente, idoneo per lo
svolgimento dei compiti e delle funzioni che l'Ente deve
esercitare nel caso specifico o anche nella ipotesi in cui
la realizzazione del lavoro o dell'elaborato, commissionato
a professionisti esterni, non rientri nelle competenze
specifiche del personale dei propri uffici o servizi.
Inoltre, per la nomina dei consulenti esterni la
giurisprudenza della Corte dei conti ha fissato ulteriori
principi per la legittimità dell’incarico:
- il conferimento dell'incarico deve essere legato a
problemi che richiedono conoscenze ed esperienze eccedenti
le normali competenze;
- l'incarico deve concernere la soluzione di specifiche
problematiche già individuate al momento del conferimento
dello stesso e del quale devono costituire l'oggetto;
- l'incarico deve presentare le caratteristiche della
specificità e della temporaneità;
- l'incarico non deve rappresentare uno strumento per
ampliare fittiziamente compiti istituzionali e ruoli
organici dell'ente;
- il compenso connesso all'incarico deve essere
proporzionale all'attività svolta e non liquidato in maniera
forfettaria;
- la delibera di conferimento deve essere adeguatamente
motivata;
- i criteri di conferimento non devono essere generici;
(Sezione III Centrale n. 9 del 2003, Sezione III Centrale n.
279 del 2002, Sezione III Centrale n. 149 del 2004, Sezione
Giurisdizionale Puglia n. 200 del 2001; Sezione
Giurisdizionale Toscana n. 258 del 2003);
- l'adeguatezza del rapporto proporzionale tra i compensi
erogati all'incaricato e le corrispondenti utilità
conseguite dall'Amministrazione conferente.
Conferimento incarichi di consulenza -
Natura e limiti.
La possibilità di conferire incarichi di consulenza di
natura autonoma deve essere attentamente valutata dalle
Amministrazioni pubbliche sia in ragione degli specifici
limiti di spesa imposti dal Legislatore, ma anche dei
presupposti giuridici che ne legittimano il ricorso. Il
rispetto di questi ultimi, in particolare, considerato il
carattere straordinario dell'esigenza, la temporaneità e
l'alta qualificazione della prestazione e l'obbligo di
motivazione, impongono all'Amministrazione la conoscenza
approfondita della proprie risorse, in termini
organizzativi, economici e di professionalità.
Nella specie, la prestazione del professionista, (dall'anno
2006 al mese di giugno 2010) in buona sostanza, ha
rappresentato per l'Amministrazione l'acquisizione di
un'ulteriore unità di personale a disposizione dell'Ufficio
di Piano, pur se effettuata eludendo le norme che
disciplinano il reclutamento di dipendenti pubblici anche a
tempo determinato (Corte
dei Conti, Sez. giurisdiz. Marche,
sentenza 21.12.2012 n. 138 -
link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
PRG - Natura - Funzione pianificatoria globale -
Efficacia vincolante e conformativa - Atto complesso.
A differenza dei piani territoriali di coordinamento, il PRG
ha carattere precettivo. Esso, cioè, assume una funzione
pianificatoria globale per il corretto uso del territorio ed
ha efficacia vincolante e conformativa.
In materia urbanistica, il Piano strutturale contiene i
criteri guida di sviluppo (le vocazioni urbanistiche del
territorio) e il Piano Operativo, avente natura precettiva
con vigenza temporale limitata, definisce le trasformazioni
urbanistiche del Comune, sotto il profilo urbanistico,
edilizio e temporale.
Non si tratta di due strumenti distinti, bensì di un atto
complesso che prevede altresì l'adozione del Regolamento
urbanistico edilizio (RUE) che assume la funzione delle
norme tecniche di attuazione del PRG, come fonte normativa
per la definizione del Piano Operativo (POC) (Corte
dei Conti, Sez. giurisdiz. Marche,
sentenza 21.12.2012 n. 138 -
link a www.ambientediritto.it). |
ENTI LOCALI: Giudici di pace, futuro difficile.
Il comune può salvare l'ufficio, ma senza sforare i conti.
Parere della Corte dei conti della
Lombardia: nessuna deroga al patto di stabilità.
In tema di soppressione e di accorpamento degli uffici del
giudice di pace, è previsto che l'amministrazione comunale
può comunque esercitare la facoltà di mantenere in attività
tale servizio, a condizione che se ne assuma tutti gli oneri
economici, inclusi quelli relativi al personale
amministrativo.
In tale caso, però, l'ente dovrà comunque prevedere
l'impatto dei relativi pagamenti con il rispetto del patto
di stabilità interno e con la disciplina in materia di
contenimento della spesa di personale, non essendo prevista,
ad oggi, alcuna espressa deroga normativa di tali voci in
tal senso.
Lo ha messo nero su bianco la sezione regionale di controllo
della Corte dei conti Lombardia, nel testo del
parere 12.12.2012 n.
522, da poco reso noto, in relazione alle disposizioni
(e alle relative conseguenze) contenute all'articolo 3,
commi da 2 a 5, del dlgs n. 156/2012 che hanno revisionato
la disciplina delle circoscrizioni giudiziarie e degli
uffici del giudice di pace, procedendo a una serie di
soppressioni ed accorpamenti territoriali.
IL FATTO
Su questa base normativa, il comune di Seregno (MB) ha posto
un quesito alla Corte, facendo presente che lo stesso ha già
dato al ministero della giustizia il suo assenso di massima
al mantenimento dell'ufficio del giudice di pace di Desio.
Ha però precisato, che tale assenso è condizionato alla
possibilità che le spese di funzionamento e di erogazione
del servizio, incluso il fabbisogno del personale
amministrativo, siano escluse dal computo delle spese
rilevanti ai fini del patto di stabilità interno e dei
vincoli in materia di personale, come previsti dall'articolo
1, comma 557, della legge finanziaria 2007.
IL PARERE
La Corte lombarda, però non è stata dell'avviso del comune
istante. Infatti, ha rilevato che la norma sopra richiamata
prevede il mantenimento della sede giudiziaria su cui è
calata la scure della soppressione o dell'accorpamento,
qualora il comune del territorio di riferimento ne faccia
espressa richiesta e a condizione che si accolli le spese di
funzionamento della struttura e del personale
amministrativo. In pratica, la norma dispone le predette
spese a carico del comune che esercita la facoltà, mentre a
carico del ministero della giustizia restano le sole spese
per il personale di magistratura onoraria e le spese di
formazione del personale amministrativo.
Quindi, ha sottolineato la Corte, se un'amministrazione
comunale dovesse esercitare tale facoltà, ne conseguirebbe
che il servizio giudiziario verrebbe «acquisito» nell'alveo
dei servizi comunali, al pari di altri servizi pubblici
erogati ai cittadini. Pertanto, l'amministrazione comunale,
oltre a doverne sopportare gli oneri economici a beneficio
del Ministero competente, dovrà preliminarmente verificare
l'impatto dei pagamenti (ovvero la spesa corrente) con il
rispetto del patto di stabilità interno e con i limiti
imposti in materia di spesa per il personale, sia con
riferimento al contenimento di detta spesa che con
riferimento al personale amministrativo giudiziario
utilizzato dall'ente locale per il mantenimento del
servizio.
In più, rispondendo al quesito del comune brianzolo, il collegio della magistratura contabile lombarda
ha evidenziato che in assenza di norme derogatorie
sull'esclusione dei sopra citati oneri economici dalla
disciplina del Patto di stabilità per gli enti locali, la
possibilità ventilata dal comune di considerarli «esclusi» a
tali fini, non regge. Non è nella sfera del ministero della
giustizia, infatti, valutare le condizioni di assenso del
comune al mantenimento del servizio, solo al ricorrere di
tale esclusione, peraltro non prevista dalla norma.
In definitiva, se l'amministrazione comunale, nell'esercizio
della propria sfera di discrezionalità, intenda assumere il
servizio giudiziario onorario, ne dovrà «incondizionatamente»
sopportare gli oneri finanziari ai fini del Patto di
stabilità, dell'equilibrio di parte corrente e dei limiti
imposti in materia di personale
(articolo ItaliaOggi del 10.01.2013). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Gestione associata di servizi.
La Corte dei Conti, sezione regionale Lombardia, con i
pareri 10.12.2012 n. 513 e
12.12.2012 n.
527 si occupa di aspetti
correlati alla gestione obbligatoria di funzioni e servizi
da parte dei piccoli enti che, dal 2013, saranno anche
sottoposti alle regole del patto di stabilità ed alle
collegate norme in tema di contenimento della spesa di
personale e vincoli assunzionali.
Sinteticamente, la sezione lombarda, anche a conferma di
propri precedenti pareri, rammenta che:
- qualsiasi forma di gestione associata (in convenzione o
tramite Unione) deve consentire agli enti una
razionalizzazione di spesa e non è ammessa alcuna deroga che
consenta un incremento della spesa complessiva di personale;
- le spese di personale andranno ripartite tra gli enti
secondo adeguati criteri predefiniti;
- eventuali maggiori spese prima non sostenute dovranno
trovare un bilanciamento in minori per differenti funzioni
esercitate in forma sovracomunale;
- ad ogni servizio o funzione associata dovrà corrispondere
l'individuazione di un unico responsabile di servizio,
secondo le norme stabilite dal TUEL e dal CCNL;
- non è conforme alla normativa vigente individuare, in
siffatte fattispecie, la figura di direzione (responsabile)
tra i componenti dell'organo esecutivo dell'ente capofila
(art. 53, comma 23, legge n. 388/2000);
- soluzioni che realizzino una unificazione solo formale
delle attività rientranti in ciascuna funzione ma che, di
fatto, consentano agli enti di continuare a svolgerle con la
propria organizzazione ed ai medesimi costi, violano
l'obbligo della gestione associata imposta dalle norme (tratto da www.publika.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO:
L'art. 90 del dlgs 267/2000 dispone, al comma
1, che il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei
servizi può prevedere la costituzione di uffici posti alle
dirette dipendenze del sindaco, del presidente della
provincia, della Giunta o degli assessori, per l'esercizio
delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite
dalla legge, costituiti da dipendenti dell'ente, ovvero,
salvo che per gli enti dissestati o strutturalmente
deficitari, da collaboratori assunti con contratto a tempo
determinato, i quali, se dipendenti da una pubblica
amministrazione, sono collocati in aspettativa senza
assegni.
Le assunzioni ai sensi dell'art. 90 del TUEL presentano
quindi alcune caratteristiche particolari che possono essere
riassunte alla luce della giurisprudenza formatasi in
materia:
- si tratta di assunzioni a tempo determinato e non possono
essere affidate tramite incarichi di collaborazione
coordinata e continuativa;
- si tratta di posti in dotazione organica e pertanto per i
posti il singolo ente sulla base della propria autonomia
regolamentare dovrà valutare a quale categoria si
riferiscono le necessità del Comune ai fini delle assunzioni
ex art. 90 del Tuel;
- possono essere affidate esclusivamente per funzioni di
supporto di attività di indirizzo e di controllo alle
dirette dipendenze del Sindaco, al fine di evitare qualunque
sovrapposizione con le funzioni gestionali ed istituzionali,
che devono invece dipendere dal vertice della struttura
organizzativa dell'ente;
- agli uffici in oggetto possono essere affidate la gestione
delle risorse umane, strumentali e finanziarie strettamente
strumentali e funzionali all'esercizio dei compiti medesimi.
- tali assunzioni rientrano nel concetto di spesa di
personale.
Inoltre:
- il compenso di base deve essere corrispondente ad un
compenso erogato per la categoria di appartenenza del CCNL
Enti Locali sulla base di quanto previsto nella dotazione
organica per quel preciso posto da ricoprire in riferimento
alle disposizioni dell'art. 90 del Tuel;
- anziché prevedere diversi compensi accessori sarà
possibile individuare un unico emolumento (indennità di
staff) onnicomprensiva di qualsiasi altra retribuzione
accessoria.
Venendo al merito della
questione, il problema sottoposto all'esame di questo
Collegio riguarda una richiesta risarcitoria avanzata dalla
procura regionale competente in relazione all'affidamento di
alcuni incarichi intervenuto presso il Comune di Molinara in
assenza di procedure di valutazione e con il ricorso a
normativa non conferente.
Tali incarichi sarebbero stati conferiti ai sensi
dell'articolo 90 del testo unico numero 267 del 2000 e
tenuto conto dell'articolo 13 del regolamento
sull'ordinamento degli uffici del Comune.
L'articolo 90 citato dispone al comma 1 che Il regolamento
sull'ordinamento degli uffici e dei servizi può prevedere la
costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del
sindaco, del presidente della provincia, della Giunta o
degli assessori, per l'esercizio delle funzioni di indirizzo
e di controllo loro attribuite dalla legge, costituiti da
dipendenti dell'ente, ovvero, salvo che per gli enti
dissestati o strutturalmente deficitari, da collaboratori
assunti con contratto a tempo determinato, i quali, se
dipendenti da una pubblica amministrazione, sono collocati
in aspettativa senza assegni.
Conformemente a tale previsione, il regolamento
sull'ordinamento degli uffici e dei servizi del comune ha
previsto che il sindaco per l'esercizio delle funzioni di
indirizzo e controllo può assumere personale di alta
specializzazione [?] scegliendolo intuitu personae e
sulla base di un curriculum.
Le assunzioni ai sensi dell'art. 90 del TUEL presentano
quindi alcune caratteristiche particolari che possono essere
riassunte alla luce della giurisprudenza formatasi in
materia:
- si tratta di assunzioni a tempo determinato e non possono
essere affidate tramite incarichi di collaborazione
coordinata e continuativa (Corte dei conti Puglia Sentenza
n. 241/2007);
- si tratta di posti in dotazione organica (Corte dei conti
Toscana Sentenza 622/2004) e pertanto per i posti il singolo
ente sulla base della propria autonomia regolamentare dovrà
valutare a quale categoria si riferiscono le necessità del
Comune ai fini delle assunzioni ex art. 90 del Tuel;
- possono essere affidate esclusivamente per funzioni di
supporto di attività di indirizzo e di controllo alle
dirette dipendenze del Sindaco, al fine di evitare qualunque
sovrapposizione con le funzioni gestionali ed istituzionali,
che devono invece dipendere dal vertice della struttura
organizzativa dell'ente (Corte dei conti Lombardia
Deliberazione 43/2007);
- agli uffici in oggetto possono essere affidate la gestione
delle risorse umane, strumentali e finanziarie strettamente
strumentali e funzionali all'esercizio dei compiti medesimi
(Corte dei conti Toscana Deliberazione n. 5P/2008 in parte
in contrapposizione con la Corte dei conti Lombardia poco
sopra citata).
- tali assunzioni rientrano nel concetto di spesa di
personale (Corte dei conti Lombardia Deliberazione 43/2007)
Inoltre:
- il compenso di base deve essere corrispondente ad un
compenso erogato per la categoria di appartenenza del CCNL
Enti Locali sulla base di quanto previsto nella dotazione
organica per quel preciso posto da ricoprire in riferimento
alle disposizioni dell'art. 90 del Tuel;
- anziché prevedere diversi compensi accessori sarà
possibile individuare un unico emolumento (indennità di
staff) onnicomprensiva di qualsiasi altra retribuzione
accessoria.
Da quanto precede emerge con chiarezza che ogni riferimento
a procedure selettive appare inconferente alla fattispecie,
tenuto conto del rapporto fiduciario che lega il sindaco
alle persone da collocare nell'ufficio di staff. Quindi ogni
censura in proposito sarebbe destituita di fondamento.
Peraltro, proprio da un lato la fiduciarietà del rapporto e
dall'altro le funzioni per le quali dei soggetti vengono
chiamati a collaborare determinano un necessario problema
interpretativo della norma.
Per stessa dichiarazione del difensore degli odierni
appellanti, gli stessi in realtà erano stati chiamati a
svolgere funzioni prettamente esecutive. Il medesimo
difensore ha altresì dichiarato in udienza che si trattava
di personale non laureato addetto a mansioni di segreteria
che, tra l'altro, finiva con l'essere sostanzialmente
sottopagato con un indubbio vantaggio per l'ente locale.
Ora, non vi è chi non veda come tale impostazione cozzi
contro la previsione normativa sia dell'articolo 90 del
testo unico, sia dell'articolo 13 del regolamento comunale.
Nel primo infatti si specifica che la funzione che gli
odierni appellanti sono stati chiamati a svolgere
nell'ambito dell'ufficio di staff avrebbe dovuto essere
quella di collaborazione alle dirette dipendenze del sindaco
per l'esercizio della funzione di indirizzo e controllo. Il
secondo dato normativo, quello del regolamento, ci dice che
doveva trattarsi di personale altamente specializzato,
selezionato, oltretutto, sulla base di un curriculum che
evidentemente è destinato ad evidenziare le capacità ed i
trascorsi professionali.
Si chiede ora il Collegio, attesa anche l'interpretazione
che la giurisprudenza ha dato in particolare dell'articolo
90 del testo unico, se personale non laureato, destinato a
fare fotocopie e rispondere al telefono -come testualmente
affermato da uno dei difensori degli appellanti in udienza-
risponda ai criteri di collaborazione alle funzioni di
indirizzo e controllo nonché di alta specializzazione nelle
funzioni dimostrata da una base curriculare.
Non solo, ma la caratteristica della fiduciarietà del
rapporto implica che evidentemente la scelta ricada su
soggetti che sono appunto di fiducia dell'autorità politica
(così è anche, ad esempio, per coloro che vengono immessi
negli uffici di diretta collaborazione ai sensi
dell'articolo 19 del decreto legislativo numero 165 del 2001
per lo Stato), al fine di svolgere compiti anche dedicati
che non a caso, nella fattispecie sia la legge che il
regolamento riconducono alle più alte funzioni di indirizzo
e controllo.
In verità, a questo Collegio sembra che il Comune si sia
avvalso della normativa in esame in modo assai improprio, al
fine di assumere dei collaboratori che avrebbero dovuto
probabilmente essere reclutati secondo diverse procedure.
Non sembra conferente in proposito la precisazione che il
Comune abbia dato vita ad una fattispecie a formazione
progressiva costituita da due momenti: un primo momento
-delibera giuntale- che ha individuato i presupposti per il
conferimento dell'incarico, all'uopo specificando la natura
del rapporto, la qualifica da ricoprire e la circostanza che
il Comune non versasse in condizioni di dissesto finanziario
non è strutturale; un secondo -decreto sindacale- con il
quale si è operata all'individuazione del soggetto,
scegliendolo attraverso la comparazione tra i requisiti
generali richiesti nella delibera di giunta, le funzioni
necessarie all'ente e il curriculum.
Tale procedimento infatti non impedisce di considerare
improprio il riferimento normativo, anche se questo Giudice
deve riconoscere che non ricorrono gli estremi per
l'integrazione di un comportamento a titolo di dolo, né
tanto meno di dolo contrattuale: è stato chiarito, infatti,
che l'incarico ex articolo 90 non può negli effetti andare a
sovrapporsi a competenze gestionali ed istituzionali
dell'ente. Se così il legislatore avesse voluto, si sarebbe
espresso in maniera completamente diversa e non avrebbe
affatto fatto riferimento alle funzioni di indirizzo e
controllo dell'autorità politica.
Che costoro poi si siano accontentati di compensi
particolarmente bassi, non appare un motivo significativo
per ritenere che il Comune abbia agito legittimamente; anzi,
ciò risulterebbe anche in contrasto con una prestazione che,
secondo i dettami di legge, avrebbe dovuto essere
qualificata e avrebbe dovuto essere di un certo rilievo
professionale.
Certo è che, in ogni caso, la prestazione è stata resa e di
questo non può non essere tenuto conto ai fini della
considerazione delle utilità che il Comune ha comunque
derivato dalla vicenda
(Corte dei Conti,
Sez. I centrale d'Appello,
sentenza
06.12.2012 n. 785 -
link a www.corteconti.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Non
è sufficiente, per affermare che sussista un illecito
utilizzo del telefono posto a disposizione dall'ente di
appartenenza per finalità di lavoro, la sola prova
indiziaria secondo la quale costituiscono un utilizzo
privato dell'utenza pubblica le chiamate effettuate al di
fuori dell'orario di servizio, nelle giornate d'assenza dal
lavoro od a numerazioni per le quali non è direttamente
presumibile un'oggettiva riferibilità al servizio (vale a
dire numeri dell'ente di appartenenza o comunque di uffici
istituzionali).
Come già rilevato da questa
Sezione in un'analoga vicenda (sent. n. 62 del 16.05.2012),
non è sufficiente, per affermare che sussista un illecito
utilizzo del telefono posto a disposizione dall'ente di
appartenenza per finalità di lavoro, la sola prova
indiziaria secondo la quale costituiscono un utilizzo
privato dell'utenza pubblica le chiamate effettuate al di
fuori dell'orario di servizio, nelle giornate d'assenza dal
lavoro od a numerazioni per le quali non è direttamente
presumibile un'oggettiva riferibilità al servizio (vale a
dire numeri dell'ente di appartenenza o comunque di uffici
istituzionali).
Lo stesso discorso vale per le indicazioni indiziarie
derivanti da quelle che in citazione si definiscono
anomalie, come la durata eccessiva di talune chiamate,
l'elevato numero di SMS indirizzati alla stessa utenza
telefonica, l'elevata frequenza di chiamate ad una medesima
utenza.
Occorre infatti che tali pur importanti indicazioni siano
integrate da ulteriori elementi di prova (di accertamento
pieno o quanto meno derivanti da ulteriori indicazioni
presuntive gravi, precise e concordanti, come stabilisce
l'art. 2729 c.p.c.) circa la non riferibilità al lavoro
delle chiamate contestate al dipendente assegnatario del
telefono di servizio.
Sono quindi da condividersi le considerazioni del Tribunale
di Gorizia (sent. cit. pagg. 7/8) secondo il quale in
mancanza di elementi in ordine al contenuto delle telefonate
non può, quindi, ragionevolmente escludersi la
prospettazione difensiva per cui le telefonate contestate
avevano comunque attinenza alle mansioni svolte
dall'imputato. Illuminante, sul punto, è lo stesso esame
dell'imputato svolto dal P.M., ove il P. ha potuto
agevolmente sostenere la sua tesi, e ribattere alle
contestazioni che gli venivano mosse, sostenendo appunto
l'utilizzo per attività di servizio, senza che il P.M.
avesse elementi concreti per poter smentire quanto dallo
stesso allegato a propria difesa.
Nonostante l'apprezzabile sforzo del P.M. d'udienza,
infatti, è difficile non dar credito alla tesi difensiva
laddove lo stesso P.M., nel contestare alcuni numeri di
telefono, non era in possesso -citando solo i numeri
iniziali 3469438- nemmeno del numero completo di una delle
utenze chiamate maggiormente rilevanti ai fini accusatori,
sì che appare plausibile persino il io non so di che numero
sta parlando che, collegato al precedente io il telefono
l'ho sempre usato nello stesso modo per servizio o per cose
collegate al servizio, induce a ritenere non provata la
condotta appropriativa dell'imputato in mancanza di puntuale
smentita della sua tesi. Lo stesso vale anche per altra
telefonata, quella alla finanziaria, laddove l'imputato ha
fornito una spiegazione comunque riconducibile al servizio
che non può sempre per la citata carenza di elementi di
segno contrario - essere smentita in alcun modo (e così per
le altre telefonate per le quali l'imputato ha comunque
fornito una spiegazione).
A favore dell'imputato, poi, giocano ulteriori elementi
direttamente emergenti dalla documentazione prodotta dal
P.M. Risulta, infatti, che tra le telefonate contestate (di
cui alle elencazioni del capo di imputazione aventi data
28.03.2009 e 16.04.2009) ve ne sono parecchie riferibili
anche ad utenze istituzionali, come quelle effettuate a
utenze dell'Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza,
della C.C.I.A. di Gorizia, della Provincia di Gorizia e
persino del Comune di Cormòns (Polizia Municipale). Ora,
appare insostenibile ritenere, in mancanza di elementi di
contrario avviso, che tali telefonate, tenuto conto
dell'attività e delle mansioni svolte dall'imputato, non
siano connesse all'attività di servizio.
Osserva inoltre il Collegio, per la dichiarazione datata
08.01.2009 indirizzata dal P. al Responsabile del Servizio
Ragioneria del Comune (doc. 5 Proc.), che la stessa non ha
contenuto confessorio relativamente al complesso delle
telefonate contestate in causa, poiché in tale dichiarazione
il convenuto letteralmente si rendeva solo disponibile, per
una bolletta telefonica che appariva all'Ufficio troppo
elevata, a chiarimenti più specifici ed a rifondere
l'eventuale danno arrecato al Comune per le telefonate che
la S.V. volesse eventualmente addebitarmi in quanto non
considerate di servizio
Da tale dichiarazione emerge quindi solo la disponibilità
del convenuto ad un contraddittorio caso per caso ed al
risarcimento, solo successivo ed eventuale, di specifiche
telefonate che l'Ufficio ritenesse comunque di considerare
non inerenti al lavoro.
Tale contraddittorio nello specifico non risulta esservi
stato ed anzi il Tribunale di Gorizia ha stigmatizzato che
le indagini di P.G. siano stata delegate al Comandante dei
Vigili, atteso che un acclarato clima non sereno
nell'ufficio avrebbe dovuto sconsigliare una delega delle
indagini al soggetto posto in posizione apicale nel predetto
ufficio, tenuto conto che lo stesso soggetto, il Comandante
P., poi predisponeva la stessa elencazione delle telefonate
contestate di cui al capo d'imputazione, per poi riferire,
nel corso della usa audizione testimoniale, che su quelle
telefonate, sul contenuto e le motivazioni delle
conversazioni, non aveva invece svolto alcuna attività
d'indagine (sent. cit. pag. 6).
Sono considerazioni che hanno peso anche nel presente
giudizio, nel quale parimenti le acquisizioni accertative
dei fatti risultano o riprese dal procedimento penale o
provenienti dallo stesso Comandante Paesini.
In conclusione allo stato degli atti non emerge sufficiente
prova che le telefonate contestate al convenuto come anomale
non fossero comunque collegate a necessità di servizio sorte
in occasione di interventi di altri colleghi o per esigenze
contingenti di altri uffici comunali o per altre ragioni
riconducibili al lavoro svolto dal P. quale Vigile Urbano
del Comune di Cormòns.
Pertanto la domanda proposta dalla Procura Regionale non può
essere accolta
(Corte dei Conti,
Sez. giurisdiz. Friuli Venezia Giulia,
sentenza
06.12.2012 n. 130 -
link a www.corteconti.it). |
NEWS |
APPALTI - ENTI
LOCALI: Trasparenza boomerang.
Contratti p.a. inefficaci senza pubblicità.
La norma del dl crescita sta mettendo in difficoltà
le amministrazioni.
Efficacia di contratti, contributi ed incarichi di
collaborazione condizionata dalla pubblicazione sul sito
degli enti.
Con il 2013 entra a regime la disposizione cosiddetta
«amministrazione aperta», contenuta nell'articolo 18 del dl
83/2012, convertito in legge 1234/2012.
Dovrebbe trattarsi, nell'ispirazione, di una disposizione di
«semplificazione» ispirata ai principi della trasparenza
totale (tratti dal Freedom of information act, molto di moda
in campagna elettorale). Nella realtà è, invece, un'ennesima
complicazione burocratica, che sta mettendo in serie
difficoltà le amministrazioni.
La norma, come noto, impone di pubblicare sul sito di
ciascuna amministrazione, nella sezione «trasparenza e
valutazione» una rilevante serie di informazioni riguardanti
«la concessione delle sovvenzioni, contributi, sussidi ed
ausili finanziari alle imprese e l'attribuzione dei
corrispettivi e dei compensi a persone, professionisti,
imprese ed enti privati e comunque di vantaggi economici di
qualunque genere di cui all'articolo 12» della legge
241/1990.
I problemi posti dalla norma sono molteplici. In primo
luogo, la sua obbligatorietà. Fino al 31.12.2012 la sua
mancata applicazione non comportava conseguenze.
Col 2013 le cose cambiano radicalmente. Ai sensi del comma 5
del citato articolo 18, infatti, «a decorrere dal 01.01.2013, per le concessioni di vantaggi economici successivi
all'entrata in vigore del presente decreto legge, la
pubblicazione ai sensi del presente articolo costituisce
condizione legale di efficacia del titolo legittimante delle
concessioni e attribuzioni di importo complessivo superiore
a mille euro nel corso dell'anno solare».
Questo significa che non sarà sufficiente l'efficacia del
provvedimento di aggiudicazione (ma del resto è sempre stato
così), ma perfino la stessa stipulazione del contratto non
saranno sufficienti perché le obbligazioni contratte siano
produttive di effetti. Per meglio esemplificare, la
stipulazione del contratto non è più presupposto per la
legittima ordinazione della prestazione. Occorre
necessariamente che il contratto sia pubblicato e solo
successivamente le parti possono legittimamente darvi corso,
o, nel caso di contributi, erogare la somma prevista.
Tanto è rilevante l'adempimento che nel caso di violazione
scatta «la diretta responsabilità amministrativa,
patrimoniale e contabile per l'indebita concessione o
attribuzione del beneficio economico».
Inoltre, il beneficiario e chiunque altro vi abbia interesse
può a sua volta far rilevare la mancata, incompleta o
ritardata pubblicazione, anche allo scopo di ottenere
l'eventuale risarcimento del danno da ritardo.
Non solo, dunque, dirigenti, responsabili di servizio e
uffici dovranno stare molto attenti alla formalità
burocratica, ma si pone il problema del formato della
pubblicazione. Prendendo l'articolo 18 alla lettera occorre
che i dati pubblicati siano «resi di facile consultazione,
accessibili ai motori di ricerca ed in formato tabellare
aperto che ne consente l'esportazione, il trattamento e il
riuso».
La gran parte delle amministrazioni non si è ancora dotata
del sistema informatico per pubblicare i dati così come
richiede il legislatore (si veda ItaliaOggi di ieri).
C'è da chiedersi, allora, se l'adempimento che condiziona
l'efficacia dei contratti e dei contributi sia non solo
legato alla pura e semplice pubblicazione, ma anche alla sua
effettuazione nel formato previsto. In questo secondo caso,
sarebbero innumerevoli le irregolarità da parte di
moltissime amministrazioni.
Sembra doversi dare, tuttavia, rilievo alla sostanza della
norma, che impone la pubblicità, consistendo il formato
della stessa una formalità di dettaglio che non può
inficiare l'efficacia dei provvedimenti pubblicati.
A meno di non intendere l'articolo 18 (le cui conseguenze
operative non sono state certamente ben considerate
dall'estensore del testo) come una norma che inchiodi per
lunghi mesi ogni attività amministrativa. Il che,
oggettivamente, appare una conseguenza parossistica ed
inaccettabile
(articolo ItaliaOggi del 12.01.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Dichiarazione Imu non per tutti.
Gli enti non profit non dovranno presentarla entro il 4/2.
Risoluzione delle Finanze rinvia
l'adempimento all'approvazione di un apposito modello.
Gli enti non commerciali devono presentare la dichiarazione
Imu solo quando sarà approvato l'apposito modello di
dichiarazione previsto dalla legge e non entro il prossimo 04.02.2013. La dichiarazione relativa agli immobili degli
enti non commerciali deve essere unica e riepilogativa di
tutti gli elementi rilevanti ai fini Imu.
A chiarirlo è la
risoluzione 11.01.2013 n. 1/Df della Direzione legislazione tributaria e federalismo
fiscale del Dipartimento delle finanze del Mef.
Un ulteriore elemento di chiarezza che si aggiunge
tempestivamente alla farraginosa serie di norme che si sono
accavallate in materia di Imu.
In sintesi, il quesito proposto ai tecnici del ministero
riguarda l'individuazione dell'esatto termine di
presentazione della dichiarazione Imu per gli enti non
commerciali. La domanda non è certo peregrina, in quanto:
► da un lato il comma 12-ter prevede che per gli immobili per
i quali l'obbligo dichiarativo è sorto dal 01.01.2012,
i soggetti passivi devono presentare la dichiarazione entro
90 giorni dalla data di pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale del dm 30.10.2012 con cui è stato approvato
il relativo modello; pertanto poiché detta pubblicazione è
avvenuta il 05.11.2012, la scadenza del termine di
presentazione della dichiarazione è fissata al 04.02.2013;
► dall'altro il regolamento 19.11.2012, n. 200 di
attuazione del comma 3 dell'art. 91-bis, del dl 24.01.2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27, che ha dettato le nuove regole per
l'esenzione degli immobili degli enti non commerciali,
all'art. 6 stabilisce che «gli enti non commerciali
presentano la dichiarazione di cui all'art. 9, comma 6, del dlgs 14.03.2011, n. 23, indicando distintamente gli
immobili per i quali è dovuta l'Imu, anche a seguito
dell'applicazione del comma 2 dell'art. 91-bis, del dl n. 1
del 2012, nonché gli immobili per i quali l'esenzione dall'Imu
si applica in proporzione all'utilizzazione non commerciale
degli stessi, secondo le disposizioni del presente
regolamento. La dichiarazione non è presentata negli anni in
cui non vi sono variazioni».
A questo punto era legittimo chiedersi quale fosse il
comportamento più corretto da tenere di fronte all'ormai
prossima scadenza dichiarativa.
La risposta offerta dal Dipartimento delle finanze si ricava
proprio dalla lettura delle norme coinvolte, nonché dalle
istruzioni allegate al dm 30 ottobre 2012, di approvazione
del modello di dichiarazione Imu; in queste, infatti:
●
nel paragrafo 1.2 è stato espressamente previsto il rinvio
all'approvazione di un apposito modello di dichiarazione per
gli enti non commerciali;
● al paragrafo 1.3, dedicato ai casi per i quali sussiste
l'obbligo dichiarativo è stato chiarito che per gli enti in
questione l'obbligo dichiarativo sussiste anche per gli
immobili esenti, ai sensi della lett. i), comma 1, dell'art.
7 del dlgs 30.12.1992, n. 504.
Ciò comporta, dunque, che la dichiarazione Imu relativa agli
immobili degli enti non commerciali debba essere unica e
riepilogativa di tutti gli elementi relativi alle diverse
fattispecie che possono verificarsi. Questa deve essere,
perciò, presentata su un apposito modello che, in realtà,
deve ancora essere approvato con decreto ministeriale, nel
quale verrà precisato anche il termine entro il quale la
dichiarazione in questione dovrà essere presentata.
Detta soluzione, oltre a tranquillizzare al momento gli enti
non commerciali, che con molta probabilità sono ancora alle
prese con i calcoli proporzionali delle superfici
eventualmente utilizzate a fini commerciali, appare in linea
sia con le esigenze di semplificazione degli adempimenti dei
contribuenti e sia con la necessità di razionalizzare degli
strumenti a disposizione degli impositori in sede di
verifica dell'esatto adempimento dell'obbligazione
tributaria.
La risoluzione si conclude ricordando una novità che si è
aggiunta alle norme in materia di esenzione, vale a dire il
comma 6-quinquies che è stato aggiunto all'art. 9 del dl 10.10.2012, n. 174 dalla legge di conversione
07.12.2012, n. 213, il quale dispone che «in ogni caso,
l'esenzione dall'imposta sugli immobili disposta
dall'articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto
legislativo 30.12.1992, n. 504, non si applica alle
fondazioni bancarie di cui al decreto legislativo 17.05.1999, n. 153».
La nuova norma che esclude dal campo di applicazione delle
esenzioni Imu le fondazioni bancarie comporta, dunque, che
queste siano assoggettate al normale trattamento riservato
ai soggetti passivi del tributo comunale e che ove siano in
possesso di immobili per i quali l'obbligo dichiarativo è
sorto dal 01.01.2012 devono rispettare l'ordinario
termine di presentazione della dichiarazione Imu fissato al
prossimo 4 febbraio
(articolo ItaliaOggi del 12.01.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: Tares,
tributo in autoliquidazione da pagare com l'F24.
La legge di stabilità 228/2012 conferma la nascita della
Tares. Con il 01.01.2013 scompariranno tutte le vigenti
forme di prelievo sui rifiuti (Tarsu, Tia1, Tia2) per
lasciare spazio a un tributo a struttura binomia articolato
in tassa sui rifiuti e imposta sui servizi indivisibili.
Gli
interventi dell'ultima ora accolgono in parte le richieste
dei comuni senza rinunciare al nuovo tributo. Il comma 9
dell'articolo 14 del dl 201/2011 viene completamente
riscritto individuando nel dpr 158/1999, recante il metodo
normalizzato della Tia Ronchi, l'unica fonte normativa da
utilizzare per la determinazione delle nuove tariffe.
Per le
unità immobiliari a destinazione ordinaria,
transitoriamente, si utilizzerà la superficie calpestabile
considerando valide le superfici dichiarate o accertate ai
fini Tarsu, Tia 1 e Tia 2, almeno fino a quando non si
procederà alle operazioni di allineamento della banca dati
catastale per l'applicazione del criterio dell'80% della
superficie catastale, che rimane quello preferito dal
legislatore. A tal fine, viene previsto l'obbligo di
inserire nella dichiarazione i dati catastali e l'ubicazione
delle unità immobiliari a destinazione ordinaria. Il comma
35 del citato articolo 14, di regolazione della fase di
riscossione, viene completamente riscritto confermando la
struttura di un tributo in autoliquidazione.
In primo luogo,
solamente per l'anno 2013, è ammesso l'affidamento della
gestione del tributo, o della tariffa di cui al comma 29, ai
soggetti che, alla data del 31.12.2012 svolgono, anche
disgiuntamente, il servizio di gestione dei rifiuti,
accertamento e riscossione, della Tarsu, Tia1, Tia2. Si
tratta di una facoltà di affidamento diretto scritto in
deroga all'articolo 52 del dlgs 446/97, fondato invece sul
criterio della selezione pubblica. Il carattere eccezionale
della norma è insito nella stessa durata, circoscritta
all'anno 2013. La formulazione flessibile, scritta per un
affidamento in concessione, consente di ricorrere al gestore
attuale dei rifiuti, anche dove non gestiva il prelievo, o
alle società iscritte all'albo già affidatarie del servizio
di accertamento e riscossione.
Di rilievo la modalità di
riscossione che rimette al centro dell'attenzione, come
accade per l'Imu, lo strumento della delega di pagamento
F24, accompagnato dal bollettino postale, al quale si
applicano le disposizioni dello stesso articolo 17 in quanto
compatibili. Si tratta della stessa formulazione adottata
per il bollettino Imu incassato sul conto dello stato. La
sorte definitiva del canale di versamento sarà concretizzata
da apposito decreto ministeriale che dovrà favorire la
possibilità di modelli di pagamento precompilati. Trova
conferma la scadenza temporale delle quattro rate di
versamento fissate per gennaio, aprile, luglio, ottobre con
la possibilità per i comuni di agire con potestà per variare
le scadenze.
Per l'anno 2013, la prima rata è comunque
posticipata ad aprile, con la possibilità di slittare
ulteriormente il termine; l'importo in acconto è commisurato
al versamento eseguito nell'anno 2012 a titolo di Tarsu o
Tia, rinviando la definizione dell'importo al conguaglio, da
applicare con le nuove tariffe calcolate col metodo del dpr
158/99 senza fasi transitorie per la copertura totale dei
costi.
Confermato che il tributo e la maggiorazione sono versati
esclusivamente al comune, inciso che, contestualizzato nel
canale F24, sembra indicare la destinazione delle somme
trasferite dalla struttura di gestione, come già visto per
l'Imu sperimentale. Il restyling della norma mantiene di
fondo l'impostazione originaria della Tares limitandosi a
dei correttivi necessari per garantire il finanziamento del
servizio nel 2013.
L'operazione applicativa sarà di grande
impatto soprattutto per i comuni che non avevano introdotto
correttivi sulla base del dpr 158/1999. Resta la possibilità
di introdurre la tariffa corrispettiva prevista dal comma 29
ancora condizionata alla misurazione puntuale della quantità
di rifiuti conferiti al servizio pubblico, restando così
disattese le richieste avanzate dalle società di gestione
dei rifiuti per facilitare l'introduzione del corrispettivo.
La nuova norma rende evidente il tentativo di trasformare un
tipico tributo in liquidazione dell'ente, che si era
caratterizzato per le difficili dinamiche di riscossione
nella fase bonaria di riscossione diretta, in una modalità
in autoliquidazione da parte del cittadino, alla pari dell'Imu,
pur restando la facoltà di trasmettere modelli precompilati
per facilitare gli adempimenti
(articolo ItaliaOggi del 12.01.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Gestione
ex inpdap. Dipendenti pubblici, la pensione si chiede
online.
Traslocano sull'online le domande di pensione degli
impiegati pubblici (gestione ex Inpdap). Infatti, a partire
da domani, le domande di pensione, di ricongiunzione, di
variazione della posizione assicurativa e di alcune altre
prestazioni creditizie e sociali potranno essere presentate
soltanto via web, oppure tramite Contact center o Patronato.
La telematizzazione.
La novità arriva dalla legge n. 122/2010 che ha accelerato
il processo di telematizzazione da tempo in atto nella
pubblica amministrazione, e in particolare ha disposto il
potenziamento dei servizi telematici degli enti
previdenziali, per la presentazione di denunce, istanze,
atti, versamenti, mediante l'utilizzo esclusivo di sistemi
telematici, ovvero della posta elettronica certificata.
Con la determinazione presidenziale n. 95/2012 (pubblicata
in G.U. del 12.09.2012), è stato stabilito il
calendario per la presentazione telematica in via esclusiva
delle domande di prestazione all'Inps per la gestione ex
Inpdap. Il piano prevede una fase transitoria, che dovrà
concludersi entro il 31.07.2013, durante la quale la
presentazione delle domande tramite canale telematico
coesisterà con la tradizionale modalità cartacea. Tuttavia
già a partire da domani (12 gennaio) dovranno essere
presentate solamente in via telematizzata le domande di
pensione (diretta di anzianità, anticipata, vecchiaia e di
inabilità), di ricongiunzione e di variazione della
posizione assicurativa.
Dalla stessa data, inoltre, si potranno presentare soltanto
per via telematizzata anche alcune domande di piccoli
prestiti: ai pensionati aderenti al Fondo credito, per gli
iscritti dell'Arma dei Carabinieri e per il personale
gestito dal Service personale tesoro (Spt) e iscritto alle
gestioni ex Inpdap. Parimenti telematizzate in via esclusiva
le domande di borse di studio (inclusi Safari Job e Master
certificati) e quelle per Valore vacanza e Soggiorni senior.
Nello specifico le domande potranno essere presentate
esclusivamente tramite i seguenti canali:
►
via web, attraverso il sito www.inps.it o dal sito
www.inpdap.gov.it, via Accesso Area Riservata Inps. Per
avvalersi di questo canale è necessario avere il Pin, cioè
un codice segreto di identificazione personale, composto da
sedici caratteri, rilasciato dall'Inps. Il codice si
distingue in Pin «online» e Pin «dispositivo»; per accedere
ad alcuni servizi occorre essere in possesso del Pin
«dispositivo» che viene rilasciato solo dopo che l'utente
sia stato identificato o abbia inviato copia di un documento
di riconoscimento;
►
attraverso il Contact center integrato Inps raggiungibile al
numero telefonico gratuito 803164, o il Contact center della
gestione ex Inpdap, raggiungibile al numero telefonico
gratuito 800105000; anche in tal caso occorre essere in
possesso di un Pin. Solo per gli utenti dotati di Pin
«dispositivo», il Contact center compila l'istanza sulla
base delle indicazioni fornite dall'utente; se l'utente non
ha un Pin dispositivo, deve dotarsene, al fine di poter
completare l'istanza;
►
tramite un Patronato, anche per gli utenti non in possesso
di Pin; gli enti di Patronato hanno a loro disposizione una
procedura dedicata per l'invio delle domande in via
telematica
(articolo ItaliaOggi del 12.01.2013). |
APPALTI - ENTI
LOCALI: Trasparenza, gli enti latitano.
Solo in pochi hanno messo online compensi e contributi.
L'obbligo è imposto dal dl crescita. Ed è
operativo dal 1° gennaio. Lo conferma la Civit.
P.a. ancora lontane dal traguardo dell' «amministrazione
aperta». Dal 1° gennaio scorso è divenuto pienamente
operativo l'art. 18 del dl 83/2012, che impone di dare piena
pubblicità alle erogazioni di denaro pubblico di qualunque
genere. Ma finora sono relativamente pochi gli enti (sia
centrali che locali) che si sono adeguati.
Spulciando fra i siti di ministeri, regioni, province e
comuni, infatti, è ancora abbastanza raro trovare tutte le
informazioni obbligatorie, ovvero: il nome dei beneficiari
ed i relativi dati fiscali, l'importo, la norma o il titolo
a base dell'attribuzione, l'ufficio e il funzionario o
dirigente responsabile del procedimento amministrativo, la
modalità seguita per l'individuazione del beneficiario, il
link al progetto, al curriculum del soggetto incaricato,
nonché al contratto e capitolato della prestazione,
fornitura o servizio.
I dati, precisa la norma, vanno inseriti nella sezione
«trasparenza, valutazione e merito» (istituita ai sensi del dlgs 150/2009) e devono essere riportati in formato
elettronico di testo per l'importazione ed esportazione in
formato gabellare, in modo da essere facilmente accessibili
dall'home-page e dai motori di ricerca.
Si tratta di un obbligo a tutto campo, poiché riguarda tutte
le sovvenzioni, contributi, sussidi e ausili finanziari alle
imprese, nonché l'attribuzione dei corrispettivi e dei
compensi a persone, professionisti, imprese ed enti privati.
E si tratta di un obbligo immediatamente cogente per tutti
(amministrazioni centrali, regionali e locali, aziende
speciali e società in house): lo ha chiarito la Civit con
la
deliberazione
21.12.2012 n. 35 adottata poco prima di Natale, fugando i dubbi derivanti dalla mancata adozione
(prevista entro il 31.12.2012) del regolamento statale
che avrebbe dovuto definirne le modalità attuative,
coordinandole con le altre numerose disposizioni che
incidono sulla stessa materia.
Ben pochi, però, si sono già attrezzati per rispettarlo. Fra
i ministeri, l'unico ad aver provveduto in modo puntuale e
quello del lavoro e delle politiche sociali, mentre fra le
agenzie statali spicca la tempestività delle Entrate.
Ritardi anche fra le regioni, dove solo Valle d'Aosta,
Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna hanno rispettato il
timing. Stessa situazione a livello locale, dove fra gli
enti maggiori solo i comuni di Venezia e Firenze risultano
adempienti. Non mancano, peraltro, best practices anche fra
i municipi di medie (Asti) e piccole dimensioni (ad esempio,
Castelnuovo di Sotto, 8 mila abitanti circa in provincia di
Reggio Emilia).
In molti casi, le pagine risultano in costruzione, le
informazioni carenti (spesso, ad esempio, vi sono solo
quelle relative ad incarichi e consulenze) o non aggiornate,
i link assenti o non funzionanti.
Certo, i problemi tecnici non mancano (molte amministrazioni
lamentano l'indisponibilità di sistemi informatici adeguati
alla mole di dati da correlare). Ma non si può non rilevare
una certa insofferenza, tipica della pa italiana, alle
iniezioni di trasparenza. In più, pesa l'attuale situazione
di stallo politico, che non agevola l'attuazione dei
provvedimenti varati dal governo uscente.
I rischi, in tal caso, sono però alti. In base al comma 5
dell'art. 18, infatti, da quest'anno la pubblicazione delle
informazioni indicate «costituisce condizione legale di
efficacia del titolo legittimante delle concessioni e
attribuzioni di importo complessivo superiore a 1.000 euro
nel corso dell'anno solare e la sua eventuale omissione o
incompletezza è rilevata d'ufficio dagli organi dirigenziali
e di controllo, sotto la propria diretta responsabilità
amministrativa, patrimoniale e contabile per l'indebita
concessione o attribuzione del beneficio economico».
Inoltre, «la mancata, incompleta o ritardata pubblicazione è
altresì rilevabile dal destinatario della prevista
concessione o attribuzione e da chiunque altro abbia
interesse, anche ai fini del risarcimento del danno da
ritardo da parte dell'amministrazione, ai sensi dell'art. 30
del codice del processo amministrativo di cui al dlgs
104/2010».
In parole povere, l'inadempimento può costare caro a coloro
che (dirigenti e responsabili dei servizi) firmano i
provvedimenti di erogazione. È quindi necessario che tutte
le p.a. che non avessero ancora provveduto si attivino
quanto prima
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: I
comuni possono stabilire agevolazioni Tares a 360°.
Spetta ai comuni il potere di concedere, con regolamento,
riduzioni tariffarie e esenzioni per il nuovo tributo sui
rifiuti e i servizi. Il consiglio comunale, infatti, può
deliberare agevolazioni Tares, oltre quelle già previste
dalla legge, purché l'ente abbia le risorse economiche per
finanziarle. I benefici fiscali concessi dal comune si
applicano non solo alla tassa, ma anche alla maggiorazione
dovuta dai contribuenti sui servizi indivisibili.
L'articolo
14 del dl 201/2011 disciplina le agevolazioni tariffarie,
riconoscendo al comune la facoltà di stabilire, con
regolamento, riduzioni del tributo dovuto in presenza di
determinate situazioni, in cui si presume che vi sia una
minore capacità di produzione di rifiuti. A queste riduzioni
viene però fissato un tetto massimo. La riduzione della
tariffa non può superare il limite del 30%. Nello specifico,
questo beneficio può essere concesso per: abitazioni con
unico occupante; abitazioni tenute a disposizione per uso
stagionale o altro uso limitato e discontinuo; locali e aree
scoperte adibiti a uso stagionale; abitazioni occupate da
soggetti che risiedono o hanno la dimora, per più di 6 mesi
all'anno, all'estero; fabbricati rurali a uso abitativo.
Oltre a queste agevolazioni tariffarie, meramente
facoltative, sono contemplate riduzioni che spettano ai
contribuenti ex lege. Per esempio, le riduzioni per locali e
aree situati nelle zone in cui non è effettuata la raccolta,
per le quali il tributo è dovuto nella misura del 40% della
tariffa. Questa misura massima deve essere graduata tenendo
conto della distanza dal più vicino punto di raccolta
rientrante nella zona perimetrata o di fatto servita. La
percentuale scende al 20% in caso di mancato o irregolare
svolgimento del servizio. La stessa misura si applica nel
caso di interruzione del servizio, dal quale possa derivare
un danno o un pericolo di danno alle persone o all'ambiente.
La riduzione obbligatoria della tariffa è inoltre disposta
per le utenze domestiche ed è finalizzata a incentivare la
raccolta differenziata. Per le utenze non domestiche,
invece, va applicato un coefficiente di riduzione
proporzionale alle quantità di rifiuti assimilati che il
produttore dimostri di aver avviato al recupero. Tuttavia,
al di là dei benefici elencati espressamente dalla norma, il
comune può deliberare ulteriori agevolazioni, come indicato
nella relazione governativa, «per ragioni meritevoli di
considerazione, anche non collegate alla capacità di
produzione dei rifiuti». A patto, però, che il mancato
gettito venga coperto da risorse diverse dai proventi del
tributo.
L'articolo 14, comma 19, stabilisce che il consiglio
comunale può deliberare «ulteriori riduzioni ed esenzioni».
Ma queste agevolazioni vanno iscritte in bilancio come
autorizzazioni di spesa e la relativa copertura deve essere
assicurata da risorse diverse dai proventi del tributo di
competenza dell'esercizio al quale si riferisce
l'iscrizione. Altrimenti, visto che le somme riscosse devono
coprire integralmente i costi del servizio, gli ulteriori
benefici fiscali avrebbero un'incidenza negativa sul quantum
dovuto dai contribuenti soggetti al prelievo
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Stabilizzazioni con il concorso.
Servono 3 anni di anzianità di servizio con lo stesso ente.
Le
novità introdotte dalla legge di stabilità. Risorse con il
tetto del 50% delle spese.
I comuni possono stabilizzare i lavoratori assunti a tempo
determinato che hanno maturato una anzianità di almeno tre
anni presso lo stesso ente. Non è più necessario che questa
anzianità sia stata maturata entro un termine prefissato: le
nuove regole infatti dettano una disciplina che si applica
in modo permanente. Le stabilizzazioni possono avvenire
esclusivamente tramite concorsi pubblici, per cui a
differenza del passato non sono consentite trasformazioni
dirette del rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Le
amministrazioni sono vincolate a non destinare alle
stabilizzazioni una cifra superiore alla metà delle risorse
disponibili per nuove assunzioni, il che determina una
pesante limitazione del loro numero.
Possono essere così
sintetizzate le novità dettate dal comma 401 della legge
228/2012, cd di stabilità 2013. La disposizione riapre,
anche se in modo assai limitato, la possibilità di
stabilizzare i lavoratori precari, possibilità che sulla
base della precedente legislazione si sarebbe chiusa
definitivamente lo scorso 31 dicembre.
Con le nuove disposizioni, dettate sotto forma di modifica
dell'articolo 35 del dlgs n. 165/2001, si riapre la
prospettiva della assunzione a tempo indeterminato per i
lavoratori precari. Da sottolineare subito che questa
possibilità riguarda i dipendenti a tempo determinato e si
può estendere al più i collaboratori coordinati e
continuativi: non vi sono spazi di sistemazione né per i
titolari di un contratto di somministrazione né per quelli
assunti con altre forme di contratti flessibili. A
differenza delle precedenti disposizioni, i destinatari sono
individuati esclusivamente nei dipendenti che hanno maturato
almeno 3 anni di anzianità nell'ente che indice le procedure
concorsuali: non è più consentito, in altri termini, di
sommare periodi di anzianità maturati presso altre
amministrazioni pubbliche. Si conferma invece che la
stabilizzazione non è un diritto, ma è una semplice
possibilità e che gli enti hanno una ampia discrezionalità
nella sua utilizzazione.
La trasformazione a tempo indeterminato richiede
necessariamente lo svolgimento di un concorso pubblico. Esso
potrà svolgersi in uno dei seguenti 2 modi. In primo luogo
il concorso con una riserva non superiore al 40% dei posti
messi a concorso: questo vuole dire che per potere
effettuare una stabilizzazione occorre mettere a concorso
almeno 3 posti. Da sottolineare che il legislatore non
prevede concorsi interamente riservati, ma solamente
concorsi con riserva: per cui devono andare nella stessa
competizione sia gli interni che i partecipanti esterni.
L'altra possibilità è il concorso in cui la esperienza dei
dipendenti che hanno maturato una anzianità almeno triennale
nell'ente sia adeguatamente valorizzata, cioè sia premiata
con un punteggio aggiuntivo, anche elevato. La norma
consente di utilizzare questa formula anche a vantaggio dei
collaboratori coordinati e continuativi che hanno maturato
una anzianità almeno triennale con lo stesso ente. Il
vincolo concorso pubblico deve essere raccordato con le
previsioni per cui le assunzioni dei dipendenti delle
categorie A e B1 è effettuata tramite avviamento da parte
delle agenzie del lavoro.
Le stabilizzazioni sono soggette, oltre ai vincoli dettati
per tutte le assunzioni, a limiti specifici. Ricordiamo che
i vincoli di carattere generale sono il riguardare
esclusivamente posti vacanti in dotazione organica, l'avere
rispettato il patto di stabilità nell'anno precedente,
l'avere rispettato il tetto alla spesa del personale e
l'avere un rapporto tra spesa del personale e spesa corrente
non superiore al 50%. Le risorse destinabili alle
stabilizzazioni non devono superare il tetto del 50% delle
risorse che le amministrazioni possono utilizzare per le
assunzioni a tempo indeterminato. Questo specifico limite
crea però numerosi problemi applicativi: negli enti soggetti
al patto esso esiste un tetto di spesa alle nuove
assunzioni, il 40% del costo del personale cessato, ma negli
enti soggetti al patto il tetto è esclusivamente di tipo
numerico. E ancora, occorre chiarire l'ambito di
applicazione del tetto ed il suo raccordo con le deroghe ai
tetti di spesa alle nuove assunzioni previste dalla
normativa (vigili, personale educativo e docente, dipendenti
da utilizzare nei servizi sociali)
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Consiglieri, permessi per il tempo necessario alla
riunione.
Quale disciplina è prevista per i permessi di lavoratori
dipendenti, pubblici o privati, che sono componenti dei
consigli comunali e provinciali?
Con la modifica, al primo comma, dell'art. 79 del Tuel,
disposta dal comma 21 dell'art. 16 del dl 13/08/11, n. 138,
convertito nella legge 14/09/2011, n. 148, le parole «per
l'intera giornata in cui sono convocati i rispettivi
consigli» sono state sostituite dalle seguenti «per il tempo
strettamente necessario per la partecipazione a ciascuna
seduta dei rispettivi consigli e per il raggiungimento del
luogo del suo svolgimento».
La rettifica è stata apportata nei termini suindicati solo
relativamente al primo periodo del comma 1 dell'art. 79 che,
nella parte rimanente, rimasta invariata, prevede che «nel
caso in cui i consigli si svolgano in orario serale, tali
lavoratori hanno diritto di non riprendere il lavoro prima
delle 8 ore del giorno successivo; nel caso in cui i lavori
dei consigli si protraggano oltre la mezzanotte, hanno
diritto di assentarsi dal servizio per l'intera giornata
successiva»
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Trasferimenti.
Il beneficio previsto dall'articolo 78, comma 6, del decreto
legislativo n. 267/2000 è applicabile al personale della
polizia di stato che ha prodotto istanza di trasferimento,
in quanto nominato rappresentante di un comune a supporto
dell'assessore ai servizi sociali già delegato dal sindaco
quale componente del Coordinamento istituzionale presso
l'Ambito territoriale con sede presso altro ente?
L'articolo sopra citato introduce una disposizione di
garanzia a favore di tutti i lavoratori dipendenti per
evitare loro restrizioni o limitazioni all'esercizio delle
funzioni connesse all'espletamento del proprio mandato.
In proposito è stabilito che la richiesta di tali lavoratori
di avvicinamento al luogo in cui viene svolto il mandato
amministrativo deve essere esaminata dal datore di lavoro
con criteri di priorità.
L'art. 77, comma 2, del Tuel statuisce che, ai fini
dell'applicazione delle norme di cui al capo IV status degli
amministratori locali (artt. 77-87), si devono intendere
amministratori locali i componenti degli organi di
decentramento.
Ciò posto, dal caso in esame risulta che l'interessato è
stato designato a supportare l'attività dell'assessore ai
servizi sociali e non direttamente delegato dal sindaco a
rappresentare l'ente locale.
Pertanto, non rientrando lo stesso nel novero degli
amministratori locali come definito dall'art. 77 del Tuel,
non sono applicabili le disposizioni di cui all'art. 78 del
medesimo Testo unico
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Richiesta di avvicinamento.
È applicabile il beneficio di cui all'art. 78, comma 6, del
Tuel a un consigliere comunale che ha prodotto istanza di
trasferimento temporaneo, fino al termine del mandato, in
una località prossima a quella nella quale svolge il
mandato?
La disposizione normativa richiamata prevede che la
richiesta degli amministratori, lavoratori dipendenti
pubblici e privati, «di avvicinamento al luogo in cui viene
svolto il mandato amministrativo deve essere esaminata dal
datore di lavoro con criteri di priorità». Priorità che
tuttavia non si identifica con un dovere assoluto di
provvedere in senso favorevole.
Infatti, l'articolo 78, comma 6, del citato decreto
legislativo, che è norma di garanzia a favore di tutti i
lavoratori dipendenti per evitare loro restrizioni o
limitazioni all'esercizio delle funzioni connesse
all'espletamento del proprio mandato, se garantisce agli
amministratori lavoratori dipendenti l'inamovibilità dal
posto di lavoro già coperto, non assicura, tuttavia, agli
stessi il diritto a essere trasferiti, su domanda, presso la
sede nella quale espletano il mandato elettorale, dovendo la
richiesta di avvicinamento soltanto «essere esaminata dal
datore di lavoro con criteri di priorità».
In occasione della richiesta di avvicinamento, proposta ai
sensi del riferito art. 78, l'amministrazione/datore di
lavoro deve, pertanto, effettuare una valutazione
comparativa tra le esigenze dell'amministratore/dipendente e
quelle organizzative dell'azienda/l'amministrazione, quanto
meno riconoscendo al lavoratore investito del mandato
amministrativo il godimento di un titolo preferenziale.
Il testo della norma conferma, quindi, che si tratta di una
disposizione di stretta interpretazione, che non autorizza a
concludere che essa attribuisca al lavoratore, che ricopre
una carica politica, il diritto al trasferimento bensì il
solo diritto a un esame prioritario della sua istanza, nel
rispetto della specifica disciplina recata dall'ordinamento
speciale dell'amministrazione di appartenenza
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
TRIBUTI: I terreni incolti pagano l'Imu.
Esenti solo aree destinate a coltivazioni e allevamento.
Una nota dell'Ifel che produce effetti anche sulla
determinazione dell'Irpef.
I terreni montani «incolti» devono pagare l'Imu. Ad
affermarlo è stata l'Ifel (il braccio destro in campo
fiscale dell'Associazione dei comuni) la quale, con la
nota
03.01.2013, ha ritenuto che l'esenzione dall'imposta
spetta solo ai terreni «agricoli», cioè quelli adibiti ad
una delle attività di cui all'art. 2135 c.c. (coltivazione
del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività
connesse).
Si tratta di una questione che coinvolge anche l'Irpef,
atteso che il reddito dominicale dei terreni non affittati
deve essere assoggettato all'imposta sui redditi solo in
caso di esenzione dall'Imu.
Imu. L'Ifel, dopo aver premesso che, ai fini dell'Imu, non
esistendo una definizione di terreno «incolto» occorre fare
riferimento a quella più generale di «terreno» (intendendosi
per tale l'insieme delle particelle che non sono
qualificabili né come «aree edificabili», né come «terreni
agricoli»), sottolinea due aspetti. Il primo è che ai
terreni «incolti», contrariamente a quanto potrebbe
trasparire dalla circolare 3/DF/2012 e dalle istruzioni alla
dichiarazione Imu che sul punto si prestano a qualche
«ambiguità interpretativa», non si può applicare lo stesso
regime previsto per quelli «agricoli» (tranne il caso,
disciplinato dall'art. 13, comma 5, del dl 201/2011, in cui
il possessore sia un agricoltore iscritto nell'apposita
previdenza).
Il secondo, e più importante, è che tutti i
benefici riconosciuti dalla legge ai terreni, compresa
l'esenzione di cui all'art. 7, lett. h), del dlgs 504/1992
(richiamata dal combinato disposto degli art. 9 del dlgs
23/2011 e 13, comma 13, del dl 201/2011), si riferiscono, in
modo espresso ed inequivoco, ai «terreni agricoli» come
definiti dall'art. 2, lett. c), del dlgs 504/1992. Dal che ne
conseguirebbe, sempre secondo la fondazione dell'Anci, che i
terreni situati nei comuni ricadenti in aree montane o di
collina (ed elencati nella circolare 9/1993) sono esenti da
Imu solo se adibiti all'esercizio delle attività indicate
nell'art. 2135 c.c.
Ne risulta, per converso, che i terreni
«incolti» sono assoggettati all'imposta ovunque essi si
trovino. E poco conta, sempre a parere dell'Ifel, che le
istruzioni ministeriali alla dichiarazione Imu, nel
richiamare la norma riguardante l'esenzione in questione,
non riportino dopo la parola «terreni» la qualificazione
«agricoli»: non può essere, infatti, che un «provvedimento
amministrativo» vada a modificare un'impostazione normativa
che disciplinando (per di più) un'esenzione non può neppure
essere oggetto di un'interpretazione analogica.
La
condivisibile opinione espressa dall'Ifel non pare trovare
ostacolo neppure nella circostanza che le istruzioni
ministeriali assumono forza di decreto (ex art. 1 dm
31/10/2012), essendo inconfutabile l'illegittimità di una
norma regolamentare che si ponesse in contrasto con la
legge.
Irpef. Ancorché non sia stato oggetto di analisi da parte
dell'Ifel, va evidenziato come l'inquadramento ai fini dell'Imu
dei terreni montani «incolti» riverberi effetti anche
sull'Irpef. Infatti, dall'anno d'imposta 2012 (dichiarazioni
dei redditi 2013) se i terreni non sono affittati,
l'esenzione dall'Imu determina la debenza dell'Irpef sia sul
reddito dominicale che su quello agrario. Al contrario,
l'assoggettamento all'Imu produce l'esclusione dall'Irpef
del (solo) reddito dominicale.
Seguendo l'interpretazione
fornita dall'Ifel, si arriva pertanto alla conclusione che
tutti i terreni diversi da quelli adibiti ad una delle
attività agricole di cui all'art. 2135 c.c., anche se posti
in comuni montani, sono assoggettati all'Imu ma non
all'Irpef (limitatamente al reddito dominicale)
(articolo ItaliaOggi dell'08.01.2013). |
APPALTI: Pagamenti
entro 30 giorni.
Il limite può essere esteso a 60 quando il debitore è una Pa.
IL RIFERIMENTO/
La scadenza si misura dalla data di ricevimento della
fattura da parte del debitore o delle merci.
Con il decreto legislativo 192/2012, in vigore dal 1°
gennaio, è stata recepita la direttiva 2011/7/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio del 16.02.2011
relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali. La normativa integra quella già
dettata dal decreto legislativo 231/2002, con l'intento di
evitare abusi da posizione dominante, soprattutto da parte
della pubblica amministrazione.
La nuova disciplina trova applicazione per ogni pagamento
effettuato, a titolo di corrispettivo, in una transazione
commerciale e, quindi, sia tra privati che tra questi e un
soggetto pubblico.
In primo luogo la disciplina introduce una sostanziale
distinzione tra gli "interessi moratori" (liberamente
determinati fra le parti) e gli "interessi legali di mora",
applicabili ope legis a un tasso pari a quello di
riferimento maggiorato di otto punti percentuali. In
sostanza, mentre dal 1° gennaio le pubbliche amministrazioni
non possono più derogare all'applicazione degli interessi
legali di mora, i privati conservano ancora tale possibilità
in alcuni specifici casi.
I tempi di pagamento massimi standard stabiliti per tutti
dalle nuove norme sono:
- 30 giorni dalla data di ricevimento, da parte del
debitore, della fattura o di una richiesta di pagamento di
contenuto equivalente;
- 30 giorni dalla data di ricevimento delle merci o dalla
data di prestazione dei servizi, quando non è certa la data
di ricevimento della fattura o della richiesta equivalente
di pagamento;
- 30 giorni dalla data di ricevimento delle merci o dalla
prestazione dei servizi, quando la data in cui il debitore
riceve la fattura o la richiesta equivalente di pagamento è
anteriore a quella del ricevimento delle merci o della
prestazione dei servizi;
- 30 giorni dalla data dell'accettazione o della verifica
(eventualmente previste ai fini dell'accertamento della
conformità della merce o dei servizi alle previsioni
contrattuali), qualora il debitore riceva la fattura o la
richiesta equivalente di pagamento in epoca non successiva a
tale data.
I 30 giorni sono estensibili a 60 nelle transazioni
commerciali in cui il debitore è una pubblica
amministrazione, previo accordo espresso e scritto delle
parti e solo quando ciò sia giustificato dalla natura o
dall'oggetto del contratto o dalle circostanze esistenti al
momento della sua conclusione. Il termine di 60 giorni è,
invece, automatico per i rapporti con imprese pubbliche
"trasparenti" e con le aziende pubbliche sanitarie.
I 30 giorni valgono anche per le transazioni fra privati ma,
come detto, questi potranno essere ulteriormente dilatati,
purché non risultino gravemente iniqui per il creditore, in
quanto molto difformi da quelli della prassi commerciale o
in contrasto con il principio di buona fede e correttezza,
avuto conto della natura della merce o del servizio oggetto
del contratto.
Decorso, in assenza di pagamento, il termine scatta
l'applicazione degli interessi moratori sull'intero importo
dovuto, senza che sia necessaria la costituzione in mora.
Il tasso di riferimento che deve essere usato è quello
applicato dalla Banca centrale europea alle sue più recenti
operazioni di rifinanziamento principali, maggiorato di otto
punti percentuali. Resta ferma la facoltà per i privati di
concordare un tasso differente da quello legale, purché non
iniquo.
Resta, comunque, possibile concordare pagamenti rateali e,
qualora una delle rate non sia pagata alla data concordata,
gli interessi saranno calcolati sugli importi scaduti.
Rimane, infine, sempre possibile per il debitore dimostrare
che il ritardo nel pagamento del prezzo è stato determinato
dall'impossibilità della prestazione derivante da causa a
lui non imputabile.
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La bussola
01 | LA DISCIPLINA GENERALE
La normativa relativa ai pagamenti per le transazioni
commerciali interessa le operazioni concluse dal 01.01.2013. I tempi standard di pagamento sono fissati in 30
giorni, dal ricevimento della fattura o delle merci: il
termine è estensibile in alcuni casi; il termine di 60
giorni è automatico nei rapporti tra fornitori e Asl.
Decorso il termine, si applicano gli interessi di mora,
vincolanti per le pubbliche amministrazioni
02 | LA CERTIFICAZIONE
Per quanto riguarda gli "importi scaduti", in particolare i
rapporti con la Pubblica amministrazione, è operativa la
procedura di certificazione dei crediti. La richiesta di
certificazione dei crediti vantati dalle imprese verso la
Pubblica amministrazione per le forniture eseguite può
essere presentata da chiunque, società, impresa individuale
o persona fisica, vanti un credito nei confronti dei
predetti enti, purché non prescritto, certo, liquido ed
esigibile.
L'azienda potrà utilizzare la certificazione per
compensare debiti iscritti a ruolo per tributi erariali,
regionali o locali e nei confronti di Inps o Inail; ottenere
un'anticipazione bancaria del credito, eventualmente anche
assistita dalla garanzia del Fondo centrale di garanzia;
cedere il credito, pro-soluto e pro-solvendo. L'istanza di
certificazione può essere inoltrata dalle imprese solo
attraverso la procedura ordinaria, con la modulistica
cartacea resa disponibile su www.mef.gov.it/certificazionecrediti/.
L'amministrazione dovrà fornire l'attestazione richiesta nei
trenta giorni successivi alla ricezione dell'istanza.
03 | I PRODOTTI AGRICOLI
I prodotti agricoli sono sottoposti alla disciplina generale
e di settore: il termine di pagamento, cui sono sottratti i
contratti in cui cedente e cessionario sono entrambi
produttori agricoli, sono 30 giorni per i prodotti
deperibili, 60 per gli altri.
In caso di ritardi nel
pagamento, gli interessi di mora si calcolano in base al
tasso di riferimento Ue (7%) più l'integrazione stabilita
semestralmente dal Governo italiano (1%), più 2 punti, per
un totale del 10%. Per omessa o incompleta stesura del
contratto, che comunque non è nullo la sanzione va da 516 a
20mila euro
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.01.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
CONDOMINIO: Casa.
Le novità per i creditori.
In condominio la «solidarietà» è condizionata.
La riforma del condominio ripristina, in parte, il principio
di solidarietà passiva dei condomini, disatteso dalla più
recente giurisprudenza.
Con la decisione 9148/2008 le sezioni unite della Cassazione
avevano, infatti, stabilito che la responsabilità dei
condomini è retta dal criterio della parziarietà, per cui le
obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si
imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle
rispettive quote. Ne derivava che il creditore potesse
rivolgere la domanda di pagamento ai condomini solo in
proporzione alla singola quota debitoria e quindi, se
rimasse insoddisfatto, dovrebbe rivolgersi ai morosi,
controllando lo stato dei pagamenti e le tabelle millesimali
del condominio.
La decisione della Cassazione ha sollevato non poche
critiche; e con la riforma del condominio (legge 22.07.2012)
il legislatore ha reintrodotto, almeno in parte, la
solidarietà del debito del condominio. Il nuovo articolo 65
della Disposizioni di attuazione del Codice civile stabilisce
che i creditori possono agire anche nei confronti degli
obbligati in regola con i pagamenti ma solo dopo
l'escussione degli altri condomini. Inoltre, l'azione del
terzo viene agevolata dalla nuova disposizione (articolo 93
delle Disposizioni di attuazione) che fissa l'obbligo
dell'amministratore di comunicare ai creditori non ancora
soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini minori.
Resta da stabilire con quali modalità il terzo creditore
possa agire contro i condomini adempienti per la morosità di
altro condomino. Alcuni interpreti ritengono che il terzo
non debba solo chiedere il pagamento del dovuto ai condomini
morosi con lettera o atto di messa in mora, ma debba prima
agire in via esecutiva contro questi condomini morosi e solo
dopo possa recuperare il suo denaro dagli altri. I tempi,
quindi, diverrebbero molto lunghi.
La novità legislativa sembra comunque confermare il
principio in base al quale la sentenza ottenuta contro il
condominio costituisce titolo esecutivo nei confronti dei
singoli condomini in via solidale tra loro, ancorché non
indicati nominativamente e non siano stati dichiarati
responsabili solidalmente. Va però ricordato che il
creditore che ha già ottenuto sentenza definitiva di
condanna al pagamento di una somma di danaro nei confronti
del condominio, è carente di interesse ad agire nei
confronti del singolo condomino per il pagamento pro quota
della medesima somma (Cassazione, sentenza 20304/2004).
Complica la questione una decisione di merito che ha
affermato che non può accogliersi l'istanza di rilascio di
tante copie in forma esecutiva del predetto titolo per
quanti sono i condomini nei confronti dei quali si intenda
procedere esecutivamente pro quota, perché può agirsi solo
in base a specifico ed autonomo titolo esecutivo
relativamente alle singole quote da accertarsi in sede di
giudizio anche a cognizione sommaria (Tribunale di Catania,
sentenza del 20.05.2009).
Intanto la possibile responsabilità solidale dei condomini è
di fatto ridotta con la nuova previsione dell'articolo 1135,
n. 4, che stabilisce che l'assemblea provvede alle opere di
manutenzione straordinaria e alle innovazioni costituendo
obbligatoriamente un fondo speciale di importo pari
all'ammontare dei lavori. Raccolto doverosamente
dall'amministratore l'intero importo dei lavori da eseguire,
resta scoperta solo la eventuale ulteriore quota per le
variazioni e le aggiunte apportate in corso di opera, che
andrebbero comunque approvate preventivamente dall'assemblea
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.01.2013). |
VARI:
I guidatori poco virtuosi fanno
i conti con le sanzioni rincarate.
In vigore l'aggiornamento degli importi con l'incremento del
5,4%, il più elevato dal 1998.
Parlare al telefono cellulare mentre si guida, senza
auricolari o vivavoce, costerà 160 euro. O circolare senza
copertura assicurativa arriverà a costare 841 euro. Insomma
è un inizio d'anno con la cinghia tirata per gli utenti
della strada.
Dal 1° gennaio è, infatti, entrato in vigore
l'aggiornamento biennale degli importi delle sanzioni
stradali, con un incremento pari al 5,4%, contro il rialzo
precedente pari al 2,4%. Ed è scattato anche l'aumento delle
tariffe postali di notificazione dei verbali, che porterà
gli organi di polizia ad adeguare le spese da addebitare ai
trasgressori e ai proprietari dei veicoli.
L'incremento
degli importi delle sanzioni stradali è stato disposto dal
decreto del ministero della giustizia del 19.12.2012,
pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 303 del 31 dicembre.
Stando al tenore letterale dell'art. 195, comma 3, del
codice della strada, la misura delle sanzioni amministrative
pecuniarie è aggiornata ogni due anni in misura pari
all'intera variazione, accertata dall'Istat, dell'indice dei
prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati
(media nazionale) verificatasi nei due anni precedenti.
Prendendo come riferimento tale indice, il ministro della
giustizia, di concerto con i ministri dell'economia e delle
finanze, e delle infrastrutture e dei trasporti, fissa i
nuovi limiti delle sanzioni amministrative pecuniarie, che
si applicano dal 1° gennaio dell'anno successivo.
Usualmente
il decreto ministeriale di dicembre prende come base di
riferimento l'indice FOI di novembre. Dunque, stando alla
prassi finora seguita, sulla base del dato pubblicato
dall'Istat il 13 dicembre sarebbe dovuto scattare dal 01.01.2013 un aumento del 5,7% degli importi delle
sanzioni amministrative pecuniarie per le violazioni
stradali. Invece, il decreto ministeriale ha stabilito un
incremento pari al 5,4%, calcolandolo non su un periodo di
24 mesi (novembre 2010/novembre 2012), ma su un intervallo
di 23 mesi (dicembre 2010/novembre 2012). In ogni caso,
l'incremento del 5,4% risulta essere il più elevato dal 1998
in poi. L'ultimo aggiornamento, stabilito dal decreto
ministeriale del 22.12.2010, aveva disposto un aumento
del 2,4%. Nel calcolo dei nuovi importi si è applicata la
consueta regola dell'arrotondamento all'unità di euro per
eccesso se la frazione decimale sarà pari o superiore a 50
centesimi di euro oppure per difetto se sarà inferiore.
L'arrotondamento è applicato alle sanzioni edittali, ma non
agli importi che costituiscono il risultato di operazioni di
divisione rispetto ai valori minimi o massimi previsti dal
codice della strada, come, per esempio, le somme da
iscrivere a ruolo o le somme richieste a titolo di cauzione.
Restano escluse dall'aggiornamento, non essendo ancora
decorsi due anni, le norme che hanno introdotto o modificato
le sanzioni con effetto dopo il 01.01.2011,
precisamente quelle dell'art. 23, comma 12, dell'art. 115,
comma 1-ter, dell'art. 122, comma 5-bis, art. 167, commi
2-bis, 3-bis e 5, secondo periodo, nonché dell'art. 1, comma
3, della legge n. 33 del 22.03.2012.
Ecco alcuni tra i principali aumenti (si veda anche
tabella): il tradizionale divieto di sosta passa da 39 a 41
euro. La sanzione per il conducente o passeggero senza
cinture di sicurezza aumenta da 76 a 80 euro, mentre quella
prevista per chi guida usando il telefonino senza auricolare
o senza viva voce sale da 152 a 160 euro, così come per i
neopatentati che non rispettano le limitazioni previste
dall'art. 117 del codice stradale. Il passaggio con il
semaforo rosso, la mancata precedenza o il mancato rispetto
dello stop costano 8 euro in più se le violazioni sono
commesse fra le ore 7 e le ore 22 e 10,67 euro in più per i
trasgressori pizzicati tra le ore 22 e le ore 7.
L'omessa
revisione costa ora al trasgressore 9 euro in più (da 159 a
168 euro) e la mancanza di copertura assicurativa 43 euro in
più (da 798 a 841 euro). La sanzione amministrativa per chi
guida in stato di ebbrezza alcolica con tasso alcolemico
superiore a 0,5 g/l e non superiore a 0,8 g/l aumenta da 500
a 527 euro. Per quanto riguarda l'eccesso di velocità,
considerando, per esemplificare, la fascia dalle ore 7 alle
ore 22, le sanzioni passano a 41 euro (entro 10 km/h oltre
il limite), 168 euro (fra 10 e 40 km/h oltre il limite), 527
euro (fra 40 e 60 km/h oltre il limite) e 821 euro (60 km/h
oltre il limite). Attenzione però alla delazione prevista
nell'ambito del sistema della patente a punti.
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Maggiorazioni anche per le notifiche.
Oltre ai nuovi importi delle sanzioni stradali il nuovo anno
ha portato anche l'aumento delle tariffe delle raccomandate
per la notificazione via posta delle multe stradali. E
questa ulteriore novità costringerà i comandi di polizia ad
aumentare le spese da addebitare ai destinatari dei verbali.
È questo l'effetto della deliberazione dell'Agcom n. 640 del
20.12.2012 in vigore dal 01.01.2013, pubblicata
sulla Gazzetta ufficiale n. 1 del 02.01.2013.
Con riferimento allo scaglione di peso fino a 20 grammi, il
costo della raccomandata atti giudiziari aumenta da 6,60 a
7,20 euro, il costo della Can (comunicazione di avvenuta
notificazione) passa da 3,30 a 3,60 euro e il costo della
Cad (comunicazione di avvenuto deposito) cresce da 3,90 a un
importo che deve ancora essere precisato da Poste Italiane,
(probabilmente 4,30 euro). In che cosa consiste la Can? Nel
caso in cui l'atto giudiziario sia notificato per posta
mediante consegna effettuata non al destinatario (la persona
fisica o, per le persone giuridiche, il legale
rappresentante), ma ad altro soggetto legittimato al ritiro,
l'ufficio postale provvede a inviare al destinatario la
raccomandata contenente un avviso. Se la raccomandata non
viene recapitata ad alcun soggetto, viene posta in giacenza
presso l'ufficio postale per 30 giorni.
Emessa la raccomandata, l'ufficio postale deve riportare
direttamente sull'avviso di ricevimento dell'atto
giudiziario l'avvenuta emissione della comunicazione di
avvenuta notificazione. L'ufficio postale provvede a
riscuotere l'importo al momento della consegna al mittente
dell'avviso di ricevimento dell'atto giudiziario. Questa
procedura accessoria di notificazione non interferisce ed è
cosa distinta dall'ipotesi dell'emissione della
comunicazione di avvenuto deposito (Cad), che viene inviata
al destinatario nel caso in cui qualsiasi persona
legittimata al ritiro risulti assente al momento del
passaggio del portalettere.
Con l'aumento delle tariffe, nel breve periodo gli organi di
polizia adegueranno conseguentemente le spese da porre a
carico ai soggetti tenuti al pagamento della multa, come
previsto dall'art. 201, comma 4, del codice della strada,
con riferimento sia alla raccomandata atti giudiziari che
alle comunicazioni di avvenuta notificazione o di avvenuto
deposito (articolo ItaliaOggi
Sette del 07.01.2013). |
APPALTI - ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Giustizia amministrativa salata.
Per il contributo unificato previsti aumenti fino al 50%.
Lo prevede la legge di stabilità: è
atteso un maggior gettito di 27 milioni di euro.
Stabilità della giustizia a tinte digitali e con le mani nel
portafoglio dei litiganti. L'agenda digitale a tappe forzate
(dal 30.06.2014 gli avvocati devono depositare in
tribunale solo atti informatici) e il rincaro del balzello
dovuto per iniziare una causa (in particolare i ricorsi
amministrativi sugli appalti) segnano la manovra sulla
giustizia per il 2013.
Da un lato si conta sui risparmi di spesa connessi alla
dematerializzazione delle carte dei processi (si veda
ItaliaOggi Sette del 31.12.2012), dall'altro si
contabilizzano le maggiori entrate da versamenti di un
contributo unificato che dovrebbe dare un maggior gettito di
27 milioni di euro a decorrere dall'anno in corso.
Ma vediamo come si articolano le novità punto per punto
previste dalla legge di stabilità (legge 24/12/2012
pubblicata sulla G.U. n. 228, del 29/12/2012).
Contributo unificato. Il contributo unificato viene alzato
con la conseguenza di aumentare le somme richieste per
l'accesso alla giustizia amministrativa.
In particolare la legge di stabilità eleva da 1.500 a 1.800
euro il contributo unificato dovuto per le controversie cui
si applica il rito abbreviato disciplinato dal Codice del
processo amministrativo; sostituisce ai 4 mila euro
attualmente previsti per tutte le controversie in tema di
affidamento di pubblici lavori e di provvedimenti adottati
dalle Autorità amministrative indipendenti una disciplina
del contributo unificato diversificata in ragione del valore
della controversia (portando il contributo dal valore minimo
di 2 mila euro a quello massimo di 6 mila euro); eleva da
600 a 650 euro il contributo unificato dovuto in tutti i
restanti casi, compreso il ricorso straordinario al
presidente della repubblica.
Per i ricorsi tema di affidamento di pubblici lavori e di
provvedimenti adottati dalle autorità amministrative
indipendenti il contributo dovuto è di 2 mila euro quando il
valore della controversia è pari o inferiore a 200 mila
euro; per quelle di importo compreso tra 200 mila euro e un
milione il contributo dovuto è di 4 mila euro, mentre per
quelle di valore superiore a un milione di euro è pari a 6
mila euro. Se manca la dichiarazione il contributo dovuto è
di 6 mila euro.
Inoltre il contributo unificato nel processo amministrativo
è aumentato sempre del 50%per i giudizi di impugnazione.
Nel processo amministrativo relativo alle controversie in
tema di affidamento di pubblici lavori, per valore della
lite si intende l'importo posto a base d'asta individuato
dalle stazioni appaltanti negli atti di gara; nelle
controversie relative all'irrogazione di sanzioni da parte
delle Autorità amministrative indipendenti, invece, il
valore della lite è rappresentato dalla somma richiesta a
titolo di sanzione.
Quando le controversie amministrative riguardano i
provvedimenti concernenti le procedure di affidamento di
pubblici lavori, servizi e forniture il valore della lite,
calcolato sull'importo posto a base d'asta individuato dalle
stazioni appaltanti negli atti di gara, non considera i
ribassi: c'è quindi la possibilità di un'incidenza negativa
nel caso di ribasso che comporta un'offerta compresa nello
scaglione più basso del contributo unificato rispetto a
quello da applicare per l'importo base.
Le disposizioni relative all'incremento del contributo
unificato per i processi amministrativi, compreso l'aumento
della metà per i giudizi di impugnazione si applicheranno ai
ricorsi notificati successivamente alla data di entrata in
vigore della legge di stabilità (01.01.2013) (articolo ItaliaOggi
Sette del 07.01.2013). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Scadenze. C'è tempo solo fino al 9 gennaio per approvare i
regolamenti.
Sprint finale per avviare controlli e audit interni.
Amministratori inadempienti: sanzioni fino a 20 mensilità.
Gli enti locali devono adottare in tempi strettissimi, entro
il 9 gennaio, i regolamenti che definiscono la disciplina
del sistema dei controlli interni e attivare le varie forme
di audit.
Le nuove disposizioni inserite dalla legge 213/2012 nel
Testo unico degli enti locali (Tuel) hanno un termine di
attuazione di prossima scadenza, stabilito in novanta giorni
dall'entrata in vigore del Dl 174/2012 (il 10 ottobre),
termine che non è stato prorogato.
Tutte le Province, le unioni di Comuni e i Comuni
(indipendentemente dalla dimensione), in base al nuovo
articolo 147 del Tuel, devono approvare in Consiglio un
regolamento sui controlli di regolarità amministrativa e
contabile dei propri atti, sul controllo di gestione e sulla
verifica dei programmi. Essi sono tenuti a definire anche
nuove norme del regolamento di contabilità per il costante
controllo degli equilibri finanziari.
Gli enti locali con popolazione superiore a 100mila abitanti
devono anche definire nel regolamento dei controlli interni
(per applicarle sin dal 2013) disposizioni sul controllo
strategico, la verifica dell'andamento degli organismi
esterni (in particolare delle società partecipate) e il
controllo sulla qualità dei servizi.
Questi tre elementi, peraltro, per quanto ad applicazione
differita (nel 2014 per gli enti con popolazione superiore a
50mila abitanti e nel 2015 per quelli con popolazione
superiore a 15mila abitanti), devono essere comunque
considerati nei regolamenti da tutte le amministrazioni
locali. Infatti il controllo strategico è strettamente
connesso alla verifica dei programmi, il controllo sugli
organismi partecipati è reso obbligatorio dalle numerose
norme che impongono agli enti locali la vigilanza su tali
realtà (si pensi alle disposizioni sul divieto di ripiano
delle perdite), mentre il controllo sulla qualità dei
servizi è necessario, sia in funzione di quanto previsto per
i contratti di servizio (articolo 113, comma 11, del Tuel) e
le carte dei servizi (articolo 2, comma 461, legge 244/2007)
sia in base alle norme (articoli 312-325 del Dpr 207/2010)
sulle verifica di conformità negli appalti di servizi.
Le amministrazioni sono tenute a comunicare al prefetto e
alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti
territorialmente competenti l'adozione dei regolamenti e
l'attivazione dei sistemi dei controlli interni degli enti
locali entro la scadenza del 9 gennaio. Se le regole e
l'avvio del sistema non siano stati realizzati entro la data
prefissata, il prefetto assegna all'ente locale un ulteriore
termine di sessanta giorni: se anche entro questa scadenza
l'ente non provvede, il prefetto inizia la procedura per lo
scioglimento del Consiglio. Gli amministratori locali devono
tenere in considerazione anche le sanzioni (da cinque a
venti volte la retribuzione lorda mensile) previste
dall'innovato articolo 148, comma 4 del Tuel, che possono
essere irrogate dalle sezioni giurisdizionali della Corte
dei conti, qualora queste rilevino l'assenza o
l'inadeguatezza degli strumenti e delle metodologie di
controllo interno.
Gli enti locali, quindi, devono definire regole articolate,
tenendo conto sia dei sistemi di audit esistenti (ad esempio
i riscontri della regolarità amministrativa e contabile, la
verifica del budget e degli obiettivi del Peg, la
valutazione della performance delle risorse umane, gli
eventuali sistemi di contabilità analitica rapportati al
controllo di gestione), sia delle necessità di innovazione.
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La supervisione
01 | ATTI E CONTABILITÀ
I controlli devono essere svolti in fase di formazione degli
atti (con i pareri di regolarità) e in fase successiva, con
analisi a campione
02 | PROGRAMMI
Gli enti locali devono verificare l'adeguatezza dei
programmi e riscontrare la coerenza tra risultati raggiunti
e obiettivi definiti
03 | ORGANISMI PARTECIPATI E SERVIZI
Il controllo sugli organismi partecipati è necessario per il
bilancio consolidato. Le verifiche sulla qualità dei servizi
sono richieste da norme già vigenti
04 | STRATEGIE
E PROGRAMMI
L'ente locale deve verificare lo stato di attuazione delle
linee programmatiche, della Rpp e dei piani specifici, in
rapporto alle dinamiche di bilancio
05 | EQUILIBRI FINANZIARI
Le amministrazioni devono verificare la coerenza con le
regole contabili, con il patto di stabilità e con il
pareggio di bilancio, analizzando i profili critici (articolo Il Sole 24
Ore del 07.01.2013 - tratto da www.corteconti.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Le procedure. Gli atti e le delibere da tenere sotto
osservazione.
Verifiche a campione anche su contratti e spese.
SOCIETÀ PARTECIPATE/
Partenza scaglionata fino al 2015, ma per tutti è già in
vigore l'obbligo di monitorare le uscite e la qualità delle
prestazioni.
Le nuove disposizioni del Testo unico enti locali delineano
l'impostazione e i principali contenuti del regolamento dei
controlli interni, ma gli enti locali devono definirle nel
dettaglio e renderle coerenti con gli strumenti di verifica.
I nuovi articoli del Tuel (dal 147 al 147-quinquies)
stabiliscono sia gli oggetti principali del sistema di audit
sia alcune modalità organizzative.
Per i controlli di regolarità amministrativa e contabile il
quadro sui percorsi di verifica preventiva si connette con
l'articolo 49 del Tuel sui pareri e sull'obbligo del parere
di regolarità tecnica per le determinazioni dirigenziali.
Le norme regolamentari sul controllo successivo (che vede
come soggetto di riferimento il segretario dell'ente) devono
tradurre le modalità nel rispetto dei principi
internazionali di revisione (con possibile riferimento agli
Isa - International standards on auditing), nonché devono
definire i parametri per la campionatura degli atti
(provvedimenti amministrativi, determinazioni di spesa e
liquidazione, contratti) da sottoporre alla verifica. È
peraltro necessario che questa parte del regolamento sia
collegata al piano anticorruzione, previsto dalla legge
190/2012, al fine di ottimizzare l'uso degli strumenti di
audit.
La disciplina del controllo di gestione deve essere modulata
tenendo conto della correlazione agli obiettivi del Peg
(piano esecutivo di gestione), delle fasi e dell'analisi per
centri di costo specificati dall'articolo 197 del Tuel. La
disciplina del controllo sugli equilibri finanziari deve
invece essere ricondotta al regolamento di contabilità.
I parametri per le norme regolamentari sono anzitutto le
disposizioni in materia di contabilità pubblica presenti
nello stesso Tuel (ad esempio l'articolo 193), quelle sul
patto di stabilità e il bilancio consolidato, nonché quelle
di attuazione dell'articolo 81 della Costituzione sul
pareggio di bilancio. Il sistema di verifica dovrà porre
attenzione agli elementi di maggior incidenza, come ad
esempio la sostenibilità dell'indebitamento.
Inoltre, l'articolo 148 (controlli della Corte dei conti sui
bilanci) evidenzia ulteriori profili di criticità sui quali
focalizzarsi: ricorso frequente alle anticipazioni di
tesoreria, disequilibrio consolidato della parte corrente
del bilancio, anomalie nella gestione di servizi per conto
terzi, l'aumento non giustificato di spesa degli organi
politici istituzionali.
Il check sugli equilibri finanziari si correla al controllo
sui programmi, che può essere composto in termini più o meno
articolati, ma necessariamente efficaci, per rispondere al
confronto con i verificatori esterni all'ente.
Proprio lo spettro esteso del controllo della Corte dei
conti sollecita tutti gli enti locali (non solo quelli con
oltre 100mila abitanti, tenuti già dal 2013) a disciplinare
nel regolamento forme strutturate di controllo strategico,
ma soprattutto il controllo sugli organismi partecipati e
sulla qualità dei servizi, connettendoli alle numerose
disposizioni legislative già comportanti obblighi in tal
senso (articolo Il Sole 24 Ore
del 07.01.2013 - tratto da www.corteconti.it). |
TRIBUTI:
Rifiuti. Sovrapposizione Ato-Comune.
Sulle tariffe Tares caos competenze.
Le tariffe della Tares devono essere approvate dagli enti
regionali costituiti e disciplinati dalle normative di
settore.
Ai sensi dell'articolo 34, comma 23, della legge 221/2012,
(conversione del secondo decreto sviluppo), sono infatti
unicamente gli enti di governo degli ambiti o bacini
territoriali ottimali a esercitare le funzioni di
organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di
rilevanza economica (rifiuti compresi), di scelta della
forma di gestione e affidamento, di determinazione delle
tariffe e di controllo.
La norma si pone in evidente contrasto con la disciplina
istitutiva della Tares (articolo 14, Dl 201/11), secondo la
quale il Consiglio comunale deve approvare le tariffe del
tributo entro il termine fissato per l'approvazione del
bilancio di previsione, in conformità al piano finanziario
del servizio di gestione dei rifiuti urbani, redatto dal
soggetto che svolge il servizio stesso e approvato dal
l'autorità competente.
Poiché soggetto attivo del tributo è il Comune, deve essere
il Consiglio comunale a deliberare eventuali riduzioni ed
esenzioni, la cui copertura finanziaria deve essere
assicurata con risorse della fiscalità generale.
La disciplina integrativa recata dalla legge di stabilità
2013 (legge 228/2012) non chiarisce la competenza in materia
di approvazione delle tariffe, esponendo al rischio di
impugnazione gli atti eventualmente adottati in violazione
di legge per incompetenza assoluta dell'organo deliberante.
Il comma 387 dell'articolo unico consente ai Comuni, in
deroga all'articolo 52 del Dlgs 446/1997, di affidare, fino al
31.12.2013, la gestione del tributo o della tariffa ai
soggetti che, al 31.12.2012, svolgono, anche
disgiuntamente, il servizio di gestione dei rifiuti e di
accertamento e riscossione della Tarsu, della Tia 1 o della
Tia 2.
Il versamento del tributo o della tariffa nonché della
maggiorazione di 0,30 euro a metro quadrato (elevabile fino
a 0,40 dal Consiglio comunale) deve essere effettuato con
F24 o con conto corrente postale intestato esclusivamente al
Comune.
Per quest'anno, il termine di versamento della prima rata è
posticipato ad aprile, ferma restando la facoltà del Comune
di deliberare una scadenza successiva.
Sino alla determinazione delle tariffe l'importo delle rate
è calcolato in acconto, commisurandolo a quanto versato
nell'anno precedente a titolo di Tarsu, Tia 1 o Tia 2 e
tenendo conto della maggiorazione di 0,30 euro a metro
quadrato. L'eventuale conguaglio per maggiorazioni fino a
0,40 euro è invece effettuato con l'ultima rata.
I tempi di pagamento del servizio di igiene urbana da parte
dei Comuni non coincidono, per l'anno 2013, con i tempi di
riscossione del tributo o della tariffa. Lo squilibrio
finanziario potrebbe compromettere seriamente la gestione
della liquidità degli enti e comportare il ricorso ad
anticipazioni di tesoreria, i cui costi produrrebbero
necessariamente incrementi tariffari a carico dei
contribuenti (articolo Il Sole 24
Ore del 07.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA: In
termini generali, è senz’altro vero che il proprietario
confinante ha un interesse qualificato a che il Comune
competente, titolare quindi di un correlato obbligo di
provvedere, si pronunci su una sua istanza volta a
verificare l’eventuale commissione di abusi edilizi da parte
di un vicino.
E’ però altrettanto vero che tale interesse deve ritenersi
sussistente solo a fronte di istanze assistite da un minimo
di specificità, ovvero che indichino, almeno in modo
sommario, in che consisterebbe l’ipotizzato abuso.
Diversamente infatti da un lato si legittimerebbero
condotte potenzialmente anche emulative, dall’altro
si rischierebbe uno spreco di risorse dell’amministrazione,
costretta ad effettuare verifiche indiscriminate e
complessive di una qualsiasi pratica.
Non varrebbe poi obiettare che in tal modo si imporrebbe al
privato un onere eccessivo, perché per comune esperienza chi
ritiene di sollecitare a propria difesa un intervento
repressivo per definizione ritiene di aver patito una
illegittimità e la sa indicare, per lo meno in termini
atecnici.
Ritenuto:
- che la ricorrente, la quale è proprietaria in Manerba del
Garda (Bs) di un terreno agricolo confinante con quello
della Galat S.r.l. di cui meglio in epigrafe (fatto non
contestato), ha presentato al Comune di Manerba istanza
volta a far attivare un procedimento amministrativo di
verifica della commissione da parte di questa di abusi
edilizi quanto ai lavori oggetto della SCIA di cui pure
meglio in epigrafe, relativa in buona sostanza ad alcune
opere di urbanizzazione (doc. ti 4 ricorrente e 3 Comune,
copia istanza in questione; pacifico è il fatto della
presentazione di essa, mentre si veda il relativo testo per
la sommaria descrizione delle opere);
- che il Comune a tale istanza non ha dato riscontro;
- che il ricorso avverso tale silenzio, qualificato come
silenzio-inadempimento, risulta nel caso concreto infondato.
In termini generali, è senz’altro vero che il proprietario
confinante ha un interesse qualificato a che il Comune
competente, titolare quindi di un correlato obbligo di
provvedere, si pronunci su una sua istanza volta a
verificare l’eventuale commissione di abusi edilizi da parte
di un vicino, così come stabilito, da ultimo, da C.d.S. sez.
IV 27.04.2012 n. 2468 e 17.10.2012 n. 5347.
E’ però altrettanto vero, condividendosi quanto dedotto sul
punto dalla difesa del Comune (memoria 4 gennaio 2013 p. 4
in fine), che tale interesse deve ritenersi sussistente solo
a fronte di istanze assistite da un minimo di specificità,
ovvero che indichino, almeno in modo sommario, in che
consisterebbe l’ipotizzato abuso. Diversamente infatti da
un lato si legittimerebbero condotte potenzialmente
anche emulative, dall’altro si rischierebbe uno
spreco di risorse dell’amministrazione, costretta ad
effettuare verifiche indiscriminate e complessive di una
qualsiasi pratica.
Non varrebbe poi obiettare che in tal modo si imporrebbe al
privato un onere eccessivo, perché per comune esperienza chi
ritiene di sollecitare a propria difesa un intervento
repressivo per definizione ritiene di aver patito una
illegittimità e la sa indicare, per lo meno in termini
atecnici.
Un tanto non si rinviene nell’istanza per cui è causa, in
cui la ricorrente si limita a premettere di avere impugnato
nella presente sede giurisdizionale in piano attuativo
relativo all’area, ma non spiega in qual modo, in dipendenza
da tale vicenda o per altra causa, le opere da essa
contestate risulterebbero illegittime
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 11.01.2013 n. 8 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La commissione non può integrare il bando di gara
mediante la previsione di criteri integrativi dello stesso,
ossia di criteri valutativi.
L'esclusione della facoltà, da parte della commissione, di
integrare il bando di gara mediante la previsione di criteri
integrativi dello stesso, ossia di criteri valutativi, è
avvalorata anche dalla giurisprudenza comunitaria che
statuisce la necessità che "...tutti gli elementi presi
in considerazione dall'autorità aggiudicatrice per
identificare l'offerta economicamente più vantaggiosa e la
loro importanza relativa siano noti ai potenziali offerenti
al momento in cui presentano le offerte ... infatti i
potenziali offerenti devono essere messi in condizione di
conoscere, al momento della presentazione delle loro
offerte, l'esistenza e la portata di tali elementi ...
pertanto un'amministrazione aggiudicatrice non può applicare
regole di ponderazione o sottocriteri per i criteri di
aggiudicazione che non abbia preventivamente portato a
conoscenza degli offerenti ... gli offerenti devono essere
posti su un piano di parità durante l'intera procedura, il
che comporta che i criteri e le condizioni che si applicano
a ciascuna gara debbano costituire oggetto di un'adeguata
pubblicità da parte delle amministrazioni aggiudicatrici"
(sentenza della Corte di Giustizia CE C-532/2006,
24.01.2008).
Pertanto, nel caso di specie, la commissione ha violato i
suddetti principi, nel prevedere nuovi criteri di
valutazione dell'offerta tecnica rispetto alla lex
specialis, per di più omettendo un adeguato discorso
giustificativo, che, anche per via schematica (griglie
motivazionali), consenta di ricollegare l'attribuzione del
punteggio alle "caratteristiche premianti" da essa
predefinite (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 10.01.2013 n. 97 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
L'inosservanza delle prescrizioni del bando sulle
modalità di presentazione delle offerte implica l'esclusione
quando vengano in rilievo prescrizioni rispondenti ad un
particolare interesse della p.a. appaltante o poste a
garanzia della par condicio.
In materia di appalti della pubblica amministrazione,
l'inosservanza delle prescrizioni del bando circa le
modalità di presentazione delle offerte può implicare
l'esclusione dalla gara (anche a prescindere dal fatto che
questa sia espressamente prevista in termini specifici dalla
lex specialis) quando vengano in rilievo prescrizioni
rispondenti ad un particolare interesse della pubblica
amministrazione appaltante, o poste a garanzia della par
condicio dei concorrenti.
Laddove invece, come nel caso di specie, non sia ravvisabile
la lesione di un interesse pubblico effettivo e rilevante,
va accordata preferenza al favor partecipationis, in
coerenza con l'interesse pubblico al più ampio confronto
concorrenziale (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 10.01.2013 n. 89 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
In assenza del
provvedimento di aggiudicazione, senza nemmeno conoscere il
contenuto dell’offerta economica presentata dalla
ricorrente, non è affatto invocabile l’orientamento
giurisprudenziale che ha affermato non essere ostativo al
risarcimento del danno in materia di procedure ad evidenza
pubblica l’intervento di un atto di revoca assunto in via di
autotutela ancorché quest’ultimo sia legittimo. Né per la
stessa ragione è utilmente applicabile l’indirizzo a mente
del quale non costituisce ostacolo al riconoscimento della
responsabilità patrimoniale dell'ente, la mancata
impugnazione del provvedimento di revoca.
--------------
In presenza d’atto d’autotutela, pienamente efficace perché
non impugnato, e senza che la ricorrente non sia stata
individuata come aggiudicataria, ma di cui non si conosca
(nemmeno) il contenuto dell’offerta presentata in gara,
difettano in fatto i presupposti per configurare la
responsabilità precontrattuale in capo alla stazione
appaltante: fra tutti l’effettiva sussistenza di posizione
giuridica qualificata della ricorrente quale (ancorché, allo
stato, potenziale) parte contraente.
In termini: l’indirizzo giurisprudenziale che ritiene
sussistere la responsabilità precontrattuale in capo alla
P.A. nel caso di annullamento d'ufficio degli atti di gara
pubblica di appalto per un vizio rilevato
dall'amministrazione solo successivamente all'aggiudicazione
definitiva, o che avrebbe potuto rilevare già all'inizio
della procedura.
La stazione appaltante dopo l’accertamento dell’illegittimità
dell’esclusione, ma prima di aprire le offerte economiche,
ha revocato gli atti della procedura di gara.
L’atto di revoca della procedura di gara non è stato
impugnato.
Sicché, in assenza del provvedimento di aggiudicazione,
senza nemmeno conoscere il contenuto dell’offerta economica
presentata dalla ricorrente, contrariamente a quanto essa
suppone, non è affatto invocabile l’orientamento
giurisprudenziale che ha affermato non essere ostativo al
risarcimento del danno in materia di procedure ad evidenza
pubblica l’intervento di un atto di revoca assunto in via di
autotutela ancorché quest’ultimo sia legittimo (Cons. Stato
Sez. IV, 07.02.2012, n. 662). Né per la stessa ragione è
utilmente applicabile l’indirizzo a mente del quale non
costituisce ostacolo al riconoscimento della responsabilità
patrimoniale dell'ente, la mancata impugnazione del
provvedimento di revoca (TAR Puglia Bari Sez. I,
19.10.011, n. 1552; Cons. Stato Sez. VI, 05.09.2011, n.
5002).
Del resto la c.d. perdita di chance su cui la ricorrente
fonda la domanda di risarcimento del danno presuppone
l’effettiva sussistenza d’aspettativa giuridica qualificata
alla conclusione del contratto d’appalto, che nel caso in
esame difetta in assoluto posto che la procedura s’è
arrestata senza che sia stata conosciuto il contenuto
dell’offerta economica.
In altri termini la chance non raggiunge la soglia del 50% di
probabilità di successo a cui fa riferimento la
giurisprudenza consolidata per ritenerla risarcibile.
Situazione di fatto ostativa al ristoro della perdita di
chance addebitabile allo stesso comportamento processuale
della ricorrente che a riguardo non ha assolto ad alcun onere
probatorio in ordine al nesso di causalità fra illegittimità
dell’esclusione dalla gara e danno ingiusto. In misura tale
da non consentire d’esperire il giudizio prognostico su base
oggettiva che fonda la chance risarcibile.
Aggiungasi che l’Amministrazione ha esercitato la potestà di
autotututela in fase ben anteriore all’individuazione della
parte contraente, sicché in difetto di gravame, la revoca
esplica i propri effetti senza che sia invocabile il regime
della responsabilità precontrattuale in ordine al
comportamento scorretto tenuto dall’amministrazione.
In presenza d’atto d’autotutela, pienamente efficace perché
non impugnato, e senza che la ricorrente (non sono) non sia
stata individuata come aggiudicataria, ma di cui non si
conosca (nemmeno) il contenuto dell’offerta presentata in
gara, difettano in fatto i presupposti per configurare la
responsabilità precontrattuale in capo alla stazione
appaltante: fra tutti l’ effettiva sussistenza di posizione
giuridica qualificata della ricorrente quale (ancorché, allo
stato, potenziale) parte contraente.
In termini: l’indirizzo giurisprudenziale che ritiene
sussistere la responsabilità precontrattuale in capo alla
P.A. nel caso di annullamento d'ufficio degli atti di gara
pubblica di appalto per un vizio rilevato
dall'amministrazione solo successivamente all'aggiudicazione
definitiva, o che avrebbe potuto rilevare già all'inizio
della procedura (Cons. Stato Sez. V, 16.03.2011, n. 1627)
(TAR Liguria, Sez. II,
sentenza 08.01.2013 n. 35 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In materia edilizia, la
differente qualificazione tra provvedimenti di rinnovo della
concessione edilizia e di proroga dei termini di ultimazione
dei lavori è riscontrabile nel senso che mentre il rinnovo
della concessione presuppone la sopravvenuta inefficacia
dell'originario titolo concessorio e costituisce, a tutti
gli effetti, una nuova concessione, la proroga è atto
sfornito di propria autonomia, che accede all'originaria
concessione ed opera semplicemente uno spostamento in avanti
del suo termine (iniziale o finale) di efficacia.
---------------
Sia l'apposizione dei termini di efficacia della concessione
edilizia che gli istituti della proroga (nei casi consentiti
dalla legge) e della decadenza di cui all’art. 15 D.P.R.
06.06.2001, n. 380 servono ad assicurare la certezza
temporale dell'attività di trasformazione edilizia ed
urbanistica del territorio, anche al fine di garantire un
efficiente controllo sulla conformità dell'intervento
edilizio a suo tempo autorizzato con il relativo titolo,
certezza che verrebbe frustrata se fosse consentito alla
parte di dissimulare una richiesta di proroga sotto il falso
nomen juris del “rinnovo”, con ciò potendo anche più volte
rinviare –a proprio piacimento e senza soggiacere alle
condizioni previste dalla legge– il termine di inizio e di
fine dei lavori.
-------------
E' illegittima la proroga del permesso di costruire ex art.
15 D.P.R. n. 380/2001 senza che ne sussistano i presupposti
e –in ogni caso– senza alcuna istruttoria o motivazione sul
punto, laddove il comune acriticamente ha aderito alla
qualificazione in termini di rinnovo proposta -pro domo sua-
dalla parte interessata, che non aveva ancora dato inizio ai
lavori nell’imminenza del termine di scadenza, oltretutto
già prorogato una prima volta.
Tanto più che, nella fattispecie, non sono sopravvenuti
fatti impeditivi estranei alla volontà del titolare del
permesso, e che non si tratta né di un’opera pubblica, né di
un’opera di grandi dimensioni o di particolari
caratteristiche tecnico-costruttive.
---------------
L'annullamento dell’originario permesso di costruire
sortisce l'effetto della caducazione della successiva
variante in corso d’opera, secondo il meccanismo della così
detta “invalidità derivata ad effetto caducante”, poiché
priva di una propria autonomia dispositiva.
E’ noto che, in materia edilizia, la differente
qualificazione tra provvedimenti di rinnovo della
concessione edilizia e di proroga dei termini di ultimazione
dei lavori è riscontrabile nel senso che mentre il rinnovo
della concessione presuppone la sopravvenuta inefficacia
dell'originario titolo concessorio e costituisce, a tutti
gli effetti, una nuova concessione, la proroga è atto
sfornito di propria autonomia, che accede all'originaria
concessione ed opera semplicemente uno spostamento in avanti
del suo termine (iniziale o finale) di efficacia.
Ciò posto, dirimente ai fini della corretta qualificazione
del titolo edilizio impugnato appare –a parere del collegio– la circostanza che entrambe le istanze di rinnovo
dell’originario permesso di costruire 31.08.2006 (depositate
–rispettivamente- in data 25.08.2007 e 29.08.2008, docc. 3 e
4 delle produzioni 15.10.2011 di parte controinteressata)
siano state presentate allorché il titolo da rinnovare era
ancora efficace (essendo stato rilasciato il primo permesso
in data 31.08.2006 ed il primo rinnovo in data 06.09.2007), in
prossimità della scadenza del termine di inizio dei lavori
ed in mancanza dell’avvio degli stessi (iniziati soltanto in
data 16.10.2009, doc. 1 delle produzioni 08.11.2012 di parte
comunale).
Se a ciò si aggiunge che esse riguardavano il medesimo
intervento edilizio, risulta evidente come le istanze stesse
mirassero in realtà a scongiurare la decadenza del titolo
per mancato inizio dei lavori nel termine annuale, cioè a
conseguire –propriamente– una proroga dello stesso ex art.
15, comma 2, D.P.R. n. 380/2001.
Né vale eccepire che nulla impedisce a chi abbia un titolo
edilizio di chiederne un altro, sostitutivo del primo, pur
in costanza di efficacia dello stesso.
Al contrario, infatti, la volontà dell’interessato trova un
limite invalicabile nel principio di tipicità e di legalità
dei poteri amministrativi, nonché nelle norme regolatrici
dell'azione amministrativa.
Orbene, sia l'apposizione dei termini di efficacia della
concessione edilizia che gli istituti della proroga (nei
casi consentiti dalla legge) e della decadenza di cui
all’art. 15 D.P.R. 06.06.2001, n. 380 servono ad assicurare la
certezza temporale dell'attività di trasformazione edilizia
ed urbanistica del territorio, anche al fine di garantire un
efficiente controllo sulla conformità dell'intervento
edilizio a suo tempo autorizzato con il relativo titolo
(così Cons. di St., V, 23.11.1996, n. 1414), certezza che
verrebbe frustrata se fosse consentito alla parte di
dissimulare una richiesta di proroga sotto il falso nomen
juris del “rinnovo”, con ciò potendo anche più volte
rinviare –a proprio piacimento e senza soggiacere alle
condizioni previste dalla legge– il termine di inizio e di
fine dei lavori.
Dunque, il permesso di costruire impugnato (17.10.2008, prot.
19551/08) integra -propriamente- una proroga ex art. 15,
comma 2, D.P.R. n. 380/2001 del termine di inizio dei lavori.
Sennonché, come correttamente eccepito dalle ricorrenti con
il secondo motivo di ricorso, tale proroga è stata
rilasciata in violazione dell’art. 15 D.P.R. n. 380/2001,
senza che ne sussistessero i presupposti e –in ogni caso–
senza alcuna istruttoria o motivazione sul punto, avendo il
comune acriticamente aderito alla qualificazione in termini
di rinnovo proposta -pro domo sua- dalla parte
interessata, che non aveva ancora dato inizio ai lavori
nell’imminenza del termine di scadenza, oltretutto già
prorogato una prima volta.
E’ infatti pacifico che non siano sopravvenuti fatti
impeditivi estranei alla volontà del titolare del permesso,
e che non si tratti né di un’opera pubblica, né di un’opera
di grandi dimensioni o di particolari caratteristiche
tecnico-costruttive (circostanze, del resto, neppure
dedotte).
Donde la fondatezza della domanda impugnatoria, con
assorbimento degli altri motivi di gravame.
L’annullamento del titolo edilizio principale determina
l’accoglimento dei motivi aggiunti, nella parte relativa
all’impugnazione del silenzio (avente valore di
provvedimento implicito di diniego dell’adozione del
provvedimento inibitorio, cfr. Cons. di St., Ad. Plen.,
29.07.2011, n. 15; Cons. di St., IV, 26.07.2012, n. 4255)
serbato dal comune sulla dichiarazione di inizio di attività
presentata in data 02.11.2010 dalla controinteressata Lenzi
Gabriella Maria (doc. 8 delle produzioni 15.10.2011 di parte
controinteressata), in variante al permesso di costruire
17.10.2008.
Difatti, l'annullamento dell’originario permesso di
costruire sortisce l'effetto della caducazione della
successiva variante in corso d’opera, secondo il meccanismo
della così detta “invalidità derivata ad effetto caducante”,
poiché priva di una propria autonomia dispositiva (TAR
Lombardia, II, 02.09.2011, n. 2149)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 08.01.2013 n. 34 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'onere di motivazione
non sussiste solo in caso di diniego del titolo, non essendo
dubbia la sua doverosità per l'assenso, dovendosi dar conto,
in quest'ultimo caso, dell'iter logico seguito per
verificare e riconoscere la compatibilità effettiva degli
interventi edificatori in riferimento agli specifici vincoli
paesaggistici dei luoghi.
Fondati sono anche i motivi di doglianza dedotti con il
ricorso introduttivo avverso l’autorizzazione paesaggistica
31.08.2006 e con l’atto per motivi aggiunti avverso
l’autorizzazione paesaggistica 21.07.2011, con i quali è
denunciato difetto di motivazione (motivo 7 del ricorso
introduttivo e 4 del ricorso per motivi aggiunti).
Occorre premettere che, per costante giurisprudenza, l'onere
di motivazione non sussiste solo in caso di diniego del
titolo, non essendo dubbia la sua doverosità per l'assenso,
dovendosi dar conto, in quest'ultimo caso, dell'iter logico
seguito per verificare e riconoscere la compatibilità
effettiva degli interventi edificatori in riferimento agli
specifici vincoli paesaggistici dei luoghi (TAR Campania-Napoli, VI,
05.04.2012, n. 1640).
Nel caso di specie, né l’autorizzazione paesaggistica
31.08.2006, né quella rilasciata in data 21.07.2011 recano
l’indicazione dello specifico vincolo gravante sull’area di
intervento, sicché risulta impossibile ricostruire l'iter
logico seguito per verificare e riconoscere in concreto la
compatibilità effettiva del progetto con i valori tutelati
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 08.01.2013 n. 34 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’indicazione dell'area
di sedime da acquisire nell'ipotesi di inottemperanza
all'ordine di demolizione non costituisce elemento
essenziale dell’ordine di demolizione, né la sua mancanza
causa di illegittimità dello stesso, in quanto tali
indicazioni appartengono propriamente al successivo atto di
accertamento dell'inottemperanza e di acquisizione gratuita
al patrimonio comunale.
---------------
La comunicazione dell’avvio del procedimento repressivo
all’amministrazione regionale ex art. 4, comma 3, L. n.
47/1985 è finalizzata unicamente all’intervento in via
sostitutiva “ai fini della demolizione”, sicché la sua
omissione concreta –al più– una mera irregolarità, che il
ricorrente non ha neppure interesse a dedurre.
Il secondo motivo è invece infondato.
Da un lato, infatti, l’indicazione dell'area di sedime da
acquisire nell'ipotesi di inottemperanza all'ordine di
demolizione non costituisce elemento essenziale dell’ordine
di demolizione, né la sua mancanza causa di illegittimità
dello stesso, in quanto tali indicazioni appartengono
propriamente al successivo atto di accertamento
dell'inottemperanza e di acquisizione gratuita al patrimonio
comunale (Cons. di St., IV, 26.09.2008, n. 4659; TAR
Liguria, I, 26.11.2012, n. 1503; TAR Piemonte, I,
24.03.2010, n. 1577).
Dall’altro, la comunicazione dell’avvio del procedimento
repressivo all’amministrazione regionale ex art. 4, comma 3,
L. n. 47/1985 è finalizzata unicamente all’intervento in via
sostitutiva “ai fini della demolizione”, sicché la
sua omissione concreta –al più– una mera irregolarità, che
il ricorrente non ha neppure interesse a dedurre
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 08.01.2013 n. 30 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Art. 1, c. 3 d.P.R. n. 380/2001 – Esonero dal
contributo di costruzione – Immobile destinato ad attività
produttiva – Applicabilità – Esclusione.
L’art. 17 d.P.R. 380/2001 prescrive, al comma 3, che “il
contributo di costruzione non è dovuto: (…) b) per gli
interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura
non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”:
nell’ipotesi di immobile destinato allo svolgimento di
attività produttive, non ricorre tuttavia la ratio
per l'esonero dal relativo pagamento (cfr. TAR Marche, Sez.
I, 10.05.2012, n. 310); tale beneficio è rivolto infatti
solo a quelle situazioni in cui l'intervento edilizio non è
destinato a fini di lucro, ma esclusivamente a migliorare la
funzionalità e l'usabilità dell'immobile ad esclusivo
vantaggio della famiglia che ci vive e delle relative
esigenze abitative.
Contributo di costruzione – Doverosità
in astratto – Amministrazione – Obbligo di verificare, in
concreto, la sussistenza dei presupposti per l'esigibilità –
Interventi di ristrutturazione senza incrementi di volumi e
superfici e senza cambiamenti della originaria destinazione
d'uso – Verifica dell'incidenza incrementativa sul carico
urbanistico.
La doverosità in astratto del contributo di costruzione non
vale ad esimere l'Amministrazione dall'obbligo di
verificare, nel caso concreto, la sussistenza dei
presupposti per poter esigere il contributo di costruzione,
avuto riguardo alla natura e alla funzione tipica assolta da
ciascuna delle sue due componenti.
Per quanto concerne in particolare gli oneri di
urbanizzazione, la relativa quota costituisce un
corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria,
posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione in proporzione ai
benefici che la nuova costruzione ne ritrae, sicché, il
fatto da cui in concreto nasce l'obbligo di corrispondere
gli "oneri" anzidetti è l'aumento del carico
urbanistico.
Tale incremento può conseguire anche ad interventi di
ristrutturazione senza incrementi di volumi e di superficie
e senza cambiamenti della originaria destinazione d’uso; è
compito dell’Amministrazione tuttavia, quale presupposto per
l’esigibilità del contributo, verificare attentamente
l’incidenza incrementativa delle suddette opere sul carico
urbanistico preesistente e dare congrua giustificazione
delle conclusioni raggiunte (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 08.01.2013 n. 25 - link a
www.ambientediritto.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA
PRIVATA:
Per riconoscere la legittimazione all’impugnativa
di un provvedimento concernente opere edilizie da parte dei
proprietari vicini, la giurisprudenza richiede, in generale,
che questi ultimi dimostrino anche la sussistenza di un
pregiudizio concreto per le loro facoltà dominicali.
Nel caso di specie –che non riguarda la materia edilizia, ma
deve ritenersi analogo trattandosi di autorizzazione allo
svolgimento di attività arrecante disturbo, in area contigua
all’edificio dove sono ubicati gli appartamenti dei
ricorrenti– la vicinitas non è in contestazione, mentre il
pregiudizio concreto per le facoltà dominicali dei
ricorrenti consiste nell’immissione di rumori molesti, che
essi hanno comunque interesse a contenere nei limiti
prescritti dalla legge, con conseguente possibilità di
contestare innanzi al giudice amministrativo i relativi
provvedimenti autorizzativi dell’attività medesima.
---------------
Nel controllo sull'esercizio della discrezionalità tecnica,
al giudice amministrativo è sicuramente consentito di
censurare le valutazioni che si pongono al di fuori
dell'ambito di opinabilità, con connessa possibilità di
sindacare con pienezza di cognizione i fatti oggetto
dell'indagine e il processo valutativo mediante il quale
l'autorità applica al caso concreto la regola individuata.
Per riconoscere la legittimazione
all’impugnativa di un provvedimento concernente opere
edilizie da parte dei proprietari vicini, la giurisprudenza
richiede, in generale, che questi ultimi dimostrino anche la
sussistenza di un pregiudizio concreto per le loro facoltà
dominicali (v., ad esempio, C.S., IV, 24.01.2011, n.
485).
Nel caso di specie –che non riguarda la materia edilizia,
ma deve ritenersi analogo trattandosi di autorizzazione allo
svolgimento di attività arrecante disturbo, in area contigua
all’edificio dove sono ubicati gli appartamenti dei
ricorrenti– la vicinitas non è in contestazione, mentre il
pregiudizio concreto per le facoltà dominicali dei
ricorrenti consiste nell’immissione di rumori molesti, che
essi hanno comunque interesse a contenere nei limiti
prescritti dalla legge, con conseguente possibilità di
contestare innanzi al giudice amministrativo i relativi
provvedimenti autorizzativi dell’attività medesima (cfr.
TAR Liguria, I, 09.12.2009, n. 3559).
---------------
Infatti, secondo la
giurisprudenza, nel controllo sull'esercizio della
discrezionalità tecnica, al giudice amministrativo è
sicuramente consentito di censurare le valutazioni che si
pongono al di fuori dell'ambito di opinabilità, con connessa
possibilità di sindacare con pienezza di cognizione i fatti
oggetto dell'indagine e il processo valutativo mediante il
quale l'autorità applica al caso concreto la regola
individuata (C.S., VI, 13.09.2012, n. 4873)
(TAR Liguria, Sez. II,
sentenza 08.01.2013 n. 15 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
termine decadenziale per l'impugnazione di un permesso di
costruire decorre dalla piena conoscenza dell'esistenza e
dell'entità delle violazioni urbanistiche o del contenuto
specifico del progetto edilizio in modo che si renda palese
ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della
vita protetto.
Nel giudizio amministrativo la prova della piena conoscenza
deve essere offerta in modo rigoroso, non essendo adeguati a
tal fine la mera verosimiglianza dell'avvenuta conoscenza
stessa o presunzioni semplici di alcun genere.
Costituisce principio giurisprudenziale
consolidato, dal quale questo Collegio non ravvisa ragione
per discostarsi, che il termine decadenziale per
l'impugnazione di un permesso di costruire decorre dalla
piena conoscenza dell'esistenza e dell'entità delle
violazioni urbanistiche o del contenuto specifico del
progetto edilizio in modo che si renda palese ed
oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita
protetto (così, da ult., Cons. St., IV, 17.09.2012,
n. 4923; Tar Campania, Salerno, II, 17.10.2012 n. 1868)
Le parti resistenti, cui spetta fornire la prova della piena
conoscenza, non hanno dimostrato che essa sia avvenuta
antecedentemente ai sessanta giorni (cui occorre aggiungere
il periodo di sospensione feriale) dalla notifica del
ricorso, non essendo sufficiente a tal fine né il
riferimento alla data di adozione dell’atto né il generico
rilievo che l’iter di rilascio del titolo ha registrato il
costante interessamento e la continua presenza di parte
ricorrente. Nel giudizio amministrativo, infatti, la prova
della piena conoscenza deve essere offerta in modo rigoroso,
non essendo adeguati a tal fine la mera verosimiglianza
dell'avvenuta conoscenza stessa o presunzioni semplici di
alcun genere (in termini Cons. St., IV, 07.11.2012 n. 5657)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 08.01.2013 n. 9 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’avvenuta
presentazione di una domanda di accertamento di conformità
determina la perdita di efficacia del precedente ordine di
demolizione inerente il medesimo bene, dal momento che, in
caso di rigetto dell’istanza, il Comune è comunque tenuto a
provvedere nuovamente sull’abuso, non già per difformità o
assenza del titolo, ma in ragione della sostanziale
illegittimità urbanistica del manufatto.
Tale orientamento trova recenti conferme, essendo stato
ribadito che la presentazione di domande di condono rende
improcedibili i giudizi relativi a pregressi provvedimenti
sanzionatori di opere ritenute abusive da parte
dell'Amministrazione comunale, atteso che la presentazione
della detta istanza impone al Comune la sua disamina e
l'adozione dei provvedimenti conseguenti, sicché gli atti
repressivi dell'abuso adottati in precedenza perdono
efficacia.
Più in particolare, si è anche ritenuto che “la
presentazione di una domanda di sanatoria determina per
l'Amministrazione l'onere di un provvedimento di reiezione
(o di accoglimento) dell'istanza stessa cui deve far seguito
l'eventuale adozione di ulteriori provvedimenti sanzionatori
che il Comune è tenuto ad emanare con atti a contenuto
vincolato, una volta che si sia verificato che non
sussistono le condizioni per la sanatoria delle opere
abusive”.
Ciò consente al Collegio di disattendere il pur sussistente
diverso orientamento secondo cui, essendo la domanda ex art.
36 DPR 380/2001 soggetta ad un regime di silenzio-rigetto,
la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità
determinerebbe non già l’improcedibilità del gravame, ma
solamente l’effetto di una temporanea sospensione
dell’efficacia dell’ordinanza di demolizione impugnata.
Va infatti meglio chiarito che “la mancata impugnazione nei
termini del silenzio rigetto, formatosi sull'istanza di
accertamento di conformità ex art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n.
380, non dispiega un'efficacia preclusiva nei confronti
dell'impugnazione del sopravvenuto diniego espresso, che sia
fondato su una motivazione espressa, basata sui risultati
dell'istruttoria compiuta e della valutazione effettuata; in
tal caso, infatti, non si è in presenza di un atto meramente
confermativo di un precedente silenzio con valore legalmente
tipico di diniego, bensì di un atto di conferma in senso
proprio a carattere rinnovativo, che modifica la realtà
giuridica e, perciò, riapre i termini per la proposizione
del ricorso giurisdizionale”.
Ne deriva che, in presenza di una istanza ex art. 36 del DPR
380/2001, sussiste l’obbligo del Comune di condurre tale
accertamento anche laddove, decorsi i termini di legge, si
sia formato un provvedimento di diniego tacito sull’istanza,
poiché dovendo ad esso seguire il rinnovo dell’esercizio dei
poteri repressivi e sanzionatori, la compatibilità o meno
del manufatto con le previsioni dello strumento urbanistico
si riproporrà al momento dell’emanazione del nuovo ordine di
demolizione.
Per giurisprudenza costante, l’avvenuta
presentazione di una domanda di accertamento di conformità
determina la perdita di efficacia del precedente ordine di
demolizione inerente il medesimo bene, dal momento che, in
caso di rigetto dell’istanza, il Comune è comunque tenuto a
provvedere nuovamente sull’abuso, non già per difformità o
assenza del titolo, ma in ragione della sostanziale
illegittimità urbanistica del manufatto (cfr. TAR Reggio
Calabria 17.06.2009, nr. 420 e giurisprudenza ivi
richiamata).
Tale orientamento trova recenti conferme, essendo stato
ribadito che la presentazione di domande di condono rende
improcedibili i giudizi relativi a pregressi provvedimenti
sanzionatori di opere ritenute abusive da parte
dell'Amministrazione comunale, atteso che la presentazione
della detta istanza impone al Comune la sua disamina e
l'adozione dei provvedimenti conseguenti, sicché gli atti
repressivi dell'abuso adottati in precedenza perdono
efficacia (Cfr. Cons. Stato. V, 08.06.2011 n. 3460).
Più in particolare, si è anche ritenuto che “la
presentazione di una domanda di sanatoria determina per
l'Amministrazione l'onere di un provvedimento di reiezione
(o di accoglimento) dell'istanza stessa cui deve far seguito
l'eventuale adozione di ulteriori provvedimenti sanzionatori
che il Comune è tenuto ad emanare con atti a contenuto
vincolato, una volta che si sia verificato che non
sussistono le condizioni per la sanatoria delle opere
abusive (Cons. Stato, Sez. IV, 12.05.2010 n. 2244; idem,
12.11.2008 n. 5646)” (cfr. Consiglio di Stato sez. IV,
15.06.2012, n. 3534; v. anche TAR Lecce Puglia sez. III, 01.08.2012, n. 1447, secondo cui “l'interesse del
responsabile dell'abuso, per conseguenza, si concentra in
queste ipotesi sugli eventuali provvedimenti di rigetto
della domanda di sanatoria prima e di demolizione poi”).
Ciò consente al Collegio di disattendere il pur sussistente
diverso orientamento secondo cui, essendo la domanda ex art.
36 DPR 380/2001 soggetta ad un regime di silenzio-rigetto, la
presentazione di un’istanza di accertamento di conformità
determinerebbe non già l’improcedibilità del gravame, ma
solamente l’effetto di una temporanea sospensione
dell’efficacia dell’ordinanza di demolizione impugnata (cfr.
da ultimo, TAR Catanzaro Calabria sez. I, 05.07.2012,
n. 701).
Va infatti meglio chiarito che “la mancata impugnazione nei
termini del silenzio rigetto, formatosi sull'istanza di
accertamento di conformità ex art. 36, d.P.R. 06.06.2001
n. 380, non dispiega un'efficacia preclusiva nei confronti
dell'impugnazione del sopravvenuto diniego espresso, che sia
fondato su una motivazione espressa, basata sui risultati
dell'istruttoria compiuta e della valutazione effettuata; in
tal caso, infatti, non si è in presenza di un atto meramente
confermativo di un precedente silenzio con valore legalmente
tipico di diniego, bensì di un atto di conferma in senso
proprio a carattere rinnovativo, che modifica la realtà
giuridica e, perciò, riapre i termini per la proposizione
del ricorso giurisdizionale” (TAR Latina Lazio sez. I, 02.07.2012, n. 528 alle cui articolate ed approfondite
motivazioni in diritto si rinvia).
Ne deriva che, in presenza di una istanza ex art. 36 del DPR
380/2001, sussiste l’obbligo del Comune di condurre tale
accertamento anche laddove, decorsi i termini di legge, si
sia formato un provvedimento di diniego tacito sull’istanza,
poiché dovendo ad esso seguire il rinnovo dell’esercizio dei
poteri repressivi e sanzionatori, la compatibilità o meno
del manufatto con le previsioni dello strumento urbanistico
si riproporrà al momento dell’emanazione del nuovo ordine di
demolizione
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 08.01.2013 n. 2 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI: Le partecipate non falliscono.
Sono al servizio del comune. Che risponde dei debiti.
Per il tribunale di Palermo le società
strumentali non hanno natura imprenditoriale.
Le società partecipate strumentali degli enti pubblici non
possono fallire perché mancanti del presupposto soggettivo
previsto dall'art. 1 della legge fallimentare. Non è
qualificabile quale imprenditore commerciale (o
industriale), infatti, la società istituita sotto forma di
impresa di diritto privatistico che tuttavia è unicamente
destinata al servizio dell'interesse pubblico dell'ente
locale che l'ha finanziata in via esclusiva o prevalente.
Lo ha stabilito il Tribunale di Palermo con il
decreto
08.01.2013.
Il tribunale siciliano ha infatti
stabilito che «la mancanza della natura di imprenditore
commerciale esclude che» la società partecipata in via
esclusiva dal comune di Palermo «possa rientrare tra i
soggetti fallibili ai sensi dell'art. 1, comma 1, l.f. e,
dunque, anche tra i soggetti sottoponibili ad
amministrazione straordinaria ai sensi dell'art. 2 dlgs
270/1999», ovvero all'amministrazione straordinaria delle
grandi imprese in crisi.
Il decreto, infatti, specifica che qualora un ente locale
costituisca una società per azioni non è di per se
sufficiente a escludere la natura di istituzione pubblica,
dovendo procedersi a una valutazione in concreto, caso per
caso, sicché la natura d'istituzione pubblica è
configurabile allorché la detta società le cui azioni siano
possedute prevalentemente, se non esclusivamente, da un ente
pubblico, costituisca lo strumento per la gestione di
servizio pubblico e, quindi faccia parte di una nozione
allargata di pubblica amministrazione (così anche Cass. S.u.
n. 90096/2005).
Al fine di escludere o ritenere fallibile un ente costituito
sotto la veste di società di diritto privatistico, potendo
il problema essere affrontato sotto il profilo della
qualificazione o meno della stessa quale imprenditore
commerciale, occorre essenzialmente identificare se esistono
le condizioni necessarie per ritenere che la società in mano
pubblica svolga un'attività commerciale, rilevando a questo
fine l'oggetto e la modalità con cui la stessa è espletata.
Il caso sottoposto al tribunale di Palermo riguarda la Gesip
Palermo spa, in liquidazione da oltre tre anni, alla quale
erano stati delegati i servizi di pulizia e manutenzione
delle aree verdi del comune di Palermo e di altri servizi
pubblici. La società che con il tempo aveva assunto oltre
1.800 dipendenti, in evidente stato di crisi e ora di
insolvenza, si era determinata, anche in relazione ad una
delibera assunta dal socio unico, a presentare istanza di
auto fallimento alla fine di dicembre 2012.
Il tribunale di Palermo, con una provvedimento di
approfondimento dell'istruttoria pre-fallimentare, ha
dapprima convocato anche il ministero dello sviluppo
economico per l'eventuale avvio della procedura di
amministrazione straordinaria ex dlgs 270/1999 e infine ha
escluso la fallibilità della società per azioni, in quanto
società affidataria di servizi pubblici in house.
Il rigetto dell'istanza rende ora chiara la situazione di
responsabilità dell'ente locale socio unico della società
per azioni, la quale è stata sottoposta anche alla direzione
e coordinamento ai sensi dell'art. 2497 c.c. Ancorché non
sussistano i presupposti per il consolidamento del bilancio
della società partecipata nel bilancio dell'ente locale, i
debiti della società insolvente dovranno essere soddisfatti
dall'ente pubblico locale, che dovrà valutare come
deliberare la copertura dei debiti della società in house,
con il rischio di ulteriormente aggravare il già precario
bilancio del comune di Palermo, che ora rischia seriamente
il default
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI:
L'esame delle offerte economiche prima di quelle
tecniche costituisce una palese violazione dei principi
inderogabili di trasparenza e di imparzialità che devono
presiedere alle gare pubbliche.
---------------
Costituisce violazione degli essenziali principi della par
condicio tra i concorrenti e di segretezza delle offerte
l'inserimento, da parte dell'impresa concorrente, di
elementi concernenti l'offerta economica all'interno della
busta contenente l'offerta tecnica.
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, nelle
procedure indette per l'aggiudicazione di appalti pubblici
sulla base del criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, la commissione di gara è tenuta a valutare
prima i profili tecnici delle offerte, e solo
successivamente le offerte economiche.
E' irrilevante che il bando non detti una specifica
disposizione per stabilire quale delle due offerte debba
essere esaminata con priorità sull'altra, atteso che l'esame
delle offerte economiche prima di quelle tecniche
costituisce una palese violazione dei principi inderogabili
di trasparenza e di imparzialità che devono presiedere alle
gare pubbliche, in quanto la conoscenza preventiva
dell'offerta economica consentirebbe di modulare il giudizio
sull'offerta tecnica in modo non conforme alla parità di
trattamento dei concorrenti, e tale possibilità, ancorché
remota ed eventuale, per il solo fatto di esistere inficia
la regolarità della procedura.
Da tale principio deriva il lineare corollario per cui le
offerte economiche, sempre nel caso di gara secondo il
criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, devono
restare segrete per tutto il tempo occorrente ad evitare che
una eventuale conoscenza degli elementi di valutazione di
carattere automatico (quale appunto il prezzo) possa
influenzare la valutazione degli elementi.
---------------
Costituisce violazione degli essenziali principi della par
condicio tra i concorrenti e di segretezza delle offerte
-principi, questi, di matrice comunitaria che si applicano
anche a materie diverse dagli appalti, essendo sufficiente
che si tratti di attività suscettibile di apprezzamento in
termini economici e che, quindi, valgono anche per le
concessioni di beni pubblici- l'inserimento, da parte
dell'impresa concorrente, di elementi concernenti l'offerta
economica all'interno della busta contenente l'offerta
tecnica, e ciò senza necessità di espressa menzione da parte
della lex specialis di gara (Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 07.01.2013 n. 10 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Rappresenta un principio inderogabile in ogni
tipo di gara, ivi comprese anche le procedure negoziate,
quello della pubblicità delle sedute nelle quali si proceda
alla verifica dell'integrità dei plichi e alla disamina del
loro contenuto.
Un consolidato insegnamento giurisprudenziale riconosce
quale principio inderogabile in ogni tipo di gara, ivi
comprese anche le procedure negoziate, quello della
pubblicità delle sedute nelle quali si proceda alla verifica
dell'integrità dei plichi e alla disamina del loro contenuto
(documentazione amministrativa, offerta tecnica ed
economica).
E va rimarcato che lo stesso principio è stato
inequivocabilmente esteso dalla più recente giurisprudenza
anche alle procedure negoziate senza previo bando, ed ha
trovato, da ultimo, il definitivo suggello dell'Adunanza
Plenaria di questo Consiglio n. 31 del 31.07.2012 proprio
nel segno, appunto, della massima latitudine applicativa del
canone di pubblicità delle operazioni di gara, quale
corollario del più generale principio di trasparenza.
Quest'ultima pronuncia, invero, con grande nettezza ha
affermato che le esigenze di informazione dei partecipanti
alla gara a tutela dei principi di trasparenza e par
condicio, richiamate nella decisione n. 13/2011 della stessa
Adunanza a sostegno della necessità che l'apertura delle
buste contenenti le offerte tecniche avvenga in seduta
pubblica, si pongono in termini sostanzialmente identici
anche in relazione alle procedure negoziate, ed ha concluso,
pertanto, che anche laddove si tratti di procedure
negoziate, con o senza previo bando, l'apertura delle buste
contenenti le offerte e la verifica dei documenti in esse
contenuti (verifica preliminare alle successive valutazioni
tecniche ed economiche delle medesime offerte) vadano
effettuate in seduta pubblica (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.01.2013 n. 8 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
E' illegittima
l’ingiunzione adottata dal dirigente
dello Sportello unico delle attività produttive avente ad
oggetto l’ordine di messa in atto di opere finalizzate alla
cessazione della propagazione di fumo proveniente da canna
fumaria dell'attività di pizzeria condotta dalla ricorrente.
Invero, l’ingiunzione non trova riscontro in alcuna
specifica norma di legge che, in relazione alla situazione
di fatto assunta a giustificazione della sua adozione,
attribuisca all’amministrazione comunale la potestà
esercitata in materia.
È impugnata l’ingiunzione
adottata dal dirigente dello Sportello unico delle attività
produttive di Genova del 05.03.2009 avente ad oggetto
l’ordine di messa in atto di opere finalizzate alla
cessazione della propagazione di fumo proveniente da canna
fumaria dell'attività di pizzeria condotta dalla ricorrente.
Il motivo principale da cui muove il gravame è che
l’ingiunzione non troverebbe riscontro in alcuna specifica
norma di legge che, in relazione alla situazione di fatto
assunta a giustificazione della sua adozione, attribuisca
l’amministrazione comunale la potestà esercitata in materia.
La censura è fondata.
L’obbligo di fare avente ad oggetto l’esecuzione di opere
finalizzate a contenere la propagazione di fumi, oltre ad
essere genericamente imposto, non ha fonte di legge.
Non soddisfa affatto i principi di legalità sostanziale e
nominatività che presidiano e, ad un tempo, circoscrivono,
ai sensi dell’art. 23 cost., l’adozione da parte
dell’autorità amministrativa di prescrizioni di fare
incidenti sui cittadini o sugli operatori economici.
Detti principi, analiticamente declinati, rispettivamente,
esigono: per un verso, che la fonte normativa non solo
preveda genericamente la potestà in capo all’amministrazione
ma che, in senso sostanziale, ne disciplini contenuto,
oggetto ed efficacia prescrittiva; per l’altro, che risulti
esattamente individuata la norma che tale potestà
espressamente riconosca all’autorità procedente.
Nel caso in esame nessuna delle due.
Non ricorre nella situazione posta a base dell’ingiunzione
alcuna situazione di pericolo per la salute pubblica di cui
all’art. 217 r.d. n. 1265/1934, enfaticamente richiamato
nell’atto impugnato.
I fumi molesti, a cui fa riferimento la stessa ingiunzione
nella parte dispositiva, non sono infatti realisticamente
annoverabili fra le esalazioni pericolose per la salute
pubblica.
Non è altresì utilmente invocabile l’art. 36 del Regolamento
per l’igiene del suolo e dell’abitato del comune di Genova
che, in disparte la natura di atto normativo secondario, non
ascrivibile a fonte di legge idonea ad soddisfare la
relativa riserva prevista all’art. 23 cost., disciplina
propriamente l’installazione di canne fumarie.
Per quella per cui è causa, e dalla quale provengono i fumi
–va sottolineato– la ricorrente ha ottenuto a suo tempo,
ossia a fare data dal 2003, la prescritta autorizzazione.
Inoltre nel necessario riscontro dei requisiti di
tempestività e continuità dell’azione amministrativa che
caratterizza ab imis lo scrutinio di legittimità dei
provvedimenti atti a fronteggiare supposte situazioni di
pericolo per la salute pubblica, non va passato sotto
silenzio che la nota dell’ASL n. 3, avente riguardo alle
opere necessarie ad evitare la propagazione dal camino della
pizzeria di fumi pericolosi, risale al 07.06.2007: vale a
dire a ben due anni prima l’adozione dell’atto impugnato.
In definitiva, a tacer d’altro, si è assunta a fondamento di
fatto dell’ingiunzione una situazione contingente maturata
(non solo in un momento, bensì addirittura) in epoca
anteriore a quella specificamente considerata nell’otto
impugnato.
Del resto, conclusivamente, è significativo che gli abitanti
del condominio che lamentano i fumi molesti, invocando la
disciplina delle immissioni di cui all’art. 844 c. c., hanno
promosso la causa civile innanzi al Tribunale di Genova,
definita con sentenza di reiezione n. 2748/2012.
A testimonianza che, allo stato ed in difetto di
sopravvenute situazioni o emergenze debitamente accertate,
la controversia sui fumi provenienti dalla pizzeria della
ricorrente è questione che riguarda esclusivamente i privati
(TAR Liguria, Sez. II,
sentenza 04.01.2013 n. 1 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La sola pubblicazione del bando di gara sul sito
internet della stazione appaltante è sufficiente a garantire
la pubblicità di un appalto di servizi rientrante nella
categ. dell'all. IIB della dir. 2004/18 di importo superiore
alla soglia comunitaria
--------------
Il gestore uscente di un servizio che intenda partecipare
alle successive gare indette dalla stessa amministrazione è
tenuto ad una maggiore diligenza in sede di gara.
La Commissione Europea nella comunicazione interpretativa
2006/C-179/02, (la quale, pur non rivestendo alcun valore
normativo, costituisce pur sempre una guida per
l'interprete) sintetizzando i principi affermati nel corso
degli anni dalla Corte di Giustizia in materia di appalti
c.d. esclusi, ha chiarito che …Spetta alle amministrazioni
aggiudicatrici scegliere il mezzo più adeguato a garantire
la pubblicità dei loro appalti. La loro scelta deve essere
guidata da una valutazione dell'importanza dell'appalto per
il mercato interno, tenuto conto in particolare del suo
oggetto, del suo importo nonché delle pratiche abituali nel
settore interessato.
Quanto più interessante è l'appalto per i potenziali
offerenti di altri Stati membri, tanto maggiore deve essere
la copertura. In particolare, un'adeguata trasparenza per
gli appalti di servizi di cui all'all. II B della dir.
2004/18/CE e all'all. XVII B della dir. 2004/17/CE il cui
importo superi le soglie di applicazione di tali direttive
implica di solito la pubblicazione in un mezzo di
comunicazione largamente diffuso. Quali forme di pubblicità
adeguate e frequentemente utilizzate, è opportuno citare: -
Internet. L'ampia disponibilità e la facilità di
utilizzazione di Internet rendono gli avvisi pubblicitari di
appalti pubblicati sui siti molto più accessibili, in
particolare per le imprese di altri Stati membri e le PMI
interessate ad appalti di importo limitato. Internet offre
un'ampia gamma di possibilità per la pubblicità degli
appalti pubblici.
Pertanto, nel caso di specie, anche in presenza di un
appalto ascrivibile ad una delle categorie menzionate
dall'all. IIB di importo superiore alla soglia comunitaria
la pubblicità del bando sul solo sito internet della
stazione appaltante è misura adeguata allo scopo, l'operato
dell'amministrazione va esente da qualsiasi rilievo in punto
di legittimità e ciò anche in ragione del chiaro disposto
dell'art. 20 del Codice dei contratti pubblici (nella
specie, peraltro, il bando è stato pubblicato anche sul sito
dell'A.V.C.P., a riprova del fatto che la Comunità Montana
non aveva alcuna intenzione di rendere "inaccessibile"
la presente gara).
----------------
Il gestore uscente di un servizio che intenda partecipare
alle successive gare indette dalla stessa amministrazione,
così come gode, in sede di formulazione dell'offerta, dei
vantaggi derivanti dalla c.d. asimmetria informativa
rispetto agli altri concorrenti, è per converso tenuto ad
una maggiore diligenza in sede di gara, visto che è lecito
presumere che egli conosca meglio degli altri partecipanti
le regole della procedura e non può quindi normalmente
fruire del c.d. soccorso istruttorio (TAR Marche,
sentenza 04.01.2013 n. 1 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: Il
Tar del lazio contraddice l'authority. No all'esclusione per i
senza polizza.
Il «bando-tipo» dell'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici si pone in contrasto con il principio di
tassatività delle cause di esclusione laddove prevede
l'esclusione del concorrente che non allega la polizza
fideiussoria o cauzione provvisoria, o ne allega una non
sottoscritta; viceversa si tratta di irregolarità sanabile e
la clausola del bando che prevede l'esclusione è nulla.
È
quanto afferma il TAR Lazio-Roma, Sez. II, con la
sentenza 03.01.2013 n. 16, che contraddice la delibera
4/2012 dell'organismo di vigilanza sui contratti pubblici
rispetto a una fattispecie in cui un concorrente era stato
escluso per mancata sottoscrizione della cauzione da parte
dell'Istituto cauzionante, nonché del partecipante alla
gara.
L'adempimento in questione è quello previsto
dall'articolo 75 del Codice dei contratti pubblici che
impone la cauzione provvisoria del 2% a corredo dell'offerta
e a garanzia della stessa, ma non prevede l'esclusione del
concorrente come nel caso della cauzione definitiva. Sul
punto il Consiglio di stato era però intervenuto in passato
affermando (Sez. V, 12.06.2009, n. 3746) che la cauzione
provvisoria, assolvendo la funzione di garantire la serietà
dell'offerta, costituisse parte integrante dell'offerta
stessa e non elemento di corredo, sicché la mancata
produzione della garanzia giustificava l'esclusione dalla
gara.
Con l'articolo 46, comma 1-bis, del codice dei
contratti pubblici, introdotto dall'art. 4, comma 2, lettera
d), del decreto legge n. 70/2011, è stata però prevista la
tassatività delle cause di esclusione dalla procedura di
affidamento del contratto di appalto: l'esclusione consegue
quindi sia alla violazione di norma del Codice o del
regolamento in cui è espressamente prevista l'esclusione,
sia ai casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla
provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di
altri elementi essenziali. E dopo la norma del decreto 70
sempre il Consiglio di stato (Sez. III, 01.02.2012, n.
493) si era espresso nel senso di ritenere «sanabile o
regolarizzabile la mancata prestazione della cauzione
provvisoria».
Successivamente al decreto legge 70/2011, l'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici, nel fornire delle prime
indicazioni per la redazione dei bandi di gara (il
cosiddetto «bando-tipo» nel quale è stata effettuata la
ricognizione delle diverse fattispecie di esclusione,
tipizzate dalla legge o ricavabili in sede interpretativa),
ha affermato che costituiscono cause di esclusione tanto la
mancata presentazione della cauzione provvisoria, quanto la
mancata sottoscrizione da parte del garante, così come
effettivamente prevedevano gli atti di gara (ancorché
precedenti alla delibera n. 4).
Il Tar del Lazio contraddice
l'Autorità e ritiene invece nullo il bando per violazione di
legge (e del principio di tassatività delle cause di
esclusione affermato dall'articolo 46, comma 1-bis, del
Codice). Non solo: la sentenza afferma anche che non risulta
condivisibile la tesi sostenuta dall'Autorità, perché tale
tesi risulta in contrasto con la ratio della novella del
2011, evidentemente tesa a limitare le cause di esclusione
dalle gare e a favorire, in ossequio al principio del favor partecipationis,
la regolarizzazione delle domande e delle offerte che siano
prive dei requisiti richiesti dalla legge o dal bando
(articolo ItaliaOggi dell'08.01.2013). |
APPALTI:
Il bando della procedura di gara pubblica è affetto da
nullità ogni qualvolta individua quale causa di esclusione
dalla gara la mancata allegazione della polizza fideiussoria
di cui all'art. 75, comma primo, del codice dei contratti
pubblici.
Tale norma, la quale prevede, al comma sesto,
l’obbligo -non sanzionato con l'inammissibilità
dell'offerta o l'esclusione del concorrente per l'ipotesi in
cui la garanzia non venga prestata- di corredare l'offerta
di una garanzia pari al due per cento del prezzo base
indicato nel bando o nell’invito, sotto forma di cauzione o
di fideiussione, a scelta dell’offerente, a garanzia della
serietà dell’impegno di sottoscrivere il contratto e quale
liquidazione preventiva e forfettaria del danno in caso di
mancata stipula per fatto dell’affidatario, ed al comma
ottavo che l’offerta, espressamente a pena di esclusione,
sia corredata, altresì, dall'impegno di un fideiussore a
rilasciare la garanzia di cui all'art. 113, qualora
l'offerente risultasse affidatario, in seguito alla entrata
in vigore della disposizione dell'art. 46, comma 1-bis,
del codice dei contratti pubblici, deve essere interpretata
in modo tale da valorizzare la diversa formulazione
letterale del comma sesto, in relazione al comma ottavo, con
l'evidente intento di ritenere sanabile o regolarizzabile la
mancata prestazione della cauzione provvisoria, al contrario
della cauzione definitiva, che garantisce l'impegno più
consistente della corretta esecuzione del contratto e
giustifica l'esclusione dalla gara.
CONSIDERATO che i suesposti
motivi possono essere trattati congiuntamente e risultano
fondati alla luce delle seguenti considerazioni:
A) l’art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici,
introdotto dall’art. 4, comma 2, lettera d), del decreto
legge n. 70/2011, prevede la tassatività delle cause di
esclusione dalla procedura di affidamento del contratto di
appalto, disponendo come segue: “la stazione appaltante
esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato
adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e
dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti,
nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla
provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di
altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità
del plico contenente l’offerta o la domanda di
partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura
dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze
concrete, che sia stato violato il principio di segretezza
delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono
contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione. Dette
prescrizioni sono comunque nulle”;
B) l’art. 75 del codice dei contratti pubblici prevede -ai commi da
1 a 6- l’obbligo di corredare l’offerta di una garanzia pari
al due per cento del prezzo base indicato nel bando o
nell’invito, sotto forma di cauzione o di fideiussione, a
scelta dell’offerente, a garanzia della serietà dell’impegno
di sottoscrivere il contratto e quale liquidazione
preventiva e forfettaria del danno in caso di mancata
stipula per fatto dell’affidatario; tuttavia tale
disposizione non prevede alcuna sanzione di inammissibilità
dell’offerta o di esclusione del concorrente per l’ipotesi
in cui la garanzia non venga prestata, mentre l’ottavo comma
dello stesso articolo 75, prevede espressamente “a pena
di esclusione” che l’offerta sia corredata altresì
dall’impegno di un fideiussore a rilasciare la garanzia di
cui all’articolo 113 (ossia la garanzia per l’esecuzione del
contratto, pari al 10 per cento dell’importo contrattuale),
qualora l’offerente risultasse affidatario;
C) prima della novella del 2011, con la quale è stato introdotto il
comma 1-bis nell’art. 46 del codice dei contratti pubblici,
la prevalente giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. V,
12.06.2009, n. 3746) riteneva che la cauzione provvisoria,
assolvendo la funzione di garantire la serietà dell’offerta,
costituisse parte integrante dell’offerta stessa e non
elemento di corredo, sicché la mancata produzione della
garanzia giustificava l’esclusione dalla gara;
D) a seguito della novella del 2011 la giurisprudenza (Cons. Stato,
Sez. III, 01.02.2012, n. 493) ha chiarito che la
disposizione dell’art. 46, comma 1-bis, del codice dei
contratti pubblici impone una diversa interpretazione
dell’art. 75, che valorizza la diversa formulazione
letterale del comma 6, in relazione al comma 8, e rende
evidente «l’intento di ritenere sanabile o
regolarizzabile la mancata prestazione della cauzione
provvisoria, al contrario della cauzione definitiva, che
garantisce l’impegno più consistente della corretta
esecuzione del contratto e giustifica l’esclusione dalla
gara»;
E) alla luce di tale condivisibile opzione ermeneutica, non risulta
condivisibile la tesi sostenuta dall’A.V.C.P. nella
determinazione n. 4 del 10.10.2012, recante “Indicazioni
generali per la redazione dei bandi di gara ai sensi degli
articoli 64, comma 4-bis e 46, comma 1-bis, del codice dei
contratti pubblici” (che comunque non vincola questo
Tribunale, tanto più se si considera che non è richiamata
nel bando, essendo successiva alla pubblicazione dello
stesso), secondo la quale costituiscono cause di esclusione
tanto la mancata presentazione della cauzione provvisoria,
quanto la mancata sottoscrizione da parte del garante,
perché tale tesi risulta in contrasto con la ratio
della novella del 2011, evidentemente tesa a limitare le
cause di esclusione dalle gare ed a favorire, in ossequio al
principio del favor partecipationis, la
regolarizzazione delle domande e delle offerte che siano
prive dei requisiti richiesti dalla legge o dal bando;
F) deve quindi ritenersi che il bando relativo alla gara di cui
trattasi sia nullo, ai sensi dell’art. 46, comma 1-bis, del
codice dei contratti pubblici, nella parte in cui prevede
quale causa di esclusione dalla gara la mancata allegazione
della polizza fideiussoria di cui all’art. 75, comma 1, del
medesimo codice, e che il provvedimento di esclusione della
ricorrente sia illegittimo, perché adottato con riferimento
ad una fattispecie che la legge considera come una mera
irregolarità sanabile ai sensi dell’art. 46, comma 1, del
codice dei contratti pubblici;
CONSIDERATO che, stante quanto precede, il ricorso deve
essere accolto e, per l’effetto, si deve dichiarare la
nullità del bando nella parte in cui prevede quale causa di
esclusione dalla gara la mancata allegazione della polizza
fideiussoria di cui all’art. 75, comma 1, del codice dei
contratti pubblici e si deve disporre l’annullamento del
provvedimento di esclusione della società ricorrente
(TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 03.01.2013 n. 16 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: E'
illegittima l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale
del manufatto abusivo, e relativa area di pertinenza per
quanto disposto dall'art. 31, commi 3 e 4, dpr 380/2001,
qualora l'ingiunzione di demolizione sia stata notificata
solo ad alcuni dei comptoptietari.
Invero, dalla documentazione depositata in
giudizio, a seguito di ordinanza istruttoria, si evince che
l’amministrazione ha acquisito gratuitamente al proprio
patrimonio le particelle catastali n. 24 e n. 292 del foglio
19 dopo aver notificato l’ingiunzione di demolizione solo ai
sig.ri Articolare Giovanni e Giuseppe (anch’essi proprietari
pro quota oltre che committenti dei lavori) e non anche a
tutti i restanti comproprietari (in virtù dei titoli esibiti
dai ricorrenti, indicati anche nelle allegate visure
storiche catastali, i cui estremi sono stati già precisati
nella narrativa in fatto), risultati estranei alla
realizzazione dell’attività edilizia abusiva. Analogamente,
non risulta loro notificato neppure il verbale con cui, in
data 15.04.2009, è stata accertata l’inottemperanza
all’ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi.
Rileva il Collegio che il descritto modus procedendi
dell’ente locale si pone in contrasto con l’art. 31, commi 3
e 4, del D.P.R. n. 380/2001, che così testualmente recita: “3.
Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione
e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di
novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime,
nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni
urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al
patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque
essere superiore a dieci volte la complessiva superficie
utile abusivamente costruita.
4. L'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a
demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica
all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel
possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che
deve essere eseguita gratuitamente.”
Difatti, come si è già anticipato, nel caso di specie non
risultano notificati agli instanti, oltre che il
provvedimento conclusivo del procedimento sanzionatorio
dell’abuso edilizio, neanche i sottesi atti coi quali è
stata ingiunta la demolizione delle opere ed accertata
l’inottemperanza all’ordine di ripristino dello stato dei
luoghi, talché i ricorrenti sono stati privati della
possibilità di esercitare le facoltà previste dalla legge
onde evitare l’acquisizione dei suoli alla mano pubblica,
ivi compresa quella dell’abbattimento spontaneo dei
manufatti insistenti sui medesimi fondi.
Si palesa fondata anche la censura di violazione del già
citato art. 31, comma 3, del T.U. sull’edilizia, atteso che
l’ente ha acquisito l’intera consistenza delle suddette
particelle –la cui superficie complessiva è di 7.900 mq.–
ben oltre il limite stabilito dalla norma, pari “a dieci
volte la complessiva superficie utile abusivamente
costruita” (nel caso di specie pari a 130 mq.).
In definitiva, entro i limiti sopra precisati, il ricorso
va accolto, restando assorbite le ulteriori doglianze non
esaminate, con salvezza peraltro degli ulteriori
provvedimenti dell’amministrazione nei sensi appena chiariti
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 29.12.2012 n.
5384 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 12 del d.P.R. n. 380 del 2001, in vista del
rilascio del permesso di costruire, è necessario che
esistano almeno le opere di urbanizzazione primaria stimate
in concreto necessarie, ivi comprese quelle relative alla
viabilità, ai servizi a rete, ai parcheggi ed alle aree
attrezzate a verde pubblico, in modo che la zona possa dirsi
sistemata per l'insediamento industriale in argomento.
Compito primario della pianificazione urbanistica è,
infatti, quello di coordinare armonicamente l’attività
edificatoria privata con la predisposizione di un adeguato
sistema infrastrutturale, che valga ad assicurare uno
sviluppo edilizio del territorio ordinato e razionale.
A tal riguardo, vale poi aggiungere che le opere di
urbanizzazione primaria sono elencate dall'art. 4 della l.
29.09.1964 n. 847 e comprendono spazi di sosta o di
parcheggio, rete idrica, rete di distribuzione dell'energia
elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde
attrezzato, strade residenziali nonché idonee fognature. Né
l’ottica di valutazione può ritenersi limitata
esclusivamente all’area di sedime del nuovo insediamento
ovvero al territorio immediatamente confinante, dovendo
inevitabilmente proiettarsi al di là di esso, fino a
ricomprendere l’intero comparto in cui risulta inserito,
onde assicurare effettività all’esigenza di un collegamento
coordinato con le opere di urbanizzazione già realizzate o
da realizzare a servizio dell’intera zona nella quale si
colloca l’erigenda costruzione.
Al riguardo, è sufficiente ribadire, in
aderenza ad un orientamento già ripetutamente espresso dalla
Sezione (cfr. TAR Campania, Napoli, Sezione Seconda,
n. 694/2006 e n. 8894/2008) che, ai sensi dell’art. 12 del d.P.R. n. 380 del 2001, in vista del rilascio del permesso di
costruire, è necessario che esistano almeno le opere di
urbanizzazione primaria stimate in concreto necessarie, ivi
comprese quelle relative alla viabilità, ai servizi a rete,
ai parcheggi ed alle aree attrezzate a verde pubblico, in
modo che la zona possa dirsi sistemata per l'insediamento
industriale in argomento. Compito primario della
pianificazione urbanistica è, infatti, quello di coordinare
armonicamente l’attività edificatoria privata con la
predisposizione di un adeguato sistema infrastrutturale, che
valga ad assicurare uno sviluppo edilizio del territorio
ordinato e razionale.
A tal riguardo, vale poi aggiungere
che le opere di urbanizzazione primaria sono elencate
dall'art. 4 della l. 29.09.1964 n. 847 e comprendono
spazi di sosta o di parcheggio, rete idrica, rete di
distribuzione dell'energia elettrica e del gas, pubblica
illuminazione, spazi di verde attrezzato, strade
residenziali nonché idonee fognature. Né l’ottica di
valutazione può ritenersi limitata esclusivamente all’area
di sedime del nuovo insediamento ovvero al territorio
immediatamente confinante, dovendo inevitabilmente
proiettarsi al di là di esso, fino a ricomprendere l’intero
comparto in cui risulta inserito, onde assicurare
effettività all’esigenza di un collegamento coordinato con
le opere di urbanizzazione già realizzate o da realizzare a
servizio dell’intera zona nella quale si colloca l’erigenda
costruzione.
Con riferimento alla restante parte della censura, ove i
ricorrenti lamentano la mancata considerazione della loro
disponibilità alla diretta realizzazione delle opere di
urbanizzazione, la Sezione deve rilevare come una simile
disponibilità possa avere un senso nelle ipotesi in cui si
tratti della mera realizzazione delle opere necessarie per
un singolo intervento di urbanizzazione e non nei casi in
cui, come quello in discorso, manchino quasi del tutto le
opere necessarie all’urbanizzazione del comparto; in questo
caso, è, infatti, evidente come la mancanza della rete
stradale e delle altre attrezzature pubbliche sopra
specificate non possa essere surrogata dall’intervento del
singolo privato, occorrendo piuttosto, come evidenziato nel
provvedimento in esame, il “previo impegno di tutti i
proprietari dei lotti del comparto alla realizzazione delle
opere di urbanizzazione”, impegno che nella fattispecie
non è stato manifestato (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 29.12.2012 n.
5379 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Ai
fini della legittimità di un atto amministrativo basato su
una pluralità di motivi autonomi (c.d. atto plurimotivato) è
sufficiente che anche uno solo di essi sia riconosciuto
idoneo a sorreggere l'atto stesso, atteso che l'eventuale
riconoscimento della fondatezza delle doglianze proposte non
esclude l'esistenza e la validità della restante causa
giustificatrice del provvedimento.
Il carattere assorbente dei rilievi che precedono esonera
il Collegio dalla verifica della legittimità degli altri
motivi ostativi individuati dall’autorità amministrativa.
Al
riguardo va richiamato il costante orientamento della
giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Sezione V,
29/08/1994 n. 926; TAR Lazio, Sezione II-bis, del
29/12/2005 n. 5101; Sezione III, 05/11/2007 n. 10870; TAR
Campania, Sezione VII, 10.06.2011 n. 3082), condiviso dal
Collegio, secondo il quale, ai fini della legittimità di un
atto amministrativo basato su una pluralità di motivi
autonomi (c.d. atto plurimotivato) –come nell’odierna
fattispecie– è sufficiente che anche uno solo di essi sia
riconosciuto idoneo a sorreggere l'atto stesso, atteso che
l'eventuale riconoscimento della fondatezza delle doglianze
proposte non esclude l'esistenza e la validità della
restante causa giustificatrice del provvedimento (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 29.12.2012 n.
5379 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Non
può condividersi l’indirizzo giurisprudenziale –formatosi
con riferimento alla fattispecie del cd. lotto intercluso o
di altri analoghi casi nei quali la zona risulti totalmente
urbanizzata– per cui si ritiene comunemente che lo strumento
urbanistico esecutivo non può considerarsi più necessario e
non può, pertanto, essere invocato ad esclusivo fondamento
del diniego di rilascio del titolo.
Come già evidenziato dalla Sezione, affinché tale
fattispecie derogatoria ed eccezionale possa configurarsi,
occorre dimostrare in concreto che, in relazione al lungo
tempo decorso dall’approvazione dello strumento urbanistico
di primo livello e per effetto della completa realizzazione
delle opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari
bisogni della collettività, la previsione concernente la
necessità della previa redazione dello strumento attuativo
non possa più considerarsi attuale, essendo superata dalla
situazione fattuale di completa urbanizzazione del comparto
di riferimento.
Non possono condividersi neanche le
restanti doglianze formulate dalla parte ricorrente, laddove
richiama l’indirizzo giurisprudenziale –formatosi con
riferimento alla fattispecie del cd. lotto intercluso o di
altri analoghi casi nei quali la zona risulti totalmente
urbanizzata– nei quali si ritiene comunemente che lo
strumento urbanistico esecutivo non può considerarsi più
necessario e non può, pertanto, essere invocato ad esclusivo
fondamento del diniego di rilascio del titolo (cfr., per
tutte, TAR Campania, IV Sezione, 06.06.2000 n. 1819; II
Sezione, 01.03.2006, n. 2498).
Come già evidenziato dalla
Sezione, affinché tale fattispecie derogatoria ed
eccezionale possa configurarsi, occorre dimostrare in
concreto che, in relazione al lungo tempo decorso
dall’approvazione dello strumento urbanistico di primo
livello e per effetto della completa realizzazione delle
opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari bisogni
della collettività, la previsione concernente la necessità
della previa redazione dello strumento attuativo non possa
più considerarsi attuale, essendo superata dalla situazione
fattuale di completa urbanizzazione del comparto di
riferimento (cfr. TAR Campania, Sezione II, 06.02.2012 n.
581 e 26.10.2011 n. 4931)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 29.12.2012 n.
5377 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
giurisprudenza è costante nel ritenere che:
- l'istallazione di una tettoia realizzata in ferro con muri
perimetrali in cemento armato e copertura con lamiere
coibentate, di dimensioni pari a mq 46,20, è idonea a
determinare una non irrilevante alterazione dello stato dei
luoghi e, pertanto, deve essere assentita mediante rilascio
di permesso di costruire;
- la realizzazione di una tettoia, indipendentemente dalla
sua eventuale natura pertinenziale, è configurabile come
intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi
dell'articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n.
380/2001, nella misura in cui realizza <<l'inserimento di
nuovi elementi ed impianti>>, ed è quindi subordinata al
regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10,
comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove
comporti, come nel caso di specie, una modifica della sagoma
o del prospetto del fabbricato cui inerisce;
- la tettoia realizzata sul terrazzo di un fabbricato, in
quanto struttura stabilmente ancorata al pavimento e
destinata a soddisfare non una esigenza temporanea e
contingente, ma prolungata nel tempo, è priva del carattere
della precarietà ed amovibilità ed è quindi assoggettata al
regime del permesso di costruire, dal momento che comporta
una rilevante modifica dell’assetto edilizio preesistente.
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Né la “tettoia” di cui trattasi potrebbe comunque essere
considerata come pertinenza.
Il concetto di pertinenza, previsto dal diritto civile, va
distinto dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in
senso edilizio e urbanistico, che non trova applicazione in
relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere
qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa
privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma
rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro
assoggettamento al regime del permesso di costruire, come
nel caso di una tettoia in ferro di rilevanti dimensioni.
La tettoia oggetto dell'impugnato
provvedimento configura quindi un intervento edilizio
integrante un incremento plano-volumetrico suscettibile di
autonoma utilizzazione, come tale sottoposto al regime concessorio (attualmente, permissorio) e quindi
all'applicazione della disposta sanzione demolitoria.
La giurisprudenza è costante nel ritenere che:
-
<<L'istallazione di una tettoia realizzata in ferro con muri
perimetrali in cemento armato e copertura con lamiere
coibentate, di dimensioni pari a mq 46,20, è idonea a
determinare una non irrilevante alterazione dello stato dei
luoghi e, pertanto, deve essere assentita mediante rilascio
di permesso di costruire>> (TAR Campania Napoli, sez. II,
02.12.2009, n. 8320);
- <<La realizzazione di una
tettoia, indipendentemente dalla sua eventuale natura pertinenziale, è configurabile come intervento di
ristrutturazione edilizia ai sensi dell'articolo 3, comma 1,
lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, nella misura in cui
realizza <<l'inserimento di nuovi elementi ed impianti>>, ed
è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai
sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello
stesso D.P.R. laddove comporti, come nel caso di specie, una
modifica della sagoma o del prospetto del fabbricato cui
inerisce>> (TAR Campania Napoli, sez. IV, 13.01.2011, n. 84);
- <<La tettoia realizzata sul terrazzo di un
fabbricato, in quanto struttura stabilmente ancorata al
pavimento e destinata a soddisfare non una esigenza
temporanea e contingente, ma prolungata nel tempo, è priva
del carattere della precarietà ed amovibilità ed è quindi
assoggettata al regime del permesso di costruire, dal
momento che comporta una rilevante modifica dell’assetto
edilizio preesistente>> (TAR Campania Napoli, sez. IV, 21.12.2007 n. 16493).
Né la “tettoia” di cui trattasi potrebbe comunque essere
considerata come pertinenza.
Il concetto di pertinenza, previsto dal diritto civile, va
distinto dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in
senso edilizio e urbanistico, che non trova applicazione in
relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere
qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa
privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma
rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro
assoggettamento al regime del permesso di costruire, come
nel caso di una tettoia in ferro di rilevanti dimensioni
(TAR Campania Napoli, sez. II, 07.05.2012, n. 2080)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 21.12.2012 n. 5342 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini
della tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova
edificazione comportante creazione di volume, senza che sia
possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di
volume, costituendo opera valutabile anche come aumento di
volume la realizzazione di un garage interrato con accesso
all'esterno tramite rampa in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico.
Pertanto, la nozione di volume rilevante ai fini
paesaggistici non può distinguere tra volumi esterni e
volumi interrati, essendo anche questi ultimi idonei a
determinare una modificazione del territorio e dell'assetto
edilizio esistente, posto che lo stesso volume che a fini
edilizi, per le sue caratteristiche, può non essere
considerato rilevante e non essere oggetto di computo fra le
volumetrie assentibili, ad esempio perché ritenuto volume
tecnico, ai fini paesaggistici può assumere una diversa
rilevanza, laddove si ritenga che determini una possibile
alterazione dello stato dei luoghi salvaguardato dalle
apposite norme di tutela, le quali, al preordinato fine di
conservare la sostanziale integrità di determinati ambiti
territoriali, ben possono vietare anche la realizzazione di
un volume edilizio tecnico od interrato, quand'anche
irrilevanti secondo le norme che regolano l'attività
edilizia.
Il Tribunale osserva in contrario, in
primo luogo, che le opere edilizie in parola non sono state
realizzate interamente nel sottosuolo, ma che dal suolo
fuoriescono rispettivamente per 1 mt. e 50 cm., cosicché per
esse neppure sarebbe in astratto invocabile la disciplina
derogatoria di cui alla cd. Legge Tognoli; in secondo luogo,
che, ai fini paesistici «il divieto di incremento dei volumi
esistenti, imposto ai fini della tutela del paesaggio,
preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione
di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume
tecnico ed altro tipo di volume, costituendo opera
valutabile anche come aumento di volume la realizzazione di
un garage interrato con accesso all'esterno tramite rampa in
zona sottoposta a vincolo paesaggistico. Pertanto, la
nozione di volume rilevante ai fini paesaggistici non può
distinguere tra volumi esterni e volumi interrati, essendo
anche questi ultimi idonei a determinare una modificazione
del territorio e dell'assetto edilizio esistente, posto che
lo stesso volume che a fini edilizi, per le sue
caratteristiche, può non essere considerato rilevante e non
essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili, ad
esempio perché ritenuto volume tecnico, ai fini
paesaggistici può assumere una diversa rilevanza, laddove si
ritenga che determini una possibile alterazione dello stato
dei luoghi salvaguardato dalle apposite norme di tutela, le
quali, al preordinato fine di conservare la sostanziale
integrità di determinati ambiti territoriali, ben possono
vietare anche la realizzazione di un volume edilizio tecnico
od interrato, quand'anche irrilevanti secondo le norme che
regolano l'attività edilizia» (TAR Napoli, IV, 29.05.2012 n.2529; cfr. anche Cons. St., sez. IV, 28.03.2011 n.
1879; Tar Campania, Salerno, sez. I, 11.10.2011 n. 1642)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 21.12.2012 n. 5336 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Presupposto
per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è
soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio
in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la
conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è
sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e
non necessita di una particolare motivazione in ordine
all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che
è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto
urbanistico violato, e alla possibilità di adottare
provvedimenti alternativi.
Quanto poi alle doglianze inerenti deficienze istruttorie e
motivazionali, il Tribunale si richiama al proprio costante
orientamento secondo il quale presupposto per l'adozione
dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la
constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza
del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che,
essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente
motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di
una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato,
e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi
(cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VI, 26.09.2012 n. 3951
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 21.12.2012 n. 5336 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Occorre
distinguere il concetto di pertinenza inteso in senso
urbanistico, che non trova applicazione in relazione a
quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come
beni pertinenziali secondo la normativa privatistica,
assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra
costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime
del permesso di costruire e che, nella delineata
prospettiva, anche la struttura verandata, addossata al
fabbricato esistente, che riveste natura permanente, dal
momento che la sua funzione è strettamente connessa
all'attività commerciale svolta e quindi destinata ad un uso
tutt'altro che temporaneo e contingente deve intendersi, per
tale motivo, priva del carattere della precarietà ed
amovibilità.
Parimenti, ne va esclusa la natura pertinenziale in quanto
l'intervento realizzato costituisce una nuova opera entrata
a far parte integrante di una costruzione preesistente, e
che, per effetto di congiunzione con l'immobile principale,
ne ha ampliato la superficie utile e la relativa volumetria.
A nulla rileva sotto tale profilo la dedotta assenza di
autonomia della struttura rispetto all'immobile principale,
dal momento che essa determina un ampliamento di superficie
e volume dell'immobile cui è annessa nonché il mutamento di
destinazione d'uso della corte esclusiva che originariamente
costituiva un'area di accesso all'immobile medesimo aperta
al pubblico.
Quanto ai motivi di impugnazione indicati sub I,
prevalentemente incentrati sulla asserita natura pertinenziale del cespite, la Sezione osserva, in conformità
con l’indirizzo giurisprudenziale di questo Tribunale dal
quale non vi è motivo di discostarsi, che «occorre
distinguere il concetto di pertinenza inteso in senso
urbanistico, che non trova applicazione in relazione a
quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come
beni pertinenziali secondo la normativa privatistica,
assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra
costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime
del permesso di costruire» (TAR Napoli Campania sez. VII,
12.07.2012, n. 3377; cfr. anche TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 11.02.2005 n. 365; TAR Lazio, Roma, sez. II,
04.02.2005 n. 1036) e che, nella delineata prospettiva,
anche «la struttura verandata, addossata al fabbricato
esistente, che riveste natura permanente, dal momento che la
sua funzione è strettamente connessa all'attività
commerciale svolta e quindi destinata ad un uso tutt'altro
che temporaneo e contingente deve intendersi, per tale
motivo, priva del carattere della precarietà ed amovibilità.
Parimenti, ne va esclusa la natura pertinenziale in quanto
l'intervento realizzato costituisce una nuova opera entrata
a far parte integrante di una costruzione preesistente, e
che, per effetto di congiunzione con l'immobile principale,
ne ha ampliato la superficie utile e la relativa volumetria.
A nulla rileva sotto tale profilo la dedotta assenza di
autonomia della struttura rispetto all'immobile principale,
dal momento che essa determina un ampliamento di superficie
e volume dell'immobile cui è annessa nonché il mutamento di
destinazione d'uso della corte esclusiva che originariamente
costituiva un'area di accesso all'immobile medesimo aperta
al pubblico» (TAR Napoli Campania sez. VIII, 03.07.2012, n. 3148; cfr. Cons. St., sez. V,
08.04.1999 n. 394;
TAR Lazio, Roma, sez. I, 17.07.1986 n. 1156; TAR
Campania, Napoli, sez. III, 09.09.2008 n. 10059; Cons.
St., sez. V, 27.01.2003 n. 419).
Ne consegue che, tenuto conto delle caratteristiche
dell'intervento abusivo realizzato (un corpo di fabbrica in
cemento armato di due piani fuori terra con una volumetria
di 252,00 ca.), l’intervento in contestazione, non essendo
stato dimostrato come coessenziale ad un bene principale e
potendo essere utilizzato anche in modo autonomo e separato,
non può ritenersi pertinenza ai fini urbanistici, sì da
escludere che lo stesso sia sottoposto al preventivo
rilascio del permesso di costruire
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 21.12.2012 n. 5331 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Costituisce
jus receptum che in caso di abuso edilizio “l'ordinanza di
demolizione non richiede, in linea generale, una specifica
motivazione; l'abusività costituisce di per sé motivazione
sufficiente per l'adozione della misura repressiva in
argomento. Ne consegue che, in presenza di un'opera abusiva,
l'autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché
sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna
discrezionalità dell'amministrazione in relazione al
provvedere”.
Infatti “l'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di
motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei
presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione
degli abusi edilizi” ed, ancora, “presupposto per
l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime
in assenza o in totale difformità del titolo concessorio,
con la conseguenza che, essendo l'ordinanza atto dovuto,
essa è sufficientemente motivata con l'accertamento
dell'abuso, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico alla
sua rimozione e sussistendo l'eventuale obbligo di
motivazione al riguardo solo se l'ordinanza stessa
intervenga a distanza di tempo dall'ultimazione dell'opera
avendo l'inerzia dell'amministrazione creato un qualche
affidamento nel privato”.
Quanto, poi, all’omessa comunicazione di avvio del
procedimento il Tribunale evidenzia che gli atti di
repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e
strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione
dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione
del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro
adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del
soggetto destinatario.
Quanto ai restanti motivi di impugnazioni (n.I e II), il
Tribunale osserva, secondo il proprio costante indirizzo,
che, in relazione alle segnalate deficienze istruttorie e
motivazionali, costituisce jus receptum che in caso di abuso
edilizio “l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea
generale, una specifica motivazione; l'abusività costituisce
di per sé motivazione sufficiente per l'adozione della
misura repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza
di un'opera abusiva, l'autorità amministrativa è tenuta ad
intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi,
non sussistendo alcuna discrezionalità dell'amministrazione
in relazione al provvedere” (TAR Lazio Roma, sez. I, 19.07.2006, n. 6021); infatti “l'ordinanza di demolizione
di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non
necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione
dei presupposti di fatto e all'individuazione e
qualificazione degli abusi edilizi” (TAR Marche Ancona,
sez. I, 12.10.2006, n. 824) ed, ancora, “presupposto
per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere
edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di
queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l'ordinanza
atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con
l'accertamento dell'abuso, essendo "in re ipsa" l'interesse
pubblico alla sua rimozione e sussistendo l'eventuale
obbligo di motivazione al riguardo solo se l'ordinanza
stessa intervenga a distanza di tempo dall'ultimazione
dell'opera avendo l'inerzia dell'amministrazione creato un
qualche affidamento nel privato” (Consiglio di Stato, sez.
V, 29.05.2006 n. 3270).
Quanto, poi, all’omessa comunicazione di avvio del
procedimento il Tribunale evidenzia che gli atti di
repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e
strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione
dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione
del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro
adozione, secondo l’ormai consolidato orientamento
giurisprudenziale, non sono richiesti apporti partecipativi
del soggetto destinatario (cfr. ex multis, TAR Campania,
Napoli, sez. VIII, 23.02.2011 n. 1048)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 21.12.2012 n. 5331 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Gli
atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente
e strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione
dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione
del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro
adozione, secondo l’ormai consolidato orientamento
giurisprudenziale, non sono richiesti apporti partecipativi
del soggetto destinatario.
---------------
● l'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001 riconosce
all'Amministrazione Comunale un generale potere di vigilanza
e controllo su tutte le attività urbanistico-edilizie del
territorio, ivi comprese quelle riguardanti immobili
sottoposti a vincolo storico-artistico e impone l'obbligo,
per il dirigente, di adottare immediatamente provvedimenti
definitivi, al fine di ripristinare la legalità violata
dall'intervento edilizio realizzato, mediante l'esercizio di
un potere-dovere del tutto vincolato dell'organo comunale,
senza margini di discrezionalità edilizi accertati e ciò in
quanto a partire dalla l. n. 142 del 1990, rientrano nella
competenza del dirigente comunale, e non del Sindaco, in
quanto atti di gestione, i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia e di tutela del territorio, tra i quali
l'ordinanza di demolizione di opere abusive;
● presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di
opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un
intervento edilizio in assenza del prescritto titolo
abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un
atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con
l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una
particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato,
e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
Infondata è la censura inerente l’omessa
comunicazione dell’avvio del procedimento: gli atti di
repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e
strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione
dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione
del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro
adozione, secondo l’ormai consolidato orientamento
giurisprudenziale, non sono richiesti apporti partecipativi
del soggetto destinatario (cfr. ex multis, TAR Campania,
Napoli, sez. VIII, 23.02.2011 n. 1048).
---------------
Quanto altre censure,
delle quali alcune (come per l’eccepita incompetenza)
formulate in maniera generica, il Tribunale osserva, in
primo luogo, che, alla stregua della giurisprudenza
prevalente, «l'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001 riconosce
all'Amministrazione Comunale un generale potere di vigilanza
e controllo su tutte le attività urbanistico-edilizie del
territorio, ivi comprese quelle riguardanti immobili
sottoposti a vincolo storico-artistico e impone l'obbligo,
per il dirigente, di adottare immediatamente provvedimenti
definitivi, al fine di ripristinare la legalità violata
dall'intervento edilizio realizzato, mediante l'esercizio di
un potere-dovere del tutto vincolato dell'organo comunale,
senza margini di discrezionalità edilizi accertati» (TAR
Napoli Campania, sez. IV, 14.11.2011, n. 5334) e ciò
in quanto «a partire dalla l. n. 142 del 1990, rientrano
nella competenza del dirigente comunale, e non del Sindaco,
in quanto atti di gestione, i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia e di tutela del territorio, tra i quali
l'ordinanza di demolizione di opere abusive» (TAR Lazio
Roma, sez. II, 08.04.2010, n. 5889); in secondo luogo,
che «presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione
di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un
intervento edilizio in assenza del prescritto titolo
abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un
atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con
l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una
particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato,
e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi»
(cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VI, 26.09.2012 n. 3951);
in terzo luogo, infine, in relazione
all’omessa considerazione dell’istanza di accertamento di
conformità ai sensi dell’art. 13 l. 47/1985, ora art. 36 D.P.R.
n. 380/2001, che quest’ultima, presentata successivamente
all’emanazione della sanzione demolitoria (prot. n. 3798 del
07.03.2007), non determina l’effetto sospensivo del
procedimento sanzionatorio, previsto espressamente dal
legislatore solo in caso di presentazione della domanda di
condono (art. 44 l. 47/1985, norma richiamata dalla l. n.
724/1994 e l. n. 326/2003), e non dispiega alcuna rilevanza
ai fini dello scrutinio di legittimità del provvedimento demolitorio, ciò non senza evidenziare altresì che, allo
stato degli atti, sull’istanza in parola dovrebbe essersi
formato il silenzio-rigetto di cui all’art. 36 D.P.R.
n. 380/2001 e non risulta esservi stata la relativa
impugnazione
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 21.12.2012 n. 5330 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
legittimo esercizio di un’attività commerciale deve essere
ancorato, sia in sede di rilascio del relativo titolo
autorizzatorio, sia per l’intera durata del suo svolgimento,
alla disponibilità giuridica e alla regolarità
urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene posta in
essere.
Tuttavia, non può sanzionarsi con l’ordine di cessazione
dell’attività il fatto che l’attività commerciale si svolga
solo in parte in locali realizzati in assenza di titolo
edilizio (e paesistico, ove l’area interessata sia
assoggetta a vincolo).
Un tale ordine, infatti, verrebbe a collidere con i criteri
di ragionevolezza e sproporzione che devono improntare
l’azione amministrativa, costituendo, in definitiva, sintomo
di sviamento di quell’azione, ben potendo l’Amministrazione,
nell’esercizio del potere sanzionatorio e tenuto debitamente
conto del contemperamento tra l’interesse pubblico alla
repressione degli abusi e l’interesse privato sotteso
all’esplicazione di un’attività imprenditoriale, ove
materialmente possibile e accertata la sussistenza dei
requisiti igienico-sanitari per la restante parte, limitare
la sanzione alla sola parte del locale non autorizzata sotto
il profilo edilizio.
Va osservato preliminarmente, secondo il
costante orientamento della Sezione, che il legittimo
esercizio di un’attività commerciale deve essere ancorato,
sia in sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio,
sia per l’intera durata del suo svolgimento, alla
disponibilità giuridica e alla regolarità
urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene posta in
essere (cfr. TAR Campania Napoli, sez. III, 09.09.2008, n. 10058; Id., 09.08.2007, n. 7435; Id., 27.01.2003, n. 423; Id., 22.11.2001, n. 5007; cfr. anche, da
ultimo, Cons. Stato, sez. V, 05.11.2012 n. 5590).
Al tempo stesso va rimarcato –sempre in linea con la
richiamata giurisprudenza- che non può sanzionarsi con
l’ordine di cessazione dell’attività il fatto che l’attività
commerciale si svolga solo in parte in locali realizzati in
assenza di titolo edilizio (e paesistico, ove l’area
interessata sia assoggetta a vincolo). Un tale ordine,
infatti, verrebbe a collidere con i criteri di
ragionevolezza e sproporzione che devono improntare l’azione
amministrativa, costituendo, in definitiva, sintomo di
sviamento di quell’azione, ben potendo l’Amministrazione,
nell’esercizio del potere sanzionatorio e tenuto debitamente
conto del contemperamento tra l’interesse pubblico alla
repressione degli abusi e l’interesse privato sotteso
all’esplicazione di un’attività imprenditoriale, ove
materialmente possibile e accertata la sussistenza dei
requisiti igienico-sanitari per la restante parte, limitare
la sanzione alla sola parte del locale non autorizzata sotto
il profilo edilizio
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 21.12.2012 n. 5326 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Le
strutture in oggetto, fissate in maniera stabile al
pavimento, comportano la chiusura di una parte del balcone,
con conseguente aumento di volumetria. Ed invero in materia
urbanistico-edilizia il presupposto per l'esistenza di un
volume edilizio è costituito dalla costruzione di (almeno)
un piano di base e due superfici verticali contigue, così da
ottenere appunto una superficie chiusa su un minimo di tre
lati.
Pertanto, la realizzazione di tali opere è qualificabile
come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi
dell'articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n.
380/2001, nella misura in cui realizza "l'inserimento di
nuovi elementi ed impianti", ed è quindi subordinata al
regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10,
comma 1, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove comporti,
come nel caso di specie, una modifica della sagoma o del
prospetto del fabbricato cui inerisce.
Il Collegio rileva che non esiste alcun
atto che abbia autorizzato la realizzazione della veranda –pacificamente unica in quanto dalla lettura del
provvedimento si comprende chiaramente che si riferisce ai
due pannelli in alluminio anodizzato che chiudono i lati del
balcone- e delle altre opere in contestazione, né vi è
alcuna certezza in ordine all’epoca della loro edificazione.
L’unica certezza che può dirsi raggiunta è che nel 1987
all’atto della divisione dell’immobile la veranda
necessitava di opere di ristrutturazione e che le stesse
sono state eseguite senza alcun titolo. Né dalla relazione
del perito di parte è dato comprendere se le precedenti
strutture chiudessero la parte di balconata nello stesso
modo rispetto a quelle attuali.
E’ pacifico, peraltro, in quanto emerge ictu oculi
dalla documentazione fotografica, che i due pannelli in
alluminio anodizzato hanno creato nuova superficie chiudendo
una parte della balconata, mentre è del tutto irrilevante la
circostanza che la stessa affacci in un cortile interno.
E, infatti, contrariamente a quanto dedotto dalla
ricorrente, nell'ipotesi di specie non si è in presenza di
interventi irrilevanti sul piano urbanistico, atteso che la
struttura realizza in maniera stabile la chiusura di una
parte del balcone, con conseguente aumento di volumetria e
modifica dei prospetti,
come si evince chiaramente dalle dimensioni della medesima,
nonché dalle foto allegate agli atti.
Dal punto di vista dell'aumento di volumetria il
Collegio rileva che le strutture in oggetto, fissate in
maniera stabile al pavimento, comportano la chiusura di una
parte del balcone, con conseguente aumento di volumetria. Ed
invero in materia urbanistico-edilizia il presupposto per
l'esistenza di un volume edilizio è costituito dalla
costruzione di (almeno) un piano di base e due superfici
verticali contigue, così da ottenere appunto una superficie
chiusa su un minimo di tre lati (cfr. Tar Campania, Napoli, IV, 24.05.2010, n. 8342; Tar Piemonte, 12.07.2005, n. 2824).
Inoltre a prescindere da tale rilievo, come detto, gli
interventi in oggetto determinano la modifica dei prospetti.
Pertanto, la realizzazione di tali opere è
qualificabile come intervento di ristrutturazione edilizia
ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n.
380/2001, nella misura in cui realizza "l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti", ed è quindi subordinata al regime del
permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma 1,
lettera c), dello stesso D.P.R. laddove comporti, come nel
caso di specie, una modifica della sagoma o del prospetto
del fabbricato cui inerisce (cfr. TAR Campania, Napoli, IV, 21.12.2007, n. 16493), con conseguente legittimità della
sanzione demolitoria ingiunta
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 21.12.2012 n. 5309 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Per
un atto c.d. "plurimotivato", anche l'eventuale fondatezza
di una delle argomentazioni addotte non potrebbe in ogni
caso condurre all'annullamento dell'impugnato provvedimento
sindacale, che rimarrebbe sorretto dal primo versante
motivazionale risultato immune ai vizi lamentati.
---------------
Nel caso di provvedimento di esclusione da una gara
d'appalto "plurimotivato", la riconosciuta legittimità di
una delle ragioni dell'atto è sufficiente a reggere il
provvedimento di estromissione.
---------------
Nel caso in cui il provvedimento impugnato sia fondato su di
una pluralità di autonomi motivi (c.d. provvedimento
plurimotivato), il rigetto della doglianza volta a
contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la
carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle
ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni
giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure
si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe
comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad
ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che
resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto
sussistente.
E’ noto come in presenza di atto plurimotivato anche la legittimità di una delle motivazioni
è da sola idonea a sorreggerlo, con la conseguenza che alcun
rilievo avrebbero le ulteriori censure volte a contestare
gli ulteriori profili motivazionali (giurisprudenza
costante, cfr. TAR Campania Salerno, sez. II, 17.01.2011, n. 63 secondo cui “Per un atto c.d. "plurimotivato",
anche l'eventuale fondatezza di una delle argomentazioni
addotte non potrebbe in ogni caso condurre all'annullamento
dell'impugnato provvedimento sindacale, che rimarrebbe
sorretto dal primo versante motivazionale risultato immune
ai vizi lamentati"; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 14.01.2011, n. 139 secondo cui “Nel caso di provvedimento
di esclusione da una gara d'appalto "plurimotivato", la
riconosciuta legittimità di una delle ragioni dell'atto è
sufficiente a reggere il provvedimento di estromissione”;
TAR Campania Napoli, sez. VII, 14.01.2011, n. 164
secondo cui “Nel caso in cui il provvedimento impugnato sia
fondato su di una pluralità di autonomi motivi (c.d.
provvedimento plurimotivato), il rigetto della doglianza
volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici
comporta la carenza di interesse della parte ricorrente
all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le
altre ragioni giustificatrici atteso che, seppure tali
ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro
accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare
l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del
provvedimento impugnato, che resterebbe supportato
dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente”)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 21.12.2012 n. 5293 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie
costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo
rilascio del certificato di agibilità, come si evince dagli
artt. 24, comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001 e 35, comma 20, L.
n. 47 del 1985; del resto, risponde ad un evidente principio
di ragionevolezza escludere che possa essere utilizzato, per
qualsiasi destinazione, un fabbricato in potenziale
contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi
alla cui protezione è preordinata la disciplina
urbanistico-edilizia.
Ne consegue che il meccanismo del silenzio-ssenso non può
essere invocato allorché, come nel caso in questione, manchi
il presupposto stesso per il rilascio del certificato di
agibilità, costituito, come evidenziato, dal carattere non
abusivo del fabbricato in relazione al quale sia stata
presentata l''istanza tesa ad ottenere il certificato
menzionato.
Il collegio al riguardo
osserva che il procedimento di rilascio del certificato di
agibilità, disciplinato dall'art. 25 d.P.R. n. 380 del 2001,
si articola sulla base dei seguenti principi fondamentali:
1) il procedimento deve essere concluso nel termine di 30
giorni dalla ricezione della domanda di rilascio del
certificato di agibilità o di 60 giorni (nel caso in cui il
ricorrente si sia avvalso della possibilità di sostituire
con autocertificazione il parere dell'Asl);
2) il decorso
del termine per la definizione del procedimento, importa la
formazione del silenzio-assenso sull'istanza di rilascio
del certificato di agibilità;
3) il termine del procedimento
può essere interrotto una sola volta dal responsabile del
procedimento, entro quindici giorni dalla domanda,
esclusivamente per la richiesta di documentazione
integrativa, che non sia già nella disponibilità
dell'amministrazione o che non possa essere acquisita
autonomamente; in tal caso, il termine per la conclusione
del procedimento ricomincia a decorrere dalla data di
ricezione della documentazione integrativa;
4) il rilascio
del certificato di agibilità non impedisce l'esercizio del
potere di dichiarata inagibilità di un edificio o di parte
di esso ai sensi dell'art. 26 d.P.R. n. 380 del 2001.
Peraltro va evidenziato che nell’ipotesi di specie non
solo non sussistevano i presupposti per la formazione del
silenzio-assenso, ma come il provvedimento risulti
legittimamente e sufficiente motivato con il richiamo alla
illegittimità urbanistica dell’immobile per cui è causa, in
quanto interessato da opere abusive in relazione alle quali
era intervenuto provvedimento di diniego di condono o in
relazione alle quali il procedimento di condono era ancora
pendente (con la conseguenza che le stesse, fino
all’accoglimento delle relative istanze, devono considerarsi
ancora abusive).
La recente giurisprudenza del Consiglio di Stato ha
infatti avuto modo di osservare che "la conformità dei
manufatti alle norme urbanistico-edilizie costituisce il
presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del
certificato di agibilità, come si evince dagli artt. 24,
comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001 e 35, comma 20, L. n. 47 del
1985; del resto, risponde ad un evidente principio di
ragionevolezza escludere che possa essere utilizzato, per
qualsiasi destinazione, un fabbricato in potenziale
contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi
alla cui protezione è preordinata la disciplina urbanistico-edilizia" (cfr. Consiglio Stato, V, 30.04.2009, n.
2760; in senso analogo TAR Puglia Lecce Sez. III, Sent.,
01-08-2012, n. 1447).
Ne consegue che il meccanismo del silenzio-ssenso non
può essere invocato allorché, come nel caso in questione,
manchi il presupposto stesso per il rilascio del certificato
di agibilità, costituito, come evidenziato, dal carattere
non abusivo del fabbricato in relazione al quale sia stata
presentata l''istanza tesa ad ottenere il certificato
menzionato (TAR Catanzaro Calabria sez. II, 09.07.2011, n.
1009)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 21.12.2012 n. 5293 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Polizia Giudiziaria. Sopralluogo delegato e garanzie
difensive.
L'esecuzione di un sopralluogo delegato (nella fattispecie,
riguardante la realizzazione di un tracciato stradale) con
riprese fotografiche dello stato dei luoghi comporta
un’attività di mera descrizione dello stato dei luoghi
corredata da rilievi fotografici, e non già un’ispezione,
cosicché non è applicabile l’art. 364 c.p.p. con i
correlativi obblighi di avviso (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.12.2012 n. 48641 -
tratto da www.lexambiente.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sulla valenza oggettiva del divieto di
affidamento diretto dei servizi pubblici locali.
L'affidamento diretto di un servizio pubblico locale,
secondo il legislatore, sterilizzando in radice il libero
gioco della concorrenza e limitando la platea dei possibili
concorrenti, impedisce la stessa astratta realizzabilità
delle finalità della norma (art. 23-bis, c. 9, del d.l.
25.06.2008, n. 112), così che coerentemente è stato escluso
che i soggetti che già gestissero in qualsiasi modo, anche
di fatto, oltre che provvedimento amministrativo, contratto
o disposizione legislativa, potessero rendersi affidatari di
nuovi servizi pubblici, ciò determinando una illegittima
posizione di vantaggio o addirittura di privilegio capace
ex se di condizionare la libera concorrenza, così che "…il
divieto in questione, come si ricava dall'ampiezza della sua
portata, ha una valenza oggettiva, che prescinde da ogni
connotazione soggettiva e tanto più dalla considerazione
delle ragioni, particolari e contingenti, che possono aver
in concreto determinato o giustificato l'affidamento
diretto: è pertanto irrilevante sia che, nel caso in esame
l'affidamento diretto dei servizi di igiene urbana dei
comuni non avrebbe violato il principio della libera
concorrenza (affermazione peraltro apodittica, indimostrata
e comunque indimostrabile), sia che detti affidamenti
diretti non sarebbero stati determinati da un'iniziativa
della stessa appellante (facendo riferimento la norma anche
a situazioni di fatto)".
Nel caso di specie, è del tutto irrilevante ai fini della
decisione della controversia la sopravvenuta abrogazione
dell'art. 23-bis per effetto del D.P.R. 18.07.2011, n. 113,
dovendo essere valutata la legittimità dell'operato
dell'amministrazione appaltante secondo il principio del
tempus regit actum (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.12.2012 n. 6399 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Beni Ambientali. Estinzione reato paesaggistico per
spontanea rimessione in pristino.
La disposizione di cui all'art. 181, comma 1-quinquies, del
D.Lgs. n. 42 del 2004, in base alla quale la rimessione in
pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli
paesaggistici, da parte del trasgressore, estingue il reato
di cui al comma primo dello stesso art. 181, va interpretata
nel senso che la causa estintiva resta preclusa, oltre che
dalla condanna, soltanto dalla emissione di un provvedimento
amministrativo idoneo ad essere eseguito d'ufficio, non
essendo sufficiente ad impedire l'effetto estintivo un mero
ordine di ripristino rivolto dalla autorità amministrativa o
la indicazione di tempi o modalità esecutive idonee a
conseguire il ripristino (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.12.2012 n. 47870 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Caratteristiche del manufatto pertinenziale.
Il manufatto pertinenziale, oltre a dover accedere ad un
edificio preesistente edificato legittimamente, deve
necessariamente presentare la caratteristica della ridotta
dimensione anche in assoluto, a prescindere dal rapporto con
|'edificio principale e non deve essere in contrasto con gli
strumenti urbanistici vigenti e con quelli eventualmente
soltanto adottati (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.12.2012 n. 47646 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Ampliamento e pertinenze.
L'ampliamento di un fabbricato preesistente non può essere
considerato pertinenza, diventando parte dell'edificio di
cui completa, una volta realizzato, la struttura per meglio
soddisfare i bisogni cui è destinato in quanto privo di
autonomia rispetto all'edificio medesimo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.12.2012 n. 47228 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Se è vero che
l’iniziativa economica privata è libera, in base a quanto
enunciato in linea di principio dall’art. 41 della
Costituzione, è altrettanto vero che “essa non può svolgersi
in modo da recare danno alla sicurezza” e che la stessa
norma di rango costituzionale demanda alla legge di
“definire i programmi e i controlli per coordinarla a fini
sociali.
A tale finalità risponde l’art. 23 del Codice della Strada,
che da un lato vieta la collocazione, “lungo le strade o in
vista di esse”, di insegne e di ogni impianto pubblicitario
che possa distrarre l’attenzione di chi le percorre, “con
conseguente pericolo per la sicurezza della circolazione” e
dall’altro ne sottopone l’installazione ad un provvedimento
autorizzatorio, emesso dal competente ente gestore.
La formulazione dell'art. 23, in altri termini, indica
chiaramente l'intento perseguito dal legislatore, che è
quello di prevenire la collocazione sugli spazi destinati
alla circolazione veicolare, così come sugli spazi a questi
adiacenti, di fonti di captazione o disturbo dell'attenzione
dei conducenti e di consequenziale sviamento della stessa
dall'unica ed essenziale funzione al momento commessale, che
è quella della guida del veicolo.
In tale quadro normativo e nel conseguente regime
autorizzatorio rientra anche l’installazione delle insegne
d’esercizio, che sono elencate fra i mezzi pubblicitari
dagli artt. 47 e 53 del regolamento di esecuzione del codice
della strada.
Di conseguenza non vi può essere dubbio alcuno che
l’installazione di tali insegne sia soggetta a procedimento
autorizzatorio e che l’autorizzazione possa essere negata
quando, come nel caso de quo, a giudizio dell’ente gestore
della strada (titolare dei relativi poteri pubblicistici)
l’insegna rivesta carattere prettamente pubblicitario e,
comunque, arrechi disturbo visivo agli utenti
dell’autostrada, distraendone l’attenzione con conseguente
pericolo per la circolazione.
Poco importa che l’insegna sia effettivamente tale sotto i
vari profili rilevanti per il diritto commerciale: la legge
consente all’ente gestore della strada di vietare la
realizzazione a qualsiasi distanza (bastando che siano ‘a
vista’) di manufatti di qualsiasi tipo che incidano sulla
sicurezza della circolazione (e, corrispondentemente,
consente di denegare il rilascio di autorizzazioni in
sanatoria e di ordinare la rimozione degli impianti).
Neppure rileva che l’insegna rispetti i limi dimensionali
massimi previsti dall’art. 48 del regolamento di esecuzione
e di attuazione del nuovo Codice della strada (che ha
fissato per le insegne d’esercizio ed ogni altro mezzo
pubblicitario limiti dimensionali, 6 metri quadrati se
installati fuori dai centri abitati e 20 metri quadrati se
posti parallelamente al senso di marcia dei veicoli o in
aderenza ai fabbricati).
In ogni caso, ovunque si trovi e qualunque siano le sue
dimensioni, l’ente gestore della strada può constatare la
pericolosità e vietare la realizzazione o il mantenimento
del manufatto, con una valutazione basata su un potere di
natura tecnico-discrezionale, sindacabile dunque solo per
manifesta illogicità o per difetto di motivazione.
Il Collegio osserva che, come correttamente rilevato dal giudice di primo
grado, se è vero che l’iniziativa economica privata è
libera, in base a quanto enunciato in linea di principio
dall’art. 41 della Costituzione, è altrettanto vero che
“essa non può svolgersi in modo da recare danno alla
sicurezza” e che la stessa norma di rango costituzionale
demanda alla legge di “definire i programmi e i controlli
per coordinarla a fini sociali”.
A tale finalità risponde l’art. 23 del Codice della Strada,
che da un lato vieta la collocazione, “lungo le strade o in
vista di esse”, di insegne e di ogni impianto pubblicitario
che possa distrarre l’attenzione di chi le percorre, “con
conseguente pericolo per la sicurezza della circolazione” e
dall’altro ne sottopone l’installazione ad un provvedimento autorizzatorio, emesso dal competente ente gestore.
La formulazione dell'art. 23, in altri termini, indica
chiaramente l'intento perseguito dal legislatore, che è
quello di prevenire la collocazione sugli spazi destinati
alla circolazione veicolare, così come sugli spazi a questi
adiacenti, di fonti di captazione o disturbo dell'attenzione
dei conducenti e di consequenziale sviamento della stessa
dall'unica ed essenziale funzione al momento commessale, che
è quella della guida del veicolo (cfr. Corte di Cassazione
Civile, Sezione II, sentenza n. 4683 del 2009).
In tale quadro normativo e nel conseguente regime
autorizzatorio rientra anche l’installazione delle insegne
d’esercizio, che sono elencate fra i mezzi pubblicitari
dagli artt. 47 e 53 del regolamento di esecuzione del codice
della strada.
Di conseguenza non vi può essere dubbio alcuno che
l’installazione di tali insegne sia soggetta a procedimento
autorizzatorio e che l’autorizzazione possa essere negata
quando, come nel caso de quo, a giudizio dell’ente gestore
della strada (titolare dei relativi poteri pubblicistici)
l’insegna rivesta carattere prettamente pubblicitario e,
comunque, arrechi disturbo visivo agli utenti
dell’autostrada, distraendone l’attenzione con conseguente
pericolo per la circolazione.
Poco importa che l’insegna sia effettivamente tale sotto i
vari profili rilevanti per il diritto commerciale: la legge
consente all’ente gestore della strada di vietare la
realizzazione a qualsiasi distanza (bastando che siano ‘a
vista’) di manufatti di qualsiasi tipo che incidano sulla
sicurezza della circolazione (e, corrispondentemente,
consente di denegare il rilascio di autorizzazioni in
sanatoria e di ordinare la rimozione degli impianti).
Neppure rileva che l’insegna rispetti i limi dimensionali
massimi previsti dall’art. 48 del regolamento di esecuzione
e di attuazione del nuovo Codice della strada (che ha
fissato per le insegne d’esercizio ed ogni altro mezzo
pubblicitario limiti dimensionali, 6 metri quadrati se
installati fuori dai centri abitati e 20 metri quadrati se
posti parallelamente al senso di marcia dei veicoli o in
aderenza ai fabbricati).
In ogni caso, ovunque si trovi e qualunque siano le sue
dimensioni, l’ente gestore della strada può constatare la
pericolosità e vietare la realizzazione o il mantenimento
del manufatto, con una valutazione basata su un potere di
natura tecnico-discrezionale, sindacabile dunque solo per
manifesta illogicità o per difetto di motivazione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.11.2012 n. 6044 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La mancata indicazione
del termine e dell’autorità cui ricorrere, per la pacifica
giurisprudenza, non comporta l’illegittimità, bensì la mera
irregolarità dell’atto impugnato.
Tale mancanza potrebbe giustificare un’impugnazione tardiva
dell’atto medesimo.
Quanto al primo motivo
d’appello, il Collegio osserva che la mancata indicazione
del termine e dell’autorità cui ricorrere, per la pacifica
giurisprudenza, non comporta l’illegittimità, bensì la mera
irregolarità dell’atto impugnato.
Tale mancanza potrebbe giustificare un’impugnazione tardiva
dell’atto medesimo
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.11.2012 n. 6044 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L'impianto
di autolavaggio è incompatibile con aree classificate
urbanisticamente a "verde privato", anche se si tratta di
meri ampliamenti di attività artigianale esistente, perché
l'autolavaggio costituisce pur sempre attività insalubre di
seconda categoria.
Rileva il
Collegio che le osservazioni e prese statuizioni del primo
giudice sono in realtà il frutto di una lettura incompleta e
comunque non coordinata, oltreché non razionale, della
normativa complessivamente recata sul punto dallo strumento
urbanistico comunale che, ove correttamente intesa, induce a
rilevare il divieto di autorizzazione in area classificata a
verde privato di interventi costituiti dalla realizzazione
di un impianto di autolavaggio, come attività insalubre di
seconda categoria, quale che sia la sua collocazione in situ
e indipendentemente dalle sue dimensioni o dal fatto che
venga utilizzato al solo servizio dell’attività esistente o
a servizio di tutti gli utenti, indistintamente.
Invero, in relazione a quanto previsto dal citato art. 44 a
proposito degli edifici individuati con la lettera M o
comunque utilizzati con destinazione d’uso produttiva o
terziaria nelle norme tecniche del PRG, si fa espresso
riferimento alla disciplina recata dagli artt. 42 (zone B1)
e 39 (zone per insediamenti a prevalenza residenziali) lì
dove sulla scorta di tale ultima previsione il regolatore
comunale nel descrivere gli insediamenti ammessi ha
contestualmente ed espressamente escluso le lavorazioni
insalubri di 1^ e 2^ classe e l’impianto di lavaggio
costituisce ai sensi dell’art. 216 TULS, come integrato dal
D.M. 02.03.1987, stante la equiparazione con la categoria di
“stazioni per automezzi e motocicli”, attività
insalubre di seconda categoria.
E’ evidente che quest’ultima classificazione comporta
tout court la impossibilità di realizzare un nuovo
intervento costituito dalla installazione di un
autolavaggio: sia che lo si voglia definire come attività
industriale sia che lo si voglia intendere come attività
artigianale un siffatto impianto costituisce comunque
lavorazione insalubre e come tale non può essere realizzato
ex novo neanche come impianto satellite di altra
lavorazione artigianale e/o industriale.
D’altra parte la non compatibilità urbanistica
dell’autolavaggio nell’area de qua è rilevabile di per sé
dal solo esame delle finalità impresse alla zonizzazione a
verde privato, in base ai principi generali fissati dalla
materia urbanistica e alla disciplina concreta dettata dalle
norme tecniche di attuazione del PRG comunale nonché alla
luce della situazione dello stato dei luoghi che, per come
di fatto configurata, non ammette insediamenti del tutto
contrastanti con le caratteristiche tipologiche dei vicini
edifici e della connessa funzione residenziale.
Con la classificazione operata (verde privato) si è inteso
classificare una zona omogenea del territorio comunale
destinata ad un uso residenziale e nel contempo ad
assicurare esigenze di tutela ambientale , di talché non
appare concepibile permettere la realizzazione di “nuovi”
interventi che per le loro oggettive caratteristiche si
rivelano del tutto incompatibili con tali funzioni e
finalità, fatte salve, naturalmente, le preesistenze.
Ciò sta a significare che i titoli edilizi intervenuti a
seguito della presentazione di d.i.a finalizzata alla
realizzazione dell’impianto di autolavaggio per cui è causa
devono considerasi illegittimi in quanto preordinati a
permettere un intervento non consentito
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.11.2012 n. 6022 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L'azienda
sorride.
La p.a. deve risarcire sempre. Il
Consiglio di stato sull'appalto che va storto.
Se nell'appalto qualcosa va storto l'amministrazione che ha
bandito la gara risarcisce anche senza colpa l'azienda
illegittimamente esclusa dalla procedura: lo impongono i
principi Ue in materia di contratti pubblici.
È quanto
emerge dalla
sentenza
08.11.2012 n. 5686, pubblicata dalla V Sez. del Consiglio di Stato.
Nessuna condizione
Accolto il ricorso dell'impresa, che per ottenere il
riconoscimento dell'appalto che le spettava è stata
costretta a rivolgersi ai giudici: via alla liquidazione dei
danni, che sono rappresentati dal mancato utile conseguito
che non ha potuto svolgere il servizio per effetto
dell'illegittima aggiudicazione a terzi.
Sbaglia il Tar a escludere la configurabilità del ristoro.
La normativa europea che regola le procedure di ricorso in
materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori,
di forniture e di servizi non consente che il diritto a
ottenere il risarcimento del danno da una amministrazione
pubblica che abbia violato le norme sulla disciplina degli
appalti sia subordinato al carattere colpevole di tale
violazione. Insomma, fatte le debite proporzioni, si torna
al vecchio danno «in re ipsa».
Onere della prova
Le motivazioni vanno ricercate nella disciplina comunitaria
della libera concorrenza è che punta essenzialmente a
tutelare le posizioni soggettive delle imprese, cui
corrisponde in capo alla pubblica amministrazione l'obbligo
di tenere un corretto comportamento verso i concorrenti alle
gare pubbliche. Ma l'obiettivo non viene centrato se la
disciplina nazionale subordina l'ottenimento del
risarcimento dei danni, da parte dell'offerente offeso, al
previo positivo riscontro dell'elemento soggettivo della
responsabilità della pubblica amministrazione. Via libera
alla responsabilità piena della pubblica amministrazione
senza aree di franchigia.
Insomma: l'impresa illegittimamente esclusa dalla procedura
a evidenza pubblica che non ottiene direttamente il bene
della vita a cui aspira, vale a dire la riedizione della
gara o l'aggiudicazione definiva può aspirare alla
monetizzazione del pregiudizio subito; se, tuttavia, anche
tale ultima via di ristoro venisse resa impraticabile o
assolutamente impervia, il privato rischierebbe di restare
sprovvisto di qualsiasi forma di tutela.
Per la liquidazione dei danni è necessaria la prova, a
carico dell'impresa, della percentuale di utile effettivo
che avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria
dell'appalto, desumibile in primis dall'esibizione
dell'offerta economica presentata
(articolo ItaliaOggi dell'08.01.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Causa
facile? Dimezzato il compenso dell'avvocato.
Sì alla riduzione del 50% del compenso dovuto all'avvocato
se la prestazione professionale è di «minima complessità».
Lo ha previsto il TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, con
l'ordinanza 10.09.2012 n. 1528 riducendo a metà
il compenso professionale di un legale che difendeva un
cittadino extracomunitario ammesso al gratuito patrocinio.
Secondo i giudici del Tar Lombardia, infatti, il giudizio
aveva a oggetto una questione sulla quale, all'epoca della
proposizione del ricorso, esisteva una giurisprudenza
favorevole del tutto costante e in equivoca. E cioè la
possibilità di ottenere la cosiddetta «legalizzazione del
cittadino straniero» irregolarmente presente sul territorio
nazionale pur in presenza di una condanna per l'abolito
reato di cosiddetta clandestinità, tanto che proseguono i
giudici amministrativi esso è stato definito con sentenza di
cessata materia del contendere per essersi la pubblica
amministrazione rideterminata in via di autotutela.
In concreto, i giudici sostengono che l'avvocato abbia
lavorato poco nel difendere il cittadino extracomunitario e
questo è determinante ai fini della liquidazione.
Quest'ultima, infatti si compie avendo riguardo alla
complessità della questione come previsto dall'art. 4, comma
2, del dm giustizia 20.07.2012 n. 140, e nel caso di
sentenze di rito, ai sensi dell'art. 10 dello stesso
decreto, comporta un compenso ulteriormente ridotto del 50%.
I giudici amministrativi nelle motivazioni dell'ordinanza
rammentano che ai sensi dell'articolo 1, comma 7 , del dm n.
140/2012 «il compenso è indicativo, e può essere
diminuito al di sotto dei minimi in casi in cui, come il
presente, la causa sia di minima complessità». I giudici
amministrativi nella riduzione del compenso spettante
all'avvocato, partono dal presupposto che l'intera materia è
stata recentemente disciplinata dal dm Giustizia 20 luglio
2012 n. 140 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del
22.08.2012), che «ai sensi dell'articolo 42 entra in
vigore dal giorno successivo alla pubblicazione e ai sensi
del precedente articolo 41 si applica a tutte le
liquidazioni eseguite dopo la propria entrata in vigore».
Non solo, «ai sensi degli artt. 1 ,comma 3 e 7, del dm n.
140/2012 lo stesso è comunque applicabile in via analogica a
tutti i casi di liquidazione del compenso di professionisti,
nella specie dell'avvocato, e impone una liquidazione
onnicomprensiva, facendo quindi venir meno la pregressa
distinzione fra diritti e onorari»
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2013). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Professioni.
Il Tar Brescia sul compenso di un avvocato chiamato a
svolgere una difesa d'ufficio.
Cause ripetitive, parcella al 50%.
Parametri derogabili per fascicoli che richiedono poco
impegno.
L'INDICAZIONE/
L'onorario può essere tagliato dal giudice in caso di
contenzioso non in presenza di un patto preventivo tra
legale e cliente.
I compensi minimi per gli avvocati possono essere rivisti al
ribasso, anche al di sotto dei parametri ministeriali,
qualora l'opera professionale risulti di minima complessità.
Lo precisa il TAR Lombardia-Brescia,
Sez. I (ordinanza 10.09.2012 n. 1528), dimezzando
il compenso ad un legale che difendeva d'ufficio un
cittadino extracomunitario ammesso al gratuito patrocinio.
La pronuncia è applicabile anche all'indomani dell'entrata
in vigore della legge sulla professione forense, che dedica
l'articolo 13 ai compensi.
Nella legge professionale non vi sono limiti né minimi né
massimi alle pattuizioni tra cliente e legale, ma per gli
incarichi che non hanno un accordo iniziale o sono affidati
d'ufficio (per esempio, il gratuito patrocinio per i non
abbienti o gli incarichi conferiti dal giudice) è prevista
una tabella di riferimento.
Si tratta di parametri che ogni biennio saranno indicati dal
ministero della Giustizia: quelli attuali sono contenuti nel
Dm 20.07.2012 n. 140, e sono appunto stati derogati al
ribasso dai giudici bresciani. Per altro, il ministero della
Giustizia ha promesso una rivisitazione dei parametri, ma il
provvedimento non è ancora stato pubblicato sulla «Gazzetta
Ufficiale».
Il principio dell'inderogabilità dei minimi, secondo il Tar,
vale per le prestazioni di normale difficoltà, mentre per le
attività che sono riservate al legale, ma sono semplici e di
minimo impegno, vi può essere una specifica riduzione.
Esistono infatti prestazioni professionali esclusive degli
avvocati, delle quali non si può fare a meno per difendere
diritti: si tratta dello ius postulandi, cioè della
intermediazione tra cittadino e magistratura, non essendo
prevista l'autodifesa. In conseguenza i parametri del Dm
2012, che si applicano sia alle contestazioni tra cliente e
legale non risolvibili sulla base di un contratto, sia nel
caso del gratuito patrocinio, possono essere ulteriormente
ridotti se la lite è agevole, ripetitiva, poco impegnativa e
si giova di precedenti costanti.
Osserva infatti il giudice amministrativo, con un principio
valido anche per la magistratura civile e penale, che
l'esistenza di una giurisprudenza favorevole, costante e
inequivoca, è rilevante ai fini della liquidazione del
compenso.
Nel caso specifico, si discuteva della posizione di un
cittadino extracomunitario cui era stata negata la procedura
di legalizzazione (sanatoria) a causa della presenza di una
condanna per il reato di clandestinità.
Tuttavia, poiché il reato di clandestinità era stato già
abolito all'epoca della lite, la procedura giudiziaria sulla
sanatoria aveva avuto un percorso snello e agevole, di
minimo impegno per l'avvocato.
Di conseguenza, la liquidazione del compenso al
professionista che aveva assistito la parte ha risentito
della ridotta complessità della questione, con una riduzione
del compenso al 50 per cento.
L'Erario ha quindi sborsato mille euro (oltre le spese vive)
al legale, invece di circa 2.500 euro, minimi dovuti secondo
i parametri per una intera fase di giudizio.
Il principio posto dalla magistratura bresciana si presta a
diverse applicazioni, in tutti i casi in cui tra le parti
non vi sia un compenso predeterminato in forma scritta
(articolo 13, comma 6, dell'ordinamento professionale
legale), e non solo nei casi di liti di lieve entità.
Esistono infatti procedure che si giovano di prassi
consolidate, di cause seriali, che impegnano in modo modesto
i professionisti.
Ad esempio, ciò accade quando il giudice procede in forma
semplificata, cioè con riferimento a precedenti conformi
(secondo le istruzioni del presidente della Cassazione 22.03.2011 prt.
27), o in attuazione dell'articolo 74 del decreto
legislativo 104/2010 (per la giustizia amministrativa),
quando al stessa questione è già stata decisa in modo
conforme. In questi casi il compenso del professionista
rischia di essere ridotto in caso di contenzioso, ma solo se
il compenso non è stato determinato (in forma scritta o
orale) (articolo Il
Sole 24 Ore dell'08.01.2013). |
AGGIORNAMENTO AL 07.01.2013 |
ã |
CI ri-COPIANO !! |
Nell'aggiornamento del 15.12.2011 qui denunciavamo
l'esistenza di un sito web che copiava
spudoratamente e pedissequamente le nostre news.
Ebbene, l'anno nuovo inizia sotto i migliori auspici
visto che siamo nuovamente "punto di riferimento"
per un altro sito web i cui titolari sono a corto di
idee (e, soprattutto, di voglia di lavorare ...
profittando sulle profuse gratuite energie altrui
!!).
Va da sé -quindi- che
dobbiamo ripeterci nel dire che, a
seguito di una segnalazione pervenutaci pochi giorni
fa, abbiamo potuto verificare l'esistenza di un
(secondo) sito
web (con sede nel bergamasco e con finalità di
business) nel quale, spudoratamente e contra
legem, sono copiate/incollate "fedelmente"
molte delle nostre news, frutto della personale
elaborazione di chi opera in redazione, spacciando i
contenuti informativi come propri anziché citare la
fonte e cioè: tratto da
http://www.ptpl.altervista.org/.
Ci sembrava superfluo, ma evidentemente non lo è,
rimarcare su questo Portale le minime regole
comportamentali per chi opera nel web ... e, a questo punto,
risulta necessario farlo nuovamente:
"La riproduzione
totale o parziale dei documenti pubblicati su questo
Portale, effettuata da parte di terzi con qualsiasi
mezzo e su qualsiasi supporto idoneo alla
riproduzione e trasmissione, non è consentita
senza il consenso scritto del titolare di PTPL.
Le massime e le pre-massime nonché stralci di
sentenza sono elaborati da PTPL (se non citata altra fonte) e sono soggette
alla tutela del diritto d'autore.
Alle violazioni si applicano le sanzioni previste
dagli artt. 171, 171-bis, 171-ter, 174-bis e 174-ter
della Legge 22.04.1941 n. 633 e s.m.i.".
Pertanto,
la presente a
valere quale formale diffida (nei confronti del/i
titolare/i del suddetto sito bergamasco) a cessare da subito
la reiterazione di comportamenti non conformi alla
legge ed a rimuovere immediatamente dal proprio sito
web tutte le nostre news, nessuna esclusa, copiate
ed ivi incollate. In difetto saremo costretti adire
le vie
legali.
07.01.2013 - LA SEGRETERIA PTPL |
NOVITA' NEL
SITO |
Inseriti i nuovi bottoni:
●
dossier
MAPPE CATASTALI (valore probatorio o meno)
●
dossier PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard) |
CONVEGNI |
EDILIZIA
PRIVATA:
Si segnala n. 1 convegno gratuito
organizzato da ANCE Bergamo, itinerante nella provincia di
Bergamo, che si terrà in tre pomeriggi distinti sul tema "LA
GESTIONE DELLE TERRE E ROCCE DA SCAVO alla luce delle novità
introdotte dal D.M. 161/2012" e, precisamente il
30.01.2013
+ 06.02.2013
+ 13.02.2013.
Maggiori dettagli e la locandina/scheda di partecipazione
possono essere letti
cliccando qui. |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
INCARICHI
PROGETTUALI:
Bozza del decreto (di imminente pubblicazione
sulla G.U.) emanato dal Ministro
della giustizia di concerto con il Ministro delle Infrastrutture e dei
Trasporti che in attuazione dell’art.
9, comma 2, del decreto-legge 24.01.2012, n. 1 (convertito
dalla legge 24.03.2012, n. 27), successivamente integrato
dall’art. 5, comma 1, del decreto-legge 22.06.2012, n. 83
(convertito dalla legge 07.08.2012, n. 134) determina il
corrispettivo da porre a basa di gara per l’affidamento di
contratti di servizi attinenti all’architettura ed
all’ingegneria. |
EDILIZIA
PRIVATA: G.U.
04.01.2013 n. 3 "Regola
tecnica di prevenzione incendi per gli impianti di
protezione attiva contro l’incendio installati nelle
attività soggette ai controlli di prevenzione incendi" (Ministero
dell'Interno,
decreto 20.12.2012). |
CONSIGLIERI
COMUNALI - VARI: G.U.
04.01.2013 n. 3 "Testo unico delle disposizioni in
materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche
elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di
condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1,
comma 63, della legge 06.11.2012, n. 190"
(D.Lgs.
31.12.2012 n. 235). |
VARI: G.U.
04.01.2013 n. 3 "Norme
generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e
all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione
europea" (Legge
24.12.2012 n. 234). |
EDILIZIA
PRIVATA: G.U.
02.01.2013 n. 1 "Incentivazione della produzione di
energia termica da fonti rinnovabili ed interventi di
efficienza energetica di piccole dimensioni" (D.M.
28.12.2012).
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Rinnovabili. Il
Conto termico è in vigore.
Nuovi incentivi per i piccoli interventi di efficienza
energetica.
È stato pubblicato sul supplemento ordinario alla
Gazzetta Ufficiale del 02.01.2013 n. 1 il decreto del
ministero dello sviluppo economico 28.12.2012 recante
«Incentivazione della produzione di energia termica da fonti
rinnovabili ed interventi di efficienza energetica di
piccole dimensioni».
Con il decreto vengono incentivati i piccoli interventi per
la produzione di energia termica da fonti rinnovabili (quali
pompe di calore, scaldacqua, solare termico e generatori di
calore a biomassa).
L'accesso agli incentivi per l'efficienza energetica
(articolo 4, comma 1) è rivolto ai soggetti pubblici; invece
per le rinnovabili termiche (articolo 4, comma 2) è
riconosciuto ai soggetti pubblici (inclusi per la prima
volta istituto autonomo case popolari) e anche ai privati
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2013). |
APPALTI: G.U.
21.12.2012 n. 297 "Regole procedurali di carattere
tecnico operativo per l’attuazione della consultazione
diretta del Sistema Informativo del Casellario da parte
delle amministrazioni pubbliche e dei gestori di pubblici
servizi, ai sensi dell’articolo 39 del decreto del
Presidente della Repubblica 14.11.2002, n. 313"
(Ministero della Giustizia,
decreto 05.12.2012). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA
PRIVATA: L.
Spallino,
L.R. Lombardia 12/2005: le modifiche del collegato
ordinamentale 2013
(link a www.studiospallino.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
F. Valente,
BREVI RIFLESSIONI IN ORDINE ALLA FORMAZIONE DEL
SILENZIO-ACCOGLIMENTO IN TEMA DI CONDONO EDILIZIO
(Gazzetta Amministrativa n. 3/2012). |
APPALTI SERVIZI:
M. Mignanelli,
LA SORTE DELL’“IN HOUSE PROVIDING” NEI SERVIZI PUBBLICI
LOCALI A RILEVANZA ECONOMICA IN ATTESA DEL REFERENDUM
ABROGATIVO DELL’ART. 23 BIS L. 133/08 E SS.MM.II.
(Gazzetta Amministrativa n. 3/2012). |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
LAVORI PUBBLICI: Lavori
pubblici. Il caso M4 a Milano. Si può rivedere il costo di
un'opera anche dopo la gara.
DELIBERA DELL'AUTORITÀ/ Corretto chiedere un aumento del 20%
perché qualunque impresa si sarebbe trovata nelle stesse
condizioni.
Rivedere in corsa l'architettura
finanziaria di un'opera da pagare con fondi pubblici e
privati è possibile, anche dopo l'aggiudicazione della gara.
Anzi, è opportuno farlo, se questo serve a centrare
l'obiettivo più importante: arrivare in fondo, evitando di
lasciare l'infrastruttura a metà.
È questo lo spirito che anima la
deliberazione 20.12.2012 n. 105
dell'Autorità di vigilanza sui contratti
pubblici, che sarà pubblicata la prossima settimana. Aprendo
la strada a revisioni simili anche per altri casi.
La pronuncia prende le mosse da una delle opere più
travagliate degli ultimi anni: la linea 4 della
metropolitana di Milano. Un collegamento, inserito nel
dossier dell'Expo, che dovrà unire l'aeroporto di Linate con
via Lorenteggio e che, secondo il progetto preliminare,
sarebbe dovuto costare circa 1,7 miliardi di euro, da
coprire con poco più di 500 milioni di euro di risorse
private e, per il resto, con denaro pubblico. Il
condizionale è d'obbligo, perché il consorzio guidato da
Impregilo e Astaldi, che ha vinto la gara, ha presentato al
Comune di Milano un progetto definitivo che sfora di circa
il 20% la previsione iniziale.
Lo stallo che ne è seguito ha indotto il sindaco del
capoluogo lombardo, Giuliano Pisapia a prendere carta e
penna per scrivere all'Authority: «Ci è stato chiesto di
tracciare una strada da percorrere, senza il rischio di
incorrere in vizi di legittimità», spiega il presidente
dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, Sergio
Santoro. A quella lettera ha fatto seguito un'indagine e,
dopo settimane di approfondimenti, la delibera appena
licenziata.
Lo stesso Santoro la sintetizza così: «Nel tirare le
somme dell'ispezione abbiamo enucleato un principio, la
rivedibilità del piano economico e finanziario, che non deve
più essere un feticcio ma un documento al quale è possibile
rimettere mano». A condizione, però, che i motivi che
hanno portato all'aumento dei costi, nel quadro del
partenariato pubblico privato, non siano imputabili
all'impresa che si è aggiudicata la gara. «Nel caso in
esame, questo 20% in più -dice ancora Santoro- non altera la
"par condicio" tra i partecipanti alla gara, perché chiunque
si sarebbe trovato nella stessa situazione». Il piano
vincola le parti alle condizioni originarie, se poi le
condizioni cambiano è necessario adeguarsi. «Tutelando
così l'interesse dell'Erario e quello generale, perché
esiste il rischio che l'opera non venga completata».
Il caso di Milano apre una strada, perché in diversi
passaggi della convenzione di concessione viene prevista la
possibilità di rivedere il piano. «Secondo la nostra
interpretazione -prosegue il presidente- non è però
necessario che ci sia un'esplicita previsione contrattuale,
perché questo principio è essenziale per il mantenimento
dell'equilibrio delle prestazioni delle parti, anche al di
fuori di quelle che sono state le pattuizioni. D'altronde,
sono molte le infrastrutture che avrebbero potuto trarre
giovamento dall'applicazione di questo principio».
Il riferimento, nemmeno tanto velato, è alla metro C di
Roma, che ha da sempre vissuto i suoi travagli maggiori
proprio a causa di problemi legati alla sostenibilità
finanziaria. «Per questo -sottolinea Santoro- la
rivedibilità del piano economico finanziario orienterà la
nostra attività futura. Ne terremo certamente conto in fase
di preparazione dei contratti tipo». Si tratta di schemi
di contratti pubblici che l'Autorità si appresta a preparare
per le amministrazioni.
Tornando alla M4, comunque, la delibera ribadisce che,
principi generali a parte, non si può più perdere tempo: «Le
disfunzioni prodottesi dopo l'aggiudicazione -si legge- sono
state in ultimo contenute dall'amministrazione comunale di
Milano con il differimento di concludere il closing
finanziario entro il termine del maggio 2013, termine
ritenuto idoneo a salvaguardare il raggiungimento del
rilevante obiettivo Expo 2015». A conti fatti, allora,
restano grossomodo quattro mesi per chiudere la partita.
Oltre non sarà possibile andare
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.01.2013). |
QUESITI &
PARERI |
COMPETENZE
GESTIONALI:
Attribuzione di funzioni gestionali ai componenti dell'organo
esecutivo ai sensi dell'art. 53, comma 23, della l. 388/2000.
Sembra che le innovazioni apportate agli
artt. 49, 147 e 147-bis, del TUEL, che hanno introdotto un
nuovo sistema di controllo e verifica della correttezza
dell'azione amministrativa, non influiscano, allo stato
attuale, sulla possibilità prevista dall'art. 53, comma 23,
della l. 388/2000.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di
attribuire a membri dell'esecutivo la responsabilità di
uffici o servizi, anche con riferimento alle nuove
incombenze previste dall'art. 3 del d.l. 174 del 2012, in
particolare, in relazione ai controlli preventivi di
regolarità amministrativa e contabile nonché ai controlli
successivi previsti dall'art. 147-bis del d.lgs. 267/2000.
Com'è noto, il citato decreto legge è intervenuto
recentemente introducendo alcune modifiche al d.lgs.
267/2000.
Ai fini che ci interessano si segnala la sostituzione
dell'art. 49 del TUEL (Pareri dei responsabili dei servizi)
che, al comma 1, prevede che, su ogni proposta di
deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non
sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere,
in ordine alla sola regolarità tecnica, del responsabile del
servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti o
indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul
patrimonio dell'ente, del responsabile di ragioneria in
ordine alla regolarità contabile. I pareri sono inseriti
nella deliberazione. Il comma 2 precisa che, nel caso in cui
l'ente non abbia i responsabili dei servizi, il parere è
espresso dal segretario dell'ente, in relazione alle sue
competenze.
Inoltre l'art. 147, come novellato, dispone che gli enti
locali, nell'ambito della loro autonomia normativa e
organizzativa, individuano strumenti e metodologie per
garantire, attraverso il controllo di regolarità
amministrativa e contabile, la legittimità, la regolarità e
la correttezza dell'azione amministrativa, disciplinando un
efficace sistema di controlli interni.
L'art. 147-bis, comma 1, prevede altresì che il controllo di
regolarità amministrativa e contabile è assicurato, nella
fase preventiva della formazione dell'atto, da ogni
responsabile di servizio ed è esercitato attraverso il
rilascio del parere di regolarità tecnica attestante la
regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa. E'
inoltre effettuato dal responsabile del servizio finanziario
ed è esercitato attraverso il rilascio del parere di
regolarità contabile e del visto attestante la copertura
finanziaria.
Il successivo comma 2 specifica che il controllo di
regolarità amministrativa e contabile è inoltre assicurato,
nella fase successiva, secondo principi generali di
revisione aziendale e modalità definite nell'ambito
dell'autonomia organizzativa dell'ente, sotto la direzione
del segretario, in base alla normativa vigente. Sono
soggette al controllo le determinazioni di impegno di spesa,
gli atti di accertamento di entrata, gli atti di
liquidazione di spesa, i contratti e gli altri atti
amministrativi, scelti secondo una selezione casuale
effettuata con motivate tecniche di campionamento.
Il comma 3 infine dispone che le risultanze del predetto
controllo successivo siano trasmesse periodicamente, a cura
del segretario, ai responsabili dei servizi, ai revisori dei
conti e agli organi di valutazione dei risultati dei
dipendenti, come documenti utili per la valutazione, e al
consiglio comunale.
L'art. 53, comma 23, della l. 388/2000 consente ai comuni
con popolazione inferiore ai cinquemila abitanti di
stabilire, anche al fine di operare un contenimento della
spesa, disposizioni regolamentari organizzative che
attribuiscono ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti di natura tecnica gestionale, in deroga alle
disposizioni sulla separazione tra le funzioni di indirizzo
e di controllo politico amministrativo, proprie degli organi
di governo, e le funzioni di gestione amministrativa,
finanziaria e tecnica, di competenza degli organi
burocratici.
Come già evidenziato dallo scrivente Ufficio, in relazione
al rilascio dei pareri di cui all'art. 49 del TUEL,[1] una
volta individuati i responsabili dei servizi nei membri
della giunta, ai medesimi compete l'espressione dei predetti
pareri, considerato che il comma 1 del citato articolo
conferisce espressamente tale funzione al soggetto
responsabile del servizio, il quale è individuabile
ordinariamente nel dirigente o nel titolare di posizione
organizzativa, oppure, in caso di applicazione della
disposizione di cui all'art. 53, comma 23, della l.
388/2000, in un componente della giunta.
In questo caso le competenze gestionali ed i conseguenti
atti, anche se in via derogatoria rispetto al generale
principio di separazione delle funzioni, sono attribuiti ai
singoli componenti dell'esecutivo, con la conseguenza che
ogni provvedimento (determinazione) deve seguire lo stesso
procedimento che normalmente si attua per gli atti adottati
dai responsabili dei servizi, dipendenti dell'ente, compresi
i pareri di regolarità amministrativa/contabile, non
rilevando, a tal fine, il fatto che tali funzioni sono
svolte da un amministratore.
Infatti, gli atti assunti dall'amministratore quale
responsabile di un servizio sono a tutti gli effetti
equiparati a quelli che assume qualsiasi dipendente cui sia
stata attribuita la responsabilità gestionale[2].
Premesso un tanto e preso atto del nuovo sistema di
controllo e verifica della correttezza dell'azione
amministrativa introdotto dal legislatore, ferme restando le
autonome valutazioni dell'Ente, le predette innovazioni non
sembrano influire, allo stato attuale, sulla possibilità
prevista dall'art. 53, comma 23, della l. 388/2000.
---------------
[1] Cfr. nota n. prot. 17979/1.3.16 del 19.11.2008.
[2] Cfr. parere ANCI del 29.01.2002 (15.11.2012 -
link a www.regione.fvg.it). |
CORTE DEI
CONTI |
INCARICHI
PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Corte
dei conti. Liquidazione di compensi.
Il pagamento errato condanna i segretari.
OBBLIGHI CONDIVISI/ Anche il responsabile del servizio
finanziario è tenuto a vigilare sulla correttezza degli atti
per versare gli onorari.
Particolare attenzione va prestata alla liquidazione di
corrispettivi professionali (parcelle legali) con un
rigoroso controllo che, coinvolgendo il responsabile di
servizio che adotta la liquidazione e il responsabile del
servizio finanziario, eviti di liquidare compensi non dovuti
sulla base di semplici preavvisi di fatture presentate dal
professionista e in assenza di documentazione idonea a
giustificare la misura del compenso richiesto.
La
sentenza
14.12.2012 n. 1125 della sezione Corte dei Conti Veneto
chiarisce il ruolo di garante in capo al segretario comunale
e al ragioniere, e articola le responsabilità per omissione
di controllo cui vanno incontro il responsabile di servizio
(nella fattispecie era anche segretario comunale) che ha
disposto la liquidazione dei compensi, e il responsabile del
servizio finanziario che ha apposto il visto di regolarità
contabile.
La responsabilità del responsabile di servizio/segretario
comunale che ha adottato l'atto discende dalla mancata
verifica della congruità del compenso riconosciuto, e dal
contrasto con il generale dovere, conseguente alla sua
posizione di segretario generale (articolo 97 del Dlgs
267/2000) di essere garante della legalità e della
correttezza amministrativa dell'azione del l'ente locale. In
relazione al ruolo del segretario comunale/responsabile di
servizio si è riconosciuta una maggiore incidenza causale
nella determinazione del danno, quantificabile nella misura
del 60% dell'intero. Il restante 40% è stato addebitato al
concorso colposo del ragioniere capo perché le circostanze
non giustificavano l'emissione dei titoli di pagamento e che
avrebbero dovuto determinare almeno la richiesta di
giustificazioni idonee.
Nell'affermare la responsabilità del ragioniere per il visto
sull'atto irregolare, la Corte evidenzia che non c'è una
differenza ontologica tra il parere di regolarità contabile,
previsto per le deliberazioni degli organi rappresentativi,
e il visto per le determinazioni dei responsabili dei
servizi; il controllo di regolarità finanziaria deve essere
ritenuto afferente alla legittimità della spesa, implicando
un giudizio sulla sua conformità alle leggi e ai regolamenti
(Corte conti, sezione giurisdizionale Sicilia, n.
1337/2012).
A fronte di compensi liquidati sulla base di determinazioni
illegittimamente assunte, c'è per il dirigente del settore
finanziario il dovere di sospendere i pagamenti illegittimi,
ed eventuali esoneri di responsabilità sono possibili solo
in esito a un'analisi complessiva delle particolari
circostanze del caso deciso e della non rilevabilità
immediata delle illegittimità accertate.
Nel caso affrontato dalla sentenza, invece, si è rilevato
che l'anomalia delle liquidazioni effettuate dal
responsabile del servizio poteva essere facilmente rilevata
dal ragioniere capo
(articolo Il Sole 24 Ore del
31.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Progressioni
riconosciute. Senza aumenti di stipendio.
Per il pubblico impiego, anche le progressioni economiche
orizzontali, vale a dire i passaggi economici all'interno
delle categorie di appartenenza, soggiacciono alle
disposizioni contenute all'articolo 9, comma 21, della
manovra del 2010 (il dl n. 78/2010). Questo significa che
per tali progressioni, i miglioramenti eventualmente
conseguiti dai dipendenti non possono che essere
riconosciuti ai soli fini giuridici, dovendosi escludere
qualsiasi effetto economico.
È quanto hanno messo nero su bianco le Sezioni riunite della
Corte dei conti, nel testo della
deliberazione 24.10.2012 n. 27, in merito alla
portata applicativa delle disposizioni contenute al citato
articolo 9 del dl n. 78/2010.
Come noto, nell'ottica di un perseguimento di obiettivi di
contenimento della spesa pubblica mediante la
razionalizzazione e la riduzione della spesa del personale
della p.a., la norma richiamata dispone che le progressioni
di carriera «comunque denominate» eventualmente disposte nel
2011, 2012 e 2013, avranno effetto ai soli fini giuridici.
Ora, la questione sottoposta al collegio della magistratura
contabile è quella di considerare o meno le progressioni
economiche orizzontali ex art. 23 del dlgs n. 150/2009 (la
riforma c.d. Brunetta del pubblico impiego) nella più
generale locuzione «progressioni di carriera comunque
denominate» utilizzata dal legislatore. La querelle deve
essere vista sotto l'ottica di contenere le spese di
personale.
Un obiettivo, si ammette, cui devono concorrere
tutti, anche gli enti locali, siano essi sottoposti o meno
al Patto di stabilità interno. La norma ex art. 9, comma 21,
del dl n. 78/2010 risponde alla logica di contenere la
dinamica retributiva del pubblico impiego per il triennio
2011-2013, dettando una disciplina che, dice la Corte, non
ammette deroghe, anche per l'eccezionalità della crisi
finanziaria che avvolge l'intero ciclo economico.
In
conclusione, le disposizioni richiamate si intendono valide
anche per le progressioni orizzontali (o passaggi economici
tra le aree), dovendosi rilevare, anche nell'ottica di una
generale cristallizzazione stipendiale ai valori del 2010,
che ogni variazione di inquadramento del dipendente potrà
produrre effetti solo sul suo status giuridico, ma non sul
suo trattamento economico
(articolo ItaliaOggi del 05.01.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
NEWS |
EDILIZIA
PRIVATA: Niente
spazi al pubblico niente antincendi. Palco all'aperto senza
vincoli.
La presenza di un palco allestito per una manifestazione è
ininfluente. Perché se non c'è uno spazio delimitato per il
pubblico, lo spettacolo o il trattenimento che si svolge
all'aperto non è assoggettato alla regola tecnica di
prevenzione incendi del ministero dell'interno del 19.08.1996.
La novità fa seguito al dm del 18.12.2012 (G.U. n. 301 del
28/12/2012), entrato in vigore il giorno successivo alla sua
pubblicazione, che ha eliminato dal testo originario della
disciplina in materia di sicurezza, ogni riferimento
all'altezza del palco che, se superiore a 80 centimetri,
faceva automaticamente assoggettare la manifestazione agli
obblighi previsti per la progettazione, costruzione ed
esercizio dei locali di intrattenimento e di pubblico
spettacolo contenuti nel sopraindicato dm del 1996.
Ciò non
toglie, comunque, precisa l'ultimo inciso dell'articolo 1
del decreto in questione, che vanno, comunque, rispettate le
prescrizioni previste dal Titolo IX della regola tecnica,
ovvero quelle che impongono, in ogni caso, per i luoghi e
spazi all'aperto, utilizzati occasionalmente ed esclusi dal
campo di applicazione del decreto in quanto privi di
specifiche attrezzature per lo stazionamento del pubblico di
presentare al comune competente la documentazione relativa
alla idoneità statica delle strutture allestite e la
dichiarazione d'esecuzione a regola d'arte degli impianti
elettrici installati, a firma di tecnici abilitati, nonché
l'approntamento e l'idoneità dei mezzi antincendio
(articolo ItaliaOggi del 05.01.2013). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Enti,
sospesa la riduzione del personale.
Manca il decreto sulla «virtuosità» di Comuni e Province -
Attesa anche per Interni e Esteri.
IN RITARDO ALTRI DUE DPCM/ Mancano all'appello due atti per
i tagli in Inps, Enac e gli enti parco: si stimano eccedenze
complessive per 7.416 addetti.
Non c'è solo l'attesa per il via libera del ministero
dell'Economia al Dpcm sui primi 4.028 esuberi di una parte
della Pa centrale tra le incognite della spending review.
Sul fronte dei tagli alle dotazioni organiche, infatti, il
vero e proprio vuoto procedurale s'è aperto per gli enti
locali, che nel loro assieme occupano circa 600mila
dipendenti. L'articolo 2 del dl 95 prevedeva infatti il varo
di un decreto interministeriale (Economia, Interno e
ministero della Pa) sulla cosiddetta «virtuosità» di
questi enti in base a precisi parametri. In particolare si
prevedevano due soglie da rispettare nella costruzione di un
indicatore basato sul rapporto tra dipendenti e popolazione
residente. In caso di superamento dell'indicatore-soglia del
40% sarebbero scattati i tagli al personale in servizio per
scendere a quota 20%, un livello gestibile con il semplice
blocco totale delle assunzioni.
Il decreto non è stato ancora fatto e l'apertura formale
della crisi potrebbe averne ipotecato definitivamente i
destini, anche se si tratta di un provvedimento attuativo e,
quindi, suscettibile di rientrare nell'ordinaria
amministrazione. Tra l'altro su quel provvedimento mancato
pesa anche lo stop al riordino delle province. Per non
parlare del tipo di intervento da effettuare sul personale
delle società controllate dagli enti. Ma il fatto è che
senza quel decreto la spending review su questa parte
significativa di dipendenti pubblici per il momento è ferma.
Tornando alle amministrazioni centrali, sono attesi altri
due Dpcm oltre a quello citato e che la Funzione pubblica ha
trasmesso all'Economia il 13 novembre scorso. In essi si
dovranno definire i criteri di intervento sul personale di
Inps, Enac e 24 enti parco nazionali sempre partendo dai
riferimenti base di un taglio del 20% sugli organici
dirigenziali e del 10% sul resto del personale. Secondo
stime della Ragioneria si salirebbe, con questi ulteriori
atti, da 4.028 a 7.416 eccedenze assolute. Un dato che
corrisponde al 6,1% del personale non dirigenziale presente
in servizio nelle amministrazioni in questione (120.989).
Per altre amministrazioni come l'Economia, le Agenzie
fiscali (che quest'anno devono anche realizzare il previsto
accorpamento) o l'Ice sono previsti interventi diversi di
rideterminazione degli organici, mentre i ministeri degli
Esteri, dell'Interno e della Giustizia devono ancora
presentare le proprie ipotesi di tagli alla Funzione
Pubblica. Quando saranno noti i numeri di questi ultimi
soggetti si capirà quanto il dato definitivo delle eccedenze
sarà vicino alle 11mila che erano state stimate per le
amministrazioni centrali l'estate scorsa, al momento del
varo della spending review.
Se questo «cantiere» non si fermerà per via delle elezioni
il cronoprogramma per la gestione delle eccedenze anche con
la compensazione tra diverse amministrazioni prevede il via
alla mobilità volontaria entro il 31 marzo prossimo e dei
contratti di solidarietà entro fine maggio, mentre a fine
giugno dovranno essere definiti i criteri per la
dichiarazione di esubero effettivo del personale in
soprannumero. Per i pensionamenti e i prepensionamenti c'è
invece tempo fino alla fine del 2014.
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CRONOPROGRAMMA
Dicembre 2012
Tutte le amministrazioni avrebbero dovuto individuare il
personale in soprannumero non riassorbibile entro i prossimi
2 anni al netto dei pensionamenti e dei prepensionamenti
Marzo 2013
Avvio dei processi di mobilità guidata con un Dpcm
Maggio 2013
Criteri di sottoscrizione dei contratti di solidarietà del
personale non ricollocato in mobilità guidata e
individuazione del personale da collocare in part-time
Giugno 2013
Dichiarazione degli esuberi effettivi del rimanente
personale in soprannumero con il coordinamento della
Funzione Pubblica
(articolo Il
Sole 24 Ore del 05.01.2013
- tratto da www.ecostampa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Enti,
i tagli possono attendere.
Non c'è traccia del dpcm con i parametri per gli organici.
Entro il 31/12 la Funzione pubblica avrebbe
dovuto fissare i criteri per ridurre il personale.
Il 31.12.2012 è passato e, come c'era da aspettarsi,
il decreto del presidente del consiglio necessario per
determinare eventuali esuberi di personale nelle
amministrazioni locali non è stato emanato.
Come si ricorderà, la «spending review», il dl 95/2012,
convertito in legge 135/2012, ha fissato criteri generali
per individuare personale eccedente nelle pubbliche
amministrazioni, riservando, però, un sistema particolare
per gli enti locali, in considerazione della loro autonomia
costituzionalmente garantita.
Sicché, l'articolo 16, comma 8, della legge 135/2012 demanda
al dpcm il compito di fissare «i parametri di virtuosità per
la determinazione delle dotazioni organiche degli enti
locali, tenendo prioritariamente conto del rapporto tra
dipendenti e popolazione residente».
Il decreto dovrebbe stabilire la media nazionale del
personale in servizio presso gli enti, considerando anche le
unità di personale in servizio presso le società
partecipate.
Una volta entrato in vigore il dpcm «gli enti che risultino
collocati a un livello superiore del 20% rispetto alla media
non possono effettuare assunzioni a qualsiasi titolo; gli
enti che risultino collocati ad un livello superiore del 40%
rispetto alla media applicano le misure di gestione delle
eventuali situazioni di soprannumero di cui all'articolo 2,
comma 11, e seguenti» della stessa legge 135/2012.
Un po' per le vicende politiche che hanno investito il
governo, un po' perché il termine del 31.12.2012 per
emanare il decreto appariva di per sé poco credibile, si
apre il 2013 senza che i parametri necessari alla
determinazione degli esuberi in comuni e province abbia
visto la luce.
Una traccia del provvedimento si trova nel documento
consuntivo dell'attività dell'esecutivo, pubblicato sul sito
del governo.
Nell'allegato dedicato all'attività della Funzione pubblica,
si legge: «Per la ridefinizione delle dotazioni organiche
degli enti locali, è in via di predisposizione (competenza
prevalente Mef e Fp) il decreto che indichi l'indice di
virtuosità di riferimento, rispetto al quale le
amministrazioni che se ne discostino, a seconda della
misura, saranno tenute o al mero blocco delle assunzioni o
alla riduzione delle dotazioni con il metodo adottato per lo
stato».
Dunque, stando a quanto scrive il governo stesso, il decreto
non è ancora nemmeno stato predisposto dal ministero che
fino alle elezioni sarà guidato, per il disbrigo
dell'ordinaria amministrazione, da Filippo Patroni Griffi.
La strada per l'emanazione appare ancora lunga, dal momento
che occorre anche ottenere il concerto della Conferenza
stato-città e autonomie locali.
L'urgenza di provvedere, stante il rinvio del riordino delle
province che, se attuato, avrebbe reso indispensabile il
dpcm, non si riscontra, anche se mancando i parametri per
gli oltre 8 mila enti locali, una parte importante dei
possibili risparmi sulle spese del personale vengono a
mancare
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI: Contratti della p.a. solo in formato elettronico.
Il decreto crescita manda in
soffitta gli atti cartacei.
Contratti della pubblica amministrazione solo informatici.
Il decreto sviluppo-bis, il dl 179/2012, convertito in legge
221/2012 ha modificato l'articolo 11, comma 13, del codice
dei contratti pubblici, nel seguente nuovo testo: «Il
contratto è stipulato, a pena di nullità, con atto pubblico
notarile informatico, ovvero, in modalità elettronica
secondo le norme vigenti per ciascuna stazione appaltante,
in forma pubblica amministrativa a cura dell'Ufficiale
rogante dell'amministrazione aggiudicatrice o mediante
scrittura privata».
Non vi sono dubbi sulla volontà del legislatore che i
contratti si stipulino esclusivamente in forma elettronica e
non cartacea. Almeno, quando siano stipulati per atto
pubblico notarile o in forma pubblica amministrativa, con
l'intervento dell'ufficiale rogante pubblico, che nel caso
degli enti locali è il segretario comunale e provinciale.
La perentorietà della norma è tale da imporre alle
amministrazioni pubbliche l'urgente dotazione di sistemi di
sottoscrizione mediante firma digitale, nel rispetto delle
modalità di stipula elettronica, come fissate dal dlgs
110/2010.
La firma digitale è imposta necessariamente all'ufficiale
rogante, non per le parti che possono ancora utilizzare
anche una firma elettronica non qualificata e, al limite,
apporre una sottoscrizione autografa, acquisita tramite
scanner al documento elettronico: la minore affidabilità
della firma elettronica non qualificata o dell'immagine
della sottoscrizione autografa è compensata
dall'attestazione che l'ufficiale rogante compie delle
operazioni di sottoscrizione effettuate in sua presenza. La
sottoscrizione digitale dell'ufficiale rogante, da apporre
in calce al documento, attribuisce allo stesso la garanzia
di autenticità delle sottoscrizioni.
Il legislatore impone la sottoscrizione elettronica dei
contratti pubblici, ma non ha previsto un obbligo, che
invece sarebbe apparso opportuno, per le aziende di dotarsi
della firma digitale.
Per questa ragione, lascia un margine di disciplina interna,
ai fini della regolamentazione della firma elettronica, che
appare comunque opportuno non distaccare troppo dalle
indicazioni contenute nel dlgs 110/2010.
Il problema si pone, in particolare, per la sottoscrizione
dei contratti mediante scrittura privata non autenticata.
La lettura del nuovo comma 13 dell'articolo 11 è ambigua.
Esso potrebbe essere inteso nel senso che la scrittura
privata non autenticata viva di vita propria e non sia
soggette alla forma elettronica.
Considerando che i privati che intervengono nella
stipulazione dei contratti non sono obbligati ad essere
dotati della firma digitale, l'interpretazione secondo la
quale le scritture private non autenticate possano ancora
stipularsi in forma cartacea appare corretta. Infatti,
mancando un ufficiale rogante che rediga il contratto in
forma elettronica, compiendo le operazioni che garantiscano
la riconducibilità delle sottoscrizioni all'identità delle
parti costituite nel contratto, il sistema della
sottoscrizione del contratto in forma elettronica non sembra
possa funzionare.
Le scritture private non autenticate potrebbero avere la
forma elettronica (che comunque non è certo vietata) solo
laddove l'appaltatore fosse dotato della firma digitale.
Altrimenti si potrebbe pensare a sistemi complessi, come lo
scambio di lettere secondo gli usi commerciali, mediante
posta elettronica certificata, il che richiede comunque che
l'imprenditore disponga a sua volta di una casella di Pec.
O, ancora, l'apertura di spazi nei portali, dedicati alla
sottoscrizione della scrittura privata, nei quali
l'imprenditore si autentichi con una user id e password
fornite dall'ente, inserendo un codice numerico al quale
accede autenticandosi con la user id e la password, salvando
copia del documento, dotato del codice ed accompagnato con
una copia del documento di identità.
L'obbligo imposto dalla norma consiglia, comunque, di
ricorrere il più possibile al mercato elettronico della
Consip, poiché gli acquisti vengono conclusi mediante
contratti o ordini elettronici, in forma di scrittura
privata non autenticata, sottoscritti mediante firma
digitale
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: Patto, debuttano i mini-enti.
Bilanci, obiettivi, monitoraggio. Raffica di adempimenti.
Tutte le novità contabili a cui
andranno incontro i piccoli comuni a partire dal 2013.
Nel 2013 anche i comuni fra 1.001 e 5.000 abitanti dovranno
fare i conti con il Patto di stabilità interno. La legge di
stabilità (legge 228/2012) ha confermato, infatti, il loro
pieno assoggettamento ai vincoli di finanza pubblica,
limitandosi a prevedere un piccolo sconto sull'obiettivo per
l'anno in corso. È opportuno ricordare che la determinazione
della popolazione di riferimento va effettuata considerando
i residenti alla fine del penultimo anno precedente, sulla
base dei dati Istat (art. 156 del Tuel): quindi, per il
2013, si considera il 2011.
Poiché tali enti, di fatto, sono sempre stati esclusi dal
Patto, è utile riepilogare sinteticamente i principali
adempimenti (e le relative scadenze) ad esso connessi. Il
primo è legato al bilancio di previsione, che, dopo la
proroga concessa dalla legge di stabilità, dovrà essere
approvato entro il 30 giugno (salvo ulteriori slittamenti).
Al preventivo dovrà essere allegato il consueto prospetto
contenente le previsioni di competenza e di cassa degli
aggregati rilevanti ai fini del Patto, che devono risultare
in linea con gli obiettivi per tutto il triennio 2013-2015.
Non sarà sufficiente un mero aggiornamento del prospetto
allegato al bilancio 2012, perché la legge 228 ha modificato
le regole di determinazione degli obiettivi. Ora la base di
calcolo è rappresentata dalla spesa corrente media
registrata in termini di competenza (impegni) nel triennio
2007-2009.
Sono cambiati anche i coefficienti minimo e massimo, che per
il 2013 risultano differenziati a seconda della dimensione
demografica del comune: per quelli sotto i 5.000 abitanti,
la forchetta è compresa fra il 12% ed il 13%, mentre per gli
altri fra il 14,8 e il 15,8%, valori, questi ultimi, che dal
2014 varranno per tutti senza distinzioni. Dove si
collocherà l'asticella si saprà quando saranno individuati
gli enti virtuosi, che avranno, invece, un saldo obiettivo
pari a 0.
Sarà un decreto del Mef a operare la scelta dei virtuosi ed
a fissare il coefficiente per gli altri. Lo scorso anno,
tale provvedimento è arrivato in G.U. solo ad agosto, quindi
è possibile che molti enti approvino il bilancio prima di
conoscere la loro «pagella». In tal caso, occorre
prudenzialmente considerarsi non virtuosi ed applicare i
coefficienti massimi, apportando poi successivamente le
eventuali variazioni.
Gli obiettivi devono essere calcolati dagli enti e
comunicati al Mef entro 45 giorni dalla pubblicazione del
decreto che approva il relativo prospetto dimostrativo (tale
provvedimento di solito arriva a luglio). La mancata,
tempestiva trasmissione costituisce inadempimento al Patto.
Lo stesso o un altro decreto di via XX Settembre (anch'esso
di solito adottato prima della pausa estiva) definisce
termini e modalità per il monitoraggio semestrale, che va
effettuato entro 30 giorni dalla fine del periodo di
riferimento o (per il primo semestre) dalla pubblicazione
del decreto. Il monitoraggio si effettua solo online
(http://pattostabilitainterno.tesoro.it/Patto/): è quindi
importante che gli enti che non lo avessero ancora fatto si
accreditino alla relativa procedura.
Per la certificazione finale, invece, il termine è il 31
marzo dell'anno successivo: in tal caso, il prospetto
scaricato dalla procedura va trasmesso con raccomandata a/r.
In caso di inadempimento, scattano le sanzioni previste per
chi non rispetta il Patto (taglio alle spettanze, divieto di
indebitamento, tetto agli impegni di spesa corrente, blocco
delle assunzioni, decurtazione delle indennità degli
amministratori), a meno che l'invio tardivo (in ultima
istanza, da parte dell'organo di revisione nella veste di
commissario ad acta) dimostri che i targets sono stati
comunque centrati (in tal caso, si applica solo il blocco
delle assunzioni). La certificazione va rettificata e
sostituita con una nuova entro 60 giorni al termine
stabilito per l'approvazione del rendiconto se si rileva un
peggioramento del saldo.
Particolarmente importanti le scadenze legate al Patto
regionalizzato. Oltre a segnarsi quelle autunnali (15
settembre per le richieste relative al Patto verticale, 15
ottobre per quelle sul Patto orizzontale), i comuni dovranno
tenere d'occhio i bollettini ufficiali (ed i siti) della
rispettiva regione anche in primavera. Entro il prossimo 31
maggio, infatti, dovrà essere definito il riparto del Patto
incentivato (riproposto dalla legge 228 anche per il 2013) e
quindi occorrerà anticipare le richieste secondo le modalità
e la tempistica stabilite dai governatori.
Per il Patto orizzontale nazionale, invece, le richieste
devono pervenire al Mef entro il 15 luglio, mentre la
rimodulazione degli obiettivi sarà disposta entro il 5
ottobre.
Infine, occorre ricordare che il Patto non si applica alle
unioni «classiche» (art. 32 del Tuel), mentre quelle
«speciali» (art. 16 del dl 138/2011) entreranno solo dal
2014. In teoria, sono soggette, invece, aziende speciali ed
istituzioni (escluse quelle che gestiscono servizi
socio-assistenziali ed educativi, culturali e farmacie),
nonché le società in house affidatarie dirette di servizi
pubblici locali o strumentali. Ma la relativa disciplina non
è ancora stata scritta
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Mozioni, consigli sovrani. È l'assemblea a
decidere sull'ammissibilità. Il
Testo unico tutela il diritto di iniziativa politica dei
componenti.
Sussiste l'obbligo di inserire nuovamente nell'ordine del
giorno del consiglio comunale una mozione, presentata da un
gruppo consiliare, già oggetto di discussione in una
precedente seduta che si è conclusa con una dichiarazione di
abbandono dell'aula da parte dei consiglieri di maggioranza
ed il conseguente scioglimento della seduta per mancanza del
numero legale?
L'art. 43, comma 1, del dlgs n. 267/2000 riconosce ai «consiglieri
comunali e provinciali» il diritto di iniziativa su ogni
questione sottoposta alla deliberazione del consiglio,
stabilendo che «hanno inoltre il diritto di chiedere la
convocazione del consiglio secondo le modalità dettate
dall'art. 39, comma 2, e di presentare interrogazioni e
mozioni».
La dottrina definisce le «mozioni» quali atti
approvati dal Consiglio per esercitare un'azione di
indirizzo, esprimere posizioni e giudizi su determinate
questioni, organizzare la propria attività, disciplinare
procedure e stabilire adempimenti dell'amministrazione nei
confronti del Consiglio.
Il Tar Puglia –sezione di Lecce– I sez., sentenza n.
1022/2004, individua la mozione quale «istituto a
contenuto non specificato trattandosi di un potere a tutela
della minoranza per situazioni non predefinibili, a
differenza di altri strumenti più a valenza di mera
conoscenza (quali l'interrogazione o la interpellanza),
essendo strumento di introduzione ad un dibattito che si
conclude con un voto che è ragione ed effetto proprio della
mozione».
Alla luce della dottrina e della giurisprudenza segnalata, a
differenza dell'interrogazione e dell'interpellanza a cui
rispondono il sindaco e la giunta, la mozione è diretta al
consiglio comunale –il cui funzionamento, nel quadro dei
principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal
regolamento (art. 38 del dlgs n. 267/2000)– che deve
esprimersi nelle forme della deliberazione, rappresentando
l'istituto una forma di controllo politico-amministrativo di
cui all'art. 42, comma 1, del dlgs n. 267/2000.
Pertanto, sulla base dell'ordine del giorno fissato, ogni
questione di ammissibilità alla discussione degli argomenti
previsti è attribuita al potere «sovrano» delle
assemblee politiche (Tar Puglia sent. ult. cit.) al quale
spetta di decidere in via pregiudiziale (Consiglio di stato,
V sez, n. 944 dell'08/03/2005)
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2013). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Mozione di sfiducia.
Quanto incide una mozione di sfiducia, proposta dal
consiglio comunale nei confronti di un componente della
giunta, sulle prerogative attribuite al sindaco nella scelta
degli assessori?
Dal quadro
normativo delineato dagli articoli 46 e 52 del dlgs n.
267/2000 emerge che la revoca dell'incarico assessorile è
posta, sostanzialmente, nella disponibilità del sindaco o
del presidente della provincia.
Al comma 4, dell'art. 46 del citato decreto legislativo, è
previsto che «il sindaco e il presidente della provincia
possono revocare uno o più assessori, dandone motivata
comunicazione al consiglio».
Secondo una consolidata giurisprudenza, «la valutazione
degli interessi coinvolti nel procedimento di revoca di un
assessore è rimessa in via esclusiva al titolare politico
dell'amministrazione, cui competono in via autonoma la
scelta e la responsabilità della compagine di cui avvalersi
per l'amministrazione dell'ente nell'interesse della
comunità locale» (ex multis Consiglio di stato, V
sez, n. 803 del 16/02/2012).
La comunicazione motivata al consiglio della revoca
dell'incarico assessorile, prevista dall'art. 46, comma 4,
del dlgs n. 267 del 2000 è, infatti, tendenzialmente diretta
al mantenimento di un corretto rapporto collaborativo tra il
capo dell'esecutivo e il rispettivo consiglio, che potrebbe
eventualmente opporsi a un provvedimento di revoca con
l'estremo rimedio della mozione di sfiducia ex art. 52
decreto legislativo n. 267/2000, che però comporta, in caso
di approvazione, lo scioglimento del consiglio stesso.
(Consiglio di stato, V sez, n. 944 dell'08/03/2005)
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri fermo? Ecco il Mud.
La dichiarazione ambientale entro il 30 aprile.
In Gazzetta il modello 2013, resuscitato dallo
stop alla tracciabilità online.
Torna il Mud per i rifiuti in zona Cesarini, appena prima
dello sforamento del termine della pubblicazione del 31
dicembre che avrebbe comportato lo slittamento degli
relativi obblighi dopo la canonica data del 30 aprile.
La
pubblicazione entro il 31 dicembre del dpcm 20.12.2012
del Mud (Gazzetta Ufficiale: supplemento ordinario n. 213
alla G.U. 29.12.2012 n. 302), consente quindi di
mantenere la data del 30 aprile per acquisire i dati
relativi ai rifiuti da tutte le categorie di operatori
indicate dall'attuale art. 189 del decreto legislativo n.
152 del 2006. Ma chi sono i soggetti interessati? E come si
è arrivati a resuscitare il Mud per i rifiuti?
I soggetti interessati sono i comuni o loro consorzi e le
comunità montane che comunicano annualmente alle camere di
commercio, industria, artigianato e agricoltura, secondo le
modalità previste dalla legge 25.01.1994 n. 70,
informazioni quantitative e qualitative dei rifiuti gestiti.
Tutti gli altri operatori, in attesa del Sistri, sono
comunque tenuti agli adempimenti di cui agli articoli 190
(registri di carico e scarico) e 193 (formulario trasporto
dei rifiuti) del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152 e
all'osservanza della relativa disciplina, anche
sanzionatoria.
La «resurrezione» parziale del Mud è conseguenza diretta
della sospensione del Sistri. Infatti, l'art. 52, comma 1,
dl 22.06.2012, n. 83, convertito, con modificazioni,
dalla legge 07.08.2012, n. 134, ha previsto allo scopo di
procedere a ulteriori verifiche amministrative e funzionali
del Sistema di controllo della Tracciabilità dei rifiuti
(Sistri), ne ha disposto la sospensione fino al compimento
delle anzidette verifiche e comunque non oltre il 30 giugno
2013.
A ciò era seguito il decreto 17.10.2012, n. 210
(«Regolamento concernente modifiche al decreto del ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare 25.05.2012, n. 141 (Sistri)» che aveva previsto la
soppressione della norma che disponeva per l'anno 2012 del
pagamento del contributo da effettuarsi entro il 30
novembre.
Il dpcm del 20 dicembre sostituisce, quindi, il modello di
dichiarazione, allegato al decreto del presidente del
consiglio dei ministri del 23.12.2011 e relative
istruzioni allegati al presente decreto.
Il nuovo modello sarà utilizzato per le dichiarazioni da
presentare, entro la data prevista dalla legge 25.01.1970, n. 70 e cioè entro il 30 aprile di ogni anno, con
riferimento all'anno precedente e sino alla piena entrata in
operatività del Sistema di controllo della tracciabilità dei
rifiuti (Sistri).
Una nuova vita per il Mud limitata nel tempo. Forse il dpcm
avrebbe potuto allargare il suo campo d'azione. Ad esempio,
alla decisione n. 753 del 2011 per il calcolo degli
obiettivi di riciclaggio emanata in attuazione della
Direttiva rifiuti. Essa prevede, infatti, regole e modalità
di calcolo per verificare il rispetto degli obiettivi di cui
all'articolo 11, paragrafo 2, della direttiva 2008/98/Ce del
Parlamento europeo e del Consiglio. L'art. 2 prende in
considerazione il caso dei rifiuti esportati fuori
dell'Unione per essere preparati a essere riutilizzati,
riciclati o sottoposti a un'altra forma di recupero di
materiale.
Essi sono contabilizzati come preparati a essere
riutilizzati, riciclati o sottoposti a un'altra forma di
recupero soltanto in presenza di prove attendibili
attestanti che l'invio è conforme alle disposizioni del
regolamento (Ce) n. 1013/2006 del Parlamento europeo e del
Consiglio, in particolare dell'articolo 49, paragrafo 2, e
cioè con la garanzia che essi siano gestiti secondo metodi
ecologicamente corretti per tutta la durata della
spedizione, compreso il recupero
(articolo ItaliaOggi del 03.01.2013). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambiente.
Pubblicato in «Gazzetta Ufficiale» il provvedimento che
richiama in servizio il modello unico per la dichiarazione
annuale.
Per le imprese ritorna il «Mud».
Presentazione entro il 30 aprile - Scompare il prospetto
leggero usato negli anni scorsi.
LE INDICAZIONI/
Obbligo per i trasportatori Applicazione più ampia per la
comunicazione semplificata per i rifiuti speciali.
Dal Mud al Sistri e ritorno. Con la pubblicazione di fine
anno del decreto del presidente del consiglio 20.12.2012, il modello unico per la dichiarazione ambientale torna
ad essere l'unico punto di riferimento per le imprese e per
le amministrazioni coinvolte.
Entro il 30 aprile prossimo le imprese obbligate dovranno
tornare a presentare esclusivamente il Mud (Modello unico di
dichiarazione ambientale), usando il modello e le istruzioni
allegati al Dpcm 20.12.2012 (pubblicato sul
Supplemento ordinario n. 213 alla Gazzetta ufficiale del 29.12.2012) il quale sostituisce il Dpcm 23.12.2011. Pertanto dal 2013 (e fino a un nuovo ordine relativo
al Sistri) si torna a parlare solo ed esclusivamente di Mud.
La pubblicazione del decreto, tuttavia, non deve apparire
come una scheggia impazzita generata da un sistema
disattento, quanto piuttosto la risposta alla sospensione
del Sistri (non oltre il 30.06.2013, di cui all'articolo
52, legge 134/2012) e di tutti gli adempimenti connessi, ivi
compresa la dichiarazione Sistri (il cosidetto "mudino").
Infatti, a seguito di tale sospensione, l'obbligo di
presentazione del Mud per i produttori e i gestori di
rifiuti di cui all'articolo 189, Dlgs 152/2006 (il Codice
ambientale), rimane vigente.
Tuttavia, il nuovo modello crea un unico testo di
riferimento per tutti i soggetti e gli obblighi di
dichiarazione Mud e "mudino" che, nel tempo, a seguito del
Sistri e dell'articolo 264 bis, Dlgs 152/2006 si erano
divaricati: per molti aspetti, non si capiva più esattamente
a quale modello dovessero rispondere.
Del nuovo Mud tornano a essere destinatari i trasportatori
che il "mudino", invece, aveva escluso.
Il modello si compone di sei comunicazioni: rifiuti
speciali; veicoli fuori uso; imballaggi; Raee; rifiuti
urbani, assimilati e raccolti in convenzione; produttori di
apparecchiature elettriche ed elettroniche (Aee).
Rispetto al pregresso, oltre alle novità obbligate dalle
modifiche normative intervenute nel tempo, si evidenziano
alcune significative novità per ottimizzare compilazione e
dati:
● Scheda anagrafica: cambia il campo del codice Istat per
adeguarsi alla nuova codifica delle attività economiche.
Compare un campo "annulla e sostituisce" che consente di
correggere le dichiarazioni presentate. È, inoltre, inserito
un dato relativo ai mesi di attività per parametrare la
produzione all'attività effettiva dell'azienda;
● Scheda RIF: non è richiesto lo stato fisico del rifiuto
perché implicito nel codice Cer (lo stesso avviene nella
Scheda intermediazione); è, invece, richiesto il dato sui
rifiuti in giacenza presso il produttore per poter
confrontare le dichiarazioni dei diversi anni;
● Modulo Rt-Sp Rifiuto ricevuto da terzi: è ora possibile
indicare che il rifiuto è stato ricevuto da privati; il che
è molto importante per chi prende rifiuti da molti
conferitori;
● Modulo Mg-Sp recupero e smaltimento: gli impianti
autorizzati solo per messa in riserva e deposito preliminare
devono indicare quanto complessivamente stoccato.
Notevoli sono le modifiche alla comunicazione semplificata
per i rifiuti speciali, già prevista dal pregresso Dpcm 27.04.2010; infatti, ora può essere usata da chi produce
fino a sette tipologie di rifiuti (in precedenza erano tre)
e per ogni rifiuto, usa non più di tre trasportatori e tre
destinatari finali.
Se si accede al sistema semplificato, l'invio è postale e
avviene mediante moduli cartacei. Anche qui figura il campo
«annulla e sostituisce» per ovviare a errori ed omissioni
alle dichiarazioni presentate, né è più richiesto lo stato
fisico del rifiuto.
Il Mud va presentato alla Camera di commercio industria e
artigianato competente per territorio, che corrisponde a
quella della provincia in cui ha sede l'unità locale a cui è
riferita la dichiarazione.
Però i soggetti che svolgono attività di solo trasporto e
gli intermediari senza detenzione devono presentare il Mud
alla Cciaa della provincia nel cui territorio si trova la
sede legale dell'impresa cui si riferisce la dichiarazione.
Va presentato un Mud per ogni unità locale.
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Le novità
01 | RIFIUTI SPECIALI
Sono obbligati alla comunicazione Mud: -
Chi effettua a titolo professionale raccolta e trasporto.
- Commercianti e intermediari senza detenzione. - Recuperatori e
smaltitori di rifiuti. - Produttori iniziali di rifiuti
pericolosi. - Imprese agricole che producono rifiuti
pericolosi con un volume di affari superiore a 8.000
euro/anno. - Imprese ed enti con più di 10 dipendenti che
producono rifiuti non pericolosi da lavorazioni industriali,
artigianali e da attività di recupero e smaltimento di
rifiuti. Fanghi da potabilizzazione e da altri trattamenti
di acque e dalla depurazione di acque reflue e abbattimento
fumi (articolo 184, comma 3, lettere c), d) e g),
Dlgs 152/2006)
02 | VEICOLI FUORI USO
Obbligato alla comunicazione Mud chi gestisce veicoli
rientranti nel campo di applicazione
del Dlgs 209/2003
03 | IMBALLAGGI
Devono fare il Mud: Conai
e sistemi autonomi o cauzionali di cui all'articolo 221,
comma 3, lettere a) e c), Dlgs 152/2006
04 | RAEE
Il Mud riguarda i soggetti
che gestiscono i Raee rientranti nel campo
del Dlgs 151/2005
05 | RIFIUTI URBANI
E ASSIMILATI
Obbligo di Mud per i soggetti istituzionali responsabili del
servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani e
assimilati.
Per i rifiuti pericolosi conferiti dal produttore al gestore
del servizio pubblico di raccolta, previa convenzione, la
comunicazione è effettuata
da tale gestore per la quantità conferita
06 | PRODUTTORI DI AEE
Mud per i soggetti dell'articolo 3, comma 1, lettera m), Dlgs
151/2005
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.01.2013). |
CONDOMINIO: Con
la riforma nuove procedure per arginare le attività
contrarie alle destinazioni d'uso.
Parti comuni, tutele
rafforzate.
Modifiche più semplici, purché senza danni per i singoli.
Per trasformare un parcheggio condominiale in area verde, o
viceversa, basterà la maggioranza assembleare. Tra le novità
più interessanti contenute nella riforma del condominio
meritano particolare risalto le nuove regole relative alla
modificazione della destinazione d'uso delle parti
condominiali e quelle collegate per la protezione di
quest'ultima dalle attività dannose e/o pregiudizievoli.
In particolare il nuovo art. 1117-ter sembra ammettere la
possibilità che un bene/impianto comune possa essere
trasformato fino a consentirne un uso completamente estraneo
rispetto alla sua originaria destinazione oggettiva e
strutturale. Si tratta di situazioni nelle quali alcuni
condomini possono subire diminuzioni dei loro diritti: si
pensi al caso del condominio con accesso dal giardino che, a
seguito di delibera assembleare, venga trasformato in
piscina o campo da tennis. Quanto sopra trova conferma nella
nuova maggioranza richiesta per approvare detti interventi
(quattro quinti del valore dell'edificio, cioè 800
millesimi, oltre a un identico numero di partecipanti), così
elevata da apparire normalmente irraggiungibile (quanto meno
rispetto alle presenze solitamente ottenibili in assemblea).
La tutela contro attività contrarie alle destinazioni d'uso.
L'articolo 1117-quater detta poi una specifica procedura per
la tutela contro eventuali attività contrarie alle
destinazioni d'uso delle parti comuni da parte del singolo
condomino. La norma non chiarisce come debba intendersi
l'incidenza negativa di una diversa destinazione d'uso e ci
si potrebbe così spingere fino a considerare
pregiudizievole, per esempio, la destinazione di un
appartamento a discoteca, trattandosi di attività non solo
contraria alla tranquillità della collettività condominiale,
ma che comporta un uso particolarmente intenso delle parti
comuni (numero elevato di clienti, musica ad altro volume
ecc.).
Nella dizione di attività rientrano certamente quei
comportamenti dei singoli condomini che arrivano ad alterare
la destinazione d'uso di una parte comune. Così è pacifico
che se il singolo condomino apra un varco nel muro di cinta
dell'edificio, mettendo in comunicazione la corte esterna di
sua esclusiva proprietà con la strada pubblica, l'apertura
praticata alteri la destinazione d'uso del muro, incidendo
sulla sua funzione di recinzione e di protezione e annulla
il beneficio che gli altri condomini traggono dall'utilità
che il muro di cinta comune oggettivamente apporta alle loro
proprietà.
E ancora, per esempio, posto che i pianerottoli, quali
componenti essenziali delle scale comuni, hanno funzione di
destinazione al migliore godimento dell'immobile da parte di
tutti i condomini, non possono essere trasformati dal
proprietario dell'appartamento che su di essi si affacci
mediante l'incorporazione dei medesimi nel proprio
appartamento, in tal modo impedendo l'uso comune del bene.
Allo stesso modo la condotta del condomino che mantenga
ferma per lunghi periodi di tempo la sua autovettura nel
parcheggio comune manifesta l'intenzione di possedere il
bene in maniera esclusiva, trattandosi di un'occupazione
stabile di una porzione del posteggio comune. Di conseguenza
detta condotta costituisce una sorta di abuso, impedendo
agli altri condomini di partecipare all'utilizzo dell'area
comune.
In tali ipotesi di uso abnorme delle parti comuni è stata
quindi prevista dalla legge di riforma una nuova procedura
per reagire all'illegittimo comportamento del condominio. In
particolare è prevista non solo la diffida
dell'amministratore o del singolo condomino contro
l'esecutore (altro condominio, inquilino, comodatario ecc.),
ma anche la possibilità per l'amministratore o il condomino
di provocare la convocazione dell'assemblea per far cessare
la violazione, anche mediante azioni giudiziarie. In ogni
caso bisogna sottolineare che l'assemblea (oltre che
annualmente in via ordinaria per le deliberazioni indicate
dall'art. 1135 del codice) può essere convocata in via
straordinaria dall'amministratore quando questi lo ritenga
necessario o quando ne sia fatta richiesta da almeno due
condomini che rappresentino un sesto del valore
dell'edificio.
Decorsi inutilmente 10 giorni dalla richiesta, i detti
condomini possono provvedere direttamente alla convocazione.
Se poi l'amministratore non è stato nominato, l'assemblea
per far cessare la violazione può essere convocata a
iniziativa di ciascun condomino. In ogni caso l'assemblea
delibera in merito alla cessazione di tali attività lesive
della destinazione d'uso delle parti comuni con un numero di
voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e
almeno la metà del valore dell'edificio
(articolo ItaliaOggi Sette del
31.12.2012). |
APPALTI
FORNITURE: Decreto
ministeriale sugli appalti. P.a., nuovi criteri per i veicoli
verdi.
Riformulati i criteri ambientali minimi che le pubbliche
amministrazioni devono osservare (ex dlgs 24/2011)
nell'acquisizione del proprio autoparco.
La rivisitazione
delle regole sugli appalti verdi («green public procurement»)
è prevista dal decreto del ministero dell'ambiente del 30.11.2012 (in G.U. del 13.12.2012, n. 290) attraverso
la diretta modifica del dm Ambiente 08.05.2012, il
regolamento base recante i criteri ambientali minimi per
l'acquisizione dei veicoli adibiti al trasporto su strada.
Trasporto persone e merci.
Il nuovo decreto amplia il regime di favore già previsto dal
dm 08.05.2012 per gli autoveicoli e i veicoli commerciali
leggeri mossi da Gpl o metano. In base ai nuovi parametri,
il livello di emissioni inquinanti prodotto da detti veicoli
dovrà essere (per la valutazione di ecologicità) calcolato
esclusivamente sui dati relativi all'alimentazione da
carburante «verde» e non più sulla media aritmetica tra i
dati relativi al carburante tradizionale e quello
alternativo.
Trasporto rifiuti. Svincolata dal rispetto di parametri
ambientali l'acquisizione da parte della p.a. degli
automezzi adibiti al trasporto di rifiuti. Con l'aggiunta da
parte del dm Ambiente del 30 novembre di una semplice nota
al dm 8 maggio viene infatti specificato che tra le «merci»
non sono ricompresi i «rifiuti», dal che ne deriva
l'esclusione dei relativi mezzi di trasporto dal novero
delle vetture che devono rispondere agli standard ambientali
minimi per poter essere acquistati o noleggiati dalla p.a.
Gli acquisti. In base al citato dlgs 24/2011 (adottato in
recepimento della direttiva 2009/33/Ce sulla promozione dei
veicoli verdi) l'obbligo di scegliere i propri mezzi di
trasporto su strada tra quelli a ridotto impatto ambientale
e basso consumo energetico vale sia per le amministrazioni
pubbliche in senso stretto (centrali e locali) che per
operatori concessionari di servizi pubblici e soggetti
gestori dei servizi di trasporto pubblico di passeggeri. I
criteri ecologici dettati dal (rinnovato) dm 08.05.2012
in attuazione del dlgs 24/2011 coincidono con parametri
riferibili alle emissioni di biossido di carbonio (CO2), di
ossidi di azoto (NOx), di idrocarburi non metanici (NMHC) e
particolato nonché all'efficienza energetica e agli altri
impatti ambientali previsti dal dm ambiente 11.04.2008
n. 135 (regolamento recante il «Piano d'azione per la
sostenibilità ambientale dei consumi nel settore della
Pubblica amministrazione»).
La scelta tra i diversi veicoli verdi dovrà dalla p.a.
essere effettuata ricorrendo, come imposto dal dlgs 24/2011,
a una delle seguenti modalità: normale gara di appalto
indetta mediante la predeterminazione degli standard tecnici
che i veicoli devono avere sotto il profilo del risparmio
energetico e delle ridotte emissioni; oppure, in
alternativa, appalto guidato dal criterio
dell'aggiudicazione all'«offerta economicamente più
vantaggiosa», con scelta determinata quindi dal miglior
rapporto qualità (anche ecologica) e prezzo dei beni
proposti. Al di fuori dei mezzi di trasporto, è utile
ricordarlo, il rispetto dei criteri ecologici ancora non è
obbligatorio per l'acquisizione da parte della p.a. dei beni
necessari allo svolgimento dei suoi compiti. Sebbene il
codice degli appalti (dlgs 163/2003) preveda variabili
ambientali tra i parametri di aggiudicazione, la scelta se
ricorrervi o meno è lasciata alle amministrazioni
appaltanti.
Una spinta sugli acquisti verdi, infine, è arriva invece
dall'Ue con la nuova Guida sulla prevenzione della
produzione dei rifiuti pubblicata a ottobre 2012 con cui si
chiede agli stati membri di promuovere la diffusione dei
prodotti provvisti di marchio ecologico
(articolo ItaliaOggi Sette del
31.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI: Nuovi
obblighi.
In rete i pagamenti ai privati.
Da domani gli obblighi di trasparenza per le amministrazioni
pubbliche saliranno da 42 a 43. Vanno online anche i
pagamenti ai privati. Devono essere indicati quelli sopra i
mille euro, erogati a qualsiasi titolo: appalti,
concessioni, consulenze e sovvenzioni varie.
Lo prevede
l'articolo 18 del Dl 83/2012.
Un obbligo passato in sordina, ma che sta allarmando molti
uffici. L'attuazione, infatti, risulta difficile soprattutto
per i grandi centri di spesa. Come il ministero delle
Infrastrutture, che affida appalti anche tramite i
provveditorati regionali: in che modo e con quale ritmo
questi ultimi dovranno far confluire alla sede romana i dati
sui propri pagamenti?
La mancata pubblicazione del pagamento «costituisce
condizione legale di efficacia del titolo». In altre parole
senza la comunicazione online, non si paga. E i funzionari
inadempienti ne rispondono anche dal punto di vista
patrimoniale e contabile.
Il Governo avrebbe dovuto varare entro oggi un regolamento
con le istruzioni, ma non l'ha fatto. Il rischio è che a
farne le spese siano le imprese, che, per via delle
incertezze, potrebbero subire ulteriori ritardi nei
pagamenti. E poco consola l'entrata in vigore, in
contemporanea, delle regole sui ritardi che, comunque, fanno
scattare gli interessi di mora in modo automatico
(articolo Il Sole 24 Ore del
31.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Commissione
per l'accesso. L'attività.
Dal 2011 basta una mail: ricorsi in crescita del 16%.
Effetto contributo unificato: è, infatti, da imputare anche
all'aumento degli importi per la presentazione delle cause
davanti ai Tar il fatto che nel 2011 siano cresciuti i
ricorsi depositati dai cittadini presso la Commissione per
l'accesso con l'obiettivo di costringere le pubbliche
amministrazioni a mostrare le carte. Si è passati dai 603
ricorsi del 2010 ai 701 dell'anno scorso, con un incremento
del 16 per cento. E questo perché, nonostante siano
trascorsi ormai 22 anni dal varo della legge 241 sulla
trasparenza degli atti della Pa, molti uffici pubblici
continuano a fare resistenza.
I cittadini, però, non si danno per vinti e prima ancora di
chiedere udienza davanti ai giudici amministrativi –in
questi anni Tar e Consiglio di Stato hanno contribuito a
tradurre in pratica i dettami della 241, costringendo a più
riprese le amministrazioni a svelare le carte– bussano alla
porta della Commissione per l'accesso, istituita nel 1991
presso la Presidenza del Consiglio con l'obiettivo di dare
corso al principio ispiratore della legge sulla trasparenza,
ovvero garantire a tutti la possibilità di conoscere i
documenti in possesso della pubblica amministrazione, così
da poter tutelare i propri interessi.
È vero che non tutto
ciò che è custodito nei cassetti degli uffici pubblici può
essere reso disponibile ai cittadini –ogni amministrazione
ha chiarito quali atti possono essere accessibili e quali
devono rimanere "segreti"–, ma è altrettanto vero che
l'elenco dei documenti conoscibili è lungo e spesso molte di
quelle carte vengono tenute nascoste.
Ecco perché nel 2011 la Commissione per l'accesso è stata
chiamata in causa a più riprese. E se da una parte ha
contribuito la circostanza che il contenzioso davanti ai Tar
è diventato più salato, dall'altro c'è il fatto che i
ricorsi presso la Commissione non solo sono gratuiti, ma nel
2011 la procedura è diventata completamente digitale, con
l'adozione esclusiva del fascicolo elettronico: al cittadino
è sufficiente inviare una mail (resta comunque possibile
spedire le carte via fax o con raccomandata) all'indirizzo
di posta certificata della Commissione (commissione.accesso@mailbox.governo.it)
spiegando i motivi delle lamentele. La Commissione deve
decidere entro 30 giorni.
Dei 701 ricorsi evasi nel 2011, 200 sono stati accolti,
riconoscendo le ragioni del cittadino. L'amministrazione
finita nel mirino il maggior numero di volte è stato il
ministero dell'Istruzione, oggetto di 108 ricorsi, seguito
da Interno e Difesa, rispettivamente oggetto di 93 e 87
contenziosi. È soprattutto dal Centro Italia che sono
partiti i ricorsi: quasi il 47 per cento. Ma nella
distribuzione geografica delle lamentele gioca un ruolo
forte il Lazio, regione dove sono stati depositati 40
ricorsi, il numero più alto del resto della penisola. Ed è
intuitivo che un grande peso l'abbia la capitale, "patria"
dei ministeri e di molte altre amministrazioni.
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DA VENT'ANNI
La normativa
La legge 241 del 1990 sulla trasparenza amministrativa ha
introdotto il diritto di accesso ai documenti
amministrativi. La legge è stata modificata più volte, da
ultimo con la legge anticorruzione (legge 190/2012)
La composizione
La Commissione per l'accesso, istituita dal 1991 presso la
Presidenza del Consiglio, è costituita da due senatori e due
deputati, quattro fra magistrati e avvocati dello Stato, due
professori universitari in materie giuridico-amministrative,
un dirigente dello Stato o di altri enti pubblici, il capo
struttura della Presidenza del Consiglio, che dà supporto
organizzativo per il funzionamento della Commissione, e
cinque esperti
(articolo Il Sole 24 Ore del
31.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Beni
culturali. Pronte le linee guida per i bandi con cui
selezionare i privati che finanziano il restauro dei
monumenti.
Ricerca degli sponsor in appalto.
La scelta dei mecenate potrà essere affidata anche a società
di pubblicità.
LA SOGLIA/ Le procedure pubbliche dovranno essere attivate
soltanto nel caso di lavori che superino l'importo di 40mila
euro.
Attese dalla scorsa primavera e date per fatte in diverse
occasioni, ora finalmente ci sono. Le regole per
sponsorizzare gli interventi sul patrimonio
storico-artistico sono state firmate dal ministro dei Beni
culturali, Lorenzo Ornaghi. Ora dovranno superare il vaglio
dell'ufficio centrale del bilancio e della Corte dei conti,
per poi essere pubblicate sulla «Gazzetta Ufficiale». Il
più, comunque, è fatto, anche perché si è trattato di un
lavoro poderoso, come dimostra la mole del documento che
nelle prossime settimane arriverà sui tavoli dei
soprintendenti: una cinquantina di pagine di criteri da
seguire ogni volta che si vorrà cercare un mecenate che
vorrà contribuire a salvare un monumento.
Come ha fatto Diego Della Valle con il Colosseo. Ed è
proprio da quella vicenda, che ha visto il patron della
Tod's mettere sul piatto 25 milioni di euro, e delle
polemiche conseguenti che è nata l'esigenza di mettere nero
su bianco le regole –fino ad allora inesistenti– che
aiutassero le soprintendenze nel reclutamento degli sponsor
attraverso procedure trasparenti e pubbliche.
Problema a cui si è messo riparo con il decreto
semplifica-Italia (Dl 5/2012). Si attendevano, però, dal
ministero le indicazioni che armonizzassero la nuova norma
con il codice dei Beni culturali e spiegassero ai
soprintendenti come applicarla.
«Abbiamo cercato –sottolinea Paolo Carpentieri, capo
dell'ufficio legislativo del ministero– di predisporre
linee guida che definissero un quadro giuridico chiaro e
completo. Per farlo ci siamo messi nei panni degli operatori
che avranno a che fare con le nuove regole. Questo ci ha
permesso di fare un'analisi preventiva dei possibili
problemi applicativi e di approntare un documento che dia le
necessarie risposte. Ne è venuto fuori un provvedimento
articolato, suddiviso in sei capitoli, che però ci dovrebbe
evitare di intervenire successivamente, fornendo volta per
volta pareri di fronte ai dubbi dei soprintendenti».
A chi si rivolgono le linee guida? A tutte le
amministrazioni pubbliche, statali e non, che hanno in
consegna beni culturali. Ovviamente, anche se da un versante
diverso, alle nuove regole sono interessati pure i privati.
E qui va subito fatta una distinzione. Il provvedimento
riguarda le sponsorizzazioni, ovvero l'erogazione di un
contributo, anche in beni e servizi, per la progettazione o
l'attuazione di iniziative finalizzate a tutelare o
valorizzare i beni culturali. Contributo a fronte del quale
il mecenate potrà ottenere la promozione del proprio nome,
marchio, attività o prodotto dell'attività attraverso varie
modalità: per esempio, stampigliando il logo del monumento
sui propri biglietti o sulla carta intestata; riproducendo
la documentazione del restauro; organizzando visite guidate
al cantiere; affiggendo pannelli con il proprio logo sulle
impalcature. Riguardo a quest'ultima modalità, le linee
guida non danno indicazioni sulla misura dei cartelli, ma
raccomandano di non offuscare il profilo del monumento.
La sponsorizzazione è, dunque, fattispecie diversa
dall'erogazione liberale, che presuppone pur sempre un
intervento da parte del privato sotto forma di denaro,
lavori, servizi o forniture. Nel caso dell'erogazione
liberale, però, il mecenate non "si aspetta" nulla in
cambio, se non i vantaggi fiscali previsti dalla legge.
Tutt'al più può aspirare a un beneficio puramente morale o a
quello che può derivare dal "pubblico ringraziamento" per
aver salvato un monumento. Dunque, l'erogazione liberale non
ha bisogno della gara e non è sottoposta alle linee guida.
Queste ultime chiariscono che la sponsorizzazione può essere
di tre tipi: pura (solo finanziaria), tecnica (lo sponsor si
accolla la progettazione e i lavori) o mista (un mix delle
prime due). La necessità di procedere alla selezione
pubblica del mecenate scatta per tutte le sponsorizzazioni
oltre 40mila euro e deve essere praticata anche quando il
contributo del privato prevede forniture e servizi, purché
questi ultimi siano sempre strumentali ai lavori. In altre
parole, se si tratta di una sponsorizzazione solo in termini
di servizi e forniture, le linee guida non vanno applicate,
anche se si supera il tetto dei 40mila euro.
Le soprintendenze potranno affidare la ricerca dello sponsor
anche a società esterne (per esempio, società di
pubblicità), che dovranno essere scelte attraverso una
pubblica selezione. Il mandato dovrà essere circoscritto nel
tempo (per esempio, un anno) o limitato a interventi su un
monumento o su un insieme di beni.
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I CHIARIMENTI PER LE SOPRINTENDENZE
La riforma
La regolamentazione delle sponsorizzazioni in campo
culturale è stata introdotta con l'inserimento –previsto
dall'articolo 20 del Dl 5/2012 ("semplifica Italia")–
dell'articolo 199-bis nel codice dei contratti pubblici (Dlgs
163/2006). La nuova disposizione prevede che la ricerca
dello sponsor avvenga attraverso un bando pubblico, di cui
si specificano le modalità. Nel caso il bando vada deserto,
le soprintendenze possono procedere alla ricerca diretta
dello sponsor
Le linee guida
È stato lo stesso Dl 5/2012 a prevedere che il ministero
mettesse a punto linee guida per spiegare alle
soprintendenze come applicare le nuove regole sulle
sponsorizzazioni. Il documento sarebbe dovuto essere pronto
entro metà aprile. Più volte annunciato, il ministro Ornaghi
l'ha firmato il 19 dicembre
Il cambio di prospettiva
Le linee guida chiedono alle soprintendenze di mutare
prospettiva. Finora, infatti, hanno tenuto un atteggiamento
passivo, attendendo che i privati si facessero avanti per
proporre la sponsorizzazione di un restauro. D'ora in avanti
devono farsi propositive. E questo attraverso la
predisposizione di un piano triennale, da aggiornare ogni
anno, in cui indicare gli interventi che necessitano del
contributo dei privati e attivandosi per la ricerca degli
sponsor attraverso la pubblicazione sui propri siti dei beni
da tutelare o valorizzare
Adeguarsi al mercato
Si raccomanda alle soprintendenze di parametrare l'importo
della sponsorizzazione anche al valore di mercato delle
controprestazioni offerte, che dipende dalla fama del
monumento su cui si interviene. Finora ci si è regolati sul
costo dei lavori, che spesso si discosta molto dal valore
che, in termini di immagine, lo sponsor può ricavarne
I bandi tipo
Le linee guida non contengono il modello del bando per la
selezione dello sponsor.
Si tratterà di un prossimo passaggio, che il ministero
dei Beni culturali dovrà mettere
a punto con il ministero
delle Infrastrutture e con l'Authority sui contratti
pubblici
(articolo Il Sole 24 Ore del
31.12.2012). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Sostegno
alla genitorialità. Per i permessi legati alle malattie del
minore, la certificazione arriverà telematicamente dal
medico del Ssn all'Inps e dall'Istituto al datore.
Il congedo parentale si utilizza anche a ore.
La contrattazione collettiva dovrà fissare le modalità di
fruizione e i criteri di calcolo della base oraria.
Il quadro normativo sui congedi parentali si è arricchito di
importanti novità con alcune recenti disposizioni
legislative: si tratta di "aggiustamenti" mirati che
consentono una fruizione più flessibile dei permessi e –in
alcuni casi– un allargamento della platea. Dopo gli
interventi della riforma del lavoro (si veda l'articolo a
lato), anche il secondo decreto sulla crescita (Dl 179/2012,
convertito dalla legge 221/2012) e quello anti-infrazioni Ue
(Dl 216/2012, confluito nella conversione in legge del Ddl
stabilità 2013) hanno infatti apportato alcuni ritocchi alla
materia.
Certificati medici
Con il Dl 179/2012, nel solco della telematizzazione delle
certificazioni di malattia, è stata semplificata la gestione
operativa dei certificati medici per l'assenza del
lavoratore a causa della malattia del figlio (articoli 47 e
51 del Dlgs 151/2001), che dovrà essere inviata per via
telematica all'Inps direttamente dal medico del Ssn che ha
in cura il minore, per poi essere inoltrata ai datori di
lavoro interessati – attraverso il sistema già attivo per la
trasmissioni dei certificati medici di malattia dei
dipendenti – e all'indirizzo di posta elettronica della
lavoratrice o del lavoratore che ne facciano richiesta.
Il campo toccato dalla modifica si riferisce ai congedi per
la malattia del bambino: questa tipologia di permessi spetta
alla madre o, in alternativa, al padre nei primi tre anni di
vita del bambino, senza limiti di tempo. Viceversa, si
possono richiedere solo cinque giorni lavorativi all'anno,
per ciascun genitore (per un totale di 10 giorni), se il
bambino ha un'età compresa fra quattro e otto anni.
Lo stato di malattia deve appunto essere documentato con
certificato del medico specialista del Ssn o con questo
convenzionato. Peraltro, le regole di fruizione dei congedi
sono di solito disciplinate dai contratti collettivi
nazionali di lavoro e i permessi non possono essere fruiti
contemporaneamente dai due genitori, dovendo attestare che
l'altro genitore non è in permesso per la stessa causale
nelle stesse giornate. Tutti questi congedi sono goduti
sotto forma di permessi non retribuiti e non hanno riflesso
sulle mensilità aggiuntive, pur essendo computati nel
l'anzianità di servizio. Condizioni migliori sono previste
per i dipendenti pubblici.
Per la piena operatività della modifica, si dovrà comunque
attendere l'emanazione di un Dpcm, di concerto con
Pa-Lavoro-Economia-Salute e previo parere del Garante della
privacy, che entro il 30.06.2013 dovrà adottare le
disposizioni attuative sulle modalità di trasmissione delle
certificazioni della malattia del minore e la definizione
del modello stesso di certificazione.
È invece già scattato, dalla conversione in legge del Dl
179/2012, l'obbligo dei lavoratori di comunicare al medico,
all'atto della compilazione dei certificati dei figli, le
proprie generalità, per fruire del congedo.
Infine, sempre il decreto crescita (articolo 7), ha
equiparato la modalità di trasmissione telematica delle
certificazioni di malattia delle assenze nel settore
pubblico con quelle già in vigore nel settore privato.
Fruizione a ore
L'altra modifica legislativa è quella operata dalla legge di
stabilità, che ha recepito le modifiche disposte dal Dl
216/2012 attuativo della direttiva 2010/18/Ue: in questo
caso è stato realizzato un maquillage all'articolo 32 del Dlgs 151/2001 in materia di congedo parentale, attraverso
due interventi. Il primo consente la fruizione dei congedi
anche a ore a partire dal 01.01.2013, secondo le
disposizioni che saranno adottate dai Ccnl, che dovranno
individuare le modalità di fruizione e i criteri di calcolo
della base oraria. Si tratta dei congedi che spettano a
ciascun genitore lavoratore, nei primi otto anni di vita del
bambino, fino a un periodo massimo di sei mesi di astensione
(continuativo o frazionato). In ogni caso, l'astensione
totale di entrambi i genitori non può eccedere i dieci mesi.
Con la seconda modifica, è stato poi precisato che la
comunicazione con cui il lavoratore è tenuto a preavvisare
il datore di lavoro sull'intenzione di fruire del periodo di
congedo parentale (almeno 15 giorni prima) deve contenere
anche l'indicazione dell'inizio e della fine del periodo di
congedo. Durante questo periodo, potranno essere anche
concordate adeguate misure di ripresa dell'attività
lavorativa, osservando quanto eventualmente disposto dai
Ccnl
(articolo Il Sole 24 Ore del
31.12.2012). |
APPALTI: Contratti.
Le amministrazioni devono adeguare i regolamenti anche
tramite i riferimenti al Codice della Pa digitale.
Corsia telematica per gli appalti.
Dal 1° gennaio la stipula in forma cartacea è permessa solo
in via residuale.
IL DEPOSITO/ Per l'atto pubblico informatico i notai possono
utilizzare per il momento la struttura predisposta dal
consiglio nazionale.
I contratti di appalto devono avere forma scritta e la loro
stipulazione deve avvenire con modalità elettroniche o, in
via residuale, cartacee.
Tra le novità in tema di informatizzazione degli atti e dei
documenti contenute nella legge 221/2012 (di conversione del
Dl 179/2012) assume notevole rilevanza per le stazioni
appaltanti quanto previsto dall'articolo 6, comma 3.
La disposizione riformula infatti l'ultimo comma (il 13) del
l'articolo 11 del Dlgs 163/2006, il quale, sin dalla
versione originaria del Codice appalti, disciplina le
modalità di stipulazione dei contratti.
La vecchia norma stabiliva che il contratto poteva essere
stipulato mediante atto pubblico notarile, o mediante forma
pubblica amministrativa a cura dell'ufficiale rogante del
l'amministrazione aggiudicatrice, oppure mediante scrittura
privata, oltre che in forma elettronica secondo le norme
vigenti per ciascuna stazione appaltante.
La forma elettronica risultava quindi alternativa a quelle
tradizionali.
La nuova disposizione, introdotta dal decreto sviluppo,
stabilisce invece che il contratto è stipulato, a pena di
nullità, con atto pubblico notarile informatico, oppure in
modalità elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna
stazione appaltante, in forma pubblica amministrativa a cura
dell'ufficiale rogante del l'amministrazione aggiudicatrice
o mediante scrittura privata.
Il primo elemento rilevante è l'esplicitazione della
sanzione della nullità per i contratti di appalto e di
cottimo fiduciario non stipulati in forma scritta
(indipendentemente dalle modalità prescelte), la quale viene
confermata e rafforzata come requisito sostanziale per
l'atto pattizio.
Tuttavia il profilo di maggior impatto, destinato a incidere
sull'attività contrattuale delle amministrazioni
aggiudicatrici a partire dal 01.01.2013 (data di
efficacia dell'innovazione normativa, come esplicitato dallo
stesso articolo 6, comma 4, della legge 221/2012), è la nuova
regolamentazione delle forme specifiche della stipulazione.
Questa può aversi anzitutto con atto pubblico notarile
informatico (per la cui conservazione i notai possono
utilizzare in via transitoria la struttura predisposta dal
Consiglio del notariato), al quale è posta in alternativa la
forma pubblica amministrativa, con la sola modalità
elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione
appaltante, a cura dell'ufficiale rogante del
l'amministrazione aggiudicatrice (il segretario comunale o
provinciale).
Ogni amministrazione dovrà quindi adottare disposizioni
regolamentari relative a questa modalità, anche con rinvio a
quelle del Codice dell'amministrazione digitale (Dlgs
82/2005).
L'ulteriore alternativa è costituita dalla scrittura
privata, per la quale la nuova disposizione non prefigura un
analogo vincolo specifico al l'utilizzo esclusivo della
modalità elettronica.
Pertanto, i contratti di appalto e di cottimo fiduciario
possono essere stipulati anche in modalità cartacea.
Questo profilo si combina con quanto previsto dall'articolo
334, comma 2, del Dpr 207/2010, il quale stabilisce che il
contratto affidato mediante cottimo fiduciario è stipulato
attraverso scrittura privata, che può anche consistere in
apposito scambio di lettere (secondo gli usi del commercio)
con cui la stazione appaltante dispone l'ordinazione dei
beni o dei servizi.
Ben diversa, invece, è la modalità di formalizzazione del
rapporto nel caso di acquisti per spese economali (spese
minute e urgenti), per le quali l'Authority sugli appalti ha
evidenziato come non siano gestite sulla base di un
contratto (determinazione n. 4/2011, punto 8).
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Gli strumenti
01 | ATTO NOTARILE
Va stipulato con l'assistenza da parte di un notaio, e
conservato presso una struttura predisposta dal Consiglio
nazionale del notariato. La formalizzazione deve avvenire
con firma digitale secondo le modalità previste dal Codice
dell'amministrazione digitale (Dlgs 82/2005)
02 | SCRITTURA PRIVATA
Non sono previste modalità vincolanti per la stipulazione
della scrittura privata, che risulta possibile sia in forma
elettronica sia in forma cartacea. La scrittura privata è la
forma prevista per i contratti di cottimo fiduciario
(articolo Il Sole 24 Ore del
31.12.2012). |
GIURISPRUDENZA |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Le prestazioni di lavoro
straordinario si caratterizzano per essere facoltative ed
effettuate in aggiunta al normale orario di lavoro, come
tali soggette al potere organizzatorio dell’Amministrazione
datrice di lavoro; la pretesa della parte ricorrente sarebbe
dunque qualificabile come diritto soggettivo solo in quanto
la prestazione sia avvenuta in base ad una deliberazione
autorizzativa, valida ed efficace per cui, fino a quando
l’Ente non esercita il potere autoritativo di scegliere se
ed entro quali limiti autorizzare lo svolgimento di attività
di lavoro straordinario, saranno configurabili solo delle
posizioni di interesse legittimo, con relativa
inammissibilità di azioni di accertamento e di condanna.
In altri termini è possibile estendere al caso di specie il
principio per il quale nessun compenso per ulteriori
prestazioni, anche facoltative, può essere riconosciuto in
assenza di una formale autorizzazione da parte del datore di
lavoro, in quanto solo attraverso questa autorizzazione può
essere verificata la sussistenza delle ragioni di pubblico
interesse che rendono opportuno il ricorso a prestazioni
lavorative eccezionali, nel rispetto dell'art. 97 Cost..
--------------
L’organizzazione delle prestazioni di lavoro deve avvenire
attraverso la predisposizione di orari e turni, mediante la
programmazione dei piani di lavoro e prescrivendo altresì la
loro verifica con sistemi obiettivi di controllo degli orari
di servizio, tali da assicurare che dette prestazioni siano
rese in aggiunta rispetto all’orario nomale; non può neanche
dedursi la violazione dell'art. 36 Cost. nella misura in cui
salvaguarda il diritto alla retribuzione, atteso che risulta
in ogni caso prevalente il canone dell'esigenza di buona
amministrazione da cui è permeata la disciplina di settore
secondo cui non è possibile prescindere dalla preventiva
autorizzazione allo svolgimento di prestazioni lavorative
ulteriori, o dal riconoscimento delle stesse ex post per
esigenze d'ufficio, ai fini del riconoscimento del diritto
del pubblico dipendente al pagamento del relativo compenso.
---------------
Coloro che appartengono ad una categoria di personale
svolgente una prestazione lavorativa necessariamente e
naturalmente articolata su turni, non hanno titolo per
invocare il pagamento di prestazioni straordinarie. Solo
l’Amministrazione può deliberare di retribuirle nei limiti
preventivamente programmati ed autorizzati, in quanto solo
ad essa spetta la valutazione ed il controllo preventivo
circa la compatibilità finanziaria nonché, una volta
deliberato lo svolgimento di tali prestazioni entro i tetti
massimi di ore e di retribuzione, la verifica delle stesse
attraverso sistemi obiettivi di controllo degli orari di
servizio anche in funzione del conseguimento degli obiettivi
prefissati.
In relazione alle pretese azionate con il presente ricorso,
la Sezione evidenzia, come in analoghe fattispecie (ex
multis, 01.02.2010, n. 26517), che le prestazioni di
lavoro straordinario si caratterizzano per essere
facoltative ed effettuate in aggiunta al normale orario di
lavoro, come tali soggette al potere organizzatorio
dell’Amministrazione datrice di lavoro (Cass. Civ., SS. UU.,
25.10.1996, n. 9336); la pretesa della parte ricorrente
sarebbe dunque qualificabile come diritto soggettivo solo in
quanto la prestazione sia avvenuta in base ad una
deliberazione autorizzativa, valida ed efficace (TAR
Basilicata, 06.08.1999, n. 313) per cui, fino a quando
l’Ente non esercita il potere autoritativo di scegliere se
ed entro quali limiti autorizzare lo svolgimento di attività
di lavoro straordinario, saranno configurabili solo delle
posizioni di interesse legittimo, con relativa
inammissibilità di azioni di accertamento e di condanna (TAR
Basilicata, 29.10.1999, n. 553; 24.09.1999, n. 390). In
altri termini è possibile estendere al caso di specie il
principio per il quale nessun compenso per ulteriori
prestazioni, anche facoltative, può essere riconosciuto in
assenza di una formale autorizzazione da parte del datore di
lavoro, in quanto solo attraverso questa autorizzazione può
essere verificata la sussistenza delle ragioni di pubblico
interesse che rendono opportuno il ricorso a prestazioni
lavorative eccezionali, nel rispetto dell'art. 97 Cost.
(cfr. Consiglio di Stato, V, 9.3.2010, n.1370; n. 844 del
2009; IV, n.2282 del 2007; V, 24.09.1999, n. 1147; IV,
14.02.1994, n. 139; TAR Calabria, Reggio Calabria,
26.03.2001, n. 242; 29.09.2000, n. 1531; TAR Marche,
27.10.1994, n. 292; TAR Toscana, 27.12.1994, n.459).
Il Collegio ritiene in definitiva, con trattazione unitaria
dei motivi dedotti in diritto, di aderire all’orientamento
secondo il quale l’organizzazione delle prestazioni di
lavoro deve avvenire attraverso la predisposizione di orari
e turni, mediante la programmazione dei piani di lavoro e
prescrivendo altresì la loro verifica con sistemi obiettivi
di controllo degli orari di servizio, tali da assicurare che
dette prestazioni siano rese in aggiunta rispetto all’orario
nomale (Cons. Stato, V, 15.11.1999, n. 1911); non può
neanche dedursi la violazione dell'art. 36 Cost. nella
misura in cui salvaguarda il diritto alla retribuzione,
atteso che risulta in ogni caso prevalente il canone
dell'esigenza di buona amministrazione da cui è permeata la
disciplina di settore secondo cui non è possibile
prescindere dalla preventiva autorizzazione allo svolgimento
di prestazioni lavorative ulteriori, o dal riconoscimento
delle stesse ex post per esigenze d'ufficio, ai fini
del riconoscimento del diritto del pubblico dipendente al
pagamento del relativo compenso.
Con riferimento, poi, alla specifica ipotesi del lavoro
straordinario prestato da dipendenti che svolgono la loro
attività con modalità di turnazione, si ritiene di non
discostarsi dalla prevalente giurisprudenza (ex multis,
Cons. Stato, V, 23.01.2007, nn. 226 e 218; 01.12.2006, n.
7065; 16.10.2006, n. 6152; TAR Campania, Salerno, II,
28.06.2006, n. 872) secondo la quale coloro che appartengono
ad una categoria di personale svolgente una prestazione
lavorativa necessariamente e naturalmente articolata su
turni, non hanno titolo per invocare il pagamento di
prestazioni straordinarie. Solo l’Amministrazione può
deliberare di retribuirle nei limiti preventivamente
programmati ed autorizzati, in quanto solo ad essa spetta la
valutazione ed il controllo preventivo circa la
compatibilità finanziaria nonché, una volta deliberato lo
svolgimento di tali prestazioni entro i tetti massimi di ore
e di retribuzione, la verifica delle stesse attraverso
sistemi obiettivi di controllo degli orari di servizio anche
in funzione del conseguimento degli obiettivi prefissati
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 04.01.2013 n. 138 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Ai fini della pretesa
azionata (ndr: mansioni superiori) –sia in via principale
(inquadramento) che correlata (differenze retributive) dalla
ricorrente con il presente gravame-, è necessario
l'allegazione di un principio di prova circa i presupposti
condizionanti la stessa, ovvero, in particolare, l'esistenza
di un puntuale incarico formale, validamente conferito nel
periodo antecedente alla notifica del gravame, dall'organo
competente ed espressamente riferito al richiesto
inquadramento.
... per l'annullamento del silenzio-rifiuto sulla richiesta
di ricostruzione di carriera, quantificazione degli
arretrati e corresponsione di accessori sulle somme
spettanti.
...
Secondo la costante giurisprudenza della Sezione in
fattispecie analoghe, ai fini della pretesa azionata –sia in
via principale (inquadramento) che correlata (differenze
retributive) dalla ricorrente con il presente gravame-, è
necessario l'allegazione di un principio di prova circa i
presupposti condizionanti la stessa, ovvero, in particolare,
l'esistenza di un puntuale incarico formale, validamente
conferito nel periodo antecedente alla notifica del gravame,
dall'organo competente ed espressamente riferito al
richiesto inquadramento.
Cosicché, se i riferiti compiti direttivi di segretaria
particolare presso la Segreteria del Sindaco, riconducibili
alla -superiore rispetto alla rivestita qualifica di
applicata- posizione funzionale di capo divisione
amministrativo (7° livello) siano state svolte sulla base di
un mero ordine di servizio e ripresi in meri schemi di
deliberazione, non sussiste il presupposto del provvedimento
idoneo a dar titolo all’inquadramento ovvero al trattamento
retributivo corrispondente, atteso che le delibere di G.M.
n. 3140 del 26.11.1992 e n. 3996 del 28.12.1992, sulle quali
si fonda la richiesta della ricorrente, sono state annullate
dal Co.Re.Co verbale 146 seduta del 22.12.1992 e verbale 4
seduta del 13.01.1993 (cfr. nota 4472 del 27.05. (Cons.
Stato, V, 09.06.2003, n. 3235).
Dalla documentazione in atti, dunque, non si evince che i
compiti di capo divisione amministrativa siano stati
conferiti per effetto di un puntuale incarico formale, vendo
in rilievo meri schemi deliberativi
Ne consegue che la diversa prospettazione, anche in via
gradata, di parte ricorrente deve essere respinta, dovendosi
dichiarare infondata la pretesa del ricorrente perché la
mansioni svolte non erano supportate da un valido ed
efficace provvedimento formale d'incarico (TAR
Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 04.01.2013 n. 127 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO:
Circa la vendita di un cespite immobiliare.
Il bando di gara prescrive, per la
partecipazione, di presentare una dichiarazione unica
contenente la dichiarazione di "ben
conoscere il cespite immobiliare oggetto dell’asta –per cui
intende partecipare– nello stato di fatto e di diritto in
cui si trova nonché nello stato manutentivo e conservativo e
di giudicare quindi il prezzo fissato a base d’asta congruo
e tale da consentire l’aumento che andrà ad offrire” nonché
l’“attestazione rilasciata dal responsabile del procedimento
di avvenuta presa visione dello stato giuridico del bene cui
si intende partecipare”.
Reputa il Collegio che la clausola in esame mira a garantire
che i partecipanti alla vendita immobiliare abbiano piena
contezza delle caratteristiche del bene che si accingono ad
acquistare e che detta partecipazione avvenga in maniera
responsabile, mediante la presentazione di offerte aderenti
e congrue rispetto al valore effettivo del bene medesimo.
Considerata la finalità cui l’attestazione del responsabile
del procedimento assolve, essa non può essere sostituita in
maniera equivalente dalla dichiarazione del concorrente di
ben conoscere il cespite immobiliare oggetto dell’asta (che,
peraltro, il più delle volte si risolve in una clausola di
stile inserita nel modello predisposto
dall’Amministrazione). Ed invero, la predetta attestazione
viene rilasciata da un pubblico ufficiale per documentare
che il concorrente ha preso visione di tutta la
documentazione in possesso dell’Amministrazione relativa
allo stato giuridico dell’immobile, che non è solo quella
volta a conoscere la situazione ipotecaria o catastale dello
stesso, ma quella atta a documentarne tutta la situazione
giuridico-amministrativa (ivi comprese le caratteristiche
urbanistiche ed edilizie del bene, la sua destinazione,
ecc.).
Per tali ragioni “deve escludersi che la clausola divistata
miri ad imporre un ingiustificato aggravio della procedura,
dovendosi al contrario ritenere del tutto proporzionata
rispetto agli scopi (partecipazione informata delle imprese
partecipanti alla gara) che essa mira a realizzare”.
---------------
Tutta la disciplina contenuta nel codice dei contratti
pubblici non si applica, per espressa previsione dell’art.
19, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 163/2006, ai contratti
pubblici “aventi per oggetto l'acquisto o la locazione,
quali che siano le relative modalità finanziarie, di
terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o
riguardanti diritti su tali beni”.
Inoltre, l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006 delimita
l’ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici
ai “contratti delle stazioni appaltanti, degli enti
aggiudicatori e dei soggetti aggiudicatori, aventi per
oggetto l'acquisizione di servizi, prodotti, lavori e
opere”.
Ne deriva che le disposizioni ed i principi contenuti nella
normativa regolante le procedure ad evidenza pubblica non
possono trovare piana applicazione nelle procedure di
dismissione e vendita di beni immobili da parte dello Stato
e delle altre Amministrazioni pubbliche, se non quando siano
espressamente richiamati negli atti generali che
costituiscono la lex specialis autovincolante per
l’Amministrazione.
I rilievi sollevati dalla ricorrente principale sono
condivisibili.
Al punto 4), rubricato “Documentazione da presentare”,
l’Avviso pubblico stabilisce che nella busta n. 1,
contenente la documentazione amministrativa, avrebbe dovuto
essere inserita una dichiarazione unica, come da fac-simile
in allegato B, contenente, tra l’altro, la dichiarazione di
“ben conoscere il cespite immobiliare oggetto dell’asta
–per cui intende partecipare– nello stato di fatto e di
diritto in cui si trova nonché nello stato manutentivo e
conservativo e di giudicare quindi il prezzo fissato a base
d’asta congruo e tale da consentire l’aumento che andrà ad
offrire” nonché l’ “attestazione rilasciata dal responsabile
del procedimento di avvenuta presa visione dello stato
giuridico del bene cui si intende partecipare”.
La Commissione, nel riammettere in gara la RE.DE. s.r.l., ha
ritenuto ultronea ed inutilmente gravatoria del procedimento
questa seconda attestazione.
Reputa, invece, il Collegio che la clausola in esame mira a
garantire che i partecipanti alla vendita immobiliare
abbiano piena contezza delle caratteristiche del bene che si
accingono ad acquistare e che detta partecipazione avvenga
in maniera responsabile, mediante la presentazione di
offerte aderenti e congrue rispetto al valore effettivo del
bene medesimo.
Considerata la finalità cui l’attestazione del responsabile
del procedimento assolve, essa non può essere sostituita in
maniera equivalente dalla dichiarazione del concorrente di
ben conoscere il cespite immobiliare oggetto dell’asta (che,
peraltro, il più delle volte si risolve in una clausola di
stile inserita nel modello predisposto
dall’Amministrazione). Ed invero, la predetta attestazione
viene rilasciata da un pubblico ufficiale per documentare
che il concorrente ha preso visione di tutta la
documentazione in possesso dell’Amministrazione relativa
allo stato giuridico dell’immobile, che non è solo quella
volta a conoscere la situazione ipotecaria o catastale dello
stesso, ma quella atta a documentarne tutta la situazione
giuridico-amministrativa (ivi comprese le caratteristiche
urbanistiche ed edilizie del bene, la sua destinazione,
ecc.).
Per tali ragioni “deve escludersi che la clausola
divistata miri ad imporre un ingiustificato aggravio della
procedura, dovendosi al contrario ritenere del tutto
proporzionata rispetto agli scopi (partecipazione informata
delle imprese partecipanti alla gara) che essa mira a
realizzare” (cfr. TAR Puglia–Lecce, sez. I, 04.06.2012,
n. 1025).
Né può sostenersi, nel caso di specie, l’applicazione
dell’art. 46, commi 1 ed 1-bis, del d.lgs. n. 163/2001,
atteso che tutta la disciplina contenuta nel codice dei
contratti pubblici non si applica, per espressa previsione
dell’art. 19, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 163/2006, ai
contratti pubblici “aventi per oggetto l'acquisto o la
locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie,
di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o
riguardanti diritti su tali beni”.
Inoltre, l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006 delimita
l’ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici
ai “contratti delle stazioni appaltanti, degli enti
aggiudicatori e dei soggetti aggiudicatori, aventi per
oggetto l'acquisizione di servizi, prodotti, lavori e opere”.
Ne deriva che, al contrario di quanto sostenuto dalla
ricorrente incidentale, le disposizioni ed i principi
contenuti nella normativa regolante le procedure ad evidenza
pubblica non possono trovare piana applicazione nelle
procedure di dismissione e vendita di beni immobili da parte
dello Stato e delle altre Amministrazioni pubbliche, se non
quando siano espressamente richiamati negli atti generali
che costituiscono la lex specialis autovincolante per
l’Amministrazione (TAR Lazio–Roma, sez. II, 22.09.2008, n.
8429).
Nel caso in esame l’avviso d’asta non contiene alcun
richiamo alla disciplina contenuta nel d.lgs. n. 163/2006
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 04.01.2013 n. 22 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Nella comunicazione
interpretativa 2006/C 179/02, la Commissione Europea,
sintetizzando i principi affermati nel corso degli anni
dalla Corte di Giustizia CE in materia di appalti c.d.
esclusi, proprio con riferimento alla questione dibattuta
nel presente giudizio, ha avuto modo di chiarire che
“….Spetta alle amministrazioni aggiudicatrici scegliere il
mezzo più adeguato a garantire la pubblicità dei loro
appalti. La loro scelta deve essere guidata da una
valutazione dell'importanza dell'appalto per il mercato
interno, tenuto conto in particolare del suo oggetto, del
suo importo nonché delle pratiche abituali nel settore
interessato. Quanto più interessante è l'appalto per i
potenziali offerenti di altri Stati membri, tanto maggiore
deve essere la copertura. In particolare, un'adeguata
trasparenza per gli appalti di servizi di cui all'allegato
II B della direttiva 2004/18/CE e all'allegato XVII B della
direttiva 2004/17/CE il cui importo superi le soglie di
applicazione di tali direttive implica di solito la
pubblicazione in un mezzo di comunicazione largamente
diffuso. Quali forme di pubblicità adeguate e frequentemente
utilizzate, è opportuno citare:
- Internet
L'ampia disponibilità e la facilità di utilizzazione di
Internet rendono gli avvisi pubblicitari di appalti
pubblicati sui siti molto più accessibili, in particolare
per le imprese di altri Stati membri e le PMI interessate ad
appalti di importo limitato. Internet offre un'ampia gamma
di possibilità per la pubblicità degli appalti pubblici.
Gli avvisi pubblicitari sul sito Internet
dell'amministrazione aggiudicatrice sono flessibili ed
efficaci sotto il profilo dei costi. Essi devono essere
presentati in modo che i potenziali offerenti possano venire
a conoscenza delle informazioni agevolmente. Le
amministrazioni aggiudicatrici possono inoltre prevedere di
pubblicare tramite Internet informazioni su future
aggiudicazioni di appalti non disciplinate dalle direttive
«appalti pubblici» nel quadro del loro profilo di
committente.
I portali Internet creati specificamente per gli avvisi
pubblicitari di appalti hanno una visibilità più elevata e
possono offrire maggiori opzioni di ricerca. Sotto questo
profilo, la creazione di una piattaforma specifica per gli
appalti di valore limitato con una directory per i bandi di
gara con sottoscrizione via e-mail rientra tra le migliori
pratiche, in quanto sfrutta appieno le possibilità offerte
da Internet per accrescere la trasparenza e l'efficienza….”.
Pur non rivestendo alcun valore normativo, l’opinione
autorevole della Commissione Europea costituisce pur sempre
una guida per l’interprete, visto che una delle finalità
principali degli organismi comunitari in materia di appalti
pubblici è proprio quella di rendere sempre più ardua alle
stazioni appaltanti nazionali la prassi di pubblicizzare in
maniera inadeguata le gare ad evidenza pubblica.
Pertanto, se anche in presenza di appalti di cui
all’allegato IIB di importo superiore alla soglia
comunitaria la pubblicità del bando sul solo sito internet
della stazione appaltante è ritenuta misura adeguata allo
scopo, nella specie l’operato dell’amministrazione va esente
da qualsiasi rilievo in punto di legittimità e ciò anche in
ragione del chiaro disposto dell’art. 20 del Codice dei
contratti pubblici (nella specie, peraltro, il bando è stato
pubblicato anche sul sito dell’A.V.C.P., a riprova del fatto
che la Comunità Montana non aveva alcuna intenzione di
rendere “inaccessibile” la presente gara).
La presente controversia ripropone l’annosa questione
dell’applicazione delle norme e dei principi delle direttive
comunitarie nn. 17 e 18 del 2004 e quindi del D.Lgs. n.
163/2006 agli appalti relativi ai settori ed ai contratti “esclusi”.
Nella specie si tratta di servizio ascrivibile ad una delle
categorie menzionate dall’allegato IIB al c.d. Codice dei
contratti pubblici, la cui disciplina, come correttamente
rilevato dalla stessa ricorrente, è desumibile dagli artt.
20 e 27 del D.Lgs. n. 163/2006.
Peraltro, parte ricorrente, pur muovendo da premesse
corrette, non perviene a conclusioni condivisibili, atteso
che:
a) nella richiamata comunicazione interpretativa 2006/C
179/02, la Commissione Europea, sintetizzando i principi
affermati nel corso degli anni dalla Corte di Giustizia CE
in materia di appalti c.d. esclusi, proprio con riferimento
alla questione dibattuta nel presente giudizio, ha avuto
modo di chiarire che “….Spetta alle amministrazioni
aggiudicatrici scegliere il mezzo più adeguato a garantire
la pubblicità dei loro appalti. La loro scelta deve essere
guidata da una valutazione dell'importanza dell'appalto per
il mercato interno, tenuto conto in particolare del suo
oggetto, del suo importo nonché delle pratiche abituali nel
settore interessato. Quanto più interessante è l'appalto per
i potenziali offerenti di altri Stati membri, tanto maggiore
deve essere la copertura. In particolare, un'adeguata
trasparenza per gli appalti di servizi di cui all'allegato
II B della direttiva 2004/18/CE e all'allegato XVII B della
direttiva 2004/17/CE il cui importo superi le soglie di
applicazione di tali direttive implica di solito la
pubblicazione in un mezzo di comunicazione largamente
diffuso. Quali forme di pubblicità adeguate e frequentemente
utilizzate, è opportuno citare:
- Internet
L'ampia disponibilità e la facilità di utilizzazione di
Internet rendono gli avvisi pubblicitari di appalti
pubblicati sui siti molto più accessibili, in particolare
per le imprese di altri Stati membri e le PMI interessate ad
appalti di importo limitato. Internet offre un'ampia gamma
di possibilità per la pubblicità degli appalti pubblici.
Gli avvisi pubblicitari sul sito Internet
dell'amministrazione aggiudicatrice sono flessibili ed
efficaci sotto il profilo dei costi. Essi devono essere
presentati in modo che i potenziali offerenti possano venire
a conoscenza delle informazioni agevolmente. Le
amministrazioni aggiudicatrici possono inoltre prevedere di
pubblicare tramite Internet informazioni su future
aggiudicazioni di appalti non disciplinate dalle direttive
«appalti pubblici» nel quadro del loro profilo di
committente.
I portali Internet creati specificamente per gli avvisi
pubblicitari di appalti hanno una visibilità più elevata e
possono offrire maggiori opzioni di ricerca. Sotto questo
profilo, la creazione di una piattaforma specifica per gli
appalti di valore limitato con una directory per i bandi di
gara con sottoscrizione via e-mail rientra tra le migliori
pratiche, in quanto sfrutta appieno le possibilità offerte
da Internet per accrescere la trasparenza e l'efficienza….”.
Nel prosieguo, naturalmente, la Commissione cita anche le
altre più tradizionali forme di pubblicità, ma non si può
fare a meno di notare che proprio il mezzo prescelto nella
specie dall’amministrazione intimata è quello menzionato per
primo nella comunicazione interpretativa del 01.08.2006;
b) pur non rivestendo alcun valore normativo, l’opinione
autorevole della Commissione Europea costituisce pur sempre
una guida per l’interprete, visto che una delle finalità
principali degli organismi comunitari in materia di appalti
pubblici è proprio quella di rendere sempre più ardua alle
stazioni appaltanti nazionali la prassi di pubblicizzare in
maniera inadeguata le gare ad evidenza pubblica.
Pertanto, se anche in presenza di appalti di cui
all’allegato IIB di importo superiore alla soglia
comunitaria la pubblicità del bando sul solo sito internet
della stazione appaltante è ritenuta misura adeguata allo
scopo, nella specie l’operato dell’amministrazione va esente
da qualsiasi rilievo in punto di legittimità e ciò anche in
ragione del chiaro disposto dell’art. 20 del Codice dei
contratti pubblici (nella specie, peraltro, il bando è stato
pubblicato anche sul sito dell’A.V.C.P., a riprova del fatto
che la Comunità Montana non aveva alcuna intenzione di
rendere “inaccessibile” la presente gara);
c) l’amministrazione resistente, anche su questo senza
ricevere alcuna smentita dalla ricorrente, ha evidenziato
che la forma di pubblicità adottata nel 2012 è la stessa
posta in essere negli anni precedenti, in occasione delle
procedure in cui è risultata aggiudicataria la cooperativa
COOSS. Inoltre, è stato evidenziato che, essendo nota a
COOSS la data di scadenza del vigente contratto
(31/12/2012), la ricorrente avrebbe dovuto farsi parte
diligente per conoscere gli intendimenti della stazione
appaltante e la data di pubblicazione del bando relativo
alla nuova gara;
d) il Tribunale ritiene che quest’ultimo argomento, che di
per sé solo non sarebbe sufficiente a decretare il rigetto
del ricorso, nella specie rafforza l’operato
dell’amministrazione, non essendovi dubbio alcuno sul fatto
che il gestore uscente di un servizio che intenda
partecipare alle successive gare indette dalla stessa
amministrazione, così come gode, in sede di formulazione
dell’offerta, dei vantaggi derivanti dalla c.d. asimmetria
informativa rispetto agli altri concorrenti, è per converso
tenuto ad una maggiore diligenza in sede di gara, visto che
è lecito presumere che egli conosca meglio degli altri
partecipanti le regole della procedura e non può quindi
normalmente fruire del c.d. soccorso istruttorio;
e) le decisioni del giudice amministrativo richiamate in
ricorso si riferiscono a casi in cui la pubblicità della
gara era stata interamente omessa dalle stazioni appaltanti,
mentre nella specie, come si è chiarito, la pubblicità vi è
stata. Parte ricorrente identifica probabilmente la
pubblicità prevista dal Codice dei contratti solo con quella
attuata con i tradizionali strumenti cartacei, ma questa
visione del mondo è ormai da ritenere superata.
Fra l’altro, non si comprende quale sia per un operatore
economico, in punto di gravosità degli oneri, la differenza
fra la consultazione giornaliera della G.U.R.I. o della
G.U.C.E. o dei Bollettini regionali o degli Albi pretori
delle amministrazioni aggiudicatrici e la consultazione dei
siti internet degli enti aggiudicatori. Tenuto conto
dell’esistenza di efficienti motori di ricerca (nonché di
siti informatici che hanno quale finalità proprio quella di
segnalare alle ditte interessate gli appalti più
significativi) è anzi da ritenere più agevole per un
operatore economico la consultazione dei siti informatici
piuttosto che delle tradizionali pubblicazioni cartacee;
f) la disposizione di cui all’art. 27, comma 1, secondo
periodo, del D.Lgs. n. 163/2006 si riferisce ovviamente a
casi in cui il bando non è pubblicato, non essendo logico e
ragionevole prescrivere un doppio onere a carico delle
stazioni appaltanti, ossia la previa pubblicazione del bando
e, laddove pervenga un numero di manifestazioni di interesse
o di offerte inferiore a cinque, l’estensione dell’invito ad
altri operatori (i quali verrebbero fra l’altro individuati
secondo criteri non meglio definiti), in modo che si abbiano
comunque cinque concorrenti;
g) per tutto quanto detto in precedenza, va anche respinta
la censura con cui si deduce il difetto di motivazione. In
effetti, poiché la forma di pubblicità prescelta rientra fra
quelle ammissibili e poiché le stesse vanno ritenute
equipollenti fra loro, la decisione della Comunità Montana
non necessitava sul punto di specifica motivazione.
Peraltro, la motivazione è stata indirettamente esposta
dalla difesa dell’amministrazione, laddove ha evidenziato
che anche negli anni passati i bandi erano stati pubblicati
solo sul sito informatico dell’ente (TAR Marche,
sentenza 04.01.2013 n. 1 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La revoca, come anche
l’annullamento, d’ufficio di un titolo edilizio richiede la
comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7
della Legge 241/1990, essendo essa un atto discrezionale
suscettibile di ledere posizioni soggettive consolidate.
Considerato:
- che con il provvedimento impugnato il Dirigente del
Settore Urbanistica ed Edilizia Privata del Comune
resistente ha revocato la concessione edilizia n. 471
rilasciata al condominio ricorrente il 22.07.1987;
- che, per giurisprudenza pacifica, la revoca, come anche
l’annullamento, d’ufficio di un titolo edilizio richiede la
comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7
della Legge 241/1990, essendo essa un atto discrezionale
suscettibile di ledere posizioni soggettive consolidate (in
senso conforme, TAR Salerno, sez. I, 27.02.2012, n. 391;
Cons. Giust. Amm. Sicilia, sez. giurisd., 12.11.2008, n.
930);
- che, nel caso di specie, non può trovare applicazione
l’art. 21-octies, comma 2, Legge 241/1990, stante la natura
discrezionale del potere esercitato dall’amministrazione
comunale;
- che pertanto il ricorso va accolto, attesa l’illegittimità
dell’impugnato provvedimento di revoca per non essere stato
preceduto dalla comunicazione dell’avvio del procedimento
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 04.01.2013 n. 1 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: CASSAZIONE/
Decisione unilaterale giustificata dall'urgenza: rimborsate
le spese. Condomini, telecamere libere.
Chi vuole proteggersi dai furti non ha bisogno del voto.
Meno privacy nei condomini. Infatti, il condomino può
installare, senza preventivo consenso dell'assemblea, una
telecamera nel parcheggio oggetto di furti. Non solo. Si
tratta di una decisione unilaterale giustificata
dall'urgenza che dà quindi diritto al rimborso delle spese
sostenute.
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione con
la sentenza 03.01.2013 n. 71.
In particolare la
seconda sezione civile del Palazzaccio ha respinto il
ricorso di un consorzio che lamentava l'installazione da
parte di un altro condomino, senza autorizzazione degli
altri proprietari. L'impianto era stato fatto perché l'area
era stata spesso oggetto di furto. Quindi il giudice di pace
aveva considerato la spesa affrontata da un solo
proprietario urgente e quindi rimborsabile. Non solo, ad
avviso del magistrato onorario non poteva ravvisarsi alcuna
violazione della privacy.
L'impianto della motivazione di
merito è stato integralmente confermato dalla Suprema corte
che, su quest'ultimo fronte ha ricordato che «non sussistono
gli estremi atti ad integrare il delitto di interferenze
illecite nella vita privata (art. 615-bis cod. pen.) nel
caso in cui un soggetto effettui riprese dell'area
condominiale destinata a parcheggio e del relativo ingresso,
trattandosi di luoghi destinati all'uso di un numero
indeterminato di persone e, pertanto, esclusi dalla tutela
di cui all'art. 615-bis cod. pen., la quale concerne, sia
che si tratti di «domicilio», di «privata dimora» o
«appartenenze di essi», una particolare relazione del
soggetto con l'ambiente in cui egli vive la sua vita
privata, in modo da sottrarla ad ingerenze esterne
indipendentemente dalla sua presenza».
Per quanto concerne invece il rimborso delle spese sostenute
in via d'urgenza, i giudici con l'Ermellino hanno, anche in
questo caso, confermato il verdetto del giudice di pace
ritenendo sussistente il diritto al rimborso da parte del
condomino.
Infatti, si legge in sentenza, «il ricorrente, con il
primo motivo, pur facendo genericamente riferimento ad un
principio del nostro ordinamento in tema di spese
condominiali, ha, in concreto, lamentato a tale riguardo la
sola violazione della norma di cui all'art. 1134 cod. civ.,
dolendosi della non ricorrenza dei presupposti per
l'anticipazione e la rimborsabilità di spese condominiali,
senza peraltro neppure dedurre come la regola equitativa
individuata dal giudice di pace si ponga in contrasto con il
predetto principio; né peraltro allega che il supposto
principio desunto dall'art. 1134 cod. civ. sia anche un
principio informatore della materia né tanto è allegato in
relazione al pur invocato principio di tutela di
riservatezza e della privacy»
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2013). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Ai fini della rimozione
della causa d’incompatibilità per lite pendente, prevista
dall’art. 63, comma 1, n. 4, d.lgs. 267/2000, è necessario e
sufficiente che il soggetto, il quale versi in una siffatta
situazione, ponga in essere atti idonei, anche se non
formalmente perfetti rispetto alla specifica disciplina che
eventualmente li regoli, a far venir meno nella sostanza
l’incompatibilità d’interessi realizzatasi a seguito
dell’instaurazione della lite medesima.
E poiché il sostanziale e incondizionato abbandono della
vertenza elimina in radice la ragione di incompatibilità, la
causa d’incompatibilità per lite pendente può essere esclusa
in presenza di atti implicanti il sostanziale venir meno del
conflitto, o il carattere pretestuoso della lite, inteso
come artificiosa e maliziosa creazione o conservazione di
una situazione di fatto diretta a danneggiare l’eletto.
Anche il quarto motivo non convince.
Dalla documentazione allegata dall'amministrazione
resistente si ricava che con nota in data 14.07.2011, n.
23967 (quindi in data antecedente alla prima seduta
consiliare del 15.07.del 1011) il consigliere O.E. ha
rinunciato al giudizio pendente innanzi a questo Tribunale.
La rinuncia al giudizio non è condizionata dall'accettazione
delle controparti, per cui alla data della seduta del
Consiglio Comunale era venuto meno il presupposto della lite
pendente e, quindi, la necessità di dar corso alla procedura
di contestazione dell'incompatibilità da parte del consiglio
comunale ai sensi dell'articolo 69 del decreto legislativo
267/2000.
Peraltro al riguardo è opportuno osservare che secondo la
prevalente giurisprudenza “ai fini della rimozione della
causa d’incompatibilità per lite pendente, prevista
dall’art. 63, comma 1, n. 4, d.lgs. 267/2000, è necessario e
sufficiente che il soggetto, il quale versi in una siffatta
situazione, ponga in essere atti idonei, anche se non
formalmente perfetti rispetto alla specifica disciplina che
eventualmente li regoli, a far venir meno nella sostanza
l’incompatibilità d’interessi realizzatasi a seguito
dell’instaurazione della lite medesima. E poiché il
sostanziale e incondizionato abbandono della vertenza
elimina in radice la ragione di incompatibilità, la causa
d’incompatibilità per lite pendente può essere esclusa in
presenza di atti implicanti il sostanziale venir meno del
conflitto, o il carattere pretestuoso della lite, inteso
come artificiosa e maliziosa creazione o conservazione di
una situazione di fatto diretta a danneggiare l’eletto”
(ex plurimis, Corte di Cassazione, sez. I.
12.02.2008, n. 3384)
La legittimità della condotta tenuta dall'amministrazione in
virtù di quanto sopra considerato non influisce, quindi,
sulla successiva delibera del Consiglio Comunale del
25.07.2011, n. 18, che pertanto deve essere ritenuta
legittima (quinto motivo) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 03.01.2013 n. 8 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: La
giurisprudenza amministrativa ha elaborato una serie di
ipotesi che comportano l’esclusione dei candidati (ndr: alle
elezioni amministrative) per invalidità della autentica, tra
cui è prevista la nullità della dichiarazione di
accettazione della candidatura per mancanza assoluta della
autentica; e tanto in considerazione della circostanza che
la autenticazione, nelle operazioni di presentazione delle
liste dei candidati, è requisito prescritto ad substantiam,
per garantire la certezza della provenienza delle
dichiarazioni.
---------------
Secondo l'art. 21, comma 2, del d.P.R. 28.12.2000, n. 445
“l'autenticazione è redatta di seguito alla sottoscrizione e
il pubblico ufficiale, che autentica, attesta che la
sottoscrizione è stata apposta in sua presenza, previo
accertamento dell'identità del dichiarante, indicando le
modalità di identificazione, la data ed il luogo di
autenticazione, il proprio nome, cognome e la qualifica
rivestita, nonché apponendo la propria firma e il timbro
dell'ufficio”.
Sotto il profilo sostanziale è, quindi, essenziale il
corretto accertamento della identità della persona che
sottoscrive (fase accertativa): che può avvenire o per
conoscenza diretta o sulla base di un documento
identificativo del sottoscrittore.
Sotto il profilo formale (fase certificativa) la correttezza
del riconoscimento è attestata, in particolare, dalla
descrizione sintetica di modalità identificative utili ad
evidenziare il rispetto di dette garanzie.
In questa prospettiva l'autenticazione non costituisce un
semplice mezzo di prova, ma è un requisito prescritto ad
substantiam, per garantire, nell'interesse pubblico con il
vincolo della fede privilegiata, la certezza della
provenienza della presentazione della lista da parte di chi
figura averla sottoscritta.
---------------
Alla stregua della legislazione attualmente vigente, essendo
ogni persona individuata nella sua unicità attraverso i dati
anagrafici (cognome, nome, luogo e data di nascita) è
evidente che tali dati debbano essere indefettibilmente
rilevati e riferiti al fine di stabilire chi esattamente sia
la persona che appone la sottoscrizione; tale specificazione
è un presupposto dell'identificazione, ossia del
riconoscimento del candidato.
Sicché la autenticazione effettuata con attestazione dei
dati anagrafici di persona diversa, viola il disposto
dell'art. 21 del d.P.R. n. 445/2000, che impone al pubblico
ufficiale autenticante di accertare l'identità di chi
sottoscrive.
Torna utile
osservare che la necessità della autentica della
dichiarazione di accettazione delle candidature è prevista
dall'articolo 32, comma 9, n. 2 del TU n. 570/1960; ed il TU
citato non prevede la sanzione di inammissibilità della
candidatura per il solo caso della irregolarità formale
nell'autentica, disponendo l'art. 33, lettera c), del detto
TU che l'Ufficio deve eliminare i candidati: “...per i
quali manca o è incompleta la dichiarazione di accettazione
di cui all'art. 32, comma 9, n. 2” .
In proposito la giurisprudenza amministrativa ha elaborato
una serie di ipotesi che comportano l’esclusione dei
candidati per invalidità della autentica, tra cui è prevista
la nullità della dichiarazione di accettazione della
candidatura per mancanza assoluta della autentica (cfr.
Consiglio di Stato, n. 282/1998); e tanto in considerazione
della circostanza che la autenticazione, nelle operazioni di
presentazione delle liste dei candidati, è requisito
prescritto ad substantiam, per garantire la certezza
della provenienza delle dichiarazioni.
Invero, il caso di specie deve ritenersi equiparato alla
nullità per mancanza assoluta della autentica, tale essendo
quest’ultima che si riferisce ad un soggetto (che se pur
omonimo) appare diverso in relazione alla data di nascita e
residenza indicate, in modo da comportare una incertezza in
ordine al candidato che è stato identificato dal pubblico
ufficiale autenticante.
Al riguardo, è utile ricordare che secondo l'art. 21, comma
2, del d.P.R. 28.12.2000, n. 445 “l'autenticazione è
redatta di seguito alla sottoscrizione e il pubblico
ufficiale, che autentica, attesta che la sottoscrizione è
stata apposta in sua presenza, previo accertamento
dell'identità del dichiarante, indicando le modalità di
identificazione, la data ed il luogo di autenticazione, il
proprio nome, cognome e la qualifica rivestita, nonché
apponendo la propria firma e il timbro dell'ufficio”.
Sotto il profilo sostanziale è, quindi, essenziale il
corretto accertamento della identità della persona che
sottoscrive (fase accertativa): che può avvenire o per
conoscenza diretta o sulla base di un documento
identificativo del sottoscrittore.
Sotto il profilo formale (fase certificativa) la correttezza
del riconoscimento è attestata, in particolare, dalla
descrizione sintetica di modalità identificative utili ad
evidenziare il rispetto di dette garanzie.
In questa prospettiva l'autenticazione non costituisce un
semplice mezzo di prova, ma è un requisito prescritto ad
substantiam, per garantire, nell'interesse pubblico con
il vincolo della fede privilegiata, la certezza della
provenienza della presentazione della lista da parte di chi
figura averla sottoscritta.
Nel caso di specie la difesa dei ricorrenti, anche nel corso
della discussione di merito, ha evidenziato come la
correttezza dell’attività identificativa non sia stata
adeguatamente assicurata dalla identificazione di un omonimo
con data di nascita e residenza diversa rispetto a quelli
effettivi del soggetto che aveva inteso effettivamente
candidarsi con la lista “Uniti per San Marcellino”.
Tanto da prospettare al Collegio, addirittura, la
possibilità di disporre la sospensione del processo e
l’assegnazione di un termine per proporre la querela di
falso avverso tale autenticazione.
Al riguardo è sufficiente osservare come la carenza di
completezza dell'autenticazione costituisce un elemento di
invalidità della stessa senza che rilevi, nella specie, un
onere di querela di falso.
Peraltro è utile osservare che l'efficacia probatoria che
l'art. 2700 c.c. riconosce all'atto pubblico “fino a
querela di falso” riguarda la provenienza del documento
dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché le
dichiarazioni e gli altri fatti che il pubblico ufficiale
dichiari avvenuti in sua presenza, ma non si estende al
contenuto sostanziale delle dichiarazioni, che può essere
contestato senza ricorrere alla querela di falso (cfr.
Consiglio Stato sez. IV, 10.07.1996, n. 833; idem,
04.09.1996, n. 1009; idem, sez. V, 18.06.2001, n. 3212).
Sulla base di quanto considerato si ritiene ad ogni modo che
l'errore compiuto nella autenticazione della firma del
candidato Bamundo Michele non riveste carattere puramente
formale, ma che abbia consistenza sostanziale e valenza
incisiva tale da invalidare l'accettazione della candidatura
dello stesso.
Invero, come già osservato in analoghe occasioni da questo
Tribunale la certezza privilegiata che assiste le
sottoscrizioni autenticate presuppone in via primaria ed
essenziale, il riscontro incontrovertibile e sicuro della
identità del candidato; per cui, ove detto riscontro sia
stato carente o tale da ingenerare obiettiva incertezza,
l'affermazione della genuinità della firma, in cui
l'autentica stessa si risolve, perde valore.
Alla stregua della legislazione attualmente vigente, essendo
ogni persona individuata nella sua unicità attraverso i dati
anagrafici (cognome, nome, luogo e data di nascita) è
evidente che tali dati debbano essere indefettibilmente
rilevati e riferiti al fine di stabilire chi esattamente sia
la persona che appone la sottoscrizione; tale specificazione
è un presupposto dell'identificazione, ossia del
riconoscimento del candidato.
Sicché la autenticazione effettuata con attestazione dei
dati anagrafici di persona diversa, viola il disposto
dell'art. 21 del d.P.R. n. 445/2000, che impone al pubblico
ufficiale autenticante di accertare l'identità di chi
sottoscrive.
Il pubblico ufficiale, invero, al momento della apposizione
della propria firma in calce alla autentica, avrebbe dovuto
rilevare l'incongruità tra il nome del candidato (della cui
identità egli aveva dichiarato essere certo) e i dati
anagrafici inseriti nella autentica, ed effettuare
nell'immediatezza la correzione. Anche a voler ammettere che
al momento della compilazione del modulo sia stato compiuto
un errore materiale, lo stesso si è tradotto, subito dopo al
momento della apposizione della firma per autentica del
pubblico ufficiale, in un difetto assoluto di
identificazione del soggetto che aveva apposto la
sottoscrizione.
La autenticazione effettuata con riferimento ai dati
anagrafici di soggetto diverso dal candidato della lista
vincitrice si traduce, quindi, in un vizio formale che
comporta invalidità sostanziale della autenticazione, che
non può risolversi in mera irregolarità.
Il difetto della accettazione della candidatura, tuttavia,
essendo riferibile ad un unico candidato non può comportare
nel caso di specie l’esclusione della lista, ma solo la
cancellazione del nome del candidato stesso
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 03.01.2013 n. 7 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Al fine di assicurare
imparzialità, pubblicità e trasparenza dell’azione
amministrativa, le sedute di una commissione di gara devono
ispirarsi al principio di concentrazione e di continuità,
nel senso che le operazioni di esame delle offerte tecniche
devono essere racchiuse possibilmente in una sola seduta,
senza soluzione di continuità, proprio al fine di prevenire
influenze esterne ed assicurare l’indipendenza del giudizio.
Se è anche vero che tale principio può conoscere delle
eccezioni, ad esempio per la complessità delle operazioni di
gara o per il numero delle offerte presentate, resta
tuttavia fermo che l’intervallo tra una seduta e l’altra
deve essere minimo e che debbono essere fornite adeguate
garanzie di conservazione dei plichi.
---------------
A fronte di una verbalizzazione non già incompleta ma del
tutto mancante, e nel quadro di una procedura protrattasi
ingiustificatamente per lunghi mesi e nella quale i plichi
contenenti le offerte tecniche erano stati aperti in seduta
riservata, il Collegio è dell’avviso che non debba essere la
parte ricorrente a dimostrare l’effettiva manomissione dei
plichi ma, piuttosto, la stazione appaltante a dare prova
dell’integrità delle buste e della correttezza delle
valutazioni compiute.
Va ricordato come in
linea generale, al fine di assicurare imparzialità,
pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa, le
sedute di una commissione di gara devono ispirarsi al
principio di concentrazione e di continuità, nel senso che
le operazioni di esame delle offerte tecniche devono essere
racchiuse possibilmente in una sola seduta, senza soluzione
di continuità, proprio al fine di prevenire influenze
esterne ed assicurare l’indipendenza del giudizio.
Se è anche vero che tale principio può conoscere delle
eccezioni, ad esempio per la complessità delle operazioni di
gara o per il numero delle offerte presentate, resta
tuttavia fermo che l’intervallo tra una seduta e l’altra
deve essere minimo e che debbono essere fornite adeguate
garanzie di conservazione dei plichi (v. Cons. St., V, n.
8155/2010).
Nel caso di specie, non solo non è stata fornita alcuna
giustificazione in ordine a tale vistosa eccezione alla
regola generale ma, passando all’altra censura, nulla è
stato verbalizzato circa le modalità di conservazione dei
plichi né è stato indicato un soggetto responsabile della
custodia, a conferma di una procedura che, nell’insieme, si
è caratterizzata per la scarsa trasparenza.
Va precisato che, a fronte di una verbalizzazione non
già incompleta ma del tutto mancante, e nel quadro di una
procedura protrattasi ingiustificatamente per lunghi mesi e
nella quale i plichi contenenti le offerte tecniche erano
stati aperti in seduta riservata, il Collegio è dell’avviso
che non debba essere la parte ricorrente a dimostrare
l’effettiva manomissione dei plichi ma, piuttosto, la
stazione appaltante a dare prova dell’integrità delle buste
e della correttezza delle valutazioni compiute. Prova che
non è stata data in alcun modo
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 31.12.2012 n. 6714 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Nello
schema giuridico delineato dall'art. 31 del d.P.R. n.
380/2001 non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali,
atteso che l'esercizio del potere repressivo dell’abuso
edilizio costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa
l'interesse pubblico alla sua rimozione, soprattutto quando,
come nella specie, è decorso un breve periodo di tempo tra
la realizzazione delle opere e l’emissione dei provvedimenti
sanzionatori.
In definitiva, l’ingiunzione di demolizione può ritenersi
sufficientemente motivata per effetto della stessa
descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo
necessario e sufficiente a fondare la spedizione della
misura sanzionatoria.
---------------
L'individuazione dell'area di pertinenza della "res abusiva"
non deve necessariamente compiersi al momento
dell'emanazione dell'ingiunzione di demolizione, bensì nel
provvedimento successivo con il quale viene accertata
l'inottemperanza e si procede all'acquisizione gratuita del
bene al patrimonio del comune, ai sensi dell'art. 31, comma
3, del d.P.R. n. 380 del 2001.
---------------
L’ordinanza di sospensione dei lavori ha contenuto
equipollente alla comunicazione di avvio del procedimento
sanzionatorio.
Inoltre, alla luce della documentazione depositata in
giudizio, il contenuto dell’ingiunzione finale di
demolizione non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato, sicché la partecipazione degli
interessati non sarebbe stata comunque utile a determinare
un diverso esito del procedimento sanzionatorio, secondo il
disposto dall’art. 21-octies della L. n. 241/1990,
introdotto dalla L. n. 15/2005.
Circa il presunto difetto di motivazione, va osservato
che nello schema giuridico delineato dall'art. 31 del d.P.R.
n. 380/2001 non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali,
atteso che l'esercizio del potere repressivo dell’abuso
edilizio costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa
l'interesse pubblico alla sua rimozione, soprattutto quando,
come nella specie, è decorso un breve periodo di tempo tra
la realizzazione delle opere e l’emissione dei provvedimenti
sanzionatori (cfr. TAR Campania, Sezione II, 23.04.2007 n. 4229; Sezione IV, 24.09.2002, n. 5556;
Consiglio Stato, Sezione IV, 27.04.2004, n. 2529). In
definitiva, l’ingiunzione di demolizione può ritenersi
sufficientemente motivata per effetto della stessa
descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo
necessario e sufficiente a fondare la spedizione della
misura sanzionatoria.
Anche l’ulteriore censura è destituita di fondamento, atteso
che, come chiarito pacificamente in giurisprudenza,
l'individuazione dell'area di pertinenza della "res abusiva"
non deve necessariamente compiersi al momento
dell'emanazione dell'ingiunzione di demolizione, bensì nel
provvedimento successivo con il quale viene accertata
l'inottemperanza e si procede all'acquisizione gratuita del
bene al patrimonio del comune, ai sensi dell'art. 31, comma
3, del d.P.R. n. 380 del 2001 (cfr., per tutte, TAR
Campania, Sezione III, 08.09.2006, n. 7986).
Le considerazioni fin qui svolte permettono di superare
anche la residua censura, ove è dedotta la violazione
dell’art. 7 della L. n. 241/1990, per l’omessa comunicazione
dell’avvio del procedimento.
Invero, il Collegio osserva che l’ordinanza di sospensione
dei lavori (nel caso di specie spedita il 02.03.2005) ha
contenuto equipollente alla comunicazione di avvio del
procedimento sanzionatorio. Inoltre, alla luce della
documentazione depositata in giudizio, il contenuto
dell’ingiunzione finale di demolizione non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato, sicché la
partecipazione degli interessati non sarebbe stata comunque
utile a determinare un diverso esito del procedimento
sanzionatorio, secondo il disposto dall’art. 21-octies della
L. n. 241/1990, introdotto dalla L. n. 15/2005
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 29.12.2012 n.
5382 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Ai
fini della qualificazione di una costruzione, rilevano le
caratteristiche oggettive della stessa, prescindendosi
dall’intento dichiarato dal privato di voler destinare
l’opera ad utilizzazioni più ristrette di quelle alle quali
il manufatto potenzialmente si presta.
---------------
La nozione urbanistica di pertinenza non coincide con quella
più ampia fornita dall’art. 817 del cod. civ., dovendo
essere perimetrata in modo compatibile coi principi della
materia e riferita, quindi, alle sole opere edilizie minori,
che abbiano scarso o nullo peso dal punto di vista del
carico edilizio ed urbanistico.
Non rileva, inoltre, la dichiarata volontà di
non destinare le opere all’uso residenziale. Nel caso di
specie, il manufatto realizzato, per le caratteristiche
strutturali e le dimensioni (copre una superficie di 30
mq.), configura, piuttosto, una nuova costruzione,
integrando un organismo edilizio suscettibile di autonomo
utilizzo, preordinato a soddisfare esigenze non precarie
sotto il profilo funzionale, in quanto tale idoneo ad
alterare lo stato dei luoghi ed a comportare una
significativa trasformazione del territorio (cfr., ex multis,
Consiglio di Stato, Sezione V, 13.06.2006 n. 3490; TAR
Lazio, Roma, Sezione I, 18.06.2008 n. 5965; Sez. I-quater, 23.11.2007 n. 11679).
Invero, ai fini della qualificazione
di una costruzione, rilevano le caratteristiche oggettive
della stessa, prescindendosi dall’intento dichiarato dal
privato di voler destinare l’opera ad utilizzazioni più
ristrette di quelle alle quali il manufatto potenzialmente
si presta (cfr. Consiglio di Stato, V Sezione, 21.10.1992 n. 1025 e 13.05.1997 n. 483; TAR Campania, IV
Sezione, 12.01.2000 n. 30; II Sezione, 03.02.2006
n.1506).
Non appare condivisibile neanche la riduttiva definizione
dell’intervento sopra descritto come mera pertinenza, atteso
che, come chiarito dalla giurisprudenza (cfr., Consiglio di
Stato, Sezione V, 23.03.2000 n. 1600; Sezione IV, 07.07.2008 n. 3379; TAR Lazio, Sezione II-ter,
06.09.2000 n. 6900; TAR Campania, Sezione II, 24.01.2008 n. 402 e Sezione IV,
03.01.2002 n. 50; TAR
Lazio, Latina, 04.07.2006 n.428), la nozione urbanistica
di pertinenza non coincide con quella più ampia fornita
dall’art. 817 del cod. civ., dovendo essere perimetrata in
modo compatibile coi principi della materia e riferita,
quindi, alle sole opere edilizie minori, che abbiano scarso
o nullo peso dal punto di vista del carico edilizio ed
urbanistico
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 29.12.2012 n.
5381 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L’asservimento
in favore del fondo interessato dalla costruzione non
implica alcun divieto di alienazione dei suoli asserviti ma
soltanto l’utilizzo della capacità edificatoria espressa
dalle relative particelle, che restano pertanto
inedificabili anche in caso di successivo trasferimento a
terzi.
Ritenuta la fondatezza anche del secondo motivo, diretto a
contestare la sostanza della determinazione assunta
dall’amministrazione, in quanto:
- l’asservimento in favore del fondo interessato dalla
costruzione (particella 1318 del foglio 16) di vari terreni
(tra i quali quello individuato in catasto con la particella
n. 1109 del foglio 16, di 1823 mq.) –realizzato con atto
d’obbligo redatto in forma pubblica (per notaio P. Aponte
rep. 9560, raccolta 4113, del 03.04.2007, regolarmente
trascritto il giorno seguente presso la competente
Conservatoria dei Registri Immobiliari), ai sensi degli
articoli 48 e 49 del regolamento edilizio comunale– non
implica alcun divieto di alienazione dei suoli asserviti ma
soltanto l’utilizzo della capacità edificatoria espressa
dalle relative particelle, che restano pertanto
inedificabili anche in caso di successivo trasferimento a
terzi (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sezione II, 26.07.2012 n.
2097; TAR Campania, Napoli, Sezione II, 14.04.2006 n. 3611)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 29.12.2012 n.
5380 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La disciplina comunitaria
è rivolta, per il tramite dell'istituto dell'avvalimento, a
permettere la più ampia partecipazione alle gare,
consentendo a soggetti che ne siano privi di concorrere
ricorrendo ai requisiti di altri soggetti, senza che abbiano
alcuna influenza per la stazione appaltante i rapporti
esistenti tra il concorrente ed il soggetto avvalso, essendo
indispensabile unicamente che il primo dimostri di poter
disporre dei mezzi del secondo.
La giurisprudenza ha, inoltre, osservato come la disciplina
dell'art. 49 del Codice dei contratti pubblici non pone
alcuna limitazione al ricorso all'istituto dell'avvalimento,
se non per i requisiti strettamente personali di carattere
generale, di cui agli artt. 38 e 39, di modo che è possibile
comprovare tramite detto istituto anche il fatturato,
l'esperienza pregressa ed il numero dei dipendenti a tempo
indeterminato, ovvero integrare anche il requisito del
possesso di capitale sociale minimo, ritenendo quest'ultimo
come requisito di natura economica.
Nella disciplina dell’avvalimento assume valore decisivo la
dimostrazione dell’effettiva disponibilità da parte della
concorrente dei mezzi e dei requisiti offerti da altra
impresa e a tale fine l’art. 49 richiede che il concorrente
produca:
a) una sua dichiarazione verificabile ai sensi dell’articolo
48, attestante l’avvalimento dei requisiti necessari per la
partecipazione alla gara, con specifica indicazione dei
requisiti stessi e dell’impresa ausiliaria,
b) una dichiarazione sottoscritta dall’impresa ausiliaria
con cui quest’ultima si obbliga verso il concorrente e verso
la stazione appaltante a mettere a disposizione per tutta la
durata dell’appalto le risorse necessarie di cui è carente
il concorrente,
c) il contratto di avvalimento, in originale o copia
autentica, in virtù del quale l’impresa ausiliaria si
obbliga nei confronti del concorrente a fornire i requisiti
e a mettere a disposizione le risorse necessarie per tutta
la durata dell’appalto.
La dichiarazione dell'impresa ausiliaria (di cui al comma 2,
lett. d), dell’art. 49) e il contratto di avvalimento (comma
2, lett. f), dell’art. 49) sono atti tra loro diversi, per
natura, contenuto e finalità.
La dichiarazione, infatti, costituisce un atto di assunzione
unilaterale di obbligazioni nei confronti della stazione
appaltante; mentre il contratto di avvalimento costituisce
l'atto bilaterale di costituzione di un rapporto giuridico
patrimoniale, stipulato tra l'impresa partecipante alla gara
e l'impresa ausiliaria, di modo che in esso devono essere
contemplate -nel rispetto dei requisiti generali di cui
all'art. 1325 c.c. e di quelli desumibili dall'art. 49,
comma 2, lett. f), del d.l.vo 2006 n. 163- le reciproche
obbligazioni delle parti e le prestazioni da esse
discendenti.
Insomma, la dichiarazione ed il contratto di avvalimento
sono atti da tenere distinti e, quindi, tali da presentare
un contenuto differente e "non sovrapponibile", di modo che
non soddisfa l'obbligo di allegazione di cui all'art. 49,
comma 2, lett. f), un contratto che presenti un "contenuto"
(inteso come complesso delle reciproche obbligazioni e
prestazioni delle parti stipulanti), meramente riproduttivo
della dichiarazione unilaterale.
Il contratto di avvalimento deve rispettare la disciplina
civilistica in tema di contenuto del contratto, con
particolare riferimento all’esistenza e alla determinatezza
dell'oggetto.
Ciò che occorre verificare, in conformità alle indicazioni
desumibili dal citato art. 49, comma 2, lett. f), è se il
contratto individui in modo chiaro ed esaustivo la volontà
dell'impresa ausiliaria di impegnarsi, la natura
dell'impegno assunto e la sua durata per tutto il tempo
dell'appalto, la concreta ed effettiva disponibilità di
porre a disposizione della concorrente i requisiti
considerati.
L’esigenza di specificità è ribadita dall’art. 88 del d.p.r.
05.10.2010, n. 207, che in relazione agli appalti di opere
richiede che il contratto riporti in modo compiuto,
esplicito ed esauriente le risorse e i mezzi prestati, in
modo determinato e specifico; si tratta di una disposizione
che, seppure dettata in materia di appalti di opere, ha
portata generale perché riflette un principio di ordine
generale correlato al contenuto del contratto e, pertanto,
da applicare anche per la dimostrazione del possesso,
mediante avvalimento, dei requisiti di capacità tecnica e
professionale negli appalti di servizi.
E’ noto che la disciplina dell’istituto
dell’avvalimento, dettata dall’art. 49 del codice degli
appalti, si correla alla previsione dell'art. 47 della
Direttiva 2004/18/CE, in base al quale (comma 2): "Un
operatore economico può, se del caso e per un determinato
appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti,
a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con
questi ultimi. In tal caso deve dimostrare alla
amministrazione aggiudicatrice che disporrà dei mezzi
necessari, ad esempio mediante presentazione dell'impegno a
tal fine di questi soggetti".
La giurisprudenza ha già chiarito che la disciplina
comunitaria è rivolta, per il tramite dell'istituto dell'avvalimento,
a permettere la più ampia partecipazione alle gare,
consentendo a soggetti che ne siano privi di concorrere
ricorrendo ai requisiti di altri soggetti (Cons. St., sez.
VI, 18.09.2009 n. 5626), senza che abbiano alcuna
influenza per la stazione appaltante i rapporti esistenti
tra il concorrente ed il soggetto avvalso, essendo
indispensabile unicamente che il primo dimostri di poter
disporre dei mezzi del secondo (Cons. St., sez. V, 17.03.2009 n. 1589).
La giurisprudenza ha, inoltre, osservato come la disciplina
dell'art. 49 del Codice dei contratti pubblici non pone
alcuna limitazione al ricorso all'istituto dell'avvalimento,
se non per i requisiti strettamente personali di carattere
generale, di cui agli artt. 38 e 39 (Cons. St., sez. III, 15.11.2011 n. 6040), di modo che è possibile comprovare
tramite detto istituto anche il fatturato, l'esperienza
pregressa ed il numero dei dipendenti a tempo indeterminato,
ovvero integrare anche il requisito del possesso di capitale
sociale minimo, ritenendo quest'ultimo come requisito di
natura economica (Cons. St., sez. V, 08.10.2011 n.
5496).
Nella disciplina dell’avvalimento assume valore decisivo la
dimostrazione dell’effettiva disponibilità da parte della
concorrente dei mezzi e dei requisiti offerti da altra
impresa e a tale fine l’art. 49 richiede che il concorrente
produca:
a) una sua dichiarazione verificabile ai sensi
dell’articolo 48, attestante l’avvalimento dei requisiti
necessari per la partecipazione alla gara, con specifica
indicazione dei requisiti stessi e dell’impresa ausiliaria,
b) una dichiarazione sottoscritta dall’impresa ausiliaria
con cui quest’ultima si obbliga verso il concorrente e verso
la stazione appaltante a mettere a disposizione per tutta la
durata dell’appalto le risorse necessarie di cui è carente
il concorrente,
c) il contratto di avvalimento, in originale
o copia autentica, in virtù del quale l’impresa ausiliaria
si obbliga nei confronti del concorrente a fornire i
requisiti e a mettere a disposizione le risorse necessarie
per tutta la durata dell’appalto.
La dichiarazione dell'impresa ausiliaria (di cui al comma 2,
lett. d), dell’art. 49) e il contratto di avvalimento (comma
2, lett. f), dell’art. 49) sono atti tra loro diversi, per
natura, contenuto e finalità.
La dichiarazione, infatti, costituisce un atto di assunzione
unilaterale di obbligazioni nei confronti della stazione
appaltante; mentre il contratto di avvalimento costituisce
l'atto bilaterale di costituzione di un rapporto giuridico
patrimoniale, stipulato tra l'impresa partecipante alla gara
e l'impresa ausiliaria, di modo che in esso devono essere
contemplate -nel rispetto dei requisiti generali di cui
all'art. 1325 c.c. e di quelli desumibili dall'art. 49,
comma 2, lett. f), del d.l.vo 2006 n. 163- le reciproche
obbligazioni delle parti e le prestazioni da esse
discendenti.
Insomma, la dichiarazione ed il contratto di avvalimento
sono atti da tenere distinti e, quindi, tali da presentare
un contenuto differente e "non sovrapponibile", di modo che
non soddisfa l'obbligo di allegazione di cui all'art. 49,
comma 2, lett. f), un contratto che presenti un "contenuto"
(inteso come complesso delle reciproche obbligazioni e
prestazioni delle parti stipulanti), meramente riproduttivo
della dichiarazione unilaterale.
Il contratto di avvalimento deve rispettare la disciplina
civilistica in tema di contenuto del contratto, con
particolare riferimento all’esistenza e alla determinatezza
dell'oggetto.
Ciò che occorre verificare, in conformità alle indicazioni
desumibili dal citato art. 49, comma 2, lett. f), è se il
contratto individui in modo chiaro ed esaustivo la volontà
dell'impresa ausiliaria di impegnarsi, la natura
dell'impegno assunto e la sua durata per tutto il tempo
dell'appalto, la concreta ed effettiva disponibilità di
porre a disposizione della concorrente i requisiti
considerati (Cons. St., sez. V, 15.11.2010 n. 8043).
L’esigenza di specificità è ribadita dall’art. 88 del d.p.r.
05.10.2010, n. 207, che in relazione agli appalti di
opere richiede che il contratto riporti in modo compiuto,
esplicito ed esauriente le risorse e i mezzi prestati, in
modo determinato e specifico; si tratta di una disposizione
che, seppure dettata in materia di appalti di opere, ha
portata generale perché riflette un principio di ordine
generale correlato al contenuto del contratto e, pertanto,
da applicare anche per la dimostrazione del possesso,
mediante avvalimento, dei requisiti di capacità tecnica e
professionale negli appalti di servizi (in argomento si
considerino Consiglio di Stato, sez. IV, 01.08.2012, n.
4406; Consiglio di Stato, sez. VI, 02.05.2012, n. 2508;
TAR Napoli Campania, sez. I, 04.07.2012, n. 3194;
TAR Napoli Campania, sez. I, 11.07.2012, n. 3353;
TAR Firenze Toscana, sez. I, 21.05.2012 n. 986)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 29.12.2012 n. 3290 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Mentre il pagamento degli
oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la
realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un
vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita
l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la
monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard
afferisce al reperimento delle aree necessarie alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria
all’interno della specifica zona di intervento.
Invero, mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si
risolve in un contributo per la realizzazione delle opere
stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione
alla zona in cui è inserita l’area interessata all’imminente
trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della
cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree
necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione
secondaria all’interno della specifica zona di intervento; e
ciò vale ad evidenziare la diversità ontologica della
monetizzazione rispetto al contributo di concessione, di
talché, sotto il versante processuale, non si può utilizzare
lo strumento dell’azione di accertamento ammesso per
contestare la legittimità del contributo ex art. 3 o comunque
la insussistenza di tale obbligazione pecuniaria ancorché
già assolta (cfr. Sez. IV, 16/02/2011, n. 1013) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.12.2012 n. 6706 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Uno specifico onere
motivazionale non sussiste, in linea di principio, per gli
strumenti urbanistici generali, come quello di cui è causa.
L’esigenza di una più incisiva e singolare motivazione si dà
solo in relazione a determinati profili, quale la
preesistenza di una convenzione di lottizzazione, in ragione
dell’affidamento qualificato che ne deriva per il privato.
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Anche a voler ammettere che una convenzione di lottizzazione
possa avere una limitata ultrattività in un momento
successivo alla sua scadenza, è indubbio che, decorso i
termine di dieci anni, divengono inefficaci le previsioni
del piano che non abbiano avuto concreta attuazione, nel
senso che non è consentita la loro ulteriore esecuzione.
Ne segue che una convenzione di tal genere, scaduta da dieci
anni e rimasta inattuata in parte qua, non può vincolare i
successivi strumenti urbanistici generali, nemmeno sotto il
profilo dell’esistenza di uno specifico onere di
motivazione.
Secondo un orientamento consolidato, uno specifico onere
motivazionale non sussiste, in linea di principio, per gli
strumenti urbanistici generali, come quello di cui è causa
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV. 14.10.2005, n. 5716; Id.,
Sez. IV, 07.04.2008, n. 1476; Id., Sez. IV, 03.11.2008, n. 5478; Id., Sez. IV, 30.12.2008, n. 6600; Id.,
Sez. VI, 20.10.2010, n. 7585; Id., Sez. IV, 16.02.2011, n. 1015).
L’esigenza di una più incisiva e singolare motivazione si dà
solo in relazione a determinati profili, quale la
preesistenza di una convenzione di lottizzazione, in ragione
dell’affidamento qualificato che ne deriva per il privato
(cfr. ex plurimis Cons. Stato, Sez. IV, 14.10.2005, n.
5716; Id., Sez. IV, 22.05.2012, n. 2952).
Queste considerazioni, tuttavia, sono inconferenti rispetto
al caso di specie, nel quale il piano di lottizzazione era
stato approvato nel 1972, convenzionato nel 1974 e dunque
scaduto nel 1984 (la nota del Comune in data 24.09.1991, che ad esso fa riferimento, non è sufficiente a
richiamarlo in vita); mentre poi –per quanto si legge nella
deliberazione consiliare 28.04.1992, n. 17, recante
l’esame delle osservazioni e delle proposte pervenute sulla
variante in discussione, compresa l’osservazione dello
stesso Ramelli– il terreno in questione sarebbe rimasto
sino ad allora inedificato.
Infatti, anche a voler ammettere che una convenzione di
lottizzazione possa avere una limitata ultrattività in un
momento successivo alla sua scadenza, è indubbio che,
decorso i termine di dieci anni, divengono inefficaci le
previsioni del piano che non abbiano avuto concreta
attuazione, nel senso che non è consentita la loro ulteriore
esecuzione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 30.04.2009, n.
2768; Id, Sez. IV, 27.10.2009, n. 6572). Ne segue che
una convenzione di tal genere, scaduta da dieci anni e
rimasta inattuata in parte qua, non può vincolare i
successivi strumenti urbanistici generali, nemmeno sotto il
profilo dell’esistenza di uno specifico onere di motivazione (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.12.2012 n. 6703 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Non ogni vincolo posto
alla proprietà privata dallo strumento urbanistico generale
ha carattere espropriativo ed è dunque soggetto alla
disciplina relativa.
In altri termini, occorre distinguere tra vincoli
espropriativi e vincoli conformativi, secondo una linea di
discrimine che ha un preciso fondamento costituzionale, in
quanto l’art. 42 Cost. prevede separatamente
l’espropriazione (terzo comma) e i limiti che la legge può
imporre alla proprietà al fine di assicurarne la funzione
sociale (secondo comma).
Per meglio dire, i vincoli espropriativi, che sono soggetti
alla scadenza quinquennale, concernono beni determinati, in
funzione della localizzazione puntuale di un'opera pubblica,
la cui realizzazione non può quindi coesistere con la
proprietà privata. Non può invece attribuirsi carattere
ablatorio ai vincoli che regolano la proprietà privata al
perseguimento di obiettivi di interesse generale, quali il
vincolo di inedificabilità, c.d. "di rispetto", a tutela di
una strada esistente, a verde attrezzato, a parco, a zona
agricola di pregio, verde, ecc..
Peraltro -secondo un orientamento giurisprudenziale del tutto
consolidato, non solo presso il giudice amministrativo (si
veda anche, ad esempio, Cass. civ., SS. UU., 25.11.2008, n. 28051)- non ogni vincolo posto alla proprietà
privata dallo strumento urbanistico generale ha carattere
espropriativo ed è dunque soggetto alla disciplina relativa.
In altri termini, occorre distinguere tra vincoli
espropriativi e vincoli conformativi, secondo una linea di
discrimine che ha un preciso fondamento costituzionale, in
quanto l’art. 42 Cost. prevede separatamente
l’espropriazione (terzo comma) e i limiti che la legge può
imporre alla proprietà al fine di assicurarne la funzione
sociale (secondo comma).
Per meglio dire, i vincoli espropriativi, che sono soggetti
alla scadenza quinquennale, concernono beni determinati, in
funzione della localizzazione puntuale di un'opera pubblica,
la cui realizzazione non può quindi coesistere con la
proprietà privata. Non può invece attribuirsi carattere
ablatorio ai vincoli che regolano la proprietà privata al
perseguimento di obiettivi di interesse generale, quali il
vincolo di inedificabilità, c.d. "di rispetto", a tutela di
una strada esistente, a verde attrezzato, a parco, a zona
agricola di pregio, verde, ecc. (cfr. per tutte Cons. Stato,
Sez. IV, 03.12.2010, n 8531; Id., Sez. IV, 23.12.2010, n. 9772; Id., Sez. IV, 13.07.2011, n. 4242; Id.,
Sez. IV, 19.01.2012, n. 244; ivi riferimenti
ulteriori).
D’altronde, nel caso di specie –come ha affermato
correttamente la sentenza di primo grado, alla quale
l’appello non riesce a muovere censure efficaci– l’area di
cui si discute ricade all’interno di un’ampia fascia
territoriale, di cui il Comune intende preservare le
specifiche caratteristiche e qualità. Il vincolo a verde
rappresenta dunque espressione del potere pianificatorio di
razionale sistemazione del territorio in zone omogenee, in
radice diverso dal potere ablatorio preordinato all’adozione
di provvedimenti di espropriazione (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.12.2012 n. 6700 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In caso di aggiudicazione di appalti di lavori di
importo superiore alla soglia comunitaria, da affidarsi con
il criterio del massimo ribasso, in base all’art. 89, comma
secondo, del d.P.R. 21.12.1999 n. 554 (oggi sostituito
dall’art. 121, comma 2, del d.P.R. 05.10.2010 n. 207, ma
applicabile alla fattispecie di causa ratione temporis),
qualora “…il soggetto che presiede la gara, individui
offerte che presentano un ribasso percentuale superiore a
quello considerato soglia di anomalia in base alle
disposizioni di legge, sospende la seduta e comunica i
nominativi dei relativi concorrenti (…) al responsabile del
procedimento. Questi, avvalendosi di organismi tecnici della
stazione appaltante, esamina le giustificazioni presentate
dai concorrenti (…) e valuta la congruità delle offerte”.
Come si vede, tale disposizione è chiara nell’attribuire al
responsabile unico del procedimento la competenza in materia
di valutazione di congruità delle offerte. Il soggetto che
presiede la gara ha il solo compito di ufficializzarne la
decisione: egli invero “…alla riapertura della seduta
pubblica, pronuncia l'esclusione delle offerte giudicate non
congrue e aggiudica l'appalto” (cfr. art. 89, comma 2,
cit.).
La ratio della disposizione è peraltro facilmente
comprensibile, atteso che il responsabile del procedimento è
organo interno dell’amministrazione particolarmente
qualificato, come tale soggetto maggiormente in grado di
apprezzare la sostenibilità economica delle offerte rispetto
all’organo preposto alla conduzione della gara il quale, nel
caso di aggiudicazione con il criterio del massimo ribasso,
svolge funzioni aventi perlopiù carattere formale, volte ad
assicurare il corretto espletamento delle operazioni e ad
accertare quale dei concorrenti abbia proposto il pezzo più
conveniente.
Parte della giurisprudenza perviene a conclusioni
differenti, affermando che la competenza in materia di
accertamento dell’anomalia delle offerte appartiene alla
commissione di gara.
Tale conclusione è però spiegabile in ragione del fatto che
nei casi ivi esaminati si verteva in tema di appalti di
servizio, e/o in tema di appalti di lavori da aggiudicarsi
con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa
(laddove è sempre presente una commissione di gara composta
da elementi particolarmente qualificati deputati a svolgere
funzioni non solo formali ma concernenti anche valutazioni
sostanziali) per i quali, prima dell’entrata in vigore del
d.P.R. n. 207/2010, non sussisteva norma analoga a quella
contenuta nel citato art. 89, comma 2, del d.P.R. n.
554/1999 (ora, ai sensi degli artt. 121 e 284 del d.P:R. n.
207/2010, anche per tale tipologia di appalti dovrebbe
peraltro applicarsi la disciplina testé illustrata).
In caso di aggiudicazione di appalti di
lavori di importo superiore alla soglia comunitaria, da
affidarsi con il criterio del massimo ribasso, in base
all’art. 89, comma secondo, del d.P.R. 21.12.1999 n.
554 (oggi sostituito dall’art. 121, comma 2, del d.P.R. 05.10.2010 n. 207, ma applicabile alla fattispecie di
causa ratione temporis), qualora “…il soggetto che presiede
la gara, individui offerte che presentano un ribasso
percentuale superiore a quello considerato soglia di
anomalia in base alle disposizioni di legge, sospende la
seduta e comunica i nominativi dei relativi concorrenti (…)
al responsabile del procedimento. Questi, avvalendosi di
organismi tecnici della stazione appaltante, esamina le
giustificazioni presentate dai concorrenti (…) e valuta la
congruità delle offerte”.
Come si vede, tale disposizione è chiara nell’attribuire
al responsabile unico del procedimento la competenza in
materia di valutazione di congruità delle offerte. Il
soggetto che presiede la gara ha il solo compito di
ufficializzarne la decisione: egli invero “…alla riapertura
della seduta pubblica, pronuncia l'esclusione delle offerte
giudicate non congrue e aggiudica l'appalto” (cfr. art. 89,
comma 2, cit.).
La ratio della disposizione è peraltro facilmente
comprensibile, atteso che il responsabile del procedimento è
organo interno dell’amministrazione particolarmente
qualificato, come tale soggetto maggiormente in grado di
apprezzare la sostenibilità economica delle offerte rispetto
all’organo preposto alla conduzione della gara il quale, nel
caso di aggiudicazione con il criterio del massimo ribasso,
svolge funzioni aventi perlopiù carattere formale, volte ad
assicurare il corretto espletamento delle operazioni e ad
accertare quale dei concorrenti abbia proposto il pezzo più
conveniente.
Parte della giurisprudenza perviene a conclusioni
differenti, affermando che la competenza in materia di
accertamento dell’anomalia delle offerte appartiene alla
commissione di gara (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 10.09.2012 n. 4772; id., sez. VI, 15.07.2010 n.
4584).
Tale conclusione è però spiegabile in ragione del fatto
che nei casi ivi esaminati si verteva in tema di appalti di
servizio, e/o in tema di appalti di lavori da aggiudicarsi
con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa
(laddove è sempre presente una commissione di gara composta
da elementi particolarmente qualificati deputati a svolgere
funzioni non solo formali ma concernenti anche valutazioni
sostanziali) per i quali, prima dell’entrata in vigore del d.P.R. n. 207/2010, non sussisteva norma analoga a quella
contenuta nel citato art. 89, comma 2, del d.P.R. n. 554/1999
(ora, ai sensi degli artt. 121 e 284 del d.P:R. n. 207/2010,
anche per tale tipologia di appalti dovrebbe peraltro
applicarsi la disciplina testé illustrata).
La stazione appaltante, nel caso concreto, ha quindi dato
corretta applicazione alle disposizioni normative che
governano le procedure di gara, affidando al responsabile
del procedimento (coadiuvato da uno speciale gruppo di
lavoro istituito ai sensi dell’art. 15 del regolamento
comunale) il compito di valutare le congruità delle offerte
individuate come potenzialmente anomale
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 28.12.2012 n. 3239 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il sub-procedimento di
verifica dell’anomalia, attualmente disciplinato dall’art.
88 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, si caratterizza per essere
scevro da ingiustificati formalismi; il concorrente,
pertanto, non è rigidamente vincolato dalla richiesta
formulata della stazione appaltante, essendo egli invece
libero di far riferimento, nel fornire la giustificazione
complessiva della propria offerta, a tutti gli elementi
considerati rilevati, comprese quelle voci di costo (magari
a lui particolarmente favorevoli in grado di compensare
squilibri creati da altre voci) non contemplate dalla
richiesta stessa.
La stazione appaltante,
nel caso concreto, si è correttamente limitata a chiedere
delucidazioni in merito a quelle voci di costo che a suo
giudizio apparivano incongrue. Tale modo di procedere è del
tutto logico e comprensibile, posto che non si vede per
quale motivo si debba onerare il concorrente di fornire
(inutili) spiegazioni anche in merito quelle voci che,
invece, appaiono giustificate.
Va peraltro osservato che il sub-procedimento di
verifica dell’anomalia, attualmente disciplinato dall’art.
88 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, si caratterizza per
essere scevro da ingiustificati formalismi (cfr. Consiglio
di Stato, sez. IV, 23.07.2012 n. 4206); il concorrente,
pertanto, non è rigidamente vincolato dalla richiesta
formulata della stazione appaltante, essendo egli invece
libero di far riferimento, nel fornire la giustificazione
complessiva della propria offerta, a tutti gli elementi
considerati rilevati, comprese quelle voci di costo (magari
a lui particolarmente favorevoli in grado di compensare
squilibri creati da altre voci) non contemplate dalla
richiesta stessa.
La giurisprudenza richiamata dall’interessata (Corte di
Giustizia CE, 27.11.2001, cause riunite C-285/99 e
C-286/99; Consiglio Stato, sez. IV, 11.04.2006 n. 2023)
non è peraltro pertinente, in quanto essa fa riferimento ad
un regime previgente (disciplinato dall’art. 21, comma 1-bis, della legge 11.02.1994, n. 109, introdotto
dall'art. 7 del decreto legge 03.04.1995, n. 101,
convertito con la legge 02.06.1995, n. 216) caratterizzato
da maggiore rigidità, nel quale i concorrenti erano
obbligati a fornire giustificazioni preventive, limitate al
75% delle voci di costo dell’offerta, senza poter far valere
le proprie ragioni dopo l'apertura delle buste e prima
dell'adozione del provvedimento di esclusione (TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 28.12.2012 n. 3239 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gli apprezzamenti effettuati dalla Stazione
appaltante in merito alla congruità delle offerte formulate
dai concorrenti nelle procedure di aggiudicazione dei
contratti pubblici sono, secondo una consolidata opinione,
caratterizzati da esercizio di discrezionalità tecnica.
La discrezionalità tecnica, pur comportando valutazioni
opinabili, non si identifica con la discrezionalità
amministrativa e, quindi, con il merito. Quando si esercita
tale tipologia di discrezionalità non si decide cosa sia più
opportuno fare ai fini della miglior tutela dell’interesse
pubblico (in ciò consiste la discrezionalità
amministrativa), ma si apprezza la sussistenza dei
presupposti applicativi dalla norma attributiva del potere,
utilizzando regole tecniche e compiendo valutazioni non
certe quanto, appunto, opinabili.
Il giudice, nel sindacare la discrezionalità tecnica, non
deve limitarsi ad un sindacato estrinseco finalizzato ad
accertare se la valutazione dell’amministrazione sia
palesemente erronea od irrazionale, ma può spingersi ad un
sindacato intrinseco che faccia applicazione delle stesse
regole tecniche utilizzate dall’autorità amministrativa,
volto ad accertare l’attendibilità della valutazione
compiuta sotto il profilo della appropriatezza del criterio
tecnico prescelto e della correttezza del procedimento
applicativo seguito.
Anche questo orientamento afferma tuttavia che il giudice
non può mai sostituire le proprie valutazioni (o quelle del
suo consulente) a quelle formulate dall’amministrazione
dovendo egli limitarsi, come detto, a vagliarne
l’attendibilità.
Gli apprezzamenti
effettuati dalla Stazione appaltante in merito alla
congruità delle offerte formulate dai concorrenti nelle
procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici sono,
secondo una consolidata opinione, caratterizzati da
esercizio di discrezionalità tecnica (Consiglio di Stato
sez. VI, 07.09.2012 n. 4744).
Secondo un preferibile orientamento della
giurisprudenza, inaugurato da una fondamentale pronuncia del
Consiglio di Stato (cfr. Consiglio Stato sez. IV, 09.04.1999 n. 601), la discrezionalità tecnica, pur comportando
valutazioni opinabili, non si identifica con la
discrezionalità amministrativa e, quindi, con il merito.
Quando si esercita tale tipologia di discrezionalità non si
decide cosa sia più opportuno fare ai fini della miglior
tutela dell’interesse pubblico (in ciò consiste la
discrezionalità amministrativa), ma si apprezza la
sussistenza dei presupposti applicativi dalla norma
attributiva del potere, utilizzando regole tecniche e
compiendo valutazioni non certe quanto, appunto, opinabili.
Il giudice, nel sindacare la discrezionalità tecnica,
non deve limitarsi ad un sindacato estrinseco finalizzato ad
accertare se la valutazione dell’amministrazione sia
palesemente erronea od irrazionale, ma può spingersi ad un
sindacato intrinseco che faccia applicazione delle stesse
regole tecniche utilizzate dall’autorità amministrativa,
volto ad accertare l’attendibilità della valutazione
compiuta sotto il profilo della appropriatezza del criterio
tecnico prescelto e della correttezza del procedimento
applicativo seguito (cfr. TAR Roma Lazio sez. III, 08.02.2011 n. 1216).
Anche questo orientamento afferma tuttavia che il giudice
non può mai sostituire le proprie valutazioni (o quelle del
suo consulente) a quelle formulate dall’amministrazione
dovendo egli limitarsi, come detto, a vagliarne
l’attendibilità (TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 28.12.2012 n. 3239 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Se è vero che, in base ad
un consolidato orientamento giurisprudenziale, lo
scostamento dalle tabelle ufficiali non può costituire di
per sé elemento decisivo fondante il giudizio di anomalia, è
altrettanto vero che, in base alla stessa giurisprudenza, è
però necessario che gli scostamenti vengano adeguatamente
giustificati attraverso la produzione di analisi aziendali
svolte dall’offerente.
In particolare, per
quanto riguarda il costo della manodopera, si è accertato
che la ricorrente si è discostata in maniera apprezzabile
(19%) dai valori riportati nelle tabelle ANCE Assimpredil
senza fornire adeguate spiegazioni al riguardo.
In proposito si sottolinea che se è vero che, in base ad
un consolidato orientamento giurisprudenziale, lo
scostamento dalle tabelle ufficiali non può costituire di
per sé elemento decisivo fondante il giudizio di anomalia, è
altrettanto vero che, in base alla stessa giurisprudenza, è
però necessario che gli scostamenti vengano adeguatamente
giustificati attraverso la produzione di analisi aziendali
svolte dall’offerente (cfr. ex multis Consiglio di Stato,
sez. III, 28.05.2012 n. 3134) che, nel caso concreto,
sono mancate.
Anche per quanto riguarda i tempi di esecuzione del
contratto, il verificatore ha accertato la sostanziale
attendibilità del giudizio formulato dall’Amministrazione
rilevando che solo per alcune lavorazioni il concorrente è
riuscito a fornire adeguate spiegazioni in merito alla
correttezza dei tempi indicati; e che per il resto vi è un
forte scostamento (non giustificato) rispetto ai dati
elaborati da organi specializzati (tabelle Sole 24 ore).
Si ritiene pertanto che il giudizio di anomalia formulato
dalla stazione appaltante nella fattispecie concreta sia
corretto e che, quindi, lo stesso sia immune alle censure
dedotte dalla ricorrente (TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 28.12.2012 n. 3239 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La presentazione di domanda di accertamento di
conformità in pendenza del ricorso avverso l’ordinanza di
demolizione di un immobile ritenuto abusivo comporta
improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del
ricorso stesso, dato che l’originaria ordinanza
sanzionatoria è comunque superata dal nuovo provvedimento,
favorevole o contrario alla sanatoria, che l’amministrazione
deve emettere, e che nella specie è stato impugnato con
motivi aggiunti.
E’ invece fondata l’eccezione di improcedibilità
in dipendenza dalla intervenuta domanda di accertamento di
conformità, relativa alla sola domanda di annullamento
proposta nello stesso ricorso principale.
Così come ritenuto
da costante giurisprudenza, per tutte C.d.S. sez. IV 16.09.2011 n. 5228, la presentazione di domanda di
accertamento di conformità in pendenza del ricorso avverso
l’ordinanza di demolizione di un immobile ritenuto abusivo
comporta infatti improcedibilità per sopravvenuta carenza di
interesse del ricorso stesso, dato che l’originaria
ordinanza sanzionatoria è comunque superata dal nuovo
provvedimento, favorevole o contrario alla sanatoria, che
l’amministrazione deve emettere, e che nella specie è stato
impugnato con motivi aggiunti
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.12.2012 n. 2022 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Le norme sulla
partecipazione procedimentale vanno intese non già in modo
meccanico e formalistico, ma in senso conforme ad
economicità e speditezza, e quindi la loro eventuale
violazione non è causa di illegittimità del provvedimento
finale, quando l’interessato sia comunque venuto a
conoscenza delle relative vicende.
Si deve infatti ricordare
il principio, ribadito da ultimo da C.d.S. sez. IV 17.09.2012 n.
4925, per cui le norme sulla partecipazione procedimentale
vanno intese non già in modo meccanico e formalistico, ma in
senso conforme ad economicità e speditezza, e quindi la loro
eventuale violazione non è causa di illegittimità del
provvedimento finale, quando l’interessato sia comunque
venuto a conoscenza delle relative vicende (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.12.2012 n. 2022 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Ai fini della necessità di ottenere il permesso
di costruire per realizzare un dato manufatto, non rileva
che esso non consti di opere murarie ovvero non sia
incorporato al suolo; rileva invece la idoneità o no a
determinare una stabile trasformazione del territorio, per
cui non è precaria la struttura destinata a dare un'utilità
prolungata nel tempo.
Ancora infondato il terzo
motivo, incentrato su una presunta non necessità di titolo
edilizio per realizzare la struttura per cui è causa,
presentata come di carattere precario.
In proposito, la
giurisprudenza ha chiarito che, ai fini della necessità di
ottenere il permesso di costruire per realizzare un dato
manufatto, non rileva che esso non consti di opere murarie
ovvero non sia incorporato al suolo (C.d.S. sez. IV 02.10.2012 n. 5183); rileva invece la idoneità o no a
determinare una stabile trasformazione del territorio, per
cui non è precaria la struttura destinata a dare un'utilità
prolungata nel tempo (così ad esempio C.d.S. sez. V 30.10.2000 n. 5828).
In tali termini, non va riconosciuto carattere precario
alla struttura per cui è causa, che, secondo quanto
riportato dal verbale di sopralluogo (doc. 7 ricorrenti,
copia di esso), consta di “una struttura con tubolari di
acciaio e copertura in telo bianco, fissata stabilmente al
suolo e utilizzata per la movimentazione coperta dei cavalli
nelle strutture vicine”, con dimensioni di metri lineari 20
x 40, superficie coperta di 800 metri quadri, altezza al
colmo di 6 metri e volume geometrico di ben 3.600 metri
cubi. Già le descritte sue dimensioni, non certo modeste,
inducono a pensare che si tratti di opera realizzata per
soddisfare esigenze durevoli, e ciò è confermato dai doc.ti
del Comune non numerati ma allegati alla memoria 05.01.2012, estratti dal sito Internet dei gestori della
struttura, ove la si definisce “maneggio coperto”,
concetto all’evidenza relativo ad una attività destinata a
durare nel tempo (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.12.2012 n. 2022 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il fatto che un
proprietario risulti estraneo agli abusi edilizi commessi
sul bene da altro soggetto che ne abbia la piena ed
esclusiva disponibilità implica non l'illegittimità
dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino
dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo
l'inidoneità della stessa a costituire titolo per
l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di
sedime sulla quale insiste il bene.
Nemmeno la individuazione esatta dell’area da acquisire,
poi, è requisito di legittimità dell’ordinanza di
demolizione, essendo invece richiesta solo in caso di
inottemperanza alla stessa, ove si tratti di emettere il
distinto e diverso provvedimento di acquisizione gratuita.
In primo luogo, così come
chiarito da ultimo da TAR Campania Napoli sez. VII 17.09.2012 n. 3879, il fatto che un proprietario risulti
estraneo agli abusi edilizi commessi sul bene da altro
soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità
implica non l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o
di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei
suoi confronti, ma solo l'inidoneità della stessa a
costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio
comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene.
Nemmeno la individuazione esatta dell’area da acquisire,
poi, è requisito di legittimità dell’ordinanza di
demolizione, essendo invece richiesta solo in caso di
inottemperanza alla stessa, ove si tratti di emettere il
distinto e diverso provvedimento di acquisizione gratuita:
così da ultimo TAR Liguria sez. I 26.11.2012 n. 1503 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.12.2012 n. 2022 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’attività di allevamento
di cavalli a scopo ludico sportivo non è equiparabile ad
attività agricola ai fini delle norme edilizie di favore di
cui alla l.r. 12/2005 e ai conformi provvedimenti
legislativi in quest’ultima trasfusi.
Il quarto motivo aggiunto
va a sua volta respinto, per le ragioni già esposte da
questo Tribunale nella sentenza sez. I 04.06.2009 n. 1171
resa fra le parti sempre quanto alla struttura per cui oggi
è causa, e nella conforme TAR Lombardia Milano, sez. II, 11.02.2005 n. 358: l’attività di allevamento di cavalli a
scopo ludico sportivo esercitata dai ricorrenti non è
equiparabile ad attività agricola ai fini delle norme
edilizie di favore di cui alla l.r. 12/2005 e ai conformi
provvedimenti legislativi in quest’ultima trasfusi (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.12.2012 n. 2022 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Se è pur vero che l’art. 4, c. 2, LR 12/2005
prevede che la VAS debba essere conclusa prima
dell’adozione, occorre tener conto delle modifiche normative
introdotte dall’art. 5, c. 8, del D.L. 13.05.2011 n. 70 conv.
in L. 12.07.2011 n. 106, la quale ha modificato l’art. 16
della L. n. 1140/1942.
In forza di tale disposizione -che è contenuta nella Legge
nazionale in tema di disciplina urbanistica, la quale pone i
principi fondamentali nella materia, ai quali ex art.. 117,
c. 3, Cost. le regioni devono conformare la loro
legislazione di dettaglio- le procedure di VAS sono state
inserite nell’ambito della procedura di approvazione del
piano, sicché non è più necessario che la precedano.
In altri termini, la fase della VAS non deve più
necessariamente precedere la fase di adozione del programma
o piano urbanistico, ma può ora svilupparsi all’interno del
medesimo procedimento con l’unico vincolo che essa si
concluda prima del provvedimento finale di approvazione del
piano.
Se è pur vero che l’art. 4, c. 2, LR
12/2005 prevede che la VAS debba essere conclusa prima
dell’adozione, occorre tener conto delle modifiche normative
introdotte dall’art. 5, c. 8, del D.L. 13.05.2011 n. 70 conv.
in L. 12.07.2011 n. 106, la quale ha modificato l’art. 16
della L. n. 1140/1942.
In forza della suddetta modifica ora l’art. 16 cit. dispone
che: “Lo strumento attuativo di piani urbanistici già
sottoposti a valutazione ambientale strategica non è
sottoposto a valutazione ambientale strategica né a verifica
di assoggettabilità qualora non comporti variante e lo
strumento sovraordinato in sede di valutazione ambientale
strategica definisca l’assetto localizzativo delle nuove
previsioni e delle dotazioni territoriali, gli indici di
edificabilità, gli usi ammessi e i contenuti piani
volumetrici, tipologici e costruttivi degli interventi,
dettando i limiti e le condizioni di sostenibilità
ambientale delle trasformazioni previste. Nei casi in cui lo
strumento attuativo di piani urbanistici comporti variante
allo strumento sovraordinato, la valutazione ambientale
strategica e la verifica di assoggettabilità sono comunque
limitate agli aspetti che non sono stati oggetto di
valutazione sui piani sovraordinati. I procedimenti
amministrativi di valutazione ambientale strategica e di
verifica di assoggettabilità sono ricompresi nel
procedimento di adozione e di approvazione del piano
urbanistico o di loro varianti non rientranti nelle
fattispecie di cui al presente comma.”
In forza di tale disposizione -che è contenuta nella Legge
nazionale in tema di disciplina urbanistica, la quale pone i
principi fondamentali nella materia, ai quali ex art.. 117,
c. 3, Cost. le regioni devono conformare la loro legislazione
di dettaglio (cfr. Corte Costituzionale, 23.11.2011 n.
309, 30.05.2008 n. 180)- le procedure di VAS sono state
inserite nell’ambito della procedura di approvazione del
piano, sicché non è più necessario che la precedano.
In altri termini, la fase della VAS non deve più
necessariamente precedere la fase di adozione del programma
o piano urbanistico, ma può ora svilupparsi all’interno del
medesimo procedimento con l’unico vincolo che essa si
concluda prima del provvedimento finale di approvazione del
piano
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 27.12.2012 n. 2017 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’art. 37, comma 13, del
D.Lgs. 163/2006 –con disposizione valida anche per gli
appalti di servizi e forniture– stabilisce che i concorrenti
riuniti in ATI devono eseguire le prestazioni nella
percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al
raggruppamento, per cui è evidente che deve sussistere una
perfetta corrispondenza tra quota di lavori (o, nel caso di
forniture o servizi, di parti di esse) eseguita dal singolo
operatore economico e quota di effettiva partecipazione al
raggruppamento, e che vi è la necessità che sia l’una che
l’altra siano specificate dai componenti del raggruppamento
all’atto della partecipazione alla gara.
E’ altresì richiesto che la singola impresa componente
dell’A.T.I. abbia la qualifica, ovvero i requisiti di
ammissione, in misura corrispondente alla quota di
partecipazione, il tutto a garanzia della stazione
appaltante e del buon esito del programma contrattuale nella
fase di esecuzione: l’inosservanza di detta regola comporta
l’inammissibilità dell’offerta contrattuale, perché implica
l’adempimento da parte di un’impresa priva (almeno in parte)
di qualificazione in una misura simmetrica alla quota di
prestazione ad essa devoluta dall’accordo associativo ovvero
dall’impegno delle parti a concludere l’accordo stesso.
Come già sottolineato (cfr. sentenza Sezione
19/07/2012 n. 1385), l’art. 37, comma 13, del D.Lgs. 163/2006 –con disposizione valida anche per gli appalti di servizi e
forniture– stabilisce che i concorrenti riuniti in ATI
devono eseguire le prestazioni nella percentuale
corrispondente alla quota di partecipazione al
raggruppamento, per cui è evidente che deve sussistere una
perfetta corrispondenza tra quota di lavori (o, nel caso di
forniture o servizi, di parti di esse) eseguita dal singolo
operatore economico e quota di effettiva partecipazione al
raggruppamento, e che vi è la necessità che sia l’una che
l’altra siano specificate dai componenti del raggruppamento
all’atto della partecipazione alla gara (cfr. TAR Lazio
Roma, sez. II – 30/04/2012 n. 3891).
E’ altresì richiesto che
la singola impresa componente dell’A.T.I. abbia la
qualifica, ovvero i requisiti di ammissione, in misura
corrispondente alla quota di partecipazione, il tutto a
garanzia della stazione appaltante e del buon esito del
programma contrattuale nella fase di esecuzione:
l’inosservanza di detta regola comporta l’inammissibilità
dell’offerta contrattuale, perché implica l’adempimento da
parte di un’impresa priva (almeno in parte) di
qualificazione in una misura simmetrica alla quota di
prestazione ad essa devoluta dall’accordo associativo ovvero
dall’impegno delle parti a concludere l’accordo stesso
(Consiglio di Stato, sez. III – 16/02/2012 n. 793)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 27.12.2012 n. 2004 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
nozione di costruzione, ai fini del rilascio della
concessione edilizia (ora permesso di costruire) “si
configura in presenza di opere che attuino una
trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con
perdurante modifica dello stato dei luoghi, a prescindere
dal fatto che essa avvenga mediante realizzazione di opere
murarie; infatti è irrilevante che le dette opere siano
realizzate in metallo, in laminati di plastica, in legno o
altro materiale, laddove comportino la trasformazione del
tessuto urbanistico ed edilizio.
- Che infatti secondo la giurisprudenza “la nozione di
costruzione, ai fini del rilascio della concessione
edilizia” (ora permesso di costruire) “si configura in
presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica dello
stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che essa avvenga
mediante realizzazione di opere murarie; infatti è
irrilevante che le dette opere siano realizzate in metallo,
in laminati di plastica, in legno o altro materiale, laddove
comportino la trasformazione del tessuto urbanistico ed
edilizio" (ex multis Consiglio Stato sez. VI, 27.01.2003 n. 419; nella specie il C.d.S. ha considerato nuova
costruzione o ampliamento della costruzione esistente una
veranda stabilmente infissa al suolo con profondità dalla
parete esterna al pilastro di sostegno di mt. 5.20, con
dimensioni planimetriche di mt. 7.15 x 5.07 avente
un'altezza nella parte superiore di mt. 2,85 e nella parte
inferiore di mt. 2.80, sotto il profilo funzionale
preordinata a soddisfare la non precaria esigenza del
titolare di un pubblico esercizio)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 21.12.2012 n. 5294 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’occupazione di una
porzione di suolo pubblico si configura come una vera e
propria concessione d’uso, ossia alla stregua di un
provvedimento –espressione di un potere pubblicistico
ampiamente discrezionale– con il quale l’amministrazione
locale sottrae il predetto bene alla fruizione comune e lo
mette a disposizione di soggetti particolari (c.d. uso
particolare).
Il titolo abilitativo, pertanto, può essere rilasciato solo
previo accertamento che lo stesso permetta comunque di
realizzare una funzione primaria o comprimaria del bene
pubblico, e non per il conseguimento di interessi meramente
privati.
Premette il Collegio –in linea generale e
sulla scorta di giurisprudenza assolutamente consolidata
(cfr. TAR Lazio, sez. II – 03/11/2009 n. 10782; 01/04/2009
n. 3479)– che l’occupazione di una porzione di suolo
pubblico si configura come una vera e propria concessione
d’uso, ossia alla stregua di un provvedimento –espressione
di un potere pubblicistico ampiamente discrezionale– con il
quale l’amministrazione locale sottrae il predetto bene alla
fruizione comune e lo mette a disposizione di soggetti
particolari (c.d. uso particolare).
Il titolo abilitativo, pertanto, può essere rilasciato solo
previo accertamento che lo stesso permetta comunque di
realizzare una funzione primaria o comprimaria del bene
pubblico, e non per il conseguimento di interessi meramente
privati (su un caso di diniego di rinnovo di concessione si
rinvia a sentenza Sezione 20/01/2011 n. 127 confermata in
appello dal Consiglio di Stato, sez. V – 06/07/2012 n. 3964)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 21.12.2012 n. 2003 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ai
fini dell'ordine alla rimozione (dei rifiuti abbandonati) il
destinatario deve essere non solo proprietario, possessore o
detentore, ma responsabile di una condotta, commissiva od
omissiva, colpevole.
Sebbene la colpa possa configurarsi nell'ipotesi in cui il
titolare del diritto dominicale ometta di adottare cautele
idonee a evitare o ostacolare l'indebito abbandono, non può
tuttavia essergli addebitato il mancato allestimento di
mezzi preclusivi dell'accesso, atteso che la chiusura del
fondo costituisce una mera facoltà del titolare del bene.
---------------
E' illegittimo l'ordine di smaltimento di rifiuti
indiscriminatamente rivolto al proprietario di un fondo in
ragione soltanto di tale sua qualità, ma in mancanza di
adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione
procedente, sulla base di una istruttoria completa e di
un'esauriente motivazione, ancorché fondata su ragionevoli
presunzioni o su condivisibili massime d'esperienza,
dell'imputabilità soggettiva della colpa.
Tale orientamento giurisprudenziale si pone, del resto, in
linea di continuità con l’interpretazione già emersa come
prevalente in fase di applicazione del precedente analogo
precetto di cui all’art. 14 del d.lgs. 05.02.1997 n. 22
secondo la quale dovevano ritenersi illegittimi gli ordini
di smaltimento di rifiuti abbandonati in un fondo che
fossero indiscriminatamente rivolti al proprietario del
fondo stesso in ragione della sua sola qualità, ma in
mancanza di adeguata dimostrazione da parte
dell'Amministrazione procedente, sulla base di
un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione
(quand'anche fondata su ragionevoli presunzioni o su
condivisibili massime d'esperienza), dell'imputabilità
soggettiva della condotta. L'art. 192 del d.lgs. 03.04.2006
n. 152 riproduce infatti il tenore dell'abrogato art. 14
sopra citato, peraltro integrando il precedente precetto,
con la precisazione che l'ordine di rimozione può essere
adottato esclusivamente in base agli accertamenti
effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati,
dai soggetti preposti al controllo.
In definitiva, il presupposto sostanziale del necessario
previo accertamento in contraddittorio della
responsabilità/corresponsabilità del proprietario
(possessore o detentore del terreno), quanto meno a titolo
di colpa, rimane condizione/presupposto essenziale per poter
procedere all'emanazione dell'ordinanza comunale (sindacale)
di rimozione, non potendo ammettersi una forma di
responsabilità oggettiva "propter rem".
Né è ipotizzabile ravvisare colpa nel fatto che il
proprietario non abbia recintato il fondo in quanto, per
principio generale del diritto (cfr. art. 841 cod. civ.), la
"chiusura del fondo" costituisce una mera facoltà del
proprietario e non un suo obbligo.
---------------
Se per il configurarsi di una responsabilità a titolo di
dolo o colpa del proprietario o di colui che è in rapporto
con l'area in un rapporto tale, anche se di mero fatto, da
consentirgli una funzione di custodia e protezione, è
richiesto che il coinvolgimento a titolo di dolo o colpa sia
accertato a seguito di un'adeguata istruttoria e con
l'ausilio del privato stesso, il quale deve essere chiamato
in contraddittorio per fornire elementi utili di valutazione
per l'accertamento delle reali responsabilità, ne consegue
che, rispetto a tale contraddittorio, la comunicazione
dell'avvio del procedimento si configura come un adempimento
indispensabile al fine della sua effettiva instaurazione,
apparendo recessive, dunque, in tale specifica materia, le
regole stabilite in via generale dagli artt. 7 e 21-octies
della L. n. 241/1990.
La questione principale introdotta con il
ricorso in trattazione riguarda la legittimità
dell'imposizione dell’obbligo di rimozione dei rifiuti al
soggetto, quale proprietario dell'area, possessore o anche
solo mero detentore, in assenza di un rilevato e reale suo
coinvolgimento in merito all'abbandono dei rifiuti, quanto
meno in termini di "colpa", da accertarsi in
contraddittorio.
Va premesso che l'art. 192 del D.Lgs. 152/2006 stabilisce
espressamente che: “l'abbandono e il deposito incontrollati
di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati. È altresì
vietata l'immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo
stato solido o liquido, nelle acque superficiali e
sotterranee.
Fatta salva l'applicazione della sanzioni di cui agli
articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi
1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a
recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino
dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i
titolari di diritti reali o personali di godimento
sull'area, ai quali tale violazione <sia imputabile a titolo
di dolo o colpa>, in base agli accertamenti effettuati, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le
operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui
provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno
dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme
anticipate."
La norma sembra dunque prefigurare, già nella sua
formulazione letterale, il carattere sanzionatorio
dell’ordinanza di sgombero.
Per la sua adozione nei confronti dei soggetti obbligati "in
solido" è infatti necessaria l'imputazione agli stessi, a
titolo di dolo o colpa, del comportamento tenuto in
violazione dei divieti di legge.
La giurisprudenza che si è formata in materia è
assolutamente omogenea nel richiedere che ai fini
dell'ordine alla rimozione il destinatario debba essere non
solo proprietario, possessore o detentore, ma responsabile
di una condotta, commissiva od omissiva, colpevole.
Si richiamano, tra le pronunce più recenti, C.S. Sez. V n.
1384, 04.03.2011; Sez. II n. 2518, 14.07.2010; Tar
Sardegna 05.06.2012 n. 560; TAR Lazio Sez. II-ter n. 2388
del 18.03.2011; Tar Emilia Romagna, Parma, n. 281 08.06.2010; TAR Lazio Sez. II 3582 del 10.05.2005.
La riferita giurisprudenza ha altresì chiarito come, sebbene
la colpa possa configurarsi nell'ipotesi in cui il titolare
del diritto dominicale ometta di adottare cautele idonee a
evitare o ostacolare l'indebito abbandono, non possa
tuttavia essergli addebitato il mancato allestimento di
mezzi preclusivi dell'accesso, atteso che la chiusura del
fondo costituisce una mera facoltà del titolare del bene.
La questione controversa è stata ampiamente affrontata anche
dalla sentenza del Consiglio di Stato V sez. n. 1612 del
19.03.2009.
La decisione afferma il principio secondo il quale "è
illegittimo l'ordine di smaltimento di rifiuti
indiscriminatamente rivolto al proprietario di un fondo in
ragione soltanto di tale sua qualità, ma in mancanza di
adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione
procedente, sulla base di una istruttoria completa e di
un'esauriente motivazione, ancorché fondata su ragionevoli
presunzioni o su condivisibili massime d'esperienza,
dell'imputabilità soggettiva della colpa" .
L’orientamento giurisprudenziale richiamato si pone, del
resto, in linea di continuità con l’interpretazione già
emersa come prevalente in fase di applicazione del
precedente analogo precetto di cui all’art. 14 del d.lgs. 05.02.1997 n. 22 secondo la quale dovevano ritenersi
illegittimi gli ordini di smaltimento di rifiuti abbandonati
in un fondo che fossero indiscriminatamente rivolti al
proprietario del fondo stesso in ragione della sua sola
qualità, ma in mancanza di adeguata dimostrazione da parte
dell'Amministrazione procedente, sulla base di
un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione
(quand'anche fondata su ragionevoli presunzioni o su
condivisibili massime d'esperienza), dell'imputabilità
soggettiva della condotta. L'art. 192 del d.lgs. 03.04.2006 n. 152 riproduce infatti il tenore dell'abrogato art.
14 sopra citato, peraltro integrando il precedente precetto,
con la precisazione che l'ordine di rimozione può essere
adottato esclusivamente in base agli accertamenti
effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati,
dai soggetti preposti al controllo.
In definitiva, il presupposto sostanziale del necessario
previo accertamento in contraddittorio della
responsabilità/corresponsabilità del proprietario (
possessore o detentore del terreno), quanto meno a titolo di
colpa, rimane condizione/presupposto essenziale per poter
procedere all'emanazione dell'ordinanza comunale (sindacale)
di rimozione, non potendo ammettersi una forma di
responsabilità oggettiva "propter rem".
Né, come si ricordava sopra, è ipotizzabile ravvisare colpa
nel fatto che il proprietario non abbia recintato il fondo
in quanto, per principio generale del diritto (cfr. art. 841
cod. civ.), la "chiusura del fondo" costituisce una mera
facoltà del proprietario e non un suo obbligo (cfr. sul
punto Consiglio Stato , sez. V, 19.03.2009, n. 1612
secondo cui la mancata realizzazione di opere di sbarramento
e di recinzione non può essere ritenuta una omissione
colpevole).
---------------
La rilevata natura
sanzionatoria del provvedimento evidenzia altresì la
fondatezza del terzo motivo di ricorso, con il quale si
deduce la violazione degli artt. 7 ed 8 della legge n.
241/1990, per non essere stata data comunicazione, al soggetto
interessato, dell’avvio del procedimento.
Se infatti per il configurarsi di una responsabilità a
titolo di dolo o colpa del proprietario o di colui che è in
rapporto con l'area in un rapporto tale, anche se di mero
fatto, da consentirgli una funzione di custodia e
protezione, è richiesto che il coinvolgimento a titolo di
dolo o colpa sia accertato a seguito di un'adeguata
istruttoria e con l'ausilio del privato stesso, il quale
deve essere chiamato in contraddittorio per fornire elementi
utili di valutazione per l'accertamento delle reali
responsabilità, ne consegue che, rispetto a tale
contraddittorio, la comunicazione dell'avvio del
procedimento si configura come un adempimento indispensabile
al fine della sua effettiva instaurazione (sul punto della
indispensabilità della comunicazione di avvio Tar Parma
12.07.2011 n. 255 e TAR Salerno Sez. II, n. 1826, del 07.05.2009), apparendo recessive, dunque, in tale specifica
materia, le regole stabilite in via generale dagli artt. 7 e
21-octies della L. n. 241/1990
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 19.12.2012 n. 747 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L'art.
38 d.lgs. n. 163 del 2006 che dispone l'esclusione dalla
gara per l'affidamento di appalti pubblici del soggetto nei
cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna
passata in giudicato, o emesso decreto penale di condanna
divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della
pena su richiesta, ai sensi dell'art. 444 c.p.p., per reati
gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono
sulla moralità professionale va letta come presidio
dell'interesse dell'Amministrazione di non contrarre
obbligazioni con soggetti che non garantiscano adeguata
moralità professionale; condizioni perché l'esclusione
consegua alla condanna sono la gravità del reato, e il
riflesso dello stesso sulla moralità professionale.
La gravità del reato deve, quindi, essere valutata in
relazione a quest'ultimo elemento, ed il contenuto del
contratto oggetto della gara assume allora importanza
fondamentale al fine di apprezzare il grado di "moralità
professionale" del singolo concorrente.
Di conseguenza, è irrilevante il tentativo di dimostrare la
non gravità del reato sanzionato in sede penale con ammenda
pari al minimo edittale.
La difesa della Provincia è coerente con
l’indirizzo giurisprudenziale, del resto ampiamente invocato
negli scritti difensivi, circa la rilevanza delle
dichiarazioni inerenti le condanne ex art. 444 cpp..
A tal
proposito, esemplificativamente, è stato ritenuto che
“L'art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 che dispone l'esclusione
dalla gara per l'affidamento di appalti pubblici del
soggetto nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di
condanna passata in giudicato, o emesso decreto penale di
condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di
applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell'art. 444
c.p.p., per reati gravi in danno dello Stato o della
Comunità che incidono sulla moralità professionale va letta
come presidio dell'interesse dell'Amministrazione di non
contrarre obbligazioni con soggetti che non garantiscano
adeguata moralità professionale; condizioni perché
l'esclusione consegua alla condanna sono la gravità del
reato, e il riflesso dello stesso sulla moralità
professionale. La gravità del reato deve, quindi, essere
valutata in relazione a quest'ultimo elemento, ed il
contenuto del contratto oggetto della gara assume allora
importanza fondamentale al fine di apprezzare il grado di
"moralità professionale" del singolo concorrente.
Di
conseguenza, è irrilevante il tentativo di dimostrare la non
gravità del reato sanzionato in sede penale con ammenda pari
al minimo edittale" (fattispecie in cui la condanna per
violazione, commessa nel 2008, delle norme sulla disciplina
igienica della produzione e della vendita di sostanze
alimentari è stata ritenuta di per sé, in relazione
all'oggetto del contratto per il quale è stata indetta la
gara, inerente il servizio di ristorazione, quale grave
reato che incide sulla moralità professionale; cfr.
Consiglio Stato sez. VI, 04.06.2010, n. 3560)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 19.12.2012 n. 739 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
previsione del bando di gara che impone ai partecipanti la
previa presa visione dei luoghi dell'appalto “risponde a un
apprezzabile interesse pubblico, volto a garantire la
qualificata valutazione dei luoghi da parte degli
amministratori delle ditte partecipanti e quindi la serietà
stessa dell'offerta”.
Come già puntualizzato in giurisprudenza,
la previsione del bando di gara che impone ai partecipanti
la previa presa visione dei luoghi dell'appalto “risponde a
un apprezzabile interesse pubblico, volto a garantire la
qualificata valutazione dei luoghi da parte degli
amministratori delle ditte partecipanti e quindi la serietà
stessa dell'offerta” (C.G.A., 03.07.2009, n. 596)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 19.12.2012 n. 726 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’art. 20 del d.lgs. 163
del 2006 sancisce che anche per le gare aventi ad oggetto
lavori, servizi e forniture esclusi dall'applicazione del
codice devono trovare applicazione (tra gli altri) i
principi di imparzialità e trasparenza, principi cui è
indubbiamente collegata la regola della seduta pubblica per
l'apertura delle buste afferenti alla gara.
---------------
La definitiva esclusione, oppure l'accertamento
dell'illegittimità della partecipazione alla gara,
impediscono di assegnare al concorrente la titolarità di una
situazione sostanziale che lo abiliti ad impugnare l'esito
della procedura selettiva. Ed il positivo riscontro della
legittimazione al ricorso, sempre secondo le
puntualizzazioni dell'Adunanza, è necessario tanto per far
valere un interesse, cd. finale, al conseguimento
dell'appalto, quanto per perseguire un interesse meramente
strumentale diretto alla caducazione dell'intera gara e alla
sua riedizione.
---------------
Un onere d'immediata impugnazione della lex specialis di
gara pubblica di appalto si pone solo in presenza di
clausole immediatamente escludenti o comunque tali da
impedire la presentazione di una offerta, mentre negli altri
casi le clausole del bando e degli altri documenti di gara
vanno impugnate unitamente agli atti della procedura
concretamente ed immediatamente lesivi.
Ad avviso del Collegio non è condivisibile la
pur argomentata e suggestiva tesi della difesa del Comune
resistente, volta ad escludere che il principio sancito
dall’Adunanza Plenaria si applichi ai servizi di cui
all’allegato IIb del d.lgs. 163/2006. Infatti l’art. 20 del
d.lgs. 163 del 2006 sancisce che anche per le gare aventi ad
oggetto lavori, servizi e forniture esclusi
dall'applicazione del codice devono trovare applicazione
(tra gli altri) i principi di imparzialità e trasparenza,
principi cui è indubbiamente collegata la regola della
seduta pubblica per l'apertura delle buste afferenti alla
gara (Tar Veneto 05.12.2011 n. 1805 ).
Sul tema, il Collegio è a conoscenza di un orientamento
giurisprudenziale minoritario, che prendendo le mosse
dall’art. 12, c. 3, del decreto legge 07.05.2012 n. 52, il
quale ha sancito normativamente l’obbligo di apertura in
seduta pubblica delle offerte tecniche, sostiene che (per le
gare svolte prima dell’entrata in vigore della norma) sia
necessario indagare in concreto su eventuali compromissioni
della segretezza dei plichi. Il Collegio non condivide
questo pur suggestivo orientamento, che va nella direzione
di quanto prospettato dalla difesa comunale, in quanto
appare inconciliabile con il chiaro orientamento fatto
proprio dall’Adunanza Plenaria con la decisione n. 13 del
28.07.2011, peraltro ben anteriore all’approvazione del bando
di gara.
Né, a parere del Collegio, è condivisibile la pur
argomentata visione riduttiva dell’interesse strumentale
alla ripetizione della gara fatta propria dalla difesa del
Comune, sulla scorta dell’Adunanza Plenaria 07.04.2011 n. 4,
in quanto, come ha chiarito la giurisprudenza più recente, è
vero che la mera partecipazione (c.d. di fatto) ad una gara
non è sufficiente per attribuire la legittimazione al
ricorso, poiché la situazione legittimante deriva da una
qualificazione di carattere normativo, che postula il
positivo esito del sindacato sulla ritualità dell'ammissione
del soggetto ricorrente alla procedura selettiva. Difatti,
la definitiva esclusione, oppure l'accertamento
dell'illegittimità della partecipazione alla gara,
impediscono di assegnare al concorrente la titolarità di una
situazione sostanziale che lo abiliti ad impugnare l'esito
della procedura selettiva. Ed il positivo riscontro della
legittimazione al ricorso, sempre secondo le
puntualizzazioni dell'Adunanza, è necessario tanto per far
valere un interesse, cd. finale, al conseguimento
dell'appalto, quanto per perseguire un interesse meramente
strumentale diretto alla caducazione dell'intera gara e alla
sua riedizione (CdS Sez.V 12.09.2012 n. 4842). Nella
fattispecie non è stato presentato alcun ricorso incidentale
e la legittimità della partecipazione della ricorrente non è
stata mai messa in dubbio.
Ancora, sono del tutto infondate le affermazioni della controinteressata relative all’inammissibilità
dell’impugnazione del disciplinare di gara. E’ ormai
consolidato il principio per cui un onere d'immediata
impugnazione della lex specialis di gara pubblica di appalto
si pone solo in presenza di clausole immediatamente
escludenti o comunque tali da impedire la presentazione di
una offerta, mentre negli altri casi le clausole del bando e
degli altri documenti di gara vanno impugnate unitamente
agli atti della procedura concretamente ed immediatamente
lesivi (per citare decisioni recenti, Cds Sez. V 10.09.2012
n. 4786, 06.06.2012 n. 3344). Non è quindi configurabile
alcuna acquiescenza alla clausola del bando e alcun onere di
impugnazione diretta
(TAR Marche,
sentenza 15.12.2012 n. 836 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Devono considerarsi vani
tecnici solo quelli destinati esclusivamente agli impianti
necessari per l'utilizzo dell'abitazione e che non possono
essere collocati al suo interno e che, in quanto tali, non
solo non sono abitabili, ma non sono nemmeno suscettibili di
essere considerati dei volumi autonomi.
Altresì, vanno considerati come volumi tecnici (come tali
non rilevanti ai fini della volumetria di un immobile) quei
volumi destinati esclusivamente agli impianti necessari per
l'utilizzo dell'abitazione e che non possono essere ubicati
al suo interno, mentre non sono tali -e sono quindi
computabili ai fini della volumetria consentita- le
soffitte, gli stenditori chiusi e quelli di sgombero, nonché
il piano di copertura (impropriamente definito sottotetto,
ma costituente in realtà una mansarda, in quanto dotato di
rilevante altezza media rispetto al piano di gronda)”.
Ulteriori pronunce hanno evidenziato come l’esistenza di una
scala interna, così com’è presente nel caso di specie -e
nell’ambito della realizzazione di un vano sottotetto- ,
“costituisce un indice rivelatore dell'intento di rendere
abitabile detto locale, “non potendosi considerare volumi
tecnici i vani in esso ricavati”.
... per l'annullamento del permesso di costruire n. 394/2006
del 26.03.2008 con il quale il Comune di Eraclea ha
autorizzato i Sig. ri Mazzolin Sergio e Betteto Livia a
eseguire “lavori di innalzamento sottotetto n. 3 fori
finestra e nuova scala interna” da eseguire sull’unità
immobiliare sita in via Gelsomini a Eraclea (VE).
...
Sul punto va ricordato che per un costante
orientamento giurisprudenziale devono considerarsi vani
tecnici solo quelli destinati esclusivamente agli impianti
necessari per l'utilizzo dell'abitazione e che non possono
essere collocati al suo interno e che, in quanto tali, non
solo non sono abitabili, ma non sono nemmeno suscettibili di
essere considerati dei volumi autonomi.
Come, peraltro, ha confermato una recente pronuncia di
merito (TAR Lombardia Milano Sez. II, 05.01.2012, n.
38) ...”vanno considerati come volumi tecnici (come tali non
rilevanti ai fini della volumetria di un immobile) quei
volumi destinati esclusivamente agli impianti necessari per
l'utilizzo dell'abitazione e che non possono essere ubicati
al suo interno, mentre non sono tali -e sono quindi
computabili ai fini della volumetria consentita- le
soffitte, gli stenditori chiusi e quelli di sgombero, nonché
il piano di copertura (impropriamente definito sottotetto,
ma costituente in realtà una mansarda, in quanto dotato di
rilevante altezza media rispetto al piano di gronda)”.
Ulteriori pronunce hanno evidenziato come l’esistenza di una
scala interna, così com’è presente nel caso di specie -e
nell’ambito della realizzazione di un vano sottotetto- ,
“costituisce un indice rivelatore dell'intento di rendere
abitabile detto locale, “non potendosi considerare volumi
tecnici i vani in esso ricavati (TAR Lombardia Milano
Sez. II, 29-04-2011, n. 1105)”.
E’ allora evidente come non ci si possa esimere dal
qualificare, il manufatto oggetto del permesso di costruire
ora impugnato, quale nuova costruzione e, ciò, con
l’ulteriore conseguenza di ritenere esistente la violazione
delle distanze tra le costruzioni e il vizio di difetto di
istruttoria in cui è incorsa l’Amministrazione Comunale.
Quest’ultima, infatti, ha adottato il permesso di costruire,
ora impugnato, senza considerare il rispetto delle distanze
minime prescritte dal codice civile (art. 873 c.c.),
attività cui l’Amministrazione era tenuta in considerazione
della piena vigenza di detti limiti anche in quelle
valutazioni tipiche dell’esercizio di un’attività vincolata
e propedeutiche al rilascio dei permessi di costruire
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 14.12.2012 n. 1563 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
La tamponatura di
pensiline e tettoie preesistenti, anche per volumi molto
inferiori al presente, costituisce nuova superficie e
giustifica la sanzione della demolizione.
E’ infatti ben noto come, in sede edilizia la nozione di
pertinenza va definita sia in relazione alla necessità e
oggettività del rapporto pertinenziale sia alla consistenza
dell’opera, che non deve essere tale da alterare in modo
significativo l’assetto del territorio.
Come è noto la tamponatura di pensiline e tettoie
preesistenti, anche per volumi molto inferiori al presente,
costituisce nuova superficie e giustifica la sanzione della
demolizione (si veda sul tema Cds. Sez. IV 16.12.2011 n.
6628).
E’ infatti ben noto come, in sede edilizia la nozione
di pertinenza va definita sia in relazione alla necessità e
oggettività del rapporto pertinenziale sia alla consistenza
dell’opera, che non deve essere tale da alterare in modo
significativo l’assetto del territorio (Tar Campania, Napoli
21.5.2009 n. 2829)
(TAR Marche,
sentenza 14.12.2012 n. 804 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Relativamente al verde
privato, deve evidenziarsi che esso non ha valenza
espropriativa, rientrando nell'ambito della normale
conformazione della proprietà privata, espressione del
potere di pianificazione e di salvaguardia dei valori
urbanistici esistenti.
La giurisprudenza ha infatti precisato che si è al cospetto
di vincoli conformativi allorché le prescrizioni mirino ad
una zonizzazione dell’intero territorio comunale o di parte
di esso, sì da incidere su di una generalità di beni, nei
confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in
funzione della destinazione assolta dalla intera zona in cui
questi ricadono e delle sue caratteristiche intrinseche.
Conseguentemente, non essendo un vincolo preordinato
all'esproprio, esso non va subordinato ad un indennizzo o ad
un limite di durata. Tali destinazioni, infatti non
introducono l'inedificabilità assoluta dell’area, né, tanto
meno, svuotano di contenuto -azzerandolo economicamente in
termini di valore di scambio- il diritto dominicale.
---------------
Le scelte urbanistiche, che di norma non comportano la
necessità di specifica giustificazione oltre quella
desumibile dai criteri generali di impostazione del piano o
della sua variante, necessitano di congrua motivazione solo
quando incidono su aspettative dei privati particolarmente
qualificate, come quelle ingenerate da impegni già assunti
dalla amministrazione mediante approvazione di piani
attuativi o stipula convenzioni: in tali circostanze, la
completezza della motivazione costituisce infatti lo
strumento dal quale deve emergere la avvenuta comparazione
tra il pubblico interesse cui si finalizza la nuova scelta e
quello del privato, assistito appunto da una aspettativa
tutelata.
---------------
Qualora nelle scelte di pianificazione –che inevitabilmente
valorizzano alcune aree mortificando le prospettive di
utilizzazione e il valore di scambio di altre– non siano
ravvisabili contrasti con l’impostazione tecnico-urbanistica
dello strumento urbanistico o non si evidenzi la contrarietà
ai principi della logica, è da escludere che possano
ritenersi inficiate le opzioni urbanistiche privilegiate
dall’Amministrazione.
Quanto all’asserita illegittimità della
delibera comunale di adozione del piano sia per aver
l’Amministrazione asseritamente sottoposto l’intera zona
E/3.1 (in verità, nella memoria 07.11.2012, pag. 5 si
afferma, in contraddizione con quanto precisato in ricorso,
pag. 10 che la sottoposizione non sarebbe totale) a vincolo
di verde privato paesaggistico, impedendo così, di fatto, lo
sfruttamento edificatorio a fini abitativi della famiglia
rurale, sia perché il predetto vincolo, di carattere
espropriativo, sarebbe privo della previsione di un
indennizzo e dell’indicazione della durata, va osservato,
preliminarmente, che l’area di proprietà del ricorrente
risulta classificata in parte come zona agricola, e in parte
come zona a verde privato paesaggistico, senza alcuna
sovrapposizione.
Orbene, relativamente all’edificabilità
della zona agricola già s’è detto sopra: relativamente al
verde privato, invece, deve evidenziarsi che esso non ha
valenza espropriativa, rientrando nell'ambito della normale
conformazione della proprietà privata, espressione del
potere di pianificazione e di salvaguardia dei valori
urbanistici esistenti. La giurisprudenza ha infatti
precisato che si è al cospetto di vincoli conformativi
allorché le prescrizioni mirino ad una zonizzazione
dell’intero territorio comunale o di parte di esso, sì da
incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una
pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della
destinazione assolta dalla intera zona in cui questi
ricadono e delle sue caratteristiche intrinseche (cfr., per
tutte, CdS, IV, 09.06.2008 n. 2837).
Conseguentemente, non essendo un vincolo preordinato
all'esproprio, esso non va subordinato ad un indennizzo o ad
un limite di durata. Tali destinazioni, infatti non
introducono l'inedificabilità assoluta dell’area, né, tanto
meno, svuotano di contenuto -azzerandolo economicamente in
termini di valore di scambio- il diritto dominicale.
Le scelte urbanistiche, che di norma non comportano la
necessità di specifica giustificazione oltre quella
desumibile dai criteri generali di impostazione del piano o
della sua variante, necessitano di congrua motivazione solo
quando incidono su aspettative dei privati particolarmente
qualificate, come quelle ingenerate da impegni già assunti
dalla amministrazione mediante approvazione di piani
attuativi o stipula convenzioni: in tali circostanze, la
completezza della motivazione costituisce infatti lo
strumento dal quale deve emergere la avvenuta comparazione
tra il pubblico interesse cui si finalizza la nuova scelta e
quello del privato, assistito appunto da una aspettativa
tutelata (CdS, IV, 14.05.2007 n. 2411).
Orbene, nella specie non si configura alcuna legittima
aspettativa in capo alla parte ricorrente atteso che
rispetto alle previsioni e del piano regolatore previgente e
della variante oggetto della presente impugnativa non è
ravvisabile altro che una generica aspettativa ad una
reformatio in melius, non meritevole di particolare tutela,
né idonea a configurare obblighi di puntuale motivazione.
Va infine sottolineato che qualora nelle scelte di
pianificazione –che inevitabilmente valorizzano alcune aree
mortificando le prospettive di utilizzazione e il valore di
scambio di altre– non siano ravvisabili contrasti con
l’impostazione tecnico-urbanistica dello strumento
urbanistico o non si evidenzi la contrarietà ai principi
della logica, è da escludere che possano ritenersi inficiate
le opzioni urbanistiche privilegiate dall’Amministrazione
(TAR Veneto, I, 18.04.2011 n. 639)
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 12.12.2012 n. 1549 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Tia, legittime le presunzioni.
Il dpr attuativo del decreto Ronchi non viola le norme Ue.
Palazzo Spada ammette l'utilizzo del
metodo normalizzato per calcolare la tariffa rifiuti.
Il regolamento statale sul metodo normalizzato con il quale
viene determinata la tariffa rifiuti, e che da quest'anno
deve essere applicato alla Tares, non viola la normativa
comunitaria, anche se consente ai comuni l'utilizzo di
criteri presuntivi non rapportati all'effettiva produzione
di rifiuti. Del resto, le regole europee non impongono agli
stati membri un metodo preciso per finanziare il costo di
smaltimento dei rifiuti urbani.
Quindi, il comune di Prato ha legittimamente deliberato il
coefficiente massimo di produzione per gli alberghi con
ristorazione, perché è un dato di comune esperienza che
questa attività sia potenzialmente produttiva di rifiuti in
misura maggiore rispetto ad altre utenze.
Lo ha affermato il
Consiglio di Stato, VI Sez., con la
sentenza
04.12.2012 n. 6208.
Per i giudici di palazzo Spada, «il diritto comunitario non
impone agli stati membri un metodo preciso quanto al
finanziamento del costo dello smaltimento dei rifiuti
urbani, anche perché è spesso difficile, persino oneroso,
determinare il volume esatto di rifiuti urbani conferito da
ciascun detentore».
In effetti l'articolo 6 del dpr 158/1999, vale a dire il
regolamento attuativo del decreto Ronchi (22/1997) che
disciplina il metodo normalizzato della Tia, ai fini del
calcolo della tariffa relativo alle utenze non domestiche
consente di applicare un sistema presuntivo per determinare
la quota variabile, rapportato alla superficie dell'utenza e
al coefficiente di produzione. Secondo i giudici
amministrativi, il coefficiente di produzione è il
«coefficiente potenziale in kg/mq anno che tiene conto della
quantità di rifiuto minima e massima connessa alla tipologia
di attività».
Pertanto è corretto l'operato dell'amministrazione, che ha
distinto le superfici delle utenze domestiche e di quelle
non domestiche, determinando la tariffa in base ai
coefficienti indicati nella tabella allegata al regolamento
statale, «poiché non è irragionevole ritenere che un albergo
con ristorante possa produrre rifiuti in quantità cinque
volte superiore rispetto a quelli prodotti dalle utenze
domestiche».
Anche secondo la Cassazione (ordinanza 12859/2012) i comuni
sono legittimati a fissare tariffe maggiorate per le
attività alberghiere, perché potenzialmente producono più
rifiuti delle abitazioni. La maggiore capacità produttiva di
rifiuti di un esercizio alberghiero rispetto a una civile
abitazione è un fatto incontestabile e un dato di comune
esperienza. Tra l'altro, non assume alcun rilievo neppure il
carattere stagionale dell'attività, il quale può
eventualmente dar luogo a speciali riduzioni d'imposta,
rimesse alla discrezionalità dell'ente impositore.
Sono dunque ammissibili le presunzioni previste dal dpr
158/1999 per determinare la tassa sui rifiuti prodotti. Dal
2013 queste regole si applicano anche al nuovo tributo sui
rifiuti e i servizi (Tares), che sostituisce i vecchi regimi
di prelievo Tarsu e Tia1. L'articolo 14 del dl salva-Italia
(201/2011), in seguito alle modifiche apportate dalla legge
di stabilità (228/2012), prevede che le disposizioni
contenute nel dpr 158/1999 devono essere applicate a regime
anche per la Tares e non più in via transitoria, come
stabilito in un primo momento, fino all'emanazione di un
nuovo regolamento che avrebbe dovuto definire i criteri per
l'individuazione del costo del servizio di gestione dei
rifiuti e per la quantificazione della tariffa.
Tuttavia, l'uso delle presunzioni non deve creare
discriminazioni tra i contribuenti. Il Tribunale
amministrativo regionale per la Sardegna, seconda sezione,
con la sentenza 551/2012, ha infatti dichiarato illegittimo
il regolamento comunale che prevede per la determinazione
della Tia dovuta dai soggetti non residenti criteri e
coefficienti di calcolo basati sul numero dei componenti del
nucleo familiare desunto dalla superficie degli immobili. Né
può essere ritenuta valida la giustificazione di avere fatto
ricorso alla presunzione solo perché il dato reale è
difficile accertarlo attraverso le risultanze anagrafiche.
Questo meccanismo presuntivo è stato ritenuto del tutto
inattendibile, in quanto un immobile di notevole ampiezza
può essere utilizzato da un numero ristretto di occupanti
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2013
- tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI:
Offerta anomala? Immotivato 'aggiustare' le voci
di costo.
E' immotivata la rimodulazione di voci di costo di una
offerta pubblica in una gara di appalto al solo scopo di far
'quadrare' i conti; il Consiglio di Stato -Sez. V- con la
sentenza 30.11.2012 n. 6117 ha affermato che
"inammissibile e, priva di giustificazione, che una offerta
relativa ad una gara pubblica sia presentata con tali
anomalie.
La provincia di una nota città pugliese aveva indetto una
gara per l’appalto di lavori di allargamento di una strada
provinciale . La gara era stata aggiudicata ad una ATI con
capogruppo una SRL .
L’Amministrazione provinciale aveva avviato le operazioni di
analisi e verifica delle giustificazioni delle prime
classificate. In esito a tali verifiche, con determina
dirigenziale, la Provincia aveva giudicato anomalo il prezzo
offerto dalle prime due classificate e con successiva
determina, aveva disposto l’esclusione delle relative
offerte.
Avverso tali provvedimenti, l’A.T.I. aggiudicataria era
ricorsa al TAR che aveva, tuttavia , respinto il ricorso.
L’A.T.I. ricorrente, nell’appellarsi al Consiglio di Stato,
evidenzia l’erroneità della sentenza impugnata sotto due
distinti profili:
a. il primo relativo all’omesso riconoscimento della
possibilità di compensare tra loro “voci di costo” negative
e positive comunque riferibili alla stessa categoria di beni;
b. il secondo relativo alla ritenuta insindacabilità del
giudizio espresso dalla Commissione di gara in ordine alla
valutazione di anomalia dell’offerta.
Con riferimento al punto a) l’A.T.I. ricorrente sostiene di
aver formulato un’offerta sottodimensionata “per il
conglomerato bituminoso, in quanto riferita al materiale
allo stato “sciolto” e non a quello “compattato”, necessario
per la realizzazione dell’opera a regola d’arte che, stante
la variazione di volume tra i due stati, avrebbe determinato
un incremento delle quantità richieste e dei conseguenti
costi”. Lo stesso principio vale anche per la fornitura
degli inerti (tufina e misto stabilizzato),
sottodimensionati rispetto al reale fabbisogno.
Per il Consiglio di Stato le argomentazioni dell’A.T.I.
ricorrente sono infondate.
Occorre ricordare che una delle patologie piuttosto
frequenti nel sistema degli appalti di opere pubbliche
consiste nell’anomalia delle offerte. Il criterio di
aggiudicazione al prezzo più basso, dovuto in particolare
modo all’eccessiva rigidità e all’assenza di discrezionalità
in capo all’amministrazione presenta in molti casi il
rischio dell’anomalia dell’offerta. Tale situazione si
verifica spesso in seguito al fatto che la ditta cerca ad
ogni costo di aggiudicarsi l’appalto arrivando con frequenza
, a formulare offerte, che in maniera piuttosto evidente,
non coprono neppure i costi.
Il nuovo codice sugli appalti, di cui al D.Lgs. 163/2006 e
s.m.i. con riferimento al problema delle offerte anomale
interviene cercando di definirne i criteri di
individuazione.
In particolare l’articolo 87 del D.Lgs. 163/2006 individua,
a titolo esemplificativo, le possibili giustificazioni, al
riguardo, che possono essere: l’economia del procedimento di
costruzione, del processo di fabbricazione, del metodo di
prestazione del servizio; le soluzioni tecniche adottate; le
eccessivi condizioni di favore che la società offerente
dispone per eseguire i lavori, per fornire i prodotti o per
prestare i servizi; l’originalità del progetto, dei lavori,
dei servizi offerti; il rispetto delle norme vigenti in tema
di sicurezza e condizioni di lavoro; l’eventualità che
l’offerente ottenga un aiuto di Stato; il costo del lavoro.
Inoltre proprio in relazione a quest’ultimo punto il nuovo
codice dispone che non sono ammesse, sempre con riferimento
alle offerte anomale, giustificazioni in relazione a
trattamenti salariali minimi.
Nel caso di specie , come correttamente osservato dal TAR,
dall’esame delle giustificazioni formulate dall’A.T.I.
risulta che questa non abbia operato una rimodulazione delle
voci di costi alla luce di sopravvenienze in corso di gara,
ma più semplicemente si sia precostituita, volontariamente
ed al solo fine di poter “coprire” eventuali e
diverse carenze nell’offerta, un margine di operatività,
prevedendo un sovradimensionamento (surplus) di alcune voci
di costo da utilizzare in caso di bisogno.
Tale atteggiamento, per i giudici di Palazzo Spada, dimostra
la scarsa serietà e la poca affidabilità dell’offerta.
Come il Consiglio di Stato ha già avuto modo di precisare,
infatti, il subprocedimento di giustificazione dell'offerta
anomala non è finalizzato a consentire aggiustamenti
dell'offerta in itinere, ma mira piuttosto a “verificare
la serietà di un'offerta consapevole già formulata ed
immutabile, con conseguente inammissibilità di quelle
giustificazioni che, nel tentativo di far apparire seria
un'offerta che invece non è stata adeguatamente meditata,
risultano tardivamente finalizzate ad un'allocazione dei
costi diversi rispetto a quella originariamente indicata”.
Né , per le stesse ragioni , deve ritenersi consentita
l'immotivata rimodulazione di voci di costo al solo scopo di
far “quadrare i conti”, al fine cioè di assicurare che il
prezzo complessivo offerto resti immutato, superando le
contestazioni della stazione appaltante su alcune voci di
costo.
Come risulta dal giudizio di anomalia espresso dalla
Stazione appaltante, sul punto non contestato, “l’A.T.I.
ha dimostrato di aver alterato dei prezzi netti dichiarati
gravandoli di un surplus di utile rispetto a quanto
riportato nell’offerta”, e ciò al primario fine “di
voler fare uso di parte di detto surplus, fittiziamente
accantonato, per far fronte ai rilievi dell’Amministrazione”.
La decisione della Stazione appaltante di escludere l’A.T.I.
dalla selezione, infatti, non è affetta da alcuna
valutazione abnorme, manifestamente illogica o da errori di
fatto.
Come correttamente affermato dal TAR, infatti, né in sede di
giustificazioni presentate a corredo dell’offerta, né in
sede di chiarimenti forniti nell’audizione sono state
formulate osservazioni che dimostrassero l’asserita
congruità dell’offerta presentata.
Per le ragioni esposte l’appello è infondato e come tale da
respingere (commento tratto da www.ipsoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: In
caso di diniego di concessione edilizia, richiesta dal
proprietario ma respinta dal Comune per errori di
rappresentazione progettuale, non sussiste l’interesse
all’impugnazione in capo al professionista progettista
dell’opera, in quanto “il diniego incide sullo ius
aedificandi e non sull'esercizio della professione del
progettista, né sulle sue qualità e il suo prestigio”.
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Nel caso di specie trattasi di un annullamento parziale di
una concessione edilizia fondato su di un unico rilievo:
l’errata individuazione della superficie dell’area
edificabile compiuta dal progettista.
L’arch. F. è colui che ha catastalmente frazionato e quindi
individuato la parte di terreno edificabile e,
successivamente, progettato il nuovo immobile ivi eretto:
egli, pertanto, essendo corresponsabile della conformità
delle opere, ha una pretesa qualificata al legittimo
esercizio dell’azione amministrativa sub iudice e,
conseguentemente, la legittimazione a chiedere
l’annullamento di un provvedimento amministrativo che reputa
configgere con l’interpretazione che egli ha dato della
disciplina urbanistica comunale e, più in generale, con il
suo operato.
Pregiudizialmente occorre esaminare l’eccezione di difetto
di legittimazione attiva in capo al ricorrente, sollevata
dalla difesa del Comune di Trento in dipendenza della
circostanza che l’arch. Fracchetti non è il proprietario del
neo edificato immobile di causa, ma il progettista dello
stesso, legato alla titolare del diritto reale e delle
correlate facoltà edilizie, sig.ra Furlani, solo da un
rapporto professionale.
Su questo punto il Collegio condivide l’indirizzo
giurisprudenziale secondo il quale, in caso di diniego di
concessione edilizia, richiesta dal proprietario ma respinta
dal Comune per errori di rappresentazione progettuale, non
sussiste l’interesse all’impugnazione in capo al
professionista progettista dell’opera, in quanto “il diniego
incide sullo ius aedificandi e non sull'esercizio della
professione del progettista, né sulle sue qualità e il suo
prestigio” (cfr., da ultimo, C.d.S., sez. IV, 17.09.2012, n.
4924; 18.04.2012, n. 2275).
Il caso di specie, peraltro, è diverso: il titolo edilizio è
stato rilasciato nel dicembre 2009 e l’immobile, nella sua
struttura complessiva, è stato ultimato. Trattasi, infatti,
di un annullamento parziale di una concessione edilizia
fondato su di un unico rilievo: l’errata individuazione
della superficie dell’area edificabile compiuta dal
progettista. Il provvedimento in esame è stato quindi
notificato, ai sensi dell’art. 127 della l.p. urbanistica
04.03.2008, n. 1, anche al costruttore nonché al direttore dei
lavori/progettista, tutti responsabili, anche penalmente,
secondo quanto previsto dall’art. 29 del D.P.R. 06.06.2001, n.
380 (cfr., ex multis, Cass. Pen., sez. III, 09.09.2009, n.
34879).
L’arch. Fracchetti è colui che ha catastalmente frazionato e
quindi individuato la parte di terreno edificabile e,
successivamente, progettato il nuovo immobile ivi eretto:
egli, pertanto, essendo corresponsabile della conformità
delle opere, ha una pretesa qualificata al legittimo
esercizio dell’azione amministrativa sub iudice e,
conseguentemente, la legittimazione a chiedere
l’annullamento di un provvedimento amministrativo che reputa
configgere con l’interpretazione che egli ha dato della
disciplina urbanistica comunale e, più in generale, con il
suo operato (cfr., in termini, TRGA Trento, 11.05.2011,
n. 135; 08.07.2010, n. 170; TAR Veneto, sez. II; 14.06.2004,
n. 2043)
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 22.11.2012 n. 343 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Le
mappe catastali costituiscono sempre un elemento probatorio
di carattere sussidiario, al quale si deve ricorrere “in
caso di obiettiva e assoluta mancanza di prove idonee a
determinare il confine in modo certo”, o quando i diversi
elementi prodotti (per la loro consistenza, o per ragioni
attinenti alla loro attendibilità) risultino comunque
inidonei alla determinazione certa dei confini.
Le argomentazioni
sviluppate dal ricorrente con il primo motivo -volte a
sostenere che a causa della non perfetta corrispondenza tra
la situazione dei luoghi descritta nelle mappe urbanistiche
del Comune e catastali, per un verso, e la situazione reale
da altro verso, egli avrebbe dovuto individuare i confini
della zona B5 sulla base di punti fiduciali riscontrati in
loco in sede di progettazione e, precisamente, con la già
menzionata tavola DTA.1.01- sono quindi infondate in punto
di fatto e, precisamente, sulla base di quanto egli aveva
già accertato in sede di frazionamento.
In particolare: il confine nord, tracciando una linea retta
originata dagli spigoli 651 e 652 dell’edificio 1015 e che
passa per il punto battuto 539; il confine est, tracciando
un’altra linea retta originata dai punti 824 e 765
dell’edificio 973. Cosicché in sede di progettazione era
obbligo utilizzare la planimetria allegata al frazionamento
e utilizzare i punti battuti in precedenza individuati con
coordinate certe, anziché redigerne una nuova, che prescinde
dai capisaldi stabiliti e che sarebbe invece basata su
asseriti “punti fiduciali” del tutto innovativi e
soggettivamente “desunti”, quali la successivamente dedotta
“linea tendenzialmente curvilinea di demarcazione tra le
aree B1 ed il centro storico”.
Né torna utile al ricorrente sostenere di avere utilizzato
in sede di progettazione la mappa catastale. Infatti:
- oltre a dover sapere, sia in linea generale ma soprattutto
per la professione che egli esercita, che le mappe catastali
costituiscono sempre un elemento probatorio di carattere
sussidiario, al quale si deve ricorrere “in caso di
obiettiva e assoluta mancanza di prove idonee a determinare
il confine in modo certo”, o quando i diversi elementi
prodotti (per la loro consistenza, o per ragioni attinenti
alla loro attendibilità) risultino comunque inidonei alla
determinazione certa dei confini (cfr., ex multis, Cass.
Civ., sez. II, 02.11.2010, n. 22298 e TRGA Trento,
22.06.2011, n. 177)
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 22.11.2012 n. 343 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In base al principio del
contrarius actus, qualora in sede di rilascio di una
concessione edilizia sia stato acquisito il parere della
Commissione edilizia, tale parere va acquisito anche
all'atto dell'annullamento d'ufficio del suddetto titolo
abilitativo, fatte salve le ipotesi in cui il provvedimento
di autotutela sia supportato da evidenti ragioni formali o
di tipo giuridico.
Il pronunciamento dell'organo tecnico consultivo non è
infatti necessario allorché l'annullamento della concessione
edilizia sia un atto dovuto e non discrezionale, come nel
caso che qui occupa, ove il provvedimento di annullamento
parziale della concessione edilizia è stato motivato con
richiami a ragioni sia tecniche che giuridiche, essendo
stato fatto esclusivo riferimento all’errata
rappresentazione nella planimetria di progetto del lotto
edificabile che ha comportato l’attribuzione di una maggiore
ampiezza allo stesso in un’area di pregio non edificabile.
Il terzo motivo, con il quale è
stata denunciata la mancata acquisizione del parere della
Commissione edilizia, è infondato in punto di diritto.
Da un lato il parere dell’organo consultivo comunale di
Trento nel procedimento di annullamento di un titolo
edilizio non è previsto da alcuna norma (cfr., art. 28 del
regolamento edilizio comunale).
Da altro profilo, è assodato in giurisprudenza che, in base
al principio del contrarius actus, qualora in sede di
rilascio di una concessione edilizia sia stato acquisito il
parere della Commissione edilizia, tale parere vada
acquisito anche all'atto dell'annullamento d'ufficio del
suddetto titolo abilitativo, fatte salve le ipotesi in cui
il provvedimento di autotutela sia supportato da evidenti
ragioni formali o di tipo giuridico (cfr., C.d.S., sez. V,
12.05.2011, n. 2821; sez. IV, 31.03.2009, n. 1909).
Il pronunciamento dell'organo tecnico consultivo non è
infatti necessario allorché l'annullamento della concessione
edilizia sia un atto dovuto e non discrezionale, come nel
caso che qui occupa, ove il provvedimento di annullamento
parziale della concessione edilizia è stato motivato con
richiami a ragioni sia tecniche che giuridiche, essendo
stato fatto esclusivo riferimento all’errata
rappresentazione nella planimetria di progetto del lotto
edificabile che ha comportato l’attribuzione di una maggiore
ampiezza allo stesso in un’area di pregio non edificabile
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 22.11.2012 n. 343 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
pergolato, avente natura
ornamentale, deve essere necessariamente realizzato in una
struttura leggera, facilmente amovibile perché priva di
fondamenta, e deve realizzare riparo e/o ombreggiatura di
superfici di modeste dimensioni.
Il secondo motivo è dedicato alla parte dell’ordine di
ripristino relativa ad alcune strutture in legno, delle
quali il ricorrente rivendica la legittimità, trattandosi, a
suo dire, di un “gazebo” oppure di un “pergolato”,
di una casetta da gioco per bambini e di alcuni depositi di
legna che non eccedono le sue ordinarie esigenze di vita.
Queste argomentazioni sono fondate solo per quanto riguarda
la casetta da gioco per bambini e la quantità del legname
presente.
La casetta da gioco, infatti, come ha rilevato il
verificatore, è l’unica presente nel lotto e, avendo un
tetto a due falde; dimensione in pianta non superiore a 4
mq. (precisamente m. 1,90 x 1.40); altezza al colmo pari a
2.20 m.; struttura in legno; assenza di collegamenti per le
forniture di servizi, rientra nelle attrezzature ed arredi
consentiti nelle aree pertinenziali degli edifici in base al
combinato disposto dell’art. 97, comma 1, lett. a-quater),
della l.p. 04.03.2008, n. 1, e dell’art. 22, comma 2, lett.
a), del D.P.P. 13.07.2010, n. 18-50/Leg.
Quanto alla più ampia struttura in legno adibita a tettoia,
si deve innanzitutto osservare che essa, all’opposto di
quanto asserisce il ricorrente, non può essere assimilata ad
un “gazebo” il quale, ai sensi dell’art. 22, comma 2,
lett. c), del citato D.P.P. n. 18-50/Leg. del 2010, deve
presentare una superficie coperta non maggiore di 20 mq.,
mentre la tettoia realizzata dal ricorrente ha una
superficie coperta pari a 26,98 mq.
La struttura di causa, infatti, provvista di una tettoia
costituita da lastre ondulate trasparenti e dotata di gronde
di copertura sui quattro lati, deve essere misurata con il
metodo di misurazione per gli elementi geometrici e per le
costruzioni indicato con l’allegato 1 della deliberazione
della Giunta provinciale 03.09.2010, n. 2023, adottata in
attuazione dell’art. 36, comma 2, della l.p. n. 1 del 2008.
In particolare, tale metodo prescrive che la superficie
coperta corrisponda al sedime comprensivo di tutti gli
aggetti rilevanti ai fini delle distanze. Ne consegue che la
tettoia di causa, pur avendo dimensioni in pianta pari a m.
2,85 x 6,10, presenta lo sporto della gronda sul fronte nord
lungo m. 1,60, quindi maggiore della misura limite per il
calcolo delle distanze pari a 1,50 m. (prescritta dall’art.
8, primo comma, lett. c), delle n.t.a. del p.r.g. di Pelugo).
In definitiva, pertanto, dovendosi conteggiare anche tale
elemento, la struttura in esame presenta una superficie
totale coperta di 26,98 mq.
La struttura di causa non può nemmeno definirsi un “pergolato”
che, ai sensi dell’art. 22, comma 2, lett. d), del già
citato D.P.P. n. 18-50/Leg. del 2010, è una “struttura
composta da elementi verticali e sovrastanti elementi
orizzontali in legno o altro materiale, tali da costituire
una composizione a rete, per il sostegno di piante
rampicanti”.
A ciò si deve aggiungere che la giurisprudenza
amministrativa ha precisato che tale manufatto, avente
natura ornamentale, deve essere necessariamente realizzato
in una struttura leggera, facilmente amovibile perché priva
di fondamenta, e che deve realizzare riparo e/o
ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni (cfr., da
ultimo, C.d.S., sez. IV, 29.09.2011, n. 5409).
Nel caso di specie è stata invece realizzata una struttura
dotata di copertura, costituita da pilastri ancorati al
suolo e da travi in legno di importanti dimensioni: tutto
ciò la rende solida e robusta e non facilmente amovibile,
cosicché essa non può essere ritenuta un pergolato e,
quindi, un’opera non rilevante sotto il profilo edilizio (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 21.11.2012 n. 342 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Appestare l'aria non è concesso.
Neanche a impianti autorizzati.
Le immissioni olfattive –provenienti da un impianto munito
di autorizzazione ai fini dell'inquinamento atmosferico e
che abbia rispettato i relativi valori-limite– sono
ascrivibili alla fattispecie di cui all'art. 674 c.p.: è
quanto si legge nella
sentenza 26.09.2012 n. 37037.
Secondo la
III Sez. penale della Corte di Cassazione «poiché l'ordinamento
non prevede specifici valori-limite per le immissioni
olfattive, le quali non rientrano nell'ambito della
disciplina dell'inquinamento atmosferico, il reato di cui
all'art. 674 cod. pen. è configurabile anche nel caso in cui
tali immissioni provengano da un impianto munito di
autorizzazione per le emissioni in atmosfera, essendo
sufficiente il superamento del limite della normale
tollerabilità ex art. 844 cod. civ.; limite che funge da
criterio di legittimità delle emissioni ai sensi della
seconda parte dello stesso art. 674 cod. pen.».
Così argomentando, ha in parte respinto il ricorso
presentato da due uomini condannati, sia in primo che
secondo grado, perché, quali soci amministratori di una
società semplice avente ad oggetto un allevamento avicolo,
avevano provocato emissioni di polveri ed effluenti gassosi
tali da «offendere e molestare le persone dimoranti nelle
vicinanze».
In particolare, gli imputati, tra i diversi motivi di
doglianza, lamentavano non solo il fatto che pur dando atto
che l'impianto di abbattimento degli odori era stato
autorizzato con delibera della giunta regionale, la Corte
territoriale aveva finito con il ritenere comunque
configurabile il reato, ma anche che, era stato applicato
erroneamente l'art. 81 c.p., ritenendo la fattispecie «permanente».
Anche per i giudici di legittimità, però, il fatto andava «qualificato
come reato continuato», in quanto la fattispecie
prevista dall'art. 674 sarebbe stata «costruita dal
legislatore intorno alla condotta di emissione, che si
configura ordinariamente come istantanea, in mancanza di
specifici elementi di fatto dai quali desumere la sua
permanenza».
Purtroppo, però, la Corte distrettuale non aveva proceduto
a: collocare nel tempo, con sufficiente precisione, tali
episodi; individuare fra di essi il più grave; procedere,
conseguentemente, alla determinazione della pena-base e
degli aumenti di pena per gli episodi minori
(articolo ItaliaOggi del 03.01.2013). |
EDILIZIA
PRIVATA: Alle
risultanze catastali non può riconoscersi decisivo valore
probatorio in ordine alla proprietà del bene, ma la
giurisprudenza riconosce che dalle mappe possono desumersi
degli indizi, giacché quello catastale è un sistema
secondario sussidiario rispetto all'insieme degli elementi
acquisiti attraverso l'indagine istruttoria.
Se il quadro probatorio si esaurisse qui, la questione
nodale dell’esistenza o meno di un diritto della ricorrente
all’utilizzazione dell’area dovrebbe decidersi in base al
principio dell’onere della prova.
E ciò, tenendo conto, da un lato, che alle risultanze
catastali non può riconoscersi decisivo valore probatorio in
ordine alla proprietà del bene, ma la giurisprudenza
riconosce che dalle mappe possono desumersi degli indizi,
giacché quello catastale è un sistema secondario sussidiario
rispetto all'insieme degli elementi acquisiti attraverso
l'indagine istruttoria (cfr. Cass. civ., II, 03.03.2009, n.
5131; TAR Calabria, Catanzaro, II, 08.03.2011, n. 342)
(TAR Umbria,
sentenza 21.12.2011 n. 408 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
Collegio è consapevole della valenza probatoria non assoluta
delle mappe catastali; tuttavia ciò che viene in esse
rappresentato costituisce un riferimento importante, e
comunque sufficiente, qualora non vi siano elementi
ufficiali di carattere oggettivo a smentirlo.
Il Collegio è consapevole della valenza probatoria non
assoluta delle mappe catastali; tuttavia ciò che viene in
esse rappresentato costituisce un riferimento importante, e
comunque sufficiente, qualora non vi siano elementi
ufficiali di carattere oggettivo a smentirlo.
E tali non possono certo considerarsi le indicazioni della
mappa del Catasto Gregoriano, anche considerate le
significative modificazioni intervenute nel tessuto urbano
(all’epoca ancora caratterizzato da un’edificazione assai
limitata, come evidenzia detta mappa) nel lungo periodo
intercorrente fino alla elaborazione del nuovo Catasto.
Tanto, a prescindere dalla interpretazione che il tecnico
dei ricorrenti dà della mappa storica (la cui comprensione
richiederebbe un supplemento istruttorio)
(TAR Umbria,
sentenza 11.07.2011 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: I
beni demaniali, in quanto inalienabili ai sensi
dell'articolo 823, c.c. non sono suscettibili di usucapione,
in mancanza di previa sdemanializzazione, e sono tutelabili
mediante i poteri di autotutela possessoria.
In particolare, il disuso prolungato di una strada vicinale
da parte della collettività e l'inerzia dell'amministrazione
nella cura della stessa e/o nell'intervento riguardo ad
occupazioni o usi da parte di privati incompatibili con la
destinazione pubblica, non bastano a comprovare
inequivocamente la cessata destinazione del bene (anche solo
potenziale) all'uso pubblico (c.d. sdemanializzazione
tacita), occorrendo che detti indizi siano accompagnati da
fatti concludenti e da circostanze tali da non lasciare
adito ad altre ipotesi, salva quella che la stessa abbia
definitivamente rinunciato al ripristino dell'uso stradale
pubblico.
Quanto alla considerazione degli interessi dei privati al
mantenimento (alla legittimazione) della situazione di
fatto, non è superfluo ricordare che i beni demaniali, in
quanto inalienabili ai sensi dell'articolo 823, c.c. non
sono suscettibili di usucapione, in mancanza di previa
sdemanializzazione, e sono tutelabili mediante i poteri di
autotutela possessoria.
In particolare, il disuso prolungato di una strada vicinale
da parte della collettività e l'inerzia dell'amministrazione
nella cura della stessa e/o nell'intervento riguardo ad
occupazioni o usi da parte di privati incompatibili con la
destinazione pubblica, non bastano a comprovare
inequivocamente la cessata destinazione del bene (anche solo
potenziale) all'uso pubblico (c.d. sdemanializzazione
tacita), occorrendo che detti indizi siano accompagnati da
fatti concludenti e da circostanze tali da non lasciare
adito ad altre ipotesi, salva quella che la stessa abbia
definitivamente rinunciato al ripristino dell'uso stradale
pubblico (cfr. Cons. Stato, IV, 07.09.2006, n. 5209; V,
06.10.2009, n. 6095; TAR Lombardia, Brescia, I, 08.07.2009,
n. 1450; TAR Abruzzo, Pescara, I, 20.06.2009, n. 445; TAR
Emilia Romagna, Parma, 25.05.2005, n. 291)
(TAR Umbria,
sentenza 11.07.2011 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Non
è corretto sostenere che i confini segnati sulle mappe
catastali non sono attendibili ma è invece esatto affermare
che le mappe catastali costituiscono un elemento probatorio
di carattere sussidiario al quale si deve ricorrere “in caso
di obiettiva e assoluta mancanza di prove idonee a
determinare il confine in modo certo”, ed anche quando i
diversi elementi prodotti (per la loro consistenza, o per
ragioni attinenti alla loro attendibilità) risultino
comunque inidonei alla determinazione certa del confine.
A ciò consegue che la parte che si dolga del ricorso al
mezzo sussidiario di prova dei confini catastali “ha l'onere
di indicare gli specifici elementi alla cui stregua
andrebbe, invece, difformemente accertata la linea di
confine controversa”.
Non è peraltro corretto sostenere che i confini segnati
sulle mappe catastali non sono attendibili ma è invece
esatto affermare che le mappe catastali costituiscono un
elemento probatorio di carattere sussidiario al quale si
deve ricorrere “in caso di obiettiva e assoluta mancanza
di prove idonee a determinare il confine in modo certo”
(cfr., ex multis, Cass. Civ., sez. II, 02.11.2010, n.
22298), ed anche quando i diversi elementi prodotti (per la
loro consistenza, o per ragioni attinenti alla loro
attendibilità) risultino comunque inidonei alla
determinazione certa del confine.
A ciò consegue che la parte che si dolga del ricorso al
mezzo sussidiario di prova dei confini catastali “ha
l'onere di indicare gli specifici elementi alla cui stregua
andrebbe, invece, difformemente accertata la linea di
confine controversa” (cfr., Cass. Civ., sez. II,
30.12.2009, n. 28103)
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 22.06.2011 n. 177 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Dalle
mappe possono desumersi degli indizi, giacché quello
catastale è un sistema secondario sussidiario rispetto
all'insieme degli elementi acquisiti attraverso l'indagine
istruttoria.
D’altra parte, ed a titolo di esempio, che in tema di azione
di regolamento di confini è la stessa norma (l’art. 950,
secondo comma, cod. civ.) ad attribuire rilevanza probatorio
alle mappe catastali, in mancanza di altri elementi.
Il ricorrente contesta con forza le conclusioni cui è
pervenuto il CTU, sottolineando che, nel sistema Italiano,
ai dati catastali non può essere attribuita alcuna valenza
probatoria e che il CTU si è limitato ad accertare i dati
del catasto fabbricati, senza esaminare il catasto terreni.
Ritiene il Collegio che non sia condivisibile l’assunto del
ricorrente che nega alle risultanze catastali ogni valore
probatorio.
È vero che a tali risultanze non può riconoscersi decisivo
valore probatorio in ordine alla proprietà del bene, ma la
giurisprudenza riconosce che dalle mappe possono desumersi
degli indizi, giacché quello catastale è un sistema
secondario sussidiario rispetto all'insieme degli elementi
acquisiti attraverso l'indagine istruttoria (Cass. civ.,
sez. II, 03.03.2009 n. 5131).
I principi testé richiamati sono stati affermati in tema di
rivendicazione, che soggiace, com’è noto, ad un regime della
prova estremamente rigoroso, per il quale base primaria
dell'indagine del giudice di merito è costituita dall’esame
e dalla valutazione dei titoli di acquisto delle rispettive
proprietà.
Da notare che, d’altra parte, ed a titolo di esempio, che in
tema di azione di regolamento di confini è la stessa norma
(l’art. 950, secondo comma, cod. civ.) ad attribuire
rilevanza probatorio alle mappe catastali, in mancanza di
altri elementi.
Non può, pertanto, disconoscersi che le mappe catastali
possano costituire indizio che può essere utilizzato ai fini
dell’accertamento della proprietà del bene immobile
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 08.03.2011 n. 342 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Non è vero che le
risultanze catastale non abbiano rilevanza probatoria: tale
affermazione attiene al differente contesto del giudizio
civile e tributario (infatti, nel giudizio di regolamento di
confini, che ha per oggetto l'accertamento di un confine
obiettivamente e soggettivamente incerto tra due fondi, il
giudice ha un ampio potere di scelta e di valutazione dei
mezzi probatori acquisiti al processo, in ordine ai quali il
ricorso alle indicazioni delle mappe catastali costituisce
un sistema di accertamento di carattere meramente
sussidiario, al quale, cioè, si pone riferimento solo in
assenza di altri elementi idonei alla determinazione del
confine).
In ogni caso, non è vero che le risultanze catastale non
abbiano rilevanza probatoria: tale affermazione attiene al
differente contesto del giudizio civile e tributario (cfr.
Cassazione civile, Sez. II, 29.12.2009 n. 27521, nella quale
si precisa che: nel giudizio di regolamento di confini, che
ha per oggetto l'accertamento di un confine obiettivamente e
soggettivamente incerto tra due fondi, il giudice ha un
ampio potere di scelta e di valutazione dei mezzi probatori
acquisiti al processo, in ordine ai quali il ricorso alle
indicazioni delle mappe catastali costituisce un sistema di
accertamento di carattere meramente sussidiario, al quale,
cioè, si pone riferimento solo in assenza di altri elementi
idonei alla determinazione del confine)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 09.12.2010 n. 4808 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Mappe catastali - Valore probatorio - Limiti.
Le mappe catastali costituiscono un sistema secondario e
sussidiario rispetto all'insieme degli elementi acquisiti
attraverso l'indagine istruttoria (tant'è che te risultanze
di esse possono assumere rilevanza probatoria solo se
espressamente richiamate nell’atto di acquisto o se non
contraddette da specifiche determinazioni negoziali delle
parti), (Cass. civ. sez. 3 n. 711 dei 26.01.1998; Cass. civ.
sez. 2 n. 6885 del 03.07.1999; n. 9091 del 24.08.1991).
Sicché, le risultanze catastali non possono avere, di per
sé, decisivo valore probatorio per l'ovvia considerazione
che non vi è alcuna certezza in ordine alla correttezza
della indicazione.
E' ben possibile, invero, che siffatta indicazione risulti
ab origine frutto di errore o che abbia subito
modificazioni in relazione alle successive vicende del bene
(alienazione parziale o acquisto di terreno contiguo), pur
non essendo state queste oggetto di tempestiva e corretta
annotazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.10.2008 n. 38044 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
DEMANIO MARITTIMO – Perimetrazione – Assenza di
situazione di oggettiva incertezza – Emergenze catastali –
Idoneo supporto istruttorio - Circostanze che rendono
incerto il confine tra beni privati e beni demaniali –
Esempi.
In assenza di situazioni di oggettiva incertezza, le
emergenze catastali possono costituire idoneo supporto
istruttorio per individuare casi di illegittima occupazione
dei beni demaniali, atteso che, a termini dell’art. 950
c.c., le mappe catastali rappresentano comunque mezzi di
prova dotati di sufficiente grado di attendibilità.
La situazione di obiettiva incertezza, che impedisce il
ricorso sic et simpliciter alle mappe catastali ed
obbliga l’amministrazione all’espletamento della procedura
di delimitazione in contraddittorio di cui all’art. 32 cod.
nav., può scaturire da diversi fattori consistenti in
circostanze di fatto o di diritto che rendono scarsamente
percepibile il limite della linea confinaria, creando
confusione fra le rispettive estensioni dei beni privati e
di quelli demaniali.
Si rammentano, come esempi, le contestazioni dei confini
effettuate sulla base dei titoli di acquisto o delle
sentenze dei tribunali, l’obsolescenza delle mappe catastali
a fronte dell’avvenuta antropizzazione del territorio o
dell’assetto mutevole delle coste originato dalla continua
azione dei marosi e delle correnti (cfr. TAR Calabria
Catanzaro, Sez. II, 20.06.2005 n. 1116), la
contraddittorietà delle risultanze catastali ed, in genere,
l’emersione di seri elementi documentali comprovanti la
natura non demaniale dell’area interessata (cfr. C.G.A.
Sicilia, 25.06.1990 n. 205) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 04.06.2007 n. 675 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Concessione di costruzione - Proprietà di un’area
- Dati catastali - Valore meramente indiziario - Specifiche
determinazioni negoziali - Accertamento - Salvaguardare gli
eventuali diritti dei terzi.
Ai fini dell’accertamento della proprietà di un’area, i dati
catastali hanno valore meramente indiziario e ad essi può
essere attribuito valore probatorio soltanto quando non
risultino contraddetti da specifiche determinazioni
negoziali delle parti o dalla complessiva valutazione del
contenuto dell’atto al quale deve farsi risalire la
titolarità dell’area medesima, da cui emerga l’effettiva,
diversa estensione e delimitazione dell’oggetto del
contratto stesso; di tali principi deve essere fatta
applicazione anche in materia di concessione di costruzione,
per la cui decisione, le riserve apposte alle variazioni
catastali conformi ai titoli (per salvaguardare gli
eventuali diritti dei terzi) non sono di per sé idonee a
produrre alcun effetto ostativo, né a ritardarne il
rilascio.
Dati catastali - Valore meramente
indiziario.
Il dato catastale, non incide sulla titolarità della
proprietà e non è idoneo a smentire né ad annettere
carattere di provvisorietà ai titoli di acquisto o alle
verificazioni ed attestazioni dell’UTE (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 29.03.2004 n. 1631 - link a
www.ambientediritto.it). |
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