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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di GENNAIO 2013

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aggiornamento al 28.01.2013

aggiornamento al 24.01.2013

aggiornamento al 21.01.2013

aggiornamento al 14.01.2013

aggiornamento al 07.01.2013

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 28.01.2013

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IN EVIDENZA

Per coloro che sono "duri di comprendonio", nonostante la copiosa ed uniforme pareristica della Corte dei Conti qui pubblicata a più riprese, ecco l'ennesima conferma ...

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Comune di Massa Martana - Richiesta di parere relativa all’interpretazione della disposizione di cui all’art. 92, commi 5 e 6, del D.Lgs. n. 163/2006 -“Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18CE”-, in merito all’attribuzione degli incentivi di legge al Responsabile unico del procedimento per la redazione di atti di pianificazione urbanistica.
La norma contenuta nel comma 6 dell’art. 92 dlgs 163/2006, che prevede la corresponsione al dipendente di un emolumento pari al 30% della tariffa professionale applicabile al professionista esterno per la redazione “di un atto di pianificazione comunque denominato”, non va letta isolatamente, ma in combinato disposto con il precedente art. 90 e con il primo comma del detto art. 92, come la Magistratura Contabile nell’esercizio della funzione di controllo ha avuto modo di chiarire in molteplici occasioni.
---------------

Il riferimento ad “un atto di pianificazione” contenuto al comma 6 del detto art. 92 è da intendersi limitato agli atti che abbiano ad oggetto la pianificazione collegata alla realizzazione di opere pubbliche (ad es. varianti per la localizzazione di un’opera, etc.) con esclusione, quindi, degli atti di pianificazione generale (ad es. redazione del Piano regolatore, di una variante generale, etc.).
---------------
L’incentivo può essere corrisposto dall’amministrazione non per la posizione o il ruolo ricoperto formalmente dal dipendente, ma, in una visione sostanziale, qualora vi sia stata l’effettiva redazione dell’atto di pianificazione: in altre parole l’incentivo spetta unicamente a coloro che “abbiano redatto” l’atto di pianificazione in parola.
Recentemente la Magistratura Contabile nell’esercizio della funzione di controllo ha meglio chiarito che l’incentivo spetta solo al personale che partecipa direttamente alle attività di redazione degli atti, quindi non in “ragione della qualifica rivestita ma in relazione al complessivo svolgimento interno dell’attività di progettazione. In sostanza, qualora l’attività venga svolta internamente tutti i soggetti che, a qualsivoglia titolo, collaborano, hanno diritto, in base alle previsioni del Regolamento dell’Ente, a partecipare alla distribuzione dell’incentivo. Qualora, al contrario, l’attività di pianificazione, come sopra specificata, venga svolta all’esterno, non sorgendo il presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari dipendenti dell’Ufficio, non vi è neppure un autonomo diritto del Responsabile del procedimento ad ottenere un compenso per un’attività che, al contrario, rientra fra i suoi compiti e doveri d’ufficio.”.
Ed ancora “L’art. 92, comma 6, non potrebbe costituire titolo per l’erogazione di speciali compensi ai dipendenti che svolgono attività sussidiarie, strumentali o di supporto alla redazione di atti di pianificazione affidata a professionisti esterni. Tale disposizione, infatti, abilita (nella misura autoritativamente fissata dalla legge) a riconoscere uno speciale compenso, al di là del trattamento economico ordinariamente spettante, solo in presenza dei due seguenti elementi di fattispecie:
a) sul piano dell’oggetto, che la prestazione consista nella diretta “redazione di un atto di pianificazione”, non in attività variamente sussidiarie che rientrano nei doveri d’ufficio dei dipendenti, …;
b) implicitamente, che la redazione dello stesso non sia stata esternalizzata ad un professionista esterno ai sensi dell’art. 90, comma 6”.

... il Sindaco del Comune di Massa Martana, per il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali dell’Umbria, ha inoltrato a questa Sezione richiesta di parere, ai sensi dell’articolo 7, comma 8, della legge n. 131 del 05.06.2003, relativamente all’interpretazione della disposizione di cui all’art. 92, commi 5 e 6, del D.Lgs. n. 163/2006 -“Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18CE”-, in merito all’attribuzione degli incentivi di legge al Responsabile unico del procedimento per la redazione di atti di pianificazione urbanistica.
...
L’art. 92 del Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, Dlgs n. 163/2006, rubricato “Corrispettivi, incentivi per la progettazione e fondi a disposizione delle stazioni appaltanti” ai commi quinto e sesto prevede, rispettivamente, che: - “5. Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo dipendente non può superare l'importo del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. I soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono adottare con proprio provvedimento analoghi criteri.
- 6. Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto
.”
L’articolato normativo appena descritto contiene la disciplina gli incentivi e corrispettivi che l’amministrazione pubblica può erogare ai dipendenti per la progettazione di opere pubbliche.
La ratio della disciplina dettata dal legislatore è quella di ridurre i costi derivanti dalle attività di progettazione delle opere pubbliche, incentivando il ricorso alle attività di progettazione svolte all’interno degli uffici dagli stessi dipendenti, cui vengono corrisposti compensi aggiuntivi alla retribuzione, anziché far ricorso a professionalità esterne alla amministrazione, che determinerebbero una consistente lievitazione dei costi.
Il quesito posto dal Comune richiedente riguarda la possibilità di corrispondere al Responsabile Unico del Procedimento, relativamente ad un atto di pianificazione urbanistica, lo speciale compenso incentivante da corrispondersi per la progettazione c.d. interna, di cui al richiamato comma 6 dell’art. 92 del Codice dei Contratti, sebbene l’attività di progettazione sia stata affidata a professionisti esterni all’amministrazione.
Ciò nella prospettazione dell’ente richiedente muove dalla constatazione che i compensi di cui al quinto comma della richiamata normativa (incentivi alla progettazione) possono essere erogati ai dipendenti anche in caso di progettazione affidata all’esterno, così che anche lo speciale compenso di cui al successivo sesto comma possa essere erogato nell’ipotesi analoga di affidamento esterno all’ente.
Nel merito questa Sezione, relativamente alla possibilità di corrispondere al R.U.P. i compensi incentivanti per gli atti di pianificazione urbanistica, osserva che
la norma contenuta nel sesto comma dell’art. 92 sopra richiamato, che prevede la corresponsione al dipendente di un emolumento pari al 30% della tariffa professionale applicabile al professionista esterno per la redazione “di un atto di pianificazione comunque denominato”, non va letta isolatamente, ma in combinato disposto con il precedente art. 90 e con il primo comma del detto art. 92, come la Magistratura Contabile nell’esercizio della funzione di controllo ha avuto modo di chiarire in molteplici occasioni.
In altre parole il compenso incentivante di cui al comma 6 dell’art. 92 può essere attribuito ai “dipendenti che hanno preso parte alla redazione esclusivamente di un piano o progetto preliminare, definitivo ed esecutivo di lavori pubblici”, in quanto l’art. 90 del D.lgs. n. 163/2006, sia nella rubrica che nel primo comma, fa esclusivo riferimento ai lavori pubblici, e l’art. 92, al primo comma, “presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi,.. come finalizzata alla costruzione dell’opera pubblica progettata”.
Ed ancora, lo stesso sesto comma dell’art. 92, si riferisce alla materia dei lavori pubblici, quando prevede che l’incentivo vada ripartito tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto, presupponendo una procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un’opera di pubblico interesse.
In sintesi dunque
il riferimento ad “un atto di pianificazione” contenuto al comma 6 del detto art. 92 è da intendersi limitato agli atti che abbiano ad oggetto la pianificazione collegata alla realizzazione di opere pubbliche (ad es. varianti per la localizzazione di un’opera, etc.) con esclusione, quindi, degli atti di pianificazione generale (ad es. redazione del Piano regolatore, di una variante generale, etc.) (cfr. Corte conti, Sez. Contr. Campania
parere 10.07.2008 n. 14; Veneto n. parere 26.07.2011 n. 337; Toscana parere 18.10.2011 n. 213; Piemonte parere 30.08.2012 n. 290).
Alla luce delle considerazioni sopraesposte
il quesito posto dal Comune di Massa Martana, per la parte riguardante il diritto al compenso del Responsabile unico del procedimento sugli atti di pianificazione urbanistica, è risolto in senso negativo, in quanto detti atti non sono ricompresi tra quelli previsti dall’art. 92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006.
Sotto ulteriore profilo il Comune richiedente si interroga sulla possibilità di corrispondere al Responsabile unico del procedimento il compenso incentivante più volte ridetto quale dipendente dell’amministrazione aggiudicatrice che ha redatto l’atto tenuto conto delle funzioni che la legge gli attribuisce. 
Malgrado la non chiara formulazione, sembra che la richiesta del Comune sia volta a comprendere se possa essere attribuito al Responsabile unico del procedimento l’incentivo previsto dal comma 6 del detto art. 92, semplicemente in funzione del ruolo svolto, ovverosia indipendentemente dalla partecipazione effettiva alla redazione degli atti, presumibilmente pur sempre in materia dei lavori pubblici.
Dalla lettera della norma appena richiamata si evince che
l’incentivo può essere corrisposto dall’amministrazione non per la posizione o il ruolo ricoperto formalmente dal dipendente, ma, in una visione sostanziale, qualora vi sia stata l’effettiva redazione dell’atto di pianificazione: in altre parole l’incentivo spetta unicamente a coloro che “abbiano redatto” l’atto di pianificazione in parola.
Recentemente la Magistratura Contabile nell’esercizio della funzione di controllo ha meglio chiarito che
l’incentivo spetta solo al personale che partecipa direttamente alle attività di redazione degli atti, quindi non in “ragione della qualifica rivestita ma in relazione al complessivo svolgimento interno dell’attività di progettazione. In sostanza, qualora l’attività venga svolta internamente tutti i soggetti che, a qualsivoglia titolo, collaborano, hanno diritto, in base alle previsioni del Regolamento dell’Ente, a partecipare alla distribuzione dell’incentivo. Qualora, al contrario, l’attività di pianificazione, come sopra specificata, venga svolta all’esterno, non sorgendo il presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari dipendenti dell’Ufficio, non vi è neppure un autonomo diritto del Responsabile del procedimento ad ottenere un compenso per un’attività che, al contrario, rientra fra i suoi compiti e doveri d’ufficio.” (cfr. Sez. reg. Contr. Piemonte parere 30.08.2012 n. 290).
Ed ancora “
L’art. 92, comma 6, non potrebbe costituire titolo per l’erogazione di speciali compensi ai dipendenti che svolgono attività sussidiarie, strumentali o di supporto alla redazione di atti di pianificazione affidata a professionisti esterni. Tale disposizione, infatti, abilita (nella misura autoritativamente fissata dalla legge) a riconoscere uno speciale compenso, al di là del trattamento economico ordinariamente spettante, solo in presenza dei due seguenti elementi di fattispecie: a) sul piano dell’oggetto, che la prestazione consista nella diretta “redazione di un atto di pianificazione”, non in attività variamente sussidiarie che rientrano nei doveri d’ufficio dei dipendenti, …; b) implicitamente, che la redazione dello stesso non sia stata esternalizzata ad un professionista esterno ai sensi dell’art. 90, comma 6”. (cfr. Sez. reg. Contr. Lombardia parere 30.05.2012 n. 259) (Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria, parere 21.12.2012 n. 284).

Volenti o nolenti, bisogna farsene una ragione !!

28.01.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Legge n. 190 del 2012 - Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione (circolare 25.01.2013 n. 1/2013).

UTILITA'

INCARICHI PROGETTUALI: Servizi di progettazione: ecco le linee guida sui contratti professionali degli architetti!
Le ultime modifiche legislative hanno portato all’abrogazione delle tariffe professionali.
Il principio di stabilire patti chiari tra professionista e committente prima di assumere un incarico professionale è un elemento fondamentale, sancito anche dall’articolo 9 della Legge 27/2012.
Ricordiamo, brevemente, che il compenso per la prestazione deve essere pattuito al momento del conferimento dell’incarico e adeguato all'importanza dell'opera e alla prestazione da eseguire. Inoltre, il professionista è tenuto ad informare il cliente, attraverso un preventivo, riguardo:
● misura del compenso
● grado di complessità dell’incarico
● tutti gli oneri e le spese ipotizzabili
● altro (IVA, contributi integrativi, ritenute, etc.)
Il Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori (CNAPPC) ha pubblicato un documento contenente delle Linee guida alla redazione del contratto, con i seguenti tre esempi
● esempio di contratto relativo a “Progettazione Architettonica Integrata per Committenza Privata”
● esempio di contratto “Semplificato” relativo a “Progettazione Architettonica Integrata per Committenza privata”
● esempio di contratto relativo a Progettazione di Piani Urbanistici Attuativi
Nelle premesse, il CNAPPC ricorda che non è sufficiente l'accordo verbale e che il principio di stabilire patti chiari tra professionista e committenti prima di assumere un incarico professionale è un elemento fondamentale (24.01.2013 - link a www.acca.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: Oggetto: interpello ex art. 9, D.Lgs. n. 124/2004 – DURC – posizione non regolare del socio di una società di capitali (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 24.01.2013 n. 2/2013).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto : FAQ su FerCel e FerPas (Regione Lombardia, Direzione Generale Ambiente, Energia e Reti, nota 23.01.2013 n. 1677 di prot.).

LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Decreto legislativo n. 192/2012, recante modifiche al decreto legislativo 09.10.2002, n. 231, per l'integrale recepimento della direttiva 2011/7/UE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (Ministero dello Sviluppo Economico, nota 23.01.2013 n. 1293 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

VARI: G.U. 26.01.2013 n. 22 "Disposizioni in materia di professioni non organizzate" (Legge 14.01.2013 n. 4).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: A. Rinaldi e M. Marzano, Responsabilità solidale negli appalti: quali norme si applicano agli Enti Locali ? (link a www.entilocaliweb.info).

EDILIZIA PRIVATA: F. Notaro, M. Mazzaro e C. Tarturici, D.M. 07.08.2012 - Le nuove istanze di prevenzione incendi (tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, SCIA, DIA alternativa e certificato di agibilità (link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, DISTANZE TRA FABBRICATI (commento a caldo della sentenza 23.01.2013 n. 6/2013 della Corte costituzionale) (link a www.lexambiente.it).

APPALTI SERVIZI: C. Volpe, La “nuova normativa” sui servizi pubblici locali di rilevanza economica. Dalle ceneri ad un nuovo effetto “Lazzaro”. Ma è vera resurrezione? (link a www.giustizia-amministrativa.it).

CORTE DEI CONTI

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Se il provvedimento giuntale è illegittimo il dirigente non lo esegue.
E' personalmente responsabile il dirigente che, in spregio al principio di onnicomprensività della retribuzione, riconosce ai dipendenti degli emolumenti aggiuntivi per un adempimento rientrante negli ordinari compiti di servizio. E poco importa se l'erogazione è stata autorizzata con delibera di giunta, perché l'attività di competenza del dirigente -soprattutto in materia di attribuzione di emolumenti- implica sempre la previa valutazione dell’esistenza di tutti i presupposti, di fatto e diritto, che legittimano il suo operato.
Come ha sostenuto il pubblico ministero attore, la liquidazione non era stata preceduta dal periodico processo di valutazione delle prestazioni e dei risultati, né si era tenuto conto del livello di conseguimento degli obiettivi predefiniti nel PEG, e livello di performance oggetto di specifica certificazione dal Servizio di Controllo Interno. Era stato insomma conferito un emolumento facendo ricorso un istituto contrattuale (compensi per la produttività) per finalità diverse da quelle proprie dell’istituto stesso, e per remunerare attività che, in quanto rientranti in quelle istituzionali, dovevano altrimenti ritenersi comprese nella retribuzione contrattuale.
Queste affermazioni appaiono condivisibili, dal momento che nella fattispecie è stato attribuito un compenso straordinario giustificato in relazione al compimento dell’attività di organizzazione della nona edizione della manifestazione l’”olio della poesia”, che, in quanto svolta da un dipendente e rientrante nei compiti d’istituto, non poteva comunque essere retribuita con un compenso ad hoc, se non violando il principio di onnicomprensività della retribuzione. Sotto altro profilo, tale principio risulta eluso dalle modalità concrete con cui si è fatto ricorso all’istituto del premio di produttività, la cui erogazione avrebbe potuto avvenire solo dopo gli appositi adempimenti procedurali concernenti la valutazione delle prestazioni e degli obiettivi ad opera del servizio di controllo interno.
Né può valere a giustificare l’operato dell’odierno appellante la circostanza che il compenso in questione era autorizzato dalla deliberazione della Giunta della Provincia n. 403 del 2006.
Si deve infatti respingere la tesi secondo cui la legittimità di tale delibera non era sindacabile da parte dell’appellante in quanto titolare ufficio dirigenziale che la doveva eseguire. Al contrario
l’emanazione degli atti di competenza del dirigente implica sempre la valutazione dell’esistenza di tutti i presupposti di fatto e di diritto, come peraltro espressamente desumibile dalla legge 07.08.1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) che a proposito dei compiti del responsabile del procedimento (art. 6, comma 1) individua, tra gli altri, quello di accertare, in via istruttoria, i presupposti rilevanti ai fini dell’emanazione del provvedimento: principio, questo, di carattere generale relativo all’attività amministrativa certamente applicabile anche al di fuori dell’ambito statale.
A ciò si deve aggiungere che
ove si tratti, come nel caso in esame, di provvedimento attuativo di altro ritenuto illegittimo l’ufficio competente deve astenersi dall’emanarlo, fornendo semmai ragguagli all’altro organo. Per di più nel caso di specie si trattava di provvedimento relativo all’attribuzione di emolumenti, certamente di competenza dirigenziale, per cui la responsabilità dell’odierno appellante deriva dai principi di competenza e di responsabilità espressi dall’art 97, secondo comma della Costituzione: “Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari”.
Ciò posto, va considerato che oggetto del giudizio contabile non è tanto la valutazione della legittimità degli atti quanto il giudizio sui comportamenti. Nel caso di specie certamente il comportamento dei membri della Giunta comunale, peraltro non presenti in questo giudizio, ha influito in modo importante nel processo causale che ha comportato l’emanazione del provvedimento dannoso (Corte dei Conti, Sez. I giurisdiz. centrale d'appello, sentenza 14.01.2013 n. 29 - massima e sentenza tratta da www.respamm.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Se l’espletamento dell’incarico di membro di una commissione di gara costituisce obbligo di servizio per il dipendente questo non può essere remunerato a parte.
Invero, premesso che il principio di onnicomprensività della retribuzione nel pubblico impiego, insito tra quelli generali dell’ordinamento giuridico, già da tempo ha trovato la sua conferma nell’ambito del diritto positivo sia per dirigenti che per gli altri pubblici dipendenti, la giurisprudenza ha da tempo chiarito che il divieto di percepire compensi, stabilito per i pubblici dipendenti assoggettati al regime dell'onnicomprensività del trattamento retributivo, opera inderogabilmente in tutti i casi in cui l'attività svolta dall'impiegato sia riconducibile a funzioni e poteri connessi alla di lui qualifica e all'ufficio ricoperto, corrispondenti a mansioni cui egli non possa sottrarsi perché rientranti nei normali compiti di servizio.
Orbene, in primo luogo va osservato che il principio di onnicomprensività della retribuzione nel pubblico impiego, insito tra quelli generali dell’ordinamento giuridico, già da tempo ha trovato la sua conferma nell’ambito del diritto positivo sia per dirigenti che per gli altri pubblici dipendenti.
In relazione ai dirigenti l’art. 24 del d.lgs. n. 29 del 1993 (ora del d.lgs. 30-03-2001 n. 165) ha stabilito che “la retribuzione del personale con qualifica di dirigente è determinata dai contratti collettivi per le aree dirigenziali prevedendo che il trattamento economico accessorio sia correlato alle funzioni attribuite e alle connesse responsabilità” (comma 1) ed inoltre che “il trattamento economico determinato ai sensi dei commi 1 e 2 remunera tutte le funzioni ed i compiti attribuiti ai dirigenti in base a quanto previsto dal presente decreto, nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito dall'amministrazione presso cui prestano servizio o su designazione della stessa” (comma 3).
Per ciò che concerne i dipendenti che non rivestono la qualifica dirigenziale deve richiamarsi quanto disposto dall’art. 45 del d.lgs. n. 165 del 2001 ossia che per le prestazioni lavorative rese a favore dell’amministrazione di appartenenza, spetta soltanto il trattamento economico fondamentale ed accessorio definito dai contratti collettivi salvo che non si tratti di attività che esuli dai compiti istituzionali attribuiti a ciascun dipendente.
La giurisprudenza ha, inoltre, da tempo chiarito che il divieto di percepire compensi, stabilito per i pubblici dipendenti assoggettati al regime dell'onnicomprensività del trattamento retributivo, opera inderogabilmente in tutti i casi in cui l'attività svolta dall'impiegato sia riconducibile a funzioni e poteri connessi alla di lui qualifica e all'ufficio ricoperto, corrispondenti a mansioni cui egli non possa sottrarsi perché rientranti nei normali compiti di servizio (cfr., in tema, Cons. Stato, sez. V, 05.05.1995, n. 419, 09.09.1999, n. 1027, 02.10.2002, n. 5163; Cass. SS.UU. 04.01.1995 n. 94, Corte dei Conti Sez. Puglia, 03.07.2001 n. 524 e 13.12.2004 n. 952) (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Campania, sentenza 19.03.2012 n. 348 - massima tratta da www.respamm.it - link a www.corteconti.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il pagamento avvenuto in forza di un lodo arbitrale oggetto di impugnazione determina un danno indiretto certo ed attuale.
Invero, con l’avvenuto pagamento, peraltro doveroso, l’Amministrazione ha subito un’effettiva diminuzione patrimoniale e il danno, prima solo potenziale, è divenuto certo, concreto e attuale. Di conseguenza, a partire dalla data di emissione del titolo di pagamento, decorre il dies a quo della prescrizione dell’azione di responsabilità riconosciuta alla Procura della Corte dei conti (si richiama, in termini, Sezioni riunite 05.09.2011 n. 14/QM).
L’affermazione di tale principio da parte delle Sezioni Riunite comporta che, a partire da tale data, il p.m. contabile è tenuto ad agire senza dover attendere la definizione del contenzioso giudiziale che, anzi, potrebbe aver termine allorquando oramai è maturata la prescrizione dell’azione.
Ne consegue ancora che l’emissione del mandato di pagamento provoca l’effettivo depauperamento e la conseguente certezza, concretezza e attualità del danno, il quale peraltro non verrebbe meno, successivamente, neanche con una favorevole decisione definitiva del Giudice civile, ma soltanto con l’effettiva restituzione delle somme già erogate dall’Amministrazione.

Al riguardo, questo Collegio rileva che, con l’avvenuto pagamento, peraltro doveroso, l’Amministrazione ha subito un’effettiva diminuzione patrimoniale e il danno, prima solo potenziale, è divenuto certo, concreto e attuale.
Nel caso all’esame ricorre un‘ipotesi di danno indiretto: pertanto, a partire dalla data di emissione del titolo di pagamento, decorre il dies a quo della prescrizione dell’azione di responsabilità riconosciuta alla Procura della Corte dei conti (cfr., in terminis, Sezioni riunite 05.09.2011 n. 14/QM). L’affermazione di tale principio da parte delle Sezioni Riunite comporta che, a partire da tale data, il p.m. contabile è tenuto ad agire senza dover attendere la definizione del contenzioso giudiziale che, anzi, potrebbe aver termine allorquando oramai è maturata la prescrizione dell’azione (come peraltro dichiarato in numerosi casi dalla giurisprudenza contabile: ex multis, questa Sezione, 18.02.2002, n. 38).
Ne consegue che l’emissione del mandato di pagamento provoca l’effettivo depauperamento e la conseguente certezza, concretezza e attualità del danno, il quale peraltro non verrebbe meno, successivamente, neanche con una favorevole decisione definitiva del Giudice civile, ma soltanto con l’effettiva restituzione delle somme già erogate dall’Amministrazione (
Corte dei Conti,
Sez. III giurisdiz. centrale d'appello, sentenza 27.02.2012 n. 150 - massima tratta da www.respamm.it - link a www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: L'esercizio non autorizzato di incarichi da parte del dipendente pubblico non rientra nella giurisdizione contabile.
Deve essere esclusa la sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti sul danno da mancato riversamento all'amministrazione di appartenenza di quanto percepito dal dipendente pubblico per l'esecuzione di incarichi non autorizzati. Invero, premesso che un tale obbligo è posto dall’art. 53, co. 7, d.lgs. 30.03.2001, n. 165, in primis nei confronti del soggetto erogante e, in via subordinata, a carico del dipendente della p.a., tale circostanza è significativa della natura esclusivamente privatistica dell’obbligazione di refusione, trattandosi del soddisfacimento di un interesse meramente lavoristico; con la conseguenza che la violazione del dovere di esclusività in questo caso dà luogo ad un credito del datore di lavoro nei confronti dei soggetti obbligati (ente erogante e lavoratore), che non può in alcun modo ricondursi all’esercizio di funzioni pubblicistiche.
Ancora in via pregiudiziale, deve essere esclusa la sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti sulla seconda posta di danno contestata dalla Procura attrice, riguardante la violazione dell’art. 53, co. 7, d.lgs. 30.03.2001, n. 165, in relazione all’illecito svolgimento, da parte della Sig.ra T., di due stabili rapporti lavorativi non autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Il relativo danno è stato quantificato in misura pari alle somme che la convenuta ha ricevuto dai soggetti terzi, a remunerazione del lavoro extraistituzionale (euro 57.000,00 +12.950,00 = euro 69.950,00).
L’art. 53, co. 7, d.lgs. n. 165/2001, stabilisce che <<I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell'autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti>>.
Dal testo letterale della norma (il compenso <<deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore>>) si evince che dalla violazione dell’obbligo di esclusività scaturisce un obbligo di corresponsione di somme di denaro che è posto, in primis, nei confronti del soggetto erogante e, in via subordinata, a carico del dipendente di una p.a..
Tale circostanza è significativa della natura esclusivamente privatistica dell’obbligazione di refusione, trattandosi del soddisfacimento di un interesse meramente lavoristico. Ciò vale a dire che la violazione del dovere di esclusività dà luogo ad un credito del datore di lavoro nei confronti dei soggetti obbligati (ente erogante e lavoratore), che non può in alcun modo ricondursi all’esercizio di funzioni pubblicistiche, come già ritenuto da questa Corte in analoghe fattispecie (Sez. Trentino-Alto Adige, Trento, 15.12.2010, n. 66; id., 03.12.2009, n. 55).
Ma, pur volendo considerare in modo autonomo l’obbligo di refusione a carico del lavoratore al servizio di una p.a. (anziché obbligazione subordinata, com’è in effetti), la giurisdizione contabile dovrebbe essere esclusa, trattandosi di un obbligo che scaturisce dall’esercizio di un’attività lavorativa extraistituzionale, mentre i presupposti per radicare la giurisdizione della Corte dei conti si fondano sul verificarsi di un danno erariale, cagionato da un soggetto vincolato da un rapporto di servizio, inteso anche in senso lato, con la p.a., e sulla circostanza che il danno sia stato determinato nell'esercizio delle funzioni alle quali il dipendente è stato preposto.
In un caso analogo di generica trasgressione di obblighi incombenti dal lavoratore (controversia avente ad oggetto l'accertamento dei canoni dovuti dal pubblico dipendente per il godimento dell'alloggio di servizio), le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno ravvisato un inadempimento contrattuale, integrante la violazione degli obblighi connessi al rapporto di pubblico impiego, ma non anche un’attività posta in essere dal dipendente pubblico <<nell'esercizio delle sue funzioni>>, affermando che <<la relativa controversia non può che essere demandata al solo giudice avente giurisdizione sul rapporto di impiego, e, per l'effetto, al giudice del lavoro>> (Cass., sez. un., 30.04.2008, n. 10870/ord.). In senso conforme, il giudice di legittimità ha ritenuto che <<il regime delle incompatibilità>> è materia <<sottratta alla disciplina propria dell'attività amministrativa, ed inclusa nell'ambito dei comportamenti di gestione del rapporto di lavoro>> (Cass., sez. lav., 26.03.2010, n. 7343). Correlativamente, il giudice amministrativo ha ritenuto la giurisdizione del giudice ordinario, come giudice del rapporto di lavoro, in una controversia volta all'annullamento del diniego opposto dalla p.a. di appartenenza alla richiesta di svolgere un incarico extraistituzionale formulata da un dipendente, ai sensi dell'art. 63 d.lgs. n. 165/2001 (Cons. St., sez. IV, 07.06.2004, n. 3618).
L’esatta collocazione dell’istituto in esame proviene dalla Corte Costituzionale (sentenza 11.06.2001, n. 189), secondo cui l’obbligo di esclusività è uno dei canoni fondamentali del rapporto di impiego pubblico, del quale costituisce indice rivelatore, come la predeterminazione dell’orario di lavoro e della retribuzione, l'inserimento del prestatore di lavoro nell'organizzazione amministrativa e la subordinazione gerarchica (v. TAR Toscana, 11.09.2008, n. 1910; Cons. St., Sez. V, 01.12.1999, n. 2022; id., 03.05.1995, n. 681).
Nella mera violazione dell’obbligo di esclusività non è, quindi, ravvisabile il nesso di occasionalità necessaria tra danno alla amministrazione ed esercizio delle funzioni nell’ambito del rapporto di servizio, che è il generale presupposto della responsabilità amministrativa e della giurisdizione di questa Corte, ai sensi degli artt. 82 e 83, R.D. 18.11.1923, n. 2440 e degli artt. 13 e 52, R.D. 12.07.1934 , n. 1214.
Ciò pur considerando l’ottica ulteriormente espansiva della giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità amministrativa, secondo cui la giurisdizione attribuita alla Corte dei conti <<presuppone che il soggetto, legato all'amministrazione da un rapporto di impiego (o di servizio), debba rispondere del danno da lui causato nell'esercizio di un'attività illecita connessa con detto rapporto, tale dovendosi considerare non solo quella costituente svolgimento diretto della funzione propria del rapporto d'impiego (o di servizio), ma anche quella rivestente carattere strumentale per l'esercizio della medesima funzione, sempre che detta attività rinvenga nel rapporto l'occasione necessaria del suo manifestarsi>> (Cass., sez. un., 02.12.2008, n. 28540; id., sez. un., 25.11.2008, n. 28048; id. sez. un., 22.02.2002, n. 2628).
Questa giurisprudenza di legittimità si trova citata in altra pronuncia della Corte di cassazione (02.11.2011, n. 22688/ord.), menzionata dal P.M. in udienza che, pur facendo riferimento al predetto univoco indirizzo che estende la competenza del giudice contabile alla cognizione dell’attività strumentale all'esercizio della funzione pubblica <<sempre che detta attività rinvenga nel rapporto l'occasione necessaria del suo manifestarsi>>, ha risolto in senso opposto il regolamento preventivo di giurisdizione, senza spiegare le ragioni per le quali, nelle conclusioni, ha inteso discostarsi dall’indirizzo precedentemente richiamato. In relazione a ciò, il Collegio non condivide l’avviso dell’Organo requirente circa la presenza di un evidente revirement del giudice di legittimità sulla questione di cui è causa.
In buona sostanza, il discrimine tra giurisdizione della Corte dei conti, in materia di danno erariale, e quella del giudice del rapporto di lavoro, resta confermato nel verificarsi di un inadempimento riconducibile, rispettivamente, all’esercizio di una funzione pubblica (sia pure nel senso dell’occasionalità necessaria), oppure alle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro tra un dipendente e l’amministrazione di appartenenza.
In particolare, la giurisdizione del giudice del lavoro si radica nei casi di alterazione del sinallagma contrattuale (assenze ingiustificate, per riscossione di retribuzioni non dovute), allorché il dipendente pubblico venga in rilievo come semplice debitore, alla stregua di un qualsiasi lavoratore privato inadempiente e, in quanto tale, soggetto alle normali sanzioni ed azioni civilistiche dell’ente di appartenenza. Attualmente, la materia è posta sotto la stretta sorveglianza del datore di lavoro pubblico: il Dipartimento della funzione pubblica presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (Ispettorato per la funzione pubblica) può disporre verifiche, operando d'intesa con i Servizi ispettivi di finanza pubblica del Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato (art. 53, co. 16-bis, d.lgs. n. 165/2001, comma aggiunto dall’art. 47, d.l. 25.06.2008, n. 112, e poi così sostituito dall’art. 52, co. 1, lett. b), d.lgs. 27.10.2009, n. 150).
Si aggiunge che, in precedenza, l’art. 6, d.l. 28.03.1997, n. 79, convertito dalla l. 28.05.1997, n. 140, prevedeva sanzioni pecuniarie a carico <<dei soggetti pubblici e privati che non abbiano ottemperato>> agli obblighi previsti dalla disciplina del lavoro a tempo parziale e <<che si avvalgano di prestazioni di lavoro autonomo o subordinato rese dai dipendenti pubblici in violazione dell'articolo 1, commi 56, 58, 60 e 61, della legge 23.12.1996, n. 662, ovvero senza autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza>>. Ciò a ulteriore riprova dell’estraneità della materia alla responsabilità amministrativo-contabile del dipendente pubblico, fatto salvo un eventuale danno erariale <<da mancata entrata>> per la cui configurabilità, ad avviso della Sez. Puglia, 30.10.2008, n. 821, <<non sarebbe, comunque, sufficiente che il dipendente percettore abbia omesso di riversare in favore dell’Amministrazione di appartenenza il compenso percepito, ma occorrerebbe, altresì, che il diritto di quest’ultima ad esigerne il riversamento si sia estinto in modo non satisfattivo ovvero ne sia divenuto impossibile l’esercizio, per insolvibilità del debitore o altrimenti>>.
Il Pubblico Ministero, dopo aver affermato, nell’atto di citazione, che la violazione dell’obbligo di esclusività è da ritenersi illecita e, quindi, foriera di danno erariale, ha specificato, in udienza, che vi è danno per la semplice ragione che tutte le energie lavorative devono essere spese per il datore di lavoro in favore del quale l’obbligo è posto. Al riguardo, l’Organo requirente ha citato la sentenza della Sezione Emilia-Romagna (25.10.2007, n. 818), che muovendo dalle stesse premesse, è pervenuta ad una decisione di condanna, nei confronti del Direttore generale dell’INAIL, per aver consentito lo svolgimento, da parte dei medici dipendenti dell’Istituto, di attività libero-professionale extra-muraria in costanza di rapporto a tempo pieno, senza che gli stessi avessero optato per il rapporto a tempo definito, economicamente meno favorevole.
Il Collegio ritiene che la richiamata pronuncia sia coerente con le precedenti osservazioni, in relazione alla evidente diversità del caso di specie rispetto a quello deciso dal giudice bolognese che, correttamente, ha qualificato come danno erariale l’avvenuta corresponsione, da parte dell’Istituto, di un maggior trattamento economico (corrispondente a una prestazione a tempo pieno anziché part-time), a nulla rilevando i compensi percepiti dai dipendenti pubblici nell’ambito dell’attività extra-muraria, che sarebbero, invece, assimilabili a quelli oggetto di contestazione in questa sede.
Per tutte le suesposte considerazioni, il Collegio esclude la provvista di giurisdizione della Corte dei conti sull’obbligo di refusione, da parte della convenuta, delle somme ricevute dai soggetti terzi per il lavoro extraistituzionale, quantificate in euro 69.950,00 (Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale Lombardia, sentenza 27.01.2012 n. 31 - massima tratta da www.respamm.it - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Risponde per danno all’immagine il lavoratore dipendente che fa il doppio lavoro esibendo falsi certificati di malattia.
La circostanza che il convenuto contumace non abbia eccepito la nullità degli atti ex art. 17, comma 17-ter (norma che circoscrive la perseguibilità del danno all’immagine ai soli reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione) –eccezione non rilevabile d’ufficio secondo quanto disposto dalle SS.RR. con sentenza n. 13/2011/QM– preclude al Giudice contabile l’esame della relative eccezione di nullità e comporta la responsabilità amministrativa per danno all’immagine del convenuto, condannato in sede penale per il reato di truffa aggravata per essersi assentato dal servizio inducendo in errore l’Amministrazione di appartenenza attraverso l’esibizione di falsi certificati di malattia [Si badi che, ai sensi dell’art. 55-quinquies del d.lgs. n. 165/2001, introdotto con d.lgs. n. 150/2009, è espressamente tenuto a risarcire il danno all’immagine “il lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustifica l'assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o falsamente attestante uno stato di malattia”].
Dalla condotta illecita, di natura evidentemente dolosa, serbata dal convenuto, è incontestabilmente derivato un pregiudizio per l’immagine dell’Amministrazione d’appartenenza.
La risarcibilità di tale tipologia di danno costituisce, oramai, principio del tutto consolidato nella giurisprudenza sia della Corte dei Conti (si veda, per tutte, C. Conti, Sez. II, n. 114/1994; C. Conti, Sez. Lombardia, n. 31/1994; C. Conti, Sez. Sardegna, n. 372/1997; C. Conti, Sez. I, n. 10/1998; C. Conti, Sez. II, n. 207/1998; C. Conti SS.RR. n. 16/99/QM; C. Conti, Sez. Lombardia, n. 1551/1999; C. Conti, Sez. I, n. 96/2002; C. Conti, Sez. Lazio, n. 439/2003; C. Conti, SS.RR., n. 10/2003/QM; C. Conti, Sez. Lombardia, n. 433/2004; C. Conti, Sez. I, n. 49/A/2004; C. Conti, Sez. I, n. 173/A; C. Conti, Sez. II, n. 231/2007; C. Conti, Sez. I, n. 202/2008; C. Conti, Sez. Campania, n. 686/2009; Corte Conti, Sez. I, n. 97/2009) sia della Corte di Cassazione (Cass., Sez. un., n. 5568/1997; Cass., Sez. un., n. 744/1999; Cass., Sez. un., n. 98/1998; Cass. Sez. un., n. 20886 del 06.04.2006).
Il predetto danno consiste, più in particolare, nel grave nocumento arrecato al prestigio, all’immagine ed alla personalità pubblica della P.A., in conseguenza della condotta illecita serbata dai propri dipendenti.
Ogni azione dannosa compiuta dal pubblico agente in violazione dell’art. 97 Cost. (in dispregio delle funzioni e responsabilità degli agenti pubblici), infatti, “si traduce in un’alterazione dell’identità della pubblica amministrazione e, più ancora, nell’apparire di una sua immagine negativa, in quanto struttura organizzata confusamente, gestita in maniera inefficiente, non responsabile e non responsabilizzata” (così, testualmente, Corte Conti, Sez. riunite, 23.04.2003, n. 10/QM).
In altri termini, il danno all’immagine si atteggia quale “danno pubblico” in quanto lesione del buon andamento della P.A., la quale perde, con la condotta illecita dei suoi dipendenti, credibilità ed affidabilità all’interno ed all’esterno della propria organizzazione, ingenerando la convinzione che i comportamenti patologici posti in essere dai propri lavoratori siano un connotato usuale dell’azione dell’Amministrazione (tra le tante, Corte Conti, Sez. II, 31.03.2008, n. 106; Corte Conti, Sez. Lombardia, nn. 95/2011, 284/2008 e 540/2008).
Quest’ultima evenienza si attaglia bene al caso di specie, nell’ambito del quale il convenuto si è indebitamente assentato dal proprio lavoro, per svolgere, nelle stesse ore in cui avrebbe dovuto prestare la propria attività di dipendente comunale, (altra) attività lavorativa presso l’esercizio commerciale, di proprietà di un familiare, "Bar del Commercio”, con annessa ricevitoria del lotto.
La condotta serbata dal convenuto ha denotato, invero, un palese disprezzo dei doveri di lealtà e fedeltà, che informano lo status di pubblico dipendente, (doveri) la cui violazione è stata pubblicamente ostentata con lo svolgimento, durante l’orario di lavoro, di altra attività privata in un luogo per definizione frequentato da una moltitudine di soggetti.
Può, dunque, agevolmente cogliersi il profondo vulnus che l’Amministrazione d’appartenenza ha dovuto subire al proprio decoro ed alla propria credibilità, sia esterna che interna (di fronte, cioè, alla comunità amministrata ed agli altri dipendenti), quale conseguenza della predetta condotta.
Con riferimento al profilo della quantificazione del danno riconosciuto sussistente al punto 4, si evidenzia che la medesima quantificazione, in considerazione della natura essenzialmente “immateriale” del bene leso, non può avvenire che sulla base del criterio equitativo di cui all’art. 1226 c.c..
Nondimeno, al fine precipuo di evitare soluzioni arbitrarie, la giurisprudenza pressoché univoca di questa Corte (tra le tante, Corte Conti, Sez. I, n. 222/A/2004; Corte Conti, Sez. giur. Lazio, n. 439/2003; Corte Conti, Sez. giur. Lombardia, n. 284/2008), richiede che la predetta quantificazione si basi su di un’analisi in concreto delle singole fattispecie di comportamento illecito e si fondi su una serie di indicatori ragionevoli:
a) di natura oggettiva, inerenti alla natura del fatto, alle modalità di perpetrazione dell’evento pregiudizievole, alla eventuale reiterazione dello stesso, all’entità dell’eventuale arricchimento;
b) di natura soggettiva, legati al ruolo rivestito dal pubblico dipendente nell’ambito della Pubblica Amministrazione;
c) di natura sociale, legati alla negativa impressione suscitata nell’opinione pubblica locale ed anche all’interno della stessa Amministrazione, all’eventuale clamor fori e alla diffusione ed amplificazione del fatto operata dai mass-media.
Nel caso di specie, il Collegio ritiene equo porre a carico del convenuto, a titolo di condanna per lesione dell’immagine dell’Amministrazione di appartenenza, l’importo di euro 7.746,85, già comprensivo di rivalutazione, in quanto importo ampiamente giustificato dall’oggettiva ed intrinseca gravità dei fatti contestati, di indubbio rilievo penale e disciplinare, dalla pervicace e sfrontata reiterazione della condotta illecita, palesemente ostentata, dalla rilevanza e risonanza della vicenda de qua, suscettibile di immediata propagazione nel territorio comunale interessato e per di più amplificata dagli organi di stampa (vedasi articolo versato in atti, riportante i fatti in termini particolarmente enfatici), senza tralasciare il clamore comunque connesso alla instaurazione e celebrazione del processo penale (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Campania, sentenza 14.11.2011 n. 1942 - massima tratta da www.respamm.it - link a www.corteconti.it).

NEWS

APPALTIAppalti, responsabilità snella. Possibile esclusione di alcune tipologie di contratto. Attilio Befera, direttore delle Entrate, al convegno della Cna: in arrivo una circolare.
Semplificazioni in arrivo per la responsabilità solidale negli appalti, che pesa sulle imprese anche in termini monetari. E adempimenti infrannuali, come la comunicazione di intenti, raggruppati nella dichiarazione annuale.
Il direttore dell'Agenzia delle entrate, Attilio Befera, intervenendo al convegno, «Fisco, competitività, sviluppo», della Cna, a Firenze, ieri, ha anticipato l'arrivo di una circolare che tende a rendere più chiara e a smussare l'ambito applicativo della disciplina introdotta dall'art. 13-ter, del dl n. 83/2011 (cosiddetto «Decreto crescita») per i contratti di appalto stipulati a partire dal 12.08.2012.
Claudio Carpentieri, responsabile fiscale dell'associazione, durante il suo intervento, ha chiesto che l'intervento di prassi amministrativa «chiarisca che la norma sulla responsabilità solidale non si applichi ai contratti di trasporto, di opera e su fornitura, settori», ha sottolineato Carpentieri, «che esulano dalla lettera della norma».
Befera sul punto ha quindi ricordato che con il prossimo intervento di prassi si cercherà di intervenire sul tema, con ogni probabilità, secondo quanto risulta a ItaliaOggi nella direzione dell'alleggerimento del peso degli oneri. La nuova disposizione, infatti, prevede la responsabilità dell'appaltatore e del committente per il versamento all'erario delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e del versamento dell'Iva dovuta dal subappaltatore e dall'appaltatore con riferimento alle prestazioni effettuate nell'ambito del contratto.
Si ricorda che l'esclusione dalla responsabilità «solidale» è prevista solo se l'appaltatore e/o committente ottiene la documentazione ad hoc, attestante che i versamenti fiscali, scaduti alla data del pagamento del corrispettivo, sono stati correttamente eseguiti dal subappaltatore e/o appaltatore; documentazione che può consistere anche nell'asseverazione rilasciata da Caf o da professionisti abilitati. Durante il convegno, il direttore delle Entrate ha riconosciuto la complessità della disciplina recentemente introdotta e ha anticipato, in aggiunta al documento di prassi già emanato (circolare n. 40/E/2011), un'ulteriore circolare che ha l'obiettivo di semplificare e rendere più chiara l'applicazione pratica del nuovo adempimento che, come indicato dal responsabile fiscale di Cna ha ulteriormente compromesso le riscossioni, già difficili, delle imprese.
Tutto questo si inserisce in un più ampio contesto di semplificazione che vedrà, presumibilmente e già a partire dalla prossima settimana, un tavolo di concertazione con i professionisti e le associazioni di categoria, al fine di rendere più snelli gli adempimenti che per i responsabili fiscali dell'associazione organizzatrice arrivano fino a 120 all'anno, con ulteriori oneri, in termini monetari, posti a carico delle stesse imprese. Cosa peraltro ricordata da Carpientieri nel suo intervento: «Uno stato credibile è anche semplice. Rivede in modo sistematico e periodico tutti gli obblighi di comunicazione previsti per le imprese, lasciando solamente quelli che sono realmente necessari alla lotta all'evasione». Delle proposte presentate, lo scorso ottobre, da Rete imprese Italia, la direzione intrapresa, dall'amministrazione, secondo quanto risulta a ItaliaOggi, è quella di uno snellimento degli adempimenti infrannuali, convogliandoli nella dichiarazione annuale.
L'esempio è quello della comunicazione di intenti che appunto potrebbe essere inserita nella tempistica della dichiarazione annuale. D'altra parte è lo stesso Attilio Befera che, in apertura del proprio intervento, auspica prossimi cambiamenti del testo unico delle imposte dirette (Tuir), il via libera della riforma fiscale, con una riduzione e semplificazione degli adempimenti per un fisco più «illuminato» e una cooperazione «biunivoca» e una maggiore assistenza e tutoraggio da parte degli uffici periferici (articolo ItaliaOggi del 26.01.2013.

EDILIZIA PRIVATAIgiene precaria? Residenza possibile.
La mancanza dei requisiti igienico sanitari di un'abitazione non preclude la possibile fissazione della residenza anagrafica da parte dell'interessato. Le uniche pregiudiziali in tal senso sono infatti previste solo per i cittadini stranieri che richiedono il ricongiungimento familiare.

Lo ha evidenziato il ministero dell'interno con la circolare 14.01.2013 n. 1/2013.
Il dicastero ha richiesto un parere al Consiglio di stato che si è espresso con la nota n. 4849/2012. In particolare al collegio sono stati evidenziati i dubbi di alcuni sindaci sulla possibilità di richiedere ai cittadini interessati all'iscrizione anagrafica (ed in particolare agli stranieri) documentazione integrativa attestante la sussistenza dei requisiti igienico sanitari dell'immobile. A parere del Consiglio di stato la vicenda igienico sanitaria è estranea alle funzioni dell'ufficiale d'anagrafe.
In buona sostanza gli organi di vigilanza hanno facoltà di effettuare anche controlli igienico-sanitari ma l'esito di queste verifiche non può ordinariamente interferire con l'iscrizione anagrafica dei richiedenti. A maggior ragione non si può certo limitare questo tipo di accertamento condizionato agli stranieri. Per quanto riguarda la disciplina di questa categoria di soggetti occorre fare riferimento al comma 19 dello stesso articolo 1 della legge 94/2009 il quale dispone che «lo straniero che richiede il ricongiungimento deve dimostrare la disponibilità di un alloggio conforme ai requisiti igienico-sanitari, nonché di idoneità abitativa, accertati dai competenti uffici comunali».
In pratica per ottenere il nulla osta dalla questura lo straniero che intende ricongiungersi con un proprio parente o con il coniuge deve dimostrare la disponibilità di un alloggio idoneo sia dal punto di vista dimensionale che strutturale (articolo ItaliaOggi del 26.01.2013).

PUBBLICO IMPIEGOP.a., il personale a dieta. Verso un taglio di oltre 7 mila dipendenti. Tre dpcm revisionano le dotazioni organiche dopo la spending review.
Scatta l'operazione del taglio delle dotazioni organiche nelle pubbliche amministrazioni centrali, che potrebbe portare alla dichiarazione di eccedenza, con conseguente risoluzione anticipata del rapporto di lavoro, per oltre 7.000 dipendenti.
Con tre decreti del presidente del consiglio, inizia il processo di attuazione dell'articolo del dl 95/2012, convertito in legge 135/2012 (la cosiddetta «
spending review»), dal quale deriva l'obbligo di revisionare gli assetti organizzativi delle amministrazioni pubbliche centrali, con una sforbiciata alle dotazioni organiche.
Le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le agenzie, gli enti pubblici non economici, gli enti di ricerca, nonché gli enti pubblici previsti dall'articolo 70, comma 4, del dlgs 165/2001 debbono ridurre gli uffici dirigenziali, di livello generale e di livello non generale e le relative dotazioni organiche, in misura non inferiore, per entrambe le tipologie di uffici e per ciascuna dotazione, al 20% di quelli esistenti; per quanto concerne, invece, il personale non dirigenziale, le dotazioni organiche vanno tagliate in misura non inferiore al 10% della spesa complessiva relativa al numero dei posti di organico.
Il Dpcm del 22.01.2013 riguarda 50 amministrazioni pubbliche (di cui 9 Ministeri, 21 enti di ricerca, 20 enti pubblici non economici); un decreto del 23.01.2013 ha applicato i tagli a Inps ed Enac; il terzo Dpcm, sempre del 23.01.2013 ha preso di mira 24 enti Parco nazionali.
I provvedimenti adottati dal Presidente del consiglio non sono ancora esecutivi, perché in attesa della registrazione da parte della Corte dei conti.
Per le amministrazioni interessate, tuttavia, si apre il percorso per la gestione delle possibili eccedenze. In particolare, occorrerà attivarsi per individuare con priorità i dipendenti che abbiano i requisiti per andare in pensione o che, secondo un percorso graduale, ottengano il pensionamento entro un quadriennio, nel rispetto delle indicazioni fornite da Palazzo Vidoni con la direttiva 10/2012. Le stime della Funzione pubblica (riportate nella tabella a fianco) sono di 7.416 dipendenti destinati alla cessazione anticipata del rapporto di lavoro, come effetto immediato della riduzione dei posti disponibili nelle dotazioni organiche.
Gran parte di questi dipendenti, a seguito dei Dpcm varati nei giorni scorsi, fa parte dell'Inps. La nuova dotazione organica dell'Istituto vedrà 23.420 dipendenti in totale, dei quali 345 sono dirigenti di prima e seconda fascia.
Il taglio è piuttosto consistente, se rapportato alla dotazione organica rilevata per il 2011 dalla Corte dei conti, sezione del controllo sugli enti, con determinazione 91/2012. La magistratura contabile aveva rilevato una dotazione di 29.262 dipendenti ma, soprattutto una «consistenza», cioè il personale effettivamente in servizio, di 26.707 dipendenti. Il taglio sarebbe, dunque, di 3.287 dipendenti, una cifra che si avvicina alle stime circolate nei mesi scorsi, anche se occorrerebbe verificare la consistenza ufficialmente registrata nel 2012.
Gli effetti della revisione delle dotazioni organiche, comunque, non si limiteranno solo ad una limatura dei posti «teorici», ma incideranno effettivamente sul personale in servizio. Per esempio, la nuova dotazione organica del Ministero del lavoro e delle politiche sociali prevede complessivamente 7.331 dipendenti (di cui 159 dirigenti) a fronte di un numero di dipendenti registrato dalla Ragioneria generale dello Stato nel Conto annuale del personale di 7.646 dipendenti. In questo caso, il taglio sarebbe di 315 lavoratori.
Replicando questi numeri per le decine di amministrazioni coinvolte nell'operazione, le stime della Funzione pubblica appaiono effettivamente vicine alla realtà. Non mancano, comunque, le sorprese guardando le dotazioni delle molte amministrazioni interessate dai Dpcm. Se, per un verso, la riduzione degli oltre 7 mila dipendenti appare effettiva, l'obiettivo più volte enunciato di avere un dirigente ogni 30 dipendenti appare molto meno facile da conseguire.
Presso l'Ente nazionale per il microcredito in dotazione vi è un dirigente a fronte di 16 dipendenti; peggiore è l'incidenza dirigenti/dipendenti nell'Unioncamere, ove sono previsti 6 dirigenti e 61 dipendenti (un rapporto di uno a dieci). Ma, ancora peggiori sono i dati della dotazione dell'Agenzia nazionale per i servizi sanitari, con 7 dirigenti per 39 dipendenti (1 su 5,5 quasi) e quelli dell'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca: 3 dirigenti e 15 dipendenti (articolo ItaliaOggi del 26.01.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMeno corruzione con i controlli. Il decreto salva-enti si interseca con la legge 190. Il combinato disposto dei due provvedimenti potrà creare una nuova classe dirigente.
Tra i provvedimenti approvati dal parlamento prima dello scioglimento assume rilievo la conversione in legge del decreto 174 che mira a ridurre i costi della politica e soprattutto a introdurre controlli più penetranti sull'attività delle regioni e degli enti locali. Quella dei controlli è una storia antica che ogni tanto si ripete. Già dal 1999, e ancora di più dopo la soppressione dei controlli esterni sugli atti dei comuni e delle province per effetto della legge costituzionale 3/2001, si è tentato di introdurre un nuovo sistema di controlli interni articolato nelle seguenti forme: controllo di regolarità amministrativa e contabile, controllo di gestione, valutazione della dirigenza, controllo strategico.
In base all'articolo 147 del Tuel, la prima forma di controllo mirava sostanzialmente a ricondurre all'interno dell'ente l'esame rivolto a garantire la legittimità degli atti amministrativi in precedenza affidato ai Coreco. Le altre forme, fortemente innovative, si collocavano invece nel versante tracciato dai provvedimenti di riforma della p.a. consistente nel controllo sui risultati conseguiti dall'amministrazione in termini efficienza, efficacia ed economicità. In sintesi, il controllo di gestione era rivolto a ottimizzare il rapporto costi-risultati; la valutazione dei dirigenti a verificare le prestazioni effettuate e le competenze dimostrate; il controllo strategico a rilevare i risultati finali conseguiti rispetto agli obiettivi prestabiliti. Dopo oltre dieci anni di esperienze, il sistema dei controlli interni non ha funzionato.
Le cause sono diverse: mancata attuazione dei principi di riforma della p.a., assenza di validi strumenti di programmazione dell'azione di governo e della gestione cui riferire l'attività di controllo, difficoltà di individuare soggetti dotati di nuove professionalità, di introdurre soluzioni organizzative adeguate, di ricercare e utilizzare metodi e strumenti idonei a realizzare le nuove forme di controllo, scarsa efficacia delle commissioni consiliari di controllo sull'attività delle giunte. In una parola, assenza diffusa di una cultura del risultato. Il decreto- legge 174 trova uno scenario nel quale i soli controlli che valgono sono quelli del giudice penale e delle giurisdizioni contabili. E così sceglie la via forse obbligata di potenziare i controlli esterni della Corte dei conti al fine di garantire la regolarità delle gestioni, gli equilibri del bilancio e il funzionamento dei controlli interni.
Questi ultimi vengono rafforzati. In aggiunta al controllo di regolarità amministrativa e contabile, del controllo di gestione e del controllo strategico, viene introdotto il controllo costante degli equilibri finanziari della gestione e, negli enti di maggiori dimensioni, il controllo sulla qualità dei servizi erogati e il controllo sull'attività degli organismi gestionali esterni. La definizione degli strumenti e delle modalità per rendere operativo il nuovo sistema è attribuita al regolamento di ciascun ente da adottare entro il 10.01.2013, pena lo scioglimento del consiglio.
Di qui il panico, che l'Anci ha saggiamente mitigato invitando gli enti a predisporre una prima deliberazione consiliare di massima. Appare abbastanza evidente che la disciplina dei controlli, specie quella attinente alla regolarità amministrativa e contabile, interseca le disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella p.a. dettate dalla legge 190/2012. È prevista l'individuazione del responsabile della prevenzione della corruzione (di norma il segretario) che predispone e verifica l'attuazione del Piano triennale di prevenzione della corruzione.
Sono previsti meccanismi di controllo delle decisioni idonei a prevenire il rischio di corruzione, verifiche sugli obblighi della trasparenza, l'introduzione di un Codice etico, azioni di monitoraggio del rispetto dei termini per la conclusione dei procedimenti e dei rapporti tra l'amministrazione e i soggetti che stipulano con essa contratti. Ma la legge prevede anche percorsi di formazione sui temi dell'etica e della legalità (articolo ItaliaOggi del 25.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTIPer il Durc non conta la posizione dei soci.
La posizione dei soci non rileva (e non deve essere oggetto di verifica) al fine del rilascio del Durc a una società di capitali (srl, spa ecc.).
Lo precisa il Ministero del Lavoro nell'interpello 24.01.2013 n. 2/2013, in risposta alla richiesta di chiarimento dei consulenti del lavoro circa, appunto, la rilevanza o meno delle posizioni personali dei singoli soci, ai fini dell'attestazione della regolarità contributiva (Durc) di una società di capitali.
Per il ministero le due posizioni sono indipendenti: quella della società di capitali che, in quanto dotata di personalità giuridica, è caratterizzata da autonomia patrimoniale «perfetta»; e quella dei singoli soci. Ne deriva, aggiunge il ministero, che sul patrimonio sociale non possono trovare soddisfazione i creditori personali del socio e, al contempo, i creditori sociali non possono escutere il patrimonio personale dei soci.
La posizione dei soci, pertanto, non deve essere oggetto di verifica al fine del rilascio del Durc della società di capitali. Tale verifica, invece, è necessaria nel caso delle società di persone (circolare del ministero del lavoro n. 5/2008 su ItaliaOggi del 31.01.2008) (articolo ItaliaOggi del 25.01.2013).

APPALTINotariato. L'atto pubblico è digitale.
Il Notariato mette in pratica l'agenda digitale del governo Monti (dl n. 179/2012) che prevede che a partire dal 01.01.2013 la stipula dei contratti pubblici di appalto di lavori, servizi e forniture, possa essere redatta solo con atto pubblico notarile informatico. Martedì scorso è stato infatti stipulato il primo atto pubblico informatico.

È accaduto in Puglia, in provincia di Brindisi, tra un comune e una società che si era aggiudicata l'appalto per la gestione del servizio integrato di igiene urbana. Per la conservazione degli atti notarili informatici, i notai si avvalgono di una struttura tecnologica idonea a custodire la validità giuridica nel tempo del documento informatico (articolo ItaliaOggi del 25.01.2013).

APPALTIPubblicità legale obbligatoria. Bandi e avvisi di gara da pubblicare sui quotidiani. Il decreto crescita prevede che le spese della p.a. siano rimborsate dall'aggiudicatario.
Anche dopo il 01.01.2013 le stazioni appaltanti hanno l'obbligo di pubblicare per estratto sui quotidiani i bandi e gli avvisi di gara per affidamento di lavori, forniture e servizi e le avvenute aggiudicazioni; la legge 69/2009 non ha toccato la disciplina del Codice, a sua volta confermata dalla legge «anticorruzione»; possibile pubblicare sui quotidiani anche gli avvisi per appalti di lavori al di sotto dei 500 mila euro e per appalti di forniture e servizi al dei sotto dei 200 mila euro.
È quanto si desume dalla lettura coordinata dalle disposizioni che si sono succedute in questi ultimi anni e che, anche alla luce della natura «rinforzata» del Codice dei contratti pubblici e della novella della legge «Crescita 2», rendono superata la disciplina del 2009 che avrebbe voluto mandare in soffitta la pubblicità legale sui giornali (si veda ItaliaOggi del 30.11.2012).
Dal punto di vista dell'ambito oggettivo di applicazione, l'obbligo di procedere alla pubblicazione per estratto su almeno due quotidiani risulta applicabile agli appalti di lavori, servizi e forniture per le gare sopra soglia (secondo periodo del comma 7 dell'art. 66 e quindi oltre i 5 milioni per i lavori e oltre i 200 mila euro per servizi e forniture) e alle procedure di affidamento di appalti di lavori sotto soglia (secondo periodo del comma 5 dell'art. 122 che prevede la soglia superiore a 500 mila euro ma con pubblicazione su un quotidiano a diffusione nazionale).
Va anche rilevato che, nonostante l'articolo 124, comma 5, non preveda la pubblicazione sui quotidiani degli avvisi per appalti sotto soglia di forniture e servizi, ai sensi dell'art. 66, comma 15, del Codice le stazioni appaltanti potrebbero (facoltà) anche prevedere forme aggiuntive di pubblicità. In ipotesi, quindi, anche un contratto di fornitura al di sotto dei 200 mila euro potrebbe, in base a una scelta motivata della stazione appaltante, essere pubblicato su un quotidiano a diffusione nazionale.
Dal punto di vista interpretativo è stato posto in dubbio che l'articolo 66 del Codice dei contatti potesse essere stato superato, nel 2009, dalla legge n. 69 che (articolo 32, comma 5) prevedeva che «dal 01.01.2013, le pubblicazioni effettuate in forma cartacea non hanno effetto di pubblicità legale, ferma restando la possibilità per le amministrazioni e gli enti pubblici, in via integrativa, di effettuare la pubblicità sui quotidiani a scopo di maggiore diffusione, nei limiti degli ordinari stanziamenti di bilancio».
In realtà, però, questa disposizione è risultata a sua volta implicitamente abrogata dalla successiva legge «anticorruzione» (190/12) che ha introdotto una disposizione «
di salvezza» delle norme in materia di pubblicità contenute nel Codice dei contratti pubblici, stabilendo che «restano ferme le disposizioni in materia di pubblicità previste dal codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163».
Pertanto, se restano «ferme» le vigenti norme del Codice, in base a una disposizione che entra in vigore prima del 01.01.2013, automaticamente la disposizione del 2009 deve considerarsi superata e quindi inapplicabile per implicita abrogazione. D'altro canto sarebbe stato difficile anche sostenere che il comma 5 dell'articolo 32 della legge 69/2009 potesse avere abrogato o superato quanto stabilito dall'articolo 66 del Codice dei contratti pubblici in materia di pubblicità legale sui quotidiani.
L'articolo 255 del codice dei contratti pubblici, infatti, stabilisce che «ogni intervento normativo incidente sul codice, o sulle materie dallo stesso disciplinate, va attuato mediante esplicita modifica, integrazione, deroga o sospensione delle specifiche disposizioni in esso contenute». Ma la legge. 69/2009 non ha certo disposto in tal senso, non rinvenendosi in alcuna parte di essa l'abrogazione espressa delle disposizioni di cui al secondo periodo del comma 7 dell'articolo 66 e al secondo periodo del comma 5 dell'articolo 122 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, proprio richiamate dalla norma della legge «anticorruzione».
Ciò detto a conferma dell'operatività dell'obbligo, anche a decorrere dal 01.01.2013, della pubblicità per estratto sui quotidiani (certamente non quelle di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale), sta anche l'articolo 34, comma 35 del dl n. 179/2012 (c.d. Crescita 2.0). In esso si prevede infatti l'obbligo per l'aggiudicatario di rimborsare alla stazione appaltante le spese di pubblicazione sui giornali dei bandi e degli avvisi di gara.
In particolare, si prevede che «a partire dai bandi e dagli avvisi pubblicati successivamente al 01.01.2013, le spese per la pubblicazione di cui al secondo periodo del comma 7 dell'articolo 66 e al secondo periodo del comma 5 dell'articolo 122 del dlgs 12.04.2006, n. 163, sono rimborsate alla stazione appaltante dall'aggiudicatario entro il termine di 60 giorni dall'aggiudicazione» (articolo ItaliaOggi del 25.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTI: Tasse locali, aliquote modificabili fino al 30/9. Ma si rischia il caos.
I comuni e le province che devono ripristinare gli equilibri finanziari possono modificare le aliquote e le tariffe di tributi locali fino al 30 settembre di ogni anno. Sono così a rischio la certezza delle aliquote, in particolare quelle dell'Imu.

Questa preoccupante novità è contenuta il comma 444 dell'art. 1 della legge 24.12.2012, n. 228 che, nell'intervenire sull'art. 193, comma 3, del Tuel, accorda ai comuni e alle province che sono tenuti a ripristinare gli equilibri finanziari, la possibilità di modificare le tariffe e le aliquote relative ai tributi di propria competenza entro la data indicata al comma 2, dello stesso art. 193, vale a dire il 30 settembre di ciascun anno.
Tutto ciò «in deroga all'articolo 1, comma 169, della legge 27.12.2006, n. 296», che costituisce una delle norme basilari del sistema dei tributi locali e che è destinato a vacillare di fronte a una disposizione così stramba. Infatti fino a oggi in base a detta norma vi erano alcune fondamentali certezze, e cioè che:
- il termine di deliberazione delle tariffe e delle aliquote dei tributi di competenza degli enti locali è stabilito nella data fissata da norme statali per la deliberazione del bilancio di previsione;
- le suddette deliberazioni, anche se approvate successivamente all'inizio dell'esercizio, purché entro il termine stabilito per la deliberazione del bilancio di previsione, hanno effetto dal 1º gennaio dell'anno di riferimento;
- le deliberazioni relative alle aliquote e alle tariffe per i tributi locali sono automaticamente confermate nel caso in cui l'ente non deliberi, modificandole, entro i termini di approvazione del bilancio di previsione.
L'unico elemento di incertezza era ogni anno l'individuazione dell'esatto termine stabilito per la deliberazione del bilancio di previsione, che veniva spesso fatto slittare ora con legge ora con un decreto ministeriale, a seconda delle necessità manifestate dagli enti locali.
Ebbene, se da un lato l'art. 1, della legge n. 228 del 2012, offre al comma 381, un elemento di certezza fissando al 30.06.2013 il termine per l'approvazione del bilancio di previsione per l'anno 2013, dall'altra il comma 444 consente ai comuni e alle province di modificare le aliquote ben oltre detta data.
Il termine del 30 settembre si ricava dal rinvio effettuato dalla norma in esame al comma 2, dello stesso art. 193 che delinea la procedura in base alla quale l'organo consiliare dell'ente locale provvede al controllo degli equilibri generali di bilancio apportando, in caso di squilibrio, i necessari provvedimenti. La norma non consente, però, in alcun modo ai comuni ed alle province di modificare le aliquote o le tariffe dei tributi locali.
Ciò sarà, invece, possibile, a partire dal 2013, proprio grazie alle modifiche apportate al comma 3 del citato art. 193 del Tuel dal comma 444 della legge di stabilità, che con la sua dirompente portata finisce in concreto per minare il sistema tributario locale, determinando l'estrema incertezza dei contribuenti in ordine alla misura del tributo, che potrà variare fino al 30 settembre di ogni anno.
Non va sottovalutato, inoltre, l'effetto deleterio che tale norma provoca soprattutto in materia di Imu. Infatti per tale tributo a decorrere dall'anno di imposta 2013, l'art. 13, comma 13-bis, del dl 06.12.2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214, ha introdotto una forma di pubblicità costitutiva della misura del tributo.
Detta norma prevede infatti, che le deliberazioni di approvazione delle aliquote e della detrazione dell'Imu devono essere inviate esclusivamente per via telematica per la pubblicazione nello stesso sito informatico di cui all'art. 1, comma 3, del dlgs 28.09.1998, n. 360, vale a dire il sito previsto per la pubblicazione delle deliberazioni in materia di addizionale comunale all'Irpef, www.finanze.it. La norma precisa, inoltre, che l'efficacia delle deliberazioni decorre dalla data di pubblicazione nel sito informatico in questione e gli effetti delle deliberazioni stesse retroagiscono al 1º gennaio dell'anno di pubblicazione nel sito informatico, a condizione che detta pubblicazione avvenga entro il 30 aprile dell'anno a cui la delibera si riferisce. Detto invio deve avvenire entro il termine del 23 aprile; in caso di mancata pubblicazione entro il termine del 30 aprile, le aliquote e la detrazione si intendono prorogate di anno in anno.
È indispensabile, quindi, un urgente «aggiustamento» del un sistema che, ancor prima di decollare, è già destinato a rimanere a terra.
Con la norma in questione si è creato, infatti, un gran pasticcio che se da un lato può avvantaggiare i comuni che possono rifare i conti tranquillamente fino a settembre, crea un gran caos ai contribuenti che si vedono cambiare le carte in tavola all'ultimo momento (articolo ItaliaOggi del 25.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Stop dopo due mandati. No al terzo incarico dopo il commissariamento. Il divieto non opera se il sindaco resta fermo ai box per un turno.
Un amministratore comunale è stato eletto alla carica di sindaco per la prima volta e tale mandato è stato interrotto dallo scioglimento del consiglio comunale, con la conseguente gestione commissariale protrattasi fino al rinnovo degli organi amministrativi; considerato che l'amministratore è stato eletto nuovamente in occasione di tale tornata elettorale, che il primo mandato ha avuto una durata ridotta (anche se superiore a due anni, sei mesi e un giorno) e che il primo e il secondo mandato sono stati intervallati dalla citata gestione commissariale, è ancora possibile la rielezione del medesimo amministratore locale per un ulteriore mandato consecutivo alla carica sindacale attualmente ricoperta?
L'art. 51, comma 2, del dlgs. n. 267/2000 stabilisce che «chi ha ricoperto per due mandati consecutivi la carica di sindaco e di presidente della provincia non è, allo scadere del secondo mandato, immediatamente rieleggibile alle medesime cariche»; la continuità dei due mandati consecutivi, al verificarsi dei quali tale norma dispone la non rieleggibilità alla carica di sindaco, non viene meno per effetto dell'interposizione di una gestione commissariale.
La Corte di cassazione, sebbene chiamata a pronunciarsi su un diverso caso, ha avuto modo di precisare che affinché non si configuri la condizione ostativa prevista dal citato art. 51, è necessario che il secondo mandato amministrativo sia stato seguito da una tornata elettorale alla quale il sindaco uscente non si è candidato. In particolare, è stato precisato che «l'ambito di operatività del divieto (ex art. 51 cit.) è puntualmente e univocamente chiarito, nel senso della sua correlazione a una sequenza temporale caratterizzata dalla compresenza, oltreché dell'avverbio «immediatamente» (già di per sé sufficiente ad escludere il permanere dell'ineleggibilità oltre la tornata elettorale successiva alla conclusione del secondo mandato) anche nella incidentale (rafforzativa) allo scadere del secondo mandato, che non lascia alcun margine di dubbio interpretativo in ordine alla circostanza che per le elezioni diverse da quelle immediatamente successive alla scadenza del mandato non operi più la causa di ineleggibilità».
Nel caso in esame, considerato che tra il primo mandato elettorale, poi seguito da una gestione commissariale, e il secondo non si è verificata alcuna tornata elettorale intermedia, interruttiva della sequenza temporale di cui al citato art. 51, comma 2, del Tuel, sussiste la causa ostativa alla terza candidatura di cui alla disposizione normativa citata, atteso che le prossime elezioni sarebbero quelle immediatamente successive alla scadenza del secondo mandato (articolo ItaliaOggi del 25.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Incompatibilità.
Sussiste l'ipotesi dell'incompatibilità per lite pendente, ai sensi dell'art. 63, comma 1, n. 4 del decreto n. 267/2000, nel caso di un consigliere comunale chiamato in giudizio davanti al Tar dall'ente presso cui esercita il mandato amministrativo?

In linea di principio le cause ostative al mandato sono previste dal legislatore al fine di assicurare il regolare funzionamento dell'organo elettivo ed evitare l'insorgere di possibile conflitto di interessi tra l'ente e l'amministratore.
Nel caso di lite pendente l'incompatibilità si genera al momento dell'iscrizione a ruolo della vertenza che vede parti contrapposte l'ente locale e il singolo amministratore.
Il caso di specie risulta riconducibile alla previsione normativa, pertanto compete all'amministratore formulare le proprie osservazioni al consiglio, che valuterà la fondatezza delle deduzioni e, laddove riconosca sussistente la causa di incompatibilità, inviterà il consigliere a rimuoverla.
Nella fattispecie in esame, a fronte della tutela sia procedurale che sostanziale che la disposizione normativa citata introduce a tutela di opposti interessi di rango costituzionale, rimane di dubbia praticabilità il ricorso alla facoltà di opzione della rimozione della causa di incompatibilità mediante la rinuncia alla lite, non avendo il consigliere interessato, nella qualità di parte convenuta, la piena disponibilità della lite.
In conformità al principio generale per cui ogni organo collegiale è competente a deliberare sulla regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti, compete all'organo comunale ogni definitiva determinazione in proposito, ferma restando la possibilità di contestare per le vie giudiziali le decisioni che saranno assunte (articolo ItaliaOggi del 25.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: PRIVACY/ Lo stato di salute non va online. Il divieto vale anche per le pubbliche amministrazioni. Il Garante: in caso di violazione scatta il blocco dell'ulteriore diffusione.
Vietato mettere online informazioni sullo stato di salute, patologie o handicap di una persona. Il divieto vale anche per le pubbliche amministrazioni. E in caso di violazione il Garante privacy può intervenire per bloccare l'ulteriore diffusione in internet dei dati sulla salute rispettivamente di cittadini disabili e di persone che hanno beneficiato di rimborsi per spese sanitarie.
Come è successo a un comune (provvedimento 29.11.2012 n. 369) e ad una Asl (provvedimento 362/2012). Tra l'altro il divieto, oltre che prescritto dal codice della privacy (articolo 22), è anche ribadito dalle Linee guida del garante sulla pubblicazione online di atti e documenti del 02.03.2011. Le norme prevedono, nel dettaglio, il divieto assoluto di diffusione di dati sulla salute.
Nei provvedimenti in esame il Garante ha dichiarato illecito il trattamento di dati effettuato dal Comune e dalla Asl perché in contrasto con la norma che vieta ai soggetti pubblici di diffondere i dati da cui si possano desumere malattie, patologie e qualsiasi riferimento a invalidità, disabilità o handicap fisici o psichici.
Dagli accertamenti è emerso infatti che sul sito del comune era liberamente consultabile un allegato al Piano comunale di protezione civile contenente l'elenco delle persone non autosufficienti che abitano da sole o con altri inabili. Nell'allegato erano riportati in chiaro il nome e cognome, la sigla della disabilità oppure la sua indicazione per esteso (ad esempio non vedente) e in alcuni casi anche la data di nascita o l'indirizzo della persona non autosufficiente.
Sul sito della Asl, nella sezione dedicata all'albo pretorio, era presenti le determinazioni con le liquidazioni degli indennizzi per patologie contratte per cause di servizio, rimborsi per spese sanitarie (anche a favore di trapiantati o di persone affette da determinate patologie), che riportavano in chiaro il nominativo o il codice fiscale degli interessati o dei familiari che avevano beneficiato dei rimborsi. Comune e Asl rischiano anche una eventuale sanzione amministrativa.
Con riferimento all'albo pretorio sarebbe, tuttavia, utile un approfondimento considerato che, per gli enti locali, in base all'articolo 124 del dl 267/2000, sussiste l'obbligo di pubblicare tutte le deliberazioni e che, secondo il Consiglio di stato (sentenza n. 1370 del 15/03/2006) la pubblicazione deve riguardare anche le determinazioni. Ma se la pubblicazione è obbligatoria, questa non potrebbe avvenire con omissis.
Adozioni
Con altro provvedimento (n. 329/2012) il garante si è occupata di adozioni e ha stabilito che qualunque attestazione di stato civile riferita a una persona adottata deve essere rilasciata con la sola indicazione del nuovo cognome e senza l'annotazione della sentenza di adozione.
Le notizie sullo stato di adozione di una persona, infatti, possono essere fornite da un ufficiale pubblico solo su espressa autorizzazione dell'autorità giudiziaria.
Nel caso specifico una persona ha contestato al Comune di aver rilasciato ai parenti la copia integrale del suo atto di nascita con incluse le informazioni sul provvedimento giudiziario riguardante la sua adozione. I funzionari comunali ritenevano che la consegna del documento recante le informazioni sull'adozione fosse giustificata dalla necessità degli eventuali eredi di poter difendere i propri diritti in sede giudiziaria.
Il Garante ha spiegato che la normativa vigente prevede che le indicazioni sul rapporto di adozione possano essere fornite solo su espressa autorizzazione dell'autorità giudiziaria. L'ufficiale di stato civile del Comune commetterebbe una illecita comunicazione di dati personali a soggetti diversi dal diretto interessato.
Il Garante ha vietato ai parenti dell'uomo l'ulteriore utilizzo delle informazioni sull'adozione contenute nella copia dell'atto di nascita. Al Comune è stato prescritto di fornire al proprio personale di stato civile adeguate istruzioni per evitare che si commettano ulteriori violazioni sui dati relativi alle persone adottate.
Anche perché c'è il rischio di pesanti sanzioni pecuniarie amministrative (articolo ItaliaOggi del 24.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

LAVORI PUBBLICI: Pagamenti Pa, inclusi i lavori pubblici. Circolare dello Sviluppo economico: tempi e sanzioni si applicano a tutti gli appalti.
«La nuova disciplina dei ritardati pagamenti introdotta in attuazione della normativa comunitaria 7/2011 si applica ai contratti pubblici relativi a tutti i settori produttivi, inclusi i lavori, stipulati a decorrere dal 01.01.2013, ai sensi dell'articolo 3, comma 1, del Dlgs n. 192 del 2012».

È il passaggio chiave della nota 23.01.2013 n. 1293 di prot. inviata dal capo di gabinetto del ministero dello Sviluppo economico, Mario Torsello, alle principali associazioni delle imprese di costruzioni che avevano lamentato il rischio di un'esclusione del settore dei lavori pubblici dalla nuova normativa sui tempi di pagamento della Pa.
Nel Dlgs 192, che ha recepito le norme Ue sui tempi di pagamento nelle transazioni commerciali, dettando nuove regole anche per il settore pubblico, non veniva citato espressamente il settore edile e dei lavori pubblici: questo aveva messo in allarme il presidente dell'Ance, Paolo Buzzetti, che si era rivolto al Governo per chiedere un chiarimento e aveva minacciato il ricorso a Bruxelles (si veda Il Sole 24 Ore del 15.11.2012).
Nel Governo era seguito un braccio di ferro tra il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, che subito si era pronunciato in favore di un inserimento esplicito dei lavori pubblici, e il ministero dell'Economia e in particolare la Ragioneria generale, contrari all'inclusione dei lavori.
Non a caso Passera, che ha impiegato due mesi per superare le resistenze nell'Esecutivo, ora chiama in causa Palazzo Chigi. «La Presidenza del Consiglio -afferma il documento dello Sviluppo economico- ha precisato che, sebbene il provvedimento non lo menzioni espressamente, esso deve ritenersi applicabile anche al settore edile. Ciò è stato argomentato sia sotto il profilo formale, rimarcando che l'espressione «prestazione di servizi» abbraccia inevitabilmente anche i lavori, sia a livello sistematico, rilevando che la disciplina generale, di matrice sovranazionale, in tema di ritardati pagamenti, non può che prevalere su regolamentazioni nazionali con essa eventualmente confliggenti».
Dopo aver risolto il nodo principale, la circolare fa una seconda, importante operazione giuridica: rilegge il codice degli appalti (Dlgs 163/2006) e il regolamento di settore (Dpr 207/2010) alla luce dei termini di pagamento (tempi e sanzioni) disposti dalla nuova disciplina. «Le disposizione dettate dal codice dei contratti pubblici e dal regolamento di attuazione già vigenti per il settore dei lavori pubblici, relative ai termini di pagamento delle rate di acconto e di saldo nonché alla misura degli interessi da corrispondere in caso di ritardato pagamento, devono essere interpretate e chiarite alla luce delle disposizioni del decreto legislativo 192/2012, ritenendosi prevalenti queste ultime sulle disposizioni di settore confliggenti, tenendo conto anche dell'espressa clausola di salvezza, secondo cui restano "salve le vigenti disposizioni del codice civile e delle leggi speciali che contengono una disciplina più favorevole per il creditore"».
L'inasprimento più severo delle sanzioni per i ritardati pagamenti della pubblica amministrazione nei lavori pubblici riguarda non tanto gli stati di avanzamento lavori (i cosiddetti Sal) quanto la liquidazione del saldo finale. In questo caso, infatti, il termine temporale di 90 giorni previsto oggi dal codice degli appalti è «incompatibile» con la disciplina europea e nazionale che prevede il termine di 30 giorni dalla verifica della prestazione (cioè dal certificato di collaudo). In questo caso, in caso di mancato rispetto, scatterebbe la corresponsione degli interessi semplici di mora su base giornaliera a un tasso che è pari al tasso di interesse applicato dalla Bce alle sue più recenti operazioni di rifinanziamento principali, in vigore all'inizio del semestre, maggiorato dell'8%, senza che sia necessaria la costituzione in mora (articolo Il Sole 24 Ore del 24.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Anticorruzione. Arriva con un Dpr il codice di comportamento: se l'impiegato statale riceve omaggi o utilità oltre il «modico valore» rischia il licenziamento.
Ai dipendenti Pa regali da 100 euro.
DIVIETO DI INSIDER/ I dipendenti delle amministrazioni non potranno usare a fini privati le informazioni di cui dispongono per lavoro.

Nessun regalo o sconto che superi i 100 euro, che però potrebbero essere anche meno o salire (nelle amministrazioni che ne avranno il coraggio) fino a 150. Ma non un cent di più. Come il possesso della «modica quantità» per un consumatore di hashish, anche i regali e gli sconti ai dipendenti pubblici avranno presto una precisa tariffa: il «modico valore». Superato il quale, se c'è interesse in atti d'ufficio, per impiegati e dirigenti infedeli scatterà il licenziamento con preavviso. E attenzione: «Regali e altre utilità» sopra soglia non si potranno ricevere dai sottoposti né offrire al capo.
Lotta alla corruzione, atto secondo. Dopo le regole per i politici ecco il decalogo per la pubblica amministrazione. Proprio in omaggio alla legge (190/2012) di novembre, arriva un «Codice di comportamento dei dipendenti pubblici» anti-corruzione nuovo di zecca che detta gli obblighi di «diligenza, lealtà, imparzialità e buona condotta» che dovrà ispirare, dentro e fuori l'ufficio, i 3,3 milioni di dipendenti della Pa.
Lo schema di Dpr (per il testo si veda www.24oresanita.com), oggi al l'esame della Conferenza Governo-autonomie, irrobustisce il «Codice» del contratto 2006-2009 e quello del 2001. Entrando a piedi uniti contro comportamenti potenzialmente corruttivi: dal conflitto d'interessi all'insider ai rapporti coi privati. Passando per il dovere di non parlare male del proprio ufficio. Che per i dirigenti diventa l'obbligo di difenderne pubblicamente l'immagine. Fosse sempre possibile.
Le regole su «regali, compensi e altre utilità» occupano uno dei primissimi articoli del Dpr. Il principio: mai chiedere né accettare regali «salvo quelli di modico valore» e solo se «effettuati occasionalmente nell'ambito delle normali relazioni di cortesia». Va da sé che nessun omaggio, di qualsiasi valore, potrà essere chiesto come corrispettivo di un'attività d'ufficio. E che non potranno essere accettati regali non «modici» dai sottoposti né offerti ai capi, «né ai suoi parenti o conviventi». Chi poi riceva comunque il regalo proibito, deve subito restituirlo.
Ma quant'è il «modico valore»? Finora non ci si era mai avventurati su questa strada. Il «Codice» tenta di farlo chiarendo a suo modo che –siano regali, utilità o sconti per acquisti– arriva «in via orientativa, a euro 100». Ma attenzione: i piani di prevenzione anti-corruzione potranno modulare la cifra: per ridurla e anche per aumentarla fino a «un importo massimo non superiore a euro 150». Ma non basta: fatte salve le responsabilità già perseguibili di tipo civile, amministrativo e contabile, ricevere regali fuori ordinanza potrà portare fino al licenziamento con preavviso se si dimostra la «correlazione» con il compimento di atti d'ufficio o nel caso di recidiva.
Il buon dipendente pubblico non potrà poi fare l'insider: usare, cioè, a fini privati le informazioni di cui dispone per lavoro. E dovrà comunicare qualsiasi conflitto d'interesse per i rapporti avuti negli ultimi tre anni con soggetti privati: il precedente «Codice» però scendeva indietro di 5 anni e fino ai parenti di quarto grado, mentre ora si ferma al secondo grado.
Riservatezza, oculatezza nell'uso delle risorse, del materiale e dei mezzi della Pa (auto e telefono d'ufficio off limit da usi personali, se non per «urgenze»), cortesia col pubblico, rispetto delle pratiche senza favoritismi, nessun razzismo, silenzio con la stampa: il travet fuori «Codice» perderà qualsiasi premio ancora possibile. Mentre per i dirigenti, per i quali è confermato il dovere di comunicare in anticipo il possesso (fino ai parenti di secondo grado) di azioni e interessi finanziari in potenziale conflitto d'interessi col nuovo ruolo, scatta un altro obbligo di trasparenza: rendere nota la propria situazione patrimoniale e tributaria. Prima poteva avvenire solo su «motivata richiesta», ora diventa un obbligo. Chissà (articolo Il Sole 24 Ore del 24.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Per l’impugnazione di un’autorizzazione commerciale non è sufficiente la mera vicinitas, occorrendo l’allegazione di uno specifico e concreto pregiudizio: detto pregiudizio non deve necessariamente concretarsi in una lesione alla concorrenza connessa al fatto che il ricorrente sia a sua volta un operatore commerciale, ma ben può consistere in una lesione a beni della vita diversi e ulteriori (e, in definitiva, ben può corrispondere alle “tradizionali” lesioni che il vicino può derivare da qualsiasi opera o intervento che riguardi la proprietà confinante).
Sul punto, la Sezione condivide l’avviso, conforme alla maggioritaria giurisprudenza richiamata dalle parti appellanti, secondo cui per l’impugnazione di un’autorizzazione commerciale non è sufficiente la mera vicinitas, occorrendo l’allegazione di uno specifico e concreto pregiudizio: con l’importante precisazione che detto pregiudizio non deve necessariamente concretarsi in una lesione alla concorrenza connessa al fatto che il ricorrente sia a sua volta un operatore commerciale, ma ben può consistere in una lesione a beni della vita diversi e ulteriori (e, in definitiva, ben può corrispondere alle “tradizionali” lesioni che il vicino può derivare da qualsiasi opera o intervento che riguardi la proprietà confinante) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.01.2013 n. 489 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il possesso dei requisiti di capacità generale di cui all’art. 38 deve essere assicurato non solo all’atto di presentazione della domanda ma per tutta la procedura di gara ed anche, successivamente all’aggiudicazione, per tutta la durata dell’appalto, al punto da ritenere che l’impresa debba comunicare all’amministrazione appaltante ogni variazione rilevante al riguardo.
Tutto questo legittima, ed anzi obbliga, la stessa amministrazione appaltante ad un controllo periodico sul possesso dei requisiti in capo alle imprese con le quali contratta, da cui consegue, in linea generale (fatti salvi i limiti di cui all’art. 21-nonies l. 241/1990), il potere di intervenire in autotutela, ove l’esito di tale controllo sia negativo.

Una volta chiarito tale aspetto, va ricordato come il possesso dei requisiti di capacità generale di cui all’art. 38 debba essere assicurato non solo all’atto di presentazione della domanda ma per tutta la procedura di gara ed anche, successivamente all’aggiudicazione, per tutta la durata dell’appalto (v., per tutte, Cons. St., IV, n. 6539/2012), al punto da ritenere che l’impresa debba comunicare all’amministrazione appaltante ogni variazione rilevante al riguardo.
Tutto questo legittima, ed anzi obbliga, la stessa amministrazione appaltante ad un controllo periodico sul possesso dei requisiti in capo alle imprese con le quali contratta, da cui consegue, in linea generale (fatti salvi i limiti di cui all’art. 21-nonies l. 241/1990), il potere di intervenire in autotutela, ove l’esito di tale controllo sia negativo (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 25.01.2013 n. 483 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ai sensi dell'art. 14-ter della L. n. 241/1990, per essere validamente espresso, il dissenso deve, tra le altre cose, essere sorretto da congrua motivazione e contenere altresì la critica costruens, volta ad indicare le modifiche progettuali necessarie per il superamento del dissenso medesimo.
Ed in conformità al precetto normativo, anche la giurisprudenza di questo Consiglio ha più volte chiarito come il dissenso di un'Amministrazione che partecipa alla conferenza di servizi deve rispondere ai principi di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa, predicato dall'art. 97 Cost., non potendo limitarsi ad una mera opposizione al progetto in esame ma dovendo essere costruttivo e motivato.

Ed invero, in relazione al primo profilo, osserva il Collegio come nell'ambito della conferenza di servizi convocata dalla Regione Sardegna in data 24.05.2011 l'Amministrazione comunale abbia espresso "il parere di conformità alla disciplina urbanistica comunale", limitandosi ad evidenziare che doveva "essere chiarita la titolarità sia del terreno in cui insiste l'impianto che in quello dove passeranno i cavidotti".
E', quindi, palese come il Comune di Isili non abbia espresso alcun diniego formale in sede di conferenza di servizi.
Infatti, ai sensi dell'art. 14-ter della L. n. 241/1990, per essere validamente espresso, il dissenso deve, tra le altre cose, essere sorretto da congrua motivazione e contenere altresì la critica costruens, volta ad indicare le modifiche progettuali necessarie per il superamento del dissenso medesimo.
Ed in conformità al precetto normativo, anche la giurisprudenza di questo Consiglio ha più volte chiarito come il dissenso di un'Amministrazione che partecipa alla conferenza di servizi deve rispondere ai principi di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa, predicato dall'art. 97 Cost., non potendo limitarsi ad una mera opposizione al progetto in esame ma dovendo essere costruttivo e motivato (cfr. per tutte Sez. V, 23.05.2011, n. 3099).
Privo di fondamento, pertanto, si appalesa l'assunto del Comune appellante di non aver mai espresso il proprio assenso alla realizzazione dell'impianto per cui è causa, ma di essersi limitato ad esprimere un "generico punto di vista" relativamente al profilo urbanistico.
Infatti, il modulo procedimentale della conferenza di servizi ammette che l'ente regolarmente convocato possa esprimersi unicamente in uno dei seguenti modi:
a) consenso espresso (art. 14-ter, comma 6, della Legge n. 241/1990);
b) consenso tacito proveniente dall'ente regolarmente convocato il cui rappresentate non abbia espresso la volontà dell'amministrazione rappresentata in modo definitivo (art. 14-ter, comma 7, della Legge n. 241/1990);
c) dissenso espresso, ammissibile solo se espresso in conferenza di servizi, motivato e circostanziato (art. 14-quater, comma 7, della Legge n. 241/1990).
Pertanto, del tutto correttamente il primo giudice ha dichiarato inammissibile il motivo, rilevando che "...il Comune avrebbe dovuto correttamente e tempestivamente dedurre tale ragione di dissenso nella sede della conferenza di servizi svoltasi il 24.05.2011, convocata dalla Regione Sardegna per l'esame dell'istanza di rilascio dell'autorizzazione unica presentata dalla controinteressata", mentre dal verbale risulta che lo stesso "sul punto, si è limitato a chiedere che fosse «chiarita la titolarità sia del terreno in cui insiste l'impianto, che in quello dove passeranno i cavidotti, senza ulteriori specificazioni o rivendicazioni in ordine alla reale proprietà degli immobili. Peraltro, la generica osservazione del Comune, sopra riferita, è stata comunque oggetto di esame nella conferenza di servizi e si è tradotta anche in una specifica condizione (l'acquisizione della documentazione in merito al contratto definitivo di disponibilità delle aree di impianto) cui subordinare l'esito positivo della determinazione conclusiva della conferenza. Condizione che si è, in seguito, realizzata (come risulta dalla documentazione versata in atti)" (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.01.2013 n. 434 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della tempestiva impugnazione del titolo ad aedificandum rilasciato a terzi, l’effettiva, piena conoscenza dell’atto autorizzativo deve essere ancorata all’ultimazione dei lavori oppure al momento in cui la costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine alla portata dell’intervento.
Questa impostazione ha peraltro ricevuto significative eccezioni e/o correzioni nei casi in cui, come quello all’esame, il solo inizio dei lavori renda palese la lesività dell’opera in relazione allo stato di fatto e di diritto dell’area di intervento.
Così, quando si deduce la non edificabilità dell’area interessata alla autorizzata costruzione, una siffatta circostanza fa sì che il vicino legittimato a contestare il titolo edilizio rilasciato a terzi deve insorgere al momento dell’inizio dei lavori, giacché viene in rilevo una ipotesi costruttiva che di per sé è idonea a concretizzare la conoscenza di un profilo lesivo.

Questo Consiglio di Stato ha avuto più volte modo di statuire che ai fini della tempestiva impugnazione del titolo ad aedificandum rilasciato a terzi, l’effettiva, piena conoscenza dell’atto autorizzativo deve essere ancorata all’ultimazione dei lavori oppure al momento in cui la costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine alla portata dell’intervento (Sez. IV 28.01.2011 n. 678; idem 28.06.2011 n. 5346) .
Questa impostazione ha peraltro ricevuto significative eccezioni e/o correzioni nei casi in cui, come quello all’esame, il solo inizio dei lavori renda palese la lesività dell’opera in relazione allo stato di fatto e di diritto dell’area di intervento (cfr., di recente, Cons. Stato Sez. IV 16.07.2012 n. 4132).
Così, quando, come nella fattispecie, si deduce la non edificabilità dell’area interessata alla autorizzata costruzione, una siffatta circostanza fa sì che il vicino legittimato a contestare il titolo edilizio rilasciato a terzi deve insorgere al momento dell’inizio dei lavori, giacché viene in rilevo una ipotesi costruttiva che di per sé è idonea a concretizzare la conoscenza di un profilo lesivo (Cons. Stato Sez. IV 10.12.2007 n. 6342) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.01.2013 n. 433 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: a) le scelte urbanistiche in ordine alla zonizzazione del territorio sono rimesse al potere di tipo squisitamente discrezionale dell’Amministrazione comunale (Cons. Stato Sez. IV 07.06.2012 n. 3365);
b) la verifica e la scelta della destinazione edificatoria, pure riservate al potere discrezionale, devono raccordarsi con la più generale disciplina urbanistica e rivelarsi altresì satisfattive dell’interesse pubblico al corretto ed armonico utilizzo del territorio , nel contemperamento delle varie esigenze della popolazione che su tale ambito insiste ed opera.
Poi, le scelte espresse nello strumento urbanistico generale, siccome caratterizzate da ampia discrezionalità, non necessitano di altra motivazione, al di là del richiamo ai criteri tecnico-urbanistici seguiti nell’impostazione del piano e rinvenibili nella relazione d’accompagnamento al PRG.
Quest’ultima regola è pur sempre temperata dal principio per cui la discrezionalità delle scelte urbanistiche relative alla classificazione delle aree deve essere supportata da una motivazione sufficiente, logica e ragionevole, proprio per evitare che la discrezionalità possa trasmodare nell’arbitrio.

Il Collegio ritiene qui di richiamare, in primo luogo, i condivisibili orientamenti interpretativi più volte affermati in subjecta materia da questa stessa Sezione, così riassumibili:
a) le scelte urbanistiche in ordine alla zonizzazione del territorio sono rimesse al potere di tipo squisitamente discrezionale dell’Amministrazione comunale (Cons. Stato Sez. IV 07.06.2012 n. 3365);
b) la verifica e la scelta della destinazione edificatoria, pure riservate al potere discrezionale, devono raccordarsi con la più generale disciplina urbanistica e rivelarsi altresì satisfattive dell’interesse pubblico al corretto ed armonico utilizzo del territorio , nel contemperamento delle varie esigenze della popolazione che su tale ambito insiste ed opera (Cons. Stato Sez. IV 25.09.2012 n. 5088) .
E’ poi opinione consolidata del giudice amministrativo che le scelte espresse nello strumento urbanistico generale, siccome caratterizzate da ampia discrezionalità, non necessitano di altra motivazione, al di là del richiamo ai criteri tecnico-urbanistici seguiti nell’impostazione del piano e rinvenibili nella relazione d’accompagnamento al PRG (Cons. Stato Sez. IV 09.10.2010 n. 8628; idem 18.01.2011 n. 352; 08.06.2011 n. 3497).
Quest’ultima regola è pur sempre temperata dal principio per cui la discrezionalità delle scelte urbanistiche relative alla classificazione delle aree deve essere supportata da una motivazione sufficiente, logica e ragionevole, proprio per evitare che la discrezionalità possa trasmodare nell’arbitrio (Cons. Stato Sez. IV 06.07.2009) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.01.2013 n. 431 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’impugnativa di un diniego di accesso agli atti ex art. 25 della legge n. 241/1990 sconta il regime processuale di tipo decadenziale e la reiterazione dell’istanza di accesso, in assenza di “elementi di novità”, comporta che l’ulteriore determinazione di tipo negativo dell’Amministrazione assume valore meramente confermativo, con conseguente inammissibilità del gravame proposto avverso quest’ultimo provvedimento.
Secondo un preciso orientamento giurisprudenziale, confermato dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato con decisione n. 7 del 20.04.2006, l’impugnativa di un diniego di accesso agli atti ex art. 25 della legge n. 241/1990 sconta il regime processuale di tipo decadenziale e la reiterazione dell’istanza di accesso, in assenza di “elementi di novità”, comporta che l’ulteriore determinazione di tipo negativo dell’Amministrazione assume valore meramente confermativo, con conseguente inammissibilità del gravame proposto avverso quest’ultimo provvedimento.
La predetta regula iuris non appare però applicabile alla vicenda all’esame, atteso che nella fattispecie vengono in rilievo due istanze di accesso non perfettamente sovrapponibili, nel senso che la seconda di queste domande non si rivela meramente confermativa di quella precedentemente formulata per la quale è stato a suo tempo emesso un provvedimento di diniego non impugnato dall’interessato.
Più specificatamente è possibile cogliere nelle due domande di accesso, solo “apparentemente” coincidenti, degli elementi di diversificazione sia sotto il profilo soggettivo che in relazione all’aspetto oggettivo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.01.2013 n. 428 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: L’art. 116 c.p.p. stabilisce che "Durante il procedimento e dopo la sua definizione, chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie, estratti o certificati di singoli atti", rimettendo all'autorità giudiziaria penale il delicato compito di valutare e bilanciare le contrapposte esigenze implicate in tali vicende (art. 116, comma 2).
Di fronte ad atti di polizia giudiziaria coperti dal segreto istruttorio ex art. 329 c.p.p., vige il divieto di pubblicazione sancito dall'art. 114 c.p.p..
Tuttavia, a tenore del comma 1 della citata norma, il suddetto divieto può protrarsi, salve le ipotesi di cui al terzo comma, non oltre la chiusura delle indagini preliminari.

Premesso:
- che il ricorrente ha chiesto l’ottemperanza alla sentenza n. 286 dell’11.10.2012 con cui la Sezione ha ordinato al Comune di Parma di consentire l’accesso al documento richiesto con l’istanza del 30.04.2012;
- che il Comune intimato si è costituito in giudizio chiedendo la reiezione del ricorso in quanto il documento richiesto (nota inviata dal Comune alla Procura della Repubblica in data 25.10.2011) sarebbe soggetto a segreto istruttorio in quanto oggetto di indagine penale, come risultante dalla nota del Procuratore della Repubblica in data 09.11.2012, in cui sono individuati i seguenti procedimenti pendenti dinanzi alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Parma: 1) n. 5086/10 MOD. 21; n. 1185/12 MOD. 21; 3) n. 5803/12 MOD. 21;
- che, in data 20.12.2012, il Comune intimato ha prodotto la nota del 14.12.2012 inviata alla Procura della Repubblica, in calce alla quale il Procuratore dott. Gerardo Laguardia ha denegato l’autorizzazione all’ostensione del documento richiesto dal sig. Cesare Piazza, in quanto coperto da segreto istruttorio;
- che, preso atto di tale provvedimento, il ricorrente, in via principale ha insistito per l’accoglimento del ricorso censurando la condotta del Comune che, pur in mancanza di un atto di secretazione dell’Autorità giudiziaria penale, ha denegato l’accesso sebbene ordinato con la sentenza di cui è chiesta l’ottemperanza;
- che, in subordine, il ricorrente ha chiesto ordinarsi all’amministrazione resistente l’emissione di un provvedimento idoneo a consentirgli l’accesso all’atto richiesto, differendone l’emissione alla chiusura delle indagini preliminari e nominando, per il caso di inadempimento protratto oltre detto termine, un commissario ad acta che provveda in luogo del Comune;
- che il Comune si è opposto alla avversa richiesta chiedendo la reiezione del ricorso;
- che alla camera di consiglio del 23.01.2013, sentiti i difensori presenti, la causa è stata trattenuta in decisione;
Considerato:
- che l’art. 116 c.p.p. stabilisce che "Durante il procedimento e dopo la sua definizione, chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie, estratti o certificati di singoli atti", rimettendo all'autorità giudiziaria penale il delicato compito di valutare e bilanciare le contrapposte esigenze implicate in tali vicende (art. 116, comma 2);
- che di fronte ad atti di polizia giudiziaria coperti, come nel caso di specie, dal segreto istruttorio ex art. 329 c.p.p., vige il divieto di pubblicazione sancito dall'art. 114 c.p.p. (cfr. TAR Sicilia, Catania, sez. I, 20.09.2012, n. 2220);
- che, tuttavia, a tenore del comma 1 della citata norma il suddetto divieto può protrarsi, salve le ipotesi di cui al terzo comma, non oltre la chiusura delle indagini preliminari;
Ritenuto:
- che, per quanto precede, il ricorso può essere accolto quanto alla subordinata domanda dovendosi ordinare, per l’effetto, al Comune di Parma di provvedere, entro quindici giorni dalla chiusura delle indagini preliminari relative ai procedimenti penali indicati nella nota del Procuratore della Repubblica in data 09.11.2012, all’ostensione del documento richiesto dal ricorrente (nota inviata dal Comune alla Procura della Repubblica in data 25.10.2011);
- che, per l’ipotesi di inerzia del Comune protratta oltre il concesso termine, va, fin d’ora, nominato un Commissario ad acta nella persona del Prefetto di Parma, o di un suo delegato, che dovrà provvedere, in luogo del Comune onerato, nel termine dei successivi quindici giorni ... (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 24.01.2013 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICACirca la destinazione a servizi pubblici (verde e parco pubblico) è da escludere che tale vincolo assuma carattere di vincolo espropriativo, trattandosi invece di un vincolo conformativo della proprietà privata; si ricordi sul punto che la più recente e diffusa giurisprudenza amministrativa riconosce al vincolo a verde pubblico o a verde urbano la succitata natura conformativa.
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E' stato ribadito di recente in importanti arresti del Giudice Amministrativo d’appello, circa l’ampia discrezionalità di cui godono i Comuni nell’esercizio della potestà pianificatoria urbanistica, nei confronti della quale i privati possono godere di aspettative qualificate soltanto in un numero limitato di casi, peraltro insussistenti nella presente fattispecie.

In primo luogo, occorre ricordare come la destinazione a servizi pubblici di interesse generale è finalizzata alla realizzazione o meglio all’ampliamento di un parco pubblico, con gli annessi parcheggi pubblici, a servizio sia dei residenti sia di una scuola collocata a lato del parco (cfr. doc. 17 della ricorrente, copia della relazione di progetto, pag. 2 ed anche il doc. 5 del resistente).
L’art. 27 delle NTA del PGT, consente poi che i servizi pubblici e di interesse pubblico siano realizzati mediante iniziativa pubblica diretta (cfr. doc. 6 del resistente, pag. 29), mentre il successivo art. 28 ne consente la realizzazione anche ai proprietari delle aree, in conformità alla vigente legislazione (cfr. il già citato doc. 6, pag. 30).
Inoltre, l’art. 11 delle stesse NTA (cfr. ancora il doc. 6, pag. 8), prevede che, in caso di cessione gratuita delle aree destinate a servizi ed attrezzature pubbliche, siano riconosciuti a titolo di compensazione diritti edificatori, da utilizzarsi negli ambiti di trasformazione, pari a 0,3 metri cubi/ metro quadrato.
Tale particolare disciplina urbanistica porta ad escludere che il vincolo di cui è causa assuma carattere di vincolo espropriativo, trattandosi invece –piuttosto– di un vincolo conformativo della proprietà privata; si ricordi sul punto che la più recente e diffusa giurisprudenza amministrativa riconosce al vincolo a verde pubblico o a verde urbano la succitata natura conformativa (cfr., fra le più recenti, Consiglio di Stato, sez. IV, 28.12.2012, n. 6700 e sez. V, 13.04.2012, n. 2116 ed anche TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 11.11.2009, n. 5013).
In ogni caso e fermo restando quanto sopra esposto, avente carattere assorbente, l’Amministrazione risulta avere adeguatamente motivato la scelta compiuta in sede di pianificazione urbanistica generale, volta ad attribuire all’area la destinazione a servizi pubblici (verde e parco pubblico), più volte sopra ricordata.
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La destinazione a verde e parco pubblico viene giustificata anche –il che appare logico, intende precisare il Collegio- dalla presenza dell’elettrodotto e della relativa zona di rispetto, che copre quasi tutta l’area dell’esponente (cfr. il precedente punto 2.1 della presente narrativa in diritto), e che rende pressoché impossibile rilevanti interventi edificatori, fatte salve talune funzioni urbanistiche, quali -appunto- quelle di parco pubblico o parcheggio.
Il percorso motivazionale dell’Amministrazione di Lomagna non appare né illogico né contraddittorio, tenuto conto anche del pacifico indirizzo giurisprudenziale, ribadito di recente in importanti arresti del Giudice Amministrativo d’appello, circa l’ampia discrezionalità di cui godono i Comuni nell’esercizio della potestà pianificatoria urbanistica, nei confronti della quale i privati possono godere di aspettative qualificate soltanto in un numero limitato di casi, peraltro insussistenti nella presente fattispecie (cfr., fra le tante, la fondamentale sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 10.05.2012, n. 2710, richiamata e confermata dalla successiva sentenza della stessa Sezione IV, 28.11.2012, n. 6040; Consiglio di Stato, sez. IV, 28.12.2012, n. 6703, oltre che, fra le decisioni di primo grado, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 08.02.2012, n. 437 e TAR Basilicata, 16.12.2011, n. 602).
Ciò premesso, non appare neppure illogica –nel caso di specie- la scelta del Comune di Lomagna di individuare una dotazione di standard superiore a quella minima prevista dall’art. 9 della legge regionale 12/2005 (18 metri quadrati per abitante), viste le già ricordate esigenze di ampliamento del parco e dei parcheggi pubblici
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.01.2013 n. 203 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn ogni atto amministrativo devono esser indicati il termine e l’autorità cui è possibile ricorrere. Tuttavia l’omessa indicazione, in un atto, dell’autorità cui ricorrere, nonché l’omessa indicazione dei termini d’impugnazione, non costituisce illegittimità bensì mera irregolarità. All’occorrenza tale omissione può comportare solo una rimessione in termini per errore scusabile.
Infine, con riferimento alla censura relativa alla mancata indicazione del termine e dell’Autorità cui ricorrere, si osserva che, per giurisprudenza consolidata, “in ogni atto amministrativo devono esser indicati il termine e l’autorità cui è possibile ricorrere. Tuttavia l’omessa indicazione, in un atto, dell’autorità cui ricorrere, nonché l’omessa indicazione dei termini d’impugnazione, non costituisce illegittimità bensì mera irregolarità. All’occorrenza tale omissione può comportare solo una rimessione in termini per errore scusabile” (Tar Campania, Napoli, sez. I - 28.08.2012 n. 3733; Tar Lazio Roma, sez. I-bis - 03.11.2009 n. 10742) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.01.2013 n. 195 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe convenzioni urbanistiche rientrano nella categoria degli accordi procedimentali ex art. 11 l. n. 241 del 1990.
Questi ultimi, anche definiti come accordi di diritto pubblico ovvero ad oggetto pubblico, sono convenzioni intercorrenti tra una parte pubblica e una privata, volte a determinare il contenuto discrezionale dell’adottando provvedimento, sottoposte, nei limiti della compatibilità, ai principi stabiliti dal codice civile in materia di obbligazioni e contratti.
Sicché, deve escludersi che dette convenzioni facciano sorgere obblighi vigenti sine die a carico del soggetto che si è obbligato, come pure che tali piani possano avere l’efficacia di condizionare a tempo indeterminato la pianificazione urbanistica futura, dovendosi ritenere vigente un termine di loro durata massima pari a 10 anni, mutuando il termine di cui all’art. 16, comma 5, della legge urbanistica n. 1150/1942, concernente l’analoga figura dei piani particolareggiati.
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La scadenza del piano convenzionato legittima l’Amministrazione a dettare una diversa regolamentazione urbanistica ed edilizia alle aree nel medesimo ricomprese che non siano state oggetto di sfruttamento edificatorio nel termine di efficacia della relativa convenzione.
Allo stesso tempo, tale scadenza fa venir meno l’obbligo del Comune di rilasciare i titoli edilizi previsti per l’edificazione dell’area senza imposizione di oneri ulteriori, senza che ciò si traduca in un indebito arricchimento in favore del Comune, dovendo il costruttore imputare alla propria inerzia l’impossibilità di avvalersi, senza ulteriori pesi economici, dello sfruttamento edilizio dell’area, come contemplato dalla convenzione.
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In merito all’obbligo gravante sul costruttore di corrispondere, all’atto del rilascio del permesso di costruire gli oneri di urbanizzazione, giova evidenziare come detti oneri, avendo natura di prestazioni patrimoniali imposte, di carattere non tributario e di carattere generale, prescindono dalle singole opere di urbanizzazione, venendo determinato il relativo ammontare indipendentemente sia dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere, senza che neanche rilevi la già intervenuta realizzazione di siffatte opere di urbanizzazione.
Pertanto, la scadenza della convenzione comporta l’inefficacia dei relativi vincoli e la facoltà del Comune di richiedere ulteriori oneri urbanizzativi per lo sfruttamento edilizio delle aree ricomprese nel piano, ma non tempestivamente utilizzate a fini edificatori, a prescindere dall’avvenuta urbanizzazione della suddetta area e senza determinare alcun indebito arricchimento ai danni della ricorrente, data la precisata natura di tali oneri.

Ai fini del decidere, occorre prendere le mosse dalla definizione della natura giuridica delle convenzioni urbanistiche, in quanto dalla risoluzione della relativa questione discendono conseguenze rilevanti.
Ebbene, esse rientrano nella categoria degli accordi procedimentali ex art. 11 l. n. 241 del 1990.
Questi ultimi, anche definiti come accordi di diritto pubblico ovvero ad oggetto pubblico, sono convenzioni intercorrenti tra una parte pubblica e una privata, volte a determinare il contenuto discrezionale dell’adottando provvedimento, sottoposte, nei limiti della compatibilità, ai principi stabiliti dal codice civile in materia di obbligazioni e contratti.
Da ciò deriva, quale immediato corollario, dal punto di vista processuale, l’attrazione delle relative controversie alla giurisdizione esclusiva del g.a., attualmente confermata dagli art. 7, 133, comma 1, lett. a), n. 2, e 133, comma 1, lett. d), c.p.a. (C.d.S. sez. IV, 02.02.2012 n. 616) e la sottoposizione alle regole tipiche della giurisdizione in materia di diritti soggettivi, tra cui quella del rispetto del termine di prescrizione, ai fini della tempestività del ricorso; dal punto di vista sostanziale, la qualificazione del rapporto intercorrente tra le parti, in termini di rapporto obbligatorio, fonte di diritti ed obblighi per entrambi.
Il portato di tale qualificazione è che, deve escludersi che dette convenzioni facciano sorgere obblighi vigenti sine die a carico del soggetto che si è obbligato, come pure che tali piani possano avere l’efficacia di condizionare a tempo indeterminato la pianificazione urbanistica futura, dovendosi ritenere vigente un termine di loro durata massima pari a 10 anni, mutuando il termine di cui all’art. 16, comma 5, della legge urbanistica n. 1150/1942, concernente l’analoga figura dei piani particolareggiati (C.d.S., Ad. Pl. 03.12.2008 n. 13).
Nel caso di specie, siffatto limite temporale di efficacia dell’accordo discende direttamente dalla convenzione, avente forza di legge tra le parti (art. 1372 c.c.).
Detta scadenza del piano convenzionato –verificatasi a far data dal lontano 1994 –ha legittimato, pertanto, l’Amministrazione a dettare una diversa regolamentazione urbanistica ed edilizia alle aree nel medesimo ricomprese che non siano state oggetto di sfruttamento edificatorio nel termine di efficacia della relativa convenzione (Tar Lombardia, Brescia, 10.04.2006 n. 374 e n. 433 del 16.05.2007).
Allo stesso tempo, tale data, identificando il momento estintivo dei diritti ed obblighi nascenti dal piano convenzionato, ha fatto venir meno l’obbligo del Comune di rilasciare i titoli edilizi previsti per l’edificazione dell’area senza imposizione di oneri ulteriori, senza che ciò si traduca in un indebito arricchimento in favore del Comune, dovendo il costruttore imputare alla propria inerzia l’impossibilità di avvalersi, senza ulteriori pesi economici, dello sfruttamento edilizio dell’area, come contemplato dalla convenzione.
In merito all’obbligo gravante sul costruttore di corrispondere, all’atto del rilascio del permesso di costruire gli oneri di urbanizzazione, giova evidenziare come, per pacifica giurisprudenza, detti oneri, avendo natura di prestazioni patrimoniali imposte, di carattere non tributario, e di carattere generale, prescindono dalle singole opere di urbanizzazione, venendo determinato il relativo ammontare indipendentemente sia dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere, senza che neanche rilevi la già intervenuta realizzazione di siffatte opere di urbanizzazione (Cd.S., sez. IV, 30.07.2012 n. 4320, id., sez. V, 15.12.2005, n. 7140; id., 06.05.1997, n. 462).
Pertanto, la scadenza della convenzione ha comportato l’inefficacia dei relativi vincoli e la facoltà del Comune di richiedere ulteriori oneri urbanizzativi per lo sfruttamento edilizio delle aree ricomprese nel piano ”Ca Magna”, ma non tempestivamente utilizzate a fini edificatori, a prescindere dall’avvenuta urbanizzazione della suddetta area e senza determinare alcun indebito arricchimento ai danni della ricorrente, data la precisata natura di tali oneri (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.01.2013 n. 192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’omessa notificazione degli atti del procedimento (di accertamento abuso edilizio) al comproprietario non può comportare di per sé l’illegittimità degli atti medesimi, ma consente semmai al comproprietario la rituale impugnazione dei provvedimenti lesivi, non appena venuto a conoscenza degli stessi.
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La mancata notificazione al comproprietario non inficia di per sé la legittimità della disposta misura repressiva-ripristinatoria, semmai incidendo sulla relativa conoscenza.
Ai fini della legittimità dell'iter procedimentale posto in essere dall'amministrazione per il ripristino dei valori giuridici offesi dalla realizzazione dell'opera abusiva è, cioè, sufficiente la notifica dell'ordinanza di demolizione così come degli atti consequenziali ad uno solo dei comproprietari e in ogni caso al responsabile dell'illecito dovendo questi adoperarsi in ragione della funzione ripristinatoria e non sanzionatoria dell'atto, per eliminare l'illecito onde sottrarsi, salvo comprovare l'indisponibilità effettiva del bene, al pregiudizio della perdita della propria quota ideale di comproprietà.
Il comproprietario pretermesso, poi, da un lato può comunque autonomamente gravarsi nei confronti del provvedimento sanzionatorio, facendo valere le proprie ragioni entro il termine decorrente dalla piena conoscenza della ingiunzione.

Nel primo motivo di ricorso, si sostiene l’illegittimità di tutti gli atti impugnati, relativi al procedimento di accertamento degli abusi edilizi di cui è causa, in quanto gli atti stessi non sono stati notificati al sig. Giordano Villa, comproprietario con la sig.ra Butti degli immobili di cui sopra.
La censura non è fondata, visto che l’omessa notificazione degli atti del procedimento al comproprietario, sig. Villa, non può comportare di per sé l’illegittimità degli atti medesimi, ma consente semmai al comproprietario la rituale impugnazione dei provvedimenti lesivi, non appena venuto a conoscenza degli stessi (cfr. sul punto, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.07.2011, n. 1991).
Si badi che a tale conclusione perviene anche la giurisprudenza citata nel ricorso a pag. 7, vale a dire la sentenza del TAR Campania, Napoli, sez. II, 08.06.2011, n. 2992, nella quale si legge che: <<(…) A tal proposito, costituisce orientamento in giurisprudenza quello secondo cui "la mancata notificazione al comproprietario non inficia di per sé la legittimità della disposta misura repressiva-ripristinatoria, semmai incidendo sulla relativa conoscenza. Ai fini della legittimità dell'iter procedimentale posto in essere dall'amministrazione per il ripristino dei valori giuridici offesi dalla realizzazione dell'opera abusiva è, cioè, sufficiente la notifica dell'ordinanza di demolizione così come degli atti consequenziali ad uno solo dei comproprietari e in ogni caso al responsabile dell'illecito dovendo questi adoperarsi in ragione della funzione ripristinatoria e non sanzionatoria dell'atto, per eliminare l'illecito onde sottrarsi, salvo comprovare l'indisponibilità effettiva del bene, al pregiudizio della perdita della propria quota ideale di comproprietà. Il comproprietario pretermesso, poi, da un lato può comunque autonomamente gravarsi nei confronti del provvedimento sanzionatorio, facendo valere le proprie ragioni entro il termine decorrente dalla piena conoscenza della ingiunzione (…)>> (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.01.2013 n. 188  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, nella parte in cui elenca le dichiarazioni di sussistenza dei requisiti morali e professionali richiesti ai fini della partecipazione alle procedure di gara, assume come destinatari tutti coloro che, in quanto titolari della rappresentanza dell'impresa, siano in grado di trasmettere, con il proprio comportamento, la riprovazione dell'ordinamento nei riguardi della loro personale condotta, al soggetto rappresentato.
Pertanto, deve ritenersi sussistente l'obbligo di dichiarazione non soltanto da parte di chi rivesta formalmente la carica di amministratore, ma anche da parte di colui che, in qualità di procuratore ad negotia, abbia ottenuto il conferimento di poteri consistenti nella rappresentanza dell'impresa e nel compimento di atti decisionali.
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Costituisce causa di esclusione sia la mancanza di uno dei requisiti soggettivi di cui all’art. 38 del Codice, a prescindere dalle indicazioni riportate nel bando di gara, che, oltre all’ipotesi di falsità, l’omissione o l’incompletezza delle dichiarazioni da rendersi ai sensi dell’art. 38 da parte di tutti i soggetti alle stesse tenute. Tali omissioni costituiscono, di per sé, motivo di esclusione dalla procedura ad evidenza pubblica anche in assenza di una espressa previsione del bando di gara.
Del resto, tale interpretazione della norma si ricava anche alla luce delle enunciazioni contenute nella direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, il cui art. 45, intitolato: “situazione personale del candidato o dell’offerente” al par. 1, ultimo alinea, stabilisce che, ai fini del controllo dell’insussistenza dei precedenti penali in capo ai concorrenti, “le richieste riguarderanno le persone giuridiche e/o le persone fisiche, compresi, se del caso, i dirigenti delle imprese o qualsiasi persona che eserciti il potere di rappresentanza, di decisione o di controllo del candidato o dell’offerente”.
L’opzione ermeneutica sostanzialistica preferita dal collegio risponde, dunque, anche ad un canone interpretativo conforme al diritto europeo, dal quale deriva tutta la disciplina sugli appalti pubblici vigente nell’ordinamento italiano.
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Riguardo all’unico motivo aggiunto concernente la asserita violazione dell’art. 38, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 163/2006, deve premettersi che la norma di esclusione non ha carattere sanzionatorio, ma contempla una misura a presidio dell'elemento fiduciario, che esclude di per sé qualsiasi automatismo, perché l'esclusione deve essere il risultato di una "motivata valutazione"; in tema di contenzioso per l'esclusione da gara di appalto ai sensi dell'art. 38, comma 1, lett. f), d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (inadempimenti in precedenti contratti) la decisione di esclusione per "deficit di fiducia" è frutto di una valutazione discrezionale della stazione appaltante, alla quale il legislatore riserva la individuazione del "punto di rottura dell'affidamento" nel pregresso o futuro contraente; pertanto il controllo del g.a. su tale valutazione discrezionale deve essere svolto "ab estrinseco", ed è diretto ad accertare il ricorrere di seri indici di simulazione, ma non è mai sostitutivo.
In tema di esclusione da una gara pubblica ex art. 38, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 163 del 2006, la gravità della generica negligenza o dell'inadempimento a specifiche obbligazioni contrattuali va commisurata al pregiudizio arrecato alla fiducia, all'affidamento che la stazione appaltante deve poter riporre, "ex ante", nell'impresa cui decide di affidare l'esecuzione di un nuovo rapporto contrattuale.

Il collegio, pur consapevole degli orientamenti altalenanti della giurisprudenza amministrativa sul punto, ritiene che, per le circostanze concrete della fattispecie, sia da preferire senz’altro quello più rigoroso.
Ed invero, l’art. 38 del codice degli appalti, in ragione della sua complessità e delle conseguenti difficoltà interpretative –che ne hanno suggerito, finanche, la parziale modifica da parte del legislatore- ha dato adito a diverse elucubrazioni ermeneutiche confluite, per quel che ci occupa, in due filoni principali.
Per il primo, ispirato al principio del favor partecipationis, l'obbligo di presentare le dichiarazioni di cui all'art. 38 del codice dei contratti pubblici non opera per i procuratori speciali indipendentemente dall'ampiezza dei poteri rappresentativi di cui gli stessi sono investiti, essendo richiesta a tale fine la compresenza della qualifica di amministratore e del potere di rappresentanza dovendosi "ancorare l'applicazione della norma su basi di oggettivo rigore formale" (Cons. St., V, n. 3069/2011), occorrendo avere riguardo alla posizione formale del singolo nell'organizzazione societaria piuttosto che a malcerte indagini "sostanzialistiche", e ciò anche per non scalfire garanzie di certezza del diritto sotto il profilo della possibilità di partecipare a pubblici appalti (sez. V, n. 513/11 cit., in cui si ribadisce che "una norma che limiti la partecipazione alle gare e la libertà di iniziativa economica delle imprese... assume carattere eccezionale ed è, quindi, insuscettibile di applicazione analogica a situazioni diverse, quale è quella dei procuratori") (cfr. Cons. Stato, sez. V, 06.06.2012, n. 3340).
Per il secondo, dal quale trapela un’esegesi più severa della norma, suggerita anche dall’intento di evitare comportamenti elusivi della disciplina da parte degli operatori, “non sfugge al Collegio l'esistenza di un orientamento giurisprudenziale secondo il quale gli obblighi di cui all'art. 38, comma 1, lettera c), sono riferibili ai soli amministratori della società muniti di poteri di rappresentanza e ai direttori tecnici, ma non anche ai procuratori speciali, con la conseguenza che tali obblighi non incombano anche su questi ultimi" (fra tutte: Cons. Stato, V, 25.01.2011, n. 513).
Tuttavia, si ritiene che prevalenti ragioni sistematiche inducano a preferire la diversa opzione interpretativa secondo cui l'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, nella parte in cui elenca le dichiarazioni di sussistenza dei requisiti morali e professionali richiesti ai fini della partecipazione alle procedure di gara, assume come destinatari tutti coloro che, in quanto titolari della rappresentanza dell'impresa, siano in grado di trasmettere, con il proprio comportamento, la riprovazione dell'ordinamento nei riguardi della loro personale condotta, al soggetto rappresentato.
Pertanto, deve ritenersi sussistente l'obbligo di dichiarazione non soltanto da parte di chi rivesta formalmente la carica di amministratore, ma anche da parte di colui che, in qualità di procuratore ad negotia, abbia ottenuto il conferimento di poteri consistenti nella rappresentanza dell'impresa e nel compimento di atti decisionali (sul punto, cfr. -ex multis-: Cons. Stato, V, 09.03.2010, n. 1373; id., VI, 24.11.2009, n. 7380; id., V, 26.01.2009 n. 375).
Le conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza da ultimo richiamata risultano tanto più persuasive nel caso in esame, laddove è accertato -ad esempio- che al signor Cl. (procuratore speciale della società Projenia) era riconosciuto un ampio potere di rappresentanza negoziale, tale da consentirgli di adottare nei confronti dei soggetti pubblici atti di valore fino a 100mila euro.
Si tratta, come è evidente, di poteri di rappresentanza di rilevanza sostanziale e di contenuto economico tali da giustificare senz'altro l'assoggettamento agli obblighi di cui al più volte richiamato art. 38 (Cons. Stato, sez. VI, 18.01.2012, n. 178).
Tali considerazioni si attagliano perfettamente al caso di specie, dovendosi ravvisare, sulla base della procura versata in atti allo stesso conferita, la titolarità di ampi poteri di rappresentanza in capo al sig. Julian Barrutia Olasolo, in riferimento alla possibilità al medesimo riconosciuta di partecipare alle gare e di firmare contratti, ed in generale ad operare come sostanziale rappresentante della società all’interno dell’intero territorio italiano.
Ciò risulta confermato dalla più volte citata risposta della stazione appaltante alla richiesta di chiarimenti formulata da un concorrente (Precisazioni 9 del 18.07.2012, versato in atti), nella quale la stessa, a fronte della richiesta “se i procuratori sono più di uno, bisognerà fornire tanti allegati B quanto il numero dei procuratori?” aveva risposto affermativamente, evidenziando, in alternativa, la possibilità da parte del concorrente di “produrre, in luogo degli Allegati A e B, unicamente l’Allegato A sottoscritto dal legale rappresentante che elenchi ai punti c) e d) tutti i soggetti indicati nella norma, compresi i procuratori”.
In ogni caso, come asserito finanche dall’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici nella determinazione n. 4 del 10.10.2012, costituisce causa di esclusione sia la mancanza di uno dei requisiti soggettivi di cui all’art. 38 del Codice, a prescindere dalle indicazioni riportate nel bando di gara, che, oltre all’ipotesi di falsità, l’omissione o l’incompletezza delle dichiarazioni da rendersi ai sensi dell’art. 38 da parte di tutti i soggetti alle stesse tenute. Tali omissioni costituiscono, di per sé, motivo di esclusione dalla procedura ad evidenza pubblica anche in assenza di una espressa previsione del bando di gara (cfr. pag. 8 della deliberazione succitata, oltre che la deliberazione 16.05.2012, n. 74; cfr, altresì, Cons. Stato, sez. III, 04.05.2012, n. 2557).
Del resto, tale interpretazione della norma si ricava anche alla luce delle enunciazioni contenute nella direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, il cui art. 45, intitolato: “situazione personale del candidato o dell’offerente” al par. 1, ultimo alinea, stabilisce che, ai fini del controllo dell’insussistenza dei precedenti penali in capo ai concorrenti, “le richieste riguarderanno le persone giuridiche e/o le persone fisiche, compresi, se del caso, i dirigenti delle imprese o qualsiasi persona che eserciti il potere di rappresentanza, di decisione o di controllo del candidato o dell’offerente”.
L’opzione ermeneutica sostanzialistica preferita dal collegio risponde, dunque, anche ad un canone interpretativo conforme al diritto europeo, dal quale deriva tutta la disciplina sugli appalti pubblici vigente nell’ordinamento italiano.
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iguardo, infine, all’unico motivo aggiunto dedotto da CAF, concernente la asserita violazione dell’art. 38, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 163/2006, deve premettersi che, per giurisprudenza consolidata, la norma di esclusione non ha carattere sanzionatorio, ma contempla una misura a presidio dell'elemento fiduciario, che esclude di per sé qualsiasi automatismo, perché l'esclusione deve essere il risultato di una "motivata valutazione"; in tema di contenzioso per l'esclusione da gara di appalto ai sensi dell'art. 38, comma 1, lett. f), d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (inadempimenti in precedenti contratti) la decisione di esclusione per "deficit di fiducia" è frutto di una valutazione discrezionale della stazione appaltante, alla quale il legislatore riserva la individuazione del "punto di rottura dell'affidamento" nel pregresso o futuro contraente; pertanto il controllo del g.a. su tale valutazione discrezionale deve essere svolto "ab estrinseco", ed è diretto ad accertare il ricorrere di seri indici di simulazione, ma non è mai sostitutivo (Cons. Stato, sez. VI, 15.05.2012, n. 2761);
In tema di esclusione da una gara pubblica ex art. 38, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 163 del 2006, la gravità della generica negligenza o dell'inadempimento a specifiche obbligazioni contrattuali va commisurata al pregiudizio arrecato alla fiducia, all'affidamento che la stazione appaltante deve poter riporre, "ex ante", nell'impresa cui decide di affidare l'esecuzione di un nuovo rapporto contrattuale (Cons. Stato, sez. V, 21.01.2011, n. 409)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV sentenza 22.01.2013 n. 183 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALa normativa in materia di bonifiche di cui all'art. 17 d.lgs. 05.02.1997 n. 22 è applicabile a qualunque situazione di inquinamento ancora in atto al momento dell'entrata in vigore del decreto legislativo, indipendentemente dal momento in cui possa essere avvenuto il fatto o i fatti generatori dell’attuale situazione patologica. A tale conclusione si deve pervenire, ove si ponga mente al fatto che l’inquinamento dà luogo ad una situazione di carattere permanente che perdura finché non vengano rimosse le cause ed i parametri ambientali alterati siano riportati entro i limiti normativamente accettabili.
L’obbligo di messa in sicurezza e di successiva bonifica è la semplice conseguenza oggettiva dell’aver cagionato l’inquinamento. Il complesso delle norme in tema di bonifica non sono altro che l’applicazione alla materia in esame (si potrebbe dire, la procedimentalizzazione nella materia in esame) della norma generale dell’art. 2043 c.c. (il cui disposto esiste da quando esiste il diritto), secondo cui ogni soggetto è tenuto a reintegrare il danno che abbia cagionato con il proprio comportamento. Norma generale che, d’altronde, è a sua volta espressione del principio, ancor più generale, di responsabilità, in base al quale ciascuno risponde delle proprie azioni (ed omissioni, naturalmente) (il c.d. principio comunitario del chi inquina paga ne costituisce ulteriore specificazione in materia ambientale).
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La responsabilità dell'inquinatore e quella del proprietario si fondano su presupposti giuridici diversi ed hanno differente natura.
La responsabilità dell'autore dell'inquinamento, ai sensi dell'art. 17, comma 2, del D.Lgs. 22/1997, costituisce una vera e propria forma di responsabilità oggettiva per gli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale conseguenti alla contaminazione delle aree inquinate. La natura oggettiva della responsabilità in questione è desumibile che l'obbligo di effettuare gli interventi di legge sorge, in base all'art. 17, comma 2, del D.Lgs. 22/1997, in connessione con una condotta "anche accidentale", ossia a prescindere dall'esistenza di qualsiasi elemento soggettivo doloso o colposo in capo all'autore dell'inquinamento.
Ai fini della responsabilità in questione è comunque pur sempre necessario il rapporto di causalità tra l'azione (o l'omissione) dell'autore dell'inquinamento ed il superamento -o pericolo concreto ed attuale di superamento- dei limiti di contaminazione, in coerenza col principio comunitario "chi inquina paga", principio che risulta espressamente richiamato dall'art. 15 della direttiva n. 91/156, di cui il D.Lgs. del 1997 costituisce recepimento.
Sensibilmente diversa si presenta invece la posizione del proprietario del sito, per la responsabilità del quale occorre fare riferimento al comma 10 dell'art. 17, che dispone che gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale costituiscono onere reale sulle aree inquinate; il comma 11 del medesimo articolo dispone poi altresì che le spese sostenute per la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale sono assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime, esercitabile anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi sull'immobile.
Ne consegue che chi subentra nella proprietà o possesso del bene subentra anche negli obblighi connessi all'onere reale, indipendentemente dal fatto che ne abbia avuto preventiva conoscenza. Quella posta in capo al proprietario dall'art. 17, commi 10 e 11, è pertanto una responsabilità "da posizione", non solo svincolata dai profili soggettivi del dolo o della colpa, ma che non richiede neppure l'apporto causale del proprietario responsabile al superamento o pericolo di superamento dei valori limite di contaminazione.
È quindi evidente che il proprietario del suolo -che non abbia apportato alcun contributo causale, neppure incolpevole, all'inquinamento- non si trova in alcun modo in una posizione analoga od assimilabile a quella dell'inquinatore, essendo tenuto a sostenere i costi connessi agli interventi di bonifica esclusivamente in ragione dell'esistenza dell'onere reale sul sito.
Il responsabile diretto e principale della bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale è invece individuato, sia dall'art. 17, commi 2 e 3, del D.Lgs. 22/1997, che dagli artt. 7 e 8 del D.M. 471/1999, esclusivamente in colui che abbia cagionato l'inquinamento.
Ciò è stato reso ancora più evidente dall'art. 8 dal citato D.M., il quale individua, in conformità all'art. 17, comma 3, nel responsabile dell'inquinamento il destinatario dell'ordinanza comunale di diffida ad adottare gli interventi necessari in relazione allo stato di contaminazione dei suoli, prevedendo invece che la stessa ordinanza debba essere "comunque notificata anche al proprietario del sito" ma solo "ai sensi e per gli effetti dell'articolo 17, commi 10 e 11, del decreto legislativo 05.02.1997, n. 22", e cioè in relazione all'esistenza dell'onere reale sulle aree inquinate, che deve essere indicato nel certificato di destinazione urbanistica, ed al privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime.
Il proprietario del sito a cui non sia imputabile, neppure in parte, la contaminazione dello stesso, non è pertanto tenuto né ad attivare di propria iniziativa il procedimento previsto dall'art. 17 comma 2, né ad ottemperare all'ordinanza comunale che imponga la bonifica del sito notificatagli, come si è detto, solo in ragione dell'esistenza dell'onere reale.
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Il complesso di questa disciplina è rispondente ai dettami del diritto comunitario ed, in particolare, al principio “chi inquina paga” che va -come è tradizione nella giurisprudenza comunitaria– interpretato in senso sostanzialistico, in modo da non pregiudicare l’efficacia del diritto comunitario.
Il principio “chi inquina paga” consiste, in definitiva, nell’imputazione dei costi ambientali (c.d. esternalità ovvero costi sociali estranei alla contabilità ordinaria dell’impresa) al soggetto che ha causato la compromissione ecologica illecita (poiché esiste una compromissione ecologica lecita data dall’attività di trasformazione industriale dell’ambiente che non supera gli standards legali).
Ciò, sia in una logica risarcitoria ex post factum, che in una logica preventiva dei fatti dannosi, poiché il principio esprime anche il tentativo di internalizzare detti costi sociali e di incentivare –per effetto del calcolo dei rischi di impresa- la loro generalizzata incorporazione nei prezzi delle merci, e, quindi, nelle dinamiche di mercato dei costi di alterazione dell’ambiente (con conseguente minor prezzo delle merci prodotte senza incorrere nei predetti costi sociali attribuibili alle imprese e conseguente indiretta incentivazione per le imprese a non danneggiare l’ambiente).
Esso trova molteplici significative applicazioni nel campo della disciplina dei rifiuti e del danno ambientale.
Con specifico riguardo alla contaminazione dei siti, pare rilevante quanto stabilito dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 21.04.2004, “sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale”. Anche tale direttiva è conformata dal principio “chi inquina paga” che emerge dal diciottesimo considerando della direttiva: “secondo il principio “chi inquina paga, l’operatore che provoca un danno ambientale o è all’origine di una minaccia imminente di tale danno, dovrebbe di massima sostenere il costo delle necessarie misure di prevenzione o di riparazione. Quando l’autorità competente interviene direttamente o tramite terzi al posto di un operatore, detta autorità dovrebbe far sì che il costo da essa sostenuto sia a carico dell’operatore. E’ inoltre opportuno che gli operatori sostengano in via definitiva il costo della valutazione del danno ambientale ed eventualmente della valutazione della minaccia imminente di tale danno.”
La direttiva non si applica al danno di carattere diffuso se non in presenza di un nesso causale tra il danno e l’attività di singoli operatori.
Va quindi precisato, alla luce di tale esigenza di effettività della protezione dell’ambiente, che, ferma la doverosità degli accertamenti indirizzati ad individuare con specifici elementi i responsabili dei fatti di contaminazione, l’imputabilità dell’inquinamento può avvenire per condotte attive ma anche per condotte omissive, e che la prova può essere data in via diretta od indiretta, ossia, in quest’ultimo caso, l’amministrazione pubblica preposta alla tutela ambientale si può avvalere anche di presunzioni semplici di cui all’art. 2727 cod. civ, (le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato), prendendo in considerazione elementi di fatto dai quali possano trarsi indizi gravi precisi e concordanti, che inducano a ritenere verosimile, secondo l’“id quod plerumque accidit” che sia verificato un inquinamento e che questo sia attribuibile a determinati autori.

Il Collegio, pur dovendo dare atto che nel senso propugnato dai ricorrenti si è recentemente espressa la Cassazione (cfr. Sez. I civile 21.10.2011, n. 21887), ritiene preferibile l’opposta tesi -già recentemente affermata dalla Sezione (cfr. TAR Brescia, Sez. I, 19.07.2011, n. 1081) e costituente giurisprudenza consolidata del G.A.- secondo cui la normativa in materia di bonifiche di cui all'art. 17 d.lgs. 05.02.1997 n. 22 è applicabile a qualunque situazione di inquinamento ancora in atto al momento dell'entrata in vigore del decreto legislativo, indipendentemente dal momento in cui possa essere avvenuto il fatto o i fatti generatori dell’attuale situazione patologica (cfr. Cons. St., Sez. VI, 09.10.2007, n. 5283, TAR Parma, 28.06.2011, n. 218; TAR Toscana; Sez. II 01.04.2011, n. 573). A tale conclusione si deve pervenire, ove si ponga mente al fatto che l’inquinamento dà luogo ad una situazione di carattere permanente che perdura finché non vengano rimosse le cause ed i parametri ambientali alterati siano riportati entro i limiti normativamente accettabili (cfr. Cons. Stato, sez. V, 05.12.2008, n. 6055).
Con riguardo, poi, all’asserzione, fatta dai ricorrenti, che nel 1975 il riempimento della cava costituisse attività lecita, in quanto la prima disciplina in tema di discariche è stata dettata dal D.P.R. n. 915 del 1982, vanno richiamati i rilievi svolti nella sentenza n. 1081/2011 della Sezione, con la quale è stato rilevato che <<l’obbligo di messa in sicurezza e di successiva bonifica è la semplice conseguenza oggettiva dell’aver cagionato l’inquinamento. Il complesso delle norme in tema di bonifica non sono altro che l’applicazione alla materia in esame (si potrebbe dire, la procedimentalizzazione nella materia in esame) della norma generale dell’art. 2043 c.c. (il cui disposto esiste da quando esiste il diritto), secondo cui ogni soggetto è tenuto a reintegrare il danno che abbia cagionato con il proprio comportamento. Norma generale che, d’altronde, è a sua volta espressione del principio, ancor più generale, di responsabilità, in base al quale ciascuno risponde delle proprie azioni (ed omissioni, naturalmente) (il c.d. principio comunitario del chi inquina paga ne costituisce ulteriore specificazione in materia ambientale)>>.
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In punto di diritto è necessario ripercorrere il sistema normativo delineato dal D.Lgs. n. 22/1997, alla stregua della condivisibile ricostruzione fattane del Consiglio di Stato (cfr. Sez. VI, 15.07.2010 n. 4561): <<Il d.lgs. n. 22/1997, applicabile ratione temporis, alle ordinanze impugnate …prevede che accanto alle responsabilità dell'inquinatore si collocano, ad ulteriore garanzia dell'esecuzione degli interventi previsti, quelle del proprietario del sito inquinato.
La responsabilità dell'inquinatore e quella del proprietario si fondano su presupposti giuridici diversi ed hanno differente natura.
La responsabilità dell'autore dell'inquinamento, ai sensi dell'art. 17, comma 2, del D.Lgs. 22/1997, costituisce una vera e propria forma di responsabilità oggettiva per gli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale conseguenti alla contaminazione delle aree inquinate. La natura oggettiva della responsabilità in questione è desumibile che l'obbligo di effettuare gli interventi di legge sorge, in base all'art. 17, comma 2, del D.Lgs. 22/1997, in connessione con una condotta "anche accidentale", ossia a prescindere dall'esistenza di qualsiasi elemento soggettivo doloso o colposo in capo all'autore dell'inquinamento.
Ai fini della responsabilità in questione è comunque pur sempre necessario il rapporto di causalità tra l'azione (o l'omissione) dell'autore dell'inquinamento ed il superamento -o pericolo concreto ed attuale di superamento- dei limiti di contaminazione, in coerenza col principio comunitario "chi inquina paga", principio che risulta espressamente richiamato dall'art. 15 della direttiva n. 91/156, di cui il D.Lgs. del 1997 costituisce recepimento.
Sensibilmente diversa si presenta invece la posizione del proprietario del sito, per la responsabilità del quale occorre fare riferimento al comma 10 dell'art. 17, che dispone che gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale costituiscono onere reale sulle aree inquinate; il comma 11 del medesimo articolo dispone poi altresì che le spese sostenute per la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale sono assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime, esercitabile anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi sull'immobile.
Ne consegue che chi subentra nella proprietà o possesso del bene subentra anche negli obblighi connessi all'onere reale, indipendentemente dal fatto che ne abbia avuto preventiva conoscenza. Quella posta in capo al proprietario dall'art. 17, commi 10 e 11, è pertanto una responsabilità "da posizione", non solo svincolata dai profili soggettivi del dolo o della colpa, ma che non richiede neppure l'apporto causale del proprietario responsabile al superamento o pericolo di superamento dei valori limite di contaminazione.
È quindi evidente che il proprietario del suolo -che non abbia apportato alcun contributo causale, neppure incolpevole, all'inquinamento- non si trova in alcun modo in una posizione analoga od assimilabile a quella dell'inquinatore, essendo tenuto a sostenere i costi connessi agli interventi di bonifica esclusivamente in ragione dell'esistenza dell'onere reale sul sito.
Il responsabile diretto e principale della bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale è invece individuato, sia dall'art. 17, commi 2 e 3, del D.Lgs. 22/1997, che dagli artt. 7 e 8 del D.M. 471/1999, esclusivamente in colui che abbia cagionato l'inquinamento.
Ciò è stato reso ancora più evidente dall'art. 8 dal citato D.M., il quale individua, in conformità all'art. 17, comma 3, nel responsabile dell'inquinamento il destinatario dell'ordinanza comunale di diffida ad adottare gli interventi necessari in relazione allo stato di contaminazione dei suoli, prevedendo invece che la stessa ordinanza debba essere "comunque notificata anche al proprietario del sito" ma solo "ai sensi e per gli effetti dell'articolo 17, commi 10 e 11, del decreto legislativo 05.02.1997, n. 22", e cioè in relazione all'esistenza dell'onere reale sulle aree inquinate, che deve essere indicato nel certificato di destinazione urbanistica, ed al privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime.
Il proprietario del sito a cui non sia imputabile, neppure in parte, la contaminazione dello stesso, non è pertanto tenuto né ad attivare di propria iniziativa il procedimento previsto dall'art. 17 comma 2, né ad ottemperare all'ordinanza comunale che imponga la bonifica del sito notificatagli, come si è detto, solo in ragione dell'esistenza dell'onere reale (C.d.S. n. 4525/2005)
>>.
Ancora, è stato posto in luce dal Supremo Consesso Amministrativo (cfr. Sez. V, 16.06.2009 n. 3885) che: <<Il complesso di questa disciplina è rispondente ai dettami del diritto comunitario ed, in particolare, al principio “chi inquina paga” che va -come è tradizione nella giurisprudenza comunitaria– interpretato in senso sostanzialistico, in modo da non pregiudicare l’efficacia del diritto comunitario (per un richiamo all’effettività come criterio guida nell’interpretazione del diritto comunitario ambientale cfr. Corte di giustizia Ce 15.06.2000 in causa Arco).
Il principio “chi inquina paga” consiste, in definitiva, nell’imputazione dei costi ambientali (c.d. esternalità ovvero costi sociali estranei alla contabilità ordinaria dell’impresa) al soggetto che ha causato la compromissione ecologica illecita (poiché esiste una compromissione ecologica lecita data dall’attività di trasformazione industriale dell’ambiente che non supera gli standards legali).
Ciò, sia in una logica risarcitoria ex post factum, che in una logica preventiva dei fatti dannosi, poiché il principio esprime anche il tentativo di internalizzare detti costi sociali e di incentivare –per effetto del calcolo dei rischi di impresa- la loro generalizzata incorporazione nei prezzi delle merci, e, quindi, nelle dinamiche di mercato dei costi di alterazione dell’ambiente (con conseguente minor prezzo delle merci prodotte senza incorrere nei predetti costi sociali attribuibili alle imprese e conseguente indiretta incentivazione per le imprese a non danneggiare l’ambiente).
Esso trova molteplici significative applicazioni nel campo della disciplina dei rifiuti e del danno ambientale.
Con specifico riguardo alla contaminazione dei siti, pare rilevante quanto stabilito dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 21.04.2004, “sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale”. Anche tale direttiva è conformata dal principio “chi inquina paga” che emerge dal diciottesimo considerando della direttiva: “secondo il principio “chi inquina paga, l’operatore che provoca un danno ambientale o è all’origine di una minaccia imminente di tale danno, dovrebbe di massima sostenere il costo delle necessarie misure di prevenzione o di riparazione. Quando l’autorità competente interviene direttamente o tramite terzi al posto di un operatore, detta autorità dovrebbe far sì che il costo da essa sostenuto sia a carico dell’operatore. E’ inoltre opportuno che gli operatori sostengano in via definitiva il costo della valutazione del danno ambientale ed eventualmente della valutazione della minaccia imminente di tale danno.”
La direttiva non si applica al danno di carattere diffuso –ma tale non è il caso di specie- se non in presenza di un nesso causale tra il danno e l’attività di singoli operatori.
Va quindi precisato, alla luce di tale esigenza di effettività della protezione dell’ambiente, che, ferma la doverosità degli accertamenti indirizzati ad individuare con specifici elementi i responsabili dei fatti di contaminazione, l’imputabilità dell’inquinamento può avvenire per condotte attive ma anche per condotte omissive, e che la prova può essere data in via diretta od indiretta, ossia, in quest’ultimo caso, l’amministrazione pubblica preposta alla tutela ambientale si può avvalere anche di presunzioni semplici di cui all’art. 2727 cod. civ, (le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato), prendendo in considerazione elementi di fatto dai quali possano trarsi indizi gravi precisi e concordanti, che inducano a ritenere verosimile, secondo l’“id quod plerumque accidit” che sia verificato un inquinamento e che questo sia attribuibile a determinati autori
.>>
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 21.01.2013 n. 50 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’'istituto della conferenza di servizi -disciplinato dagli artt. 14 ss., l. 07.08.1990 n. 241- è caratterizzato da una struttura dicotomica, articolata in una fase che si conclude con la determinazione della conferenza (anche se di tipo decisorio), di valenza endoprocedimentale, e in una successiva fase che si conclude con l'adozione del provvedimento finale, di valenza esoprocedimentale effettivamente determinativa della fattispecie.
Invero, secondo il preferibile maggioritario indirizzo giurisprudenziale (cfr. ex multis TAR Lazio, Sez. 2, 04.09.2012, n. 7533; TAR Sardegna, Sez. II 15.09.2011, n. 929; Cons. St. Sez. VI 18.04.2011 n. 2378), l’'istituto della conferenza di servizi -disciplinato dagli artt. 14 ss., l. 07.08.1990 n. 241- è caratterizzato da una struttura dicotomica, articolata in una fase che si conclude con la determinazione della conferenza (anche se di tipo decisorio), di valenza endoprocedimentale, e in una successiva fase che si conclude con l'adozione del provvedimento finale, di valenza esoprocedimentale effettivamente determinativa della fattispecie.
Pertanto, risulta inammissibile il ricorso proposto direttamente avverso il verbale della conferenza di servizi
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 21.01.2013 n. 50 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn sede giurisdizionale è possibile l’annullamento parziale di un provvedimento amministrativo quando quest'ultimo abbia un contenuto scindibile ed il vizio denunciato riguardi solo una parte di esso, che conseguentemente possa essere eliminata lasciando che il provvedimento continui, per la parte residua, ad esplicare i propri effetti, sempre che la parte eliminata non alteri o snaturi il contenuto dell’atto.
Si tratta dunque di fare applicazione del generale principio di conservazione degli atti giuridici (che trova eco nel brocardo utile per inutile non vitiatur), che è applicabile anche al diritto amministrativo in quanto conforme ai principi di legalità, imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa espressi dall’articolo 97 della Costituzione: infatti, sarebbe irragionevole ed illogico annullare interamente un provvedimento amministrativo quando soltanto una parte di esso è viziata ed il vizio non ha effetti invalidanti su tutti gli effetti che esso è destinato a produrre.

In generale, occorre rammentare (cfr. Cons. St, Sez. IV, 17.07.1996, n. 869; TAR Napoli. Sez. V, 02.08.2001 n. 3690) che in sede giurisdizionale è possibile l’annullamento parziale di un provvedimento amministrativo quando quest'ultimo abbia un contenuto scindibile ed il vizio denunciato riguardi solo una parte di esso, che conseguentemente possa essere eliminata lasciando che il provvedimento continui, per la parte residua, ad esplicare i propri effetti, sempre che la parte eliminata non alteri o snaturi il contenuto dell’atto (cfr. Cons. St., Sez. V, 03.10.1989, n. 592).
Si tratta dunque di fare applicazione del generale principio di conservazione degli atti giuridici (che trova eco nel brocardo utile per inutile non vitiatur), che è applicabile anche al diritto amministrativo in quanto conforme ai principi di legalità, imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa espressi dall’articolo 97 della Costituzione: infatti, sarebbe irragionevole ed illogico annullare interamente un provvedimento amministrativo quando soltanto una parte di esso è viziata ed il vizio non ha effetti invalidanti su tutti gli effetti che esso è destinato a produrre
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 21.01.2013 n. 50 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’avvenuta equiparazione, ad opera dell’art. 86 del D.lgs. 259/2003, alle opere di urbanizzazione primaria degli impianti di telecomunicazione non priva l’Ente locale della prerogativa di esercitare il potere di pianificazione anche nei riguardi di detti impianti, sempre che, anche per l’aspetto urbanistico, le misure previste non impediscano, in ragione della loro eventuale portata restrittiva, l’attuarsi dell’interesse, di rilievo nazionale, alla capillare distribuzione del servizio.
Le stazioni radio-base per la telefonia mobile non possono, infatti, essere considerate opere di scarsa "rilevanza urbanistica", trattandosi, anzi, assai spesso di strutture imponenti idonee a determinare una significativa trasformazione della morfologia di un determinato territorio, tant’è che è che lo stesso DPR 380/2001 sancisce expressis verbis che la loro realizzazione deve essere subordinata al previo ottenimento di un titolo edilizio.
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La qualificazione nell’ambito di tale categoria non comporta, infatti, la esenzione da ogni forma di regolamentazione urbanistica, ma soltanto il fatto che la disciplina del piano regolatore debba tener presente la necessità che tutto il territorio comunale debba essere coperto da un segnale sufficiente affinché che gli utenti possano fruire del servizio di telefonia e collegarsi con la rete ad una velocità adeguata agli standard odierni.
Sicché, mentre debbono considerarsi illegittime quelle previsioni urbanistiche che precludono in toto l’installazione delle s.r.b. in intere zone del territorio comunale o in altro modo ostacolano il corretto svolgimento del servizio, non altrettanto può dirsi di quelle previsioni localizzative che, nel disciplinare la collocazione sul territorio dei predetti impianti, non presentino elementi di irragionevolezza e arbitrarietà tali da costituire un ingiustificato ostacolo allo sviluppo della rete.

La giurisprudenza amministrativa ha, infatti, avuto modo di statuire come l’avvenuta equiparazione, ad opera dell’art. 86 del citato D.lgs. 259/2003, alle opere di urbanizzazione primaria degli impianti di telecomunicazione non priva l’Ente locale della prerogativa di esercitare il potere di pianificazione anche nei riguardi di detti impianti, sempre che, anche per l’aspetto urbanistico, le misure previste non impediscano, in ragione della loro eventuale portata restrittiva, l’attuarsi dell’interesse, di rilievo nazionale, alla capillare distribuzione del servizio.
Le stazioni radio-base per la telefonia mobile non possono, infatti, essere considerate opere di scarsa "rilevanza urbanistica", trattandosi, anzi, assai spesso di strutture imponenti idonee a determinare una significativa trasformazione della morfologia di un determinato territorio, tant’è che è che lo stesso DPR 380/2001 sancisce expressis verbis che la loro realizzazione deve essere subordinata al previo ottenimento di un titolo edilizio.
Chiarito ciò a nulla rileva che si tratti di opere di urbanizzazione.
La qualificazione nell’ambito di tale categoria non comporta, infatti, la esenzione da ogni forma di regolamentazione urbanistica, ma soltanto il fatto che la disciplina del piano regolatore debba tener presente la necessità che tutto il territorio comunale debba essere coperto da un segnale sufficiente affinché che gli utenti possano fruire del servizio di telefonia e collegarsi con la rete ad una velocità adeguata agli standard odierni.
Sicché, mentre debbono considerarsi illegittime quelle previsioni urbanistiche che precludono in toto l’installazione delle s.r.b. in intere zone del territorio comunale o in altro modo ostacolano il corretto svolgimento del servizio, non altrettanto può dirsi di quelle previsioni localizzative che, nel disciplinare la collocazione sul territorio dei predetti impianti, non presentino elementi di irragionevolezza e arbitrarietà tali da costituire un ingiustificato ostacolo allo sviluppo della rete (Consiglio di Stato Sezione VI nn. 3040/2005 e 6961/2005; TAR Toscana sez. I, 05.03.2007, n. 285) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 18.01.2013 n. 164 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444 detta una prescrizione tassativa e inderogabile, in quanto finalizzata alla salvaguardia dell'interesse pubblico sanitario a mantenere una determinata intercapedine tra gli edifici che si fronteggiano quando uno dei due abbia una parete finestrata.
La norma -emanata in forza dell'art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, aggiunto dall'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765– è dettata in materia inerente all'ordinamento civile, rientrante, come tale, nella competenza legislativa esclusiva dello Stato: essa non può, pertanto, trovare un limite nella classificazione -differente rispetto a quella prevista dall’art. 2 del d.m. n. 1444/1968- delle zone omogenee in cui è articolato il territorio comunale delineata all’art. 10, l.reg. Lombardia n. 12/2005, pena l’incostituzionalità della legge regionale stessa.
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L’art. 103, c. 1-bis, l.reg. Lombardia n. 12/2005, inserito dalla l.reg. Lombardia n. 4/2008, dispone che “Ai fini dell'adeguamento, ai sensi dell'articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici vigenti, non si applicano le disposizioni del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765), fatto salvo, limitatamente agli interventi di nuova costruzione, il rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a dieci metri, derogabile all'interno di piani attuativi”.
Questa norma deve essere interpretata conformemente a quanto sostenuto dalla giurisprudenza, nel senso che rientrano nella nozione di nuova costruzione ai fini del computo delle distanze legali dagli altri edifici, non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche interventi, quali quelli di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente.

L’art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444 prescrive che la distanza tra pareti finestrate di edifici frontisti non sia inferiore a dieci metri per le nuove edificazioni consentite in zone diverse dal centro storico (zona A), posto che in questo ultimo -dove vige il generale divieto di costruzioni "ex novo"- la norma si limita a disporre che la distanza non sia inferiore a quella intercorrente tra i volumi edificati preesistenti.
Per giurisprudenza unanime, la norma detta una prescrizione tassativa e inderogabile, in quanto finalizzata alla salvaguardia dell'interesse pubblico sanitario a mantenere una determinata intercapedine tra gli edifici che si fronteggiano quando uno dei due abbia una parete finestrata (Cassazione civile sez. II, 27.05.2011, n. 11842).
La norma -emanata in forza dell'art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, aggiunto dall'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765– è dettata in materia inerente all'ordinamento civile, rientrante, come tale, nella competenza legislativa esclusiva dello Stato: essa non può, pertanto, trovare un limite nella classificazione -differente rispetto a quella prevista dall’art. 2 del d.m. n. 1444/1968- delle zone omogenee in cui è articolato il territorio comunale delineata all’art. 10, l.reg. Lombardia n. 12/2005, pena l’incostituzionalità della legge regionale stessa.
Nel caso di specie, l’immobile non ricade nel centro storico né all’interno del nucleo urbano di antica formazione (aree in cui la facoltà di ampliamento in questione non è neppure consentita dall’art. 3, c. 1, l.reg. Lombardia n. 13/2009), zone che possono ritenersi corrispondenti alla zona A di cui al d.m. n. 1444/1968: esso soggiace, pertanto alla norma sulle distanze dettata all’art. 9, c. 1, n. 2.
Né, per escludere l’applicabilità della norma del d.m. 1444/1968 al caso di specie, può validamente invocarsi la previsione di cui all’art. 103, l.reg. Lombardia n. 12/2005 e la qualificazione dell’intervento quale ristrutturazione e non quale nuova costruzione.
L’art. 103, c. 1-bis, l.reg. Lombardia n. 12/2005, inserito dalla l.reg. Lombardia n. 4/2008, dispone che “Ai fini dell'adeguamento, ai sensi dell'articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici vigenti, non si applicano le disposizioni del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765), fatto salvo, limitatamente agli interventi di nuova costruzione, il rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a dieci metri, derogabile all'interno di piani attuativi”.
Questa norma deve essere interpretata conformemente a quanto sostenuto dalla giurisprudenza, nel senso che rientrano nella nozione di nuova costruzione ai fini del computo delle distanze legali dagli altri edifici, non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche interventi, quali quelli di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente (cfr.: cass. civ., sez. 2, sent. 27.04.2006, n. 9637; cass. civ., sez. 2, sent. 26.10.2000, n. 14128; TAR Milano Lombardia sez. II, 10.12.2010, n. 7505).
L’intervento edilizio in questione, che prevede l’ampliamento, entro il limite del 20% della volumetria esistente, così come consentito dall’art. 3, c. 1 e 2, l.reg. Lombardia n. 13/2009, a prescindere dalla sua qualificazione quale nuova costruzione o quale ristrutturazione edilizia, porta indubbiamente alla realizzazione di un’opera oggettivamente diversa da quella preesistente: esso soggiace, pertanto, al limite di distanza previsto all’art. 9, c. 1, n. 2, d.m. n. 1444/1968.
Attesa la legittimità del motivo di diniego legato al contrasto con l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, gli ulteriori motivi di ricorso –che si appuntano avverso le altre ragioni di diniego addotte dall’amministrazione- anche ove fondati, non porterebbero comunque all’annullamento dell’atto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.01.2013 n. 157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn presenza di un provvedimento sostenuto da più motivi, ciascuno autonomamente idoneo a darne giustificazione, la giurisprudenza è, difatti, concorde nel ritenere sufficiente che sia verificata la legittimità di uno di essi, per escludere che l’atto possa essere annullato in sede giurisdizionale.
In presenza di un provvedimento sostenuto da più motivi, ciascuno autonomamente idoneo a darne giustificazione, la giurisprudenza è, difatti, concorde nel ritenere sufficiente che sia verificata la legittimità di uno di essi, per escludere che l’atto possa essere annullato in sede giurisdizionale (Cons. Stato , sez. V, 29.05.2006, n. 3259) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.01.2013 n. 157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa Sezione ha già avuto modo di rilevare che:
a) “la verifica circa il mancato rispetto della distanza dal confine di proprietà private non costituisce incombente istruttorio, atteso che le stazioni radio base, per le loro caratteristiche strutturali, non paiono equiparabili alle costruzioni ex art. 873 del codice civile, e che, di conseguenza, l’onere di contestazione sullo specifico profilo incombe sul proprietario privato eventualmente leso”, quest’ultimo risultando l’unico legittimato attivo a proporre la relativa azione;
b) in merito al rapporto tra i criteri di localizzazione e gli standard urbanistici, la giurisprudenza costituzionale ha statuito che “la genericità ed eterogeneità delle categorie di aree e di edifici rispetto a cui il vincolo di distanza minima viene previsto, configurano non già un quadro di prescrizioni o standard urbanistici, bensì un potere amministrativo in contrasto con il principio di legalità sostanziale e tale da poter pregiudicare l’interesse, protetto dalla legislazione nazionale, alla realizzazione delle reti di telecomunicazione”.
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In tema di distanze nelle costruzioni, qualora gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine e nulla aggiungano sulla possibilità di costruire “in aderenza” o “in appoggio”, la preclusione di dette facoltà non consente l’operatività del principio della prevenzione; nel caso in cui, invece, tali facoltà siano previste, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dall’articolo 873 c.c. e segg., con la conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell’alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza (eventualmente esercitando le opzioni previste dall’articolo 875 c.c. e articolo 877 c.c., comma 2), ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico.
Di qui la funzione e la rilevanza della deroga, diretta a consentire l’esercizio delle predette facoltà che, diversamente, sarebbero precluse dalla regola ordinaria sulle distanze dal confine e tra fabbricati.

Con il terzo, quarto e quinto motivo –anche questi da esaminare congiuntamente, in quanto incentrati sulla violazione delle medesime disposizioni– la società ricorrente ha dedotto che le caratteristiche costruttive e dimensionali dello shelter (si tratta della cabina adibita al contenimento degli apparati di trasmissione e ricezione dei segnali telefonici) e la distanza di tale pertinenza dal vicino magazzino non sarebbero ostative alla legittima realizzazione della stazione radio-base (cfr. pag. 9); che non vi sarebbe violazione della disciplina delle distanze alla luce dell’assenza di intersoggettività (“vale a dire dalla diversa proprietà dei due edifici”, cfr. pag. 10); che, infine, le norme sul rispetto delle distanze non sarebbero “automaticamente né analogicamente applicabili agli impianti di telefonìa cellulare che hanno peculiarità e caratteristiche costruttive tali da imporne una separata valutazione” (cfr. pag. 12).
Sul punto, il Comune di Cesano Maderno ha replicato che l’art. 9 del D.M. 1444/1968 per i nuovi edifici stabilisce che “è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti” (cfr. pag. 12).
Anche tali motivi meritano accoglimento, per tre diverse ragioni.
In primo luogo, la Sezione (cfr. ordinanza TAR Lombardia–Milano, sez. I, 06.12.2012, n. 1681), ha già avuto modo di rilevare che:
a) “la verifica circa il mancato rispetto della distanza dal confine di proprietà private non costituisce incombente istruttorio, atteso che le stazioni radio base, per le loro caratteristiche strutturali, non paiono equiparabili alle costruzioni ex art. 873 del codice civile, e che, di conseguenza, l’onere di contestazione sullo specifico profilo incombe sul proprietario privato eventualmente leso”, quest’ultimo risultando l’unico legittimato attivo a proporre la relativa azione (Corte di Cassazione, sez. II, 11.01.2006, n. 213);
b) in merito al rapporto tra i criteri di localizzazione e gli standard urbanistici, la giurisprudenza costituzionale ha statuito che “la genericità ed eterogeneità delle categorie di aree e di edifici rispetto a cui il vincolo di distanza minima viene previsto, configurano non già un quadro di prescrizioni o standard urbanistici, bensì un potere amministrativo in contrasto con il principio di legalità sostanziale e tale da poter pregiudicare l’interesse, protetto dalla legislazione nazionale, alla realizzazione delle reti di telecomunicazione” (cfr. Corte Costituzionale, 07.10.2003, n. 307).
In seconda battuta, osserva il Collegio che l’art. 40 del regolamento edilizio, pur fissando il rispetto di una distanza minima di 10 metri tra le costruzioni, ha nondimeno previsto che “i privati possono convenzionare tra loro la costruzione in aderenza, a confine”.
Trova, pertanto, applicazione il principio, di recente ribadito dalla Corte di Cassazione, secondo cui “in tema di distanze nelle costruzioni, qualora gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine e nulla aggiungano sulla possibilità di costruire “in aderenza” o “in appoggio”, la preclusione di dette facoltà non consente l’operatività del principio della prevenzione; nel caso in cui, invece, tali facoltà siano previste, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dall’articolo 873 c.c. e segg., con la conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell’alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza (eventualmente esercitando le opzioni previste dall’articolo 875 c.c. e articolo 877 c.c., comma 2), ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico (Cass. nn. 8465/2010, 11899/2002, 13286/2000 e 12103/1998). Di qui la funzione e la rilevanza della deroga, diretta a consentire l’esercizio delle predette facoltà che, diversamente, sarebbero precluse dalla regola ordinaria sulle distanze dal confine e tra fabbricati” (cfr. Corte di Cassazione, sez. II, 12.10.2012, n. 17472) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 16.01.2013 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAGli impianti radio-base di telefonia mobile di potenza totale non superiore a 300 Watt non richiedono, in ossequio al disposto della normativa della regione Lombardia, specifica regolamentazione urbanistica, per cui sono illegittime le disposizioni pianificatorie comunali che introducano in termini assoluti divieti di installazione per simili impianti.
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E' da escludere che il gestore del servizio di telefonia mobile abbia la necessità di ottenere un ulteriore titolo edilizio, diverso dall’autorizzazione ex d.lgs. n. 259/2003.

Invero, come già più volte ribadito anche dalla giurisprudenza di questa Sezione, gli impianti radio-base di telefonia mobile di potenza totale non superiore a 300 Watt (come quello di cui è causa) non richiedono, in ossequio al disposto della normativa della regione Lombardia, specifica regolamentazione urbanistica, per cui sono illegittime le disposizioni pianificatorie comunali che introducano in termini assoluti divieti di installazione per simili impianti (cfr., da ultimo: TAR Lombardia, sez. I, sent. 23.10.2012, n. 2567).
Risulta altresì fondata l’affermazione della ricorrente secondo cui avrebbe errato il comune di Lodi a pretendere, nel caso di specie, una d.i.a. in forma di variante alla concessione edilizia originaria, in quanto è da escludere che il gestore del servizio di telefonia mobile abbia la necessità di ottenere un ulteriore titolo edilizio, diverso dall’autorizzazione ex d.lgs. n. 259/2003 (così, tra le altre, Cons. di Stato, sez. VI, 12.01.2011, n. 98) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 16.01.2013 n. 134 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZILa Corte di Giustizia ha manifestato preferenza per un approccio sostanzialista in tema di raggruppamenti temporanei di imprese e, per logica estensione, riguardo ai raggruppamenti temporanei di professionisti, specificando, con riguardo all’istituto dell’avvalimento, ma con ricadute di carattere sistematico sul piano generale, che “la direttiva 92/50 va interpretata nel senso che consente ad un prestatore, per comprovare il possesso dei requisiti economici, finanziari e tecnici di partecipazione ad una gara d'appalto ai fini dell'aggiudicazione di un appalto pubblico di servizi, di far riferimento alle capacità di altri soggetti, qualunque sia la natura giuridica dei vincoli che ha con essi, a condizione che sia in grado di provare di disporre effettivamente dei mezzi di tali soggetti necessari all'esecuzione dell'appalto”.
Il Collegio muove, anzitutto, dal principio di libertà di scelta delle forme di collaborazione tra imprese, che costituisce diretta derivazione del diritto comunitario e rappresenta, pertanto, il canone di interpretazione dell’art. 53 del D.lgs. 163/2006, norma da leggere nel senso del pieno riconoscimento della facoltà di articolare liberamente i rapporti professionali tra concorrenti e progettisti.
A tal riguardo, occorre, infatti, richiamare l’elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia, che ha manifestato preferenza per un approccio sostanzialista in tema di raggruppamenti temporanei di imprese e, per logica estensione, riguardo ai raggruppamenti temporanei di professionisti, specificando, con riguardo all’istituto dell’avvalimento, ma con ricadute di carattere sistematico sul piano generale, che “la direttiva 92/50 va interpretata nel senso che consente ad un prestatore, per comprovare il possesso dei requisiti economici, finanziari e tecnici di partecipazione ad una gara d'appalto ai fini dell'aggiudicazione di un appalto pubblico di servizi, di far riferimento alle capacità di altri soggetti, qualunque sia la natura giuridica dei vincoli che ha con essi, a condizione che sia in grado di provare di disporre effettivamente dei mezzi di tali soggetti necessari all'esecuzione dell'appalto” (cfr. Corte giustizia CE, sez. V, 02.12.1999, C-176/98).
Sulla scorta di tale principio ermeneutico, il Collegio si associa all’orientamento, reiteratamente affermato in giurisprudenza (cfr., tra le tante, TAR Lazio – Roma, sez. I, 17.04.2008 n. 3305), e fatto proprio dalle società ricorrenti in via principale, secondo cui i progettisti non assumono la qualità di concorrenti, né quella di titolari del rapporto contrattuale con l’Amministrazione in caso di eventuale aggiudicazione.
Non può, quindi, ritenersi compatibile con la disciplina comunitaria, improntata al visto principio di liberalizzazione delle forme di collaborazione professionale, l’interpretazione restrittiva dell’art. 37, comma 8, sostenuta dalla ricorrente incidentale, non potendosi in alcun modo giustificare l’eventuale esclusione dalla procedura di gara per mancanza della dichiarazione “D” (cfr. pag. 7 del disciplinare di gara) relativa all’impegno dei professionisti ad impegnarsi a costituire un raggruppamento per l’esecuzione dei servizi di progettazione: previsione che, pur prevedendo la comminatoria di esclusione, deve considerarsi come non apposta per contrasto diretto con il diritto comunitario.
Le medesime considerazioni conducono il Collegio a ritenere infondato anche il secondo motivo del ricorso incidentale, nel quale è stata dedotta la mancata indicazione, nella documentazione amministrativa delle ricorrenti principali, del professionista laureato con meno di cinque anni di iscrizione all’albo professionale.
E ciò, non soltanto in ragione della tradizionale interpretazione della disposizione di cui all’art. 253, comma 5, del D.P.R. 207/2010 (e, prima di questa, dell’art. 51 del D.P.R. 554/1999), finalizzata a promuovere la partecipazione dei giovani professionisti onde garantire a questi la possibilità di svolgere “un utile apprendistato e arricchire il proprio bagaglio curricolare” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 24.10.2006, n. 6347), quanto, altresì, in esito all’esame obiettivo della disciplina di gara (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 16.01.2013 n. 128 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAVa considerata “illegittima l’ordinanza di sgombero di rifiuti rivolta al proprietario del fondo [e, a maggior ragione, ad altro soggetto], in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell’Amministrazione procedente dell’imputabilità soggettiva della condotta, ancorché fondata su ragionevoli presunzioni o su condivisibili massime d’esperienza, atteso che, ai sensi dell’art. 192, d.lgs. 03.04.2006 n. 152, la responsabilità [in tale ambito] non è di natura oggettiva, ma è ravvisabile soltanto se l’Amministrazione dimostri la sussistenza dell’elemento psicologico di dolo o colpa alla base della condotta omissiva o commissiva”.
Come già sostenuto da questa Sezione con riferimento alla medesima questione, va considerata “illegittima l’ordinanza di sgombero di rifiuti rivolta al proprietario del fondo [e, a maggior ragione, ad altro soggetto], in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell’Amministrazione procedente dell’imputabilità soggettiva della condotta, ancorché fondata su ragionevoli presunzioni o su condivisibili massime d’esperienza, atteso che, ai sensi dell’art. 192, d.lgs. 03.04.2006 n. 152, la responsabilità [in tale ambito] non è di natura oggettiva, ma è ravvisabile soltanto se l’Amministrazione dimostri la sussistenza dell’elemento psicologico di dolo o colpa alla base della condotta omissiva o commissiva” (TAR Lombardia, Milano, IV, 14.12.2012, n. 3042).
Nel caso di specie i rifiuti sono stati rinvenuti sull’area di proprietà di un soggetto diverso dalla ricorrente, che ha soltanto prestato la sua opera per conto del proprietario, e tale area è situata nelle vicinanze di una piazzola ecologica il cui accesso non risulta adeguatamente regolamentato, con la conseguente maggiore difficoltà ad individuare una responsabilità da parte di soggetti ben specifici (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 14.01.2013 n. 93 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: L’ordinamento sovranazionale recepito dalla Repubblica, anche a fronte della sopravvenuta irreversibile trasformazione del suolo per effetto della realizzazione di un’opera pubblica astrattamente riconducibile al compendio demaniale necessario e nonostante l’espressa domanda in tal senso di parte ricorrente, esclude la possibilità di una condanna puramente risarcitoria a carico dell’amministrazione, poiché una tale pronuncia postula l’avvenuto trasferimento della proprietà del bene, per fatto illecito, dalla sfera giuridica del ricorrente, originario proprietario, a quella della P.A. che se ne è illecitamente impossessata; esito, questo (comunque sia ricostruito in diritto: rinuncia abdicativa implicita nella domanda solo risarcitoria, ovvero accessione invertita), vietato dal primo protocollo addizionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Né la realizzazione dell’opera pubblica può costituire impedimento alla restituzione dell’area illegittimamente appresa e ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione acquisitiva od usurpativa- di acquisizione del terreno.
Donde la necessità in ogni caso di un passaggio intermedio finalizzato all’acquisto della proprietà del bene da parte dell’ente espropriante.

Nel merito della controversia, occorre muovere dal mancato perfezionamento della procedura espropriativa nel termine dato e dall’irreversibile trasformazione dei beni occupati, denunciata sin dal momento introduttivo del giudizio dinanzi al giudice ordinario.
Orbene, osserva il collegio che l’ordinamento sovranazionale recepito dalla Repubblica, anche a fronte della sopravvenuta irreversibile trasformazione del suolo per effetto della realizzazione di un’opera pubblica astrattamente riconducibile al compendio demaniale necessario e nonostante l’espressa domanda in tal senso di parte ricorrente, esclude la possibilità di una condanna puramente risarcitoria a carico dell’amministrazione, poiché una tale pronuncia postula l’avvenuto trasferimento della proprietà del bene, per fatto illecito, dalla sfera giuridica del ricorrente, originario proprietario, a quella della P.A. che se ne è illecitamente impossessata; esito, questo (comunque sia ricostruito in diritto: rinuncia abdicativa implicita nella domanda solo risarcitoria, ovvero accessione invertita), vietato dal primo protocollo addizionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 03.10.2012 n. 5189).
Né la realizzazione dell’opera pubblica può costituire impedimento alla restituzione dell’area illegittimamente appresa e ciò indipendentemente dalle modalità -occupazione acquisitiva od usurpativa- di acquisizione del terreno (cfr. C. cost. 04.10.2010 n. 293; Cons. Stato, Sez. V, 02.11.2011 n. 5844).
Donde la necessità in ogni caso di un passaggio intermedio finalizzato all’acquisto della proprietà del bene da parte dell’ente espropriante (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16.11.2007 n. 5830; TAR Campania, Salerno, Sez. II, 14.01.2011 n. 43).
Tale passaggio, allo stato della legislazione vigente, è costituito dall’art. 42-bis del T.U. 08.06.2001 n. 327 (rubricato: “utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”), introdotto dall’art. 34 del decreto-legge 06.07.2011 n. 98, che così recita: “1. Valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene.
2. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l’annullamento degli atti di cui al primo periodo del presente comma, se l’amministrazione che ha adottato l’atto impugnato lo ritira. In tali casi, le somme eventualmente già erogate al proprietario a titolo di indennizzo, maggiorate dell’interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo.
3. Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, l’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma 1 è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l’occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell’articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7. Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l’interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma.
4. Il provvedimento di acquisizione, recante l’indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell’area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, è specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione; nell’atto è liquidato l’indennizzo di cui al comma 1 e ne è disposto il pagamento entro il termine di trenta giorni. L’atto è notificato al proprietario e comporta il passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ai sensi del comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell’articolo 20, comma 14; è soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell’amministrazione procedente ed è trasmesso in copia all’ufficio istituito ai sensi dell’articolo 14, comma 2.
5 Se le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 4 sono applicate quando un terreno sia stato utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata o convenzionata, ovvero quando si tratta di terreno destinato a essere attribuito per finalità di interesse pubblico in uso speciale a soggetti privati, il provvedimento è di competenza dell’autorità che ha occupato il terreno e la liquidazione forfetaria dell’indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale è pari al venti per cento del valore venale del bene.
6. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale; in tal caso l’autorità amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari, può procedere all’eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia.
7. L’autorità che emana il provvedimento di acquisizione di cui al presente articolo né dà comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti mediante trasmissione di copia integrale.
8. Le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico a disporre l’acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate dell’interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo
”.
Ed allora, affinché l’interesse primario della parte lesa possa essere soddisfatto, deve imporsi all’amministrazione di rinnovare, entro trenta giorni dalla notificazione della presente sentenza, la valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico all’eventuale acquisizione dei fondi per cui è causa, adottando, all’esito di essa, un provvedimento col quale gli stessi, in tutto od in parte, siano alternativamente:
a) acquisiti non retroattivamente al patrimonio indisponibile comunale;
b) restituiti in tutto od in parte al legittimo proprietario entro novanta giorni, previo ripristino dello stato di fatto esistente al momento dell’apprensione.
Nel primo caso, il provvedimento di acquisizione:
- dovrà specificare se interessa l’intero compendio occupato o solo parte di esso, disponendo la restituzione del fondo rimanente entro novanta giorni, previo ripristino dello stato di fatto esistente al momento dell’apprensione;
- dovrà prevedere che, entro il termine di trenta giorni, ai proprietari in solido sia corrisposto il valore venale del bene, nonché un indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale, forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del medesimo valore venale;
- dovrà recare l’indicazione delle circostanze che hanno condotto all’indebita utilizzazione dell’area e la data dalla quale essa ha avuto inizio e dovrà specificamente motivare sulle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione;
- dovrà essere notificato ai proprietari e comporterà il passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell’art. 20, comma 14, D.P.R. 08.06.2001 n. 327;
- sarà soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell’amministrazione procedente e sarà trasmesso in copia all’ufficio istituito ai sensi dell’art. 14, comma 2, D.P.R. 08.06.2001 n. 327, nonché comunicato, entro trenta giorni, alla Corte dei conti, mediante trasmissione di copia integrale.
Resta inteso che i predetti termini, disposti nell’esclusivo interesse del ricorrente, potranno essere aumentati su autorizzazione scritta da parte di questi ed inoltre che tutte le questioni che dovessero insorgere nella fase di conformazione alla presente decisione potranno formare oggetto di incidente di esecuzione e risolte, se del caso, tramite commissario ad acta.
Sia nel caso a) che nel caso b), il provvedimento da emanarsi dovrà contenere la liquidazione, in favore dei ricorrenti ed a titolo risarcitorio, di una somma in denaro pari all’applicazione del saggio di interesse del cinque per cento annuo sul valore venale dell’intero bene occupato per tutto il periodo di occupazione senza titolo, che decorre dalla scadenza del termine finale per l’espropriazione (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 11.01.2013 n. 58 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il termine decadenziale per l’impugnativa di una deliberazione comunale decorre dalla data di notifica o comunicazione dell’atto, o da quella dell’effettiva piena conoscenza, soltanto per i soggetti direttamente contemplati nell’atto o che siano immediatamente incisi dai suoi effetti anche se in esso non contemplati, mentre per i terzi il termine decadenziale dell’impugnativa decorre dalla data di pubblicazione all’albo pretorio.
- che, per costante giurisprudenza (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 13.07.2010 n. 4501), il termine decadenziale per l’impugnativa di una deliberazione comunale decorre dalla data di notifica o comunicazione dell’atto, o da quella dell’effettiva piena conoscenza, soltanto per i soggetti direttamente contemplati nell’atto o che siano immediatamente incisi dai suoi effetti anche se in esso non contemplati, mentre per i terzi il termine decadenziale dell’impugnativa decorre dalla data di pubblicazione all’albo pretorio;
- che nella fattispecie i ricorrenti non sono soggetti destinatari del provvedimento e, per essere proprietari di unità immobiliari ubicate in area estranea a quella interessata dall’intervento, non hanno titolo alla notifica nei loro confronti dell’atto di approvazione del progetto, sicché vanno annoverati tra quelli per i quali il combinato disposto dell’art. 41 cod.proc.amm. e dell’art. 124 del d.lgs. n. 267 del 2000 considera sufficiente la pubblicazione dell’atto all’albo pretorio (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 11.01.2013 n. 20 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALa gestione del servizio attinente alla rete autostradale è senz’altro riconducibile alla nozione di servizio pubblico essenziale, tale espressamente definito dal C.C.N.L. 06.07.1995, artt. 1, lett. f) e 2, n. 8, sicché il potere di ordinanza riferito al contenimento dell’inquinamento acustico derivante da tale servizio non può che essere attribuito, come la disposizione sopra indicata chiaramente prevede, al presidente del Consiglio dei Ministri.
Sicché, è illegittima l’ordinanza con la quale il Sindaco ha ordinato alla società ricorrente l’esecuzione di alcune opere e la predisposizione di misure idonee ed adeguate alla riconduzione a limiti di legge delle immissioni rumorose derivanti dall’esercizio della gestione del trasporto autostradale nei tratti di pertinenza comunali per i quali l’ARTA Abruzzo ha accertato l’avvenuto superamento dei valori limite di immissione.

E’ in contestazione la legittimità dell’ordinanza sindacale meglio in epigrafe individuata con la quale il Sindaco del Comune di Silvi ha ordinato alla società ricorrente l’esecuzione di alcune opere e la predisposizione di misure idonee ed adeguate alla riconduzione a limiti di legge delle immissioni rumorose derivanti dall’esercizio della gestione del trasporto autostradale nei tratti di pertinenza comunali per i quali l’ARTA Abruzzo ha accertato l’avvenuto superamento dei valori limite di immissione.
La ricorrente deduce che la questione è regolamentata da specifiche disposizioni normative e regolamentari che disciplinerebbero modalità e tempi per la predisposizione, per l’intera rete autostradale, delle misure in questione e che quindi l’ordinanza sindacale sarebbe resa in elusione delle norme sovraordinate (allo scopo di anticiparne gli effetti) e comunque in difetto dei presupposti generalmente richiesti per le ordinanze contingibili ed urgenti; inoltre, l’ordinanza sarebbe resa in palese incompetenza, stante il disposto di cui all’art. 9 della legge 447/1995 (legge quadro in materia di inquinamento acustico), che attribuirebbe detto potere, in caso di servizi pubblici essenziali, al Presidente del Consiglio dei Ministri.
Reputa il Collegio preliminare la disamina di quest’ultimo rilievo sollevato da parte ricorrente, ossia la prospettata questione dell’incompetenza del Sindaco ad emanare ordinanze contingibili ed urgenti in materia di inquinamento acustico nel caso, che nella specie ricorrerebbe, di servizi pubblici essenziali.
A termini dell’art. 9, comma 1, della l. n.447/1995 (“Legge quadro sull’inquinamento acustico”), “qualora sia richiesto da eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute pubblica o dell’ambiente il sindaco, il presidente della provincia, il presidente della giunta regionale, il prefetto, il ministro dell’ambiente, secondo quanto previsto dall’articolo 8 della L. 03.03.1987, n. 59, e il presidente del consiglio dei ministri, nell’ambito delle rispettive competenze, con provvedimento motivato, possono ordinare il ricorso temporaneo a speciali forme di contenimento o di abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l’inibitoria parziale o totale di determinate attività. Nel caso di servizi pubblici essenziali, tale facoltà è riservata esclusivamente al presidente del consiglio dei ministri”.
La disposizione in questione anzitutto prevede espressamente la possibilità di emanare, in subiecta materia, ordinanze contingibili ed urgenti in caso ricorrano “eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute pubblica o dell’ambiente”, ma riserva il potere di ordinanza alle Autorità rispettivamente indicate, secondo le competenze di ciascuno, individuando, tuttavia, il presidente del Consiglio dei ministri “nel caso di servizi pubblici essenziali”, all’evidente scopo di uniformare l’azione amministrativa applicata alle enucleate peculiari fattispecie ove incidenti su servizi pubblici essenziali.
La gestione del servizio attinente alla rete autostradale è senz’altro riconducibile alla nozione di servizio pubblico essenziale, tale espressamente definito dal C.C.N.L. 06.07.1995, artt. 1, lett. f) e 2, n. 8, sicché il potere di ordinanza riferito al contenimento dell’inquinamento acustico derivante da tale servizio non può che essere attribuito, come la disposizione sopra indicata chiaramente prevede, al presidente del Consiglio dei Ministri.
In positiva ed assorbente delibazione dell’indicato rilievo, il ricorso va dunque accolto con l’annullamento dell’atto impugnato (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 10.01.2013 n. 8 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Aria. Realizzazione di impianto in difetto di autorizzazione.
Il reato di realizzazione di impianto in difetto di autorizzazione era previsto dall’art. 24, comma 1, del d.P.R. n. 203 del 1998, ora sostituito dall'art. 279, comma 1, del d.lgs. 03.04.2006, n. 152.
Appare evidente dalla lettura della disposizione che l’avvio delle operazioni di costruzione di un impianto che possa produrre immissioni in atmosfera deve essere preceduto dal rilascio delle autorizzazioni previste dalla disciplina vigente.
Appare, altresì, evidente che la formulazione della norma e la struttura del reato impongono di attribuire a quest’ultimo natura di reato permanente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.01.2013 n. 192 - tratto da www.lexambiente.it).

APPALTILa circostanza che un concorrente a gara pubblica abbia puntualmente seguito le indicazioni fornite dalla medesima stazione appaltante nella modulistica ufficiale non può andare in danno del medesimo, anche nel caso in cui detta modulistica non risulti esattamente conforme alle prescrizioni della legge di gara, dovendo prevalere in tal caso, a fronte di un'obiettiva incertezza ingenerata dagli atti predisposti dalla stazione appaltante e della buona fede che va riconosciuta al concorrente, il principio del favor partecipationis.
... ritenuto che il ricorso cautelare non appare –ad un primo sommario esame– provvisto di elementi di fumus boni iuris, in quanto, con riferimento al primo motivo dedotto:
a) l’oggetto dell’affidamento pare riconducibile ai servizi di cui all’allegato II B (“Servizi relativi all'istruzione”) del d.lgs. 163/2006 per i quali non si applicano le disposizioni del medesimo testo legislativo, salvo espresso e specifico richiamo, nel caso di specie mancante;
b) la circostanza che un concorrente a gara pubblica abbia puntualmente seguito le indicazioni fornite dalla medesima stazione appaltante nella modulistica ufficiale non può andare in danno del medesimo, anche nel caso in cui detta modulistica non risulti esattamente conforme alle prescrizioni della legge di gara, dovendo prevalere in tal caso, a fronte di un'obiettiva incertezza ingenerata dagli atti predisposti dalla stazione appaltante e della buona fede che va riconosciuta al concorrente, il principio del favor partecipationis (cfr. Cons. St., Sez. VI, 06.08.2012, n. 4519 e Cons. St., Sez. V, 05.07.2011 n. 4029; TAR Torino Piemonte Sez. I, 19.04.2012, n. 458 e 15.06.2012, n. 717) (TAR Piemonte, Sez. I, ordinanza 21.12.2012 n. 656 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'identità di volumetria e sagoma è condizione essenziale per distinguere l'intervento di ristrutturazione o restauro/risanamento conservativo da quello di nuova costruzione.
Gli interventi di restauro e risanamento conservativo (come definiti dall'art. 31, comma 1, lett. c), l. 05.08.1978 n. 457) sono caratterizzati, infatti, dall'essere rivolti a conservare l'organismo edilizio preesistente nel rispetto dei suoi elementi tipologici, formali e strutturali, senza modificarne l'identità, la fisionomia e la struttura, né la volumetria, e senza comportare, quindi, la creazione di un organismo edilizio, in tutto o in parte, diverso dal precedente.
Gli interventi di "risanamento conservativo", in particolare, si differenziano sostanzialmente dalla "demolizione con ricostruzione", sia perché non prevedono, come detto, un intervento autorizzato di demolizione diretto alla completa eliminazione della struttura preesistente, sia essa fatiscente o degradata oppure no; sia perché sono volti a conservare, recuperandolo sul piano strutturale ed estetico, l'aspetto e le caratteristiche originarie edilizie attraverso una serie di opere -anche di decostruzione- che, all'esito dei lavori, non determinano un aliquid novi, in quanto assicurano non solo il rispetto della morfologia della vecchia struttura, ma anche il mantenimento di una parte dei precedenti elementi.
Ne consegue che qualora si realizzino nuovi volumi sopraelevando o ampliando l'edificio originario sì da vita ad un nuovo edificio.

Per appurare se le opere per cui è causa rientrino nella nozione di “restauro e risanamento conservativo”, occorre prendere in esame le planimetrie allegate alla prima istanza di condono, dalle quali risulta un’altezza del fabbricato di 3,20 m su un lato e di 2,80 sull’altro, e metterle a confronto con il rapporto dell’Ufficio Tecnico Comunale del 03.08.1995: da quest’ultimo documento emerge che i muri sui quattro lati presentano un’altezza di circa 3,20 m dal piano di campagna circostante e che 17 colonne verticali sporgono dalle murature perimetrali.
Dalla perizia di parte allegata in atti si evince che tali pilastri sono stati progettati con “funzione strutturale di supporto dell’eventuale solaio sottotetto e della copertura”. Si tratta di strutture non presenti nel preesistente fabbricato (come si evince dalla documentazione fotografica allegata alla stessa perizia).
Si deve concludere che la realizzazione di pilastri sporgenti dalle mura perimetrali che definivano l’altezza del fabbricato preesistente, introduca un elemento di difformità della sagoma, e quindi del volume, del manufatto preesistente.
La circostanza assume rilievo in quanto l'identità di volumetria e sagoma è condizione essenziale per distinguere l'intervento di ristrutturazione o restauro/risanamento conservativo da quello di nuova costruzione (cfr. Cons. St., sez. VI, 15.06.2010, n. 3744 e 09.07.2010, n. 4462; Cass. Pen, Sez. III, 26.10.2007, n. 47046; TAR Campania Napoli sez. IV 08.03.2012, n. 1169 e Sez. II, 25.03.2010, n. 1611).
Qualora, infatti, l'opera comporti la realizzazione di un nuovo volume, essa esula dagli interventi del primo tipo.
Gli interventi di restauro e risanamento conservativo (come definiti dall'art. 31, comma 1, lett. c), l. 05.08.1978 n. 457) sono caratterizzati, infatti, dall'essere rivolti a conservare l'organismo edilizio preesistente nel rispetto dei suoi elementi tipologici, formali e strutturali, senza modificarne l'identità, la fisionomia e la struttura, né la volumetria, e senza comportare, quindi, la creazione di un organismo edilizio, in tutto o in parte, diverso dal precedente.
Gli interventi di "risanamento conservativo", in particolare, si differenziano sostanzialmente dalla "demolizione con ricostruzione", sia perché non prevedono, come detto, un intervento autorizzato di demolizione diretto alla completa eliminazione della struttura preesistente, sia essa fatiscente o degradata oppure no; sia perché sono volti a conservare, recuperandolo sul piano strutturale ed estetico, l'aspetto e le caratteristiche originarie edilizie attraverso una serie di opere -anche di decostruzione- che, all'esito dei lavori, non determinano un aliquid novi, in quanto assicurano non solo il rispetto della morfologia della vecchia struttura, ma anche il mantenimento di una parte dei precedenti elementi (cfr. TAR Trento Trentino Alto Adige sez. I, 09.06.2011, n. 172; TAR Napoli Campania sez. VI, 10.02.2010, n. 844).
Ne consegue che qualora si realizzino nuovi volumi sopraelevando o ampliando l'edificio originario sì da vita ad un nuovo edificio (TAR Piemonte sez. II, 11.04.2012, n. 440; TAR Napoli Campania sez. VIII 23.02.2011, n. 1048; TAR Liguria sez. I, 30.06.2009, n. 1621; nello stesso senso Cassazione penale sez. III, 06.05.2010 n. 21351).
Stante l’ampliamento di volume e sagoma conseguente alla sopraelevazione del solaio di copertura, va escluso che l’intervento per cui è causa potesse essere ricollegato alla precedente istanza di condono; va escluso, parimenti, che lo stesso potesse essere qualificato come risanamento conservativo, e quindi assentito tramite semplice d.i.a. (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 11.12.2012 n. 1320 - link a www.giustizia-amministrativa).

EDILIZIA PRIVATA: Beni culturali. Riconoscimento del particolare interesse storico-artistico di un immobile ex art. 10 D.Lgs. 42/2003.
E’ Illegittimo l’avvio del procedimento della Soprintendenza per i beni architettonici e paesistici della Sardegna, per il riconoscimento del particolare interesse storico-artistico con riferimento a tre villini siti in Cagliari senza specifica motivazione.
La mera e generica circostanza tipologica che un fabbricato rappresenti una testimonianza di un tipo di costruzione di un particolare periodo storico non è di per sé elemento sufficiente a giustificare l’adozione di un provvedimento individuale e concreto, che, con il suo effetto incide particolarmente sulle facoltà inerenti al diritto di proprietà. Infatti, qualsiasi fabbricato è di per sé testimonianza di un tipo di costruzione del proprio periodo nella zona in cui si trova.
Al tempo stesso, un apprezzamento basato sulla mera valenza documentaria non è sufficiente per individuare giuridicamente un bene culturale, in questa operazione non si può infatti prescindere da un elemento valutativo concreto, incentrato sul pregio distinto, selettivo e irripetibile della singola cosa e dunque sul riferimento specifico agli elementi che costituiscono questo pregio (l’interesse “particolarmente importante” dell’art. 10, comma 3, lett. a), del D.Lgs 42/2004 Codice dei beni culturali e del paesaggio) (tratto da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.12.2012 n. 6293 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La parziale compromissione di un’area con vincolo paesistico non giustifica il rilascio di provvedimenti di sanatoria.
Non è consentito al Comune di prescindere dai valori paesistici giuridicamente tutelati, in considerazione della loro frequente violazione per effetto del fenomeno dell’abusivismo. Infatti, come di recente chiarito dal Consiglio di Stato “ove la trasformazione illecitamente realizzata in assenza di autorizzazione e di concessione edilizia dovesse condizionare, per le modificazioni introdotte, di fatto, al territorio la valutazione paesaggistica, da un lato non avrebbe significato che il legislatore continui a condizionare la sanatoria alla previa autorizzazione paesaggistica, e, d’altra parte, vanificherebbe la tutela, sostanzialmente rimessa alla volontà degli amministrati di non perpetrare e realizzare interventi abusivi".
L’avvenuta parziale compromissione di un’area vincolata non giustifica il rilascio di provvedimenti atti a comportarne l’ulteriore degrado, ma richiede, semmai, una maggiore attenzione da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo al fine di preservare gli spazi residui da un ulteriore vulnus dei valori ambientali tutelati (tratto da www.lexambiente.it - TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 05.12.2012 n. 10167 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sviluppo sostenibile. Autorizzazione unica ex art. 12 del D.Lgs. 387/2003 e conferenza di servizi.
L’articolo 12 del D.Lgs. 387/2003 prevede che l'autorizzazione unica debba essere rilasciata a seguito di un procedimento unico articolato secondo il modulo della Conferenza di servizi. Alla conferenza, ai sensi del comma 4 dell'articolo 12 citato, "partecipano tutte le Amministrazioni interessate", con il che è ribadito il carattere di doverosità della presenza di tutti i soggetti pubblici coinvolti nel procedimento autorizzatorio.
Ne consegue che la mancata indizione della Conferenza di servizi o la mancata partecipazione di amministrazioni titolari per legge di una competenza primaria, non può che comportare l’illegittimità dell'autorizzazione unica, in quanto risulta frustrato l’intento, proprio di tale normativa, di favorire la composizione degli interessi coinvolti nel procedimento, attraverso la previsione di una sede unitaria di confronto reputata come la più idonea a superare eventuali ragioni di dissenso (tratto da www.lexambiente.it - TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 05.12.2012 n. 1291 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: FER, per l'autorizzazione unica procedimento rigido.
L'autorizzazione unica prevista in attuazione della direttiva comunitaria sullo sviluppo dell'energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità è illegittima nel caso di mancata partecipazione alla conferenza di servizi, delle Amministrazioni titolari per legge di una competenza primaria, in quanto risulta frustrato l'intento della norma di favorire la composizione degli interessi coinvolti nel procedimento, attraverso la previsione di una sede unitaria di confronto, reputata come la più idonea a superare eventuali ragioni di dissenso.
L’art. 12 del decreto legislativo 29.12.2003, n. 387 di attuazione della direttiva comunitaria sullo sviluppo dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità prevede che l’autorizzazione unica debba essere rilasciata a seguito di un procedimento unico articolato secondo il modulo della conferenza di servizi decisoria, la cui obbligatorietà discende dalla necessaria presenza di tutti i soggetti pubblici coinvolti nel procedimento.
A chiarire ulteriormente la natura e la funzione del modello procedimentale sopra menzionato, è intervenuto il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, Sezione Prima, che ha accolto il ricorso proposto dallaFederazione Nazionale Pro Natura e da un Comitato di cittadini per l’annullamento della determinazione dirigenziale della Provincia di Alessandria, con cui sono state autorizzate, in base al citato articolo 12, l’installazione e la gestione di un impianto di produzione di energia elettrica alimentato da biocombustibili forestali e agricoli nel Comune di Carrosio.
Il Collegio ha osservato che la conferenza di servizi cui fa riferimento l’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003 appartiene al modello decisorio previsto dal secondo comma dell’art. 14 della legge n. 241 del 1990, a lettera del quale tale istituto deve essere adottato quando l’Amministrazione procedente debba acquisire atti di assenso di altri enti pubblici e non li ottenga, entro trenta giorni dalla ricezione della relativa richiesta. Giova precisare che le singole Amministrazioni che partecipano ai lavori sono titolari di competenze specifiche e autonome, esercitate, per ragioni di semplificazione, nell’ambito di un solo procedimento teso all’adozione di una decisione pluristrutturata, che non ha valenza di provvedimento e che in quanto tale non è suscettibile di autonoma impugnazione.
Nel caso in disamina, il Giudice ha dedotto che a fronte di una determina di autorizzazione da cui emerge che il contributo della Soprintendenza per i beni archeologici del Piemonte è essenziale, l’esame dei suoi apporti è stato sottratto al contraddittorio della conferenza dei servizi che, da un lato, ha subordinato al rilascio del parere definitivo della Soprintendenza medesima l’avvio del cantiere, attribuendo valore vincolante a tutte le eventuali relative prescrizioni, e, dall’altro, ha sottratto tali prescrizioni ad ogni possibilità di verifica in contraddittorio con le altre Amministrazioni partecipanti alla conferenza.
Eppure, le Linee Guida nazionali di cui al D.M. 10/09/2010 n. 47987 dispongono che la Soprintendenza debba essere informata dal proponente per verificare la sussistenza di procedimenti di tutela ovvero di procedure di accertamento della sussistenza di beni archeologici. Si tratta di previsione che amplia l’oggetto dell’istruttoria, ricomprendendovi l’accertamento dell’eventuale pendenza di procedimenti finalizzati alla dichiarazione di interesse culturale o paesaggistico del sito su cui deve sorgere l’impianto, e che è volta, altresì, a consentire alla Soprintendenza di far valere le esigenze di tutela pertinenti a tale interesse, sia partecipando alla conferenza di servizi, sia adottando provvedimenti cautelativi (Tar Piemonte, Sez. I, 30.08.2012, n. 987).
Nel ritenere l’autorizzazione illegittima a causa del mancato coinvolgimento degli organi della Soprintendenza nelle attività della conferenza di servizi indetta dalla Provincia di Alessandria, il Tar ha ribadito che lo strumento della conferenza dei servizi unitaria, cui debbono partecipare tutti i soggetti pubblici aventi titolo a pronunciarsi sulla realizzazione dell’impianto di produzione di energia elettrica con fonti rinnovabili, è stato prescelto dal legislatore non solo per semplificare il procedimento e renderlo più celere, ma soprattutto per far sì che i soggetti pubblici coinvolti possano maturare il proprio parere “nella piena consapevolezza del complesso degli elementi di valutazione addotti da tutti i partecipanti, in modo che la valutazione finale di sintesi di competenza dell'autorità procedente sia sostenuta da una istruttoria per quanto possibile completa e, comunque, non risulti privata di alcun apporto previsto dalle norme dello specifico procedimento.
Il legislatore del 2003 ha tracciato un procedimento di autorizzazione unitario per favorire il superamento di possibili divergenze di opinioni e il raggiungimento di posizioni condivise, così da non pregiudicare la realizzazione di opere ritenute strategiche sia dall’ordinamento nazionale che da quello comunitario.
Quanto detto è avvalorato dagli articoli 14-ter, comma 3 bis, e 14-quater, primo comma, della legge n. 241 del 1990, secondo cui se le opere da autorizzare in conferenza di servizi sono sottoposte anche ad autorizzazione paesaggistica, il parere del Soprintendente deve essere manifestato a pena di inammissibilità nella conferenza di servizi stessa.
Per ragioni analoghe a quelle sopra esposte il Tribunale amministrativo di primo grado ha annullato l’autorizzazione impugnata per contrasto con il principio secondo cui il procedimento unico definito dall’art. 12 del d.lgs. n. 387/2003 ha carattere omnicomprensivo ed assorbe ogni altro procedimento, in quanto nella conferenza di servizi in concreto espletata non è stato esaminato ed approvato anche il progetto definitivo della rete di teleriscaldamento, che è parte integrante del progetto medesimo, siccome indispensabile per valutarne la funzionalità, l’impatto ambientale e la razionalità dei costi in rapporto ai benefici (commento ratto da www.ipsoa.it - TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 05.12.2012 n. 1291 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Condono edilizio e autorizzazione paesaggistica.
In relazione al condono edilizio, la disciplina rilevante è contenuta negli artt. 31 e seguenti della legge n. 47 del 1985. In particolare, l’art. 32 della predetta legge dispone che «il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo», quale è quello in esame, «è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso».
La giurisprudenza di questo Consiglio ha affermato che il predetto parere ha natura e funzioni identiche all’autorizzazione paesaggistica ex art. 7 della legge 29.06.1939 n. 1497, per essere entrambi gli atti il presupposto legittimante la trasformazione urbanistico edilizia della zona protetta, sicché resta fermo il potere ministeriale di annullamento del parere favorevole alla sanatoria di un manufatto realizzato in zona vincolata, in quanto strumento affidato dall’ordinamento allo Stato, come estrema difesa del paesaggio, valore costituzionale primario (tale equiparazione opera anche per le autorizzazioni paesaggistiche disciplinate dagli artt. 151 e 159 del d.lgs. n. 490 del 1999 e per il parere previsto dall’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004) (tratto da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.12.2012 n. 6216 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente”, sicché non può ammettersi “la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive”, con conseguente “obbligo del comune di ordinarne la demolizione.
Ciò nella precisazione che tanto non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento della medesima sanzione prevista per l’immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985, ancora applicabile per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione condonistica (art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 ed art. 32 della l. 24.11.2003, n. 326); procedure a seguirsi rigidamente, anche per quanto attiene alle modalità di presentazione dell’istanza, sia al fine di conferire certezze in ordine allo stato dei luoghi che ad evitarsi postumi (tentativi di) disconoscimenti della circostanza che, come previsto dalla legge, l’esecuzione delle opere, pur se autorizzate, avviene sotto la propria responsabilità, ovverosia nella piena consapevolezza -resa esplicita dal ricorso espresso alla procedura ex art. 35 cit.- che, sebbene interventi di natura eminentemente conservativa possono essere ammessi, si sta agendo assumendo espressamente a proprio carico rischi e pericoli connessi, cosicché se il condono verrà negato si dovrà demolire anche le migliorie apportate.
In definitiva, “in siffatte evenienze, ovvero in presenza di reiterazione dei comportamenti abusivi, la misura repressiva costituisce atto dovuto, che non può essere evitata nell’assunto che per le opere realizzate non fosse necessario il permesso di costruire o che avessero natura pertinenziale; ciò perché, in caso di prosecuzione dei lavori di un immobile già oggetto di domanda di condono, vale il diverso principio in forza del quale è la prosecuzione in sé dei lavori ad essere preclusa, senza che sia possibile distinguere tra opere pertinenziali e non, tra opere soggette al permesso di costruire ed opere realizzabili con d.i.a.” ed avendo presente che la valutazione degli interventi sanzionati va effettuata nel loro insieme in quanto “la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione”.

L’avviso del Collegio è nel senso che la determinazione dell’amministrazione di ordinare, ex art. 27 del d.P.R. 380 del 2001, la demolizione di dette opere -afferenti ad un immobile realizzato abusivamente ab origine, fatto oggetto di successivi interventi a loro volta realizzati senza titolo via via nel tempo e per la cui “sanatoria” sono state prodotte diverse istanze di condono, tuttora pendenti, al sopravvenire dei diversi e progressivi interventi legislativi che si sono succeduti nel tempo- resista alle denunce di parte, che possono essere congiuntamente esaminate.
Ed invero, non sono state offerte ragioni che consentano di discostarsi dal costante orientamento della Sezione, confortato da pronunce del giudice di appello (cfr. Cons. Stato, sezione quarta, ord. n. 2182 del 18.05.2011):
- secondo cui “in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente”, sicché non può ammettersi “la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive”, con conseguente “obbligo del comune di ordinarne la demolizione” (cfr. Tar Campania, Napoli, questa sesta sezione, ex multis, sentenze n. 2006 del 02.05.2012, n. 2624 del 11.05.2011, n. 1218 del 25.02.2011, n. 26788 del 03.12.2010; 05.05.2010, n. 2811, 10.02.2010, n. 847 e 28.01.2010, n. 423; sezione seconda, 07.11.2008, n. 19372; negli stessi sensi, Cass. penale, sezione terza, 24.10.2008, n. 45070);
- ciò nella precisazione che “tanto non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento della medesima sanzione prevista per l’immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985, ancora applicabile per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione condonistica (art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 ed art. 32 della l. 24.11.2003, n. 326); procedure a seguirsi rigidamente, anche per quanto attiene alle modalità di presentazione dell’istanza, sia al fine di conferire certezze in ordine allo stato dei luoghi che ad evitarsi postumi (tentativi di) disconoscimenti della circostanza che, come previsto dalla legge, l’esecuzione delle opere, pur se autorizzate, avviene sotto la propria responsabilità, ovverosia nella piena consapevolezza -resa esplicita dal ricorso espresso alla procedura ex art. 35 cit.- che, sebbene interventi di natura eminentemente conservativa possono essere ammessi, si sta agendo assumendo espressamente a proprio carico rischi e pericoli connessi, cosicché se il condono verrà negato si dovrà demolire anche le migliorie apportate” (cfr. la giurisprudenza della Sezione, già sopra riportata);
- e tanto, nella ulteriore precisazione che l’art. 35 cit. consente solo interventi di completamento: dell’opus già ultimato per poter essere ammesso a condono e sempre che le opere siano suscettibili di sanatoria, ossia “non siano comprese tra quelle indicate dall’art. 33” cit. legge 47 del 1985 (recante prescrizioni di inedificabilità assoluta), e, ove invece soggiacenti al regime di inedificabilità solo relativa cui all’art. 32 precedente, abbiano ottenuto il previo parere delle competenti amministrazioni (cfr. ancora la giurisprudenza innanzi riportata della Sezione);
- in definitiva, “in siffatte evenienze, ovvero in presenza di reiterazione dei comportamenti abusivi, la misura repressiva costituisce atto dovuto, che non può essere evitata nell’assunto che per le opere realizzate non fosse necessario il permesso di costruire o che avessero natura pertinenziale; ciò perché, in caso di prosecuzione dei lavori di un immobile già oggetto di domanda di condono, vale il diverso principio in forza del quale è la prosecuzione in sé dei lavori ad essere preclusa, senza che sia possibile distinguere tra opere pertinenziali e non, tra opere soggette al permesso di costruire ed opere realizzabili con d.i.a.” (cfr. Tar Campania, Napoli, sempre questa sesta sezione, 02.05.2012, n. 2006 cit., 11.05.2011, n. 2626 e sezione settima 14.01.2011, n. 160) ed avendo presente che la valutazione degli interventi sanzionati va effettuata nel loro insieme in quanto “la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione” (cfr. in tali sensi, ex multis, Tar Campania, Napoli, sempre questa sezione sesta, sentenza n. 1114 del 05.03.2012, n. 26787 del 03.12.2010; 16.04.2010, n. 1993; 25.02.2010, n. 1155; 09.11.2009, n. 7053; Tar Lombardia, Milano, sezione seconda, 11.03.2010, n. 584).
Il descritto orientamento della Sezione trova conforto anche in pronunce del giudice di appello, fra le quali spicca quella che, di recente, sia pur in fattispecie non sovrapponibile a quella qui data, ha avuto modo di chiarire come non possa “ritenersi ammissibile una prospettazione che, portata alle estreme conseguenze, implicherebbe che una pervicace azione contraria ai provvedimenti penali ed amministrativi, ove protratta nel tempo con successivi e “nuovi” interventi, (seppur eventualmente modesti) sul manufatto, impedisca sine die l’adozione dei prescritti provvedimenti repressivi: la reiterazione delle violazioni edilizie, insomma, finirebbe con il produrre un effetto “premiale” sul reo…” (Cons. Stato, sezione quinta, 06.03.2012, n. 1260; Tar Campania, sezione sesta, 05.06.2012, n. 2635).
A tal proposito e con più diretto riferimento alle vicende quali quella qui in esame può aggiungersi come a tale approdo giurisprudenziale non possa essere opposta la perdurante inerzia dell’amministrazione nella mancata definizione della risalente istanza di condono (o delle risalenti istanze, come qui avviene) con quanto ne ha a comportare in tema di mancata utilizzazione del bene o di suo degrado.
Ed invero, -ferma la possibilità innanzi indicata di far luogo agli interventi di mero completamento nel rispetto delle procedure di legge- resta anche ferma la potestà del privato che voglia veder definite ai più diversi fini istanze di condono abbisognevoli di pronunce espresse, ricadendo gli abusi, come qui accade, in territorio vincolato, di utilizzare lo strumentario recato direttamente dalla normativa statale (l. 47 del 1985 e successive) e/o regionale (cfr. la legge regionale della Campania n. 10 del 2004) sul condono per costringere l’amministrazione a procedere e provvedere.
Al riguardo va ricordato:
- che la stessa giurisprudenza del giudice delle leggi ha avuto modo in più occasioni di far riferimento alla normativa di settore che “conferisce all'interessato, in caso di inerzia dell'Amministrazione, la legittimazione attiva a tutelare in via giurisdizionale la propria situazione soggettiva…”, avendo presente, aggiunge sempre la Consulta, “che, in ogni caso, le regole sul responsabile del procedimento amministrativo, sulla partecipazione e sul diritto di accesso del privato interessato (previste dalla legge 07.08.1990, n. 241, nonché dall'art. 7 della legge 12.06.1990, n. 142) assicurano un'ampia e costante azione di rilevazione e controllo ab externo dell'adeguatezza dell'azione amministrativa tanto degli apparati statali quanto delle autonomie locali, anche in carenza di una specifica procedimentalizzazione ex lege della fattispecie normativa in oggetto” (Corte Cost., 04.06.1997, n. 170);
- che la giurisprudenza amministrativa -se pur in genere adita (non dal soggetto che ha attivato l’istanza di condono, ma) dal vicino leso dall’intervento abusivo la cui demolizione è stata paralizzata dalla produzione dell’istanza e dalla detta inerzia nel definirla in dispregio dei termini imposti dalla normativa anche regionale sopra ricordata- ha avuto modo di sancire non solo l’obbligo di legge di farvi luogo, ma anche l’inopponibilità da parte dell’amministrazione del rispetto di criteri cronologici, a valere solo “in via tendenziale” (fra le ultime, Tar Campania, questa sesta sezione, 25.10.2012, n. 4220; 21.06.2012, n. 2944; 10.05.2012, n. 2151) e, quindi, di certo non invocabili in presenza di impulso dato alla pratica: non dal vicino (con l’opposizione dell’istante, come notoriamente accade), ma da quest’ultimo (senza opposizione alcuna) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 29.11.2012 n. 4879 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Nell’ambito del rapporto di pubblico impiego, la retribuibilità delle prestazioni di lavoro straordinario è condizionata all’esistenza di una formale e preventiva autorizzazione allo svolgimento di tali prestazioni di lavoro eccedenti l’orario d’ufficio: detta autorizzazione svolge una pluralità di funzioni, tutte riferibili alla concreta attuazione dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento cui, ai sensi dell’articolo 97 Costituzione, deve essere improntata l’azione della pubblica amministrazione.
In generale, infatti, la preventiva autorizzazione implica la verifica in concreto delle ragioni di pubblico interesse che rendono necessario il ricorso a prestazioni lavorative eccedenti l’orario normale di lavoro e rappresenta lo strumento per evitare che, attraverso incontrollate erogazioni di somme di danaro per prestazioni di lavoro straordinario, si possano superare i limiti di spesa fissati dalle previsioni di bilancio con grave nocumento dell’equilibrio finanziario dei conti pubblici.
Per altro verso, la normativa intende escludere che i pubblici dipendenti siano assoggettati a prestazioni lavorative che, eccedendo quelle ordinarie, individuate come punto di equilibrio fra le esigenze dell’amministrazione e i rispetto delle condizioni psico-fisiche del dipendente, possano creare per l’impiegato nocumento alla sua salute ed alla sua dignità di persona.
Sotto ulteriore profilo, la formale preventiva autorizzazione al lavoro straordinario deve costituire, per l’amministrazione, anche lo strumento per la valutazione delle concrete esigenze delle proprie strutture quanto al loro concreto funzionamento, alla loro effettiva capacità di perseguire i compiti assegnati ed espletare le funzioni attribuite dalla legge, nonché all’organizzazione delle risorse umane ed alla loro adeguatezza, onde evitare che il sistematico ed indiscriminato ricorso alle prestazioni straordinarie costituisca elemento di programmazione dell’ordinario lavoro.
Deve anche aggiungersi, non da ultimo, che come peraltro già accennato, la preventiva autorizzazione costituisce assunzione di responsabilità, gestionale e contabile, per il dirigente che la emette, al fine di rispettare i ristretti limiti finanziari entro cui è consentito liquidare siffatto genere di prestazioni attesa anche la sopra evidenziata loro eccezionalità.
La giurisprudenza ha affermato, a volte, che il principio della indispensabilità della previa autorizzazione allo svolgimento del lavoro straordinario subisce eccezione quando l’attività sia svolta per obbligo d’ufficio (al riguardo si parla di autorizzazione implicita), ma, nel rispetto dei principi costituzionali sopra ricordati, ha ribadito che deve pur sempre trattarsi di esigenze indifferibili ed urgenti e che, in ogni caso, è sempre necessaria una successiva autorizzazione, sia pure ex post.

Come rilevato da risalente giurisprudenza, nell’ambito del rapporto di pubblico impiego, la retribuibilità delle prestazioni di lavoro straordinario è condizionata all’esistenza di una formale e preventiva autorizzazione allo svolgimento di tali prestazioni di lavoro eccedenti l’orario d’ufficio: detta autorizzazione svolge una pluralità di funzioni, tutte riferibili alla concreta attuazione dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento cui, ai sensi dell’articolo 97 Costituzione, deve essere improntata l’azione della pubblica amministrazione.
In generale, infatti, la preventiva autorizzazione implica la verifica in concreto delle ragioni di pubblico interesse che rendono necessario il ricorso a prestazioni lavorative eccedenti l’orario normale di lavoro e rappresenta lo strumento per evitare che, attraverso incontrollate erogazioni di somme di danaro per prestazioni di lavoro straordinario, si possano superare i limiti di spesa fissati dalle previsioni di bilancio con grave nocumento dell’equilibrio finanziario dei conti pubblici.
Per altro verso, la normativa intende escludere che i pubblici dipendenti siano assoggettati a prestazioni lavorative che, eccedendo quelle ordinarie, individuate come punto di equilibrio fra le esigenze dell’amministrazione e i rispetto delle condizioni psico-fisiche del dipendente, possano creare per l’impiegato nocumento alla sua salute ed alla sua dignità di persona.
Sotto ulteriore profilo, la formale preventiva autorizzazione al lavoro straordinario deve costituire, per l’amministrazione, anche lo strumento per la valutazione delle concrete esigenze delle proprie strutture quanto al loro concreto funzionamento, alla loro effettiva capacità di perseguire i compiti assegnati ed espletare le funzioni attribuite dalla legge, nonché all’organizzazione delle risorse umane ed alla loro adeguatezza, onde evitare che il sistematico ed indiscriminato ricorso alle prestazioni straordinarie costituisca elemento di programmazione dell’ordinario lavoro.
Deve anche aggiungersi, non da ultimo, che come peraltro già accennato, la preventiva autorizzazione costituisce assunzione di responsabilità, gestionale e contabile, per il dirigente che la emette, al fine di rispettare i ristretti limiti finanziari entro cui è consentito liquidare siffatto genere di prestazioni attesa anche la sopra evidenziata loro eccezionalità.
La giurisprudenza ha affermato, a volte, che il principio della indispensabilità della previa autorizzazione allo svolgimento del lavoro straordinario subisce eccezione quando l’attività sia svolta per obbligo d’ufficio (al riguardo si parla di autorizzazione implicita), ma, nel rispetto dei principi costituzionali sopra ricordati, ha ribadito che deve pur sempre trattarsi di esigenze indifferibili ed urgenti e che, in ogni caso, è sempre necessaria una successiva autorizzazione, sia pure ex post.
Sulla scorta di tali consolidati principi l’appello in esame non può trovare favorevole considerazione risultando in punto di fatto che le prestazioni di lavoro straordinario di cui l’interessata chiede il pagamento non sono mai state autorizzate, né in via preventiva, come di norma dovrebbe avvenire, né successivamente, in via di sanatoria, come pure è ammesso in casi eccezionali, dal titolare amministrativo dell’ente che ne abbia assunto anche la relativa responsabilità contabile con imputazione della relativa spesa.
Non può ritenersi a tal fine utile la circostanza che le prestazioni svolte siano state rese in esecuzione di appositi turni di servizio o tabulati, atteso che, atti di tale genere, come rilevato dalla giurisprudenza della Sezione, non possono automaticamente valere, anche sotto il ripetuto profilo della compatibilità finanziaria, come provvedimenti autorizzatori allo svolgimento di lavoro oltre l’orario d’obbligo essendo comunque necessaria una formale autorizzazione postuma a sanatoria del responsabile amministrativo dell’ente (da ultimo, Cons. Stato, Sez. III, 15.02.2012, n. 783; VI, 09.11.2010, n.8626).
Né appare ammissibile in appello la singolare richiesta istruttoria al fine di poter “accertare l’effettiva utilità pubblica delle ore di lavoro straordinario effettuate…”, ed anche il deposito di ulteriori nuovi documenti non prodotti nel giudizio di primo grado tanto più che i nuovi documenti, consistenti sempre in tabulati, ordini di servizio o altro, quindi irrilevanti per i motivi sopra evidenziati, era conoscibili dall’interessata usando la ordinaria diligenza già in primo grado (Cons. Stato, Sez. VI, n. 265 del 20.01.2009).
Quanto alla domanda subordinata, non esaminata dal giudice di prime cure, volta all'attribuzione di una somma a titolo indennitario per l'ingiustificato arricchimento dell'amministrazione, che si sarebbe avvalsa di attività riconducibili a prestazioni di lavoro straordinario dell'interessata non retribuendole con ciò arricchendosi indebitamente, essa è priva di fondamento, giacché, come affermato dalla giurisprudenza, il necessario presupposto dell' azione non è l'infruttuoso esperimento di uno specifico rimedio giudiziario, ma la sua inesistenza e la sussidiarietà dell’azione va apprezzata in astratto, là dove manchi qualsivoglia tutela giuridica, mentre irrilevante risulta in concreto la circostanza del vano esperimento della specifica azione diretta prevista dall'ordinamento ad esempio per essere stata giudizialmente respinta o dichiarata prescritta, atteso che se altra azione in astratto è esperibile essa è in grado di esaurire qualsivoglia tutela offerta dall'ordinamento .
Nella circostanza è pacifico che la ricorrente abbia esperito l'azione a sostegno delle proprie ragioni risultandone in primo grado soccombente mentre la circostanza che ciò sarebbe avvenuto per una erronea valutazione del primo giudice è fatto privo di qualsiasi rilievo ai fini dell’esperimento dell’azione (ex plurimis, Cass. Civ. Sez. II, 22.03.2012 n. 4620; vedi anche Cons. St., sez. V, 03.11.2010, n. 7755) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 24.11.2012 n. 5953 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In materia di accesso agli atti di gara è stato statuito che:
- l’accesso deve comunque essere garantito se la conoscenza dei documenti sia “necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici”;
- per l’applicazione del comma 7 dell’art. 24 l. 241/1990 “Occorre…la dimostrazione di una rigida “necessità” e non mera “utilità” del documento” cui si chiede di accedere “Tanto più nei casi in cui l’accesso sia esercitato non già in relazione agli atti di un procedimento amministrativo di cui il richiedente è parte, ma in relazione agli atti di procedimenti amministrativi rispetto ai quali il richiedente è terzo”, non configurandosi, di conseguenza, la posizione legittimante quando “i documenti richiesti non sono necessari per la difesa in giudizio ma solo utili per articolare la difesa in giudizio secondo una particolare modalità, ossia per articolare una particolare censura”, configurandosi altrimenti, si deve soggiungere, la fattispecie del mero controllo generalizzato dell’attività amministrativa precluso dall’articolo 24, comma 3, della legge n. 241 del 1990;
- nella specie la società istante non dimostra che la conoscenza degli atti della gara in questione, in cui non è stata parte, sia rigidamente “necessaria” per la propria difesa nel giudizio relativo ad una diversa gara, risultando perciò tale conoscenza soltanto “utile”, in quanto evidentemente articolazione di un particolare motivo difensivo nell’ambito di un giudizio già instaurato; un motivo, si deve anche considerare, la cui utilità difensiva è peraltro del tutto potenziale non essendo sufficiente soltanto asserire, a tal fine, un vizio invalidante di un intero procedimento ma dovendo tale vizio essere stato riconosciuto ad esito di un giudizio; neppure rivestendo perciò l’asserito interesse all’accesso l’altresì previsto carattere di effettiva concretezza (art. 22, comma 1, lett. b), della legge n. 241 del 1990).

Nell’appello si deduce l’erroneità della sentenza di primo grado, poiché:
a) la gestione del porto turistico, pur se svolta da un soggetto in proprietà pubblica, non rientra nella nozione di servizio pubblico locale; non si tratta infatti di un’attività avente una finalità sociale di interesse pubblico, cioè diretta a soddisfare le esigenze dei residenti nel comune che istituisce il servizio, considerati in quanto tali, o quelle di una cerchia indifferenziata di utenti, con i connessi obblighi di continuità, qualità e regolarità del servizio stesso, ma di un’attività imprenditoriale, non tenuta perciò all’osservanza di condizioni e tariffe uniformi rispetto a parametri generali ma modulabile quanto alle modalità di prestazione del servizio e all’area degli utenti secondo le esigenze proprie di un tale tipo di attività;
b) gli atti oggetto dell’istanza di accesso riguardano, in ogni caso, il servizio di pulizia parziale che è attività di carattere interno e non inerente, perciò, alla gestione del porto turistico;
c) non sussiste comunque nella specie l’interesse legittimante l’esercizio del diritto di accesso, poiché: la società istante non ha partecipato alla gara ai cui atti richiede di accedere; non ha rilievo il mero interesse strumentale alla rinnovazione della gara asserito soltanto in quanto operatore del settore; mancano dunque i presupposti di attualità, concretezza e adeguata motivazione dell’interesse richiesti dalla legge risultando l’istanza, di conseguenza, diretta ad una generica attività informativa sull’operato della società Marina di Pescara.
Il Collegio ritiene che sia da accogliere il motivo ora sintetizzato sub 2.c).
Infatti:
- l’interesse legittimante all’accesso è stato indicato nelle istanze della s.p.a. Ecologica Sangro con il richiamo all’art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990, per il quale l’accesso deve comunque essere garantito se la conoscenza dei documenti in questione sia “necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici”, volendo l’istante poter contestare la partecipazione della s.r.l. Mantini in altra gara se risultasse viziata l’aggiudicazione a tale società dell’appalto da parte della società Marina di Pescara nella gara afferente alla gestione del porto turistico;
- tale interesse sarebbe tutelabile in considerazione del fatto che, come affermato dal primo giudice “la soglia richiesta per l’accesso risulta inferiore a quella necessaria per legittimare un ricorso giurisdizionale, risultando sufficiente anche solo una potenziale lesione alla propria sfera giuridica e la mera eventualità di una necessità di tutela in sede giurisdizionale”, ciò che si verificherebbe nella specie data l’ipotesi di applicazione dell’art. 23-bis della legge n. 133 del 2008;
- questa ricostruzione non appare rapportabile al caso in esame; la giurisprudenza di questo Consiglio ha infatti chiarito che, per l’applicazione del citato comma 7 dell’art. 24 “Occorre…la dimostrazione di una rigida “necessità” e non mera “utilità” del documento” cui si chiede di accedere “Tanto più nei casi in cui l’accesso sia esercitato non già in relazione agli atti di un procedimento amministrativo di cui il richiedente è parte, ma in relazione agli atti di procedimenti amministrativi rispetto ai quali il richiedente è terzo”, non configurandosi, di conseguenza, la posizione legittimante quando “i documenti richiesti non sono necessari per la difesa in giudizio ma solo utili per articolare la difesa in giudizio secondo una particolare modalità, ossia per articolare una particolare censura” (Sez. VI, 12.01.2011, n. 117), configurandosi altrimenti, si deve soggiungere, la fattispecie del mero controllo generalizzato dell’attività amministrativa precluso dall’articolo 24, comma 3, della legge n. 241 del 1990;
- nella specie la società istante non dimostra che la conoscenza degli atti della gara in questione, in cui non è stata parte, sia rigidamente “necessaria” per la propria difesa nel giudizio relativo ad una diversa gara, risultando perciò tale conoscenza soltanto “utile”, in quanto evidentemente articolazione di un particolare motivo difensivo nell’ambito di un giudizio già instaurato; un motivo, si deve anche considerare, la cui utilità difensiva è peraltro del tutto potenziale non essendo sufficiente soltanto asserire, a tal fine, un vizio invalidante di un intero procedimento ma dovendo tale vizio essere stato riconosciuto ad esito di un giudizio; neppure rivestendo perciò l’asserito interesse all’accesso l’altresì previsto carattere di effettiva concretezza (art. 22, comma 1, lett. b), della legge n. 241 del 1990);
- né l’accesso può riconoscersi nel caso in esame per il solo interesse strumentale alla rinnovazione della procedura di gara indetta dalla società Marina di Pescara non sussistendo una regola generale di indifferenziata titolarità della legittimazione al ricorso -con esercizio perciò dell’accesso a fini di cura o difesa di interessi giuridici collegati- basata sulla mera qualificazione soggettiva di imprenditore potenzialmente aspirante all’indizione di una nuova gara, salvo i casi del contrasto in radice della scelta della stazione appaltante di indire la procedura, dell’affidamento senza gara e della previsione nel bando di una specifica e lesiva clausola escludente, casi nella specie non provati (cfr. Cons. Stato, A.P. n. 4 del 2011) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 22.11.2012 n. 5936 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 24.01.2013

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IN EVIDENZA

VIZI, DURI A MORIRE, DEI PUBBLICI DIPENDENTI ITALIANI !!

PUBBLICO IMPIEGOE’ regola di diligenza e di corretto sentire il proprio ruolo presentarsi sul luogo di lavoro immediatamente pronti a svolgere, sin dal primo istante, le proprie incombenze attenendosi ai doveri anche formali ed esteriori che le caratterizzano: non a caso le disposizioni di servizio acquisite in via interlocutoria parlano di “funzionalità e compostezza“ riferito al locale di servizio e, quindi, a maggior ragione, al personale ivi addetto.
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Risponde a canoni di comune diligenza e prudenza prima di tutto prendere possesso della postazione di servizio e, poi, semmai, svolgere le altre incombenze ad essa connesse.
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Quanto, poi, al ritiro di acqua e caffè dal distributore automatico (ndr: subito dopo aver timbrato in entrata al lavoro), esso non appare certo l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, indebitamente conculcato dall’amministrazione, come impropriamente enfatizzato dall’interessata, ma solo un comportamento (forse diffuso, ma) anche esso non conforme a canoni di diligenza e scrupolo professionale, in base ai quali non sembra certo decoroso andare a prendere il caffè immediatamente all’inizio del turno, quando si presume che una persona già abbia fatto la colazione mattutina.

... per l'annullamento del provvedimento della Questura di Trento, Ufficio del Personale sez. Seconda, di data 12.01.2012 nel procedimento disciplinare n. 16R/pers./Cat.2.8/2011 di irrogazione della sanzione disciplinare del richiamo scritto e di ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale.
...
La ricorrente, ass. capo P.S. dipendente del Ministero dell’Interno, con il presente ricorso ha impugnato il provvedimento disciplinare in data 12.01.2012 con il quale le è stata inflitta la sanzione del richiamo scritto.
I fatti addebitati alla ricorrente risalgono al giorno 14.08.2011, quando il sost. comm. P.S. D.C. redigeva relazione di servizio, in cui riferiva che alle ore 7.03 del mattino, nel recarsi presso il Palazzo del Commissario del Governo di Trento per ritirare la posta, avrebbe suonato inutilmente più volte al campanello di ingresso, insistendo fino alle ore 7.11, quando la ricorrente apriva la porta in abiti civili, nonostante il turno di servizio fosse già iniziato.
Alla richiesta di spiegazioni la ricorrente avrebbe risposto di essersi allontanata solo tre minuti dalla postazione di lavoro per prendere un caffè ed una bottiglia di acqua al distributore automatico interno.
A seguito della predetta relazione, il Questore, in data 25.08.2011, procedeva alla contestazione degli addebiti.
...
Quanto al lamentato eccesso di potere per difetto di motivazione e travisamento, anche tale motivo di ricorso si manifesta privo di ogni consistenza.
Gli addebiti mossi alla ricorrente sono costituiti da comportamento scorretto in servizio e irriguardoso verso un superiore gerarchico: così nell’atto di contestazione degli addebiti e nel provvedimento disciplinare.
Quanto alla prima motivazione, circa l’assunzione di comportamenti non conformi alle regole di servizio, essa trova riscontro obiettivo in due incontestate circostanze:
a) avere la ricorrente aperto in oggettivo ritardo (non importa di quanti minuti) alle ripetute chiamate del sost. comm. D.C. al portone dell’ingresso principale dell’edificio del Commissario di Governo (C.so III Novembre);
b) avere aperto non in divisa ma ancora in abiti civili, nonostante il turno di servizio fosse già iniziato alle ore sette del mattino.
Per giustificare tali due elementi oggettivi l’interessata adduce:
- non essersi potuta tempestivamente cambiare di abito essendo il bagno occupato da altro personale;
- essersi assentata momentaneamente dal posto di guardia per effettuare un giro di ispezione alle entrate dell’edificio poste su via Piave, nonché altri adempimenti e per prendere un caffè ed una bottiglietta d’acqua dal distributore automatico posto all’interno dell’edificio stesso.
Si tratta di giustificazioni che il Collegio giudica inaccettabili, come tali giustamente non prese in considerazione, nell’an, dall’organo disciplinare.
Quanto allo svolgimento del servizio non in divisa, seppure a distanza di solo pochi minuti dall’inizio del turno, si tratta di mancanza oggettivamente incongrua e non conforme ai doveri di servizio di un appartenente alle forze di polizia, non giustificabile certo con prassi difformi, peraltro neppure adeguatamente dimostrate dall’interessata (ed anzi smentite dalle s.i. assunte dal collega M.). E’, anzi, regola di diligenza e di corretto sentire il proprio ruolo presentarsi sul luogo di lavoro immediatamente pronti a svolgere, sin dal primo istante, le proprie incombenze attenendosi ai doveri anche formali ed esteriori che le caratterizzano: non a caso le disposizioni di servizio acquisite in via interlocutoria parlano di “funzionalità e compostezza“ riferito al locale di servizio e, quindi, a maggior ragione, al personale ivi addetto.
Anche i motivi del ritardo non appaiono convincenti.
L’interessata non ha dato prova di prescrizioni o prassi che impongano al dipendente, immediatamente all’inizio del proprio turno, di effettuare, in borghese, “un giro di controllo“ (come lo chiama la ricorrente nelle sue giustificazioni all’atto di contestazione e nel ricorso). Anche nelle citate disposizioni di servizio non si fa cenno a tale obbligo, il quale, anzi, appare incongruo rispetto al limitatissimo orario di apertura dell’ingresso su via Piave, disposto solo dalle ore 10 alle ore 12. Peraltro, risponde a canoni di comune diligenza e prudenza prima di tutto prendere possesso della postazione di servizio e, poi, semmai, svolgere le altre incombenze ad essa connesse.
Quanto, poi, al ritiro di acqua e caffè dal distributore automatico, esso non appare certo l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, indebitamente conculcato dall’amministrazione, come impropriamente enfatizzato dall’interessata, ma solo un comportamento (forse diffuso, ma) anche esso non conforme a canoni di diligenza e scrupolo professionale, in base ai quali non sembra certo decoroso andare a prendere il caffè immediatamente all’inizio del turno, quando si presume che una persona già abbia fatto la colazione mattutina (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 09.01.2013 n. 1 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

Altro che semplice richiamo scritto !!

     Proprio in questi ultimi giorni, le trasmissioni televisive "Striscia la notizia" (Canale 5) e "L'arena" (Rai 1) hanno mostrato -per l'ennesima volta- filmati (ad opera delle Forze dell'Ordine) di pubblici dipendenti che timbrano la mattina, per sé e per altri colleghi, per uscire subito dal posto di lavoro ed andarsene a farsi i kazzi propri, anziché lavorare e guadagnarsi onestamente la miketta a fine mese.
     I "mass media" definiscono costoro come semplici "furbetti" ... col cavolo, questi sono veri e propri delinquenti, parassiti della società civile !!
     Chi scrive, e sicuramente anche la stragrande maggioranza degli Italiani (che sono onesti !!), è stanco di lavorare anche per questa gentaglia. Quindi, bando alle chiacchiere ed alla retorica e si compiano i fatti una volta per tutte:

LICENZIAMENTO IN TRONCO !!

24.01.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

LAVORI PUBBLICI: R. Troccoli, SUBAPPALTO, ERGO SUM! - L’Autorità, con un inaspettato parere (non vincolante), cambia direzione e va all’attacco dell’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale in materia di subappalto qualificante. E mentre la Merloni si rivolta nella tomba, gli operatori si interrogano: errore di percorso o definitivo cedimento del sistema di qualificazione per l’esecuzione degli appalti pubblici? (21.01.2013).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, Nuove disposizioni urbanistiche introdotte nella l.r. n. 12 del 2005 dalla l.r. n. 21 del 2012.
In materia di disciplina urbanistico-edilizia nei Comuni privi di PGT il legislatore regionale è intervenuto nelle scorse settimane dettando alcune disposizioni integrative dell'art. 25 della l.r. n. 12 del 2005; più precisamente, l'art. 4 della l.r. n. 21 del 24.12.2012 (pubblicata sul BURL, Supplemento n. 52 del 28.12.2012) ha inserito nel citato art. 25 della l.r. n. 12 del 2005 i commi 1-ter, 1-quater e 1-quinquies.
Con la sola eccezione dei Comuni terremotati e in dissesto finanziario dichiarato,
è confermata la perdita di efficacia dei previgenti PRG alla data prevista dal comma 1 del predetto art. 25, ovvero il 31.12.2012; sotto questo profilo, la soluzione inizialmente proposta dalla Giunta regionale, che intendeva diversificare tra Comuni che alla stessa data avessero adottato il PGT e Comuni che invece non l'avessero adottato, non è stata alla fine condivisa dal Consiglio regionale.
La scelta del legislatore regionale è stata piuttosto quella di precisare, per tutti i Comuni divenuti privi di strumentazione urbanistica, gli interventi possibili fino all'approvazione del PGT;
queste disposizioni (nuovo comma 1-quater) sono evidentemente sostitutive della disciplina generale statale stabilita per i Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici, dettata dall'art. 9 del d.p.r. n. 380 del 2001 che, infatti, al comma 1 fa espressamente "salvi i più restrittivi limiti fissati dalle leggi regionali".
Si precisa che la declaratoria degli interventi ammessi (lett. a - b - c del comma 1-quater)
ha carattere esaustivo, come attestato dall'uso dell'avverbio "unicamente"; pertanto, sono da considerare precluse iniziative edificatorie diverse che non siano riconducibili agli interventi espressamente contemplati dalla norma; in particolare, non sono attivabili iniziative in variante al (non più vigente) PRG, come gli accordi di programma, i programmi integrati di intervento e i SUAP ex art. 97 della l.r. n. 12 del 2005, come pure gli interventi ex lege in deroga a specifiche previsioni di PRG (ad es. sottotetti, parcheggi pertinenziali, riconversione di coperture in cemento amianto, edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico).
Si rammenta che gli interventi in deroga previsti dalla disciplina a valenza temporanea del cosiddetto piano casa regionale (art. 3, 4, 5 e 6 della l.r. n. 4 del 2012) sono espressamente esclusi dal nuovo comma 1-quinquies dell'art. 25 della l.r. n. 12 del 2005, aggiunto dalla l.r. n. 21 del 2012.
Per quanto riguarda i cambi di destinazione d'uso, connessi o non a opere edilizie, sono da considerare in ogni caso preclusi, non potendo evidentemente essere verificata la conformità "alle previsioni urbanistiche comunali", richiesta dall'art. 52 della l.r. n. 12 del 2005.
Ovviamente, a seguito dell'adozione del PGT, intervenuta sia entro il 31.12.2012 sia successivamente, gli interventi ammessi secondo il nuovo comma 1-quater dell'art. 25 della l.r. n. 12 del 2005 devono essere altresì verificati con le previsioni adottate, operanti in regime di salvaguardia ex art. 13, comma 12, della stessa l.r. n. 12 del 2005.
Si precisa che nei casi in cui alla data del 31.12.2012 risulti intervenuta l'approvazione definitiva del PGT ma non ancora la relativa pubblicazione sul BURL che ne determina l'efficacia ex art. 13, comma 11, della l.r. n. 12 del 2005, nelle more di quest'ultimo adempimento e dunque anche oltre la predetta data, non viene meno l'efficacia dei PRG; a tale conclusione si deve addivenire sia in ragione del disposto per il quale le salvaguardie del PGT trovano applicazione per l'appunto fino alla "pubblicazione dell'avviso di approvazione degli atti di PGT" (cfr. art. 13, comma 12, della l.r. n. 12 del 2005), sia perché la sopra richiamata disciplina restrittiva di cui al comma 1-quater, che il legislatore regionale ha inteso dettare a fronte della sopravvenuta inefficacia del PRG, è stata dallo stesso legislatore espressamente riferita ai "Comuni che entro il 31.12.2012 non hanno approvato il PGT".
Per quanto riguarda le procedure edilizie in corso alla data del 31.12.2012, il nuovo comma 1-quinquies dell'art. 25 fa espressamente "salve le istanze di permesso di costruire e le denunce di inizio attività presentate entro il 31.12.2012" relativamente agli interventi in deroga consentiti dal cosiddetto piano casa regionale (art. 3, 4, 5 e 6 della l.r. n. 4 del 2012). Non essendosi il legislatore regionale espresso nei medesimi termini relativamente ad altre iniziative edificatorie parimenti in corso di definizione,
tutti gli interventi non riconducibili alla declaratoria di cui al comma 1-quater (lett. a - b - c) sono da considerare preclusi a far tempo dal 01.01.2013, compresi quelli oggetto di istanze di permesso di costruire non definite con l'avvenuto rilascio del titolo entro il 31.12.2012, ovvero di denunce di inizio attività presentate successivamente al 01.12.2012.
Milano, il 16.01.2013 - Direzione Generale Territorio e Urbanistica (link a www.territorio.regione.lombardia.it).

LAVORI PUBBLICI: IL RECEPIMENTO DELLA NUOVA DIRETTIVA EUROPEA SUI RITARDI DI PAGAMENTO - Prime indicazioni operative relative all'applicazione del D.Lgs. 09.11.2012 n. 192 (ANCE, circolare 18.01.2013).

APPALTI: Parere del Garante sulla deliberazione dell'Avcp attuativa dell'art. 6-bis del Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (d.lgs. 12.04.2006, n. 163) (Garante per la protezione dei dati personali, parere 19.12.2012 n. 420).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: L’ILLEGITTIMA ATTRIBUZIONE DELLE FUNZIONI DIRIGENZIALI NEGLI ENTI LOCALI (CGIL-FP di Bergamo, nota 20.01.2013).
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Per la FP-CGIL di Bergamo è sempre uno stimolo quando un amministratore ci accusa di vendere fumo ed infondatezze, soprattutto se quell’amministratore rimane ben lontano dal merito delle questioni.
Riprendiamo, quindi, l’annosa questione dell’illegittima nomina di personale appartenente alla categoria C a Responsabile degli Uffici e dei Servizi nel caso di presenza all’interno dell’ente (non del servizio o settore) di altri responsabili degli uffici e dei servizi appartenenti alla categoria D. (... continua).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI: G.U. 21.01.2013 n. 17 "Linee Guida concernenti la comunicazione alla stazione appaltante degli accertamenti effettuati ai sensi 1-septies del D.L. 06.09.1982, n. 629, convertito, con modificazioni, dalla legge 12.10.1982, n. 726" (Ministero dell'Interno, Comitato di coordinamento per l'alta sorveglianza delle grandi opere, comunicato 19.12.2012).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGOIl congedo non abbassa l'importo. Non serve invece per la progressione di carriera.
I periodi di congedo straordinario per gravi motivi familiari, previsti dall'art.42 del decreto legislativo 151/2001, non valgono ai fini della progressione economica di carriera. E quindi non sono utili a far maturare i gradoni. Fermo restando che sono validi ai fini della pensione, perché sono coperti da contribuzione figurativa.

É questo l'avviso del ministero della funzione pubblica guidato da Filippo Patroni Griffi contenuto nella nota 15.01.2013 n. 2285 di prot..
Secondo palazzo Vidoni, i periodi di assenza fruiti per effetto del congedo non possono essere valutati ai fini della maturazione degli scatti di carriera, perché non sono coperti da effettivo servizio. E quindi , di fatto, non si verificherebbe la condizione prevista dalla normativa di settore ai fini della progressione economica. Che consiste appunto nell'arricchimento della professionalità e del miglioramento delle capacità lavorative del lavoratore, che fa seguito all'acquisizione dell'esperienza maturata sul campo.
La questione era stata già affrontata dalla ragioneria territoriale di Torino, con la nota prot. 77198 del 08/06/2012, con la quale aveva affermato che «i periodi di congedo fruiti ai sensi dell'art. 42, comma 5, del D.L.vo 151/2011 sono da considerarsi interruttivi dell'anzianità di servizio_ (si veda la nota 346 del 20 luglio scorso dell'ufficio scolastico provinciale di Torino)». L'ufficio era giunto a tale conclusione sulla base di una precedente pronuncia dell'Inps che, con la circolare 28 del 28 febbraio scorso, aveva ritenuto che i periodi di congedo ex art. 42 del D.Lgs. 151/2001 non potessero essere «computabili nell'anzianità giuridica valida ai fini della progressione di carriera».
L'articolo 42, peraltro, non prevede alcuna disposizione specifica in tal senso. Ma per quanto non previsto dalla medesima norma, opera un rinvio espresso all'articolo 4 comma 2 della legge 53/2000. Il quale dispone che, durante il congedo, il lavoratore «non ha diritto alla retribuzione». E siccome non ha diritto alla retribuzione, non ha titolo neppure a vedersi riconoscere l'anzianità ai fini dei gradoni. Giova ricordare, peraltro, che i suddetti periodi danno titolo ad un'indennità pari all'importo della retribuzione. Ma si tratta di una mera forma di ristoro patrimoniale e non di un corrispettivo.
Di qui l'irrilevanza ai fini della maturazione dei gradoni, che presuppongono l'effettivo svolgimento della prestazione o la fruizione di un'assenza equiparata al servizio che dia titolo alla retribuzione (articolo ItaliaOggi del 22.01.2013).

CORTE DEI CONTI

ATTI AMMINISTRATIVI - SEGRETARI COMUNALI: Ruolo del Segretario comunale e danno erariale.
E’ noto che tra i doveri del segretario comunale sussiste anche quello, fondamentale, di esprimere pareri di legittimità sulle delibere dell’ente locale.
La circostanza che, nella specie, entrambi i suddetti condannati/appellanti (ndr: segretario e vice-segretario comunale) non si siano pronunciati -come se avessero da espletare mera funzione di assistenza e collaborazione giuridico/amministrativa nella redazione della delibera- non può valere da esimente ma coinvolge ancor più la loro responsabilità per il silenzio serbato mentre avrebbero dovuto espressamente evidenziare la non conformità a legge del provvedimento.
In tema, la giurisprudenza della Corte è assai chiara nell’affermare che “L'affidamento, alla stregua della previsione normativa di cui all'art. 97 T.U. 18.08.2000, n. 267, al segretario comunale di funzioni di assistenza e di collaborazione giuridica e amministrativa con tutti gli organi dell'ente locale assorbe, in qualche guisa, lo specifico compito, dianzi espressamente previsto dall'art. 53 L. 08.06.1990, n. 142, di esprimere un previo parere di legittimità sulle deliberazioni di giunta; l'evoluzione normativa in materia ben lungi dall'evidenziare una sottrazione del segretario in questione alla responsabilità amministrativa per il parere eventualmente espresso su atti della Giunta, ne ha invece sottolineato le maggiori responsabilità in ragione della rilevata estensione di funzioni, di tal che non assume alcun rilievo esimente l'art. 17, commi 85 e 86, L. 15.05.1997, n. 127 che ha espressamente abrogato l'istituto del previo parere di legittimità del segretario comunale”.
Pertanto non può dubitarsi del fatto che il Segretario comunale abbia il “preciso obbligo giuridico di segnalare agli amministratori le illegittimità contenute negli emanandi provvedimenti”, al fine di impedire atti e comportamenti illegittimi forieri di danno erariale: si tratta, invero, di una figura professionale alla quale è per legge “demandato un ruolo di garanzia, affinché l'attività dell'ente possa dispiegarsi nell'interesse del buon andamento e dell'imparzialità”.
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Non essendo possibile configurare un generale criterio di valutazione della colpa grave, non è sufficiente a integrarla la semplice “violazione della legge o di regole di buona amministrazione ma è necessario che questa violazione sia connotata da inescusabile negligenza o dalla previsione dell'evento dannoso”.
Detta colpa consiste, infatti, “in un comportamento avventato e caratterizzato da assenza di quel minimo di diligenza che è lecito attendersi in relazione ai doveri di servizio propri o specifici dei pubblici dipendenti (…)” ossia nella “inammissibile trascuratezza e negligenza dei propri doveri, coniugata alla prevedibilità delle conseguenze dannose del comportamento” in relazione alle modalità del fatto, all'atteggiamento soggettivo dell'autore nonché al rapporto tra tale atteggiamento e l'evento dannoso: “di guisa che il giudizio di riprovevolezza della condotta venga in definitiva ad essere basato su un quid pluris rispetto ai parametri di cui agli artt. 43 cod. pen. e 1176 cod. civ.”.
Occorre far riferimento, insomma, “al grado di anomalia e di incompatibilità dei comportamenti concreti rispetto agli schemi normativi astratti, ivi compreso il dovere di svolgere i propri compiti con il massimo di lealtà e diligenza, dovendosi in particolare esaminare il concreto atteggiarsi dell'agente, calato nella contestualità del momento, nei fini del suo agire quali desumibili da indici di presunzione di esperienza, perizia e buon senso, nel grado di prevedibilità di eventi dannosi e nella quota di esigibilità, anche alla stregua di altri doveri e fini pubblici da seguire, della norma infranta”.
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FATTO
Con la sentenza in epigrafe, la Sezione giurisdizionale per la regione Basilicata -in disparte la reiezione di questioni pregiudiziali e/o procedurali- ha condannato (tra gli altri) i sig.ri ... al pagamento di importi tra loro diversi (oltre agli interessi legali) -determinati in via equitativa, nella misura del 20% di quanto chiesto nell’atto introduttivo e comprensivi della rivalutazione- a favore dello Stato (50% del totale), della Regione Basilicata (30% del totale) e del Comune di LAURIA (PZ) (20% del totale).
I medesimi sono stati ritenuti responsabili -quali amministratori e/o segretario e v. segretario comunale- del danno conseguente a illegittimo affidamento a cinque soggetti esterni, nel periodo 2002/2008, di numerosi e/o non proficui incarichi per la gestione di pratiche relative alla ricostruzione post terremoto del 09.09.1998.
...
E’ noto che tra i doveri del segretario comunale sussiste anche quello, fondamentale, di esprimere pareri di legittimità sulle delibere dell’ente locale. La circostanza che, nella specie, entrambi i suddetti condannati/appellanti non si siano pronunciati -come se avessero da espletare mera funzione di assistenza e collaborazione giuridico/amministrativa nella redazione della delibera- non può valere da esimente ma coinvolge ancor più la loro responsabilità per il silenzio serbato mentre avrebbero dovuto espressamente evidenziare la non conformità a legge del provvedimento.
In tema, la giurisprudenza della Corte è assai chiara nell’affermare che “L'affidamento, alla stregua della previsione normativa di cui all'art. 97 T.U. 18.08.2000, n. 267, al segretario comunale di funzioni di assistenza e di collaborazione giuridica e amministrativa con tutti gli organi dell'ente locale assorbe, in qualche guisa, lo specifico compito, dianzi espressamente previsto dall'art. 53 L. 08.06.1990, n. 142, di esprimere un previo parere di legittimità sulle deliberazioni di giunta; l'evoluzione normativa in materia ben lungi dall'evidenziare una sottrazione del segretario in questione alla responsabilità amministrativa per il parere eventualmente espresso su atti della Giunta, ne ha invece sottolineato le maggiori responsabilità in ragione della rilevata estensione di funzioni, di tal che non assume alcun rilievo esimente l'art. 17, commi 85 e 86, L. 15.05.1997, n. 127 che ha espressamente abrogato l'istituto del previo parere di legittimità del segretario comunale” (cfr.: Sez. 2^ giur. C.le d’appello, sentenza 23.06.2004 n. 197; idem, sentenza 17.03.2004 n. 88).
Pertanto non può dubitarsi del fatto che il Segretario comunale abbia il “preciso obbligo giuridico di segnalare agli amministratori le illegittimità contenute negli emanandi provvedimenti”, al fine di impedire atti e comportamenti illegittimi forieri di danno erariale (Sez. Giur. Lombardia, sentenza 09.07.2009 n. 473): si tratta, invero, di una figura professionale alla quale è per legge “demandato un ruolo di garanzia, affinché l'attività dell'ente possa dispiegarsi nell'interesse del buon andamento e dell'imparzialità” (Sez. Giur. Lombardia, sentenza 08.05.2009 n. 324).
Orbene, in proposito, è da richiamare la consolidata e condivisibile giurisprudenza della Corte dei conti secondo cui, non essendo possibile configurare un generale criterio di valutazione della colpa grave, non è sufficiente a integrarla la semplice “violazione della legge o di regole di buona amministrazione ma è necessario che questa violazione sia connotata da inescusabile negligenza o dalla previsione dell'evento dannoso” (Sez. 3^ giur. centrale di appello, sent. n. 75 del 12/02/2010; idem, sent. n. 424 del 09/10/ 2006).
Detta colpa consiste, infatti, “in un comportamento avventato e caratterizzato da assenza di quel minimo di diligenza che è lecito attendersi in relazione ai doveri di servizio propri o specifici dei pubblici dipendenti (…)” (Sez. 1^ centrale di appello, sent. n. 305 dell’08.05.2009) ossia nella “inammissibile trascuratezza e negligenza dei propri doveri, coniugata alla prevedibilità delle conseguenze dannose del comportamento” (Sez. Giur. Calabria, sent. 01/07/2005, n. 763) in relazione alle modalità del fatto, all'atteggiamento soggettivo dell'autore nonché al rapporto tra tale atteggiamento e l'evento dannoso: “di guisa che il giudizio di riprovevolezza della condotta venga in definitiva ad essere basato su un quid pluris rispetto ai parametri di cui agli artt. 43 cod. pen. e 1176 cod. civ.” (Sezioni Riunite, sent. 10/06/1997, n. 56).
Occorre far riferimento, insomma, “al grado di anomalia e di incompatibilità dei comportamenti concreti rispetto agli schemi normativi astratti, ivi compreso il dovere di svolgere i propri compiti con il massimo di lealtà e diligenza, dovendosi in particolare esaminare il concreto atteggiarsi dell'agente, calato nella contestualità del momento, nei fini del suo agire quali desumibili da indici di presunzione di esperienza, perizia e buon senso, nel grado di prevedibilità di eventi dannosi e nella quota di esigibilità, anche alla stregua di altri doveri e fini pubblici da seguire, della norma infranta” (Sez. Giur. Piemonte, sent. 02/11/2005, n. 647).
In ragione di quanto precede, a questo Collegio sembrano palesi la scarsa diligenza, superficialità, contraddittorietà e/o trascuratezza del modus procedendi degli (odierni) appellanti -per aver, in particolare, provveduto al costante rinnovo delle convenzioni– tali da configurare la loro piena responsabilità in ordine al pregiudizio patrimoniale arrecato al Comune di Lauria, nel cui nome e interesse hanno operato.
La gravata sentenza, al proposito, fondatamente ha evidenziato che l’applicazione (contra legem) di personale convenzionato all’espletamento delle pratiche addirittura concernenti il lontano terremoto del 1980, 1981 e 1982 non solo ha inciso sull’efficacia ed efficienza della gestione dell’attività amministrativa riguardante il sisma del 1998 –risultata scarsa almeno nella parte della mancata programmazione (e conseguente valutazione) di un risultato minimo da raggiungere annualmente da parte dei tecnici convenzionati– ma ha palesemente violato la legge (art. 5, c. 3, della l. n. 32/1992).
E’ da convenire, dunque, sul “comportamento gravemente colposo degli amministratori che hanno assunto le delibere in tal senso, nonché dei soggetti che hanno svolto le funzioni di Segretario Comunale nell’occasione, venendo meno a quei compiti di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi elettivi e di garanti della legittimità dell’azione amministrativa previsti dall’art. 97 del d.lgs. n. 267/2000” (pag. 25 della sentenza)
(Corte dei Conti, Sez. III giurisdiz. centrale d'appello, sentenza 18.01.2013 n. 40 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOContratti ex art. 110, comma 2, TUEL e art. 9, comma 28, d.l. 78/2010.
La Corte dei Conti, sezione regionale Sardegna, con il parere 18.01.2013 n. 5 risponde al Comune di Serramanna che chiede "se è possibile che le conclusioni della deliberazione della Corte dei Conti (Sezione Autonomie, deliberazione n. 12/AUT/2012), vale a dire l'esclusione delle spese sostenute per incarichi dirigenziali conferiti ai sensi dell'art. 110, comma 1, dalla limitazioni dettate dall'art. 9, comma 28 ..., siano applicabili anche ai Comuni che non hanno la dirigenza e che intendono affidare incarichi ai sensi dell'art. 110 comma 2 del TUEL".
Di seguito alcuni passaggi della pronuncia e le consequenziali conclusioni:
- "... argomentando dalla semplice sola applicazione dei principi generali, nonché dalla stessa previsione testuale dell'art. 19, comma 6-quater (d.lgs. n. 165/2001), e rispondendo al quesito in esame, si ritiene che tale disciplina derogatoria non possa essere estesa al personale dirigenziale che un ente locale ritenga di dover assumere ai sensi dell'art. 110, secondo comma, ovvero al di fuori della dotazione organica";
- "Infatti, in primo luogo, le disposizioni che fanno eccezione a regole generali non possono trovare applicazione che nei casi e nei modi previsti (come previsto dall'art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale, c.d. preleggi del codice civile). Ma ancor prima è lo stesso art. 19, comma 6-quater, a prevedere espressamente il riferimento al solo primo comma dell'art. 110 TUEL";
- "... in merito alla ratio della disposizione, viene meno anche la stessa ragione logica sottostante l'indicata regola derogatoria, ovvero la necessità di garantire il funzionamento ordinario e regolare dell'amministrazione con riferimento ad importanti posizioni dirigenziali previste dalla dotazione organica dell'Ente in quanto ordinario predicato organizzativo dell'amministrazione";
- "E' evidente infatti che simile ragionamento non potrà certo valere per quelle posizioni dirigenziali costituite oltre la dotazione organica, che quindi costituiscono vere e proprie assunzioni a tempo determinato per la copertura di posizioni evidentemente non ritenute essenziali dalla stabile organizzazione dell'ente. Per esse non potrà quindi che operare il limite previsto dall'art. 9, comma 28, del d.l. 78/2010" (tratto da www.publika.it).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Gli oneri di urbanizzazione.
DOMANDA:
Dall’esercizio 2013 cessa (non risulta alcuna proroga) la deroga concessa dall’art. 2, comma 8, della legge 244/2007 (legge finanziaria) per l’utilizzo per spese correnti (massimo 50%) e manutenzioni del patrimonio comunale (massimo 25%).
Si chiede se il gettito degli oneri di urbanizzazione del 2013 dovrà essere destinato esclusivamente a opere di urbanizzazione primarie e secondarie oppure è consentito anche un utilizzo per spese in conto capitale diverse (ad. Esempio acquisto mobili, attrezzature, ecc.)
RISPOSTA:
Facendo riferimento alla questione posta, si fa presente quanto segue. Dal 2013 le entrate derivanti da oneri di urbanizzazione dovranno essere destinate, per intero, solo al finanziamento di investimenti, cioè di spese impegnabili al titolo II.
Non esiste un vincolo di destinare queste risorse all’esclusivo finanziamento di opere di urbanizzazione primarie o secondarie (21.01.2013 - tratto da www.ancirisponde.ancitel.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAAutorizzazione Unica Ambientale: Quale è la definizione? (21.01.2013 - link a www.ambientelegale.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Obbligo di ricorso al MEPA e diritto di recesso dai contratti.
Qualora la categoria merceologica relativa al bene o il servizio oggettivamente necessario alla p.a. non sia presente all'interno del MEPA, l'Amministrazione, al fine di soddisfare l'interesse pubblico cui è preposta, può provvedere all'acquisizione anche al di fuori del MEPA, pur dovendo necessariamente motivare (con attenta enunciazione degli elementi in fatto ed in diritto rilevanti nei vari casi di specie) di aver debitamente effettuato tale verifica istruttoria, e di non aver tuttavia potuto materialmente reperire il bene o il servizio all'interno del MEPA.
Il Comune chiede di conoscere, premesso il generale obbligo di ricorrere al mercato elettronico per le acquisizioni sotto soglia, se permane la possibilità di ricorrere al mercato 'ordinario' in caso di mancato reperimento nel mercato elettronico dei beni e dei servizi di cui l'Ente medesimo necessita e se i contratti pluriennali, aventi scadenza nel 2014, rimangano validi o debbano essere rescissi.
Chiede, inoltre, di conoscere se, anche per gli enti locali del Friuli Venezia Giulia, vi sia l'obbligo di esercitare in forma associata almeno tre funzioni fondamentali entro il 01.01.2013, così come previsto dall'art. 19, comma 1, lett. e), del DL 95/2012 convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135 che ha apportato modifiche e integrazioni all'art. 14 del DL 78/2010, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122.
Sentito, in relazione alla prima questione, il Servizio provveditorato e servizi generali, si formulano le seguenti considerazioni.
L'articolo 1, comma 450, della l. 296/2006, come modificato dall'art. 7, comma 2, del DL 52/2012, convertito con la l. 94/2012 dispone: 'dal 01.07.2007, le amministrazioni statali centrali e periferiche, ad esclusione degli istituti e delle scuole di ogni ordine e grado, delle istituzioni educative e delle istituzioni universitarie, per gli acquisti di beni e servizi al di sotto della soglia di rilievo comunitario, sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui all'articolo 328, comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207. Fermi restando gli obblighi previsti al comma 449 del presente articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, per gli acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328';
Tutti i Comuni, quindi, rientrando nell'ambito della elencazione di cui al citato art. 1 del d.lgs. 165/2001, sono obbligati a far ricorso al mercato elettronico per gli acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla soglia comunitaria.
L'art. 328 del DPR 207/2010 individua tre tipi diversi di mercato elettronico: quello della medesima stazione appaltante, quello realizzato dal Ministero dell'economia e delle finanze tramite il sistema Consip, quello realizzato dalle centrali di committenza di cui all'art. 33 del codice dei contratti pubblici.
Per quanto riguarda la possibilità per il Comune instante di avvalersi del 'mercato tradizionale', qualora non reperisca all'interno del mercato elettronico i prodotti di cui necessita, si rileva che non sussistono previsioni normative in tal senso.
Come rilevato dalla dottrina, sulla natura di 'esclusività' del ricorso al mercato elettronico 'possono tuttavia nutrirsi dei dubbi, nel senso che il Mercato elettronico messo a disposizione da CONSIP non sembra essere (ancora) pienamente in grado di poter offrire tutti i servizi e i beni necessari alle diverse p.a.; in esso potrebbe quindi non essere oggettivamente presente ogni specifico bene/servizio volta per volta occorrente per soddisfare le esigenze pubbliche.
A tale proposito, è indispensabile premettere che nell'attuale contesto normativo ed economico, non sembra legittimo scegliere di non ricorrere al MEPA affermando semplicemente che i beni/servizi, benché presenti in esso, non siano però coerenti con le necessità della p.a. acquirente, in quanto privi di requisiti tecnici non essenziali o perché -addirittura- privi di requisiti di carattere meramente estetico. [...]. Ciò doverosamente premesso, potrebbe però accadere che, in effetti, il bene o il servizio oggettivamente necessario alla p.a. [1] non sia presente all'interno del MEPA: in questo caso, si deve ragionevolmente ritenere che la stessa p.a. -al fine di soddisfare l'interesse pubblico cui la stessa è preposta- sia comunque abilitata all'acquisizione anche al di fuori del MEPA, pur dovendo necessariamente motivare (con attenta enunciazione degli elementi in fatto ed in diritto rilevanti nei vari casi di specie) di aver debitamente effettuato tale verifica istruttoria, e di non aver tuttavia potuto materialmente reperire il bene o il servizio all'interno del MEPA.
'. [2]
Quanto alla validità dei contratti già in essere al 15/08/2012 (data di entrata in vigore dell'art. 1 D.L. 95/2012), l'articolo 1, comma 13, del DL 95/2012 prevede che le amministrazioni pubbliche che abbiano validamente stipulato un contratto di fornitura o di servizi hanno diritto di recedere in qualsiasi tempo dal contratto, previa formale comunicazione all'appaltatore con preavviso non inferiore a quindici giorni e previo pagamento delle prestazioni già eseguite oltre al decimo delle prestazioni non ancora eseguite. Il diritto di recesso è esercitabile ogni volta che, tenuto conto anche dell'importo dovuto per le prestazioni non ancora eseguite, i parametri Consip risultino migliorativi rispetto a quelli del contratto stipulato e l'aggiudicatario non acconsenta alla rinegoziazione.
La norma prevede che la clausola di recesso si inserisca automaticamente nei contratti in corso e che il suo mancato esercizio da parte dell'amministrazione vada segnalato alla Corte dei conti entro il 30 giugno di ogni anno.
Con riferimento alla seconda questione proposta dall'Ente instante, circa l'applicabilità agli enti locali della nostra regione dell'obbligo di esercizio associato di funzioni di cui alle norme indicate in premessa, si richiamano integralmente i contenuti dei pareri prot. n. 7273 e n. 7274 dd. 29.02.2012, resi dallo scrivente Ufficio in ordine alla non diretta applicabilità, in ambito regionale, delle norme statali in materia di esercizio in forma associata di funzioni tra enti locali [3].
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[1] Corre l'obbligo di precisare che, ad avviso dello scrivente Ufficio, per 'bene' e 'servizio' qui dovrebbe intendersi la relativa categoria merceologica.
[2] Cfr. 'Ricorso al MEPA: obblighi, deroghe e modalità operative' a cura di Ilenia Filippetti su www.appaltiecontratti.it dd. 12/09/2012.
[3] I pareri sono consultabili all'indirizzo: http://autonomielocali.regione.fvg.it/aall/opencms/AALL/Servizi/pareri/
(21.12.2012 - link a www.regione.fvg.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIAcquisti in economia e ricorso al mercato elettronico.
L'art. 1, comma 450, della L. 296/2006, come modificato dall'art. 7, comma 2 del DL 52/2012, facendo generico riferimento all'acquisto di beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario, sembra ricomprendere anche gli affidamenti in economia.
Il Comune chiede di conoscere se l'obbligo di ricorso al mercato elettronico riguardi anche le acquisizioni in economia di cui al Titolo V Capo II del DPR 207/2010 [1], atteso che l'art. 335 dispone, relativamente a dette acquisizioni, la facoltà e non l'obbligo del ricorso al mercato elettronico.
Sentito il Servizio provveditorato e servizi generali, si formulano le seguenti considerazioni.
L'articolo 7, comma 2, del D.L. n. 52/2012 [2] ha modificato il comma 450, dell'articolo 1, della L. n. 296/2006, disponendo che 'fermi restando gli obblighi previsti al comma 449 del presente articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, per gli acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328'.
Viene in sostanza sancito l'obbligo per tutti gli enti pubblici, e quindi anche per gli enti locali, di ricorrere al MEPA (o ad altri mercati elettronici) per l'acquisizione di beni e servizi sotto soglia.
Il tenore letterale della citata norma non sembra lasciar spazio a deroghe: gli enti devono necessariamente ricorrere al mercato elettronico per il reperimento di beni e servizi se il valore dell'importo è inferiore alla soglia comunitaria. Alla norma in esame parrebbe altresì applicabile il dettato dell'articolo 1, comma 1, del D.L. n. 95/2012, il quale dispone che 'i contratti stipulati in violazione degli obblighi di approvvigionarsi attraverso gli strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip S.p.A. sono nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa di responsabilità amministrativa'. Tra gli strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip, infatti, rientra anche il MEPA.
Il mercato elettronico è disciplinato dall'art. 328 del DPR n. 207/2010 che ne individua tre tipi diversi: quello della medesima stazione appaltante, quello realizzato dal Ministero dell'economia e delle finanze tramite il sistema Consip, quello realizzato dalle centrali di committenza di cui all'art. 33 del codice dei contratti pubblici.
Il comma 4 del predetto articolo 328 prevede, poi, che: 'Avvalendosi del mercato elettronico le stazioni appaltanti possono effettuare acquisti di beni e servizi sotto soglia:
a) attraverso un confronto concorrenziale delle offerte pubblicate all'interno del mercato elettronico o delle offerte ricevute sulla base di una richiesta di offerta rivolta ai fornitori abilitati;
b) in applicazione delle procedure di acquisto in economia di cui al capo II
'.
Con particolare riferimento al quesito dell'Ente concernente le acquisizioni in economia, si osserva come l'art. 1, comma 450, della L. 296/2006, come modificato dall'art. 7, comma 2, del DL 52/2012, facendo generico riferimento all'acquisto di beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario, sembri ricomprendere anche gli affidamenti in economia.
Detti affidamenti, infatti, nell'ambito del d.lgs. 163/2006 (Codice contratti), sono disciplinati dall'articolo 125, il quale è a sua volta inserito, nella parte II del Codice, all'interno del Titolo II, rubricato 'Contratti sotto soglia comunitaria'.
L'interpretazione letterale della norma, pertanto, sembrerebbe contemplare anche gli affidamenti in economia tra quelli sotto soglia richiamati dal legislatore statale.
Si osserva, tuttavia, che, come peraltro evidenziato dall'Ente instante, il DPR 207/2010 disciplina le acquisizioni sotto soglia e quelle in economia in due capi distinti (rispettivamente capi I e II del Titolo V).
Un tanto rende non agevole comprendere in quale accezione, nell'ambito del citato articolo 1, comma 450, L. 296/2006, il legislatore statale abbia inteso utilizzare la dicitura 'sotto soglia', ossia se riferendosi ai 'Contratti sotto soglia comunitaria' di cui alla parte II, Titolo II del Codice dei contratti (ricomprendente anche le acquisizioni in economia) o riferendosi alle sole 'Acquisizioni sotto soglia' disciplinate dal Titolo V, capo I del Regolamento sui contratti (con esclusione, quindi delle acquisizioni in economia).
In senso conforme alla seconda ipotesi interpretativa, si segnala un primo orientamento dell'ANCI [3] che si basa su una interpretazione sistematica dell'art. 328 cit. e su una lettura degli atti dei lavori del Senato in sede di conversione del DL 52/2012, i quali parrebbero circoscrivere l'obbligo di acquisto a mezzo di mercato elettronico solo agli acquisti sotto soglia effettuati in regime di 'appalto' in base agli articoli da 121 a 124 del Codice, con esclusione, perciò, degli acquisti eseguiti con il diverso regime 'in economia' i quali rimangono disciplinati dall'art. 125 del Codice (Capo II, rubricato 'Acquisizione di servizi e forniture in economia') e dal DPR n. 207/2010 (artt. 329 e ss.).
Tuttavia, nel successivo parere dd. 14.11.2012, la stessa ANCI ha affermato che «il capo II del Tit. V del DPR n. 207/2010 che disciplina specificatamente l''acquisizione di servizi e forniture in economia' menziona in vari articoli la possibilità di utilizzazione del mercato elettronico (v. art. 332, comma 1; 335, comma 2), onde sembra potersi ritenere che i due istituti, 'acquisizioni in economia' e 'mercato elettronico' siano stati concepiti dal legislatore non in termini di esclusività o di alternatività ma di possibile integrazione tra di loro;
- In tale lettura sembra ammissibile concludere che l'obbligo di cui al comma 2 dell'art. 7 cit. [DL 52/2012] di far ricorso al mercato elettronico sia da intendersi nei modi e termini previsti dalle disposizioni contenute nello stesso capo II del Tit. V del DPR 207/2010 e che quindi anche l'art. 125 del codice dei contratti pubblici non risulti affatto implicitamente abrogato dalla recente norma sulla spending review sopra ricordata, dovendo piuttosto le norme di interesse correttamente applicarsi in combinato disposto tra di loro;
- In sostanza i comuni potranno scegliere le proposte di acquisto più convenienti nell'ambito del mercato elettronico (ove saranno presenti beni e servizi offerti da fornitori abilitati a inserire i propri cataloghi nel sistema) seguendo le proprie procedure in economia;
- In particolare si ritiene che, le indagini di mercato effettuate dalla stazione appaltante debbano essere effettuate mediante la consultazione di cataloghi elettronici di cui all'art. 328 cit. (v. anche art. 332).
».
In conclusione, fermo restando che l'interpretazione delle norme in commento spetta ai competenti uffici ministeriali, nelle more di auspicabili chiarimenti, si ritiene che la lettura coordinata della citata normativa induca a ritenere opportuno procedere anche per le acquisizioni in economia ricorrendo al mercato elettronico. Un tanto anche al fine di evitare le responsabilità e le conseguenze pregiudizievoli sui contratti previste dal citato articolo 1, comma 1, del DL 95/2012.
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[1] 'Regolamento di esecuzione ed attuazione del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, recante «Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE»'
[2] Convertito con modifiche dalla l. 06.07.2012, n. 94.
[3] Parere ANCI del 10.09.2012
(19.12.2012 - link a www.regione.fvg.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIObbligo di avvalersi di Consip per i comuni montani con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti per l'approvvigionamento dei beni di cui all'art. 1, comma 7, del D.L. 95/2012.
L'art. 1, comma 7, del D.L. 95/2012 -che stabilisce una disciplina speciale per l'approvvigionamento di beni, quali energia elettrica, gas, carburanti, combustibili per riscaldamento, telefonia, da parte delle pubbliche amministrazioni- non ammette deroghe o procedure particolari per i piccoli comuni. Tali norme dettano, infatti, modalità di acquisto che si applicano a tutte le amministrazioni pubbliche e le società inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istat ai sensi dell'articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196.
 Il Comune riporta che, ai sensi dell'art. 26, comma 3, della legge 23.12.1999, n. 488 [1], i comuni montani con popolazione fino a 5.000 abitanti sono esentati, per l'acquisto di beni e servizi, dall'obbligo di ricorrere alle convenzioni stipulate dal Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica ovvero ad utilizzarne i parametri di prezzo-qualità come limiti massimi.
Premesso un tanto, l'Ente chiede se tale clausola di salvaguardia si applichi anche per l'approvvigionamento di determinate categorie di beni (energia elettrica, gas, carburanti, telefonia) per i quali l'art. 1, comma 7, del decreto legge 06.07.2012, n. 95 [2], prevede l'utilizzo di specifiche modalità di acquisto prescritte dalla legge.
Sentito il Servizio provveditorato e servizi generali di questa Direzione centrale, si formulano le seguenti considerazioni.
Le norme statali succedutesi in materia di acquisti della pubblica amministrazione hanno distinto, in più occasioni, la disciplina applicabile ai comuni più piccoli da quella relativa agli enti con popolazione più numerosa, permettendo ai primi l'utilizzo di procedure più consone alla propria organizzazione sebbene comunque dirette ad una riduzione delle spese per gli approvvigionamenti [3].
Si rileva, tuttavia, che l'art. 1, comma 7, del D.L. 95/2012 -che stabilisce una disciplina speciale per l'approvvigionamento di beni, quali energia elettrica, gas, carburanti, combustibili per riscaldamento, telefonia, da parte delle pubbliche amministrazioni- non sembra ammettere deroghe o procedure particolari per i piccoli comuni. Tali norme dettano, infatti, modalità di acquisto che si applicano a tutte le amministrazioni pubbliche e le società inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istat ai sensi dell'articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196 [4].
L'art. 1, comma 7, del D.L. 95/2012, richiede alle pubbliche amministrazioni di approvvigionarsi mediante le convenzioni o gli accordi quadro messi a disposizione da Consip o da centrali di committenza regionali ovvero attraverso proprie autonome procedure, nel rispetto della normativa vigente, utilizzando i sistemi telematici di negoziazione messi a disposizione dai soggetti sopra indicati.
Va tuttavia evidenziato che il dettato normativo, a seguito della riscrittura del comma operata dalla legge di conversione 135/2012, ha ampliato il novero di modalità di approvvigionamento di tali specifici beni consentendo, nel rispetto di alcune condizioni, di potere effettuare affidamenti anche al di fuori delle procedure sopra indicate.
La legge di conversione ha, infatti, introdotto, come alternativa, per le stesse amministrazioni pubbliche, la possibilità di procedere ad affidamenti che conseguano ad approvvigionamenti da altre centrali di committenza o a procedure ad evidenza pubblica i cui i corrispettivi siano inferiori (e, quindi, migliorativi) rispetto a quelli delle convenzioni e degli accordi quadro messi a disposizione da Consip e dalle centrali regionali di committenza. In tale caso, i contratti dovranno essere sottoposti a condizione risolutiva, con possibilità di adeguamento da parte del contraente, per il caso in cui intervengano convenzioni Consip o delle centrali regionali di committenza che prevedano condizioni economiche di maggiore vantaggio.
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[1] Comma modificato prima dall'art. 3, comma 166, della legge 24.12.2003, n. 350 e poi dall'art. 1 del decreto legge 12.07.2004, n. 168, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2004, n. 191.
[2] Convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135.
[3] Oltre a quanto richiamato dall'Ente sull'utilizzo delle convenzioni-quadro ai sensi dell'art. 26, comma 3, della L. 488/1999, i comuni della Regione con meno di 3.000 abitanti dovranno considerare anche quanto disposto, in merito all'utilizzo per le proprie acquisizioni delle centrali uniche di committenza, dall'art. 33, comma 3-bis, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, come recepito in Friuli Venezia Giulia dall'art. 4 della legge regionale 09.03.2012, n. 3, con le modifiche apportate dalla 'legge di manutenzione dell'ordinamento regionale 2012' (approvata l'11 dicembre u.s. e in corso di pubblicazione).
[4] La cui ultima versione è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 227 del 28.09.2012
(17.12.2012 - link a www.regione.fvg.it).

NEWS

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOPolitici, i redditi trasparenti. Dichiarazioni online altrimenti scatta la sanzione. Il governo ha approvato il dlgs sulla trasparenza della pubblica amministrazione.
In piazza i redditi dei dirigenti pubblici e di chi riveste cariche politiche. Il governo ha approvato lo schema di decreto legislativo attuativo della delega prevista dall'articolo 1, comma 35, della legge 190/2012 (anticorruzione), finalizzato al riordino delle tantissime norme che impongono di pubblicizzare una molteplicità di dati.
E l'omissione delle informazioni sarà punita con delle sanzioni da un minimo di 500 euro a un massimo di 10 mila euro, con la pubblicazione sul sito internet dell'amministrazione del provvedimento con cui si è colpito il dirigente o il politico.
Spicca, in particolare, una decisa volontà del legislatore di far conoscere ai cittadini anche il trattamento economico e l'intero stato patrimoniale della dirigenza.
Patrimonio dei dirigenti. Lo schema di decreto legislativo sottrae alle cautele della privacy le informazioni sui dirigenti pubblici e vuole mettere in condizione i cittadini di conoscere ogni aspetto della loro attività e del patrimonio. Per tutti i titolari di incarichi amministrativi di vertice e di incarichi dirigenziali e per i collaboratori o consulenti, si impone di rendere pubblici l'atto di conferimento dell'incarico, il curriculum vitae, i dati relativi ad incarichi o alla titolarità di cariche in enti di diritto privato finanziati dall'erario o lo svolgimento di attività professionali, le retribuzioni, fisse e variabili.
Nei confronti dei consulenti esterni, le pubblicazioni dei dati relativi ai loro incarichi sarà condizione di efficacia dell'atto e di conferimento e per la liquidazione dei relativi compensi. Il dirigente che vìoli questa prescrizione risponde sul piano disciplinare del e dovrà pagare una sanzione pari alla somma corrisposta, oltre all'eventuale risarcimento del danno da ritardo. Infine, le pubbliche amministrazioni dovranno pubblicare ed aggiornare l'elenco dei dirigenti esterni, assunti a tempo determinato, con tanto di curriculum.
Compensi dei politici. Altrettanto rigoroso e ampio è l'elenco delle informazioni riguardanti i componenti degli organi politici.
Sul sito istituzionale, ogni amministrazione dovrà inserire l'atto di nomina o di proclamazione dell'elezione, specificando la durata dell'incarico o del mandato elettivo; il curriculum (anche se non si capisce quanto possa influire il curriculum per una carica elettiva politica); i compensi, di natura fissa o variabile, connessi con l'assunzione della carica; le spese per viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici; dati relativi all'assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti; l'elenco di altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica e l'indicazione dei compensi spettanti.
Anche per gli eletti lo schema di decreto legislativo prevede la pubblicazione di dichiarazioni sul patrimonio (beni immobili, mobili registrati, azioni), dichiarazioni Irpef e una dichiarazione concernente le spese sostenute e le obbligazioni assunte per la propaganda elettorale,.
Sanzioni. Nel caso in cui i componenti degli organi di governo omettano di fornire le informazioni sul loro stato patrimoniale o, comunque, diano informazioni incomplete, lo schema di decreto legislativo prevede luogo a una sanzione amministrativa pecuniaria da un minimo di 500 a un massimo di 10 mila euro e il relativo provvedimento sanzionatorio deve essere pubblicato sul sito internet dell'amministrazione.
La sanzione si applica anche nel caso di omessa o incompleta informazione in merito alla titolarità di imprese, alle partecipazioni azionarie proprie, del coniuge e dei parenti entro il secondo grado di parentela dei componenti degli organi politici (articolo ItaliaOggi del 23.01.2013).

PUBBLICO IMPIEGOPer i funzionari p.a. laurea obbligatoria.
Reclutamento dei funzionari della p.a. al restyling. Laurea obbligatoria per l'ammissione ai corsi-concorso. La formazione sarà almeno semestrale e a agli allievi che non sono già dipendenti pubblici sarà riconosciuto un compenso netto di mille euro al mese. Le selezioni saranno bandite dalla Scuola nazionale dell'amministrazione e dalle altre Scuole del sistema unico del reclutamento e della formazione pubblica. I bandi dovranno specificare il titolo di studio minimo richiesto (laurea magistrale o specialistica per gli esterni e laurea triennale per chi è già dipendente della p.a.), le diverse classi di concorso e i criteri relativi alle prove (due scritti e un orale, volto anche ad accertare la conoscenza di una lingua straniera comunitaria).
È quanto prevede lo schema di dpr recante disposizioni sui corsi-concorso per funzionari e dirigenti pubblici approvato ieri dal consiglio dei ministri.
Le commissioni esaminatrici saranno nominate dalle scuole che bandiscono le selezioni. Gli ammessi ai corsi-concorsi saranno il 20% in più del numero dei posti da coprire. All'esame finale, dopo un semestre di formazione, accederanno soltanto coloro che conseguono nella valutazione continua una media pari almeno a 80 su 100.
Le graduatorie, per ciascuna amministrazione di assegnazione degli allievi, saranno approvate con appositi dpcm. Gli allievi estranei alla p.a. percepiranno una borsa di studio stabilita in mille euro mensili, rivalutata secondo l'indice Istat-Foi all'inizio di ciascun corso. I candidati che risultano già dipendenti della p.a., invece, continueranno a godere del proprio trattamento economico, senza alcuna indennità di missione. La partecipazione ai corsi-concorsi darà diritto al riconoscimento dell'anzianità di servizio.
Sfarinati. Nel corso della riunione di ieri, palazzo Chigi ha anche esaminato il regolamento che modifica il dpr n. 187/2001 in materia di produzione e commercializzazione di sfarinati e paste alimentari. Fatta salva quella destinata all'export, per la fabbricazione della pasta secca sarà vietato l'utilizzo di sfarinati di grano tenero (articolo ItaliaOggi del 23.01.2013 - link a www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOAnticorruzione. Varati dal Consiglio dei ministri due decreti legislativi per dare attuazione alla legge del novembre scorso. Politici e funzionari, sanzioni pro-trasparenza.
PATRIMONI E ENTRATE EXTRA/ Multe da 500 a 10mila euro e stop agli stipendi per la mancata pubblicazione sui siti istituzionali di incarichi e situazione patrimoniale.
Arrivano multe e controlli rigidi per politici e funzionari pubblici poco trasparenti su patrimoni personali e conflitti d'interesse lavorativi. In particolare, scatta una sanzione amministrativa pecuniaria da 500 a 10mila euro nei confronti di membri del Governo, parlamentari, assessori e consiglieri regionali e di tutti i titolari di incarichi e elettivi e di esercizio politico per la mancata, o non corretta, pubblicazione sui siti istituzionali della situazione patrimoniale complessiva «propria» e dei parenti entro il secondo grado.

A introdurre il nuovo sistema sanzionatorio per i vari livelli di governo è il decreto legislativo varato ieri pomeriggio dal Consiglio dei ministri per dare attuazione alla legge anticorruzione nella Pa approvato lo scorso autunno e per rafforzare le misure già in vigore sulla trasparenza nella Pa.
Anche i vari livelli dirigenziali della pubblica amministrazioni sono vincolati all'obbligo di rendere pubblici gli incarichi ricoperti e anche la situazione patrimoniale ma in questo caso con un meccanismo più elastico rispetto ai politici: in caso di violazione può scattare anche lo stop agli stipendi. L'obbligo di pubblicità riguarda anche i procedimenti di approvazione dei piani regolatori e delle varianti urbanistiche e, sul versante sanitario, i dati relativi alle nomine dei direttori generali e agli accreditamenti delle strutture cliniche.
Non manca un capitolo dedicato ai costi della politica a livello locale dando. Regioni e province dovranno pubblicare i rendiconti dei gruppi consiliari regionali e provinciali e gli atti e le relazioni degli organi di controllo. In evidenza dovranno essere messe soprattutto le risorse trasferite a ciascun gruppo.
Il provvedimento introduce anche il principio del diritto di accesso civico agli atti e ai dati della pubblica amministrazione rafforzando notevolmente, anche a fini anti-corruttivi, il dispositivo già previsto dalla legge 241/1990 per garantire ai cittadini la possibilità di visionare documenti e pratiche degli uffici pubblici. Gli utenti della Pa potranno ora pretendere la pubblicazione di quelle informazioni che le strutture statali, pur essendo obbligate, non provvedono a divulgare sui propri siti istituzionali. In tutti i casi l'obbligo di pubblicazione avrà una durata quinquennale.
Il Consiglio dei ministri ha varato anche un secondo decreto legislativo di attuazione della legge anti-corruzione che individua ulteriori incarichi, apicali e semi-apicali, presso istituzioni ed enti pubblici che comportano il collocamento fuori ruolo di magistrati e avvocati e procuratori dello Stato (articolo Il Sole 24 Ore del 23.01.2013 - link a www.corteconti.it).

TRIBUTITares prorogata a luglio. Sì definitivo della Camera anche alla gestione rifiuti in Campania.
Enti locali. Slitta il termine per pagare la prima rata del prelievo che costerà un miliardo in più.
La Tares slitta a luglio. Con l'approvazione definitiva della conversione in legge del Dl 1/2013, ieri alla Camera, l'articolo 1-bis, introdotto dal Senato, posticipa, per il solo anno 2013, al mese di luglio il termine di versamento della prima rata del tributo comunale sui rifiuti e sui servizi, disciplinato all'articolo 14, comma 35, del Dl 211 del 2011, precedentemente fissato in gennaio e poi spostato al mese di aprile dalla legge di stabilità 2013. Sempre ferma restando la facoltà, per i Comune, di posticipare ulteriormente tale termine.
Gli altri provvedimenti contenuti nel Dl 1/2013 prevedono una serie di modifiche all'attuale disciplina dei rifiuti. L'articolo 1 proroga il regime speciale vigente in Campania, che attribuisce alle province la gestione delle attività di raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani e differisce l'entrata in vigore del divieto di smaltire in discarica i rifiuti che non possono essere ulteriormente valorizzati attraverso il riciclaggio.
Viene anche messa a regime la disciplina dei Raee (Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche). L'articolo 2 proroga fino al 31.12.2013 gli incarichi dei Commissari per le emergenze ambientali (tra cui la nave Concordia). L'articolo 2-bis interviene sui contributi in favore dei soggetti residenti nelle regioni colpite dal sisma in Emilia del maggio 2012, in modo da coprire integralmente le spese per la riparazione, il ripristino o la ricostruzione degli immobili.
Tra gli altri, il Governo ha accolto l'ordine del giorno presentato da Simonetta Rubinato (Pd), il cui gruppo ha peraltro votato a favore della proroga, con cui si impegna ad assumere le iniziative necessarie a rimediare all'introduzione della Tares: «Il rinvio del pagamento della prima rata a luglio 2013, approvato la scorsa settimana dal Senato –spiega Simonetta Rubinato– non risolve i problemi. Anzi, li complica ulteriormente, perché le famiglie si troveranno a pagare un vero e proprio salasso, aggiuntivo all'Imu».
Il rinvio del pagamento della Tares è strettamente legato all'appuntamento elettorale, anche se ufficialmente è legato alla possibilità per il nuovo Governo di rivederne l'impianto; alla commissione Ambiente del Senato era stato chiesto con un emendamento del presidente D'Alì anche per «restituirle la sua natura di tariffa contro un servizio corrisposto». Federambiente, però, aveva sottolineato i rischi del mancato afflusso di liquidità agli operatori.
Il nodo è quello economico, infatti: la Tares prevede una componente legata alla raccolta e smaltimento rifiuti, che deve coprire il costo del servizio, ma anche una «maggiorazione» da 30 centesimi al metro quadrato (elevabile a 40 dal Comune) per pagare i «servizi indivisibili». Quindi, sicuramente almeno un miliardo in più per i contribuenti: oneri che sotto elezioni non era il caso di chiedere.
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Le novità approvate
01 | LA PROROGA
Viene posticipato per il solo anno 2013, al mese di luglio il termine di versamento della prima rata Tares, precedentemente fissato al mese di aprile dalla legge di stabilità 2013. In ogni caso i Comuni possono posticipare ulteriormente il termine
02 | IN CAMPANIA
Prorogato anche il regime speciale vigente in Campania, che attribuisce alle province la gestione delle attività di raccolta e di smaltimento dei rifiuti urbani e differisce l'entrata in vigore del divieto di smaltire in discarica i rifiuti non riciclabili
03 | RAEE
Viene anche messa a regime la disciplina dei Raee (Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche), in precedenza provvisoria
04 | COMMISSARI
Proroga al 31.12.2013 degli incarichi dei Commissari per le emergenze ambientali a Giugliano (Na) e Castelvolturno (Ce), allo stabilimento Stoppani del comune di Cogoleto (Ge), alle isole Eolie e al naufragio della nave Concordia all'Isola del Giglio
05 | SISMA IN EMILIA
I contributi in favore dei soggetti residenti nelle regioni colpite dal sisma in Emilia del maggio 2012, dovranno coprire integralmente le spese per la riparazione, il ripristino o la ricostruzione degli immobili (articolo Il Sole 24 Ore del 23.01.2013 - link a www.ecostampa.it).

LAVORI PUBBLICIAnce: la direttiva Ue sui pagamenti lumaca si applica ai lavori pubblici. Costruttori, crediti ricchi. In caso di ritardo interessi pari all'8,75%.
Anche al settore dei lavori pubblici si applicano i termini previsti della direttiva europea sui ritardati pagamenti. In caso di ritardo, a favore dei costruttori scattano gli interessi nella misura stabilita dal nuovo provvedimento (oggi l'8,75%), non essendo più applicabile la disciplina pregressa (meno favorevole ai creditori).

Sono queste due importanti precisazioni contenute nella circolare 18.01.2013 diffusa ieri dall'Ance per fornire alcune prime indicazioni operative relative all'applicazione del dlgs 192/2012.
Mediante tale provvedimento, come noto, è stato disposto l'integrale recepimento della nuova direttiva europea 2011/7/Ue relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Proprio argomentando a partire dal fatto che il recepimento della direttiva è stato «integrale» e che essa riguarda tutti i settori, compreso quello dell'edilizia, l'Ance afferma che le nuove disposizioni devono ritenersi applicabili anche al settore delle costruzioni.
La questione, in effetti, è piuttosto controversa, anche perché il nuovo decreto si limita a modificare il precedente dlgs 231/2002, il quale non si applicava a tale settore. Sul punto, nei mesi scorsi, è intervento più volte anche il Vice-Presidente della Commissione europea, Antonio Tajani, anch'egli sostenendo la tesi dell'applicazione a 360° della nuova direttiva e quindi dei relativi provvedimenti nazionali di recepimento. Tuttavia, al momento, non si registrano conferme ufficiali da parte del governo. Nelle scorse settimane era stata annunciata una circolare congiunta del ministero dello sviluppo economico, che tuttavia non dovrebbe vedere la luce prima di febbraio.
Altrettanto importante il secondo chiarimento fornito dall'Ance e che riguarda la decorrenza e la misura degli interessi legali di mora in caso di ritardato pagamento. Secondo i costruttori, l'approvazione del dlgs 192 ha comportato alcune modifiche alla disciplina settoriale per i lavori pubblici definita dal codice dei contratti e dal relativo regolamento di esecuzione ed attuazione.
Per effetto di tali modifiche, anche al settore in questione si applica il duplice termine di 30 giorni+30 giorni per la verifica delle prestazioni effettuate (consacrata dall'emanazione del c.d. SAL) e per le operazioni di pagamento. Il primo termine, secondo l'Ance, sostituisce quello di 45 giorni previsto dall'art. 143 del predetto regolamento. Quanto al secondo termine, in base al dlgs 192, esso dovrebbe scattare dal momento della emissione della fattura. In tal caso, tuttavia, l'Ance ritiene che rimanga in vigore la previsione del regolamento, in quanto più favorevole per il creditore: il conto alla rovescia, quindi, scatterebbe dall'emissione del certificato di pagamento, che normalmente arriva prima del rilascio della fattura.
Infine, l'Ance chiarisce che la misura degli interessi di mora è in ogni caso quella prevista dal dlgs 192. Secondo i costruttori, infatti, quest'ultimo ha abrogato i commi 2 e 3 dell'art. 144 del regolamento dei codice dei contratti, che prevedevano che nei primi 60 giorni di ritardo nel pagamento dell'acconto e del saldo si applicasse il tasse legale (oggi pari al 2,5%) e che dal sessantunesimo giorno scattasse il saggio stabilito annualmente con decreto interministeriale (da ultimo fissato al 5,27%).
Nei fatti, con tempi medi di pagamento di circa 8 mesi, i ritardi si registrano sia sul certificato che sul mandato e quindi il tasso legale si applica per i primi 4 mesi di ritardo. Dal 1° gennaio scorso, invece, sin dal primo giorno di ritardo si applica il tasso Bce (per il semestre in corso pari allo 0,75%, come da comunicato del Mef pubblicato sulla G.U. n. 14 del 17.01.2013), maggiorato dell'8%. Secondo l'Ance, in tal modo si corregge la precedente distorsione che portava gli operatori (specialmente negli enti locali) a dare precedenza ai pagamenti in altri settori (articolo ItaliaOggi del 22.01.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIAAddio alla discarica. Anzi no. Presto un decreto sul riutilizzo energetico dei residui. Spostato al 31/12/ 2013 il divieto di stoccaggio finale dei rifiuti ad alto potere calorifico.
Rifiuti ad alto potere calorifico nuovamente in rotta verso le discariche, ma con la prospettiva di un loro (futuro ed) effettivo dirottamento verso il riutilizzo energetico.
Se da un lato, infatti, con il primo provvedimento d'urgenza del nuovo anno (il dl 1/2013) è stato nuovamente spostato in avanti il divieto di ammissibilità in discarica dei rifiuti con potere calorifero («Pci») superiore a 13 mila kJ/kg (portandolo al 31.12.2013), dall'altro si affaccia all'orizzonte il decreto ministeriale che (in attuazione del «Codice ambientale») semplificherà l'utilizzo dei combustibili da rifiuti stabilendo le condizioni per gestirli come veri e propri beni.
La proroga dell'«addio alla discarica». Sebbene dopo due settimane dall'entrata in vigore del divieto generale della loro ammissibilità in discarica, e dell'operatività delle relative sanzioni penali, il nuovo slittamento dell'«addio alla discarica» per i rifiuti con «Potere calorifico inferiore» > a 13 mila kJ/kg è arrivato con il decreto legge 14.01.2013 n. 1 (pubblicato sulla G.U. del giorno successivo, n. 11).
L'articolo 1 del dl, infatti, ha differito (per la nona volta) di un anno il divieto di stoccaggio definitivo previsto dall'articolo 6 del dlgs 36/2003 in relazione ai rifiuti in questione, portandolo dal 31 dicembre del 2012 a quello del 2013. In base allo stesso dlgs 36/2003, lo ricordiamo, unica eccezione al generale divieto di ammissibilità in discarica dei rifiuti ad alto «Pci» è quella relativa ai residui provenienti dalla frantumazione degli autoveicoli e dei rottami ferrosi destinati a impianti di stoccaggio «monodedicati», che potranno continuare a operare nei limiti delle capacità autorizzate alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge 29.12.2010, n. 225 (ossia alla data del 27.02.2011).
Energia da rifiuti, novità in arrivo. L'ennesimo rinvio dell'obbligo di valorizzazione energetica dei rifiuti potrebbe però presto lasciare il posto a un nuovo regime giuridico che, secondo uno schema di decreto già predisposto dal Minambiente e licenziato dal consiglio dei ministri nel corso del 2012, dovrà incoraggiare il reimpiego energetico dei rifiuti ad alto potere calorifico permettendone la gestione come veri e propri beni. Il divieto di ammissibilità in discarica dei rifiuti previsto dal dlgs 36/2003 (di attuazione della direttiva 1999/31/Ce) risponde infatti alla logica (di matrice comunitaria, trasposta nell'articolo 179 del «Codice ambientale») della priorità del loro impiego nel recupero di energia rispetto allo smaltimento.
In base a tale logica ha trovato infatti collocazione nello stesso dlgs 152/2006 la previsione di una gestione agevolata dei rifiuti destinati a recupero energetico, e ciò prima in riferimento ai «Cds» (combustibile da rifiuto) e poi ai «Css» (combustibile solido secondario, in seguito alla riforma dell'articolo 183 del «Codice ambientale» ex dlgs 205/2010). L'attuale «Css», lo ricordiamo, è secondo la definizione del dlgs 152/2006 il combustibile prodotto da rifiuti che rispetta determinate caratteristiche «Uni» (compatibili con i rifiuti a «Pci» > 13 mila kJ/kg), attualmente classificato come rifiuto speciale, ma che potrà essere (in futuro) riabilitato a vero e proprio «bene» (secondo quanto prevede l'articolo 184-ter, dlgs 152/2006) se processato secondo criteri tecnici elaborati dall'Unione europea o da singoli stati membri.
E proprio in attuazione del citato articolo 184-ter, dlgs 152/2006 (in linea con lo stesso e citato principio comunitario della gerarchia della gestione dei rifiuti, che prima ancora del loro recupero ne impone ove possibile il riutilizzo) dovrebbe presto essere definitivamente adottato dal dicastero dell'ambiente il regolamento in materia di «end of waste» del combustibile solido secondario.
Già predisposto nel corso del 2012, e attualmente al vaglio delle competenti autorità per i necessari pareri, il decreto ministeriale in questione dovrebbe, infatti, stabilire le condizioni specifiche alle quali il «Css» cesserà di essere qualificato come rifiuto (per diventare un bene, il «Css-combustibile») (articolo ItaliaOggi Sette del 21.01.2013).

VARITablet, a ognuno la sua tariffa. Abbonamenti o ricariche: un'offerta per tutte le tasche. Dagli operatori di tlc a quelli virtuali, come scegliere in base alla frequenza di utilizzo.
La sfera della tecnologia si è arricchita da qualche anno con l'arrivo dei tablet, tavolette touchscreen il cui utilizzo, soprattutto per navigare in Internet, è in forte aumento tra gli italiani. Non stupisce, dunque, che gli operatori tlc si siano attrezzati lanciando delle tariffe ad hoc, ciascuna pensata per una determinata fascia di utenti. Vediamo le principali offerte.
Aspetti da tenere d'occhio. Per chi è interessato a utilizzare il tablet per la navigazione sul web la possibilità di scelta tra le proposte dei diversi operatori è molto ampia, con la possibilità di sottoscrivere un abbonamento o di affidarsi a delle ricariche; alcune compagnie permettono poi, a chi non ne fosse già in possesso, di acquistare un tablet direttamente dal loro sito.
Per effettuare la scelta migliore è però consigliabile capire in quale fascia di utenza si rientra, a seconda che si faccia un uso sporadico del web con qualche accesso al mese, standard oppure intenso per chi è sempre collegato.
Un altro fattore da tenere d'occhio è la voce extra-soglia che, anche quando si supera la soglia prestabilita dall'operatore, permette di continuare a navigare senza maggiorazioni sulla spesa di traffico, con una riduzione però della velocità di connessione. (... continua) (articolo ItaliaOggi Sette del 21.01.2013).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAL’art. 1, secondo comma, della legge regionale Marche n. 31 del 1979 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, in quanto eccede la competenza regionale concorrente del «governo del territorio», violando il limite dell’«ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Invero, la norma de qua consente (ndr: consentiva) espressamente ai Comuni di derogare alle distanze minime fissate nel d.m. n. 1444 del 1968, senza rispettare le condizioni stabilite dall’art. 9, ultimo comma, del medesimo decreto ministeriale, il quale esige che le deroghe siano inserite in appositi strumenti urbanistici, a garanzia dell’interesse pubblico relativo al governo del territorio. La disposizione regionale impugnata, al contrario, autorizza i Comuni ad «individuare gli edifici» dispensati dal rispetto delle distanze minime. La deroga non risulta, dunque, ancorata all’esigenza di realizzare la conformazione omogenea dell’assetto urbanistico di una determinata zona, ma può riguardare singole costruzioni, anche individualmente considerate.

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La regolazione delle distanze tra i fabbricati deve essere inquadrata nella materia «ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato. Infatti, tale disciplina attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi e ha la sua collocazione innanzitutto nel codice civile.
La regolazione delle distanze è poi precisata in ulteriori interventi normativi, tra cui rileva, in particolare, il citato d.m. n. 1444 del 1968. Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale ha altresì chiarito che, poiché «i fabbricati insistono su di un territorio che può avere rispetto ad altri –per ragioni naturali e storiche– specifiche caratteristiche, la disciplina che li riguarda –ed in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso– esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici», la cui cura è stata affidata alle Regioni, in base alla competenza concorrente in materia di «governo del territorio», ex art. 117, terzo comma, Cost..
Per queste ragioni, in linea di principio la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio.
Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo –il governo del territorio– che ne detta anche le modalità di esercizio. Pertanto, la legislazione regionale che interviene in tale ambito è legittima solo in quanto persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico, rimettendo l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio».
Le norme regionali che, disciplinando le distanze tra edifici, esulino da tali finalità, ricadono illegittimamente nella materia «ordinamento civile», riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Il punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale in materia di «ordinamento civile» e quella regionale in materia di «governo del territorio», come identificato dalla Corte costituzionale, trova una sintesi normativa nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che la Corte costituzionale ha più volte ritenuto dotato di «efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato». Quest’ultima disposizione consente che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».
Le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono, dunque, consentite nei limiti ora indicati, se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio.

Come ricorda correttamente l’ordinanza di rimessione, questa Corte ha già affermato che la regolazione delle distanze tra i fabbricati deve essere inquadrata nella materia «ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenze n. 114 del 2012, n. 173 del 2011, n. 232 del 2005). Infatti, tale disciplina attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi e ha la sua collocazione innanzitutto nel codice civile.
La regolazione delle distanze è poi precisata in ulteriori interventi normativi, tra cui rileva, in particolare, il citato d.m. n. 1444 del 1968. Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale ha altresì chiarito che, poiché «i fabbricati insistono su di un territorio che può avere rispetto ad altri –per ragioni naturali e storiche– specifiche caratteristiche, la disciplina che li riguarda –ed in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso– esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici» (sentenza n. 232 del 2005), la cui cura è stata affidata alle Regioni, in base alla competenza concorrente in materia di «governo del territorio», ex art. 117, terzo comma, Cost..
Per queste ragioni, in linea di principio la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo –il governo del territorio– che ne detta anche le modalità di esercizio. Pertanto, la legislazione regionale che interviene in tale ambito è legittima solo in quanto persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico, rimettendo l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 232 del 2005).
Le norme regionali che, disciplinando le distanze tra edifici, esulino da tali finalità, ricadono illegittimamente nella materia «ordinamento civile», riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Il punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale in materia di «ordinamento civile» e quella regionale in materia di «governo del territorio», come identificato dalla Corte costituzionale, trova una sintesi normativa nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che la Corte costituzionale ha più volte ritenuto dotato di «efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato» (sentenza n. 114 del 2012; ordinanza n. 173 del 2011; sentenza n. 232 del 2005). Quest’ultima disposizione consente che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche». Le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono, dunque, consentite nei limiti ora indicati, se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio.
La norma regionale censurata infrange i principi sopra ricordati, in quanto consente espressamente ai Comuni di derogare alle distanze minime fissate nel d.m. n. 1444 del 1968, senza rispettare le condizioni stabilite dall’art. 9, ultimo comma, del medesimo decreto ministeriale, che, come si è detto, esige che le deroghe siano inserite in appositi strumenti urbanistici, a garanzia dell’interesse pubblico relativo al governo del territorio. La disposizione regionale impugnata, al contrario, autorizza i Comuni ad «individuare gli edifici» dispensati dal rispetto delle distanze minime. La deroga non risulta, dunque, ancorata all’esigenza di realizzare la conformazione omogenea dell’assetto urbanistico di una determinata zona, ma può riguardare singole costruzioni, anche individualmente considerate.
La procedura delineata dal legislatore regionale non è dunque conforme ai principi sopra enunciati, né il vizio può ritenersi insussistente in ragione dell’art. 2, quarto comma, della legge regionale impugnata, che intende conferire a tale procedura «efficacia di piano particolareggiato», ex lege. Anzi, attraverso tale autoqualificazione, il legislatore regionale pretende di attribuire gli effetti tipici degli strumenti urbanistici a un procedimento che non ne rispecchia la sostanza e le finalità. L’attribuzione, per via legislativa, della qualifica formale di piano particolareggiato ad una procedura che del piano urbanistico non ha le caratteristiche, perché permette di derogare caso per caso alle regole sulle distanze tra edifici, non offre alcuna garanzia che la legge regionale persegua quelle finalità pubbliche di governo del territorio che, sole, possono giustificare l’esercizio di una competenza legislativa regionale in un ambito strettamente connesso alla competenza statale in materia di «ordinamento civile».
Pertanto, l’art. 1, secondo comma, della legge regionale Marche n. 31 del 1979 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, in quanto eccede la competenza regionale concorrente del «governo del territorio», violando il limite dell’«ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato (Corte Costituzionale, sentenza 23.01.2013 n. 6).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOPer la concussione serve la minaccia. La pronuncia dopo la riforma introdotta dalla legge 190/2012.
Concussione solo con minaccia. Dopo la riforma introdotta dalla legge 190/2012 affinché si configuri il reato ex articolo 317 c.p. serve la minaccia, per quanto implicita, da parte del politico al dirigente pubblico che l'imprenditore andrà incontro a una lesione patrimoniale e non, che può essere costituita da danno emergente o lucro cessante. Nella fattispecie nuova dell'induzione ex articolo 319-quater c.p. rientra invece un'azione più blanda, che si configura quando chi è a caccia della mazzetta prefigura chi tratta con la pubblica amministrazione conseguenze sì sfavorevoli, ma che comunque scaturiscono dall'applicazione della legge: ecco perché in questo caso è punibile anche il soggetto indotto che pure mira a un risultato illegittimo per il suo tornaconto. La riforma comunque non affossa i processi perché c'è perfetta continuità fra vecchie e nuove norme.
È quanto emerge dalla sentenza 22.01.2013 n. 3251 della VI Sez. penale della Corte di Cassazione.
Si parte sempre dall'abuso di qualità o di poteri. Nella specie il sindaco del Comune pretende soldi dall'imprenditore, facendo intendere che altrimenti la commissione edilizia rinvierà sistematicamente la trattazione delle richieste dei permessi di costruire.
La novella risulta rilevante ai fini del favor rei. Non può essere l'abuso prospettato in forma più o meno blanda il criterio per distinguere fra la vecchia concussione e la nuova fattispecie di induzione. Non sarebbe giusto punire anche l'imprenditore che si piega a una minaccia. Risulta invece legittimo sanzionare chi aderisce a una violazione della legge per un suo tornaconto. Scatta il reato di cui all'articolo 317 c.p. solo se c'è una qualunque forma di violenza morale ai danni dell'imprenditore.
Si configura invece l'induzione quando il danno prospettato scaturisce comunque dalla legge. Parola al giudice del rinvio (articolo ItaliaOggi del 23.01.2013 - link a www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quando viene presentata una domanda di condono edilizio l’Amministrazione non può emettere un provvedimento sanzionatorio senza avere prima definito il procedimento scaturente dall’avvenuta presentazione della predetta domanda, ostandovi i principi di lealtà, coerenza, efficienza ed economicità che impongono la previa definizione dell’istanza di condono prima di assumere iniziative potenzialmente pregiudizievoli per lo stesso esito della sanatoria edilizia.
Invero, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza (tra le tante, Cons. Stato Sez. IV 02.02.2005 n. 585; idem 16.01.2007 n. 226; 06.07.2009 n. 4335) quando viene presentata una domanda di condono edilizio l’Amministrazione non può emettere un provvedimento sanzionatorio senza avere prima definito il procedimento scaturente dall’avvenuta presentazione della predetta domanda, ostandovi i principi di lealtà, coerenza, efficienza ed economicità che impongono la previa definizione dell’istanza di condono prima di assumere iniziative potenzialmente pregiudizievoli per lo stesso esito della sanatoria edilizia.
Nel caso di specie, dunque, in applicazione della su illustrata regula iuris, l’ordinanza di demolizione, in quanto emessa in pendenza di domanda di condono (presentata il 05.02.2004) ed in assenza di definizione della stessa deve considerarsi illegittima (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.01.2013 n. 362 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARIIn Cassa i geometri effettivi.
L'iscrizione alla Cassa geometri è inefficace se il professionista non ha svolto l'attività con continuità, essendo del tutto irrilevante aver esercitato in qualità di amministratore della propria società.

Lo ha sancito la Corte di Cassazione che, con la sentenza 21.01.2013 n. 1305, ha accolto il ricorso della Cassa.
Dunque la sezione lavoro della Suprema corte ha bocciato la decisione della Corte d'Appello di Roma che aveva ritenuto efficace l'iscrizione alla Cassa di un geometra che, dal '96 al 2002 aveva versato ma non esercitato, essendo l'amministratore di una società da lui fondata.
L'uomo si era rivolto ai giudici per ottenere la declaratoria di efficacia della sua iscrizione o, almeno, la restituzione dei contributi in relazione a quel periodo. Il Tribunale e la Corte d'Appello della Capitale gli avevano dato ragione. Ora la Cassazione, su ricorso presentato dalla Cassa alla quale ha dato ragione, ha ribaltato completamente le sorti della vicenda.
Ad avviso dei giudici con l'Ermellino, infatti, la necessità, ai fini dell'iscrizione alla Cassa, del requisito dell'esercizio con carattere di continuità dell'attività libero professionale è espressamente prevista dall'art. 22 della legge n. 773 del 1982, come modificato nel 1990. In tal senso è l'inequivoco tenore letterale del primo comma il quale così recita: «L'iscrizione alla Cassa è obbligatoria per gli iscritti agli Albi professionali dei geometri che esercitano la libera professione con carattere di continuità, se non iscritti ad altra forma di previdenza obbligatoria».
Questa interpretazione, ad avviso di Piazza Cavour, risulta, inoltre avvalorata da ulteriori disposizioni contenute nella legge quali il secondo comma dell'art. 22 nel testo modificato, il quale sancisce che «l'iscrizione alla Cassa è facoltativa per gli iscritti agli Albi dei geometri che esercitano la libera professione con carattere di continuità, se iscritti a forma di previdenza obbligatoria o beneficiari di altra pensione in conseguenza di diversa attività da loro svolta, anche precedentemente alla iscrizione all'Albo professionale».
In altri termini il legislatore ha inteso ribadire nuovamente la necessità che vi sia espletamento di attività libero professionale con carattere di continuità (articolo ItaliaOggi del 22.01.2013).

APPALTI: Deve ritenersi necessaria e sufficiente una modalità di sigillatura del plico tale da impedire che il plico possa essere aperto e manomesso senza che ne resti traccia visibile. Ne deriva che, anche in caso di mancata osservanza pedissequa e cumulativa di ciascuna delle singole modalità di chiusura contemplate dal disciplinare di gara, deve ritenersi preclusa l’esclusione di un’impresa concorrente in presenza di una modalità di sigillatura comunque idonea a garantire l’ermetica e inalterabile chiusura del plico.
A tal fine, l’uso di un sigillo in ceralacca non può ritenersi strumento esclusivo indispensabile per impedirne la manomissione (apertura + richiusura) a plico inalterato, costituendo invero l’apposizione dei timbri e la controfirma sul lembo di chiusura –da intendersi quale imboccatura della busta soggetta ad operazione di chiusura a sé stante, talché è sufficiente che l’adempimento formale imposto alle imprese concorrenti venga limitato ai lembi della busta chiusi dall’utilizzatore, con esclusione di quelli preincollati dal fabbricante– una modalità di sigillatura di per sé idonea prevenire eventuali manomissioni.

Si premette, in linea di diritto, che alla presente controversia, avente ad oggetto una gara d’appalto indetta con bando di gara del 28.12.2011, è applicabile l’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. 16.04.2006, n. 163 –aggiunto dall’art. 4, comma 2, lett. d), d.l. 13.05.2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla l. 12.07.2011, n.106, secondo la disciplina transitoria dettata dal comma 3 del citato art. 4 applicabile alle procedure i cui bandi siano pubblicati successivamente alla data di entrata in vigore del decreto-legge–, il quale introduce un criterio d’impronta sostanzialistica nella configurazione delle cause di esclusione dalla gara connesse, tra l’altro, all’irregolare chiusura dei plichi contenenti le offerte o le domande di partecipazione, prevedendo, per quanto qui interessa, che “(…) la stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti (…) in caso di non integrità del plico contenente l’offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte (…)”, e al contempo comminando la sanzione della nullità per le prescrizioni della lex specialis che contemplino cause di esclusione diverse da quelle tassativamente previste dalla legge.
Nel caso di specie, il disciplinare di gara prevede testualmente che “(…) il plico contenente l’offerta e la documentazione amministrativa dovrà, pena l’esclusione dalla gara: (…) b) essere idoneamente sigillato con ceralacca, timbrato, controfirmato sui lembi di chiusura (…)”.
Orbene, interpretando la citata clausola della lex specialis alla luce del criterio valutativo introdotto dal comma 1-bis dell’art. 46 d.lgs. n. 163 del 2006, in maniera non formalistica al fine di garantire la massima partecipazione alla gara, deve ritenersi necessaria e sufficiente una modalità di sigillatura del plico tale da impedire che il plico potesse essere aperto e manomesso senza che ne restasse traccia visibile. Ne deriva che, anche in caso di mancata osservanza pedissequa e cumulativa di ciascuna delle singole modalità di chiusura contemplate dal disciplinare di gara, deve ritenersi preclusa l’esclusione di un’impresa concorrente in presenza di una modalità di sigillatura comunque idonea a garantire l’ermetica e inalterabile chiusura del plico.
A tal fine, l’uso di un sigillo in ceralacca non può ritenersi strumento esclusivo indispensabile per impedirne la manomissione (apertura + richiusura) a plico inalterato, costituendo invero l’apposizione dei timbri e la controfirma sul lembo di chiusura –da intendersi quale imboccatura della busta soggetta ad operazione di chiusura a sé stante, talché è sufficiente che l’adempimento formale imposto alle imprese concorrenti venga limitato ai lembi della busta chiusi dall’utilizzatore, con esclusione di quelli preincollati dal fabbricante– una modalità di sigillatura di per sé idonea prevenire eventuali manomissioni (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.01.2013 n. 319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nelle gare d'appalto, una volta accertata la correttezza dell'applicazione del metodo del confronto a coppie ovvero quando non ne sia stato accertato l'uso distorto o irrazionale, non c'è spazio alcuno per un sindacato del Giudice Amministrativo nel merito dei singoli apprezzamenti effettuati ed in particolare sui punteggi attribuiti nel confronto a coppie, che indicano il grado di preferenza riconosciuto ad ogni singola offerta in gara, con l'ulteriore conseguenza che la motivazione delle valutazioni sugli elementi qualitativi risiede nelle stesse preferenze attribuite ai singoli elementi di valutazione considerati nei raffronti con gli stessi elementi delle altre offerte.
Nel caso in cui un bando abbia indicato criteri valutativi dettagliati e adeguati rispetto allo specifico oggetto del contratto messo a gara, e qualora la commissione giudicatrice abbia previamente individuato correlativi criteri motivazionali, con successiva comparazione delle offerte segnalandone i pregi e i difetti, allora non vi è alcun bisogno di integrare, sul piano motivazionale i punteggi attribuiti dai commissari con il metodo del confronto a coppie, dal momento che detti punteggi si limitano a esprimere le varie preferenze accordate, le quali, costituendo il precipitato dei criteri prestabiliti e delle analisi preliminari compiute, si sottraggono all'obbligo di una specifica, ulteriore motivazione.
E' legittima la valutazione resa in termini numerici da una commissione giudicatrice qualora il relativo bando di gara, prevedendo lo svolgimento di siffatta attività mediante il metodo del cd. "confronto a coppie", attribuisca valenza di motivazione al grado di preferenza che ogni commissario attribuisce a ciascuna offerta nel raffronto con le altre.

Va innanzitutto ribadito che, laddove –come nel caso di specie- il metodo di valutazione delle offerte sia quello del c.d. “confronto a coppie”, la motivazione aritmetica è ben sufficiente e non richiede alcun supplemento motivazionale in quanto emerge con chiarezza la preferenza accordata all’uno piuttosto che all’altro elemento (ex multis: “nelle gare d'appalto, una volta accertata la correttezza dell'applicazione del metodo del confronto a coppie ovvero quando non ne sia stato accertato l'uso distorto o irrazionale, non c'è spazio alcuno per un sindacato del Giudice Amministrativo nel merito dei singoli apprezzamenti effettuati ed in particolare sui punteggi attribuiti nel confronto a coppie, che indicano il grado di preferenza riconosciuto ad ogni singola offerta in gara, con l'ulteriore conseguenza che la motivazione delle valutazioni sugli elementi qualitativi risiede nelle stesse preferenze attribuite ai singoli elementi di valutazione considerati nei raffronti con gli stessi elementi delle altre offerte” -Cons. Stato Sez. V, 28-02-2012, n. 1150-; “nel caso in cui un bando abbia indicato criteri valutativi dettagliati e adeguati rispetto allo specifico oggetto del contratto messo a gara, e qualora la commissione giudicatrice abbia previamente individuato correlativi criteri motivazionali, con successiva comparazione delle offerte segnalandone i pregi e i difetti, allora non vi è alcun bisogno di integrare, sul piano motivazionale i punteggi attribuiti dai commissari con il metodo del confronto a coppie, dal momento che detti punteggi si limitano a esprimere le varie preferenze accordate, le quali, costituendo il precipitato dei criteri prestabiliti e delle analisi preliminari compiute, si sottraggono all'obbligo di una specifica, ulteriore motivazione” -Cons. Stato Sez. V, 05-03-2010, n. 01281-; “è legittima la valutazione resa in termini numerici da una commissione giudicatrice qualora il relativo bando di gara, prevedendo lo svolgimento di siffatta attività mediante il metodo del cd. "confronto a coppie", attribuisca valenza di motivazione al grado di preferenza che ogni commissario attribuisce a ciascuna offerta nel raffronto con le altre” -TAR Marche Ancona Sez. I, 10-05-2012, n. 320) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.01.2013 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In materia di gare di appalto, in una situazione di obiettiva incertezza (quando cioè le clausole della lex specialis risultino imprecisamente formulate o si prestino comunque ad incertezze interpretative) la risposta dell'amministrazione appaltante ad una richiesta di chiarimenti avanzata da un concorrente non costituisce un'indebita, e perciò illegittima, modifica delle regole di gara, ma una sorta di interpretazione autentica, con cui l'amministrazione chiarisce la propria volontà provvedimentale in un primo momento poco intelligibile, precisando e meglio delucidando le previsioni della lex specialis.
Si rammenta in proposito che, per consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “in materia di gare di appalto (D.Lgs. n. 163/2006 - Codice degli appalti) in una situazione di obiettiva incertezza (quando cioè le clausole della lex specialis risultino imprecisamente formulate o si prestino comunque ad incertezze interpretative) la risposta dell'amministrazione appaltante ad una richiesta di chiarimenti avanzata da un concorrente non costituisce un'indebita, e perciò illegittima, modifica delle regole di gara, ma una sorta di interpretazione autentica, con cui l'amministrazione chiarisce la propria volontà provvedimentale in un primo momento poco intelligibile, precisando e meglio delucidando le previsioni della lex specialis" (Cons. Stato Sez. V, 17-10-2012, n. 5296) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.01.2013 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: in materia di appalti pubblici, stante quanto disposto dall'art. 38, comma 1, lett. i), del D.Lgs. n. 163 del 2006 -Codice dei contratti pubblici- e dall'art. 5 del D.M. n. 28578 del 2007, la stazione appaltante deve verificare la sussistenza in capo ai vari concorrenti della regolarità contributiva e fiscale che è un requisito indispensabile per la partecipazione alla gara, in quanto indice di affidabilità, diligenza e serietà delle imprese e della loro correttezza nei rapporti con le maestranze.
Tale requisito può essere desunto dal DURC -Documento Unico Regolarità Contributiva- atteso che da esso la stazione appaltante può valutare se sussistono procedimenti diretti a contestare gli accertamenti degli enti previdenziali riportati nel documento predetto, o condoni, nonché verificare se la violazione riportata nello stesso, in relazione all'appalto o fornitura in esame o alla consistenza economica del partecipante o ad altre circostanze, è o meno grave.
Ciò premesso, nel caso di specie, si è ritenuta corretta la sentenza di prime cure che aveva considerato legittima l'esclusione della società ricorrente dalla gara pubblica indetta dall'Amministrazione resistente per l'affidamento del servizio di pulizia, in quanto, in capo alla predetta società, si erano rinvenute, sebbene in epoca successiva alla presentazione della domanda di partecipazione alla gara in parola, delle irregolarità contributive costituenti elemento impeditivo per l'affidamento dell'appalto e non sanabili con una regolarizzazione postuma, tenuto conto che la regolarità contributiva deve essere presente fin dalla presentazione della domanda e permanere per tutto l'iter della procedura di gara nonché durante la pendenza del relativo rapporto contrattuale.
Tra l'altro, la consapevolezza da parte della società ricorrente di non essere in regola in ordine agli obblighi contributivi è stato considerato quale elemento che ha connotato di gravità la violazione, in quanto la succitata società era tenuta, al momento della domanda di partecipazione, a rappresentare l'eventuale insoluto, la sua entità e le ragioni che l'avessero determinato, non solo per evitare false dichiarazioni, ma anche per instaurare un contraddittorio sul punto e, quindi, dar modo alla stazione appaltante di escludere la gravità e definitività della violazione.

Deve innanzitutto rimarcarsi che il Collegio non intende discostarsi dal condivisibile principio a più riprese affermato da questo Consiglio di Stato ed aderente alla ratio ed alla logica della prescrizione positiva di cui all’art. 38 del d.Lvo n. 163/2006, secondo cui le imprese concorrenti all’aggiudicazione di contratti pubblici debbono possedere il requisito della regolarità contributiva lungo l’intero arco della procedura di gara, nel momento della stipula del contratto e nel corso del successivo svolgimento del rapporto contrattuale con l’amministrazione (si veda, tra le tante, Cons. St., sez. V, 16.09.2011, n. 5194, ma anche “in materia di appalti pubblici, stante quanto disposto dall'art. 38, comma 1, lett. i), del D.Lgs. n. 163 del 2006 -Codice dei contratti pubblici- e dall'art. 5 del D.M. n. 28578 del 2007, la stazione appaltante deve verificare la sussistenza in capo ai vari concorrenti della regolarità contributiva e fiscale che è un requisito indispensabile per la partecipazione alla gara, in quanto indice di affidabilità, diligenza e serietà delle imprese e della loro correttezza nei rapporti con le maestranze.
Tale requisito può essere desunto dal DURC -Documento Unico Regolarità Contributiva- atteso che da esso la stazione appaltante può valutare se sussistono procedimenti diretti a contestare gli accertamenti degli enti previdenziali riportati nel documento predetto, o condoni, nonché verificare se la violazione riportata nello stesso, in relazione all'appalto o fornitura in esame o alla consistenza economica del partecipante o ad altre circostanze, è o meno grave.
Ciò premesso, nel caso di specie, si è ritenuta corretta la sentenza di prime cure che aveva considerato legittima l'esclusione della società ricorrente dalla gara pubblica indetta dall'Amministrazione resistente per l'affidamento del servizio di pulizia, in quanto, in capo alla predetta società, si erano rinvenute, sebbene in epoca successiva alla presentazione della domanda di partecipazione alla gara in parola, delle irregolarità contributive costituenti elemento impeditivo per l'affidamento dell'appalto e non sanabili con una regolarizzazione postuma, tenuto conto che la regolarità contributiva deve essere presente fin dalla presentazione della domanda e permanere per tutto l'iter della procedura di gara nonché durante la pendenza del relativo rapporto contrattuale.
Tra l'altro, la consapevolezza da parte della società ricorrente di non essere in regola in ordine agli obblighi contributivi è stato considerato quale elemento che ha connotato di gravità la violazione, in quanto la succitata società era tenuta, al momento della domanda di partecipazione, a rappresentare l'eventuale insoluto, la sua entità e le ragioni che l'avessero determinato, non solo per evitare false dichiarazioni, ma anche per instaurare un contraddittorio sul punto e, quindi, dar modo alla stazione appaltante di escludere la gravità e definitività della violazione
” -Cons. Stato Sez. IV, 15-09-2010, n. 6907-)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.01.2013 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALILa Cassazione sulle prestazioni legali. La nota spese è rettificabile
La nota spese inviata dall'avvocato non è vincolante per il professionista che ne può spedire una di importo molto superiore se il cliente non l'ha accettata.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 18.01.2013 n. 1284.
La seconda sezione civile ha dato ragione a un professionista che, dopo aver seguito una causa ereditaria, aveva inviato una prima parcella. E in un secondo momento ne aveva spedita un'altra di importo quasi raddoppiato. La cliente non aveva pagato tanto che il legale aveva ottenuto un decreto ingiuntivo per la liquidazione del compenso. La signora si era opposta ma senza successo.
Ora la Cassazione ha reso definitivo il verdetto pro-professionista. La Corte territoriale ha disatteso la tesi della difesa che rivendicava la vincolatività, per il professionista, della prima richiesta di parcella sulla base del rilievo che questa, che equivaleva ad una proposta, ex art. 1344 cod. civ., non essendo mai stata accettata dalla cliente, poteva essere validamente revocata dal legale.
Non solo. I giudici di secondo grado hanno aggiunto che il professionista aveva validamente giustificato l'invio della seconda richiesta per essere stata la prima erroneamente calcolata al di sotto dei parametri tabellari, avendo applicato lo scaglione della tariffa professionale corrispondente al valore della quota della cliente invece che a quello dell'asse ereditario, errore che la Corte ha considerato effettivamente esistente, dal momento che il legale si era occupato direttamente della stessa individuazione della massa ereditaria. Ecco perché per la Cassazione la motivazione della decisione impugnata appare esauriente e logicamente coerente tra le sue premesse e conclusioni, esponendo in modo adeguato e congruo le ragioni per cui il giudice ha ritenuto che la prima parcella non vincolasse il professionista.
Insomma ora la signora non ha più chance e dovrà pagare al professionista gli 80 mila euro che questo le ha chiesto con la seconda nota spese invece dei 42mila sollecitati con la prima parcella. Anche la Procura generale di Piazza Cavour ha sollecitato in aula il rigetto del ricorso della cliente (articolo ItaliaOggi del 22.01.2013 - link a www.corteconti.it).

APPALTI: Sull'obbligo di richiedere nel bando di gara, pena la nullità del bando, l'obbligo per gli aggiudicatari di indicare un numero di conto corrente unico sul quale gli enti appaltanti fanno confluire tutte le somme relative all'appalto
In secondo luogo, il collegio prende brevemente posizione sulla questione sollevata d’ufficio con l’ordinanza cautelare n. 706 del 2012, relativa a possibili profili di nullità del bando, in ordine all’applicazione dell’art. 2, comma 1, della l.r. 20.11.2008 n. 15, atteso che la lett. s) del bando non riproduce pedissequamente la suddetta disposizione (che stabilisce l'obbligo per gli aggiudicatari di indicare un numero di conto corrente unico) ma consente, a differenza di questa, l’apertura di più conti correnti, anche non esclusivi, dedicati alle commesse pubbliche e finalizzati alla movimentazione finanziaria relativa all’appalto.
Detta questione, infatti, se fondata, porterebbe alla declaratoria di nullità della lex specialis della gara e, di conseguenza, renderebbe improcedibili tutte le impugnazione proposte avverso quest’ultima.
Il collegio premette che negli ultimi anni la giurisprudenza di questo Tribunale ha preso posizione sulla questione suddetta, dichiarando nulli i bandi privi degli avvisi di cui all’art. 2 della l.r. 20.11.2008 n. 15.
La suddetta disposizione stabilisce, al comma 1, che “Per gli appalti di importo superiore a 100 migliaia di Euro, i bandi di gara prevedono, pena la nullità del bando, l'obbligo per gli aggiudicatari di indicare un numero di conto corrente unico sul quale gli enti appaltanti fanno confluire tutte le somme relative all'appalto. L'aggiudicatario si avvale di tale conto corrente per tutte le operazioni relative all'appalto, compresi i pagamenti delle retribuzioni al personale da effettuarsi esclusivamente a mezzo di bonifico postale o assegno circolare non trasferibile. Il mancato rispetto dell'obbligo di cui al presente comma comporta la risoluzione per inadempimento contrattuale”.
La norma in questione “è finalizzata alla garanzia della trasparenza e della tracciabilità dei pagamenti posti in essere nell' esecuzione degli appalti, garanzia ritenuta prevalente, mediante la previsione della nullità del bando in caso di omessa previsione, rispetto ad ogni altro interesse pubblico o privato concorrente, nella considerazione dell'alto rischio di infiltrazioni mafiose nel campo degli appalti che, data la rilevanza degli interessi economici in gioco, richiama da sempre l'attenzione della criminalità organizzata” (Tar Sicilia, Palermo, III, 25.02.2011, n. 361; nello stesso senso: Tar Sicilia, Palermo, III, 19.12.2011, n. 2406, confermata dal C.g.a. con sentenza 27.07.2012, n. 721; TAR Sicilia, Catania, III, 20.07.2010, n. 3127; da ultimo, TAR Sicilia Palermo Sez. I, Sent., 21.12.2012, n. 2752).
Si è ritenuto anche che l'applicabilità della citata norma, prescinde, da un lato, dal fatto che sia stata proposta apposita censura, di talché è onere del giudice di rilevare d'ufficio la questione di nullità, e dall'altro lato, dal fatto che il ricorso sia eventualmente, per altre, ragioni infondato (cfr. Tar Sicilia, Palermo, sez. III, 25.02.2011, n. 361).
Se certamente non vi sono dubbi che siano nulli i bandi privi dell’avviso in questione (ex multis, TAR Sicilia Palermo Sez. III, Sent., 31.10.2012, n. 2147; id., 19.12.2011, n. 2406), la situazione è un po’ diversa nei casi in cui, come quello che qui interessa, il bando riproduca la citata disposizione operando un commistione tra norma regionale e norma nazionale corrispondente, che è l’art. 3, comma 1, della l. 136 del 2010, la quale stabilisce che “per assicurare la tracciabilità dei flussi finanziari finalizzata a prevenire infiltrazioni criminali, gli appaltatori, i subappaltatori e i subcontraenti della filiera delle imprese nonché i concessionari di finanziamenti pubblici anche europei a qualsiasi titolo interessati ai lavori, ai servizi e alle forniture pubblici devono utilizzare uno o più conti correnti bancari o postali, accesi presso banche o presso la società Poste italiane Spa, dedicati, anche non in via esclusiva, fermo restando quanto previsto dal comma 5, alle commesse pubbliche“.
Il bando di gara, infatti, alla lett. s), stabilisce che “l’aggiudicatario dovrà indicare uno o più numeri di conto corrente bancario o postale accesi presso banche o Poste Italiane s.p.a. dedicati, anche in via non esclusiva, alle commesse pubbliche”, mentre alla lett. t) stabilisce che “per le finalità di cui all’art. 2, comma 1, della l.r. 15/2008 e all’art. 3 L. 136/2010, il mancato rispetto dei suddetti obblighi da parte dell’aggiudicatario comporterà la risoluzione del contratto per inadempimento ai sensi dell’art. 3, comma 8, L. 136/2010”.
Fermo restando che la disposizione regionale non è stata implicitamente abrogata dalla legge nazionale, perché, come ribadito da ultimo dal CGA, 27.07.2012, n. 721, “la nota peculiarità della criminalità organizzata in Sicilia può giustificare l'adozione di una disciplina diversa e più severa di quella nazionale” (si vedano anche TAR Sicilia Palermo Sez. I, 12.07.2012, n. 1530; id., 27.06.2012, n. 1311; id., 11.05.2012, n. 959; Sez. III, Sent., 30.11.2012, n. 2511), il collegio si è dovuto necessariamente porre la questione (sottoponendola al contraddittorio delle parti già in primo grado) circa la compatibilità tra il testo del bando e la norma regionale: non essendovi corrispondenza, infatti, potrebbe ritenersi che la lex specialis della gara sia formalmente priva della disposizione di cui all’art. 2 della l.r. 15/2008 e, pertanto, nulla.
Infatti, la norma regionale è senza dubbio più restrittiva di quella nazionale, prevedendo la necessità di un unico conto da destinare all’appalto (laddove la legge nazionale menziona più conti, anche non esclusivi), e commina la nullità del bando in mancanza di avviso (sanzione, quest’ultima, assente a livello nazionale).
Sul punto, il collegio osserva, da un lato, che la ratio di entrambe le norme è la tracciabilità; sotto questo profilo, la circostanza che vi sia un unico conto oppure più conti appare del tutto irrilevante, posto che i partecipanti alle gare debbono comunque comunicarli alla stazione appaltante; dall’altro, la comminatoria di nullità, che rende la legge speciale più restrittiva e degna di sopravvivenza all'avvento della legge 136/2010, non può però essere interpretata in modo del tutto irragionevole e discriminatorio con riguardo al numero dei conti utilizzabili, nel senso che se nel bando si consente la possibilità di averne più di uno (a differenza della legge regionale), ciò non toglie che nella sostanza il precetto della norma regionale potrà essere comunque rispettato, per il principio che il più contiene il meno, imponendo all’aggiudicatario (a gara terminata) di utilizzare un unico conto corrente.
In pratica, non è con la comminatoria di nullità del bando che si risolve l'eventuale inadempienza dell'aggiudicatario al precetto di legge, che può dirsi rispettato se la stazione appaltante comunica a questi –laddove avesse indicato più conti– che deve restringere il campo a uno solo, pena la risoluzione del contratto.
Si tratta, in ogni caso, di situazioni successive alla chiusura della procedura di gara e che saranno valutate dalle stazioni appaltanti caso per caso, senza che la gara venga invalidata in radice.
A conferma di ciò, va detto che in una fattispecie simile, nella quale, quindi, il bando recava l’avviso sulla tracciabilità riproducendo la legge nazionale, anziché quella regionale, questo Tribunale non ha ritenuto di dover comminare la nullità del medesimo (TAR Sicilia Palermo Sez. III, 08.06.2012, n. 1207)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 11.01.2013 n. 28 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'onere di immediata impugnazione del bando di gara riguarda le sole clausole che concernono i requisiti soggettivi di partecipazione dei soggetti interessati, che risultino esattamente e storicamente identificate, preesistenti alla gara stessa, e non siano suscettibili di essere condizionate dal suo svolgimento e perciò in condizioni di ledere immediatamente e direttamente l'interesse sostanziale del soggetto che ha chiesto di partecipare alla procedura, nonché quelle che impongono oneri incomprensibili o manifestamente sproporzionati, come tali immediatamente ostativi alla partecipazione alla gara.
Ogni diversa questione riguardante l'assunta illegittimità della procedura di gara può e deve essere proposta unitamente agli atti che delle clausole dimostratesi lesive fanno diretta applicazione (provvedimento di esclusione o dell'aggiudicazione del contratto o di altro provvedimento che segni comunque, per l'interessato, un arresto procedimentale), atteso che sono essi atti che rendono attuale e concreta la lesione della situazione dell'interessato.
Pertanto, sussiste l'onere di immediata impugnazione del bando di gara o lettera di invito solo in relazione alle clausole che impediscono in limine la partecipazione alla procedura di determinati soggetti e non richiedano alcuna significativa attività interpretativa né dei destinatari del bando, né degli organi dell'Amministrazione che ne debbano fare applicazione sicché in tutti gli altri casi deve ritenersi tempestiva l'impugnazione della lex specialis contestualmente a quella degli atti che di essa fanno applicazione, atteso che solo questi ultimi identificano il concorrente leso e rendono attuale e concreta la lesione della relativa situazione soggettiva in relazione all'eventuale esito negativo della gara, mentre anteriormente la lesività delle clausole contestate resta sul piano dell'astrattezza e potenzialità.

Sul punto, la giurisprudenza amministrativa afferma in modo costante, da anni, che “l'onere di immediata impugnazione del bando di gara riguarda le sole clausole che concernono i requisiti soggettivi di partecipazione dei soggetti interessati, che risultino esattamente e storicamente identificate, preesistenti alla gara stessa, e non siano suscettibili di essere condizionate dal suo svolgimento e perciò in condizioni di ledere immediatamente e direttamente l'interesse sostanziale del soggetto che ha chiesto di partecipare alla procedura, nonché quelle che impongono oneri incomprensibili o manifestamente sproporzionati, come tali immediatamente ostativi alla partecipazione alla gara.
Ogni diversa questione riguardante l'assunta illegittimità della procedura di gara può e deve essere proposta unitamente agli atti che delle clausole dimostratesi lesive fanno diretta applicazione (provvedimento di esclusione o dell'aggiudicazione del contratto o di altro provvedimento che segni comunque, per l'interessato, un arresto procedimentale), atteso che sono essi atti che rendono attuale e concreta la lesione della situazione dell'interessato.
Pertanto, sussiste l'onere di immediata impugnazione del bando di gara o lettera di invito solo in relazione alle clausole che impediscono in limine la partecipazione alla procedura di determinati soggetti e non richiedano alcuna significativa attività interpretativa né dei destinatari del bando, né degli organi dell'Amministrazione che ne debbano fare applicazione sicché in tutti gli altri casi deve ritenersi tempestiva l'impugnazione della lex specialis contestualmente a quella degli atti che di essa fanno applicazione, atteso che solo questi ultimi identificano il concorrente leso e rendono attuale e concreta la lesione della relativa situazione soggettiva in relazione all'eventuale esito negativo della gara, mentre anteriormente la lesività delle clausole contestate resta sul piano dell'astrattezza e potenzialità
” (così TAR Campania, Napoli, sez. I, 03.04.2012, n. 1550; ex plurimis, Cons. St., sez. V, 28.05.2012, n. 3128; id., sez. VI, 04.10.2011, n. 5434; id., sez. V, id., sez. V, 07.09.2001 n. 4679; id. 04.03.2011 n. 1380; id, 21.02.2011 n. 1071; id., sez. VI, 24.02.2011 n. 1166; id., sez. V, 04.03.2008 n. 901; TAR Campania, Napoli, sez. I, 09.10.2012, n. 4037; TAR Lazio sez. I, 06.07.2012, n. 6163; TAR Lazio sez. III, 14.01.2012, n. 354; TAR Campania, Napoli, sez. I, 03.04.2012, n. 1550; TAR Lazio sez. I, 01.06.2012, n. 5000; TAR Campania, Napoli, sez. III, 01.06.2012, n. 2610)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 11.01.2013 n. 28 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALIBilanci. Effetto crisi. Il Tar può bloccare Corte conti sul dissesto.
L'intimazione della Corte dei conti a dichiarare il dissesto di un Comune, secondo il meccanismo introdotto nel 2011 con i decreti attuativi del federalismo fiscale, non ha carattere «giurisdizionale» e quindi non è «assolutamente insindacabile»; dal momento che il dissesto crea «un sicuro e gravissimo pregiudizio alla comunità cittadina», e impedisce di accedere agli aiuti anti-default introdotti a ottobre con il decreto enti locali, il Tar Sicilia con un'inedita decisione blocca il "fallimento" del comune di Cefalù.

La decisione, contenuta nella sentenza n. 19/2013, non è nel merito, e per il momento si limita alla sospensiva; le considerazioni dei giudici però sono inequivocabili, arrivano a sottolineare il fatto che le responsabilità della paralisi contabile sono «chiaramente attribuibili ai precedenti Governi del Comune», e in questo modo offrono elementi concreti per prevedere l'indirizzo del giudizio di merito che sarà pronunciato il 14 febbraio.
Le settimane di sospensione bastano da sole a permettere al Comune di elaborare un piano di rientro da presentare al Viminale per chiedere l'aiuto statale. La portata della pronuncia, con cui per la prima volta un Tar blocca una decisione della Corte dei conti interessa da vicino i tanti enti locali che si trovano in situazioni analoghe. L'inedito conflitto fra magistrature nasce dal nuovo meccanismo anti-default messo in piedi a ottobre per decreto dal Governo Monti.
Per accedere al fondo rotativo, il comune (o la provincia) deve elaborare un piano di rientro che ambisca a sanare gli squilibri strutturali dei bilanci, e riesca anche a ripagare nel tempo, entro dieci anni, l'assegno iniziale ricevuto dallo Stato. Questa chance è preclusa agli enti locali in cui il "dissesto obbligato" sia già arrivato all'atto finale, quando cioè la Corte conti dichiara che le contromisure necessarie non sono state elaborate e di conseguenza intima al consiglio comunale di dichiarare il default.
Il Tar ora arriva a bloccare la diffida della magistratura contabile offrendo di conseguenza un'opportunità ulteriore agli enti già invischiati nel "dissesto obbligato" quando è stato creato il nuovo fondo, anche sulla base del fatto che lo strumento anti-default offre fino a 10 anni (invece di tre) al Comune per risalire la china (articolo Il Sole 24 Ore del 23.01.2013 - link a www.corteconti.it)

ATTI AMMINISTRATIVIAi sensi dell'art. 6 della legge n. 249 del 1968, l'amministrazione ha il potere di convalidare o ratificare un provvedimento viziato (da incompetenza) nonostante la pendenza di un giudizio sugli atti presupposti. Tale disposizione di carattere generale è da considerare tuttora vigente, anche a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 21-nonies, co. 2, della legge n. 241 del 1990.
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Una motivazione incompleta può esser integrata e ricostruita attraverso gli atti del procedimento amministrativo, così come può ipotizzarsi che l'amministrazione convalidi il provvedimento integrandone in un secondo momento la motivazione, fermo restando che tale attività deve pur sempre avvenire da parte dell'amministrazione competente, mediante gli atti del procedimento medesimo o un successivo provvedimento di convalida.

Con riguardo alla successione di atti impugnati con il ricorso introduttivo e con il seguente ricorso per motivi aggiunti, è il caso di osservare che, ai sensi dell'art. 6 della legge n. 249 del 1968, l'amministrazione ha il potere di convalidare o ratificare un provvedimento viziato nonostante la pendenza di un giudizio sugli atti presupposti. Tale disposizione di carattere generale è da considerare tuttora vigente, anche a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 21-nonies, co. 2, della legge n. 241 del 1990 (cfr. Cons. St., sez. V, 07.05.2009, n. 2840).
Inoltre, pur costituendo principio consolidato in giurisprudenza l'inammissibilità dell'integrazione postuma in sede giudiziale della motivazione dell'atto amministrativo, nondimeno è stato precisato che una motivazione incompleta può esser integrata e ricostruita attraverso gli atti del procedimento amministrativo, così come può ipotizzarsi che l'amministrazione convalidi il provvedimento integrandone in un secondo momento la motivazione, fermo restando che tale attività deve pur sempre avvenire da parte dell'amministrazione competente, mediante gli atti del procedimento medesimo o un successivo provvedimento di convalida (cfr. Cons. St., sez. VI, 19.08.2009, n. 4993).
In stretta connessione al profilo in esame va rilevato infine che, qualora l'amministrazione, sulla scorta di una rinnovata istruttoria e sulla base di una nuova motivazione, dimostri di voler confermare la volizione espressa in un precedente provvedimento, si palesa l'improcedibilità, per sopravvenuta carenza di interesse, dell'impugnativa proposta avverso gli atti adottati a monte del provvedimento che, in pendenza del giudizio, ha sostituito le precedenti determinazioni (cfr. Cons. St., sez. V, 25.08.2011, n. 4807; TAR Napoli, sez. I, 11.07.2012, n. 3350) (TAR Piemonte, Sez. I, con sentenza 10.01.2013 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Pari opportunità in giunta, il TAR: si rispettino sempre quote rosa.
Il TAR Piemonte, Sez. I, con sentenza 10.01.2013 n. 24, ha sancito l'illegittimità della nomina di due nuovi assessori di sesso maschile in una giunta comunale, motivata con le loro qualità politiche, amministrative e professionali, senza alcun argomento relativo all'impossibilità di attuare la pari opportunità.
Secondo i giudici amministrativi piemontesi, "
è oramai pacificamente acquisita la portata precettiva -e non solo riduttivamente programmatica- del principio di pari opportunità all'accesso agli uffici pubblici e alle cariche pubbliche di cui all'art. 51 della carta Costituzionale, inteso come esplicazione del principio fondamentale di eguaglianza sostanziale (art. 3) e a quest’ultimo accomunato dalla natura di diritto fondamentale".
Ma non solo. Il Tar precisa anche come "
Al principio di pari opportunità viene riconosciuta immediata efficacia applicativa, integrando lo stesso un parametro di legittimità sostanziale di attività amministrative discrezionali, rispetto alle quali si pone come limite conformativo. La sua diretta applicazione -si legge nella sentenza- va di pari passo con l'interposizione di fonti attuative primarie o di altro livello, quali il d.lgs. 11.04.2006 n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) e gli statuti comunali e provinciali".
Pertanto, i giudici sanciscono la precettività del principio di pari opportunità, che incide anche sullo statuto del Comune, nel quale si affermava soltanto che si doveva «tendere a equilibrare la presenza di entrambi i sessi» (commento tratto da www.giurdanella.it).
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STRALCIO DELLA SENTENZA
Nel merito, ai fini della individuazione dei principi normativi di riferimento, va osservato che è oramai pacificamente acquisita la portata precettiva -e non solo riduttivamente programmatica- del principio di pari opportunità all'accesso agli uffici pubblici e alle cariche pubbliche di cui all'art. 51 della carta Costituzionale, inteso come esplicazione del principio fondamentale di eguaglianza sostanziale (art. 3) e a quest’ultimo accomunato dalla natura di diritto fondamentale (così TAR Sardegna, sez. II, 02.08.2011, n. 864).
Al principio di pari opportunità viene riconosciuta immediata efficacia applicativa, integrando lo stesso un parametro di legittimità sostanziale di attività amministrative discrezionali, rispetto alle quali si pone come limite conformativo.
La sua diretta applicazione -tra l'altro confermata per espresso dictum costituzionale nella parte in cui l'art. 51 opera un riferimento ai "provvedimenti"- va di pari passo con l'interposizione di fonti attuative primarie o di altro livello, quali il d.lgs. 11.04.2006 n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) e gli statuti comunali e provinciali. Da un lato, il Codice, all'art. 1, riprendendo le coordinate costituzionali, assicura la pari opportunità in tutti i campi, assegnando tale obiettivo a tutti gli attori istituzionali attraverso ogni possibile strumento di disciplina, normativo e non.
Dal canto loro, gli statuti comunali e provinciali introducono, ai sensi dell'art. 6 del d.lgs. 18.08.2000 n. 267, "norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della legge 10.04.1991, n. 125, e per promuovere la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti".
Per quanto attiene all’ambito regionale, l'art. 117, comma 7°, Cost. ulteriormente precisa che "le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive".
Nel caso specifico, e in coerenza con il delineato quadro normativo, viene in rilievo quale fonte di diretta regolamentazione della materia l’art. 9, comma 4, dello Statuto del Comune di Rivoli, il quale prevede che “nella composizione della Giunta si deve tendere ad equilibrare la presenza di entrambi i sessi”.
Tale norma statutaria costituisce il parametro di valutazione della legittimità del provvedimento impugnato.
E’ tuttavia opportuno precisare, in via preliminare, che l'atto con il quale il Sindaco o Presidente della Giunta regionale o provinciale nomina un assessore, non costituisce atto politico -per esso intendendosi l'atto espressione della libertà (politica) riconosciuta dalla Costituzione ai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione di esigenze unitarie ed indivisibili ad esso inerenti e, quindi, libero nella scelta dei fini- ma atto di alta amministrazione che, seppure espressione di ampia discrezionalità, è comunque soggetto, ex art. 113 cost., al sindacato giurisdizionale (cfr. Cons. St., Sez. V, 27.07.2011, n. 4502).
Tornando alla norma statutaria (art. 9, comma 4), va osservato che la stessa, pur non prevedendo "quote rigide" (cioè riserve fisse di posti per le donne, che peraltro non sembrano avere copertura costituzionale: cfr. Corte Cost., 13.02.2003, n. 49), dispone che nella composizione della Giunta sia assicurata, di norma, la presenza di ambo i sessi, e in tal modo pone un limite conformativo, seppure elastico, alla composizione dell’organo di governo.
Ciò comporta che la mancata nomina di una componente di sesso femminile nella Giunta comunale, pur se, in assoluto, non illegittima, deve essere motivata mediante illustrazione delle ragioni e delle modalità di siffatta scelta, inidonea a realizzare il "riequilibrio di genere".
La necessità del rispetto del principio delle pari opportunità nella composizione della giunta locale è stata recentemente affermata dalla giurisprudenza amministrativa con particolare riferimento ad ipotesi, analoghe alla fattispecie oggetto del presente giudizio, in cui lo statuto dell’ente conteneva espressa previsione in tal senso (cfr. TAR Bari, Sez. III, 18.12.2008, n. 2913 e Sez. I, 22.10.2009, n. 2443; TAR Lazio, Sez. II, 25.07.2011, n. 6673; TAR Napoli, Sez. I, 07.04.2011, n. 1985).
Nel caso in esame, la motivazione addotta a supporto del provvedimento di convalida assunto in data 05.09.2012, fa leva su quattro passaggi argomentativi: due indicati come prioritari –attinenti all’equa rappresentanza nella Giunta delle forze di maggioranza e alle indicazioni nominative avanzate da tali forze politiche; due indicati come complementari, attinenti alle qualità politico–amministrative e professionali vantate dai due soggetti elevati all’incarico di assessore.
La valenza di tali due ultimi criteri motivazionali appare trascurabile, tenuto conto dell’assenza di elementi di confronto tra i profili soggettivi presi in esame e quelli di potenziali candidati alternativi. Le referenze dei due nuovi assessori, infatti, vengono valutate isolatamente, e non raffrontate a quelle di terzi potenziali concorrenti. Il provvedimento, in altri termini, lungi dall’operare una comparazione selettiva preliminare alla scelta, si limita a illustrare i curricula dei due soggetti nominati: così facendo, tuttavia, non apporta alcun utile elemento valutativo in ordine alla praticabilità di eventuali candidature femminili. In particolare, nessun accenno si rinviene in ordine all’unico nominativo di genere femminile pure inserito tra le candidature avanzate dai partiti.
I primi due criteri, invece, risultano incentrati sulla manifestata esigenza di un’equa rappresentanza nella Giunta delle forze di maggioranza e sulla particolare rilevanza tributata alle indicazioni nominative avanzate da tali forze politiche. Si tratta di argomentazioni squisitamente politiche, entro certi limiti suscettibili di sindacato giurisdizionale.
Allorché, infatti, l'ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un'azione di governo, è conformato da vincoli di rango superiore che ne segnano in parte l'esercizio, il rispetto dei tali limiti costituisce comunque requisito di legittimità formale e sostanziale.
Ed è questa un'indagine senz’altro consentita al giudice di legittimità, non trattandosi di sindacare l'opportunità della scelta ma l'osservanza effettiva di un limite al potere.
In questa direzione, la natura politica della scelta incontra il limite esterno dell'invocato principio di pari opportunità; ne discende che, concretamente, non possono essere posti a sostegno di condotte elusive aprioristiche ragioni di opportunità politica, perché in questo modo si determinerebbe una netta prevalenza della libertà di scelta che invece deve contenersi nel rispetto dell'attuazione di principi costituzionali.
Circa poi la consistenza delle motivazioni “politiche”, essa appare evanescente se affidata a enunciazioni vaghe e indeterminate, quali quelle in esame, non leggibili attraverso criteri interpretativi rapportati a dati concreti.
- In particolare, l’atto impugnato non dà dimostrazione di alcuna condizione di assoluta impossibilità di attuazione del principio delle pari opportunità, in quanto non spiega, nemmeno in termini sommari o essenziali, le concrete ragioni che hanno impedito di promuovere candidature diversificate tra generi, all’interno delle compagini partitiche o dello stesso consesso consiliare, in grado di conciliarsi al contempo con le concorrenti esigenze di equilibrio politico.
- Con riguardo all’ulteriore argomento attinente alle indicazioni dei partiti, deve osservarsi che il principio di pari opportunità non può ritenersi non violato per effetto della mancata indicazione, da parte dei partiti di maggioranza, di nominativi di genere femminile: si affiderebbe, altrimenti, ancora una volta ad una valutazione di opportunità politica la preliminare individuazione degli assessori in termini confacenti all’esigenza dell’equilibrata rappresentanza di genere.
- L’indicazione dei partiti va inoltre coniugata con la regola che fa della scelta in esame un'autonoma determinazione del Presidente della Giunta. A questi è richiesto di dimostrare di essersi concretamente e personalmente attivato, anche al di fuori dei suggerimenti dei partiti della coalizione di maggioranza, per individuare delle figure idonee, disponibili a rivestire l'incarico.
- Sempre in tema, è bene chiarire che ai sensi dell'art. 47 del t.u.e.l. è possibile la nomina degli assessori anche al di fuori dei componenti del Consiglio, fra i cittadini in possesso dei requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere.
Pertanto, salvo diverse e motivate condizioni ostative, non costituisce ostacolo alla composizione diversificata della giunta la mancanza di donne nelle liste collegate al candidato poi eletto Sindaco (così TAR Umbria sez. I, 20.06.2012, n. 242).
- Il ragionamento sin qui condotto si completa osservando che la presenza di un solo assessore di genere femminile nella giunta del Comune di Rivoli, non vale certamente a soddisfare il principio di una equilibrata presenza di donne e uomini nella composizione dell’organo di governo.
Con riguardo alla portata della norma statutaria di cui all’art. 9 comma 4, va rilevato che il vincolo “tendenziale” posto dalla stessa, rivela una consistenza “procedimentale” che si evidenzia nei passaggi di un’adeguata istruttoria, preliminare alla scelta dei candidati, e di una congrua motivazione, che dia conto dei risultati dello sforzo propositivo attuato e delle ragioni che ne hanno impedito un esito positivo.
- In questo contesto, ha cittadinanza anche la valutazione politica di gradimento, purché l’eventuale dissenso rispetto a qualunque candidatura femminile venga giustificato da concrete ragioni di inidoneità o incompatibilità politica alla funzione, nonché dalla mancanza di alternative valide, compatibili con il quadro politico, diversamente traducendosi in un'ingiustificata elusione di un cogente precetto costituzionale.
- Tenendo conto delle considerazioni sin qui esposte, si giunge alla conclusione della illegittimità dell’atto impugnato, in quanto viziato dall’inosservanza della disposizione di cui all’art. 9 dello statuto comunale, presentando lo stesso la consistenza di determinazione discrezionale, non leggibile alla stregua dei criteri conformativi sin qui descritti e dunque irrispettosa dei limiti posti ad argine di un uso libero e non adeguatamente motivato del potere di nomina.
- Né la pur coesistente discrezionalità realizzativa del principio di "riequilibrio" può apparire in sé compressa oltre i suoi limiti, essendo la violazione rilevata risultante da una verifica di legittimità afferente alla sproporzione manifesta e ad un assetto in concreto inferiore alla soglia della ragionevolezza.
- In definitiva, l’attività di nomina degli assessori risulta essersi svolta in assenza di comprovate preliminari attività istruttorie volte ad acquisire la disponibilità alla candidatura di persone di genere diverso e in difetto di adeguate motivazioni in ordine alle ragioni della mancata applicazione del principio di cui all'art. 51 della Costituzione, non rinvenibili neppure in una dimostrata condizione politica assolutamente preclusiva all’attuazione del principio di pari opportunità.
Ampliando la trattazione in esame al confronto con la casistica presa in considerazione dalla recente giurisprudenza amministrativa, si traggono elementi di supporto alle conclusioni qui accolte.
Con riferimento ad analoghe disposizioni contenute negli Statuti regionali della Campania (art. 46, comma 3: "il Presidente della Giunta regionale nomina, nel pieno rispetto del principio di una equilibrata presenza di donne ed uomini, i componenti la Giunta") e della Lombardia (art. 11, comma 3: "la Regione promuove il riequilibrio tra entrambi i generi negli organi di governo della Regione"), il Consiglio di Stato, concludendo per l’inosservanza del principio della pari opportunità, ha valorizzato -pur a fronte di scelte lessicali diverse- il dato, comune ai due statuti, della imposizione di una specifica "azione positiva per obiettivo legale", intesa come misura volta al perseguimento di uno specifico risultato (di "riequilibrio") conformato ad un interesse definito dalla legge.
Il giudice d’appello ha quindi ritenuto che la nomina degli organi di governo della Regione è subordinata, nei casi esaminati, per espressa autolimitazione statutaria, “all'espletamento di un’azione positiva, consistente nella "promozione del riequilibrio tra entrambi i generi", e che “la violazione di tale vincolo determina l'illegittimità della o delle nomine, in quanto gli spazi della discrezionalità politica hanno superato i confini stabiliti dai principi di natura giuridica posti dall'ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo” (cfr. Cons. St., sez. V, 27.07.2011 n. 4502 e 21.06.2012, n. 3670).
Il dettato dello statuto del Comune resistente nel presente giudizio (“nella composizione della Giunta si deve tendere ad equilibrare la presenza di entrambi i sessi”) -oltre a condividere qualificanti elementi lessicali con le disposizioni sopra richiamate- accentua il rilievo modale del vincolo di scopo tramite l’uso della forma imperativa (“si deve”).
Su un fronte alternativo a quello sin qui vagliato si pone il caso oggetto della recente pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 6228 del 05.12.2012, in cui veniva in rilievo una norma statutaria che, tra i "principi fondamentali" cui il Comune “ispira” la propria azione, annovera la “finalità di promuovere e favorire iniziative che assicurino condizioni sostanziali di pari opportunità per il superamento di ogni discriminazione tra i sessi".
In questa fattispecie si è ritenuto che la previsione statutaria non disponesse né predeterminasse alcun vincolo specifico in ordine alla composizione degli organi di governo comunale, in quanto “priva di contenuti precettivi, in ragione della sua vaga e generica formulazione, di rilievo puramente enfatico, non contenente neppure una regola di cd. "positive action" di tipo promozionale, che deve sempre essere enunciata in modo specifico, determinato e preciso, come è proprio delle norme giuridiche, anche di principio”.
Il riferimento alle due tipologie di disposizioni prese in esame dalla giurisprudenza, nelle loro diverse configurazioni lessicali, consente di percepire la portata precettiva e conformativa della diposizione statutaria assunta dalle ricorrenti come violata, dovendosene escludere, in termini analoghi a quelli dei primi due casi citati, il rilievo meramente retorico ed enunciativo.
Da ultimo va osservato che la soluzione qui accolta risulta coerente con i criteri di indirizzo desumibili dalla recenti disposizioni contenute nella legge 23.11.2012, n. 215 (in G.U. n. 288 dell'11.12.2012 -in vigore dal 26.12.2012)- finalizzate a promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali (oltre che nella composizione delle commissioni di concorso nelle pubbliche amministrazioni).
Per quanto di interesse ai fini della presente decisione, va posto rilievo sulla accentuazione -frutto dei recenti apporti legislativi- del tenore precettivo delle disposizioni intese a vincolare, in senso paritario, la composizione delle giunte comunali e provinciali. In particolare, l’articolo 6, comma 3, del d.lgs. 267/2000 (riguardante gli Statuti comunali e provinciali) ha visto rafforzata la cogenza del principio della paritaria rappresentanza, per effetto della sostituzione della voce “promuovere” con la più prescrittiva forma “garantire” (“Gli statuti comunali e provinciali stabiliscono norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della legge 10.04.1991, n. 125, e per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti").
Similmente, all’art. 46, comma 2, del d.lgs. 267/2000, in tema di nomina della Giunta da parte del sindaco e del presidente della provincia, si è disposto, con un inciso di nuovo conio, che tali nomine devono avvenire “nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi”.
Analoghe revisioni testuali, convergenti nella linea del rafforzamento della rappresentanza di genere, si ripetono agli artt. 71 (in tema di elezione del sindaco e del consiglio comunale nei comuni sino a 15.000 abitanti) e 73 del d.lgs. 267/2000 (in materia di elezione del consiglio comunale nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti).
Il diritto vivente consolidatosi in materia trova oggi, pertanto, nuovi argomenti esegetici per rinnovare la valutazione di tendenziale vincolatività attribuita ai precetti conformativi presenti negli statuti degli enti locali, volti a sollecitare la composizione degli organi di governo in senso tendenzialmente egualitario tra i generi.
In conclusione, per tutti i motivi esposti, il provvedimento impugnato va annullato, dovendo il Sindaco del Comune procedere alla nomina dei nuovi assessori in rispondenza ai criteri evidenziati al paragrafo 11 (TAR Piemonte, Sez. I, con sentenza 10.01.2013 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOPersonale. Possibile licenziamento dopo il giudizio penale. L'assoluzione non salva il posto.
Il dipendente pubblico assolto nel giudizio penale «perché il fatto non costituisce reato» può essere comunque licenziato per lo stesso fatto dopo la riapertura del procedimento disciplinare.
A rendere legittimo il licenziamento è la condotta incompatibile con il proseguimento del rapporto di lavoro, anche se l'azione non ha rilevanza penale.
Una volta concluso il procedimento penale, deve quindi essere riaperto il quello disciplinare.

Il principio è stato sancito dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nella sentenza 08.01.2013 n. 206.
La Suprema corte ha chiarito che la Pa deve valutare in maniera autonoma rispetto all'accertamento penale l'idoneità dei fatti contestati a integrare gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento e, sulla base di elementi scaturenti dalle prove raccolte nel giudizio penale, l'incidenza dei fatti sul rapporto fiduciario.
I giudici hanno precisato che l'interpretazione secondo cui in caso di assoluzione o proscioglimento gli stessi fatti restavano definitivamente sottratti alla valutazione disciplinare non è condivisibile. Solo se l'assoluzione è disposta «perché il fatto non sussiste» o «perché l'imputato non l'ha commesso» è esclusa anche ogni responsabilità disciplinare.
Al contrario, l'assoluzione dovuta alla non rilevanza penale dei fatti contestati, non impedisce la valutazione in sede disciplinare della stessa condotta. In caso contrario, sarebbero pregiudicate le esigenze di buon andamento e imparzialità della Pa: principi che sono stati recepiti anche dal Dlgs 150/2009.
La riforma Brunetta ha previsto che il procedimento disciplinare vada concluso anche in caso di pendenza di procedimento penale, ammettendone la sospensione solo per le infrazioni di maggiore gravità se per la complessità di accertamento mancano elementi sufficienti per proseguire nell'accertamento disciplinare. Solo se il procedimento disciplinare, non sospeso, si concluda con una sanzione, e poi quello penale sia definito con sentenza irrevocabile di assoluzione piena, la Pa potrà riaprire il procedimento disciplinare per modificarne o confermarne l'atto conclusivo in relazione all'esito del giudizio penale (articolo Il Sole 24 Ore del 21.01.2013).

PUBBLICO IMPIEGO: Incarico dirigenziale, enti locali, revoca, motivi disciplinari, illegittimità, reintegra.
Il provvedimento di revoca di un incarico dirigenziale pubblico deve essere motivato da ragioni di carattere disciplinare. In caso di illegittima rimozione dunque, il dirigente ha diritto ad essere reintegrato nelle sue funzioni in quanto il mero risarcimento del danno non costituisce un’efficace forma di tutela in caso di incarico pubblico.
Infatti, i principi di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione enunciati dall’art. 97 Cost. impongono, rispettivamente, che il rapporto d’ufficio del dirigente, anche se caratterizzato dalla temporaneità dell’incarico, sia connotato da specifiche garanzie dirette ad assicurare la tendenziale continuità dell’azione amministrativa e che i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione siano chiaramente distinti.

È quanto ha stabilito il TRIBUNALE di Enna con sentenza 19.12.2012 n. 647, conforme a Sezioni Unite 16.02.2009, n. 3677.
Nel caso in esame un dirigente pubblico ricorreva al giudice del lavoro avverso il provvedimento di revoca dell’incarico conferitogli con delibera comunale “per tutta la durata del mandato sindacale”.
Secondo la sentenza in commento, tale delibera, seppur conforme alla previsione dello statuto comunale per cui “gli incarichi dirigenziali hanno durata corrispondente a quella del mandato del Sindaco che li ha nominati”, si pone in contrasto con il quadro normativo vigente in materia di revoca degli incarichi dirigenziali. In particolare, con l’art. 19, D.Lgs. n. 165/2001, per cui “gli incarichi dirigenziali possono essere revocati esclusivamente nei casi e con le modalità di cui all’articolo 21, comma 1, secondo periodo”, ovvero per ragioni di carattere disciplinare.
Inoltre, ed è questo l’aspetto più significativo, il giudice, nell’interpretare le norme in materia di revoca degli incarichi conferiti ai dirigenti pubblici, ha ritenuto di applicare i principi affermati dalla Corte Costituzionale in materia di spoils system.
In tal senso, il rapporto d’ufficio del dirigente, anche se caratterizzato dalla temporaneità dell’incarico, deve essere connotato da specifiche garanzie in modo da assicurare la tendenziale continuità dell’azione amministrativa e una chiara distinzione tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione, si da garantire il rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa.
Pertanto, la revoca delle funzioni conferite ai dirigenti pubblici può essere disposta solo a seguito dell’accertamento della responsabilità dirigenziale, in presenza di determinati presupposti ed all'esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato.
Le garanzie procedimentali devono essenzialmente consistere in un momento di confronto dialettico tra le parti, nell’ambito del quale l’Amministrazione esterni le ragioni per le quali ritenga di disporre la revoca anticipata dell’incarico ed il dirigente sia posto in condizione di difendersi, prospettando i risultati delle proprie prestazioni; nel rispetto dei principi del giusto procedimento; nella motivazione dell’atto di revoca, a prescindere dalla sua natura giuridica, di diritto pubblico o di diritto privato.
In caso di illegittima revoca del dirigente pubblico, le forme di riparazione economica (quali il risarcimento del danno o la corresponsione di indennità) proprie della disciplina privatistica, non rappresentano efficaci strumenti di tutela, posto che le garanzie procedimentali mirano a tutelare non solo il dirigente, ma anche gli interessi pubblici dell’imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione. L’unica forma di tutela efficace è la reintegrazione del dirigente nelle funzioni dirigenziali svolte sulla base dell’originario provvedimento di conferimento dell’incarico, fino alla scadenza naturale dello stesso.
Conseguentemente, il giudice del lavoro ha annullato il provvedimento di revoca dell’incarico dirigenziale e, per l’effetto, ha ordinato al comune di reintegrare il ricorrente nelle funzioni dirigenziali precedentemente svolte (link a www.altalex.com).

CONDOMINIOCase, inagibilità da dimostrare. Senza prove non c'è il diritto al risarcimento dei danni. Una sentenza della Cassazione su un caso di abbandono dell'abitazione per infiltrazioni.
Il proprietario che a causa di lavori condominiali non eseguiti a regola d'arte lamenti infiltrazioni nell'appartamento non può lasciare la propria abitazione e chiedere il risarcimento del danno per mancato utilizzo della casa se non prova rigorosamente che l'abbandono dell'immobile è dipeso dalle oggettive malsane condizioni che lo avevano reso di fatto inabitabile.
È il principio affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. III civile, nella sentenza 13.12.2012 n. 22923.
I fatti. Questa la vicenda che ha portato alla decisione della Cassazione: il pavimento dell'appartamento al piano terra di un condominio veniva rimosso per consentire riparazioni alle tubature dell'impianto di riscaldamento condominiale. Le imprese incaricate però non avevano eseguito a regola d'arte le opere di ripristino e, di conseguenza, il condomino del piano terra aveva trovato l'appartamento danneggiato da infiltrazioni provenienti dalle reti fognarie condominiali e dai connessi fenomeni di presenza di muffe organiche.
Secondo il danneggiato l'appartamento non poteva più essere abitato e questa convinzione veniva confermata da un tecnico a cui era stata richiesta una perizia sullo stato dei luoghi. Successivamente il proprietario si rivolgeva al tribunale per richiedere la condanna del condominio al risarcimento di tutti i danni subiti (compresi quelli per mancato utilizzo dell'immobile) a causa della cattiva esecuzione dei lavori di ripristino del pavimento e delle conseguenti infiltrazioni provenienti dall'impianto di scarico condominiale e da umidità ascendente. Il condominio convenuto contestava la domanda e, comunque, chiedeva e otteneva di chiamare in garanzia le imprese esecutrici dei lavori. Il tribunale dichiarava quindi la responsabilità del condominio, che veniva condannato al risarcimento dei danni per rifacimento di pavimentazione e battiscopa, per danni da infiltrazioni, nonché per mancato uso dell'immobile, abbandonato per oltre un anno fino all'ultimazione dei lavori.
La Corte di appello, invece, occupandosi dell'impugnazione della sentenza di primo grado presentata dal condominio, respingeva la specifica domanda di risarcimento per il mancato utilizzo dell'immobile. Ciò perché il danneggiato aveva effettivamente lasciato la casa, ma non era stata provata la necessità effettiva di abbandonare l'alloggio, con la conseguenza che la condotta tenuta dal condomino del piano terreno si doveva considerare come un volontario abbandono dell'appartamento che, come tale, non era risarcibile. Nel corso del giudizio di merito era stata fatta anche una consulenza tecnica d'ufficio, che però si era limitata a rilevare i segni dell'abbandono del bene e a descrivere lo stato di fatto dei locali senza tuttavia indicare in modo univoco l'intollerabilità o in ogni caso l'idoneità a determinare l'inevitabile necessità di non abitare l'appartamento.
La posizione della Cassazione. Le precedenti considerazioni sono state pienamente condivise dalla Suprema corte, secondo cui il singolo condomino il cui appartamento è stato reso inabitabile da inesatta esecuzione di lavori condominiali per avere diritto al risarcimento del danno da mancato godimento dell'immobile deve provare di essere stato costretto ad abbandonarlo perché divenuto insalubre e radicalmente inabitabile a causa delle infiltrazioni provenienti dalle reti fognarie condominiali e dei connessi fenomeni di presenza di muffe. Tale prova però, come chiariscono i giudici supremi, non può essere rappresentata da argomentazioni e comunicazioni di dati fornite dal tecnico di fiducia al quale il danneggiato si sia rivolto per un parere sulle cause dei danni subiti prima del procedimento in giudizio. In ogni caso una perizia avrebbe solo il valore di indizio, il cui apprezzamento è affidato alla valutazione discrezionale del giudice, ma della quale quest'ultimo non è obbligato in nessun caso a tenere conto.
Secondo la Cassazione il tecnico di parte avrebbe solamente potuto, se chiamato quale testimone, confermare lo stato dei luoghi da lui personalmente percepito, ma appunto quale mera situazione di fatto e con esclusione di qualunque valutazione. Del resto non è possibile neppure provare le necessità dell'abbandono utilizzando le parole del consulente tecnico di ufficio incaricato dal giudice se quest'ultimo si limita solamente a descrivere i segni dell'abbandono e lo stato di fatto dei locali dell'appartamento, ma senza indicarne le ragioni che hanno costretto il condomino danneggiato a lasciare la sua casa per trasferirsi altrove.
In tali casi quindi, per avere diritto al risarcimento del danno da mancato godimento dell'immobile è necessaria una valida prova che confermi la necessità dell'abbandono e, con esso, sulle condizioni di inabitabilità del medesimo: in caso contrario ne deriva la conclusione della volontarietà della condotta del danneggiato, la quale non potrebbe quindi mai costituire fondamento per un diritto al risarcimento del danno a carico di altri, in virtù dei principi generali in materia. Tuttavia le imprese esecutrici dei lavori eventualmente chiamate in causa in garanzia, come nel caso di specie, sono comunque tenute al risarcimento di tutti gli altri danni conseguenti alle opere non eseguite a regola d'arte a meno che il diritto di garanzia del condominio non sia prescritto (articolo ItaliaOggi Sette del 21.01.2013).

URBANISTICAAnche se l'art. 35 della legge 22.10.1971 n. 865, prevede una certa sequenza procedimentale in materia di attuazione dei Piani di zona per l'edilizia economica e popolare statuente prima l'espropriazione delle aree e poi la loro assegnazione in proprietà od in superficie, non è tuttavia illegittimo il provvedimento di assegnazione adottato prima del perfezionamento della procedura espropriativa.
Nessuna illegittimità è rinvenibile nel caso che l'assegnazione dell'area ai <<proprietari>> avvenga prima del procedimento espropriativo”, e ciò in quanto l’Ente locale ben può prevedere un'assegnazione "diretta" ai proprietari dell'area da assegnare, non risultando ragionevole procedere all'espropriazione dell'area e alla successiva riassegnazione al medesimo soggetto proprietario, ovviamente in possesso dei requisiti per essere assegnatario di un'area nell'ambito di un PEEP.
La facoltà di svolgere le procedure di assegnazione senza attendere il compimento delle espropriazioni risulta accettabile anche alla luce dello stesso art. 35 invocato, nella parte in cui prescrive la realizzazione del P.E.E.P. "in pareggio", per cui “i corrispettivi della concessione in superficie … ed i prezzi delle aree cedute in proprietà devono, nel loro insieme, assicurare la copertura delle spese sostenute dal comune o dal consorzio per l'acquisizione delle aree comprese in ciascun piano approvato … ciò allo scopo, evidentemente, di assicurare la copertura delle spese complessivamente sostenute o da sostenere da parte dell'Amministrazione, con conseguente diritto del Comune di recuperare quanto speso sia per l'acquisizione delle aree (da adeguare all'effettiva somma dovuta agli espropriati a seguito della definizione della pratica espropriativa), sia per la loro urbanizzazione”.
La necessità di raggiungere la completa copertura dei costi sostenuti giustifica l’anticipazione della procedura selettiva per l’individuazione degli assegnatari, la quale è in grado di offrire una ragionevole certezza sulle somme che l’Ente pubblico potrà percepire a garanzia dell’equilibrio economico della complessa operazione posta in essere, e dunque può confermare entro un termine non eccessivamente lungo la bontà e la realizzabilità della scelta effettuata per soddisfare il fabbisogno delle Aziende che operano nelle realtà produttive locali.

L’invocato art. 35 della 865/1971 statuisce al comma 11 che “Le aree di cui al secondo comma, destinate alla costruzione di case economiche e popolari, sono concesse in diritto di superficie, ai sensi dei commi precedenti, o cedute in proprietà a cooperative edilizie e loro consorzi, ad imprese di costruzione e loro consorzi ed ai singoli, con preferenza per i proprietari espropriati ai sensi della presente legge sempre che questi abbiano i requisiti previsti dalle vigenti disposizioni per l'assegnazione di alloggi di edilizia agevolata”.
La regole introdotte sono pacificamente applicabili alle procedure di approvazione di un P.I.P., l'attuazione del quale tende al soddisfacimento del fabbisogno degli operatori economici di disporre di aree a prezzi calmierati, attraverso il reperimento e l'espropriazione di porzioni fabbricabili da cedere a terzi in superficie o in proprietà, sulla base di un corrispettivo o prezzo di cessione corrispondente (nel complesso) al costo di acquisizione.
I proprietari espropriati vantano dunque un titolo di preferenza da far valere nel procedimento di assegnazione dei lotti (PEEP o P.I.P.), per ottenere la cessione in proprietà degli stessi. La giurisprudenza che ha avuto modo di affrontare la questione sottoposta ha affermato che “Anche se l'art. 35 della legge 22.10.1971 n. 865, prevede una certa sequenza procedimentale in materia di attuazione dei Piani di zona per l'edilizia economica e popolare statuente prima l'espropriazione delle aree e poi la loro assegnazione in proprietà od in superficie, non è tuttavia illegittimo il provvedimento di assegnazione adottato prima del perfezionamento della procedura espropriativa” (Consiglio di Stato, sez. IV – 07/02/1990 n. 66).
In altra pronuncia è stato rilevato come “nessuna illegittimità sia rinvenibile nel caso che l'assegnazione dell'area ai <<proprietari>> avvenga prima del procedimento espropriativo”, e ciò in quanto l’Ente locale ben può prevedere un'assegnazione "diretta" ai proprietari dell'area da assegnare, non risultando ragionevole procedere all'espropriazione dell'area e alla successiva riassegnazione al medesimo soggetto proprietario, ovviamente in possesso dei requisiti per essere assegnatario di un'area nell'ambito di un PEEP (TAR Toscana, sez. I –08/05/2001 n. 800– confermata in appello da Consiglio di Stato, sez. IV, 19/03/2009 n. 1656 – che richiama Consiglio di Stato, sez. IV – 3154/2000).
La facoltà di svolgere le procedure di assegnazione senza attendere il compimento delle espropriazioni risulta accettabile anche alla luce dello stesso art. 35 invocato, nella parte in cui prescrive la realizzazione del P.E.E.P. "in pareggio", per cui “i corrispettivi della concessione in superficie … ed i prezzi delle aree cedute in proprietà devono, nel loro insieme, assicurare la copertura delle spese sostenute dal comune o dal consorzio per l'acquisizione delle aree comprese in ciascun piano approvato … ciò allo scopo, evidentemente, di assicurare la copertura delle spese complessivamente sostenute o da sostenere da parte dell'Amministrazione, con conseguente diritto del Comune di recuperare quanto speso sia per l'acquisizione delle aree (da adeguare all'effettiva somma dovuta agli espropriati a seguito della definizione della pratica espropriativa), sia per la loro urbanizzazione” (Corte di Cassazione, sez. I civile – 22/10/2008 n. 25582).
La necessità di raggiungere la completa copertura dei costi sostenuti giustifica l’anticipazione della procedura selettiva per l’individuazione degli assegnatari, la quale è in grado di offrire una ragionevole certezza sulle somme che l’Ente pubblico potrà percepire a garanzia dell’equilibrio economico della complessa operazione posta in essere, e dunque può confermare entro un termine non eccessivamente lungo la bontà e la realizzabilità della scelta effettuata per soddisfare il fabbisogno delle Aziende che operano nelle realtà produttive locali (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 12.12.2012 n. 1942 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIComunicazione esclusione gara via fax: per il Tar, è tutto legittimo.
Il fax con il quale la stazione appaltante comunica la sconfitta di un concorrente nella gara d'appalto e indica contemporaneamente il nome del vincitore costituisce uno strumento idoneo a determinare la piena conoscenza del provvedimento amministrativo.

Il principio è stato affermato dal TAR Toscana, Sez. I, sentenza 06.12.2012 n. 1942.
I giudici amministrativi dichiarano così irricevibile il ricorso proposto dall'impresa perdente contro l’aggiudicazione della gara in quanto la trasmissione via fax dell’esito della procedura è valida a tutti gli effetti. Naturalmente a prova del corretto esito dell'informazione, è necessario per la stazione appaltante produrre la ricevuta positiva del rapporto di trasmissione (cfr. Consiglio di Stato 6208/2011).
Pertanto il termine entro cui si sarebbe dovuta impugnare l’aggiudicazione dei lavori iniziava a decorre dalla data in cui la comunicazione risultava ricevuta e non da quella di altre comunicazioni. Tutt'al più l'impresa avrebbe dovuto dimostrare il malfunzionamento dell’apparecchio (commento tratto da www.giurdanella.it).
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STRALCIO DELLA SENTENZA
Premesso che con il presente ricorso è impugnata l’aggiudicazione a favore della controinteressata di un appalto per la realizzazione di lavori pubblici, lamentando che nel progetto tecnico dell’aggiudicataria mancasse documentazione relativa alla sua offerta migliorativa di cui sarebbe stata prevista, dalla legge di gara, la produzione a pena di esclusione;
Considerato che:
- il provvedimento di aggiudicazione definitiva è stato comunicato tramite fax, e risulta ricevuto dalla ricorrente, il 14.02.2012 mentre il ricorso è stato notificato il 10.04.2012, tardivamente rispetto alla conoscenza del provvedimento gravato;
- il fax rappresenta strumento idoneo a determinare la piena conoscenza del provvedimento amministrativo e garantisce in via generale una sufficiente certezza sulla ricezione del messaggio, sì da essere idoneo a fare decorrere termini perentori salva la prova contraria concernente la funzionalità dell’apparecchio ricevente (C.d.S. VI, 24.11.2011 n. 6208), che nel caso di specie non è stata fornita;
- la ricorrente non ha effettuato il procedimento di accesso informale ex art. 79, comma 5-quater, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, che presumibilmente le avrebbe consentito di avere cognizione degli atti di gara e dei vizi denunciati;
Ritenuto pertanto di dichiarare irricevibile il ricorso e di condannare la ricorrente al pagamento delle spese processuali nella misura di € 3.000,00 (tremila/00) a favore della stazione appaltante, nulla spese per la controinteressata non costituita (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 06.12.2012 n. 1942 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI: Debiti della PA, somme per istruzione e verde pubblico senza esecuzione forzata.
Nella delibera d'individuazione semestrale delle somme destinate a voci di spesa sottratte all'esecuzione forzata è legittimamente inclusa la voce relativa per la manutenzione del verde pubblico, annoverabile tra i servizi locali indispensabili quale servizio connesso e complementare ai servizi viabilità e di igiene urbana. Deve parimenti rilevarsi che le spese relative all'istruzione primaria e secondaria rientrano anch'esse nel vincolo d'impignorabilità.
La riserva di potestà esclusiva in favore dello Stato ex art. 117 Cost., avente ad oggetto le funzioni fondamentali degli enti locali, costituisce circostanza idonea a determinare la perdurante validità e vigenza del D.M. 28.05.1993, adottato dal Ministero dell'interno di concerto con il Ministero del tesoro, che contiene l'elencazione dei servizi locali indispensabili per i comuni, in cui devono ritenersi inclusi anche i servizi di istruzione primaria e secondaria e il servizio di tutela del verde pubblico.
Nella delibera d'individuazione semestrale delle somme destinate a voci di spesa sottratte all'esecuzione forzata è legittimamente inclusa la voce relativa per la manutenzione del verde pubblico, annoverabile tra i servizi locali indispensabili quale servizio connesso e complementare ai servizi viabilità e di igiene urbana.
Deve parimenti rilevarsi che le spese relative all'istruzione primaria e secondaria rientrano anch'esse nell'elencazione di cui al citato D.M. e sono riconducibili quindi nel vincolo d'impignorabilità di cui all'art. 159 TUEL (commento tratto da www.ispoa.it - Corte di Cassazione penale, sentenza 28.11.2012 n. 46299).

LAVORI PUBBLICI: Insidia stradale, infortunio, pedone, Comune, responsabilità, custodia.
La responsabilità ex art. 2051 c.c. presuppone che il soggetto a cui la si imputa abbia con la cosa un rapporto definibile come custodia (potere di sorveglianza e di modifica dello stato, con esclusione di analogo potere da parte di altri).
Accertato tale potere e accertato il danno causato dall’anomalia della cosa custodita, la responsabilità del custode sussisterà, salvo che l’evento –in assenza comunque di un eventuale difetto di diligenza del custode– si sia verificato in modo improvviso e imprevedibile (P. es., situazione di pericolo provocata dallo stesso danneggiato o da terzi che, nonostante la diligente attività di controllo o di manutenzione esigibile dal custode per garantire un intervento tempestivo, non possa esser rimossa o segnalata con tempestività. Nella specie, invece, tale non poteva esser considerata la circostanza secondo cui l’attrice abitava nelle immediate vicinanze del luogo del sinistro, posto che, insieme a tale circostanza, si sarebbe in ogni caso dovuta provare la precedente conoscenza in capo all’attrice della buca in questione, né che la stessa, al momento dell’infortunio, stesse parlando con l’amica che le stava al fianco, posto che insieme a tale circostanza, si sarebbe dovuto provare come, a causa di ciò, la sua attenzione fosse assolutamente e colposamente sviata, né infine che avrebbe potuto notare ed evitare la buca comunque, posto che era provato come l’illuminazione pubblica fosse carente).

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In tema di danni da insidia stradale, la Sentenza del Tribunale di Verona, G.U. Dott. Ernesto D’Amico, n. 1951/2012 si colloca a pieno titolo nel solco ormai definitivamente tracciato da dottrina e giurisprudenza, rivolto ad affermare l’applicabilità tout court dell’art. 2051 c.c. anche al Comune, con riferimento ai tratti di strada comunale rispetto ai quali l’ente pubblico in questione è destinato ad assumere a tutti gli effetti la qualifica di custode.
Non solo. Il Giudice del Tribunale torna a sottolineare, anche sotto questo profilo in linea con i più recenti indirizzi, la natura oggettiva dell’ipotesi di responsabilità prevista dal menzionato art. 2051 c.c. in materia di danni cagionati da cosa in custodia.
Il congiunto operare, sul piano esegetico ed applicativo, dei due principi testé richiamati è destinato a produrre -come effettivamente si sta progressivamente verificando da diversi anni- un innalzamento del grado di tutela accordato agli utenti della strada rimasti vittima di insidie e, specularmente, un aumento del rischio risarcitorio sulle spalle dei Comuni.
In punto di diritto, la richiamata sentenza del Tribunale di Verona si distingue per la lucida e opportunamente sintetica ricostruzione dell’excursus della giurisprudenza di legittimità che ha condotto ad un’estensione nei confronti dei Comuni della regola sancita dall’art. 2051 c.c. e, per altro verso, per la specificazione –sul piano pratico e operativo– dell’affermata natura oggettiva della responsabilità prevista dalla disposizione codicistica.
La configurabilità di una responsabilità oggettiva ex art. 2051 c.c., in particolare, ha come presupposto la sussistenza del nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato. Sussistendo tale presupposto, la responsabilità risarcitoria si imputerà al soggetto che è in condizione di controllare i rischi inerenti alla cosa essendone il custode.
Accertati tali presupposti, il custode avrà un’unica possibilità di andare esente da responsabilità, da ricercarsi nella prova del caso fortuito.
Trattandosi di responsabilità oggettiva, il caso fortuito non può identificarsi nella mera assenza di colpa del custode, ma deve risolversi in un vero e proprio fattore oggettivamente individuabile, esterno alla cosa e dotato dei caratteri dell’imprevedibilità ed inevitabilità da parte del custode, che incida –interrompendola– sulla serie causale che dalla cosa conduce al danno.
I fattori esterni alla cosa, potenzialmente forieri di un pericolo non connaturato alla cosa e come tali suscettibili di integrare il caso fortuito, possono essere determinati dallo stesso danneggiato o da terzi e rilevano, ai fini dell’esclusione della responsabilità, se (e solo se) esulino dalla sfera di controllo del custode e, in particolare, dall’attività di controllo e di manutenzione da esso esigibile per garantire un intervento tempestivo di rimozione.
L’impostazione appena prospetta ha delle evidenti e sostanziali ricadute sul piano probatorio: una volta che l’attore/danneggiato abbia dato la prova del nesso causale, incomberà all’ente convenuto, per liberarsi dalla responsabilità, dare la prova del caso fortuito così rigorosamente inteso (TRIBUNALE di Verona, Sez. II civile, sentenza 22.09.2012 n. 1951 - link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATALe controversie in tema di oneri di urbanizzazione e di costo di costruzione introducono un giudizio su un rapporto prescindendo dalla impugnazione di atti. Ed infatti tutte le controversie, concernenti l’an e il quantum delle somme dovute a titolo di contributo in dipendenza di norme di legge e regolamentari, attengono a diritti soggettivi azionabili nei termini di prescrizione; pertanto alcuna acquiescenza può opporsi in materia di diritti soggettivi patrimoniali, il cui versamento, ove non dovuto, è suscettibile in ogni caso di legittimare un’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo ai sensi dell’art. 2041 cod. civ..
L’amministrazione, nella determinazione delle somme dovute a titolo di contributo non esercita poteri autoritativi discrezionali ma compie attività di mero accertamento della fattispecie in base ai parametri fissati da leggi e da regolamenti. Le relative controversie, dunque, rientrano nella categoria di quelle aventi ad oggetto atti paritetici, inerenti diritti soggettivi e non sono sottoposte ai termini decadenziali propri dei giudizi impugnatori.
Inoltre, le controversie concernenti la determinazione, liquidazione e corresponsione degli oneri concessori già devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell'art. 16 l. 28.01.1977 n. 10, abrogato a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 104/2010, rientrano oggi nella previsione dell’art. 133, lett. f), del codice del processo amministrativo secondo cui sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, tra l'altro: "le controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e edilizia, concernente tutti gli aspetti dell'uso del territorio".
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La partecipazione del privato al costo delle opere di urbanizzazione è dovuta allorquando l’intervento determini un incremento del peso insediativo con un’oggettiva rivalutazione dell’immobile, sicché l’onerosità del permesso di costruire è funzionale a sopportare il carico socio economico che la realizzazione comporta sotto il profilo urbanistico.
Tale principio opera ed è valevole anche per gli interventi di ristrutturazione che comportino un aumento del carico urbanistico di zona, sicché la giurisprudenza ha ravvisato l’onerosità del titolo in caso di interventi comportanti un incremento di unità abitative, oppure un incremento della superficie utile pur in assenza di aumento della cubatura, nonché per il caso di alterazione dei parametri edilizi e per quelle ristrutturazioni che mutino la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica dell’organismo edilizio oggetto di trasformazione.
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L’esenzione dal contributo di costruzione di cui all’art. 17, comma 3, lett. b, del d.p.r. n. 380/2001 per il caso di interventi di ristrutturazione di edifici unifamiliari entro il limite di ampliamento del 20%, costituisce oggetto di una previsione di carattere eccezionale, la cui ratio è di natura sociale ed è diretta sostanzialmente ad apprestare uno strumento di tutela e di salvaguardia della piccola proprietà immobiliare per gli interventi funzionali all’adeguamento dell’immobile alle necessità abitative del nucleo familiare. In tal caso rileva innanzitutto la destinazione unifamiliare del fabbricato nonché la natura dell’intervento edilizio quale di “ristrutturazione e di ampliamento non superiore al 20%” quale limite entro il quale è ammessa l’operatività dell’esonero in parola.
La disposizione intende evidentemente incentivare le opere atte ad adeguare le case unifamiliari alle necessità abitative del nucleo familiare, circoscrivendone l’operatività agli interventi che non mutino l’entità strutturale e la dimensione spaziale dell’immobile e non ne trasformino il valore economico.
Trattandosi di una norma di natura eccezionale, l’applicazione della fattispecie va circoscritta in un ambito di stretta interpretazione ancorato ai parametri predefiniti dal legislatore per cui deve escludersi che la disposizione in esame possa trovare applicazione in ogni ipotesi di ristrutturazione con demolizione e ricostruzione a parità di volume, entro il limite di ampliamento fissato dal legislatore.
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La Corte Costituzionale ha osservato che, ai fini del riconoscimento dell’esonero dal versamento del contributo di costruzione, il concetto di ristrutturazione mal si presta a comprendere la fattispecie della demolizione accompagnata dalla ricostruzione dell'edificio sullo stesso suolo “essendo caratterizzata da elementi (territoriali e costruttivi) e da risultato che le conferiscono fisionomia autonoma e differenziata” ed ha ritenuto quindi pienamente giustificata la previsione dell'esonero limitatamente alle ipotesi di ristrutturazioni ed ampliamenti e non anche alle ipotesi di integrale ricostruzione.
Tale accezione interpretativa è stata altresì ribadita più di recente dalla giurisprudenza amministrativa che ha chiarito che la gratuità va limitata agli interventi edilizi su edifici aventi destinazione residenziale e non anche su quelli con destinazione agricola, sicché deve escludersi che la esenzione in argomento possa trovare spazio nella fattispecie in esame relativa ad un intervento di demolizione e di utilizzazione ad uso abitativo per un’unica unità immobiliare della rispettiva volumetria di due preesistenti fabbricati rurali.

Per consolidata giurisprudenza le controversie in tema di oneri di urbanizzazione e di costo di costruzione introducono un giudizio su un rapporto prescindendo dalla impugnazione di atti. Ed infatti tutte le controversie, concernenti l’an e il quantum delle somme dovute a titolo di contributo in dipendenza di norme di legge e regolamentari, attengono a diritti soggettivi azionabili nei termini di prescrizione; pertanto alcuna acquiescenza può opporsi in materia di diritti soggettivi patrimoniali, il cui versamento, ove non dovuto, è suscettibile in ogni caso di legittimare un’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo ai sensi dell’art. 2041 cod. civ..
L’amministrazione, nella determinazione delle somme dovute a titolo di contributo non esercita poteri autoritativi discrezionali ma compie attività di mero accertamento della fattispecie in base ai parametri fissati da leggi e da regolamenti. Le relative controversie, dunque, rientrano nella categoria di quelle aventi ad oggetto atti paritetici, inerenti diritti soggettivi e non sono sottoposte ai termini decadenziali propri dei giudizi impugnatori (Cons. St. Sez. , sez. V, 17.10.2002, n. 5678).
Inoltre, le controversie concernenti la determinazione, liquidazione e corresponsione degli oneri concessori già devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell'art. 16 l. 28.01.1977 n. 10, abrogato a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 104/2010, rientrano oggi nella previsione dell’art. 133, lett. f), del codice del processo amministrativo secondo cui sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, tra l'altro: "le controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e edilizia, concernente tutti gli aspetti dell'uso del territorio" (Cons. St., Sez. V, 10.07.2003 n. 4102; Cons. St., Sez. V, 19.07.2004 n. 5197).
Ciò premesso, nel presente giudizio si discute circa l’applicabilità nella fattispecie del beneficio di cui all’art. 17, comma 3, lett. b, del d.p.r. n. 380/2001 a tenore del quale il contributo di costruzione non è dovuto per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari.
Come noto, la partecipazione del privato al costo delle opere di urbanizzazione è dovuta allorquando l’intervento determini un incremento del peso insediativo con un’oggettiva rivalutazione dell’immobile, sicché l’onerosità del permesso di costruire è funzionale a sopportare il carico socio economico che la realizzazione comporta sotto il profilo urbanistico (cfr. C.d. S. sez. V, 03.03.2002 n. 1180; C.d.S. sez. V. 29.04.2004 n. 2611).
Tale principio opera ed è valevole anche per gli interventi di ristrutturazione che comportino un aumento del carico urbanistico di zona, sicché la giurisprudenza ha ravvisato l’onerosità del titolo in caso di interventi comportanti un incremento di unità abitative (cfr. Tar Lombardia, Milano 21.07.2009 n. 4455), oppure un incremento della superficie utile pur in assenza di aumento della cubatura (cfr. C.d.S, sez. V, 27.08.1999 n. 999), nonché per il caso di alterazione dei parametri edilizi (cfr. Tar Piemonte, sez. I, 04.12.1997 n. 821) e per quelle ristrutturazioni che mutino la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica dell’organismo edilizio oggetto di trasformazione (cfr. Tar Emilia, Parma 19.02.2008 n. 100).
Tanto premesso occorre considerare che l’esenzione dal contributo di costruzione di cui all’art. 17, comma 3, lett. b, del d.p.r. n. 380/2001 per il caso di interventi di ristrutturazione di edifici unifamiliari entro il limite di ampliamento del 20%, costituisce oggetto di una previsione di carattere eccezionale, la cui ratio è di natura sociale ed è diretta sostanzialmente ad apprestare uno strumento di tutela e di salvaguardia della piccola proprietà immobiliare per gli interventi funzionali all’adeguamento dell’immobile alle necessità abitative del nucleo familiare. In tal caso rileva innanzitutto la destinazione unifamiliare del fabbricato nonché la natura dell’intervento edilizio quale di “ristrutturazione e di ampliamento non superiore al 20%” quale limite entro il quale è ammessa l’operatività dell’esonero in parola.
La disposizione intende evidentemente incentivare le opere atte ad adeguare le case unifamiliari alle necessità abitative del nucleo familiare, circoscrivendone l’operatività agli interventi che non mutino l’entità strutturale e la dimensione spaziale dell’immobile e non ne trasformino il valore economico.
Trattandosi di una norma di natura eccezionale, l’applicazione della fattispecie va circoscritta in un ambito di stretta interpretazione ancorato ai parametri predefiniti dal legislatore per cui deve escludersi che la disposizione in esame possa trovare applicazione in ogni ipotesi di ristrutturazione con demolizione e ricostruzione a parità di volume, entro il limite di ampliamento fissato dal legislatore.
Nel caso in esame il permesso di costruire n. 328/2006 che si intende assoggettare a gratuità ai sensi dell’art. 17, comma 3, lett. b cit., è stato rilasciato al ricorrente M.G. dal Comune di Castelvolturno per un intervento di ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione di due preesistenti fabbricati rurali e nella realizzazione di un unico immobile con destinazione abitativa.
Il Comune, nella memoria del 15.03.2012, ha escluso che un siffatto intervento possa rientrare nella ipotesi di gratuità invocata dal ricorrente e riferibile alle sole ristrutturazioni edilizie c.d. “leggere” ossia miranti a conservare il patrimonio edilizio esistente.
Il Comune ha infatti precisato che, come evincesi dai grafici e dalle riproduzioni fotografiche allegate in atti quali gli elaborati prodotti a sostegno della richiesta di rilascio del permesso di costruire, l’intervento è consistito in una ristrutturazione edilizia c.d. “pesante” per aver comportato la realizzazione di un organismo in tutto diverso dal precedente con conseguente incremento del carico urbanistico di zona rapportato alla sostituzione di fabbricati rurali diruti ed inutilizzati con un'unica unità immobiliare tipo “villetta” composta da piano terra e primo piano.
Ciò premesso rileva il Collegio che la disciplina invocata a sostegno del ricorso non è applicabile agli interventi di demolizione e ricostruzione di un fabbricato preesistente. In tal senso si è espressa chiaramente la Corte Costituzionale nella sentenza 26.06.1991 n. 296 pronunciata rispetto alla analoga previgente previsione di cui all'art. 9, lett. d), della legge 28.01.1977 n. 10 -di cui l’art. 17 d.p.r., comma 3, lett. b), costituisce analoga riproduzione- che esonerava dal contributo "gli interventi di restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al venti per cento, di edifici unifamiliari".
Ivi la Corte Costituzionale con una sentenza interpretativa di rigetto ha escluso l’illegittimità della norma, prospettata dal Tar Friuli Venezia Giulia rispetto all’art. 9 cit., nella parte in cui non comprendeva nella previsione di esenzione dal contributo per il rilascio della concessione, accanto all'ipotesi di ristrutturazione ed ampliamento nei limiti del venti per cento, anche quella della “integrale ricostruzione del fabbricato demolito”.
La Corte ha al riguardo osservato che, ai fini del riconoscimento dell’esonero in questione, il concetto di ristrutturazione mal si presta a comprendere la fattispecie della demolizione accompagnata dalla ricostruzione dell'edificio sullo stesso suolo “essendo caratterizzata da elementi (territoriali e costruttivi) e da risultato che le conferiscono fisionomia autonoma e differenziata” ed ha ritenuto quindi pienamente giustificata la previsione dell'esonero limitatamente alle ipotesi di ristrutturazioni ed ampliamenti e non anche alle ipotesi di integrale ricostruzione.
Tale accezione interpretativa è stata altresì ribadita più di recente dalla giurisprudenza amministrativa che ha chiarito che la gratuità va limitata agli interventi edilizi su edifici aventi destinazione residenziale e non anche su quelli con destinazione agricola (cfr C.d.S. 6290/2004), sicché deve escludersi che la esenzione in argomento possa trovare spazio nella fattispecie in esame relativa ad un intervento di demolizione e di utilizzazione ad uso abitativo per un’unica unità immobiliare della rispettiva volumetria di due preesistenti fabbricati rurali (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 08.05.2012 n. 2136 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 21.01.2013

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dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

PUBBLICO IMPIEGO: R. Lasca, LAVORO GRATUITO ASSOLUTAMENTE INESPLETABILE DAL PUBBLICO DIPENDENTE? Per la Cassazione sì, ma sono più le ombre che le luci! (commento a Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 26.11.2012 n. 20857) (07.01.2013).

CONVEGNI

EDILIZIA PRIVATA: Si segnala n. 1 convegno gratuito organizzato da ANCE Bergamo, itinerante nella provincia di Bergamo, che si terrà in tre pomeriggi distinti sul tema "LA GESTIONE DELLE TERRE E ROCCE DA SCAVO alla luce delle novità introdotte dal D.M. 161/2012" e, precisamente il 30.01.2013 + 06.02.2013 + 13.02.2013.
Maggiori dettagli e la locandina/scheda di partecipazione possono essere letti cliccando qui.

UTILITA'

APPALTI: M. Urbani, Adempimenti, comunicazioni e tempistiche per l’espletamento delle procedure di gara (Bollettino di Legislazione Tecnica n. 1/2013).

APPALTI: La responsabilità solidale negli appalti. Come e a chi si applica l'articolo 13-ter del decreto crescita (articolo ItaliaOggi Sette del 14.01.2013).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

COMMERCIO - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 4 del 21.01.2013, "Indicazioni relative ai criteri e ai parametri di valutazione della compatibilità e della sostenibilità delle grandi strutture di vendita ai sensi della d.g.r. 04.07.2007 n. 8/5054 e s.m.i. - Revoca dei dd.dd.gg. 07.02.2008 n. 970 e 19.12.2008 n. 15387" (decreto D.G. 11.01.2013 n. 102).

VARI: G.U. 18.01.2013 n. 15 "Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense" (Legge 31.12.2012 n. 247).

APPALTI: G.U. 17.01.2013 n. 14 "Saggio degli interessi da applicare a favore del creditore nei casi di ritardo nei pagamenti nelle transazioni commerciali - periodo 01.01.-30.06.2013" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, comunicato).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 17.01.2013, "Realizzazione di opere inerenti impianti per il recupero dei rifiuti e autorizzazione paesaggistica (d.lgs. 152/2006 e d.lgs. 42/2004) - Competenze e procedure" (circolare regionale 16.01.2013 n. 1).

LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 3 del 15.01.2013, "Approvazione iniziativa anno 2013 per l’accesso ai contributi in conto interessi a valere sui mutui dell’Istituto per il credito sportivo per la realizzazione di impianti sportivi di uso pubblico in Lombardia" (decreto D.S. 19.12.2012 n. 12338).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Personale: 10 risposte a 10 domande (CGIL-FP di Bergamo, nota 14.01.2013).
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1. Le progressioni orizzontali giuridiche - 2. La posizione organizzativa piccoli comuni - 3. L’indennità di trasferimento per cambiamento di comune - 4. Delega di funzioni dirigenziali - 5. Il conferimento di posizione organizzativa - 6. La mobilità negli enti locali - 7. Lo scorrimento della graduatoria a tempo determinato - 8. La liquidazione della produttività - 9. Il rimborso delle spese viaggio - 10. Misura della retribuzione di posizione.

PUBBLICO IMPIEGO: Importante condanna del comune di Bergamo per comportamento antisindacale (CGIL-FP di Bergamo, nota 14.01.2013).
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Con sentenza 03.01.2013 n. R.G. 3289/12 il Tribunale di Bergamo ha accolto il ricorso per comportamento antisindacale presentato dalla FP-CGIL di Bergamo contro il comune di Bergamo.
Con tale sentenza il Tribunale di Bergamo ha ritenuto sussistere il comportamento antisindacale in quanto con determinazione dirigenziale n. 1205/12 del 22.06.2012 il comune ha deciso di affidare all’esterno una serie di servizi sociali prima gestiti tramite gli uffici comunali senza dare alcuna informazione in merito alla FP-CGIL di Bergamo. (... continua).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Termine del regime transitorio riguardante il regolamento di attuazione del Codice 163/2006 e le categorie SOA variate (ANCE Bergamo, circolare 18.01.2013 n. 20).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Censimento amianto entro il 30.01.2013 (ANCE Bergamo, circolare 18.01.2013 n. 19).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Articolo 1, comma secondo, della legge 24.12.1954, n. 1228, modificato dall'articolo 1, comma 18, della legge 15.07.2009, n. 94. Iscrizione anagrafica. Parere del Consiglio di Stato, Sez. I, n. 4849/2012 (Ministero dell'Interno, Dipartimento per gli Affari Interni e Territoriali, circolare 14.01.2013 n. 1/2013).
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Alcune Prefetture hanno evidenziato la presenza di incertezze interpretative riguardanti la disposizione recata dall'articolo 1, comma secondo, della legge 24.12.1954, n. 1228, come modificata dall'articolo 1, comma 18, della legge 15.07.2009, n. 94, in base alla quale "L'iscrizione e la richiesta di variazione anagrafica possono dar luogo alla verifica, da parte dei competenti uffici comunali, delle condizioni igienico-sanitarie dell'immobile in cui il richiedente intende fissare la propria residenza ai sensi delle vigenti norme sanitarie".
In particolare, sono emerse talune divergenze con riguardo alle modalità di applicazione di tale disposizione nei casi in cui le verifiche sulle condizioni dell'immobile presso il quale l'interessato dichiara di fissare la propria dimora abituale dia esito negativo. (... continua)

QUESITI & PARERI

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI La firma sulle transazioni.
DOMANDA:
Il Comune deve firmare con urgenza una transazione che all'uopo viene approvata con deliberazione giuntale; nella deliberazione de qua la giunta autorizza testé il sindaco -in qualità di legale rappresentante dell'ente- alla firma dell'atto.
Il segretario generale sostiene che è necessario il parere del revisore contabile e che, la firma sulla transazione non deve essere apposta dal sindaco ma dal dirigente del settore contenzioso: è corretto?
RISPOSTA:
Facendo riferimento alla questione posta, si fa presente quanto segue:
In linea generale si sottolinea che, sulla base di quanto stabilito dall’articolo 239 del Tuel, è previsto che l’Organo di revisione svolga una attività di collaborazione nei confronti dell’organo consiliare. Le modifiche introdotte dalla legge 283/2012, hanno allargato l’elenco delle materie sulle quali l’organo di revisione deve esprimere il proprio parere; in particolare, è stato previsto che l’organo di revisione esprima un parere anche sulle “proposte di riconoscimento dei debiti fuori bilancio e transazioni”.
La materia della autorizzazione alle “transazioni” rientra tra le competenze della Giunta. Pertanto si potrebbe ritenere che il parere dell’Organo di revisione su questi provvedimenti non sia dovuto. Però, in considerazione del fatto che la nuova versione dell’articolo 239 prevede espressamente questa tipologia di provvedimenti, si ritiene opportuno e prudenziale sottoporre anche questi provvedimenti al preventivo parere dell’Organo di revisione.
Si condivide quanto affermato nel quesito a proposito di chi deve sottoscrivere l’atto. Infatti, sulla base di quanto stabilito dall’articolo 107 del Tuel, la firma sulla transazione deve essere apposta dal dirigente del settore di competenza (20.12.2012 - tratto da www.ancirisponde.ancitel.it).

CORTE DEI CONTI

PUBBLICO IMPIEGOStretta sugli aumenti illegittimi. La responsabilità ricade su chi effettua la liquidazione. Corte conti Veneto sulla gestione delle risorse decentrate e i vincoli alle progressioni.
La responsabilità per la materiale erogazione di risorse decentrate al personale in violazione dei vincoli posti dalla legge e dai contratti ricade sul soggetto che effettua la liquidazione. Incomberebbe tale responsabilità su chi dovesse erogare aumenti per progressioni orizzontali retroattive o assegnare i risparmi sulle progressioni solo giuridiche come salario per produttività.

Il parere 09.11.2012 n. 918 della Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il Veneto, chiarisce in modo tranciante su chi incombono le responsabilità della gestione delle risorse decentrate e i vincoli sulle progressioni orizzontali. Anche se resta ancora il nodo del «valore giuridico» di tali progressioni.
Liquidazione. La normativa sulla gestione delle risorse contrattuali è particolarmente rigorosa. Il legislatore appresta due rimedi all'eventualità che le amministrazioni concordino con i sindacati contratti o clausole che vìolino i limiti di spesa in vario modo previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva.
L'articolo 40, comma 3-quinquies del dlgs 165/2001 stabilisce, in proposito che «nei casi di violazione dei vincoli e dei limiti di competenza imposti dalla contrattazione nazionale o dalle norme di legge, le clausole sono nulle, non possono essere applicate e sono sostituite ai sensi degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile»; e già da prima, l'articolo 4, comma 5, del ccnl 01.04.1999 ribadiva: «I contratti collettivi decentrati integrativi non possono essere in contrasto con vincoli risultanti dai contratti collettivi nazionali o comportare oneri non previsti rispetto a quanto indicato nel comma 1, salvo quanto previsto dall'art. 15, comma 5, e dall'art. 16. Le clausole difformi sono nulle e non possono essere applicate».
Dunque, vi sono due livelli di tutela. Il primo è la nullità delle clausole (oggi, per altro, sostituite automaticamente dalla legge). Ma, come spesso avviene, potrebbe darsi che nessuno eccepisca la nullità, anche per l'erronea convinzione che essa possa essere rilevata solo dal giudice. Scatta, allora, il secondo livello: il divieto di applicare la clausola nulla.
È evidente che la liquidazione di somme il cui titolo discendesse da clausole contrattuali nulle, sicché in realtà il pagamento risulterebbe privo di titolo, costituisce violazione al divieto di applicarle. Dunque, la responsabilità principale del danno erariale conseguente incombe non tanto su chi le clausole le stipula, quanto su chi le esegue. Ecco perché la sezione Veneto sottolinea la responsabilità derivante dalla liquidazione delle somme.
Progressioni orizzontali. Nonostante l'articolo 9, commi 1 e 21, del dl 78/2012, convertito in legge 122/2012 sia piuttosto chiaro, moltissimi enti insistono col provare ad avviare procedure di progressione orizzontale nel corso del triennio 2011-2013 durante il quale vi è il congelamento dei trattamenti economici fondamentali (fissi e ricorrenti), effetto proprio delle citate norme.
La teoria che si propugna è che se i criteri per le progressioni orizzontali fossero stati predeterminati prima dell'avvento della legge finanziaria del 2010, si potrebbe dare corso comunque alle progressioni, con effetti economici dal primo gennaio 2010 (dunque antecedente alla manovra di quell'anno). O, quanto meno, utilizzare le risorse previste per le progressioni, ma economizzate a causa del congelamento delle retribuzioni, per assegnarle al personale come salario di produttività.
Il parere della magistratura contabile veneta è tranciante. Da un lato, ricorda che le progressioni orizzontali (come qualsiasi riconoscimento di trattamenti retributivi accessori) in mancanza di accordi stipulati in sede di contrattazione decentrata anteriormente al periodo da prendere in considerazione non sono legittimi. Dall'altro lato, la Corte nega recisamente la possibilità di utilizzare i risparmi per le progressioni, se effettuate solo con valore giuridico e non economico, allo scopo di incrementare il fondo per il risultato (articolo ItaliaOggi del 18.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA - PUBBLICO IMPIEGO: S. Fifi, LE “IRRESPONSABILITÀ” DEL DIRIGENTE PUBBLICO (Gazzetta Amministrativa n. 3/2012).
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Non è perseguibile il dirigente, privo di specifici compiti sui rifiuti, che predispone il deposito sul terreno comunale di rifiuti organici senza autorizzazione, in esecuzione di un’ordinanza emergenziale del sindaco priva di qual si voglia indicazione sul successivo deposito e smaltimento. Ad occuparsi della gestione delle alghe dopo la loro raccolta avrebbe dovuto essere il dirigente dell’ufficio ambiente del Comune, e non il dirigente al patrimonio, che pure con il primo aveva comunque tentato di coordinarsi. La Suprema Corte (Cass. Pen., Sez. III, 12.04.2012, n. 13927) ha annullato la sentenza di condanna di primo grado per gestione illecita di rifiuti (articolo 256 del d.lgs. 152/2006) ...

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Cernelli, L’INAMMISSIBILITÀ DEL “DISSENSO POSTUMO” NELLA CONFERENZA DI SERVIZI (Gazzetta Amministrativa n. 3/2012).
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In aderenza al dettato normativo la giurisprudenza ha statuito il consolidato principio secondo cui è inammissibile il parere negativo espresso al di fuori della conferenza, una volta che questa si sia conclusa con l’adozione del provvedimento finale ...

EDILIZIA PRIVATA: M. Amitrano, Zingale, LA GIURISPRUDENZA SUI RAPPORTI TRA PROCEDIMENTI AMMINISTRATIVI DI VIGILANZA EDILIZIA E PROCEDIMENTI DI SANATORIA (Gazzetta Amministrativa n. 3/2012).
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La giurisprudenza ha chiarito che la definizione del procedimento sanzionatorio in materia edilizia è condizionata alla previa definizione del procedimento volto ad ottenere un permesso di costruire in sanatoria per le medesime opere abusive ...

EDILIZIA PRIVATA: M. Amitrano Zingale, L’ACQUISIZIONE GRATUITA AL PATRIMONIO DEL COMUNE NELLA RICOSTRUZIONE GIURISPRUDENZIALE (Gazzetta Amministrativa n. 3/2012).
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Gli strumenti repressivi che il legislatore ha approntato per contrastare il fenomeno dell’abusivismo edilizio e meglio tutelare il territorio risultano essere i più idonei a costituire un efficace deterrente per l’attività abusiva, proprio in ragione della sua incidenza sulla res abusiva ...

EDILIZIA PRIVATA: V. Pavone, L’ATTIVITÀ EDILIZIA IN ASSENZA DI PIANIFICAZIONE ATTUATIVA: LA RECENTE GIURISPRUDENZA SUL C.D. LOTTO INTERCLUSO (Gazzetta Amministrativa n. 3/2012).
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Evidenziato il ruolo fondamentale della pianificazione attuativa come condizione indispensabile per la realizzazione di legittimi interventi costruttivi all’interno del tessuto urbano, l’A. analizza le soluzioni offerte dalla giurisprudenza e dalla legge per affrontare il problema della mancata adozione da parte degli organi competenti dei piani attuativi con conseguente paralisi dell’attività di trasformazione del territorio. In particolare si analizzano gli sviluppi della giurisprudenza amministrativa di fronte alla fattispecie del c.d. lotto intercluso ...

LAVORI PUBBLICI: E. Gai, LA GIURISDIZIONE IN MATERIA DI ADEGUAMENTO PREZZI NEGLI APPALTI PUBBLICI DI LAVORI (Gazzetta Amministrativa n. 3/2012).
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La corretta interpretazione dell’art. 133, co. 1, lett. e), n. 2), del d.lgs. n. 104/2010 prevede l’estensione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a tutte le controversie relative alle questioni dell’adeguamento dei prezzi degli appalti pubblici di lavori e non soltanto a quelle concernenti i provvedimenti applicativi ...

APPALTI: L. Lavitola, LA LEGITTIMAZIONE ALL’ACCESSO AGLI ATTI DI GARA DA PARTE DELL’OPERATORE ECONOMICO CHE NON ABBIA PRESO PARTE ALLA PROCEDURA AD EVIDENZA PUBBLICA (Gazzetta Amministrativa n. 3/2012).
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Il TAR Lazio, con la sentenza 05.09.2012, n. 213, ha chiarito alcuni principi in materia di accesso agli atti di gara, ex artt. 13, co. 6, d.lgs. n. 163/2006 e 22 l. n. 241/1990, in particolare con riferimento al problema della legittimazione del soggetto che, pur non avendo partecipato ad una procedura ad evidenza pubblica, chieda di accedere agli atti relativi ad essa ...

APPALTI: A. Di Stazio, LA RISOLUZIONE DEL CONTRATTO D'APPALTO PER GRAVE NEGLIGENZA O GRAVE RITARDO AI SENSI DELL'ART. 136 DEL D.LGS 163/2006 (Gazzetta Amministrativa n. 3/2012).
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Guida per le amministrazioni alla risoluzione del contratto per inadempienza dell'appaltatore ...

APPALTI: A. Pistilli, ESCLUSIONE DALLA GARA D’APPALTO PER VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI CONTRIBUTIVI PREVIDENZIALI ED ASSISTENZIALI: IL GIUDIZIO SULLA “GRAVITÀ” DELLA VIOLAZIONE E LA CONFIGURABILITÀ DI UNA FALSA DICHIARAZIONE IN CASO DI BANDO GENERICO, ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI ED INTERVENUTE MODIFICHE NORMATIVE (Gazzetta Amministrativa n. 3/2012).
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Brevi note circa l’esclusione dalla gara d’appalto ai sensi dell’art. 38, co. 1, lett. i), del d. lgs. n. 163/2006 in considerazione della normativa vigente e delle pronunce giurisprudenziali ...

APPALTI: S. Napolitano, IL FALSO NON È PIÙ INNOCUO (Gazzetta Amministrativa n. 3/2012).
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La teoria penalistica del falso innocuo non è più applicabile ai procedimenti ad evidenza pubblica ...

APPALTI: F. Manganaro, Effettività della tutela giurisdizionale e riammissione alla gara di un concorrente illegittimamente escluso (Urbanistica e appalti n. 12/2012 - tratto da www.ispoa.it).

TRIBUTI: G. Debenedetto, Tares - nuovo tributo sui rifiuti e sui servizi - NOVITÀ della L. 228/2012 (link a www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Non è conforme all’art. 92, comma 5, del D.Lgs. 12.04.2006 n. 163, un Regolamento comunale che pur prevedendo l’erogazione dell’incentivo al responsabile del procedimento, ai progettisti, al direttore dei lavori, al collaudatore, al coordinatore della sicurezza e loro collaboratori, non fornisce una chiara e logica ripartizione dell’emolumento tra tali soggetti.
I dipendenti assunti con contratto a tempo determinato, anche ai sensi dell’art. 110, comma 2, del D.Lgs. 08.08.2000, n. 267 hanno diritto all’incentivo di cui all’art. 92, comma 5, del D.Lgs. 12.04.2006 n. 163 per le prestazioni professionali svolte nell’interesse dell’Ente di cui sono dipendenti al momento dell’incarico, in quanto professionisti interni (deliberazione 08.04.2009 n. 35 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Per quanto attiene alla quota di incentivo da riconoscere ai coordinatori per l’esecuzione, essa non è specificamente prevista, come non lo era neppure nel precedente D.M. n. 134/2000. La mancanza di una esplicita previsione, deve farsi risalire alla lett. h), comma 2, art. 124 del DPR n. 554/1999, la quale pone l’attività del coordinatore della sicurezza nella fase di esecuzione del contratto, bene intesi, quando non affidata all’esterno, in capo al direttore operativo dei lavori (ovvero, se non designato, al direttore dei lavori).
Dunque, in termini di riparto dell’incentivo, l’attività in parola del coordinatore dell’esecuzione, deve trovare copertura all’interno dell’aliquota attribuita all’ufficio del direttore dei lavori (
parere sulla normativa 21.01.2009 - rif. AG41-08 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Anche ai soggetti di cui all’art. 32, comma 1, lett. c), D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 è applicabile l’art. 92, co. 5, del medesimo decreto che prevede, quale incentivo per le attività svolte, una somma nel limite massimo del 2% dell’importo a base di gara di un’opera o un lavoro da ripartire tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano di sicurezza, della direzione lavori, del collaudo nonché tra i loro collaboratori (deliberazione 30.07.2008 n. 29 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Non è conforme al dettato normativo in materia di incentivo, quanto disposto dal Regolamento interno di una stazione appaltante che prevede una graduazione dell’incentivo stesso in ragione dell’importo delle opere, senza tener conto anche della complessità dell’opera da realizzare.
Nel caso di affidamento all’esterno di una parte dell’attività di progettazione ovvero nel caso di progettazione interna ma con l’apporto di consulenze esterne l’incentivo deve essere ridotto in misura proporzionale all’apporto del personale esterno (deliberazione 07.05.2008 n. 18 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Dal tenore letterale dell’art. 18, comma 1, L. 109/1994 (ora art. 92, comma 5, D.Lgs. 163/2006) risulta evidente che la disciplina del compenso è rimessa all’autonomia di ogni singola amministrazione, ma la percentuale deve essere stabilita dal regolamento adottato dall’amministrazione in rapporto all’entità e alla complessità dell’opera da realizzare e alle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere.
I tecnici, vale a dire coloro che assumono la responsabilità della progettazione, l’incaricato della redazione del piano di sicurezza e gli incaricati della D.L. dovrebbero percepire dal 50% al 75% circa dell’ammontare dell’incentivo. Altri collaboratori tecnici, che redigono e firmano elaborati di tipo descrittivo, dovrebbero percepire tra il 20% e il 40% dell’incentivo. Ad altri componenti dell’ufficio tecnico, che hanno contribuito al progetto pur non sottoscrivendo elaborati, sarebbe da corrispondere una cifra tra il 5% e il 10%, al responsabile del procedimento una cifra tra l’1% e il 5% e agli incaricati del collaudo e loro tecnici o collaboratori il 10% circa.
Non è possibile comprendere tra i soggetti destinatari dell’incentivo il coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione, in quanto tale funzione, ai sensi dell’art. 127 del D.P.R. 554/1999, è affidata al Direttore dei Lavori. Pertanto, nel regolamento che ripartisce l’incentivo bisognerà tenere conto di questa doppia attribuzione e si dovrà prevedere la quota di incentivo a favore del direttore operativo, ove nominato (deliberazione 13.12.2007 n. 315 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Nelle more dell’adozione di uno specifico regolamento, secondo quanto specificato dall’Autorità (ad es. con la deliberazione n. 70 del 22.06.2005), l’Amministrazione non può procedere al pagamento degli incentivi per la progettazione di opere pubbliche e per altre attività indicate dall’art. 18 della legge 11.02.1994 e s.m. e ora confermate dall’art. 92 del Decreto Legislativo 12.04.2006, n. 163 (deliberazione 28.11.2006 n. 100 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: congedo straordinario retribuito ex art. 42, commi 5 e ss, del d.lgs. 151 del 2001 - computabilità ai fini dell'anzianità di servizio e della progressione economica (nota 15.01.2013 n. 2285 di prot.).
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Il congedo non va in paga. I periodi di permesso inutili per gli scatti. Una nota della Funzione pubblica sui periodi di assistenza ai disabili.
Stipendio stabile per l'impiegato pubblico che prende il congedo straordinario. Infatti, i periodi di permesso fruiti per l'assistenza a un familiare con handicap sono validi ai fini pensionistici ma non ai fini della progressione economica.
Lo precisa la funzione pubblica nella nota 15.01.2013 n. 2285 di prot., rispondendo al ministero dell'istruzione che aveva appunto chiesto chiarimenti sugli effetti che le assenze a tale titolo producono sulla maturazione dell'anzianità di servizio.
Congedo straordinario. Il congedo in esame è quello cosiddetto straordinario, previsto all'articolo 42 del T.u. maternità (dlgs n. 151/2001), che spetta al coniuge di soggetto con handicap grave ovvero, nell'ordine, al padre o alla madre anche adottivi, a uno dei figli conviventi oppure a uno dei fratelli o sorelle conviventi, nelle ipotesi di mancanza, decesso o invalidità del soggetto avente diritto più prossimo al disabile (nell'ordine indicato). Durante la fruizione del conge
do il lavoratore ha diritto a percepire un'indennità pari all'ultima retribuzione, con riferimento alle voci fisse e continuative, e il periodo è coperto da contribuzione figurativa. Indennità e contribuzione figurativa spettano fino a 46.836 euro annui per il congedo di durata annuale (importo valido per l'anno 2013, rivalutato annualmente in base all'Istat).
I chiarimenti. La funzione pubblica, prima di tutto, fa presente che già con circolare n. 1/2012 aveva spiegato che i «periodi di congedo straordinario non sono computati ai fini della maturazione di tredicesima, ferie, trattamento di fine rapporto e trattamenti di fine servizio, ma, essendo coperti da contribuzione, sono validi ai fini del calcolo dell'anzianità». Ciò sta a significare, precisa ora, che il periodo di congedo deve essere riconosciuto utile sia ai fini dell'anzianità di servizio valevole per raggiungere il diritto a pensione che per la misura stessa della pensione.
Tuttavia, poiché si tratta di diritti scaturenti dall'istituto della contribuzione figurativa, praticamente trovano validità soltanto per i lavoratori del settore privato, atteso che per i pubblici dipendenti la contribuzione è connessa alla retribuzione effettivamente versata dal datore di lavoro. Lo stesso congedo, invece, è previsto che non sia computabile nell'anzianità di servizio, laddove per anzianità di servizio non si intende quella ai fini previdenziali. In conclusione, i periodi di fruizione del congedo straordinario sono validi ai fini pensionistici, ma non ai fini della progressione economica.
Tale conclusione, aggiunge la Funzione pubblica, è confermata dalla considerazione che, di regola, i periodi rilevanti ai fini delle progressioni economiche presuppongono un'attività lavorativa effettivamente svolta, situazione che non ricorre nel momento in cui il dipendente usufruisce del congedo (articolo ItaliaOggi del 16.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

NEWS

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocati, le spese generali tornano in parcella. Ok del cds alle correzioni dei parametri giudiziali.
Torna il rimborso delle spese generali nelle parcelle degli avvocati, che hanno diritto a un compenso specifico per la attività investigativa.

Lo prevede lo schema di decreto correttivo del decreto 140/2012 sui parametri giudiziali sui compensi professionali, su cui il Consiglio di Stato ha dato il suo parere 18.01.2013 n. 161, con alcuni rilievi critici: secondo Palazzo Spada rischia di essere intaccato il principio di omnicomprensività del compenso. Ma vediamo le modifiche più significative.
Spese forfettarie. Con la prima modifica si prevede che al compenso sia aggiunto un importo per spese forfettarie di studio, calcolato in misura compresa tra il 10 e il 20%. Per gli avvocati la vecchia tariffa prevedeva un rimborso spese forfetario del 12,5%.
Stragiudiziale. Per l'attività stragiudiziale degli avvocati viene previsto un compenso forfettizzato quantificato in una percentuale calcolata tra il 5 e il 20% del valore dell'affare. Viene, inoltre, aggiunta una disposizione, che prevede l'aumento del compenso fino ad un terzo in favore dell'avvocato che assiste una parte nel procedimento di mediazione di cui al decreto legislativo 28/2010.
Difesa di più persone. Il decreto correttivo stabilisce che l'aumento fino al doppio del compenso spettante all'avvocato, che difende più persone con la medesima posizione processuale, è sostituito dalla introduzione di un incremento fino al triplo di tale compenso.
Riduzione patrocinio stato. Viene stabilita la soppressione della possibile riduzione a metà del compenso spettante all'avvocato che presta la sua assistenza a soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato nel procedimento penale.
Manifesta ragione. Con una nuova disposizione si introduce la «soccombenza qualificata»: la norma prevede un aumento del compenso liquidato a carico della parte soccombente quando le difese della parte vittoriosa siano risultate manifestamente fondate.
Due nuovi scaglioni. Una ulteriore modifica introduce due ulteriori scaglioni: uno da euro 1.500.001 a euro 5 milioni, l'altro oltre euro 5 milioni. Inoltre è disposto un incremento, tra il 30% e il 50%, dei parametri per il procedimento di ingiunzione e per il precetto.
Investigazione. Per l'attività giudiziale penale lo schema introduce una nuova fase che si aggiunge alle altre: quella della investigazione.
Voci. Nel settore civile si introduce la voce «studio» per la fase esecutiva sia mobiliare sia immobiliare: la voce, inserita con riferimento a ogni scaglione, contiene valori corrispondenti al 35-50% degli importi previsti per la voce «procedimento».
Minorenne. Viene soppressa la possibilità della riduzione alla metà del compenso dell'avvocato che assiste d'ufficio un minorenne (articolo ItaliaOggi del 19.01.2013).

ENTI LOCALIComuni, unioni per lo sviluppo. Più efficaci delle convenzioni nella gestione dei fondi Ue. In un paper sulla programmazione europea Barca interviene sull'associazionismo.
Le scelte aggregative dei piccoli comuni devono essere funzionali, oltre che alla ottimale gestione delle funzioni fondamentali, anche allo svolgimento di politiche di sviluppo che richiedono (e sempre più richiederanno in futuro) un approccio di tipo integrato. Anche da questo punto di vista, il modello da preferire pare essere quello dell'unione, a discapito della semplice convenzione.
La riflessione origina dalla lettura del documento su «Metodi e obiettivi per un uso efficace dei fondi comunitari 2014-2020» presentato nelle scorse settimane dal ministro alla coesione territoriale, Fabrizio Barca.
Si tratta di un'indicazione importante e tempestiva, che arriva proprio nel momento in cui stanno maturando le scelte degli amministratori locali circa le modalità di adempimento dell'obbligo di gestione associata previsto dalla manovra estiva 2010 (dl 78) e rilanciato lo scorso anno dalla cosiddetta spending review (dl 95).
Al di là, infatti, della scadenza formale del 01.01.2013 (termine entro il quale, come noto, occorreva attestare di aver messo in «comunione» almeno tre delle nove funzioni fondamentali comunali, associando le restanti sei entro la fine dell'anno corrente), la situazione in molti territori è ancora piuttosto magmatica.
Ciò anche in conseguenza della legislazione regionale, che talora ha previsto meccanismi e procedure più articolati per la revisione degli assetti delle pa locali, sovrapponendo agli obiettivi di risparmio previsti dal legislatore statale finalità di carattere più marcatamente istituzionale, come per esempio la trasformazione delle comunità montane.
Nell'alternativa fra il modello (più strutturato) dell'unione e quello (più snello) della convenzione, il paper di Barca invita a puntare l'attenzione soprattutto sul primo, esaltandone le capacità di gestire in modo organico sia le funzioni ordinarie sia, soprattutto, i progetti speciali. Si tratta di un profilo diverso da puramente amministrativo e finanziario, rispetto al quale le unioni presentano parimenti evidenti vantaggi, soprattutto per quanto concerne il Patto di stabilità interno, la gestione dei trasferimenti sia da parte degli enti sovraordinati che fra i comuni associati e i vincoli relativi alla spesa di personale (si veda ItaliaOggi del 14 dicembre).
In vista del nuovo ciclo di programmazione europea, è fondamentale non disperdere capacità professionali e risorse, aggregandole in enti dotati della dimensione di scala e della capacità amministrativa necessarie a intercettare le risorse e a gestirle secondo una logica che non potrà che essere di area vasta.
Tale esigenza si pone oggi, a maggior ragione, a fronte dell'incertezza e delle difficoltà finanziarie che attanagliano le province e che costringono in molti contesti a impostare meccanismi alternativi di livello sovracomunale.
In ogni caso, sarà fondamentale garantire la necessaria continuità rispetto all'azione dei soggetti che, in questi anni, hanno gestito le principali policies di sviluppo locale nelle aree marginali (rurali e montane). Fra questi, i bacini imbriferi montani (Bim) e i gruppi di azione locale (Gal). Questi ultimi, in particolare, sono consorzi a natura mista pubblico-privata che svolgono un ruolo importante in settori come il turismo, l'agricoltura e l'artigianato e che hanno proprio nei comuni i loro soci di riferimento.
Ovviamente, è fondamentale che tutti gli attori facciano la loro parte, non solo quelli locali, ma anche lo stato e le regioni, chiamati a incentivare adeguatamente la formazione di compagini quanto più possibile coese e stabili. Da questo punto di vista, sarebbe opportuno prevedere che una quota delle risorse di provenienza statale o regionale, siano destinate al finanziamento di spese correnti o di investimenti, confluisca direttamente nei bilanci chiamati a gestirle (in primis le unioni), evitando inutili e defatiganti passaggi intermedi. Un'occasione importante per provvedere in tal senso è rappresentata dalla prossima definizione dei criteri di riparto del nuovo fondo statale di solidarietà comunale, istituito dalla legge di stabilità 2013. Analogamente potrebbero prevedere le regioni, che quest'anno dovranno procedere alla fiscalizzazione dei trasferimenti a favore degli enti locali del proprio territorio.
Sul tema l'Uncem Piemonte organizzerà il 24 febbraio a Torino un seminario dal titolo «La nuova geografia del territorio montano» (articolo ItaliaOggi del 18.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Ferie non trasformabili. L'ente può rifiutare la conversione in permesso. La disciplina per i consiglieri comunali lavoratori dipendenti.
Un consigliere comunale, dipendente dell'Inps, può presentare al proprio datore di lavoro istanza di «sospensione delle ferie» già richieste per la partecipazione a sedute di consiglio e commissioni presso l'ente in cui esplica il mandato elettivo?

Fermo restando il diritto, costituzionalmente garantito, dell'amministratore di disporre del tempo necessario per il mandato, l'istituto del permesso si differenzia da quello dell'aspettativa in quanto l'amministratore-lavoratore dipendente mantiene il rapporto con l'amministrazione di appartenenza con tutti i vincoli, anche di orario, che tale rapporto comporta.
Il diritto dell'amministratore a fruire dei permessi lavorativi va, pertanto, contemperato con il diritto dell'ente di appartenenza con cui l'amministratore locale ha mantenuto il rapporto lavorativo, al rispetto delle norme ordinamentali e organizzative interne.
L'ente di appartenenza può, quindi, legittimamente rifiutare l'accoglimento dell'istanza del dipendente volta alla revoca delle ferie già richieste, anche se motivate con la possibilità di fruire di altro diritto.
Per completezza del quadro normativo si soggiunge che, sulla materia dei permessi, sono intervenute le modifiche normative apportate dall'art. 16 del dl 13.08.2011, n. 138, convertito nella legge 14.09.2011, n. 148 che ha rivisitato il 1° comma dell'art. 79 Tuel (articolo ItaliaOggi del 18.01.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Incompatibilità.
Sussiste un'ipotesi di incompatibilità di cui all'art. 63, comma 1, n. 1, a carico di un consigliere e assessore di un comune che riveste la carica di presidente di una società sportiva, legata all'ente da una convenzione triennale, alla quale vengono assegnati contributi da parte del comune in misura inferiore al 10% del bilancio dell'ente beneficiario?

L'art. 63, comma 1, n. 1 del decreto legislativo n. 267/2000 prevede due ipotesi di incompatibilità con la carica di consigliere alternative fra loro (cfr. Cass. civ. sez. I, 28.12.2000, 16203): una relativa alla posizione dell'amministratore di un ente soggetto a vigilanza del comune, in cui vi sia almeno il 20% di partecipazione da parte dello stesso; l'altra connessa, invece, alla posizione dell'amministratore di un ente che riceva dal comune, in via continuativa, sovvenzioni facoltative che superino nell'anno il 10% del totale delle proprie entrate.
Il caso in esame ricade nella seconda ipotesi sopra indicata considerato che non supera il 10% del bilancio dell'ente beneficiario; nella fattispecie, non sembrerebbero sussistere forme di ingerenza dell'ente nell'attività del sodalizio, tali da consentire al comune di concorrere alla formazione della volontà della società.
Una causa ostativa all'esercizio del mandato potrebbe, invece, configurarsi in base all'ipotesi di cui al n. 2 del comma 1 del citato art. 63, qualora la società avesse parte, direttamente o indirettamente, in servizi nell'interesse del comune. In proposito occorrerebbe accertare se il consiglio comunale si è già espresso sulla posizione dell'interessato in sede di convalida degli eletti o, successivamente, in esito alla procedura prevista dall'art. 69 del Tuel.
Se il consiglio non si fosse pronunciato, la questione dovrebbe essere posta alla sua attenzione, poiché in ottemperanza al principio generale per cui ogni organo collegiale delibera circa la regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti, la verifica delle cause ostative all'espletamento del mandato è compiuta con la procedura consiliare prevista dall'art. 69 del decreto legislativo citato, che garantisce il contraddittorio tra organo e amministratore, assicurando a quest'ultimo l'esercizio del diritto alla difesa e la possibilità di rimuovere, entro un congruo termine, la causa di incompatibilità contestata.
Pertanto, le eventuali determinazioni autonomamente assunte dal consiglio comunale, ai sensi dell'art. 69 del decreto legislativo n. 267/2000, possono formare oggetto di ricorso innanzi all'autorità giudiziaria, competente a pronunciarsi anche a seguito dell'esercizio dell'azione popolare di cui all'art. 70 dello stesso decreto (articolo ItaliaOggi del 18.01.2013).

ENTI LOCALIAlessandria, condanne record sul Patto. Corte dei conti. Danno erariale per 7,6 milioni per l'ex Giunta e la vecchia maggioranza di centrodestra.
IL QUADRO/ A carico dell'ex sindaco Pdl e dell'ex assessore al bilancio il colpo più duro (1,5 milioni) La stessa vicenda è al centro anche di un processo penale.

Un conto record, da 7,6 milioni. È quello presentato dalla sezione giurisdizionale piemontese della Corte dei conti agli ex amministratori del Comune di Alessandria, nella condanna per danno erariale depositata mercoledì scorso.
All'ex sindaco Piercarlo Fabbio (Pdl), all'ex assessore al Bilancio Luciano Vandone e all'ex ragioniere capo Carlo Alberto Ravazzano tocca la fetta più pesante, da 1,53 milioni a testa; altri 380mila euro pro capite vengono chiesti a sei assessori della vecchia Giunta, mentre 33mila euro sono a carico di ciascuno dei 23 consiglieri dell'allora maggioranza.
A causare il maxi-danno erariale sono gli artifici contabili contestati nel bilancio 2010, i cui numeri furono aggiustati per rispettare sulla carta un patto di stabilità sforato nei fatti.
Sui conti alessandrini ha lavorato a lungo la sezione regionale di controllo della Corte, in una complessa istruttoria che ha portato la Giunta (di centrosinistra) uscita dalle elezioni di maggio a dichiarare il dissesto nel primo mese di vita, portando nella città piemontese il primo caso di capoluogo finito nel «default obbligatorio» secondo le regole federaliste (Dlgs 149/2011). Il maquillage contabile che ha coperto lo sforamento del Patto, però, non ha fatto scattare le sanzioni, che avrebbero ridotto la spesa corrente, tagliato del 30% le indennità dei politici locali e impedito al Comune di assumere personale e di accendere mutui.
Proprio per questo, la Procura aveva inizialmente ipotizzato un danno da 39,5 milioni (27,95 milioni per eccesso di spesa corrente, 10,66 di mutui e il resto diviso fra nuove assunzioni e mancati tagli alle indennità), poi ridotti a poco più di 10. La sezione giurisdizionale ha operato un'altra limatura da 3 milioni, ma ha in larga parte accolto le conclusioni del Pm contabile: ora la palla passa a una delle tre sezioni centrali d'appello, l'ultimo grado del processo contabile a cui i difensori hanno già annunciato naturalmente di far ricorso.
Anche se rivista rispetto alla richiesta iniziale, quella pronunciata dai giudici piemontesi è di gran lunga la sentenza più pesante nella storia recente del danno erariale. Per trovare numeri simili occorre andare a Terni, dove la Corte dei conti ha contestato 2,7 milioni all'ex giunta guidata da Paolo Raffaelli (Pd) per le perdite legate agli swap: in questo caso, comunque, la sentenza va ancora pronunciata (l'udienza è in calendario per il 6 marzo), e in ogni caso i valori in gioco sono più bassi (all'ex sindaco toccherebbero 93mila euro) anche perché la platea è più ampia. A rendere innovativa la pronuncia piemontese è poi l'oggetto del contendere, perché è la prima volta che il mancato rispetto del Patto di stabilità, realizzato con il "trucco", si traduce in un danno erariale.
Il lavorio sui conti alessandrini è anche al centro di un processo penale iniziato il 21 novembre per truffa allo Stato, abuso d'ufficio e falso ideologico. Gli imputati, ancora una volta, sono Vandone, Ravazzano e l'ex sindaco Fabbio, che nei giorni scorsi il direttivo provinciale del Pdl ha indicato come candidato locale per la Camera nelle politiche di febbraio (articolo Il Sole 24 Ore del 18.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Le nuove istruzioni per le comunicazioni ambientali. Fuori solo le emissioni industriali. Un Mud per tutti. O quasi. Nella dichiarazione rientrano dagli imballaggi ai Rae.
Sospeso (per ora) il Sistri, tornano tutte sotto il «Mud», con parallelo allargamento dei soggetti obbligati, le principali dichiarazioni ambientali da effettuare entro il prossimo 30.04.2013. Comunicazione «E-ptr» sulle emissioni industriali a parte (che continua a funzionare secondo il dpr 157/2011) tutte le altre dichiarazioni annuali (ossia quelle aventi a oggetto rifiuti speciali e urbani, veicoli fuori uso, imballaggi, apparecchiature elettriche ed elettroniche e relativi rifiuti) dovranno, infatti, essere effettuate utilizzando un'unica modalità: quella prevista dal dpcm 20.12.2012, il provvedimento recante il nuovo «Modello unico di dichiarazione Ambientale per l'anno 2013».
Le novità in sintesi. Prendendo atto della sospensione dell'operatività del Sistri (sancita dal dl 83/2012) il nuovo dpcm (So n. 213 alla Gu 29.12.2012 n. 302) fa confluire in un unico percorso il «doppio binario» previsto lo scorso anno per la rituale dichiarazione ambientale: comunicazione rifiuti speciali da un lato (che doveva essere effettuata ricorrendo alla modulistica prevista dal dm 52/2011, cd. «Mudino») e dichiarazione relativa a tutte le altre citate categorie di beni e residui dall'altro (da farsi secondo le regole sancite dal dpcm 23/12/2011, ora abrogato dal nuovo omonimo provvedimento).
Insieme alla fusione delle citate dichiarazioni ambientali (dichiarazioni previste a monte, lo ricordiamo, dalla legge 70/1994 e poi declinate nel dlgs 152/2006 sui rifiuti, nel dlgs 209/2003 sui veicoli fuori uso e nel dlgs 151/2005 su Aee e Raee), il dpcm 20.12.2012 introduce anche tre novità di rilievo: il ripristino dell'obbligo di comunicazione per i soggetti che effettuano a titolo professionale il trasporto di rifiuti (esclusi nel 2012 dal citato dm 52/2011); una specifica comunicazione per i rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (cd. «Raee»); la rivisitazione di alcune schede del modello unico che i soggetti storicamente tenuti alla compilazione del «vecchio Mud rifiuti» (quello «pre» riforma Sistri, contenuto nell'archiviato dpcm 27.04.2010) erano abituati a compilare.
La comunicazione rifiuti speciali. La prima delle (sei) comunicazioni nelle quali è articolato il nuovo modello «Mud» previsto dal Dpcm 20.12.2012 è quella relativa ai rifiuti speciali. A tale dichiarazione sono tenuti i seguenti soggetti (come individuati a monte dal Dlgs 152/2006, cd. «Codice ambientale»):
- produttori iniziali di rifiuti pericolosi (a eccezione dei soggetti del cd. «comparto del benessere» individuati dal Dl 201/2011 e delle imprese agricole ex articolo 2135 del Codice civile con volume annuo di affari non superiore a 8 mila euro);
- produttori iniziali di rifiuti speciali non pericolosi di cui all'articolo 184/3, lettere c), d), g) del Dlgs 152/2006 (ossia rifiuti da lavorazioni industriali, artigianali, da attività di smaltimento/recupero rifiuti, fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acque e dalla depurazione delle acque reflue e da abbattimento di fumi) con più di 10 dipendenti;
- imprese ed Enti che effettuano operazioni di recupero/smaltimento rifiuti; soggetti che svolgono professionalmente raccolta e trasporto di rifiuti; commercianti e intermediari di rifiuti senza detenzione (articolo ItaliaOggi Sette del 14.01.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: Semplificazioni. Due decreti della Pubblica amministrazione per tagliare gli adempimenti di cittadini e imprese.
Nuovi oneri solo con tariffario. Indicare i costi consentirà di eliminare altri obblighi di importo analogo.

Meno burocrazia per cittadini e imprese. È l'obiettivo di due decreti messi a punto dal ministero della Pubblica amministrazione e vicini al traguardo. Con il primo, attualmente all'esame della Corte dei conti, si chiede che ogni nuovo atto amministrativo di carattere generale contenga il consuntivo degli adempimenti introdotti e di quelli eliminati. Il secondo, prossimo alla «Gazzetta Ufficiale», fa un passo ulteriore e cerca di quantificare, attraverso un apposito tariffario, quanto costa alla collettività ogni onere amministrativo di nuovo conio. L'obiettivo di entrambi i provvedimenti è di tenere sotto controllo la burocrazia e di fare in modo che gli obblighi a carico di cittadini e imprese non crescano. Semmai, si riducano.
I due decreti, che rendono attuative alcune disposizioni dello Statuto delle imprese (legge 180/2011) e si saldano con le novità del decreto "semplifica-Italia" (Dl 5/2012), sono complementari. Il primo, infatti, impone la trasparenza: ogni amministrazione deve preoccuparsi, nella predisposizione di un nuovo atto normativo di carattere amministrativo, di stilare l'elenco degli adempimenti, esclusi quelli di natura fiscale, introdotti e di quelli tagliati. Non solo, deve anche pubblicare quell'elenco sul proprio sito istituzionale.
L'altro decreto permette di calcolare in moneta sonante quanto quegli oneri costano a chi vi deve adempiere. Per questo è stato messo a punto dalla Pubblica amministrazione, in collaborazione con le associazioni imprenditoriali, un vero e proprio tariffario con differenti voci, costruito sulla base del tempo richiesto al dipendente per adempiere all'onere e dell'onorario, laddove necessario, del consulente.
L'acquisizione della modulistica ha, per esempio, un costo che varia da 10 a 70 euro. La forbice è, in questo caso, dovuta alla facilità o meno di reperire i documenti: se disponibili online il costo è basso (10 euro), se invece ci si deve recare presso l'ufficio che si trova in un'altra città, l'esborso cresce (70 euro). Il criterio si ripete, seppure con riferimento ad altre variabili (per esempio, nel caso della compilazione di un'istanza entra in gioco la complessità delle informazioni richieste), per tutte le altre voci. A titolo esemplificativo, si può così quantificare che una denuncia di malattia professionale costa a un'impresa –tra acquisizione della modulistica, compilazione, trasmissione e archiviazione– circa 150 euro a pratica.
Stesso discorso per gli oneri gravanti sui cittadini, anche se in questo caso i parametri di calcolo sono stati espressi in minuti, cioè nel tempo necessario per sbrigare una pratica. Si tratta, in ogni caso, di un indicatore che dovrà essere tradotto in euro, così da poter rendere il sistema di calcolo omogeneo con quello adottato per le imprese.
Tariffari alla mano, ogni amministrazione dovrà, quando predispone una nuova normativa, calcolare quanto costano gli eventuali oneri amministrativi introdotti e fare poi il saldo con quelli eventualmente eliminati. A fine anno si potrà fare un bilancio generale di quanto si è risparmiato. Perché l'obiettivo è ridurre gli adempimenti, eliminando quelli ridondanti o semplificando le procedure, così da limare ulteriormente quei 26,5 miliardi annui che rappresentano il costo complessivo degli oneri amministrativi (esclusi quelli fiscali). Importo che dal 2008, cioè da quando la legge 133 ha fatto debuttare l'operazione taglia-oneri, a oggi si è ridotto di 8 miliardi. Con, però, un'avvertenza: si tratta di cifre calcolate sulla carta, proiettando nel tempo gli effetti dei provvedimenti di semplificazione fin qui varati. La vera sfida è ora tradurre quei provvedimenti in pratica (articolo Il Sole 24 Ore del 14.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAnticorruzione. Entro la fine di gennaio. Censimento subito per i dirigenti senza concorso.
Entro la fine del mese di gennaio tutte le amministrazioni pubbliche dovranno comunicare al Dipartimento della Funzione Pubblica nomi, titoli e curricula dei soggetti a cui sono conferiti incarichi dirigenziali senza procedure selettive pubbliche.
Questa comunicazione dovrà essere fatta dagli Organismi indipendenti di valutazione nell'ambito del monitoraggio che deve essere trasmesso annualmente, entro il 31 gennaio, da parte di ogni ente alla stessa Funzione pubblica sulle assunzioni flessibili e sul conferimento di incarichi di collaborazione coordinata e continuativa, adempimento che da questo anno è pienamente operativo.

È quanto prevede la legge anticorruzione (commi 39 e 40 della legge n. 190/2012). La disposizione riguarda sia gli incarichi di nuova attribuzione che quelli conferiti in precedenza e ancora in corso.
L'obbligo di comunicazione riguarda tutti gli incarichi dirigenziali che sono stati conferiti "discrezionalmente". Quindi negli enti locali si applica alle assunzioni effettuate ai sensi dell'articolo 110, commi 1 e 2, del Dlgs 267/2000, cioè sia per posti vacanti in dotazione organica che per posti extra dotazione organica. Per esplicita previsione, la disposizione stabilisce che le comunicazioni riguardino tanto i casi in cui questi incarichi sono stati conferiti a dipendenti dell'ente, quanto la individuazione di dipendenti di altre Pa, quanto il conferimento a soggetti esterni alla Pa.
L'ambito di applicazione si deve ritenere esteso anche agli incarichi di responsabilità conferiti negli enti privi di dirigenti. La formulazione utilizzata esclude solo gli incarichi conferiti sulla base di «procedure pubbliche di selezione», formula che non sembra includere il mero confronto di curricula. Gli obiettivi della disposizione sono numerosi: individuazione nominativa dei dirigenti "fiduciari", accertamento dei loro requisiti, verifica della imparzialità, salvaguardia della distinzione delle competenze tra organi politici e dirigenti.
Gli Organismi indipendenti di valutazione (Oiv) ed i Nuclei di valutazione, a dimostrazione dell'accentuazione del loro ruolo di strumento di controllo, vengono responsabilizzati direttamente alla effettuazione di questa comunicazione, ovviamente sulla base dei dati elaborati dagli uffici. Occorre ricordare che, sulla base delle previsioni di cui all'articolo 36 del Dlgs 165/2001, gli Oiv sono responsabilizzati ad accertare che nell'ente siano rispettati i vincoli, sia procedurali che di spesa, dettati dal legislatore per le assunzioni flessibili e per il conferimento di incarichi di collaborazione coordinata e continuativa. Spetta infatti ad essi sanzionare i dirigenti che hanno gestito in modo irregolare le assunzioni flessibili e/o gli incarichi di co.co.co con la mancata erogazione della indennità di risultato.
Anche se non sono stati ancora preparati i modelli da utilizzare per effettuare queste comunicazioni, gli enti locali e le Regioni sono comunque tenuti a raccogliere e trasmettere queste informazioni. Essi possono utilizzare i modelli che la Funzione pubblica ha realizzato per le amministrazioni statali e per gli enti pubblici nazionali.
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L'obbligo
01 | IL MONITORAGGIO
Ogni amministrazione pubblica deve rendere noti gli incarichi dirigenziali conferiti senza procedure di selezione pubblica, ma in via fiduciaria
02 | LA SCADENZA
Gli organismi indipendenti di valutazione devono comunicare i dati alla Funzione pubblica va fatta entro il 31 gennaio
03 | IL PERIMETRO
Vanno segnalati gli incarichi concessi a dipendenti interni, sia agli esterni che quelli a dipendenti di altre amministrazioni
04 | I MODELLI
In attesa della predisposizione di moduli ad hoc per gli enti locali si possono usare quelli già pronti per le amministrazioni statali (articolo Il Sole 24 Ore del 14.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATALa natura pubblica della strada costituisce il presupposto per l’adozione dell’ordine di rimozione (di un cancello), e, qualora difetti, l'iscrizione della strada nell'elenco delle strade comunali e vicinali di uso pubblico è l'Amministrazione che ha l'onere di accertare con rigorosa istruttoria la sussistenza di un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico e la concreta idoneità della strada a soddisfare attualmente esigenze di pubblica utilità.
... per l'annullamento:
1) dell’ordinanza n. 47 del 09/08/2012, con la quale il Sindaco del Comune di Sant’Agata li Battiati -nell’esercizio dei propri poteri di massima autorità di Protezione Civile nell’ambito della pianificazione d’emergenza comunale e rilevata la necessità, l’urgenza e l’indifferibilità dell’adozione del provvedimento- ha imposto ai ricorrenti, la rimozione a propria cura e spese, entro il termine di 30 giorni, del cancello esistente dopo il civico 1 e 2 della via Lavatoio e della porzione di muro adiacente al cancello;
...
RITENUTO che -a prescindere dalle censure sulla competenza del Sindaco (che appaio comunque fondate, non essendo ravvisabili i presupposti per l’adozione di un’ordinanza in relazione alle esigenze di “salvaguardia della pubblica incolumità”, nella quale, tuttavia, non risultano indicate le specifiche ragioni di pericolo la pubblica incolumità, né il rischio concreto di un danno grave e imminente per l’incolumità pubblica, riferendosi esclusivamente alla circostanza che il cancello “può rappresentare un ostacolo all’ingresso dei mezzi di soccorso...”)- i profili di doglianza concernenti il difetto d’istruttoria e la contraddittorietà della motivazione, sono fondati e assorbenti di ogni altra censura.
Infatti, in disparte ogni questione sull’accertamento della proprietà della strada che, ovviamente, esula dalla giurisdizione del giudice amministrativo ed è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, giacché investe l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di diritti soggettivi, dei privati o della p.a. (Cassazione civile, Sezioni unite, 27.01.2010, n. 1624), va rilevato, tuttavia, come la natura pubblica della strada costituisce il presupposto per l’adozione dell’ordine di rimozione, e, qualora difetti, come nel caso di specie, l'iscrizione della strada nell'elenco delle strade comunali e vicinali di uso pubblico, è l'Amministrazione che ha l'onere di accertare con rigorosa istruttoria la sussistenza di un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico (cfr., Cons. di Stato, sez. V, 24.05.2007, n. 2618) e la concreta idoneità della strada a soddisfare attualmente esigenze di pubblica utilità.
Pertanto, l'Amministrazione, prima di emettere il provvedimento impugnato, avrebbe dovuto accertare attraverso un’adeguata attività istruttoria -i cui contenuti ed esiti avrebbero dovuto essere riportati nella motivazione dell’ordinanza di rimozione- se effettivamente nel caso di specie sussistessero tutti i requisiti per poter qualificare la strada in questione come strada destinata ad uso pubblico. Istruttoria che, nella specie, s’imponeva in considerazione alcune determinazioni di Uffici comunali cha avevano affermato la natura privata della strada in questione. (cfr. in particolare, nota del 25/06/2005, nella quale il Capo Settore UTC, dopo aver rilevato che “… tutta l’altra documentazione, agli atti di questo ufficio, dimostra (a partire almeno dal 1942) la proprietà privata della strada” e che “non esistono altri elementi che possano far presupporre la proprietà comunale della stradella”, ha informato il Sindaco della inesistenza di validi presupposti per reclamare la proprietà comunale della strada affermando che “Il Comune non è in possesso di altri elementi che possano dimostrare la proprietà del bene” e che “la strada allo stato attuale non è di nessun interesse pubblico, in quanto non ha sbocco ed è di limitata sezione, a fondo naturale e priva di illuminazione”.
E’ evidente, quindi, una situazione di obiettiva incertezza e contraddittorietà sullo stato dei luoghi, che avrebbe dovuto indurre il Comune, prima di emettere il provvedimento impugnato, ad eseguire un’idonea istruttoria sulla natura della strada che, nella specie, è, invece, mancata, non potendo nemmeno supplire l’integrazione della motivazione contenuta nella memoria difensiva, laddove si fa riferimento a circostanze (presenza della numerazione civica e riconoscimento della natura pubblica della strada da parte di un privato in una bozza di convenzione di lottizzazione) assolutamente inidonee a qualificare gli indici rilevatori della natura "pubblica" della strada (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 01.12.2003, n. 7831; Cons. Stato, Sez. V, 24.10.2000 n. 5692; id., Sez. IV, 02.03.2001 n. 1155).
RITENUTO, quindi, che l’omissione di un rigoroso accertamento circa gli elementi di fatto e di diritto rilevatori della natura "pubblica" della strada in questione evidenzia il difetto istruttorio in cui è incorso il Comune di Sant’Agata Li Battiati nell'adozione dell’ordine di rimozione impugnato.
CONSIDERATO che per quanto sopra, il ricorso è fondato e va accolto, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti che l'Amministrazione potrà adottare in esito ad una rinnovata ed idonea attività istruttoria (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 18.01.2013 n. 176 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAllorché il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire ovvero anche quando sia intervenuta la decadenza del titolo edilizio, sorge in capo alla p.a., anche ex artt. 2033 o, comunque, 2041 c.c., l’obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione e conseguentemente il diritto del privato a pretenderne la restituzione.
Il contributo concessorio è, infatti, strettamente connesso all'attività di trasformazione del territorio e quindi, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell’originaria obbligazione di dare cosicché l’importo versato va restituito; il diritto alla restituzione sorge non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia stato utilizzato solo parzialmente.
Sulle somme da restituire vanno applicati gli interessi al tasso legale con decorrenza, nella peculiare fattispecie, dalla data di ricezione da parte del Comune della richiesta di restituzione inviata dagli odierni ricorrenti, atteso che questi ultimi, pur avendo inutilmente dato luogo ad una complessa ed articolata attività amministrativa, hanno poi tenuto un comportamento non significativo che in ipotesi avrebbe potuto sfociare anche in un riutilizzo del titolo abilitativo edilizio.

Allorché il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire ovvero anche quando sia intervenuta la decadenza del titolo edilizio, sorge in capo alla p.a., anche ex artt. 2033 o, comunque, 2041 c.c., l’obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione e conseguentemente il diritto del privato a pretenderne la restituzione. Il contributo concessorio è, infatti, strettamente connesso all'attività di trasformazione del territorio e quindi, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell’originaria obbligazione di dare cosicché l’importo versato va restituito; il diritto alla restituzione sorge non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia stato utilizzato solo parzialmente (cfr: CS, V, 02.02.1988 n. 105, 12.06.1995 n. 894 e 23.06.2003 n. 3714; TAR Lombardia, Sez. II, 24.03.2010, n. 728 e TAR Abruzzo 15.12.2006 n. 890, TAR Parma 07.04.1998 n. 149).
Sulle somme da restituire vanno applicati gli interessi al tasso legale con decorrenza, nella peculiare fattispecie, dalla data di ricezione da parte del Comune (9.08.2011) della richiesta di restituzione inviata dagli odierni ricorrenti, atteso che questi ultimi, pur avendo inutilmente dato luogo ad una complessa ed articolata attività amministrativa, hanno poi tenuto un comportamento non significativo che in ipotesi avrebbe potuto sfociare anche in un riutilizzo del titolo abilitativo edilizio.
In conclusione, va dichiarato il diritto dei ricorrenti alla restituzione, da parte del Comune di Tremestieri Etneo, della somma di € 158.000,00 oltre interessi al tasso legale a partire dal 09.08.2011 all’effettivo soddisfo, con conseguente condanna del Comune medesimo al pagamento di tali importi (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 18.01.2013 n. 159 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAE’ indiscutibile la natura espropriativa del vincolo a “sede stradale” imposto dal PRG, trattandosi di prescrizione che incide sul diritto di proprietà sull’area.
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Più complesso è il discorso con riferimento alla destinazione di parte dell’area a “verde pubblico”, dal momento che tale classificazione non è di per sé automaticamente foriera di un vincolo a carattere espropriativo, potendosi anche configurare un vincolo di natura meramente conformativa in ragione delle potenzialità edificatorie e/o di utilizzo concretamente concesse al privato proprietario.
Tuttavia, poiché la effettiva portata della destinazione a “verde pubblico” non risulta chiarita nel presente giudizio, la tesi del carattere sostanzialmente espropriativo del vincolo sostenuta dal ricorrente appare corroborata dal comportamento della PA resistente, che sembra aver avviato –come si dice nella comunicazione di avvio del procedimento– una revisione totale della destinazione dell’area, sul presupposto evidente che tutti i vincoli (incluso quello relativo al “verde pubblico”) siano ritenuti non più vigenti.

E’ indiscutibile la natura espropriativa del vincolo a “sede stradale” imposto dal PRG, trattandosi di prescrizione che incide sul diritto di proprietà sull’area; altrettanto indiscutibile è l’avvenuta decadenza del vincolo per decorrenza del relativo termine di durata.
Più complesso è il discorso con riferimento alla destinazione di parte dell’area a “verde pubblico”, dal momento che tale classificazione non è di per sé automaticamente foriera di un vincolo a carattere espropriativo, potendosi anche configurare un vincolo di natura meramente conformativa in ragione delle potenzialità edificatorie e/o di utilizzo concretamente concesse al privato proprietario (si vedano, in proposito, le precisazioni contenute nella sentenza Corte cost. 179/1999 e nella giurisprudenza amministrativa: C.G.A. 1113/2008; Tar Firenze 2012/2010; Tar Catania 423/2011).
Tuttavia, poiché la effettiva portata della destinazione a “verde pubblico” non risulta chiarita nel presente giudizio, la tesi del carattere sostanzialmente espropriativo del vincolo sostenuta dal ricorrente appare corroborata dal comportamento della PA resistente, che sembra aver avviato –come si dice nella comunicazione di avvio del procedimento– una revisione totale della destinazione dell’area, sul presupposto evidente che tutti i vincoli (incluso quello relativo al “verde pubblico”) siano ritenuti non più vigenti.
Alla luce di quanto fin qui esposto, richiamata la giurisprudenza di questa Sezione riguardante le ipotesi di silenzio serbato dalle amministrazioni sulle istanze di riqualificazione urbanistica e la conseguente violazione dell’obbligo legale di conclusione del procedimento fissato nell’art. 2 della L. 241/90 (ex multis, fra le più recenti, Tar Catania, I, 1573/2009 e 518/2012), il ricorso merita accoglimento, non apparendo utile ad interrompere la denunciata inerzia della PA né il mero avvio delle operazioni di riqualificazione, né la presentazione al Consiglio comunale del progetto generale di un nuovo PRG, stante la persistente mancanza di deliberazioni su tale nuovo strumento urbanistico.
In conclusione, va dichiarato l’obbligo del Comune di Catania di concludere il procedimento di destinazione urbanistica del terreno del ricorrente entro il termine di 120 giorni dalla comunicazione della presente sentenza o sua notifica a cura di parte.
Non è tuttavia possibile, in questa sede, stabilire anche quale sia il contenuto concreto che l’atto di classificazione urbanistica dovrà assumere, ossia la destinazione specifica da attribuire all’area, venendo in rilievo in questo contesto una attività amministrativa discrezionale, di stretta competenza del Comune, che non può essere indirizzata dal giudicante pena lo sconfinamento in settori non propri (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 18.01.2013 n. 151 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl termine per la formazione del silenzio-assenso di cui all'art. 87, comma 9, del D.Lgs. n. 259 del 2003 decorre dalla presentazione della domanda corredata dal progetto; né rileva la data della ricezione da parte del Comune del parere dell'A.R.P.A., in quanto il deposito del parere preventivo favorevole dell'A.R.P.A. non è prescritto per la formazione del titolo edilizio ovvero per l'inizio dei lavori, ma solo per l'attivazione dell'impianto.
RITENUTO che il ricorso è fondato sotto il profilo dell’illegittimità dei provvedimenti negativi adottati dal Comune di Capo d’Orlando dopo la formazione del titolo autorizzativo.
Infatti, secondo giurisprudenza consolidata, il termine per la formazione del silenzio-assenso di cui all'art. 87, comma 9, del D.Lgs. n. 259 del 2003 decorre dalla presentazione della domanda corredata dal progetto (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18.08.2009, n. 4941 e 17.03.2009, n. 1578); né rileva la data della ricezione da parte del Comune del parere dell'A.R.P.A., in quanto il deposito del parere preventivo favorevole dell'A.R.P.A. non è prescritto per la formazione del titolo edilizio ovvero per l'inizio dei lavori, ma solo per l'attivazione dell'impianto (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 24.09.2010, n. 7128).
Né, infine, la nota del 17.05.2012 può ritenersi idonea ad interrompere il termine per la formazione del silenzio-assenso, giacché ai sensi del comma 5° dell’art. 87 del D.Lgs. 259/2003 “Il responsabile del procedimento può richiedere, per una sola volta, entro quindici giorni dalla data di ricezione dell'istanza, il rilascio di dichiarazioni e l'integrazione della documentazione prodotta”, mentre nel caso in esame, a fronte della domanda di autorizzazione ricevuta il 23.04.2012, il predetto termine di quindici giorni non è stato precisato (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 18.01.2013 n. 149 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Il singolo condòmino ha la facoltà di eseguire opere che siano strettamente pertinenti alla sua unità immobiliare, sotto i profili funzionale e spaziale, con la conseguenza che egli va considerato come soggetto avente titolo per ottenere a nome proprio l’autorizzazione o la concessione edilizia relativamente a tali opere (vedansi, in particolare, gli articoli 1122 e 1127 del codice civile).
- Premesso:
Alla signora G., persona disabile proprietaria con il coniuge di due unità residenziali (5^ piano ed attico) nel condominio in via ... di Conegliano, venivano ingiunti dal comune la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi per l’abusiva realizzazione al piano attico di un locale accessorio ad uso lavanderia-stenditoio (ordinanza 16.02.2006 n. 33-prot. 8098), in conseguenza del voto contrario all’esecuzione dei lavori espresso dall’assemblea condominiale.
Tale parere era motivato con richiamo all’art. 53 del regolamento edilizio, il quale consente la costruzione di locali accessori con un massimo di mc. 150 per fabbricato, da realizzare esclusivamente in aderenza al corpo di fabbrica principale.
...
- Considerato:
L’odierna controversia è caratterizzata dal fatto che le opere edili in questione -destinate ad alleviare la disabilità della ricorrente ma contestate dal comune resistente con riguardo al dissenso manifestato dal condominio, il quale non intende neanche adattare la lavanderia condominiale non agibile- devono essere realizzate all’attico nella porzione di piano in proprietà individuale della condòmina deducente, a sue cure e spese, senza interessamento delle parti comuni dell’edificio se non per l’aderenza a murature perimetrali condominiali e senza arrecare pregiudizio agl’immobili di proprietà esclusiva di altri condòmini (i quali perciò non sono privati, né collettivamente né singolarmente, di nessuna pur minima utilità dominicale, concreta o potenziale).
Dette opere, le quali non rendono talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino, non sono quindi in contrasto con la specifica destinazione delle parti comuni e non vanno ad incidere sulla proprietà condominiale, laddove il condominio, che è un mero ente di gestione unicamente deputato a gestire le parti comuni dell’edificio e la funzionalità dei servizi d’interesse comune dei singoli condòmini, ha assunto una condotta emulativa nel negare comodità elementari per nulla pregiudizievoli agli altri condòmini, ma indispensabili per la ricorrente.
La legge 09.01.1989 n. 13, recante disposizioni per favorire l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati e che consente, tra l’altro, le innovazioni finalizzate a realizzare idonei accessi alle parti comuni degli edifici e alle singole unità immobiliari a determinate condizioni (maggioranze previste dall’art. 1136, commi secondo e terzo, del codice civile, ovvero l’esecuzione diretta a proprie spese, in caso di rifiuto o silenzio da parte del condominio), nel caso qui in trattazione non è neppure rilevante, perché il singolo condòmino ha la facoltà di eseguire opere che siano strettamente pertinenti alla sua unità immobiliare, sotto i profili funzionale e spaziale, con la conseguenza che egli va considerato come soggetto avente titolo per ottenere a nome proprio l’autorizzazione o la concessione edilizia relativamente a tali opere (vedansi, in particolare, gli articoli 1122 e 1127 del codice civile).
Non è pertanto comprensibile neanche il comportamento contraddittorio assunto nella vicenda dal comune, il quale da un canto attribuisce valore ostativo al parere contrario all’esecuzione dei lavori in argomento espresso dall’assemblea condominiale, e dall’altro assume come possibile l’utilizzazione da parte della ricorrente della volumetria autorizzabile di 150 mc. per la realizzazione di locali accessori (art. 53 del regolamento edilizio), in quota proporzionale ai millesimi di proprietà.
Per concludere, il ricorso va accolto sotto i profili della contraddittorietà e del difetto d’istruttoria della domanda edilizia, annullando l’atto impugnato e fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione comunale, tenuta a riprovvedere sulla questione (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 18.01.2013 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Ai fini della validità dei contratti pubblici di appalto, è necessaria, ad substantiam, la forma scritta.
Altresì, nelle procedure di affidamento dei contratti in parola, l'offerta esprime, in via unilaterale e con carattere vincolante, l'impegno negoziale del concorrente ad eseguire l’appalto con prestazioni conformi al relativo oggetto, nonché con modalità tecniche e corrispettivo economico che la qualificano agli effetti della valutazione comparativa sottesa all'aggiudicazione.
In un simile contesto, connotato dalla tassatività della forma scritta e dalla coattività della dichiarazione unilaterale di impegno negoziale da parte del concorrente, la firma serve a rendere nota la paternità ed a vincolare l'autore al contenuto del documento ritraente detta dichiarazione; assolve, cioè, la funzione indefettibile di assicurare provenienza, serietà, affidabilità e insostituibilità dell'offerta e costituisce elemento essenziale per la sua ammissibilità, sotto il profilo sia formale sia sostanziale, potendosi solo ad essa riconnettere gli effetti propri della manifestazione di volontà volta alla costituzione di un rapporto giuridico.
La clausola di gara che imponga la sottoscrizione (anche) della documentazione tecnica da parte del soggetto concorrente corrisponde, dunque, all’illustrata esigenza che l'offerta sia formalmente imputata al soggetto titolato ad assumere le obbligazioni in essa contemplate per l'esecuzione dell’appalto.
Conseguentemente, la mancanza della richiesta sottoscrizione, pregiudicando un interesse sostanziale pubblicistico, comporta che l'offerta non possa essere ‘tal quale’ accettata; non integra, cioè, una mera irregolarità formale, sanabile nel corso del procedimento, ma inficia irrimediabilmente la validità e la ricevibilità della dichiarazione di offerta, senza che, all’uopo, sia necessaria una espressa previsione della lex specialis, stante la diretta comminatoria di esclusione enunciata dall'art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006 con riferimento ai “casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione”.
Ciò posto, occorre richiamare in appresso l’orientamento giurisprudenziale formatosi in ordine alla tassatività della sottoscrizione in calce (anche) dell’offerta tecnica, dal quale il Collegio non ritiene di doversi discostare:
- in particolare, una ‘sottoscrizione’ deve, per definizione, essere apposta in calce al documento al quale si riferisce;
- in tale prospettiva, la sottoscrizione conclusiva della dichiarazione di impegno non è stata reputata surrogabile dalla sottoscrizione solo parziale delle pagine precedenti ovvero dall'apposizione della controfirma sui lembi sigillati della busta che la contiene (mirando, quest’ultima formalità, a garantire il principio della segretezza dell'offerta e della integrità del plico, piuttosto che –come, invece, la firma in calce– l’imputazione della manifestazione di volontà al concorrente);
- nella stessa prospettiva, e in omaggio al principio della par condicio tra concorrenti, alla firma in calce di un documento non è equiparabile quella apposta solo in apertura di esso (‘in testa’) ovvero sul solo frontespizio di un testo di più pagine, in quanto unicamente con la firma in calce si manifesta la consapevole assunzione della paternità di una dichiarazione e la responsabilità in ordine al suo contenuto; né, tanto meno, alla firma in calce di singoli ed autonomi documenti è equiparabile la sottoscrizione dell’elenco riproduttivo della mera intitolazione dei documenti medesimi, del cui contenuto rimane, dunque, incerta l’imputabilità al soggetto offerente;
- siffatto approccio è stato, peraltro, mantenuto fermo, anche allorquando sono state ripudiate interpretazioni puramente formali delle regole di gara, essendosi ritenuta conseguita la finalità della sottoscrizione –consistente nell’assicurare la riferibilità della dichiarazione di offerta al relativo presentatore– pur sempre in presenza almeno della sigla in calce di quest’ultimo.

- al riguardo, giova, in primis, rammentare che, ai fini della validità dei contratti pubblici di appalto, è necessaria, ad substantiam, la forma scritta (cfr. Cass. civ., sez. un., n. 6827/2010; sez. I, n. 1614/2009; n. 19209/2009; sez. III, n. 20340/2010);
- giova, altresì, rammentare che, nelle procedure di affidamento dei contratti in parola, l'offerta esprime, in via unilaterale e con carattere vincolante, l'impegno negoziale del concorrente ad eseguire l’appalto con prestazioni conformi al relativo oggetto, nonché con modalità tecniche e corrispettivo economico che la qualificano agli effetti della valutazione comparativa sottesa all'aggiudicazione (cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 7987/2010);
- in un simile contesto, connotato dalla tassatività della forma scritta e dalla coattività della dichiarazione unilaterale di impegno negoziale da parte del concorrente, la firma serve a rendere nota la paternità ed a vincolare l'autore al contenuto del documento ritraente detta dichiarazione; assolve, cioè, la funzione indefettibile di assicurare provenienza, serietà, affidabilità e insostituibilità dell'offerta e costituisce elemento essenziale per la sua ammissibilità, sotto il profilo sia formale sia sostanziale, potendosi solo ad essa riconnettere gli effetti propri della manifestazione di volontà volta alla costituzione di un rapporto giuridico;
- la clausola di gara che imponga la sottoscrizione (anche) della documentazione tecnica da parte del soggetto concorrente corrisponde, dunque, all’illustrata esigenza che l'offerta sia formalmente imputata al soggetto titolato ad assumere le obbligazioni in essa contemplate per l'esecuzione dell’appalto;
- conseguentemente, la mancanza della richiesta sottoscrizione, pregiudicando un interesse sostanziale pubblicistico, comporta che l'offerta non possa essere ‘tal quale’ accettata (cfr. TAR Liguria, Genova, sez. II, n. 630/2010); non integra, cioè, una mera irregolarità formale, sanabile nel corso del procedimento, ma inficia irrimediabilmente la validità e la ricevibilità della dichiarazione di offerta, senza che, all’uopo, sia necessaria una espressa previsione della lex specialis (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 5547/2008; sez. IV, n. 1832/2010; sez. V, n. 528/2011; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, n. 5498/2010), stante la diretta comminatoria di esclusione enunciata dall'art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006 con riferimento ai “casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione”;
- ciò posto, occorre richiamare in appresso l’orientamento giurisprudenziale formatosi in ordine alla tassatività della sottoscrizione in calce (anche) dell’offerta tecnica, dal quale il Collegio non ritiene di doversi discostare;
- in particolare, una ‘sottoscrizione’ –ha osservato Cons. Stato, sez. V, n. 2317/2912, con riferimento ad una fattispecie omologa a quella dedotta nel presente giudizio– deve, per definizione, essere apposta in calce al documento al quale si riferisce;
- in tale prospettiva, la sottoscrizione conclusiva della dichiarazione di impegno non è stata reputata surrogabile dalla sottoscrizione solo parziale delle pagine precedenti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 1832/2010) ovvero dall'apposizione della controfirma sui lembi sigillati della busta che la contiene (mirando, quest’ultima formalità, a garantire il principio della segretezza dell'offerta e della integrità del plico, piuttosto che –come, invece, la firma in calce– l’imputazione della manifestazione di volontà al concorrente: cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 528/2011);
- nella stessa prospettiva, e in omaggio al principio della par condicio tra concorrenti, alla firma in calce di un documento non è equiparabile –prosegue Cons. Stato, sez. V, n. 2317/2912– quella apposta solo in apertura di esso (‘in testa’) ovvero –come nel caso dei sopra indicati elaborati prodotti in gara dall’ATI Italimpianti– Matera – sul solo frontespizio di un testo di più pagine, in quanto unicamente con la firma in calce si manifesta la consapevole assunzione della paternità di una dichiarazione e la responsabilità in ordine al suo contenuto (cfr. TAR Puglia, Lecce, sez. III, n. 625/2011; TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, n. 634/2012); né, tanto meno, alla firma in calce di singoli ed autonomi documenti è equiparabile –a dispetto degli assunti delle ricorrenti principali– la sottoscrizione dell’elenco riproduttivo della mera intitolazione dei documenti medesimi, del cui contenuto rimane, dunque, incerta l’imputabilità al soggetto offerente;
- siffatto approccio è stato, peraltro, mantenuto fermo, anche allorquando sono state ripudiate interpretazioni puramente formali delle regole di gara, essendosi ritenuta conseguita la finalità della sottoscrizione –consistente nell’assicurare la riferibilità della dichiarazione di offerta al relativo presentatore– pur sempre in presenza almeno della sigla in calce di quest’ultimo (cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 8933/2010) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 17.01.2013 n. 368 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'interpretazione degli atti amministrativi, ivi compreso il bando di gara pubblica, soggiace alle stesse regole dettate dall'art. 1362 e ss. c.c. per l'interpretazione dei contratti, tra le quali assume carattere preminente quella collegata all'interpretazione letterale in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo, dovendo in ogni caso il giudice ricostruire l'intento dell'Amministrazione, ed il potere che essa ha inteso esercitare, in base al contenuto complessivo dell'atto (cd. interpretazione sistematica), tenendo conto del rapporto tra le premesse ed il suo dispositivo e del fatto che, secondo il criterio di interpretazione di buona fede ex art. 1366 c.c., gli effetti degli atti amministrativi devono essere individuati solo in base a ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere, anche in ragione del principio costituzionale di buon andamento, che impone alla P.A. di operare in modo chiaro e lineare, tale da fornire ai cittadini regole di condotte certe e sicure, soprattutto quando da esse possano derivare conseguenze negative.
Conseguentemente, solo in caso di oscurità ed equivocità delle clausole del bando e degli atti che regolano i rapporti tra cittadini e Amministrazione può ammettersi una lettura idonea a tutela dell'affidamento degli interessati in buona fede, non potendo generalmente addebitarsi al cittadino un onere di ricostruzione dell'effettiva volontà dell'Amministrazione mediante complesse indagini ermeneutiche ed integrative.

Come è noto, per conforme giurisprudenza di questo Consiglio, l'interpretazione degli atti amministrativi, ivi compreso il bando di gara pubblica, soggiace alle stesse regole dettate dall'art. 1362 e ss. c.c. per l'interpretazione dei contratti, tra le quali assume carattere preminente quella collegata all'interpretazione letterale in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo, dovendo in ogni caso il giudice ricostruire l'intento dell'Amministrazione, ed il potere che essa ha inteso esercitare, in base al contenuto complessivo dell'atto (cd. interpretazione sistematica), tenendo conto del rapporto tra le premesse ed il suo dispositivo e del fatto che, secondo il criterio di interpretazione di buona fede ex art. 1366 c.c., gli effetti degli atti amministrativi devono essere individuati solo in base a ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere, anche in ragione del principio costituzionale di buon andamento, che impone alla P.A. di operare in modo chiaro e lineare, tale da fornire ai cittadini regole di condotte certe e sicure, soprattutto quando da esse possano derivare conseguenze negative (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 05.09.2011, n. 4980).
Da tale premessa, deriva, quale diretto corollario, la regola secondo la quale solo in caso di oscurità ed equivocità delle clausole del bando e degli atti che regolano i rapporti tra cittadini e Amministrazione può ammettersi una lettura idonea a tutela dell'affidamento degli interessati in buona fede, non potendo generalmente addebitarsi al cittadino un onere di ricostruzione dell'effettiva volontà dell'Amministrazione mediante complesse indagini ermeneutiche ed integrative
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.01.2013 n. 238 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Le verifiche che devono essere effettuate su un progetto in gara devono, ovviamente, rispondere ad uno specifico ed oggettivo interesse dell’Amministrazione; in particolare, con riguardo al progetto definitivo, non solo le verifiche devono riguardare la documentazione espressamente stabilita all’art. 93, comma 4, del Codice, ma devono anche controllare che esso sia stato redatto nel rispetto delle esigenze, dei vincoli, degli indirizzi e delle indicazioni stabilite nel progetto preliminare secondo le indicazioni fornite dall’Amministrazione nell’esercizio della sua potestà discrezionale.
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L’inosservanza delle prescrizioni del capitolato speciale prestazionale in ordine alla documentazione (asseverazione dei progettisti) da allegare all’offerta tecnica (progetto definitivo), implica l’esclusione dalla gara in quanto si tratta di prescrizione rispondente ad un particolare interesse dell’Amministrazione appaltante: speditezza dell’azione amministrativa e del buon funzionamento dell’operato dell’apparato organizzativo chiamato a verificare la rispondenza degli elaborati del progetto definitivo prescelto ai documenti di cui all’art. 93, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 163/2006 e la loro conformità alla normativa vigente.
L’asseverazione del progetto definitivo richiesto in gara è, quindi, finalizzato all’accelerazione del procedimento di validazione ex art. 47 D.P.R. 554/1999 che costituisce fase necessaria e prodromica all’affidamento dei lavori, cui non può prescindersi, atteso che il procedimento di D.I.A., cui si riferisce l’appellante presuppone invece il già avvenuto affidamento dei lavori; pertanto, la relativa disciplina sull’asseverazione del progetto opera su di un piano logico-temporale e regolamentare non sovrapponibile a quello in esame.

In via generale, peraltro, è noto che le verifiche che devono essere effettuate su un progetto in gara devono, ovviamente, rispondere ad uno specifico ed oggettivo interesse dell’Amministrazione; in particolare, con riguardo al progetto definitivo, non solo le verifiche devono riguardare la documentazione espressamente stabilita all’art. 93, comma 4, del Codice, ma devono anche controllare che esso sia stato redatto nel rispetto delle esigenze, dei vincoli, degli indirizzi e delle indicazioni stabilite nel progetto preliminare secondo le indicazioni fornite dall’Amministrazione nell’esercizio della sua potestà discrezionale.
La descritta clausola di cui all’art. 9, comma 7, del capitolato speciale, relativamente all’asseveramento dei progettisti sulla rispondenza del progetto al disposto di cui all’art. 47 del D.P.R n, 554/1999, rientra a pieno titolo in tale potestà discrezionale della stazione appaltante che può prevedere negli atti di gara un onere documentale a carico delle ditte concorrenti e a pena di esclusione ulteriore rispetto alle disposizioni vigenti in materia, purché detto onere sia ragionevole.
La suddetta prescrizione appare del tutto adeguata all’effettivo controllo che ha inteso effettuare la stazione appaltante.
Infatti, l’inosservanza delle prescrizioni del capitolato speciale prestazionale in ordine alla documentazione (asseverazione dei progettisti) da allegare all’offerta tecnica (progetto definitivo), implica l’esclusione dalla gara in quanto si tratta di prescrizione rispondente ad un particolare interesse dell’Amministrazione appaltante: speditezza dell’azione amministrativa e del buon funzionamento dell’operato dell’apparato organizzativo chiamato a verificare la rispondenza degli elaborati del progetto definitivo prescelto ai documenti di cui all’art. 93, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 163/2006 e la loro conformità alla normativa vigente.
Inoltre, con tale prescrizione la stazione appaltante ha evidentemente inteso tutelarsi nei confronti degli autori del progetto nell’eventualità in cui, nonostante il rilascio della dichiarazione di asseverazione, dopo la conclusione del procedimento amministrativo si renda necessario apportare al progetto prescelto integrazioni, perfezionamenti e miglioramenti, al fine di eliminare gli errori o le omissioni della progettazione.
L’asseverazione del progetto definitivo richiesto in gara è, quindi, finalizzato all’accelerazione del procedimento di validazione ex art. 47 D.P.R. 554/1999 che costituisce fase necessaria e prodromica all’affidamento dei lavori, cui non può prescindersi, atteso che il procedimento di D.I.A., cui si riferisce l’appellante presuppone invece il già avvenuto affidamento dei lavori; pertanto, la relativa disciplina sull’asseverazione del progetto opera su di un piano logico-temporale e regolamentare non sovrapponibile a quello in esame.
In sostanza, la validazione operata dalla stazione appaltante e il controllo sul progetto definitivo effettuato dal Comune nel procedimento di D.I.A., non possono essere assimilati dato che presentano un diverso campo d’applicazione
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.01.2013 n. 238 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa ristrutturazione è una categoria duale, in quanto contiene al proprio interno una fattispecie pesante, parificata alla nuova costruzione (v. art. 10, comma 1-c, del DPR 06.06.2001 n. 380), e una leggera, che riguarda gli interventi edilizi meno impattanti, individuati per residualità e in definitiva consistenti in opere sottoposte, se considerate singolarmente, ad autorizzazione edilizia o a DIA semplice.
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Sul piano edilizio bisogna precisare innanzitutto che nel caso di difformità dalla concessione edilizia (o dal permesso di costruire) l’abuso deve essere valutato come opera a sé stante, immaginando la situazione abusiva come un’autonoma edificazione senza titolo. Pertanto, opere che se osservate ex ante si collegano ad altri interventi per formare un insieme sistematico e come tali, configurando una ristrutturazione pesante o una nuova costruzione, richiederebbero la concessione edilizia (o il permesso di costruire), se osservate ex post, ai fini dell’eventuale regolarizzazione, devono essere considerate solo per la consistenza della parte abusiva.
Nello specifico, la demolizione di una canna fumaria con ricostruzione della stessa in altra posizione e con differenti modalità costruttive è un intervento soggetto ad autorizzazione (v. art. 7, comma 2-a, del DL 23.01.1982 n. 9) e poi a DIA semplice (v. art. 4, comma 7-f, del DL 05.10.1993 n. 398; art. 22, commi 1 e 2, del DPR 380/2001).
Questo inquadramento si fonda sull’assimilazione delle canne fumarie ai volumi tecnici e sul collegamento funzionale tra le canne fumarie e gli impianti tecnologici. Ne consegue che l’esecuzione in difformità dalla concessione edilizia delle predette opere costituisce abuso minore, non qualificabile come variazione essenziale (v. art. 8, comma 2, della legge 47/1985; art. 32, comma 2, del DPR 380/2001), e dunque ricadente nella disciplina sulla regolarizzazione di cui all’art. 37 del DPR 380/2001.
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L’art. 37 del DPR 380/2001 contempla due ipotesi principali: la regolarizzazione in presenza di conformità urbanistica (v. comma 4) e la regolarizzazione in assenza di conformità urbanistica (v. comma 1). La diversità delle due ipotesi è rimarcata dal differente sistema di calcolo della sanzione pecuniaria. Al contrario di quanto avviene per gli abusi maggiori, dove è comunque richiesta la conformità urbanistica (v. art. 36 del DPR 380/2001), gli abusi minori consentono quindi la sanatoria edilizia anche nel caso di difformità urbanistica.
Nella vicenda in esame vi è in effetti contrasto con la disciplina urbanistica, perché l’art. 3.4.43 del regolamento locale di igiene (nel testo in vigore all’epoca dei fatti) stabilisce che le canne fumarie devono superare di almeno 40 cm il colmo del tetto e prevede che in caso contrario siano collocate ad almeno 8 metri dall’edificio più vicino.
In proposito si deve però osservare che il regolamento locale di igiene ha una doppia funzione, in quanto integra la disciplina urbanistica ma tutela interessi pubblici di natura igienico-sanitaria (nel caso delle canne fumarie la tutela pubblica ha come scopo la protezione dei cittadini dalle emissioni moleste e inquinanti).
Dunque la norma può essere scissa in due componenti. Sul piano edilizio il mancato rispetto dell’altezza del camino e della distanza dall’edificio prossimo, riguardando volumi tecnici e impianti tecnologici, è regolarizzabile mediante la sanzione pecuniaria di cui all’art. 37, comma 1, del DPR 380/2001. La possibilità della regolarizzazione è però subordinata alla concessione di una deroga sul piano igienico-sanitario.
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La preesistenza della canna fumaria può assumere rilievo ma non è decisiva. In realtà, considerata la natura degli interessi pubblici tutelati, la preesistenza non garantirebbe la possibilità di utilizzare indefinitamente la canna fumaria neppure nella configurazione originaria, e quindi a maggior ragione non assicura il mantenimento dell’opera modificata.
Tuttavia perché possa essere adottato un ordine di demolizione occorre che il disturbo provocato ai vicini sia intollerabile e non meramente presunto in base al mancato rispetto della distanza minima. Il maggiore o minore grado di tollerabilità delle emissioni della canna fumaria non dipende solo dalla distanza ma anche dalla natura degli inquinanti. Il grado di pericolosità dei fumi delle stufe a legna è superiore a quello dei fumi degli impianti a metano, e tra le stufe a legna occorre distinguere quelle tradizionali e quelle più moderne ad alta efficienza e dotate di filtri.
Ne consegue che la distanza massima dalle abitazioni vicine deve essere applicata quando le canne fumarie siano collegate a impianti a legna obsoleti e molto inquinanti, mentre nelle altre ipotesi è possibile concedere delle deroghe.

... per l'annullamento dell’ordinanza del responsabile del procedimento n. 3 del 22.01.2002, con la quale è stato intimato alla ricorrente di demolire entro 90 giorni la canna fumaria e la cassonatura esterna posizionando il comignolo a una distanza non inferiore a 8 metri dagli edifici confinanti;
...
Sulle questioni sollevate nel ricorso si possono svolgere le seguenti considerazioni:
Intervento edilizio complessivo e opere abusive
(a) la ricorrente ha eseguito un insieme di lavori che sono classificabili come ristrutturazione edilizia. Peraltro la ristrutturazione è una categoria duale, in quanto contiene al proprio interno una fattispecie pesante, parificata alla nuova costruzione (v. art. 10, comma 1-c, del DPR 06.06.2001 n. 380), e una leggera, che riguarda gli interventi edilizi meno impattanti, individuati per residualità e in definitiva consistenti in opere sottoposte, se considerate singolarmente, ad autorizzazione edilizia o a DIA semplice (v. TAR Brescia Sez. II 24.08.2012 n. 1462; TAR Brescia Sez. I 01.12.2009 n. 2379);
(b) nello specifico si tratta certamente di ristrutturazione pesante, in quanto tra i lavori è presente il recupero del sottotetto. Questo tipo di intervento amplia la superficie lorda di pavimento e la volumetria abitabile del fabbricato storico, e dunque determina automaticamente la creazione di un organismo edilizio in parte diverso dal precedente. Le altre opere hanno un rilievo minore ma sono sottoposte al medesimo titolo edilizio (concessione edilizia, e in seguito permesso di costruire) per il loro collegamento con l’intervento principale;
(c) la parte abusiva dei lavori consiste nella trasformazione (non evidenziata nel progetto) di una delle canne fumarie preesistenti in un nuovo camino con cassonatura esterna. Sulla preesistenza delle canne fumarie possono essere accettate come prove idonee le dichiarazioni di terzi prodotte dalla ricorrente. D’altra parte il Comune nel provvedimento impugnato, pur dimostrando di conoscere le suddette dichiarazioni, non ha espressamente controdedotto circa la veridicità o l’attendibilità di quanto affermato;
(d) occorre a questo punto stabilire se si tratta di un abuso formale (sanabile) o sostanziale (passibile di remissione in pristino). La valutazione deve essere condotta sia con riferimento alla disciplina edilizia sia con riguardo alle norme igienico-sanitarie;
Qualificazione edilizia dell’opera abusiva
(e) sul piano edilizio bisogna precisare innanzitutto che nel caso di difformità dalla concessione edilizia (o dal permesso di costruire) l’abuso deve essere valutato come opera a sé stante, immaginando la situazione abusiva come un’autonoma edificazione senza titolo. Pertanto, opere che se osservate ex ante si collegano ad altri interventi per formare un insieme sistematico e come tali, configurando una ristrutturazione pesante o una nuova costruzione, richiederebbero la concessione edilizia (o il permesso di costruire), se osservate ex post, ai fini dell’eventuale regolarizzazione, devono essere considerate solo per la consistenza della parte abusiva;
(f) nello specifico la demolizione di una canna fumaria con ricostruzione della stessa in altra posizione e con differenti modalità costruttive è un intervento soggetto ad autorizzazione (v. art. 7, comma 2-a, del DL 23.01.1982 n. 9) e poi a DIA semplice (v. art. 4, comma 7-f, del DL 05.10.1993 n. 398; art. 22, commi 1 e 2, del DPR 380/2001). Questo inquadramento si fonda sull’assimilazione delle canne fumarie ai volumi tecnici e sul collegamento funzionale tra le canne fumarie e gli impianti tecnologici (v. TAR Bari Sez. III 30.10.2012 n. 1859). Ne consegue che l’esecuzione in difformità dalla concessione edilizia delle predette opere costituisce abuso minore, non qualificabile come variazione essenziale (v. art. 8, comma 2, della legge 47/1985; art. 32, comma 2, del DPR 380/2001), e dunque ricadente nella disciplina sulla regolarizzazione di cui all’art. 37 del DPR 380/2001;
Sanabilità dell’abuso sotto il profilo edilizio
(g) l’art. 37 del DPR 380/2001 contempla due ipotesi principali: la regolarizzazione in presenza di conformità urbanistica (v. comma 4) e la regolarizzazione in assenza di conformità urbanistica (v. comma 1). La diversità delle due ipotesi è rimarcata dal differente sistema di calcolo della sanzione pecuniaria. Al contrario di quanto avviene per gli abusi maggiori, dove è comunque richiesta la conformità urbanistica (v. art. 36 del DPR 380/2001), gli abusi minori consentono quindi la sanatoria edilizia anche nel caso di difformità urbanistica;
(h) nella vicenda in esame vi è in effetti contrasto con la disciplina urbanistica, perché l’art. 3.4.43 del regolamento locale di igiene (nel testo in vigore all’epoca dei fatti) stabilisce che le canne fumarie devono superare di almeno 40 cm il colmo del tetto e prevede che in caso contrario siano collocate ad almeno 8 metri dall’edificio più vicino;
(i) in proposito si deve però osservare che il regolamento locale di igiene ha una doppia funzione, in quanto integra la disciplina urbanistica ma tutela interessi pubblici di natura igienico-sanitaria (nel caso delle canne fumarie la tutela pubblica ha come scopo la protezione dei cittadini dalle emissioni moleste e inquinanti);
(j) dunque la norma può essere scissa in due componenti. Sul piano edilizio il mancato rispetto dell’altezza del camino e della distanza dall’edificio prossimo, riguardando volumi tecnici e impianti tecnologici, è regolarizzabile mediante la sanzione pecuniaria di cui all’art. 37, comma 1, del DPR 380/2001. La possibilità della regolarizzazione è però subordinata alla concessione di una deroga sul piano igienico-sanitario;
Derogabilità della disciplina del regolamento locale di igiene
(k) sotto quest’ultimo profilo occorre affrontare il problema del fastidio provocato ai vicini. Al riguardo si osserva che la preesistenza della canna fumaria può assumere rilievo ma non è decisiva. In realtà, considerata la natura degli interessi pubblici tutelati, la preesistenza non garantirebbe la possibilità di utilizzare indefinitamente la canna fumaria neppure nella configurazione originaria, e quindi a maggior ragione non assicura il mantenimento dell’opera modificata.
Tuttavia perché possa essere adottato un ordine di demolizione occorre che il disturbo provocato ai vicini sia intollerabile e non meramente presunto in base al mancato rispetto della distanza minima. Il maggiore o minore grado di tollerabilità delle emissioni della canna fumaria non dipende solo dalla distanza ma anche dalla natura degli inquinanti. Il grado di pericolosità dei fumi delle stufe a legna è superiore a quello dei fumi degli impianti a metano, e tra le stufe a legna occorre distinguere quelle tradizionali e quelle più moderne ad alta efficienza e dotate di filtri. Ne consegue che la distanza massima dalle abitazioni vicine deve essere applicata quando le canne fumarie siano collegate a impianti a legna obsoleti e molto inquinanti, mentre nelle altre ipotesi è possibile concedere delle deroghe;
(l) come si è visto sopra, nel caso in esame l’impianto collegato alla canna fumaria è alimentato a metano. Vi è stato quindi un netto miglioramento rispetto alla situazione precedente, quando sia la canna fumaria oggetto dell’abuso edilizio sia quella posta nelle vicinanze servivano stufe alimentate a legna. Sembra quindi che sia stato raggiunto un punto di equilibrio: la canna fumaria può rimanere al suo posto purché sia collegata esclusivamente a impianti che producono fumi poco inquinanti e non particolarmente molesti;
(m) è possibile che la ristrutturazione dell’edificio e il recupero del sottotetto come volume abitabile aumentino l’utilizzo della canna fumaria in questione e delle altre poste a distanza insufficiente. Questa eventualità non interferisce tuttavia con la deroga alla distanza necessaria per la sanatoria edilizia. Se in conseguenza del maggiore utilizzo delle canne fumarie si determinasse un notevole incremento del disturbo a danno dei vicini il Comune disporrebbe comunque del potere di ingiungere alla ricorrente l’adozione di impianti di riscaldamento tecnologicamente più avanzati e meno inquinanti;
(n) in ogni caso, poiché la regolarizzazione dell’abuso edilizio è condizionata al contenimento dei fumi molesti, la ricorrente è tenuta a evidenziare anticipatamente al Comune ogni modifica negli impianti collegati alla canna fumaria in questione, per dare modo agli uffici di verificare se la situazione di disagio per le abitazioni vicine sia destinata ad aggravarsi;
Conclusioni
(o) il ricorso deve quindi essere accolto, con il conseguente annullamento dell’ordinanza impugnata. Per l’effetto conformativo derivante dalla presente pronuncia il Comune non può negare la regolarizzazione della canna fumaria e della relativa cassonatura sotto il profilo edilizio, ma conserva il potere di adottare provvedimenti di natura igienico-sanitaria, come si è visto sopra;
(p) tenendo conto della particolarità della vicenda e dell’intreccio di profili edilizi e igienico-sanitari è possibile disporre la compensazione delle spese di giudizio (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 16.01.2013 n. 37 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISussiste l’onere di immediata impugnazione del bando di gara o della lettera di invito solo per quelle prescrizioni che impediscono “in limine” la partecipazione alla procedura di determinati soggetti, e che non richiedono alcuna significativa attività interpretativa, fissando i requisiti di partecipazione alla procedura selettiva “con prescrizioni inequivoche”.
La decisione dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 29/01/2003 n. 1 ha ritenuto esservi un onere di immediata impugnazione:
a) delle clausole del bando che, imponendo requisiti soggettivi di ammissione non posseduti dal concorrente, gli impediscono in via immediata e diretta la partecipazione;
b) delle clausole del bando in quei limitati casi in cui gli oneri imposti all'interessato ai fini della partecipazione risultino manifestamente incomprensibili o implicanti oneri per la partecipazione del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della gara o della procedura concorsuale.
In tutti gli altri casi le clausole del bando e degli altri documenti di gara vanno impugnate unitamente agli atti della procedura concretamente ed immediatamente lesivi.
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L’art. 83, comma 4, del D.Lgs. 12/04/2006 n. 163, nello stabilire che il bando di gara, per ciascun criterio di valutazione prescelto, può prevedere (ove necessario) sub-criteri e sub-pesi o sub-punteggi, ha effettuato una scelta che trova giustificazione nell'esigenza di ridurre gli apprezzamenti soggettivi della commissione giudicatrice, garantendo in tale modo l'imparzialità delle valutazioni nell’essenziale tutela della par condicio tra i concorrenti, i quali sono tutti messi in condizione di formulare un'offerta che consenta di concorrere effettivamente all’aggiudicazione del contratto in gara.
E’ stato anche ripetutamente affermato che –quanto alla valutazione delle offerte da parte della commissione di gara– l’attribuzione dei punteggi in forma soltanto numerica è accettabile soltanto in presenza di parametri di valutazione (con sotto-voci e relativi punteggi) sufficientemente analitici, tali da ridurre gli spazi di discrezionalità tecnica rimessi all’organo collegiale, con la delimitazione del giudizio tra un minimo ed un massimo entro cui effettuare la graduazione dei punteggi in conformità ai criteri. Diversamente, l’obbligo motivazionale dovrà essere assolto attraverso i tradizionali canoni di esternazione mediante i verbali, per cui è necessario che, oltre al punteggio numerico, sia espresso un giudizio motivato con il quale la commissione espliciti le ragioni del punteggio attribuito.
I principi generali, anche di matrice comunitaria, di uguaglianza e trasparenza dell’azione amministrativa esigono in buona sostanza di definire preventivamente le modalità di valutazione delle offerte e di garantire –ex post– la leggibilità delle decisioni adottate dalla stazione appaltante, e quindi la controllabilità della sua attività ai sensi degli artt. 24 e 113 della Costituzione.

Sussiste l’onere di immediata impugnazione del bando di gara o della lettera di invito solo per quelle prescrizioni che impediscono “in limine” la partecipazione alla procedura di determinati soggetti, e che non richiedono alcuna significativa attività interpretativa, fissando i requisiti di partecipazione alla procedura selettiva “con prescrizioni inequivoche” (TAR Lombardia Milano, sez. IV – 21/11/2012 n. 2828). La decisione dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 29/01/2003 n. 1 ha ritenuto esservi un onere di immediata impugnazione:
a) delle clausole del bando che, imponendo requisiti soggettivi di ammissione non posseduti dal concorrente, gli impediscono in via immediata e diretta la partecipazione;
b) delle clausole del bando in quei limitati casi in cui gli oneri imposti all'interessato ai fini della partecipazione risultino manifestamente incomprensibili o implicanti oneri per la partecipazione del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della gara o della procedura concorsuale (Consiglio di Stato, sez. VI – 14/11/2012 n. 5748).
In tutti gli altri casi le clausole del bando e degli altri documenti di gara vanno impugnate unitamente agli atti della procedura concretamente ed immediatamente lesivi (cfr. ex plurimis Consiglio di Stato, sez. V – 06/06/2012 n. 3344).
Nel caso esaminato il ricorso introduttivo è stato tempestivamente proposto nei confronti dell’esclusione dalla gara, mentre con la disposta riammissione i connotati dei parametri di valutazione, le modalità di assegnazione dei punteggi e di nomina della Commissione hanno assunto una valenza pregiudizievole soltanto in seguito alla disposta aggiudicazione a favore della vincitrice.
Il profilo afferente alla violazione dell’art. 83 del D. Lgs. 163/2006, dell’art. 283 del D.P.R. 207/2010 e del principio di trasparenza, e all’eccesso di potere per indeterminatezza, difetto dei presupposti e di istruttoria è fondato.
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale (cfr. per tutte Consiglio di Stato, sez. V – 12/06/2012 n. 3445), l’art. 83, comma 4, del D.Lgs. 12/04/2006 n. 163, nello stabilire che il bando di gara, per ciascun criterio di valutazione prescelto, può prevedere (ove necessario) sub-criteri e sub-pesi o sub-punteggi, ha effettuato una scelta che trova giustificazione nell'esigenza di ridurre gli apprezzamenti soggettivi della commissione giudicatrice, garantendo in tale modo l'imparzialità delle valutazioni nell’essenziale tutela della par condicio tra i concorrenti, i quali sono tutti messi in condizione di formulare un'offerta che consenta di concorrere effettivamente all’aggiudicazione del contratto in gara.
E’ stato anche ripetutamente affermato che –quanto alla valutazione delle offerte da parte della commissione di gara– l’attribuzione dei punteggi in forma soltanto numerica è accettabile soltanto in presenza di parametri di valutazione (con sotto-voci e relativi punteggi) sufficientemente analitici, tali da ridurre gli spazi di discrezionalità tecnica rimessi all’organo collegiale, con la delimitazione del giudizio tra un minimo ed un massimo entro cui effettuare la graduazione dei punteggi in conformità ai criteri. Diversamente, l’obbligo motivazionale dovrà essere assolto attraverso i tradizionali canoni di esternazione mediante i verbali, per cui è necessario che, oltre al punteggio numerico, sia espresso un giudizio motivato con il quale la commissione espliciti le ragioni del punteggio attribuito (Consiglio di Stato, sez. VI – 08/03/2012 n. 1332).
I principi generali, anche di matrice comunitaria, di uguaglianza e trasparenza dell’azione amministrativa esigono in buona sostanza di definire preventivamente le modalità di valutazione delle offerte e di garantire –ex post– la leggibilità delle decisioni adottate dalla stazione appaltante, e quindi la controllabilità della sua attività ai sensi degli artt. 24 e 113 della Costituzione (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 16.01.2013 n. 36 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVIDiscariche, il cittadino dice la sua.
Diritto del cittadino di partecipare alle procedure di autorizzazione dei progetti aventi un notevole impatto sull'ambiente nella specie costruzione di una discarica. E la tutela del segreto commerciale non può essere utilizzata per rifiutare l'accesso alle informazioni ambientali.

Questo il tracciato giurisprudenziale previsto dalla Corte di giustizia dell'Ue con la sentenza 15.01.2013 n. C-416/10.
Il fatto: nel Comune di Pezinok in Slovacchia veniva previsto l'insediamento di una discarica di rifiuti in una cava di terra per mattoni. L'ufficio urbanistico di Bratislava (Slovacchia) autorizzava l'insediamento della discarica. I cittadini eccepivano in sede giudiziaria l'illegittimità delle decisioni dell'amministrazione che aveva autorizzato la costruzione e la gestione della discarica.
In particolare gli interessati evidenziavano l'errore di diritto derivante dal fatto che la procedura di autorizzazione integrata era stata avviata senza disporre della decisione di assenso urbanistico-edilizio all'insediamento della discarica, e che tale decisione era stata depositata, senza pubblicazione della stessa, per il fatto che avrebbe costituito un segreto commerciale. I cittadini interessati si sono rivolti ai giudici slovacchi e la Corte suprema di cassazione della repubblica slovacca ha chiesto alla Corte di giustizia europea di illustrare la portata del diritto del pubblico di partecipare alle procedure di autorizzazione dei progetti aventi un notevole impatto sull'ambiente.
La Corte di giustizia Ue afferma che l'art. 17 della direttiva 96/61/CE, esige che «il pubblico interessato abbia accesso a una decisione di assenso urbanistico edilizio sin dall'inizio del procedimento di autorizzazione dell'impianto di cui trattasi». E «non consente alle autorità nazionali competenti di rifiutare al pubblico interessato l'accesso alla decisione adducendo la tutela della riservatezza delle informazioni commerciali o industriali prevista dal diritto nazionale o dell'Unione al fine di proteggere un legittimo interesse economico» (articolo ItaliaOggi del 18.01.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'illegittimità del provvedimento impugnato è condizione necessaria per accordare il risarcimento richiesto; con la conseguenza che la reiezione della parte impugnatoria del gravame impedisce che il danno stesso possa essere considerato ingiusto o illecita la condotta tenuta dall'Amministrazione.
Quanto alla richiesta di risarcimento danni, formulata nell’assunto che gli atti ed i comportamenti delle Amministrazioni resistenti avevano arrecato un ingente danno alla appellante, sia per mancato guadagno che per perdita degli incentivi e del requisito curriculare, come da consulenza tecnica di parte prodotta, la Sezione non può prestare ad essa assenso.
Invero l'infondatezza nel merito del ricorso comporta il rigetto della domanda di risarcimento del danno atteso che l'illegittimità del provvedimento impugnato è condizione necessaria per accordare il risarcimento richiesto (Consiglio di Stato, Sezione V, 14.02.2011, n. 965); con la conseguenza che la reiezione della parte impugnatoria del gravame impedisce che il danno stesso possa essere considerato ingiusto o illecita la condotta tenuta dall'Amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.01.2013 n. 176 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIIn forza di tali nozioni (cioè quelle di mero servizio e servizio pubblico, n.d.r.) non vi è dubbio che il servizio di pubblica illuminazione debba essere considerato servizio pubblico, poiché dell'erogazione dello stesso, da parte dell'appaltatore, beneficia direttamente ed esclusivamente la collettività (o il singolo utente) senza alcuna intermediazione del Comune nello svolgimento del processo produttivo.
Ciò chiarito, al fine di verificare la fondatezza della tesi sostenuta da parte ricorrente, si rende, dunque, preliminarmente necessario accertare se il servizio di illuminazione pubblica possa essere considerato un servizio pubblico locale ovvero un semplice servizio di cui l’ente locale appalta la fornitura per poter espletare la propria attività.
Sul punto il Collegio ritiene di poter condividere la tesi già affermata da questo Tribunale (cfr la sentenza TAR Brescia 27.12.2007, n. 1373), secondo cui: “In forza di tali nozioni (cioè quelle di mero servizio e servizio pubblico, n.d.r.) non vi è dubbio che il servizio di pubblica illuminazione debba essere considerato servizio pubblico, poiché dell'erogazione dello stesso, da parte dell'appaltatore, beneficia direttamente ed esclusivamente la collettività (o il singolo utente) senza alcuna intermediazione del Comune nello svolgimento del processo produttivo” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 15.01.2013 n. 30 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’annullamento d’ufficio è un atto discrezionale da assumere entro un termine ragionevole e solo dopo un attento bilanciamento di tutti gli interessi pubblici e privati coinvolti. Occorre tuttavia precisare che in giurisprudenza sono stati individuate anche delle fattispecie nelle quali la discrezionalità si azzera e l’annullamento diventa doveroso.
In particolare questo avviene in due casi:
(1) quando il destinatario abbia ottenuto il titolo edilizio inducendo in errore l’amministrazione attraverso una falsa rappresentazione della realtà, non necessariamente operando con dolo (v. CS Sez. IV 12.03.2007 n. 1189, giudizio riguardante un annullamento d’ufficio sopraggiunto a 10 anni dal provvedimento illegittimo);
(2) quando la conservazione del provvedimento illegittimo sia “semplicemente insopportabile” per l’evidente insufficienza dell’affidamento del destinatario rispetto al danno subito dall’amministrazione o da altri soggetti.

Sulle questioni sollevate dalle parti si possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) per quanto riguarda la tempestività dell’ordinanza di inibizione, in effetti risultano agli atti due copie della DIA, entrambe con il timbro degli uffici comunali: una riporta la data di ricezione del 21.09.2002 e l’altra la data del 24.09.2002. Il motivo del doppio deposito non è chiaro, tuttavia sembra necessario fare riferimento alla prima data, in quanto il Comune non ha evidenziato modifiche sostanziali nel progetto;
(b) peraltro, anche considerando fuori termine l’ordinanza di inibizione adottata il 12.10.2002, non è possibile considerare acquisiti i diritti edificatori in capo ai ricorrenti. In realtà occorre distinguere tra vizi formali e vizi sostanziali della DIA. Se il decorso del termine rende inattaccabili i primi, e consolida quindi sotto questo profilo la posizione dei soggetti proponenti, la presenza di vizi sostanziali non cancella il potere di autotutela, sia a favore dell’interesse pubblico (destinazione urbanistica, indici edilizi, distanze), sia a garanzia dei privati (diritti dei terzi incompatibili con l’edificazione);
(c) l’autotutela deve essere esercitata nel rispetto dei principi posti dall’art. 21-nonies della legge 07.08.1990 n. 241, ossia valutando adeguatamente l’ampiezza del tempo trascorso, l’attualità dell’interesse pubblico, e il contenuto degli interessi privati dei destinatari e dei controinteressati;
(d) in sintesi l’annullamento d’ufficio è un atto discrezionale da assumere entro un termine ragionevole e solo dopo un attento bilanciamento di tutti gli interessi pubblici e privati coinvolti. Occorre tuttavia precisare che in giurisprudenza sono stati individuate anche delle fattispecie nelle quali la discrezionalità si azzera e l’annullamento diventa doveroso (v. TAR Brescia Sez. I 14.05.2010 n. 1733).
In particolare questo avviene in due casi: (1) quando il destinatario abbia ottenuto il titolo edilizio inducendo in errore l’amministrazione attraverso una falsa rappresentazione della realtà, non necessariamente operando con dolo (v. CS Sez. IV 12.03.2007 n. 1189, giudizio riguardante un annullamento d’ufficio sopraggiunto a 10 anni dal provvedimento illegittimo); (2) quando la conservazione del provvedimento illegittimo sia “semplicemente insopportabile” per l’evidente insufficienza dell’affidamento del destinatario rispetto al danno subito dall’amministrazione o da altri soggetti (v. TRGA Trento 16.12.2009 n. 305, giudizio che si pone specificamente nella prospettiva della tutela del terzo);
(e) tornando alla vicenda in esame e applicando i parametri sopra esposti si può osservare che: (1) il tempo trascorso oltre i venti giorni previsti dall’art. 4, commi 11 e 15, del DL 398/1993 è minimo; (2) i vicini hanno dettagliatamente evidenziato al Comune i pregiudizi derivanti dalla recinzione della proprietà dei ricorrenti e dallo spostamento del percorso delle servitù di passo pedonale; (3) l’esistenza di diritti di terzi incompatibili con l’edificazione appare quindi sufficientemente dimostrata, almeno sul piano amministrativo, e permette di ritenere che dall’emissione o dalla conservazione di un titolo edilizio avrebbe origine una situazione intollerabile per i vicini; (4) a questo punto la contrapposizione tra i soggetti privati può essere superata soltanto con un accordo delle parti sulla larghezza e sull’esatta collocazione del percorso delle servitù di passo pedonale, o in alternativa con una pronuncia del giudice ordinario (in eventuali giudizi di usucapione, vindicatio servitutis, oppure negatoria servitutis);
(f) risulta pertanto corretta la decisione del Comune di impedire gli interventi edilizi in grado di interferire nei rapporti privatistici finché la situazione non venga chiarita come sopra indicato. Non vi sono invece ostacoli all’autorizzazione delle opere che non possono arrecare pregiudizio ai diritti dei terzi, ma al riguardo è necessaria una preventiva riformulazione del progetto da parte dei ricorrenti.
In conclusione il ricorso deve essere respinto. La particolarità di alcune questioni consente l’integrale compensazione delle spese di giudizio (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 15.01.2013 n. 18 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: I piani di lottizzazione, pur essendo assimilati sul piano funzionale ai piani particolareggiati di cui all’art. 16 della L. 17.08.1942 n. 1150, hanno natura negoziale, ossia -in particolare- di “accordi sostitutivi del provvedimento”, con la conseguenza che le relative convenzioni e gli atti ad esse prodromici sono assoggettati alla disciplina dettata dall’art. 11 della L. 07.08.1990 n. 241; e, in particolare, da ciò discende che ogni controversia riguardante la validità della clausola di una convenzione urbanistica rientrava all’epoca dei fatti di causa, a’ sensi del comma 5 del medesimo art. 11 (e rientra, ad oggi, a’ sensi dell’attualmente vigente art. 133, comma 1, lett. a, n. 2 cod. proc. amm.) nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, notoriamente contraddistinta da una cognizione piena ed estesa quindi anche ai diritti mediante la proposizione di un’azione anche indipendentemente dall’impugnazione di singoli atti amministrativi connessi al rapporto controverso: azione che pertanto non ha carattere impugnatorio e non soggiace a termini di decadenza.
L’approvazione di un piano di lottizzazione e del relativo schema di convenzione non impedisce all’amministrazione Comunale di rifiutare la stipula della convenzione, essendo l’amministrazione medesima legittimata a rivedere le proprie determinazioni pianificatorie sulla medesima area e quindi, ove del caso, di decidere anche di non stipulare più la convenzione di lottizzazione.

Va innanzitutto rimarcato che i piani di lottizzazione, pur essendo assimilati sul piano funzionale ai piani particolareggiati di cui all’art. 16 della L. 17.08.1942 n. 1150, hanno natura negoziale, ossia -in particolare- di “accordi sostitutivi del provvedimento” (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2003 n. 5152 e 19.02.2008 n. 534), con la conseguenza che le relative convenzioni e gli atti ad esse prodromici sono assoggettati alla disciplina dettata dall’art. 11 della L. 07.08.1990 n. 241 (cfr. in particolare Cons. Stato, Sez., IV, 13.01.2005 n. 222); e, in particolare, da ciò discende che ogni controversia riguardante la validità della clausola di una convenzione urbanistica rientrava all’epoca dei fatti di causa, a’ sensi del comma 5 del medesimo art. 11 (e rientra, ad oggi, a’ sensi dell’attualmente vigente art. 133, comma 1, lett. a, n. 2 cod. proc. amm.) nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, notoriamente contraddistinta da una cognizione piena ed estesa quindi anche ai diritti mediante la proposizione di un’azione anche indipendentemente dall’impugnazione di singoli atti amministrativi connessi al rapporto controverso: azione che pertanto non ha carattere impugnatorio e non soggiace a termini di decadenza.
Del resto, risulta altrettanto assodato che l’approvazione di un piano di lottizzazione e del relativo schema di convenzione non impedisce all’amministrazione Comunale di rifiutare la stipula della convenzione, essendo l’amministrazione medesima legittimata a rivedere le proprie determinazioni pianificatorie sulla medesima area e quindi, ove del caso, di decidere anche di non stipulare più la convenzione di lottizzazione (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 12.04.2001 n. 2284) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.01.2013 n. 159 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’impugnazione dell’atto presupposto, di per sé lesivo dell’interesse del soggetto leso, consente di soprassedere alla susseguente impugnazione dell’atto consequenziale, ma soltanto nell’ipotesi in cui l’eventuale annullamento del primo atto sia in grado di determinare l’automatica caducazione del secondo, ossia soltanto se l’atto successivo abbia carattere meramente esecutivo dell’atto presupposto, ovvero faccia parte di una sequenza procedimentale che lo pone in rapporto di immediata derivazione dall’atto precedente (ad es., per questa seconda ipotesi, l’annullamento del provvedimento di adozione di uno strumento di pianificazione che determina anche la caducazione del provvedimento di approvazione dello strumento medesimo).
Come è ben noto, infatti, l’impugnazione dell’atto presupposto, di per sé lesivo dell’interesse del soggetto leso, consente di soprassedere alla susseguente impugnazione dell’atto consequenziale, ma soltanto nell’ipotesi in cui l’eventuale annullamento del primo atto sia in grado di determinare l’automatica caducazione del secondo, ossia soltanto se l’atto successivo abbia carattere meramente esecutivo dell’atto presupposto, ovvero faccia parte di una sequenza procedimentale che lo pone in rapporto di immediata derivazione dall’atto precedente (ad es., per questa seconda ipotesi, l’annullamento del provvedimento di adozione di uno strumento di pianificazione che determina anche la caducazione del provvedimento di approvazione dello strumento medesimo: cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 06.05.2003 n. 2386).
Nella specie, non si è viceversa verificata una tale situazione, dal momento che il c.d. atto consequenziale è dotato di una sua precisa autonomia in grado di realizzare il definitivo trasferimento del titolo proprietario mediante una rivalutazione del pubblico interesse all’apprensione del bene (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 27.03.2009 n. 1869 e 30.01.2006 n. 2693, nonché Sez. III, 03.11.2009 n. 2797, tutte segnatamente riguardanti il procedimento ablatorio).
In dipendenza di tutto ciò, quindi, l’indennità di espropriazione fissata dal provvedimento di esproprio n. 367 dd. 13.04.2000, divenuto inoppugnabile per omessa proposizione di ricorso in sede straordinaria o innanzi al giudice amministrativo, va reputata necessariamente idonea al fine del ristoro dell’interesse degli attuali appellati, salva restando l’impugnazione del relativo ammontare innanzi al giudice ordinario entro i termini dovuti; mentre, per quanto attiene all’occupazione d’urgenza dei medesimi terreni, la caducazione del relativo provvedimento abilitava gli interessati a proporre al riguardo apposita domanda risarcitoria nel primo grado di giudizio entro il termine quinquennale all’epoca vigente (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.01.2013 n. 157 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Una interpretazione -costituzionalmente orientata e coerente con le norme di legge- della clausola del bando, che consente alla Pubblica amministrazione “la facoltà di annullare la gara senza che le partecipanti possano avanzare richiesta per eventuali rimborsi, compensi o indennizzi a qualsiasi titolo", comporta che i soli “indennizzi” esclusi in via preventiva sono quelli che non presuppongono responsabilità della Pubblica Amministrazione, non essendo al contrario ammissibile una limitazione preventiva della responsabilità per illecito della P.A..
Come è infatti noto (e come sarà meglio di seguito esposto), sia il provvedimento di revoca (ex art. 21-quinquies l. n. 241/1990), sia il provvedimento di annullamento di ufficio (ex art. 1, co. 136, l. n. 311/2004), prevedono forme di indennizzo dei soggetti direttamente interessati.
L’obbligo di indennizzo gravante sulla Pubblica Amministrazione non presuppone elementi di responsabilità della stessa, ma si fonda su valori puramente equitativi presi in considerazione dal legislatore, onde consentire il giusto bilanciamento tra il perseguimento dell’interesse pubblico attuale da parte dell’amministrazione e la sfera patrimoniale del destinatario (incolpevole) dell’atto di revoca o di annullamento, al quale non possono essere addossati integralmente i conseguenti sacrifici.
Orbene, se tale forma di indennizzo, pur prevista dalla legge, può essere esclusa da un atto della pubblica amministrazione (nel caso di specie, dal bando di gara), con il quale si richiede, in sostanza, al privato un atto unilaterale abdicativo di un diritto patrimoniale (e quindi disponibile), e ciò proprio in quanto l’attribuzione dell’indennizzo non dipende da responsabilità dell’amministrazione stessa; al contrario la pubblica amministrazione non può adottare atti ovvero pretendere dal privato, in via preliminare e quale condizione di partecipazione ad un procedimento amministrativo volto alla individuazione di un (futuro) contraente, un atto abdicativo del diritto alla tutela giurisdizionale avverso atti e/o comportamenti (anche futuri) della stessa pubblica amministrazione illegittimi o illeciti, (eventualmente) causativi di danno e quindi di responsabilità per il suo risarcimento.
Tale clausola –lungi dal giustificarsi sostenendo che la stessa è, in definitiva, riferita a diritti patrimoniali disponibili– nella misura in cui esclude in via preventiva la responsabilità della P.A. per illecito, si risolve in una limitazione della responsabilità della Pubblica Amministrazione contra legem (argomentando ex art. 1229 cod. civ.), ed in violazione degli artt. 28 e 97 Cost..
Alla luce di quanto esposto, deve affermarsi che una interpretazione -costituzionalmente orientata e coerente con le norme di legge innanzi evocate- della clausola del bando, che consente alla Pubblica amministrazione “la facoltà di annullare la gara senza che le partecipanti possano avanzare richiesta per eventuali rimborsi, compensi o indennizzi a qualsiasi titolo", comporta che i soli “indennizzi” esclusi in via preventiva sono quelli che non presuppongono responsabilità della Pubblica Amministrazione, non essendo al contrario ammissibile una limitazione preventiva della responsabilità per illecito della P.A.
Nel caso di specie, quindi, non è la natura dell’atto (revoca e non annullamento) ad escludere il diritto alla tutela giurisdizionale dei partecipanti alla gara, onde far accertare dal giudice la eventuale responsabilità dell’amministrazione (in ciò concordando con l’amministrazione appellante che estende l’interpretazione della clausola a tutti gli atti adottati in esercizio del potere di autotutela).
Ciò che rende ammissibile la domanda di accertamento della responsabilità della P.A. (e, se del caso, di conseguente condanna della medesima al risarcimento del danno) è la irriferibilità della clausola medesima alle ipotesi in cui si controverte, appunto, di responsabilità della P.A., nei sensi innanzi chiariti (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.01.2013 n. 156 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nel caso di responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, la misura del risarcimento comprende anche il danno curriculare.
L’intervenuta stipulazione di un contratto di appalto non costituisce circostanza preclusiva all’esercizio del potere di annullamento di ufficio; pertanto, è ben possibile l’esercizio di potere di autotutela sugli atti di gara, nonostante la (eventuale) adozione di un atto di aggiudicazione provvisoria ed anche in presenza di contratto stipulato.

Lo evidenzia il Consiglio di Stato, IV Sez., con la sentenza 14.01.2013 n. 156.
Il Collegio, poi, rileva che, secondo un orientamento affermato in giurisprudenza, il danno risarcibile a titolo di responsabilità precontrattuale da parte della P.A. a seguito della mancata stipula dal contratto, debba intendersi limitato:
a) al rimborso dalle spese inutilmente sopportate nel corso delle trattative svolte in vista della conclusione del contratto (danno emergente);
b) al ristoro della perdita, se adeguatamente provata, di ulteriori occasioni di stipulazione con altri di contratti altrettanto o maggiormente vantaggiosi, impedite proprio dalle trattative indebitamente interrotte (lucro cessante), con esclusione del mancato guadagno che sarebbe stato realizzato con la stipulazione e l'esecuzione del contratto
A tali voci, ritiene il Collegio che possa essere aggiunto il cd. “danno curriculare”, cioè quel danno consistente nell’impossibilità di far valere, nelle future contrattazioni, il requisito economico pari al valore dell’appalto non eseguito.
Ciò nei casi in cui la responsabilità precontrattuale della P.A. non si configura con riferimento ad una interruzione delle trattative, che determina la mancata stipula del contratto, intervenuta in un generico momento delle stesse, bensì laddove si era già addivenuti alla sicura individuazione del contraente, a maggior ragione se per il tramite dell’aggiudicazione definitiva ed in presenza di un contenuto contrattuale già compiutamente definito, per il tramite del bando di gara e dell’offerta aggiudicataria (commento tratto da www.diritto.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Non basta affermare il mero difetto di custodia dei plichi per concludere l’illegittimità della procedura, servendo piuttosto un serio e non emulativo principio di prova da cui dedurre, con ragionevole probabilità, come l’imprecisione nelle modalità della loro conservazione sia causa di sottrazione o di manomissione dei plichi stessi.
Né al riguardo occorre che il seggio di gara, nell’incipit del verbale di ciascuna seduta, ribadisca che i plichi siano ben custoditi o, alla fine, impartisca la medesima regola di conservazione già posta all’inizio, stante l’inutilità d’entrambe le precisazioni che si danno invece per implicite, ove la situazione di fatto non si scopra alterata o non venga modificata.

Parimenti da respingere è la censura con cui l’appellante si duole della sentenza che, a suo dire, avrebbe errato nel non tener in considerazione le sue osservazioni sulla non corretta conservazione e custodia dei plichi contenenti l’offerta.
Prescindendo da ogni considerazione sull’ammissibilità di detta censura, consta in atti che il seggio di gara, fin dalla sua prima seduta, diede disposizioni al RUP per la conservazione dei plichi stessi presso il di lui ufficio e sotto la di lui responsabilità. L’integrità dei plichi fu fatta verificare dal seggio di gara, nella seduta del 02.12.2011 e prima della loro apertura, ai rappresentanti delle imprese, compresi il direttore degli affari legali e l’amministratore unico della Società appellante, procedendo quindi alla lettura delle offerte economiche.
D’altro canto, non basta affermare il mero difetto di custodia dei plichi per concludere l’illegittimità della procedura, servendo piuttosto un serio e non emulativo principio di prova da cui dedurre, con ragionevole probabilità, come l’imprecisione nelle modalità della loro conservazione sia causa di sottrazione o di manomissione dei plichi stessi. Né al riguardo occorre che il seggio di gara, nell’incipit del verbale di ciascuna seduta, ribadisca che i plichi siano ben custoditi o, alla fine, impartisca la medesima regola di conservazione già posta all’inizio, stante l’inutilità d’entrambe le precisazioni che si danno invece per implicite, ove la situazione di fatto non si scopra alterata o non venga modificata (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 14.01.2013 n. 148 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI fatti sopravvenuti che possono legittimare la proroga del termine di inizio o completamento dei lavori ai sensi dell'art. 15, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001, non hanno un rilievo automatico, ma possono costituire oggetto di valutazione e di verifica in sede amministrativa qualora l'interessato proponga un'apposita domanda di proroga.
Con ulteriore censura i ricorrenti si dolgono dell’eccesso di potere per contraddittorietà con precedenti atti e travisamento, dato che l’opera abusiva è collegata alla C.E. 710/80 (come attestato nell’ordinanza di demolizione) e non alla C.E. 523/77: in questo modo il Comune avrebbe indebitamente evitato di applicare la normativa regionale entrata in vigore nel 1980.
Anche detta prospettazione non è condivisibile.
Ai sensi dell’art. 31 della L. 1150/1942 “La licenza edilizia non può avere validità superiore ad un anno; qualora entro tale termine i lavori non siano stati iniziati l'interessato dovrà presentare istanza diretta ad ottenere il rinnovo della licenza”.
L’art. 4, comma 4, della L. 10/1977 puntualizza che “Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno; il termine di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere abitabile o agibile, non può essere superiore a tre anni e può essere prorogato, con provvedimento motivato, solo per fatti estranei alla volontà del concessionario, che siano sopravvenuti a ritardare i lavori durante la loro esecuzione. Un periodo più lungo per l'ultimazione dei lavori può essere concesso esclusivamente in considerazione della mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive; ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari”.
La giurisprudenza –intervenuta sull’art. 15, comma 2, del D.P.R. 380/2001 formulato in modo analogo all’art. 4– ha affermato che i fatti sopravvenuti che possono legittimare la proroga del termine di inizio o completamento dei lavori ai sensi dell'art. 15, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001, non hanno un rilievo automatico, ma possono costituire oggetto di valutazione e di verifica in sede amministrativa qualora l'interessato proponga un'apposita domanda di proroga (Consiglio di Stato, sez. IV – 10/08/2007 n. 4423).
Ciò premesso in punto di diritto, osserva il Collegio che la concessione edilizia n. 710/80, in quanto non ritirata dal richiedente, non ha mai avuto un principio di attuazione ed è irrimediabilmente decaduta essendo spirati i termini per l’inizio e l’ultimazione dei lavori. Per questo il Comune ha potuto unicamente fare riferimento (in sede di attivazione del procedimento repressivo) al titolo abilitativo n. 523/77, l’unico che risultava operativo in quanto regolarmente portato ad esecuzione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 14.01.2013 n. 9 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della concessione ad edificare e l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il rilascio della concessione in sanatoria c.d. straordinaria (o condono), il parere della Commissione edilizia non obbligatorio, ma, tutt'al più, facoltativo, in quelle specifiche ipotesi in cui l'amministrazione ritenga discrezionalmente di acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a particolari e sporadici casi incerti e complessi.
In assenza dei predetti casi di acquisizione facoltativa del parere dell'organo collegiale, il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato alla semplice verifica dei presupposti e condizioni espressamente e chiaramente fissati dal legislatore.
Dette considerazioni ben possono essere estese a tutti i procedimenti per il rilascio della concessione in sanatoria, che comunque si distinguono rispetto all’iter fisiologico di emissione del titolo abilitativo previa istanza di parte contemplato dall’art. 4, comma 3, del D.L. 05/10/1993 n. 398.

E’ infondato anche il terzo motivo, afferente alla violazione dell’art. 4, comma 3, del D.L. 05/10/1993 n. 398 conv. in L. 04/12/1993 n. 493 come modificato dall’art. 2, comma 60, della L. 662/1996, per omessa acquisizione del parere della Commissione edilizia.
Ad avviso della giurisprudenza (TAR Piemonte Torino Sez. II, 11-04-2012, n. 438; TAR Lazio Latina Sez. I, 28-12-2011, n. 1104, TAR Campania Salerno Sez. II, 24.07.2012, n. 1432) la specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della concessione ad edificare e l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il rilascio della concessione in sanatoria c.d. straordinaria (o condono), il parere della Commissione edilizia non obbligatorio, ma, tutt'al più, facoltativo, in quelle specifiche ipotesi in cui l'amministrazione ritenga discrezionalmente di acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a particolari e sporadici casi incerti e complessi.
In assenza dei predetti casi di acquisizione facoltativa del parere dell'organo collegiale, il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato alla semplice verifica dei presupposti e condizioni espressamente e chiaramente fissati dal legislatore.
Dette considerazioni ben possono essere estese a tutti i procedimenti per il rilascio della concessione in sanatoria, che comunque si distinguono rispetto all’iter fisiologico di emissione del titolo abilitativo previa istanza di parte contemplato dall’art. 4, comma 3, del D.L. 05/10/1993 n. 398, evocato in questa sede
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 14.01.2013 n. 9 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Le prestazioni di lavoro straordinario si caratterizzano per essere facoltative ed effettuate in aggiunta al normale orario di lavoro, come tali soggette al potere organizzatorio dell’Amministrazione datrice di lavoro; la pretesa della parte ricorrente sarebbe dunque qualificabile come diritto soggettivo solo in quanto la prestazione sia avvenuta in base ad una deliberazione autorizzativa, valida ed efficace per cui, fino a quando l’Ente non esercita il potere autoritativo di scegliere se ed entro quali limiti autorizzare lo svolgimento di attività di lavoro straordinario, saranno configurabili solo delle posizioni di interesse legittimo, con relativa inammissibilità di azioni di accertamento e di condanna.
In altri termini è possibile estendere al caso di specie il principio per il quale nessun compenso per ulteriori prestazioni, anche facoltative, può essere riconosciuto in assenza di una formale autorizzazione da parte del datore di lavoro, in quanto solo attraverso questa autorizzazione può essere verificata la sussistenza delle ragioni di pubblico interesse che rendono opportuno il ricorso a prestazioni lavorative eccezionali, nel rispetto dell'art. 97 Cost..
In definitiva, l’organizzazione delle prestazioni di lavoro deve avvenire attraverso la predisposizione di orari e turni, mediante la programmazione dei piani di lavoro e prescrivendo altresì la loro verifica con sistemi obiettivi di controllo degli orari di servizio, tali da assicurare che dette prestazioni siano rese in aggiunta rispetto all’orario nomale; non può neanche dedursi la violazione dell'art. 36 Cost. nella misura in cui salvaguarda il diritto alla retribuzione, atteso che risulta in ogni caso prevalente il canone dell'esigenza di buona amministrazione da cui è permeata la disciplina di settore secondo cui non è possibile prescindere dalla preventiva autorizzazione allo svolgimento di prestazioni lavorative ulteriori, o dal riconoscimento delle stesse ex post per esigenze d'ufficio, ai fini del riconoscimento del diritto del pubblico dipendente al pagamento del relativo compenso.
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Coloro che appartengono ad una categoria di personale svolgente una prestazione lavorativa necessariamente e naturalmente articolata su turni, non hanno titolo per invocare il pagamento di prestazioni straordinarie. Solo l’Amministrazione può deliberare di retribuirle nei limiti preventivamente programmati ed autorizzati, in quanto solo ad essa spetta la valutazione ed il controllo preventivo circa la compatibilità finanziaria nonché, una volta deliberato lo svolgimento di tali prestazioni entro i tetti massimi di ore e di retribuzione, la verifica delle stesse attraverso sistemi obiettivi di controllo degli orari di servizio anche in funzione del conseguimento degli obiettivi prefissati.

In relazione alle pretese azionate con il presente ricorso, la Sezione evidenzia, come in analoghe fattispecie (ex multis, 01.02.2010, n. 26517), che le prestazioni di lavoro straordinario si caratterizzano per essere facoltative ed effettuate in aggiunta al normale orario di lavoro, come tali soggette al potere organizzatorio dell’Amministrazione datrice di lavoro (Cass. Civ., SS. UU., 25.10.1996, n. 9336); la pretesa della parte ricorrente sarebbe dunque qualificabile come diritto soggettivo solo in quanto la prestazione sia avvenuta in base ad una deliberazione autorizzativa, valida ed efficace (TAR Basilicata, 06.08.1999, n. 313) per cui, fino a quando l’Ente non esercita il potere autoritativo di scegliere se ed entro quali limiti autorizzare lo svolgimento di attività di lavoro straordinario, saranno configurabili solo delle posizioni di interesse legittimo, con relativa inammissibilità di azioni di accertamento e di condanna (TAR Basilicata, 29.10.1999, n. 553; 24.09.1999, n. 390).
In altri termini è possibile estendere al caso di specie il principio per il quale nessun compenso per ulteriori prestazioni, anche facoltative, può essere riconosciuto in assenza di una formale autorizzazione da parte del datore di lavoro, in quanto solo attraverso questa autorizzazione può essere verificata la sussistenza delle ragioni di pubblico interesse che rendono opportuno il ricorso a prestazioni lavorative eccezionali, nel rispetto dell'art. 97 Cost. (cfr. Consiglio di Stato, V, 09.03.2010, n.1370; n. 844 del 2009; IV, n. 2282 del 2007; V, 24.09.1999, n. 1147; IV, 14.02.1994, n. 139; TAR Calabria, Reggio Calabria, 26.03.2001, n. 242; 29.09.2000, n. 1531; TAR Marche, 27.10.1994, n. 292; TAR Toscana, 27.12.1994, n. 459).
Il Collegio ritiene in definitiva, con trattazione unitaria dei motivi dedotti in diritto, di aderire all’orientamento secondo il quale l’organizzazione delle prestazioni di lavoro deve avvenire attraverso la predisposizione di orari e turni, mediante la programmazione dei piani di lavoro e prescrivendo altresì la loro verifica con sistemi obiettivi di controllo degli orari di servizio, tali da assicurare che dette prestazioni siano rese in aggiunta rispetto all’orario nomale (Cons. Stato, V, 15.11.1999, n. 1911); non può neanche dedursi la violazione dell'art. 36 Cost. nella misura in cui salvaguarda il diritto alla retribuzione, atteso che risulta in ogni caso prevalente il canone dell'esigenza di buona amministrazione da cui è permeata la disciplina di settore secondo cui non è possibile prescindere dalla preventiva autorizzazione allo svolgimento di prestazioni lavorative ulteriori, o dal riconoscimento delle stesse ex post per esigenze d'ufficio, ai fini del riconoscimento del diritto del pubblico dipendente al pagamento del relativo compenso.
Con riferimento, poi, alla specifica ipotesi del lavoro straordinario prestato da dipendenti che svolgono la loro attività con modalità di turnazione, si ritiene di non discostarsi dalla prevalente giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, V, 23.01.2007, nn. 226 e 218; 01.12.2006, n. 7065; 16.10.2006, n. 6152; TAR Campania, Salerno, II, 28.06.2006, n. 872) secondo la quale coloro che, come parte ricorrente, appartengono ad una categoria di personale svolgente una prestazione lavorativa necessariamente e naturalmente articolata su turni, non hanno titolo per invocare il pagamento di prestazioni straordinarie. Solo l’Amministrazione può deliberare di retribuirle nei limiti preventivamente programmati ed autorizzati, in quanto solo ad essa spetta la valutazione ed il controllo preventivo circa la compatibilità finanziaria nonché, una volta deliberato lo svolgimento di tali prestazioni entro i tetti massimi di ore e di retribuzione, la verifica delle stesse attraverso sistemi obiettivi di controllo degli orari di servizio anche in funzione del conseguimento degli obiettivi prefissati.
Nella fattispecie parte ricorrente non ha esibito alcuna prova idonea a dimostrare una specifica determinazione dell’Amministrazione in ordine all’organizzazione, al controllo, al riconoscimento ed alla qualificazione delle prestazioni del servizio in maggiorazione di orario, difettando un’effettiva e preventiva autorizzazione ad effettuare prestazioni lavorative in eccedenza rispetto all'orario ordinario (cfr. Cons. Stato, sez. V, 06.10.2003, n. 5886 che ha confermato pronuncia di questa Sezione 02.08.1999, n. 2152; 31.12.1998, n. 1979) (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 11.01.2013 n. 275 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’opera edilizia consistente nella realizzazione di una tettoia si caratterizza secondo la giurisprudenza più recente, in termini di “nuova costruzione”, tale da necessitare di previo rilascio di titolo abilitativo.
Interventi come quelli di specie, secondo la stessa giurisprudenza, innovano infatti il preesistente immobile in quanto si perviene ad un manufatto del tutto nuovo per consistenza e materiali utilizzati, come tale non riconducibile a quello già esistente che anzi viene alterato sia dal punto di vista morfologico che funzionale: dinanzi a tali significative modificazioni si impone di conseguenza la verifica di compatibilità delle opere a mezzo della previa concessione edilizia.
Opere siffatte –nella specie peraltro di rilevanti dimensioni, dato che essa sarebbe destinata a coprire un’intera area adibita a parcheggio– sono destinate in altre parole ad essere considerate quali importanti modificazioni del territorio e dunque alla stregua di nuove costruzioni, ai sensi dell’art. 3 del DPR n. 380 del 2001, in quanto tali suscettive di titolo abilitativo.

Quanto invece alla tettoia osserva il collegio come l’opera edilizia consistente nella realizzazione di una tettoia si caratterizza secondo la giurisprudenza più recente, anche di questo TAR (sez. III, 12.03.2012, n. 1246), in termini di “nuova costruzione”, tale da necessitare di previo rilascio di titolo abilitativo.
Interventi come quelli di specie, secondo la stessa giurisprudenza, innovano infatti il preesistente immobile in quanto si perviene ad un manufatto del tutto nuovo per consistenza e materiali utilizzati, come tale non riconducibile a quello già esistente che anzi viene alterato sia dal punto di vista morfologico che funzionale: dinanzi a tali significative modificazioni si impone di conseguenza la verifica di compatibilità delle opere a mezzo della previa concessione edilizia (cfr. TAR Toscana, sez. III, 26.02.2010, n. 516; Cons. Stato, sez. VI, 09.09.2005, n. 4668).
Opere siffatte –nella specie peraltro di rilevanti dimensioni, dato che essa sarebbe destinata a coprire un’intera area adibita a parcheggio– sono destinate in altre parole ad essere considerate quali importanti modificazioni del territorio e dunque alla stregua di nuove costruzioni, ai sensi dell’art. 3 del DPR n. 380 del 2001, in quanto tali suscettive di titolo abilitativo (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 11.01.2013 n. 265 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La mancata notificazione al proprietario dell’ordine di demolizione preclude l’emanazione del provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area, stante il carattere sanzionatorio di detta misura.
- Considerato che l’ordinanza n. 67 del 27.02.2006, con la quale è stata ingiunta la demolizione delle opere abusive, oggetto di acquisizione con il provvedimento gravato in questa sede, non è stata notificata all’odierno ricorrente, in qualità di proprietario dell’area;
- Considerato che non sono stati notificati al ricorrente neanche l’ordinanza di sospensione lavori e demolizione n. 10/2006 emessa dal Parco di Veio in data 22.11.2006 e il verbale di inottemperanza all’ordinanza n. 67/2008;
- Ritenuto che la mancata notificazione al proprietario dell’ordine di demolizione preclude l’emanazione del provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area, stante il carattere sanzionatorio di detta misura ( cfr. fra le pronunce più recenti, Tar Liguria I, 31.10.2012 n. 1332; Tar Basilicata I, 17.11.2009 n. 765);
- Ritenuto pertanto che il ricorso è fondato e va accolto, con conseguente pronuncia di annullamento dell’atto impugnato (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 11.01.2013 n. 242 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto al rapporto tra la tutela dei valori paesaggistici e la pianificazione urbanistica, e relativi strumenti attuativi, si osserva che la Corte costituzionale ha affermato con giurisprudenza costante il valore “primario e assoluto” della tutela del paesaggio, con la conseguente affermazione della prevalenza dell’impronta unitaria della tutela paesaggistica sulle determinazioni urbanistiche, pur nella necessaria considerazione della compresenza degli interessi pubblici intestati alle due funzioni; ciò che è a sua volta sancito dall’art. 145 del Codice, per il cui comma 3 le previsioni dei piani paesaggistici, nei quali si integrano, come anche visto, i provvedimenti ministeriali di cui qui si tratta, “non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico, sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici…”.
L’iniziativa economica privata, altresì costituzionalmente tutelata, non può dunque essere immotivatamente compressa ma, in quanto attuata nel contesto e per mezzo della strumentazione urbanistica, deve essere correlata al rapporto di questa con i sovraordinati valori della tutela del paesaggio.

Quanto al rapporto tra la tutela dei valori paesaggistici e la pianificazione urbanistica, e relativi strumenti attuativi, si osserva che la Corte costituzionale ha affermato con giurisprudenza costante il valore “primario e assoluto” della tutela del paesaggio, con la conseguente affermazione della prevalenza dell’impronta unitaria della tutela paesaggistica sulle determinazioni urbanistiche, pur nella necessaria considerazione della compresenza degli interessi pubblici intestati alle due funzioni (sentenza n. 367 del 2007, in cui sono richiamate le precedenti in materia; sentenze n. 226 del 2009 e n. 101 del 2010); ciò che è a sua volta sancito dall’art. 145 del Codice, per il cui comma 3 le previsioni dei piani paesaggistici, nei quali si integrano, come anche visto, i provvedimenti ministeriali di cui qui si tratta, “non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico, sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici…”.
L’iniziativa economica privata, altresì costituzionalmente tutelata, non può dunque essere immotivatamente compressa ma, in quanto attuata nel contesto e per mezzo della strumentazione urbanistica, deve essere correlata al rapporto di questa con i sovraordinati valori della tutela del paesaggio (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.01.2013 n. 120 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAccessibili a tutti le carte delle gare.
Ammesso l'accesso agli atti sull'offerta tecnica dell'aggiudicatario di un appalto anche per chi non ha partecipato alla gara; prevale la legge sul procedimento amministrativo rispetto al Codice dei contratti pubblici.

È questo l'interessante principio affermato dal Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 11.01.2013 n. 110.
Nella fattispecie esaminata, una società non partecipante a una gara di appalto aveva instaurato un giudizio tendente a contestare gli atti di gara chiedendo l'annullamento della procedura di gara e riservandosi la facoltà di presentare motivi aggiunti una volta esaminati i documenti richiesti (offerta dell'aggiudicatario provvisorio).
In primo grado il Tar Lazio (sentenza n. 4081/2011) aveva rigettato (con silenzio-rifiuto) la domanda di accesso sostenendo, fra le altre cose, che la disciplina del codice dei contratti pubblici (articolo 13) , pur rinviando alla legge 241/1990, ammette l'accesso soltanto al concorrente che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei propri interessi, mentre la società non aveva assunto un ruolo da partecipante. Il Consiglio di stato ribalta la sentenza di primo grado e ritiene che l'articolo 13, comma 6, del Codice contenga specifiche previsioni in materia di accesso ai documenti di gara che, però, non possono essere tali da impedire la tutela generalizzata sul buon esito del procedimento garantita dalla legge sul procedimento amministrativo.
In particolare, secondo i giudici, lo stesso articolo 13, nel richiamare la legge 241, rende applicabile alla disciplina degli appalti pubblici anche l'articolo 24 della normativa del 1990, per il quale spetta ai richiedenti l'accesso ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici. E, al di là di quanto disciplinato dal Codice dei contratti pubblici, dice la sentenza, non può non riconoscersi che «con la tutela del diritto di accesso il legislatore ha voluto assicurare all'amministrato la trasparenza dell'attività della pubblica amministrazione, indipendentemente dall'effettiva lesione di una determinata situazione di diritto soggettivo o di interesse legittimo».
In altre parole, quindi, prevale l'interesse generale stabilito dalle disciplina della legge 241 in quanto è il complessivo interesse alla trasparenza dell'azione amministrativa a dovere prevalere sugli specifici interessi soggettivi. Ancorché disciplina «speciale», quella del Codice, deve ritenersi quindi recessiva rispetto a quella generale (articolo ItaliaOggi del 16.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di una domanda di sanatoria comporta l’inefficacia degli atti sanzionatori impugnati (ordini di demolizione, inibitorie, ordini di sospensione dei lavori), in quanto il comune è tenuto ad effettuare una nuova valutazione della situazione e determina l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse.
Rilevato che la presentazione di una domanda di sanatoria comporta l’inefficacia degli atti sanzionatori impugnati (ordini di demolizione, inibitorie, ordini di sospensione dei lavori), in quanto il comune è tenuto ad effettuare una nuova valutazione della situazione e determina l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 31.10.2012 n. 5553 e 29.12.2009 n. 8935; Sez. II, 11.07.2007 n. 624/05) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 11.01.2013 n. 65 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’interesse pubblico alla rimozione dell’illecito edilizio è in re ipsa e non può ammettersi nessun legittimo affidamento alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può avere legittimato, con la conseguenza che, ove sussistano i presupposti per l’adozione del provvedimento di demolizione, il detto provvedimento costituisce atto dovuto.
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Pure da confutare è la tesi secondo cui l’esistenza di un sequestro penale sul manufatto abusivo è d’ostacolo all’adozione dell’ordinanza di demolizione, ben potendo il destinatario chiedere al giudice penale il dissequestro del cantiere proprio al fine di ottemperare alla prescrizione demolitoria.
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L’ingiunzione di demolizione non deve necessariamente contenere anche la descrizione precisa dell’area di sedime che potrebbe essere confiscata in caso di mancata spontanea esecuzione da parte dell'autore dell’abuso, trattandosi evidentemente di elemento afferente all’eventuale successiva ordinanza di acquisizione gratuita.
A ciò si aggiunga che l’acquisizione gratuita, quale sanzione autonoma conseguente all’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, non affranca da responsabilità il proprietario dell’area, qualora risulti che egli abbia acquistato o riacquistato la disponibilità del bene e non si sia attivato per dare esecuzione all’ordine di demolizione, o qualora emerga che, pur essendo in grado di dare esecuzione all’ingiunzione, non vi abbia comunque provveduto.

Occorre premettere che per le opere in contestazione, che vanno valutate nella loro unitarietà, costituendo nell’insieme un complesso immobiliare sorto a beneficio di attività imprenditoriali già insistenti sull’area, non risulta rilasciato alcun provvedimento edilizio assentivo, tant’è che è lo stesso ricorrente ad invocare il proprio “affidamento sulla legittimità della situazione”, risalente a numerosi anni addietro.
Tuttavia, per pacifica giurisprudenza, l’interesse pubblico alla rimozione dell’illecito edilizio è in re ipsa e non può ammettersi nessun legittimo affidamento alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può avere legittimato, con la conseguenza che, ove sussistano i presupposti per l’adozione del provvedimento di demolizione, il detto provvedimento costituisce atto dovuto (cfr. C.G.A. 09.02.2012 n. 140).
Pure da confutare è la tesi secondo cui l’esistenza di un sequestro penale sul manufatto abusivo è d’ostacolo all’adozione dell’ordinanza di demolizione, ben potendo il destinatario chiedere al giudice penale il dissequestro del cantiere proprio al fine di ottemperare alla prescrizione demolitoria (cfr. TAR Puglia, Bari, Sez. III, 10.03.2011 n. 429).
Restano quindi da valutare le doglianze concernenti la comminazione della sanzione di acquisizione gratuita delle opere al patrimonio comunale, in caso di inottemperanza alla demolizione.
In proposito, si lamenta in ricorso per un verso l’assenza, nell’ordinanza demolitoria, di riferimenti idonei ad individuare con esattezza l’area da eventualmente acquisire e, per altro verso, la non elevabilità della sanzione in danno del proprietario del fondo, in difetto di ogni responsabilità da parte sua rispetto alla realizzazione dell’abuso.
E però, quanto al primo profilo, va rilevato che l’ingiunzione di demolizione non deve necessariamente contenere anche la descrizione precisa dell’area di sedime che potrebbe essere confiscata in caso di mancata spontanea esecuzione da parte dell'autore dell’abuso, trattandosi evidentemente di elemento afferente all’eventuale successiva ordinanza di acquisizione gratuita (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. II, 20.04.2009 n. 2035).
A ciò si aggiunga che, diversamente da quanto sostenuto in ricorso, l’acquisizione gratuita, quale sanzione autonoma conseguente all’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, non affranca da responsabilità il proprietario dell’area, qualora risulti che egli abbia acquistato o riacquistato la disponibilità del bene e non si sia attivato per dare esecuzione all’ordine di demolizione, o qualora emerga che, pur essendo in grado di dare esecuzione all’ingiunzione, non vi abbia comunque provveduto (cfr. TAR Lazio, Sez. I-quater, 28.12.2011 n. 10254) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 11.01.2013 n. 64 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di un’istanza di condono o di sanatoria edilizia successivamente all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione e dell’accertamento di inottemperanza produce l’effetto di rendere inefficace tali provvedimenti e, quindi, improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto la nuova valutazione provocata dall’istanza comporterà la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare i provvedimenti oggetto dell’impugnativa, in tal modo spostandosi l’interesse del responsabile dell’abuso edilizio dall’annullamento del provvedimento già adottato all’eventuale annullamento del provvedimento di rigetto.
Invero, la presentazione di un’istanza di condono o di sanatoria edilizia successivamente all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione e dell’accertamento di inottemperanza produce l’effetto di rendere inefficace tali provvedimenti e, quindi, improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto la nuova valutazione provocata dall’istanza comporterà la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare i provvedimenti oggetto dell’impugnativa, in tal modo spostandosi l’interesse del responsabile dell’abuso edilizio dall’annullamento del provvedimento già adottato all’eventuale annullamento del provvedimento di rigetto (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 31.10.2012 n. 5553 e 29.12.2009 n. 8935; Sez. II, 11.07.2007 n. 624/2005; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 07.11.2008 n. 19341) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 11.01.2013 n. 62 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Presupposto legittimante la domanda di risarcimento del danno da c.d. occupazione espropriativa è che il bene irreversibilmente trasformato nell’ambito di una procedura ablativa non abbia mai costituito oggetto di un decreto di esproprio.
Infatti, l’esistenza di un decreto di esproprio preclude al proprietario ogni pretesa di carattere risarcitorio e gli consente di ristorarsi solo mediante l’indennizzo determinato nelle forme di legge, sindacabile tramite giudizio di opposizione alla stima, da proporsi dinanzi alla Corte d’appello competente per territorio.

Presupposto legittimante la domanda di risarcimento del danno da c.d. occupazione espropriativa è che il bene irreversibilmente trasformato nell’ambito di una procedura ablativa non abbia mai costituito oggetto di un decreto di esproprio.
Infatti, l’esistenza di un decreto di esproprio preclude al proprietario ogni pretesa di carattere risarcitorio e gli consente di ristorarsi solo mediante l’indennizzo determinato nelle forme di legge, sindacabile tramite giudizio di opposizione alla stima, da proporsi dinanzi alla Corte d’appello competente per territorio.
Per contro, nella fattispecie in esame risulta che, in relazione al fondo della ricorrente, il comune di Vallata ha adottato il decreto di esproprio 14.05.2009 n. 18, formalmente comunicato il 12.06.2009.
Ciò rende inammissibile il ricorso per risarcimento del danno.
Né può valere in senso contrario la richiesta, tuzioristicamente effettuata nelle sole conclusioni del ricorso, di “previo annullamento del decreto di espropriazione innanzi analiticamente indicato”.
Tale domanda, infatti, va ritenuta tamquam non esset, in mancanza dei requisiti essenziali della stessa, in primis la prospettazione delle specifiche censure di legittimità da cui l’atto sarebbe affetto (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 11.01.2013 n. 59 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’aggiudicazione provvisoria costituisce un mero atto endoprocedimentale, la cui autonoma impugnabilità è condizionata, ai fini della sua procedibilità, dalla tempestiva impugnazione con motivi aggiunti anche dell’aggiudicazione definitiva che successivamente intervenga.
La ricorrente Philips ha impugnato, con l'atto introduttivo del giudizio, la comunicazione di aggiudicazione ricevuta in data 13.08.2012, comunicazione con la quale la ricorrente è stata informata dell'avvenuta aggiudicazione provvisoria a Siemens.
Philips s.p.a. ha poi impugnato, con motivi aggiunti notificati in data 14.12.2012, la delibera di aggiudicazione definitiva. Secondo una giurisprudenza pacifica, l’aggiudicazione provvisoria costituisce un mero atto endoprocedimentale, la cui autonoma impugnabilità è condizionata, ai fini della sua procedibilità, dalla tempestiva impugnazione con motivi aggiunti anche dell’aggiudicazione definitiva che successivamente intervenga (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 27.04.2011, n. 2482; sez. V, 26.11.2008, n. 5485; sez. VI, 18.03.2003, n. 1417 e, da ultimo, Ad. Plen. 31.07.2012 n. 31).
L’art. 10 del Disciplinare di Gara (Norme Finali), prevedeva che "La comunicazione di cui all'art. 11, comma 10, d.lgs. 163/2006 si intende effettuata ad ogni effetto di legge mediante la pubblicazione del relativo provvedimento d'aggiudicazione definitiva sull'albo pretorio di quest'Azienda e sul sito internet il cui indirizzo è: www.aziendaospedalieracosenza.it”.
Nel caso di specie l'aggiudicazione definitiva è intervenuta con deliberazione del Direttore Generale n. 820 in data 13.08.2012, pubblicata sul sito Internet dell’Azienda il 20.08.2012, mentre i motivi aggiunti sono stati notificati il 14.12.2012, quindi, ben oltre il termine previsto in materia di appalti dall’art. 120 c.p.a.
Il ricorso è improcedibile, quanto alla impugnazione rivolta contro l'aggiudicazione provvisoria (per effetto dell'intervenuta aggiudicazione definitiva) e irricevibile quanto alla impugnazione rivolta contro l'aggiudicazione definitiva, poiché tardivo (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 11.01.2013 n. 52 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Si ha ristrutturazione edilizia solo in caso di preesistenza di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, e non anche nelle ipotesi di ricostruzione su ruderi.
Ciò comporta, come riconosciuto da unanime giurisprudenza, sia amministrativa sia del giudice penale, che la ricostruzione su ruderi, o su di un edificio da tempo demolito, costituisce nuova costruzione e, quindi, richiede un'apposita concessione edilizia o il titolo corrispondente secondo la vigente normativa.

Appare, peraltro, opportuno ricordare, anche alla luce di quanto emerge dagli atti di causa, che si ha ristrutturazione edilizia solo in caso di preesistenza di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, e non anche nelle ipotesi di ricostruzione su ruderi.
Ciò comporta, come riconosciuto da unanime giurisprudenza, sia amministrativa sia del giudice penale (CdS IV 1669/2007; Sez. V, 15.04.2004 n. 2142; TAR Liguria, Sez. I, 24.01.2002 n. 53; Consiglio di Stato, Sez. V, 01.12.1991 n. 2021; Cass. penale, Sez. III, 20.02.2001, n. 658; id. 20.02.2001 n. 13982; 45240/07), che la ricostruzione su ruderi, o su di un edificio da tempo demolito, costituisce nuova costruzione e, quindi, richiede un'apposita concessione edilizia o il titolo corrispondente secondo la vigente normativa (cfr. anche, più di recente, Tar Toscana, 437/2012).
Come già osservato, peraltro, la ricorrente non ha fornito neanche un principio di prova della preesistenza delle opere, oggetto della presunta manutenzione straordinaria, confermando così la legittimità dell’ingiunzione di demolizione di interventi edilizi recenti e privi di titolo edilizio (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 11.01.2013 n. 52 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La ricostruzione su ruderi o su di un edificio da tempo demolito costituisce nuova costruzione e non certo restauro conservativo o manutenzione straordinaria.
Inoltre, la giurisprudenza, dalla quale il Collegio non trova ragioni per discostarsi, è da tempo consolidata nel ritenere che la ricostruzione su ruderi o su di un edificio da tempo demolito (perché di questo presumibilmente si tratta nel caso in oggetto) costituisce nuova costruzione e non certo restauro conservativo o manutenzione straordinaria (cfr. CdS IV 1669/07; Sez. V, 15.04.2004 n. 2142; TAR Liguria, Sez. I, 24.01.2002 n. 53; Consiglio di Stato, Sez. V, 01.12.1991 n. 2021; Cass. penale, Sez. III, 20.02.2001, n. 658; id. 20.02.2001 n. 13982; 45240/07) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 11.01.2013 n. 51 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La questione centrale posta dall’odierno ricorso è stabilire se la realizzazione di un vano tecnico possa rientrare tra i cosiddetti “abusi minori” per i quali è ammissibile la relativa sanatoria ai sensi del combinato disposto degli artt. 146, comma 4 e 167, comma 4, del decreto legislativo n. 42 del 2004, e dell’art. 181, comma 1-ter, avente lo stesso contenuto del citato art. 167, comma 4, articoli questi ultimi disciplinanti, rispettivamente, le sanzioni amministrative e le sanzioni penali.
In punto di diritto l’art. 146, comma 4, del decreto legislativo n. 42 del 2004 esclude dal divieto di rilasciare ex post l’autorizzazione paesaggistica -che, sempre ai sensi dell’art. 146, comma 4, costituisce atto presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio, ivi compresi quelli in sanatoria- i casi previsti dall’articolo 167, comma 4, del medesimo decreto legislativo n. 42 del 2004 e costituiti oltre che dall’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica e dai lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria proprio dai “lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Al riguardo il Collegio ritiene che l’interpretazione teleologica induce inevitabilmente a ritenere che, nonostante l’utilizzo della particella disgiuntiva “o” nella frase “che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi”, il duplice riferimento alle nuove superfici utili e ai nuovi volumi costituisca un’endiadi, ossia una modalità di esprimere un concetto unitario con due termini coordinati.
In altri termini, la necessità di interpretare le eccezioni al divieto di rilasciare l'autorizzazione paesistica in sanatoria (previste dall'articolo 167, comma 4, del decreto legislativo n. 42 del 2004) in coerenza con la ratio dell'introduzione di tale divieto, induce il Collegio a ritenere, confermando l’orientamento di questa Sezione dal quale non si ha motivo di discostarsi che esulino dalla eccezione prevista dall'articolo 167, comma 4, lettera a), gli interventi che abbiano contestualmente determinato la realizzazione di nuove superfici utili e di nuovi volumi e che, di converso, siano suscettibili di accertamento della compatibilità paesistica anche i soppalchi, i volumi interrati ed i volumi tecnici atteso che i volumi tecnici, proprio in ragione dei caratteri che li contraddistinguono, trattandosi di opera priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale che non risultano particolarmente pregiudizievole per il territorio, sono inidonei ad introdurre un impatto sul territorio eccedente la costruzione principale.
Alla luce di quanto sopra esposto, passando ad analizzare la fattispecie oggetto di gravame, il Collegio, considerato che l’intervento abusivo consiste in un “vano tecnologico”, ritiene che esso sia astrattamente sanabile ai sensi dell’articolo 167, comma 4, del decreto legislativo n. 42 del 2004; che conseguentemente la Soprintendenza avrebbe dovuto esprimere il giudizio di sua competenza valutando l’effettiva incidenza dell’opera assentita dall’organo comunale sui valori paesaggistici.

... per l'annullamento:
- della nota della Soprintendenza per i Beni Ambientali, Architettonici, Artistici e Storici della Puglia, prot. n. 1332 del 25.03.2008, tramite la quale la Soprintendenza ha espresso parere contrario di compatibilità paesaggistica giusto art. 181, comma 1-ter, del D.lvo n. 42 del 2004, in relazione al progetto di sanatoria per “la realizzazione di lavori sull’immobile sito in Vico del Gargano alla via Laganella n. 31”;
- della nota prot. n. 3312 del 04.04.2008, notificata il successivo 6 aprile, con la quale l’Ufficio Tecnico III Settore del Comune di Vico del Gargano ha denegato il permesso di costruire relativo alla costruzione dell’intervento di cui al punto precedente;
...
Premesso che nella fattispecie oggetto di gravame è pacifico in atti che l’intervento abusivo consiste in un “vano tecnologico”, in quanto espressamente riconosciuto come tale anche dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio per le Province di Bari e Foggia nella relazione illustrativa prot. n. 5212 del 10.07.2008, depositata in giudizio dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato in data 16.07.2008, la questione centrale posta dall’odierno ricorso è stabilire se la realizzazione di un vano tecnico possa rientrare tra i cosiddetti “abusi minori” per i quali è ammissibile la relativa sanatoria ai sensi del combinato disposto degli artt. 146, comma 4 e 167, comma 4, del decreto legislativo n. 42 del 2004, e dell’art. 181, comma 1-ter, avente lo stesso contenuto del citato art. 167, comma 4, articoli questi ultimi disciplinanti, rispettivamente, le sanzioni amministrative e le sanzioni penali.
In punto di diritto l’art. 146, comma 4, del decreto legislativo n. 42 del 2004 esclude dal divieto di rilasciare ex post l’autorizzazione paesaggistica -che, sempre ai sensi dell’art. 146, comma 4, costituisce atto presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio, ivi compresi quelli in sanatoria- i casi previsti dall’articolo 167, comma 4, del medesimo decreto legislativo n. 42 del 2004 e costituiti oltre che dall’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica e dai lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria proprio dai “lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Al riguardo il Collegio ritiene che l’interpretazione teleologica induce inevitabilmente a ritenere che, nonostante l’utilizzo della particella disgiuntiva “o” nella frase “che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi”, il duplice riferimento alle nuove superfici utili e ai nuovi volumi costituisca un’endiadi, ossia una modalità di esprimere un concetto unitario con due termini coordinati (cfr. in senso conforme TAR Campania Napoli, Sezione VII, 01.09.2011).
In altri termini, la necessità di interpretare le eccezioni al divieto di rilasciare l'autorizzazione paesistica in sanatoria (previste dall'articolo 167, comma 4, del decreto legislativo n. 42 del 2004) in coerenza con la ratio dell'introduzione di tale divieto, induce il Collegio a ritenere, confermando l’orientamento di questa Sezione dal quale non si ha motivo di discostarsi (cfr. TAR Bari, Sezione III, 30.10.2012, n. 1859) che esulino dalla eccezione prevista dall'articolo 167, comma 4, lettera a), gli interventi che abbiano contestualmente determinato la realizzazione di nuove superfici utili e di nuovi volumi e che, di converso, siano suscettibili di accertamento della compatibilità paesistica anche i soppalchi, i volumi interrati ed i volumi tecnici atteso che i volumi tecnici, proprio in ragione dei caratteri che li contraddistinguono, trattandosi di opera priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale che non risultano particolarmente pregiudizievole per il territorio, sono inidonei ad introdurre un impatto sul territorio eccedente la costruzione principale (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. VII, 15.12.2010, n. 27380).
Alla luce di quanto sopra esposto, passando ad analizzare la fattispecie oggetto di gravame, il Collegio, considerato che l’intervento abusivo consiste in un “vano tecnologico”, ritiene che esso sia astrattamente sanabile ai sensi dell’articolo 167, comma 4, del decreto legislativo n. 42 del 2004; che conseguentemente la Soprintendenza avrebbe dovuto esprimere il giudizio di sua competenza valutando l’effettiva incidenza dell’opera assentita dall’organo comunale sui valori paesaggistici.
Conclusivamente, per i suesposti motivi, il ricorso deve essere accolto e, conseguentemente, devono essere annullati i provvedimenti impugnati (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 11.01.2013 n. 35 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’accertamento dell’inottemperanza è atto dovuto, che consegue al mero decorso del termine di 90 giorni per dare esecuzione all’ordinanza di demolizione.
Pertanto, una volta dimostrato che la titolare dell’abuso era a conoscenza dell’obbligo di demolire quanto contestato dall’Amministrazione e non vi si è opposta, qualsiasi censura avverso il successivo provvedimento non ha ragione di essere accolta se non per vizi propri.

Il Comune ha infatti prodotto copia dell’ordinanza di demolizione n. 145/2010, a suo tempo notificata alla ricorrente Testa Giuseppa Sabrina in data 19.08.2010 e che non risulta impugnata, sicché essa ormai è divenuta definitiva.
Di conseguenza, è del tutto infondato l’assunto della ricorrente laddove afferma che la mancata notifica dell’ordine di demolizione renderebbe illegittimo l’accertamento, successivo, della inottemperanza allo stesso.
Per giurisprudenza costante, l’accertamento dell’inottemperanza è atto dovuto, che consegue al mero decorso del termine di 90 giorni per dare esecuzione all’ordinanza di demolizione.
Pertanto, una volta dimostrato che la titolare dell’abuso era a conoscenza dell’obbligo di demolire quanto contestato dall’Amministrazione e non vi si è opposta, qualsiasi censura avverso il successivo provvedimento non ha ragione di essere accolta se non per vizi propri (inesistenti nel caso di specie) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 11.01.2013 n. 34 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento di rigetto dell'istanza di concessione edilizia in sanatoria non deve essere preceduto dall'avviso dell'inizio del procedimento, essendo questo iniziato ad istanza di parte.
Inoltre, nemmeno i provvedimenti repressivi di abusi edilizi devono essere preceduti dall'avviso dell'inizio del procedimento, trattandosi di procedimenti tipizzati e vincolati e considerato che i provvedimenti sanzionatori presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate, nonché sul carattere non assentito delle medesime.

Con riferimento al secondo motivo di ricorso (violazione delle norme sul procedimento amministrativo - art. 7 L. 241/1990) deve intanto osservarsi che per consolidata giurisprudenza amministrativa il provvedimento di rigetto dell'istanza di concessione edilizia in sanatoria non deve essere preceduto dall'avviso dell'inizio del procedimento, essendo questo iniziato ad istanza di parte (TAR Campania, sez. IV, 24.07.2001, n. 3540; 19.03.2002, n. 1433, 17.06.2002, n. 3611; 20.02.2003, n. 1021, 20.10.2003, n. 12924; TAR Sicilia, sez. II, 13.03.2007, n. 791).
Inoltre, costituisce altrettanto principio pacifico che nemmeno i provvedimenti repressivi di abusi edilizi devono essere preceduti dall'avviso dell'inizio del procedimento, trattandosi di procedimenti tipizzati e vincolati e considerato che i provvedimenti sanzionatori presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate, nonché sul carattere non assentito delle medesime (Cons. Stato, sez. IV, 30.03.2000, n. 1814; TAR Campania, sez. IV, 28.03.2001, n. 1404, 14.06.2002, n. 3499, 12.02.2003, n. 797; TAR Sicilia, Catania sez. III, 03.03.2003, n. 374; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 20.04.2005, n. 577, 20.03.2006, n. 608; sez. II, 27.03.2007, n. 979, 06.06.2007, n. 1617) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 11.01.2013 n. 26 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Nell'ambito del procedimento di concorso, i titoli che il candidato intende sottoporre alla valutazione della commissione esaminatrice, onde ottenerne l'attribuzione del relativo punteggio, rientrano nella sua piena disponibilità, di modo che non possono essere attribuiti al candidato punteggi per titoli non allegati, anche se afferenti ad attività svolte presso la medesima Amministrazione che ha indetto il concorso, né titoli il cui possesso è indicato, ma non documentato, a fronte di una prescrizione del bando che preveda un onere di allegazione documentale a carico del candidato; e ciò a maggior ragione se si considera che la commissione esaminatrice non è organo ordinario dell'Amministrazione di modo che, facendo parte della sua stabile organizzazione, potrebbe essere intesa come depositaria dei relativi documenti, bensì organo straordinario, cui compete solo di sovrintendere alle prove, valutare le stesse e, nei concorsi che prevedono anche titoli valutabili, attribuire i punteggi a questi ultimi, secondo criteri predefiniti.
Infatti, laddove il bando di concorso preveda obbligatoriamente a carico dei candidati l'onere di allegazione di tutti quei documenti scientifici e di carriera che il candidato ritenga opportuno presentare agli effetti della valutazione di merito e della formazione della graduatoria, deve escludersi la possibilità di configurare in capo alla commissione esaminatrice un'attività istruttoria diretta all'acquisizione dei titoli, che l'interessato ha dichiarato di possedere, perché a tutela della «par condicio» tra i concorrenti di un pubblico concorso possono essere valutati i soli titoli prodotti dagli interessati entro il termine di presentazione della domanda stabilito dal bando.

Sul punto, la giurisprudenza amministrativa è coerente nel sostenere che nell'ambito del procedimento di concorso, i titoli che il candidato intende sottoporre alla valutazione della commissione esaminatrice, onde ottenerne l'attribuzione del relativo punteggio, rientrano nella sua piena disponibilità, di modo che non possono essere attribuiti al candidato punteggi per titoli non allegati, anche se afferenti ad attività svolte presso la medesima Amministrazione che ha indetto il concorso, né titoli il cui possesso è indicato, ma non documentato, a fronte di una prescrizione del bando che preveda un onere di allegazione documentale a carico del candidato; e ciò a maggior ragione se si considera che la commissione esaminatrice non è organo ordinario dell'Amministrazione di modo che, facendo parte della sua stabile organizzazione, potrebbe essere intesa come depositaria dei relativi documenti, bensì organo straordinario, cui compete solo di sovrintendere alle prove, valutare le stesse e, nei concorsi che prevedono anche titoli valutabili, attribuire i punteggi a questi ultimi, secondo criteri predefiniti (ex multis, Cons. St., sez. IV, 16.06.2011, n. 3659; TAR Lazio, sez. I, 11.04.2011, n. 3166).
Infatti, laddove il bando di concorso preveda obbligatoriamente a carico dei candidati l'onere di allegazione di tutti quei documenti scientifici e di carriera che il candidato ritenga opportuno presentare agli effetti della valutazione di merito e della formazione della graduatoria, deve escludersi la possibilità di configurare in capo alla commissione esaminatrice un'attività istruttoria diretta all'acquisizione dei titoli, che l'interessato ha dichiarato di possedere, perché a tutela della «par condicio» tra i concorrenti di un pubblico concorso possono essere valutati i soli titoli prodotti dagli interessati entro il termine di presentazione della domanda stabilito dal bando (TAR Lazio, sez. III, 11.09.2008, n. 8266) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 11.01.2013 n. 21- link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI: Laddove un ricorso non è sia stato notificato all’Amministrazione in persona del Sindaco quale legale rappresentante dell’Ente bensì soltanto al dirigente, va preliminarmente esclusa la legittimazione passiva del responsabile del procedimento, in quanto l'atto impugnato è imputabile al Comune intimato, rappresentato in sede processuale dal sindaco pro tempore; di conseguenza va estromesso dal processo il responsabile dell'ufficio tecnico urbanistico comunale.
Invero, il ricorso è inammissibile non essendo stata ritualmente intimata l’amministrazione comunale poiché il ricorso non risulta notificato alla stessa in persona del Sindaco pro tempore che è l’organo che rappresenta l'Ente in giudizio ai sensi dell’art. 50, co. 2, del d.lgs. 18.08.2000 n. 262, che riproduce l'art. 36, co. 1, della legge 08.06.1990 n. 142.
E’, infatti, irrituale la notifica del ricorso non effettuata al Comune in persona del Sindaco pro tempore bensì al dirigente, in quanto, anche se quest'ultimo è competente ad emanare i provvedimenti, che attengono alla specifica materia e settore, l'attività in tal senso svolta è sempre complessivamente riferibile all'amministrazione comunale, a capo della quale si colloca il Sindaco, nella sua qualità di legale rappresentante dell'ente munito di legittimazione passiva.
Del resto il riconosciuto eventuale potere dei dirigenti di promuovere o resistere alle liti riguarda la loro legittimazione processuale e non già la rappresentanza dell'Ente, che è l'elemento rilevante in materia di notifica degli atti.

Il ricorrente ha adito il Tar per ottenere l’annullamento del parziale diniego di accesso ai documenti amministrativi richiesti.
Il ricorso non è stato notificato all’Amministrazione in persona del Sindaco quale legale rappresentante dell’Ente bensì soltanto al dirigente ed al difensore civico.
Si è costituito in giudizio il solo dirigente intimato.
All’odierna camera di consiglio la causa è stata trattenuta in decisione.
Va preliminarmente esclusa la legittimazione passiva del responsabile del procedimento, in quanto l'atto impugnato è imputabile al Comune intimato, rappresentato in sede processuale dal sindaco pro tempore; di conseguenza va estromesso dal processo il responsabile dell'ufficio tecnico urbanistico comunale (TAR Catanzaro Calabria, sez. II, 13.12.2011).
Ciò premesso il ricorso è inammissibile non essendo stata ritualmente intimata l’amministrazione comunale poiché il ricorso non risulta notificato alla stessa in persona del Sindaco pro tempore che è l’organo che rappresenta l'Ente in giudizio ai sensi dell’art. 50, co. 2, del d.lgs. 18.08.2000 n. 262, che riproduce l'art. 36, co. 1, della legge 08.06.1990 n. 142 (Consiglio di Stato sez. V, 18.10.2011, n. 5584; Consiglio Stato sez. V, 21.01.2009, n. 280).
E’, infatti, irrituale la notifica del ricorso non effettuata al Comune in persona del Sindaco pro tempore bensì al dirigente, in quanto, anche se quest'ultimo è competente ad emanare i provvedimenti, che attengono alla specifica materia e settore, l'attività in tal senso svolta è sempre complessivamente riferibile all'amministrazione comunale, a capo della quale si colloca il Sindaco, nella sua qualità di legale rappresentante dell'ente munito di legittimazione passiva (cfr. Consiglio di Stato, Sezione V, 25.01.2005, n. 155; TAR Sicilia, Palermo, Sezione II, 13.03.2007 n. 799; Sezione III, 06.06.2005 n. 954 e 11.07.2005 n. 1198; TAR Marche, 20.01.2003 n. 8; TAR Basilicata, 03.02.2004 n. 50; TAR Lazio, Sezione II, 08.09.2005, n. 6664).
Del resto il riconosciuto eventuale potere dei dirigenti di promuovere o resistere alle liti riguarda la loro legittimazione processuale e non già la rappresentanza dell'Ente, che è l'elemento rilevante in materia di notifica degli atti (Consiglio Stato, sez. V, 25.01.2005, n. 155) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 11.01.2013 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In base all’art. 7, comma 1, della l. 241/1990 può derogarsi all’obbligo della comunicazione di avvio del procedimento solo per ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, che devono essere esternate mediante motivazione idonea a dimostrare che a causa dell’adempimento dell’obbligo di comunicazione potrebbe essere compromesso il soddisfacimento dell’interesse pubblico cui il provvedimento è rivolto.
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L’art. 7 della l. n. 241/1990 dispone la comunicazione dell’avvio del procedimento ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento stesso.
La giurisprudenza ha precisato che esse ragioni, che devono essere “qualificate” solo in caso di adozione di provvedimenti contingibili ed urgenti, debbano essere adeguatamente e puntualmente esplicitate nella motivazione del provvedimento in concreto adottato.

Con il primo motivo di appello è stato dedotto che il Giudice di primo grado non ha ritenuto fondata la censura relativa alla mancata comunicazione di avvio del procedimento prima della adozione delle deliberazioni comunali di revoca della convenzione in atto con la attuale appellante erroneamente ritenendo che sussistessero ragioni di urgenza, consistenti nella incuria del verde, giustificanti l’omissione delle garanzie di cui agli artt. 3, 7 e 10 della l. n. 241/1990.
Invero in base all’art. 7, comma 1, della legge sopra citata può derogarsi all’obbligo della comunicazione suddetta solo per ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, che devono essere esternate mediante motivazione idonea a dimostrare che a causa dell’adempimento dell’obbligo di comunicazione potrebbe essere compromesso il soddisfacimento dell’interesse pubblico cui il provvedimento è rivolto.
Nel caso che occupa la motivazione, indicata nella mera “incuria del verde”, sarebbe da considerare inadeguata, tenuto conto sia del fatto che non è sufficiente la sussistenza di una qualsiasi urgenza, che deve essere “qualificata” (cioè riferita a casi eccezionali), sia della gravità degli effetti del provvedimento impugnato e sia della circostanza che la attuale appellante se le fosse stato comunicato l’avvio del procedimento avrebbe avuto la possibilità di controdedurre al riguardo, evidenziando che non sussisteva alcuna ragione di gravità ed urgenza tale da giustificare la omissione di detta comunicazione perché il Comune avrebbe potuto, in caso di effettivo pericolo di incendio derivante dall’incuria del verde, comunque intervenire senza problemi.
La insussistenza di ragioni di urgenza sarebbe dimostrata anche dalla circostanza che con la deliberazione n. 12 del 10.6.2008 del Consiglio Comunale di Bivongi era stato dato mandato al Sindaco di prendere preventivamente contatti con l’Arcidiocesi Ortodossa al fine di pervenire ad una nuova intesa e non di procedere alla frettolosa sostituzione di essa Arcidiocesi nella direzione della Basilica oggetto della pregressa convenzione di concessione in uso.
Tanto sarebbe stato ignorato dal Giudice di prime cure, che non avrebbe nemmeno considerato che detta deliberazione non è stata mai notificata, né altrimenti comunicata alla Arcidiocesi appellante, con comportamento lesivo delle regole di buona fede che devono caratterizzare i rapporti negoziali e contrario alle effettive intenzioni del Consiglio Comunale.
La Sezione osserva che l’art. 7 della l. n. 241/1990 dispone la comunicazione dell’avvio del procedimento ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento stesso.
La giurisprudenza ha precisato che esse ragioni, che devono essere “qualificate” solo in caso di adozione di provvedimenti contingibili ed urgenti, debbano essere adeguatamente e puntualmente esplicitate nella motivazione del provvedimento in concreto adottato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.01.2013 n. 91 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Alle Regioni ed ai Comuni è consentito -nell’ambito delle proprie e rispettive competenze- individuare criteri localizzativi degli impianti di telefonia mobile (anche espressi sotto forma di divieto) quali ad esempio il divieto di collocare antenne su specifici edifici (ospedali, case di cura ecc.) mentre non è loro consentito introdurre limitazioni alla localizzazione, consistenti in criteri distanziali generici ed eterogenei (prescrizione di distanze minime, da rispettare nell’installazione degli impianti, dal perimetro esterno di edifici destinati ad abitazioni, a luoghi di lavoro o ad attività diverse da quelle specificamente connesse all’esercizio degli impianti stessi, di ospedali, case di cura e di riposo, edifici adibiti al culto, scuole ed asili nido nonché di immobili vincolati ai sensi della legislazione sui beni storico-artistici o individuati come edifici di pregio storico-architettonico, di parchi pubblici, parchi gioco, aree verdi attrezzate ed impianti sportivi).
Ne deriva che la scelta di individuare, come nel caso di specie, un’area ove collocare gli impianti in base al criterio della massima distanza possibile dal centro abitato non può ritenersi condivisibile, costituendo un limite alla localizzazione (non consentito) e non un criterio di localizzazione (consentito).
A ciò deve aggiungersi che la potestà attribuita all’amministrazione comunale di individuare aree dove collocare gli impianti è condizionata dal fatto che l’esercizio di tale facoltà deve essere rivolto alla realizzazione di una rete completa di infrastrutture di telecomunicazioni, tale da non pregiudicare, come ritenuto dalla giurisprudenza, l’interesse nazionale alla copertura del territorio e all’efficiente distribuzione del servizio.

Nel merito, il Collegio osserva che i criteri con cui procedere all’individuazione dei siti dove collocare gli impianti di telefonia mobile sono stati già oggetto di decisione del Consiglio di Stato (Sez. VI, 09.06.2006, n. 3452), da cui il Collegio non ravvisa motivate ragioni per discostarsi.
In base a tali indirizzi giurisprudenziali è stato ritenuto che alle Regioni ed ai Comuni è consentito -nell’ambito delle proprie e rispettive competenze- individuare criteri localizzativi degli impianti di telefonia mobile (anche espressi sotto forma di divieto) quali ad esempio il divieto di collocare antenne su specifici edifici (ospedali, case di cura ecc.) mentre non è loro consentito introdurre limitazioni alla localizzazione, consistenti in criteri distanziali generici ed eterogenei (prescrizione di distanze minime, da rispettare nell’installazione degli impianti, dal perimetro esterno di edifici destinati ad abitazioni, a luoghi di lavoro o ad attività diverse da quelle specificamente connesse all’esercizio degli impianti stessi, di ospedali, case di cura e di riposo, edifici adibiti al culto, scuole ed asili nido nonché di immobili vincolati ai sensi della legislazione sui beni storico-artistici o individuati come edifici di pregio storico-architettonico, di parchi pubblici, parchi gioco, aree verdi attrezzate ed impianti sportivi).
Ne deriva che la scelta di individuare, come nel caso di specie, un’area ove collocare gli impianti in base al criterio della massima distanza possibile dal centro abitato non può ritenersi condivisibile, costituendo un limite alla localizzazione (non consentito) e non un criterio di localizzazione (consentito).
A ciò deve aggiungersi che la potestà attribuita all’amministrazione comunale di individuare aree dove collocare gli impianti è condizionata dal fatto che l’esercizio di tale facoltà deve essere rivolto alla realizzazione di una rete completa di infrastrutture di telecomunicazioni, tale da non pregiudicare, come ritenuto dalla giurisprudenza, l’interesse nazionale alla copertura del territorio e all’efficiente distribuzione del servizio (Cons. di Stato, Sez. VI, 05.12.2005, n. 6961) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.01.2013 n. 44 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: "Servizi religiosi" e normativa urbanistica.
Con sentenza 04.01.2013 n. 21 il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, si pronuncia sull’art. 72, co. 4-bis, l.r. 12/2005, che ammette la realizzazione di “nuove attrezzature per i servizi religiosi” esclusivamente nelle aree classificate a standard fino all’approvazione del piano dei servizi, giudicando indimostrato, nel caso di specie, che una richiesta di permesso di costruire per cambio di destinazione d’uso avanzata da un’associazione di diritto privato per la realizzazione di un centro culturale possa rientrare in tale definizione ed essere sottoposta a tale disciplina.
L’Unione Comunità islamica valtellinese è un’associazione che ha come scopo statutario “la realizzazione di iniziative utili sia a promuovere la conoscenza dell’Islam in Italia che a rendere più autenticamente islamica la vita delle famiglie musulmane in Italia”.
Proprietaria di un immobile a Sondrio, presenta in Comune una richiesta di permesso di costruire per cambio di destinazione d’uso “per l’adeguamento degli spazi attualmente destinati a palestra per la realizzazione di un centro culturale con relativi servizi”.
Il Comune, con preavviso di rigetto ex art. 10-bis l. 241/1990, rappresenta la mancanza del parere di conformità alla normativa antincendio (ex art. 2 d.p.r. 37/1998), assimilando l’attività dell’associazione a quella dei “locali di spettacolo e trattenimento in genere con capienza superiore a 100 posti” (n. 83 dell’allegato al d.m. 16.02.1982).
Successivamente, il Comune comunica il diniego definitivo di permesso di costruire, fondato essenzialmente su ragioni di natura urbanistica, asserendo il contrasto del progetto con le previsioni di PRG relative alla zona B1 e la violazione dell’art. 72, co. 4-bis, della l.r. 12/2005.
Tuttavia, sostiene il TAR,
non è stato dimostrato che la destinazione richiesta dall’Associazione sia riconducibile alle “nuove attrezzature per i servizi religiosi” di cui all’art. 72, co. 4-bis, l.r. 12/2005 e, di conseguenza, non è possibile stabilire la compatibilità della destinazione richiesta con quelle ammesse nella zona di ubicazione dell’immobile da parte della pianificazione comunale.
In particolare, il giudice amministrativo rileva e censura la discrasia tra preavviso di diniego e diniego definitivo: quest’ultimo, come detto, fa riferimento a questioni urbanistiche di cui il preavviso di diniego non fa menzione, con ciò integrando una violazione dell’art. 10-bis l. 241/1990.
Scopo precipuo del preavviso di diniego, ove correttamente effettuato, è quello di garantire un apporto in funzione collaborativa da parte dell’interessato nel procedimento amministrativo. Nella vicenda in esame, invece, l’amministrazione (“in modo parziale e incompleto”) ha omesso di riferire in via preliminare sulle possibili problematiche di carattere urbanistico, pregiudicando così l’apporto collaborativo dell’Unione Comunità islamica valtellinese.
Un apporto del richiedente sarebbe stato sicuramente auspicabile e avrebbe potuto fare maggior chiarezza sulla natura dell’Unione, in funzione della corretta individuazione della normativa applicabile.
L’Associazione ricorrente, infatti, in quanto associazione di diritto privato non qualificabile come confessione religiosa, nega che, ai fini urbanistici, la sua attività e le sue strutture possano rientrare nel novero dei “servizi religiosi” ex art. 72, co. 4-bis. Tuttavia, nella richiesta di permesso di costruire, essa stessa si definisce a volte come “associazione culturale”, altre volte come “luogo di culto”.
Similmente il Comune, che a fini urbanistici considera l’associazione islamica alla stregua dei “servizi religiosi”, sotto il profilo della normativa antincendio assimila l’attività dell’Unione a quella dei “locali di spettacolo e trattenimento in genere”.
Il TAR accoglie pertanto il ricorso e annulla il diniego di permesso di costruire; sulla richiesta presentata dall’Unione islamica l’amministrazione “dovrà ripronunciarsi mediante riesercizio del potere previo il concreto coinvolgimento in sede procedimentale dell’Associazione”.
Resta così assorbito il motivo con cui la ricorrente chiedeva di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, co. 4-bis, l.r. 12/2005 in riferimento agli artt. 17–20 Cost. (libertà di riunione, di associazione, libertà religiosa) (link a http://studiospallino.blogspot.it).

URBANISTICA: Il limite temporale del quinquennio, riguardante l’efficacia delle prescrizioni dei piani regolatori generali nella parte in cui incidono su beni determinati ed assoggettano i beni stessi a vincoli preordinati all’espropriazione od a vincoli che comportino l’inedificabilità, è valevole unicamente per quei vincoli che producano un effetto sostanzialmente espropriativo, tale da annullare o ridurre notevolmente il valore degli immobili cui si riferiscono.
La censura va disattesa, sottolineando come il limite temporale del quinquennio, riguardante l’efficacia delle prescrizioni dei piani regolatori generali nella parte in cui incidono su beni determinati ed assoggettano i beni stessi a vincoli preordinati all’espropriazione od a vincoli che comportino l’inedificabilità, è valevole unicamente per quei vincoli che producano un effetto sostanzialmente espropriativo, tale da annullare o ridurre notevolmente il valore degli immobili cui si riferiscono.
Nel caso in esame, invece, si verte in tema di decadenza del vincolo strumentale, ossia quello che subordina l’edificabilità di un’area all’inserimento della stessa in un programma pluriennale oppure alla formazione di uno strumento esecutivo. In tale circostanza, venendo meno la configurabilità dello schema ablatorio, è esclusa anche la decadenza quinquennale del relativo vincolo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.01.2013 n. 5 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAppalti tra enti con gara.
No alla stipula di contratti di appalto tra due enti pubblici senza gara. In materia di appalti pubblici, il diritto dell'Ue, osta ad una normativa nazionale che autorizzi la stipulazione, senza previa gara, di un contratto. Mediante il quale taluni enti pubblici istituiscono tra loro una cooperazione, nel caso in cui tale contratto non abbia il fine di garantire l'adempimento di una funzione di servizio pubblico comune agli enti medesimi, non sia retto unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d'interesse pubblico, oppure sia tale da porre un prestatore privato in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti.

Questo è quanto previsto dalla Corte di giustizia europea, grande sezione, nella sentenza 19.12.2012 n. C-159/11.
Il fatto in sintesi: L'Asl di Lecce e l'università del Salento hanno siglato un contratto di consulenza avente ad oggetto lo studio e la valutazione della vulnerabilità sismica delle strutture ospedaliere della Provincia di Lecce . I giudici di Lussemburgo osservano che il contratto a titolo oneroso redatto per iscritto tra un operatore economico e un'amministrazione aggiudicatrice costituisce a tutti gli effetti un appalto pubblico.
Sottolineano, inoltre, che è ininfluente la circostanza secondo la quale tale operatore sia esso stesso un'amministrazione aggiudicatrice (nella specie università) e non persegua un preminente scopo di lucro, non abbia una struttura imprenditoriale e non assicuri una presenza continua sul mercato. La Corte sottolinea che due tipi di appalti conclusi da enti pubblici sfuggono all'ambito di applicazione del diritto dell'unione.
Si tratta dei contratti stipulati da un ente pubblico con un soggetto giuridicamente distinto da esso, quando detto ente eserciti su tale soggetto un controllo analogo a quello che esercita sui propri servizi e il soggetto in questione realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o con gli enti che lo controllano. Oppure nel caso dei contratti che istituiscono una cooperazione tra enti pubblici finalizzata a garantire l'adempimento di una funzione di servizio pubblico comune a questi ultimi (articolo ItaliaOggi del 18.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Cds sulle strutture dei ristoranti non più asportabili. Il gazebo abusivo. È illegale se difficile da smontare.
È abusivo il gazebo installato in un ristorante se non è più amovibile e facilmente smontabile e asportabile. Infatti, se un gazebo perde le sue caratteristiche di precarietà per la sostituzione delle strutture portanti (dirette a soddisfare esigenze permanenti), si determina un'alterazione dello stato dei luoghi e un sicuro incremento del carico urbanistico.
Questo è il costrutto normativo tracciato dal Consiglio di Stato (Sez. VI) con la sentenza del 12.12.2012 n. 6382.
Il fatto, in sintesi: il proprietario di un ristorante nel comune di Malcesine, nel febbraio 2001 veniva autorizzato in area paesisticamente vincolata, alla posa di quattro gazebo in legno sulla terrazza di pertinenza del ristorante, caratterizzati da una struttura precaria, facilmente smontabile e asportabile.
Nel febbraio 2009, previa segnalazione, i tecnici della polizia municipale eseguivano un sopralluogo, riscontrando che erano in corso interventi sulla copertura, con la sostituzione del telo plastificato bianco con una struttura in grosse travi di legno e non, come invece previsto, con materiali in perline di legno e lamiera aggraffata, nonché con la ripavimentazione e la dotazione di un impianto elettrico, di climatizzazione e sonoro.
In seguito ai rilievi effettuati dalla polizia municipale, il comune aveva quindi adottato un'ordinanza di demolizione, alla quale il proprietario del ristorante aveva risposto con la presentazione di una domanda di sanatoria per le opere abusive realizzate. Domanda rigettata perché la volumetria realizzata, era incompatibile con il rispetto della disciplina urbanistico-edilizia e con le norme tutelanti il vigente vincolo paesaggistico.
Il proprietario del ristorante, vedendosi negata la sanatoria dei lavori apportati ai gazebo, proponeva ricorso. I giudici amministrativi concludevano che il gazebo aveva perso i connotati di precarietà e amovibilità che ne avevano legittimato l'installazione (articolo ItaliaOggi del 15.01.2013).

EDILIZIA PRIVATA: Mancanza di autorizzazione paesaggistica - Natura del delitto paesaggistico - Reato di pericolo – Fattispecie - Artt. 149, lett. b), e 181 D. Lgs. n. 42/2004.
Il delitto paesaggistico di cui all'art. 181, comma 1, del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, ha natura di reato di pericolo e non richiede, per la sua configurabilità, un effettivo pregiudizio per l'ambiente, potendo escludersi dal novero delle condotte penalmente rilevanti soltanto quelle che si prospettino inidonee, pure in astratto, a compromettere i valori del paesaggio e l'aspetto esteriore degli edifici (Cass., Sez. 3, 20/10/2009, n. 2903 Soverini).
Nella specie l'opera, seppure realizzata in legno, poggiava su un solido basamento in calcestruzzo e presentava copertura in coppi, sì che deve senz'altro escludersi la mancanza di lesione del bene protetto. Né è individuabile una violazione di legge nella mancata applicazione della previsione dell'art. 149, lett. b), del D.Lgs. 2004, n. 42, atteso che la mancanza di autorizzazione paesaggistica è da tale norma espressamente limitata agli interventi che non comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie.
Reato paesaggistico - Norme urbanistiche e paesaggistiche - Effetti e differenze.
Nei casi di reato paesaggistico, la concessione rilasciata a seguito di accertamento di conformità estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non i reati paesaggistici previsti dal D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, che sono soggetti ad una disciplina difforme e differenziata, legittimamente e costituzionalmente distinta, avente oggettività giuridica diversa, rispetto a quella che riguarda l'assetto del territorio sotto il profilo edilizio. (Cass., Sez. 3, n. 37318 del 03/07/2007, Carusotto e altro; v. anche Corte Cost., ord. 21/07/2000, n. 327) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.12.2012 n. 47646 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sanatoria - Limiti - C.d. sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria" - Estinzione del reato urbanistico - Esclusione - Artt. 3, 36, 44 lett. c), 45 Dpr n. 380/2001.
In materia urbanistica, non è sanabile l'opera che non sia "conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell'intervento, sia al momento della presentazione della domanda" ex art. 36 del Dpr n. 380 del 2001 (Cass. Sez. 3, n. 111149 del 15/02/2002, Rossi).
Né appare invocabile la cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale", secondo cui sarebbe ammissibile la sanatoria di opere che, benché non conformi alle norme urbanistico-edilizie ed alle previsioni degli strumenti di pianificazione al momento in cui siano state eseguite, lo siano diventate successivamente. L'orientamento che riconosce tale possibilità di sanatoria (c.d. "giurisprudenziale" o "impropria") si basa essenzialmente sull'argomento secondo cui non avrebbe senso dare corso alla demolizione di un'opera che subito dopo potrebbe essere assentita.
In nessun caso, tuttavia, tale tipo di sanatoria può comportare l'estinzione del reato urbanistico, non essendo applicabile il disposto di cui all'art. 45 del d.P.R. n. 380 del 2001 (Cass. Sez. 3, n. 24451 del 26/04/2007, P.G. in proc. Micolucci) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.12.2012 n. 47646 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Pertinenza urbanistica - Caratteristiche del manufatto pertinenziale - Natura pertinenziale di un manufatto - Oggettiva compresenza dei requisiti - Necessità.
Le caratteristiche peculiari della pertinenza urbanistica sono state più volte indicate e possono essere così sintetizzate:
- deve trattarsi di un'opera che abbia comunque una propria individualità fisica ed una propria conformazione strutturale e non sia parte integrante o costitutiva di altro fabbricato;
- deve essere preordinata ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello stesso onde renderne più agevole e funzionale l'uso;
- deve essere sfornita di un autonomo valore di mercato e non deve essere valutabile in termini di cubatura o comunque dotata di un volume minimo (non superiore, in ogni caso, al 20% di quello dell'edificio principale) tale da non consentire, in relazione anche alle caratteristiche dell'edificio principale, una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell'immobile cui accede;
- la relazione con la costruzione preesistente deve essere, in ogni caso, non di integrazione ma "di servizio", allo scopo di renderne più agevole e funzionale l'uso.
Si è ulteriormente chiarito, che il manufatto pertinenziale, oltre a dover accedere ad un edificio preesistente edificato legittimamente, deve necessariamente presentare la caratteristica della ridotta dimensione anche in assoluto, a prescindere dal rapporto con l'edificio principale e non deve essere in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti e con quelli eventualmente soltanto adottati.
È dunque evidente che la natura pertinenziale di un manufatto non può essere astrattamente desunta, esclusivamente dalla destinazione (peraltro soltanto dichiarata e pure incerta: "lavanderia o legnala") o dalle caratteristiche costruttive, ma deve risultare dalla oggettiva compresenza dei requisiti menzionati (Cass. Sez.3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno e altro) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.12.2012 n. 47646 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati urbanistici - Diniego di sanatoria - Ricorso al giudice amministrativo - Sospensione dell'azione penale - Esclusione - Giudice penale - Poteri.
In materia di reati urbanistici, il ricorso al giudice amministrativo avverso il diniego di sanatoria per abuso edilizio non comporta la sospensione dell'azione penale promossa per la relativa violazione, essendo detta sospensione limitata temporalmente sino alla decisione degli organi comunali sulla relativa domanda di sanatoria, manifestata anche nella forma del silenzio-rifiuto (Sez. 3, n. 24245 del 24/03/2010, Chiarello).
Così, con riferimento a fattispecie di ricorso al giudice amministrativo avverso diniego di concessione in sanatoria, la legge non stabilisce, in materia, una pregiudiziale amministrativa ed attribuisce anzi al giudice penale il potere-dovere di espletare ogni accertamento per stabilire l'applicabilità della causa di estinzione del reato, né il giudice penale è vincolato all'esito del procedimento instaurato davanti al giudice amministrativo, da cui l'inutilità di ogni sospensione del giudizio penale (Cass. Sez. 3, n. 1188 del 05/11/1999, Fornaca) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.12.2012 n. 47646 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Possibile la nomina di due commissioni nella stessa gara di appalto.
E' possibile che in una gara di appalto siano nominate due commissioni con competenze diverse ma la loro nomina deve avvenire con i criteri previsti dall'articolo 84, primo comma, del D.Lgs. 163/2006, altrimenti la gara è da annullare.
E' sostanzialmente quanto affermato dal TAR Liguria, Sez. II, con la sentenza 07.12.2012 n. 1570.
La questione riguarda una società per azioni che era ricorsa ai giudici amministrativi del TAR impugnando l’atto di aggiudicazione con cui una azienda ospedaliera-universitaria aveva affidato un contratto di appalto ad una ditta concorrente per lavori di manutenzione ordinaria e di manutenzione straordinaria degli impianti elevatori. L’aggiudicazione si era svolta con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Tra le motivazioni del ricorso vi era anche il fatto che la ditta ricorrente lamentava la radicale illegittimità delle operazioni di gara per l’omessa costituzione della Commissione aggiudicatrice che, avrebbe dovuto espletare tutte le operazioni, ad eccezione della valutazione delle offerte tecniche riservata ad apposita altra Commissione.
Il TAR nell’esaminare il ricorso osserva che il bando di gara ha specificamente previsto la nomina di due Commissioni. La prima, composta ai sensi del regolamento dei contratti pubblici di cui al DPR 05.10.2010, n. 207, avrebbe dovuto provvedere ad eseguire tutte le operazioni di gara fino all’esame delle offerte tecniche; la seconda, esaurita la prima fase, avrebbe dovuto procedere autonomamente alla valutazione delle offerte tecniche.
In sostanza il bando ha espressamente previsto due commissioni, assegnando a ciascuna di esse distinte e specifiche funzioni.
La finalità con la quale la stazione appaltante ha scelto il percorso delle due commissioni risiede nel fatto che la specialità tecnica delle prestazioni contrattuali messe in gara giustificava la duplicità delle commissioni preposte rispettivamente alla verifica tecnica ed amministrativa delle offerte.
Di fatto, però, la commissione deputata allo svolgimento delle operazioni di gara, anteriori alla valutazione delle offerte tecniche, non è mai stata costituita.
Come risulta dai verbali di gara, un solo funzionario, auto-qualificatosi come presidente di Commissione, “alla presenza di due testimoni”, ha compiuto tutte le operazioni.
Tale condotta ha comportato, per i giudici amministrativi, una serie di errori che possono essere così riassunti:
a. viola la lex specialis che espressamente ha previsto l’istituzione di una Commissione costituita “secondo il regolamento dei contratti vigente”;
b. viola l’art. 84, comma 1, D.Lgs. n. 163/2006 che nelle procedure di gara secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, prescrive la nomina di una commissione aggiudicatrice che opera nel plenum dei (singoli) membri che la compongono.
Occorre ricordare, ai sensi dell’articolo 84 del D.Lgs. 163/2006, che la Commissione aggiudicatrice, nominata dall'organo della stazione appaltante competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto, è composta da un numero dispari di componenti, in numero massimo di cinque, esperti nello specifico settore cui si riferisce l'oggetto del contratto; è presieduta di norma da un dirigente della stazione appaltante e, in caso di mancanza in organico, da un funzionario della stazione appaltante incaricato di funzioni apicali, nominato dall'organo competente. I commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta. Non possono essere nominati commissari coloro che nel biennio precedente hanno rivestito cariche di pubblico amministratore relativamente a contratti affidati dalle amministrazioni presso le quali hanno prestato servizio; sono esclusi da successivi incarichi di commissario coloro che, in qualità di membri delle commissioni giudicatrici, abbiano concorso, con dolo o colpa grave accertati in sede giurisdizionale con sentenza non sospesa, all'approvazione di atti dichiarati illegittimi.
I commissari diversi dal presidente sono selezionati tra i funzionari della stazione appaltante; in caso di accertata carenza in organico di adeguate professionalità, nonché negli altri casi previsti dal regolamento in cui ricorrono esigenze oggettive e comprovate, i commissari diversi dal presidente sono scelti tra funzionari di amministrazioni aggiudicatrici ovvero con un criterio di rotazione tra gli appartenenti alle seguenti categorie:
a. professionisti, con almeno dieci anni di iscrizione nei rispettivi albi professionali, nell'ambito di un elenco, formato sulla base di rose di candidati fornite dagli ordini professionali;
b. professori universitari di ruolo, nell'ambito di un elenco, formato sulla base di rose di candidati fornite dalle facoltà di appartenenza.
La nomina dei commissari e la costituzione della commissione devono avvenire dopo la scadenza del termine fissato per la presentazione delle offerte.
Il Tribunale amministrativo richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale rileva che non è surrogabile da parte del singolo funzionario, sia esso il RUP, l’attività che la lex specialis devolve alla Commissione quale organo collegiale tecnico deputato al compimento della valutazione delle offerte .
In sostanza il TAR ligure, nel caso in esame, ha rilevato l’incompatibilità con il Codice degli Appalti Pubblici il quale prescrive la nomina con i tempi e nel “plenum dei membri che la compongono non potendo surrogarsi l’attività collegiale tipica della commissione con quella del singolo soggetto, ancorché, per ipotesi, dovesse trattarsi del responsabile unico del procedimento” (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lecito il no all'esposizione di merce anche su una ''porzione'' di marciapiede.
E' legittimo il provvedimento con cui un ente locale ha rigettato un'istanza tendente a ottenere il rinnovo di una concessione di suolo pubblico riguardante una ristretta porzione di marciapiede per l'esposizione di merce, motivato con riferimento alla circostanza che il marciapiede è stato da sempre destinato all'uso della collettività e consente un generale passaggio esercitato iure servitutis publicae da una quantità indeterminata di persone.

La ricorrente, titolare di un esercizio commerciale deputato alla vendita di oggetti di ferramenta, ha impugnato il provvedimento con cui il Comune le aveva negato il rinnovo della concessione di occupazione di un suolo pubblico (una porzione di marciapiede) per l’esposizione della merce.
In particolare, ha esposto che il menzionato atto negativo era stato adottato sulla base della circostanza per cui, a seguito di alcuni lavori, la dimensione del predetto marciapiede era risultata talmente ridotta da non consentire più alcuno spazio espositivo.
Pertanto, insorto avverso siffatto diniego, la deducente ha contestato la violazione dell’art. 20, D.Lgs. n. 285/1992, nonché svariati profili di eccesso di potere per travisamento di fatti ed erronea presupposizione, atteso che -a suo ritenere– lo spazio antistante il proprio locale commerciale sarebbe stato di proprietà privata e, così, destinato al servizio dell’immobile principale.
Il ricorso è stato respinto.
Il Collegio di Perugia, con riferimento all’inosservanza delle disposizioni contenute nel Codice della Strada, ha esaminato la questione attinente la presunta contraddittorietà tra l’impugnato provvedimento e l’originaria concessione nel cui contesto era stato richiamato il menzionato decreto.
Invero, il giudicante, prescindendo dalla genericità del suddetto richiamo formale, ha evidenziato l’insussistenza del suddetto vizio, atteso che l’errore commesso in sede di rilascio della prima concessione non avrebbe potuto costringere l’Amministrazione a rinnovarla.
Sul proposito, ha infatti precisato che il contestato atto rinviava a una nota istruttoria con cui la civica P.A., nell’evidenziare la larghezza del marciapiede nel tratto della richiesta occupazione per esposizione di materiali in vendita, aveva dichiarato l’impossibilità di procedere al rinnovo della concessione, in quanto lo stesso avrebbe riguardato una zona destinata alla circolazione dei pedoni per un’ampiezza pari a due metri.
Del resto, l’art. 20, comma 3, D.Lgs. n. 285/1992, sancisce espressamente che: “Nei centri abitati, ferme restando le limitazioni e i divieti di cui agli articoli e commi precedenti, l'occupazione di marciapiedi da parte di chioschi, edicole o altre installazioni può essere consentita fino a un massimo della metà della loro larghezza, purché in adiacenza ai fabbricati e sempre che rimanga libera una zona per la circolazione dei pedoni larga non meno di 2 metri. Le occupazioni non possono comunque ricadere all'interno dei triangoli di visibilità delle intersezioni, di cui all'art. 18, comma 2. Nelle zone di rilevanza storico-ambientale, ovvero quando sussistano particolari caratteristiche geometriche della strada, è ammessa l'occupazione dei marciapiedi a condizione che sia garantita una zona adeguata per la circolazione dei pedoni e delle persone con limitata o impedita capacità motoria”.
Sicché, all’adito G.A. è risultato evidente che il contestato diniego era stato adottato dal Comune al fine di garantire alla collettività la fruizione del bene pubblico che in alcun modo avrebbe potuto essere “piegato” alle esigenze (commerciali) di un unico cittadino.
Peraltro, il Collegio è giunto alla medesima conclusione anche in relazione alla circostanza opposta dall’interessata, secondo cui lo spazio oggetto dell’istanza di concessione di suolo pubblico sarebbe stato di proprietà della ricorrente, in tal modo escludendo la configurabilità di un marciapiede.
Al proposito, richiamando il disposto di cui all’art. 3 C.d.s., ha rilevato che il tratto di marciapiede in questione era stato da sempre destinato all’uso della collettività; peraltro, la suddetta disposizione prevede che il marciapiede è: “… una parte della strada, esterna alla carreggiata, rialzata o altrimenti delimitata e protetta, destinata ai pedoni”.
Al contempo, il TAR perugino, sempre con riferimento ai “marciapiedi”, ha richiamato un consolidato orientamento giurisprudenziale per cui: “Secondo i principi generali in materia, sussiste servitù di uso pubblico nel caso in cui il bene abbia un’intrinseca idoneità a essere utilizzato da parte di una collettività, configurandosi un uso a carattere generale e non uti singuli per un periodo prolungato nel tempo” (Cons. Stato, Sez. IV, 08.06.2011, n. 3509; TAR Veneto, Sez. II, 18.11.2004, n. 4035).
Dunque, quanto alla vicenda, ha osservato che il marciapiede de quo consentiva un generale passaggio esercitato iure servitutis publicae da una collettività indeterminata di persone, in assenza di restrizioni all’accesso o di vincoli di proprietà o condominio.
Per siffatte ragioni, il G.A. di Perugia, ritenendo che lo spazio antistante l’esercizio commerciale della ricorrente era destinato esclusivamente alla pubblica fruizione, ha respinto il gravame e, per l’effetto confermato la legittimità del provvedimento di diniego di rinnovo della concessione dell’area pubblica (commento tratto da www.ispoa.it - TAR Umbria, sentenza 28.11.2012 n. 502 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quando ricavare un locale abitabile nel sottotetto è lottizzazione abusiva?
La trasformazione di un sottotetto in locale abitabile non è, di per sé, idonea ad integrare il reato di lottizzazione abusiva nel caso in cui l'edificio sia destinato ad uso residenziale ed ubicato in zona per la quale risultano previsti interventi di urbanizzazione, non rilevando in senso contrario la mera trasformazione ad uso abitativo delle superfici costituenti sottotetto dell'immobile, in quanto attività inidonea a conferire un diverso assetto ad una porzione del territorio rispetto alla pianificazione originariamente prevista, né rendendo tale attività necessaria la realizzazione di ulteriori opere di urbanizzazione.

La Corte di Cassazione interviene opportunamente con la sentenza in esame sul tormentato reato di lottizzazione abusiva, oggetto in questi ultimi anni di numerosi interventi esegetici da parte della giurisprudenza di legittimità. Stavolta il tema affrontato dalla Corte è quello della possibile configurabilità dell’illecito lottizzatorio nel caso, invero assai diffuso, della trasformazione di locali sottotetto di un appartamento in locali abitabili, in assenza di qualsivoglia titolo abilitativo.
La giurisprudenza tradizionale, com’è noto, ritiene che tale attività di trasformazione costituisca un mutamento di destinazione d'uso per il quale è necessario il rilascio preventivo del permesso di costruire, atteso che la variazione avviene tra categorie non omogenee. Parte della giurisprudenza, invece, con un’interpretazione più rigorosa, sostiene invece che in presenza di un’attività non consentita di trasformazione urbanistica od edilizia del territorio, realizzata anche mediante una forma di suddivisione fattuale dell’immobile, sia configurabile l’illecito lottizzatorio. Da qui, dunque, il quesito: la trasformazione di un sottotetto in locale abitabile, realizzando una diversa suddivisione in fatto dell’immobile, può astrattamente integrare la fattispecie di lottizzazione abusiva, o è necessario un quid pluris affinché ciò si verifichi?
Il fatto
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte di occuparsi della questione vedeva indagate numerose persone cui era stata addebitata la violazione dell’art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380/2001 (sub specie di lottizzazione abusiva mista, negoziale e materiale), a seguito dell'accertamento che cinque vani sottotetto, facenti parte del medesimo fabbricato, destinati a ripostiglio a servizio dell'appartamento sottostante, della superficie variabile tra 24 e 39 mq. ciascuno, erano stati trasformati in immobili ad uso abitativo autonomo, mediante la eliminazione del collegamento con l'appartamento sottostante, la realizzazione di un ingresso dal vano scale condominiale e la dotazione di servizi, con successivo frazionamento ed alienazione a terzi.
I predetti interventi erano stati eseguiti in base a D.I.A., mentre uno dei vani sottotetto era stato destinato dai proprietari ad uso abitativo, di camera da letto, mediante il posizionamento del relativo arredo, senza l'esecuzione di interventi edilizi.
In sede cautelare, il Tribunale del riesame aveva rigettato l'appello proposto dal P.M. avverso il provvedimento del G.I.P. con cui era stata respinta la richiesta del P.M. di sequestro preventivo di alcuni immobili, in particolare osservando che la modificazione della destinazione d'uso di cinque unità destinate a servizi in unità abitative non appare idonea a conferire un diverso assetto alla pianificazione urbana, dato che le opere di urbanizzazione erano già previste dai titoli originari e non comportando la modificazione la necessità per la pubblica amministrazione di realizzare ulteriori opere di urbanizzazione.
In sostanza, secondo i giudici del riesame, le condotte poste in essere dovevano qualificarsi esclusivamente come abuso edilizio, mentre la sanzione della confisca deve riferirsi ad ipotesi di lottizzazione di terreni e delle opere su di essi costruite ovvero di un intero edificio.
Il ricorso
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione il P.M. in sintesi sostenendo che il Tribunale avesse erroneamente escluso il reato di lottizzazione abusiva in base ad un criterio quantitativo, considerata l'estensione complessiva degli immobili di poco più di 150 mq. complessivi, trattandosi di reato di pericolo. La lottizzazione accertata, a giudizio della Pubblica Accusa, si palesava inoltre idonea ad incidere sul cosiddetto carico urbanistico, trattandosi di interventi che, al di là del formale titolo abilitativo, non avrebbero potuto mai essere autorizzati, peraltro ponendosi in contrasto con la destinazione programmata del territorio.
Peraltro, concludeva il P.M., anche nell'ipotesi in cui fosse stata configurata la sola violazione edilizia, avrebbe dovuto comunque essere disposta la misura cautelare, essendo i lavori ancora in corso di esecuzione in contrasto con le previsioni del regolamento edilizio comunale.
La decisione della Cassazione
La tesi è stata però respinta dai giudici della Suprema Corte che hanno condiviso le argomentazioni poste a sostegno dell’ordinanza del Tribunale del riesame.
In sintesi, la Corte ha anzitutto osservato che il reato di lottizzazione abusiva è configurabile, nell'ipotesi in cui lo strumento urbanistico generale consenta l'utilizzo della zona ai fini residenziali, in due casi:
a) quando il complesso alberghiero sia stato edificato alla stregua di previsioni derogatorie non estensibili ad immobili residenziali;
b) quando la destinazione d'uso residenziale comporti un incremento degli "standards" richiesti per l'edificazione alberghiera e tali "standars" aggiuntivi non risultino reperibili ovvero reperiti in concreto (Cass. pen., Sez. III, n. 24096 del 07/03/2008, P.M. in proc. D., in Ced Cass. n. 240725).
Ha, poi, aggiunto che la trasformazione urbanistica od edilizia del territorio, peraltro, deve risultare di consistenza tale da incidere in modo rilevante sull'assetto urbanistico della zona, sia nel senso d'intervento innovativo sul tessuto urbanistico, che sotto il profilo della necessità dell'esecuzione di nuove opere d'urbanizzazione o di potenziamento di quelle già esistenti (Cass. pen., sez. IV, n. 33150 del 08/07/2008, N. ed altri, in Ced Cass. n. 240970).
Il reato di lottizzazione abusiva deve, invece, escludersi –precisa la Cassazione- con riferimento a zone completamente urbanizzate, mentre è configurabile con riferimento a zone parzialmente urbanizzate, in cui sussista un'esigenza di raccordo con il preesistente aggregato abitativo e di potenziamento delle opere di urbanizzazione (Cass. pen., sez. III, n. 37472 del 26/06/2008, B. e altri, in Ced Cass. n. 241097).
Orbene, il Tribunale del riesame, al fine di escludere nel caso in esame l'esistenza del fumus del reato di lottizzazione abusiva, ha evidenziato che l'edificio è destinato ad uso residenziale ed ubicato in zona per la quale erano già previsti interventi di urbanizzazione, mentre ha escluso che la trasformazione ad uso abitativo delle superfici costituenti sottotetto dell'immobile fosse idonea a conferire un diverso assetto ad una porzione del territorio rispetto alla pianificazione originariamente prevista o renda necessaria la realizzazione di ulteriori opere di urbanizzazione.
Corretta, quindi, per gli Ermellini si manifesta la valutazione del giudice di merito in ordine alla esclusione del fumus del reato di lottizzazione abusiva. La Corte, infine, pur ammettendo in astratto la configurabilità della violazione edilizia, ravvisabile nella predetta trasformazione d'uso del sottotetto dell'edificio, ha condiviso gli argomenti del Tribunale del riesame, nel senso di escludere l'esistenza delle esigenze cautelari, non risultando in atto l'esecuzione di lavori in corso laddove, inoltre, vi sarebbe stato un ripristino della destinazione d'uso non residenziale dei predetti locali (in precedenza, sulla configurabilità del reato edilizio ex art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380/2001: v. Cass. pen., sez. III, n. 17359 dell’08.05.2007, P.M. in proc. V., in Ced Cass. n. 236493) (commento tratto da www.ispoa.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.11.2012 n. 45732).

TRIBUTII terreni agricoli non rincarano. Se a fianco c'è un terreno edificabile.
La rettifica del valore di un terreno agricolo non può essere giustificata dalla sua «edificabilità di fatto»; per cui, né le adiacenze del terreno a un altro terreno edificabile, né la circostanza che l'acquirente disponga di una potenziale volumetria (proveniente da un'altra area) a questo asservibile, legittimano la rettifica.

Sono le interessanti conclusioni che si leggono nella sentenza 25.10.2012 n. 144/65/2012 emessa dalla sede staccata di Brescia della Commissione Tributaria Regionale di Milano.
La sentenza in commento fissa dei precisi paletti al potere di accertamento dei terreni agricoli e, in definitiva, stabilisce che il valore di un terreno debba essere strettamente legato alla destinazione urbanistica, che ne determina il valore oggettivo; «Di conseguenza», precisa il Collegio regionale, «nessuna valenza può assumere il richiamo dell'Agenzia delle entrate al principio della «edificabilità di fatto», non contemplato da alcuna disposizione normativa per le aree censite in catasto». La Commissione prosegue l'esame delle norme e rileva come le norme legislative vigenti dispongano espressamente che il riferimento debba essere alle risultanze ufficiali vigenti, a livello urbanistico, al momento della cessione.
Per quanto concerne le norme di riferimento esse sono: ai fini Ici, l'articolo 2, comma primo, lettera b), del dlgs n.504/1992 nella formulazione introdotta dall'articolo 11-quaterdecies comma sedicesimo dl n. 203/2005, che dispone che un'area è da considerare comunque fabbricabile se è utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale, indipendentemente dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo.
Analogamente, ai fini delle imposte dirette, l'articolo 67, comma primo, lettera b), del dpr n. 917/1986 (Nuovo Tuir) fa riferimento alla «utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione». La Commissione rileva come l'accertamento erariale sia basato su un valore non corrispondente alle caratteristiche oggettiva dell'area compravenduta, bensì è stato determinato con la comparazione con una compravendita riguardante un terreno contiguo avente natura edificabile, e dunque, diversa e più pregiata (articolo ItaliaOggi del 18.01.2013).

AGGIORNAMENTO AL 14.01.2013

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IN EVIDENZA

L'incentivo per la progettazione, in materia urbanistica, spetta solamente se l’attività di pianificazione è contestualizzata nell’ambito dei lavori pubblici, in un rapporto di necessaria strumentalità con l’attività di progettazione di opere pubbliche.

     Forse scopriamo l'acqua calda ... tuttavia, è meglio ribadirlo a chiare lettere (per coloro che sono duri d'orecchi ...) tenuto conto che negli ultimi mesi la Corte dei Conti, sez. di controllo, di varie regioni ha chiarito e ribadito -a più riprese- la portata dell'incentivo per la progettazione in materia urbanistica ex art. 92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006.
     Ebbene, da ultima si è pronunciata la Corte dei Conti siciliana il cui parere è di seguito riportato.

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Con la nota in epigrafe, il Sindaco del comune di Adrano chiede di sapere se gli incarichi a tecnici interni per la redazione del piano di rischio sismico e del piano per il rischio idrogeologico ed idraulico possano essere remunerati con l’incentivo per la progettazione interna di cui all’art. 18 della L. n. 109/1994 come recepita dalla L.R. n. 7/2002 e di cui all’art. 92 del D. Lgs. n. 163/2006, come recepito dalla L.R. n. 12/2011.
...
Venendo al merito, bisogna ricordare che l’art. 92, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006, come recepito dalla L.R. n. 12/2011, prevede che il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato possa essere ripartito, con le modalità e i criteri previsti nell’apposito regolamento interno tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto.
La norma ricalca sostanzialmente quanto disposto dal previgente art. 18, comma 2, della L. n. 109/1994, recepito dalla L.R. n. 7/2002.
Nella genericità dell’espressione usata dal legislatore, che dovrebbe trovare nel regolamento comunale un’idonea fonte esplicativa,
queste Sezioni Riunite ritengono che per “atto di pianificazione comunque denominato” vada inteso qualsiasi elaborato complesso, previsto dalla legislazione statale o regionale, composto da parte grafica/cartografica, da testi illustrativi e da testi normativi (es., norme tecniche di attuazione), finalizzato a programmare, definire e regolare, in tutto o in parte, il corretto assetto del territorio comunale, coerentemente con le prescrizioni normative e con la pianificazione territoriale degli altri livelli di governo.
In tale specifico contesto, pertanto, l’assoggettabilità ad incentivo discende innanzitutto dal contenuto tecnico documentale degli elaborati, che richiede necessariamente l’utilizzo di specifiche competenze professionali reperite esclusivamente all’interno dell’ente.
In secondo luogo, come peraltro osservato da consolidato orientamento della giurisprudenza contabile (Sezione regionale di controllo Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213, Sezione controllo Puglia, parere 16.01.2012 n. 1, Sezione controllo Campania,
parere 10.07.2008 n. 14), si ritiene che l’attività di pianificazione debba essere contestualizzata nell’ambito dei lavori pubblici, in un rapporto di necessaria strumentalità con l’attività di progettazione di opere pubbliche.
L’attività di pianificazione, ai fini dell’incentivabilità delle prestazioni tecniche del personale dipendente, si ritiene, infatti, che debba prevedere una localizzazione di interventi pubblici o di opere di pubblico interesse, in relazione alle quali l’ente agirà in veste di stazione appaltante, nei termini previsti dal Codice dei contratti e dalle direttive n. 2004/17/CE e 2004/18/CE.

A conforto di questa tesi risiede non solo la collocazione sistematica della norma (sezione I dedicata alla “progettazione interna ed esterna, livelli della progettazione” del capo IV del codice dei contratti pubblici denominato “servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria”, la cui norma iniziale, l’art. 90, è rubricata “progettazione interna ed esterna alle amministrazioni aggiudicatrici in materia di lavori pubblici”), ma anche il riferimento testuale dell’art. 92, comma 6, ai “dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice”.
In ogni caso,
competerà alla fonte regolamentare prevista dall’art. 92, commi 5 e 6, del D.Lgs. n. 163/2006 chiarire l’esatta portata ermeneutica del concetto di “atto di pianificazione comunque denominato”, magari attraverso idonea elencazione delle fattispecie di riferimento che, in assenza di chiari riferimenti testuali o ermeneutici alla sua natura meramente esemplificativa, si ritiene debba ritenersi tassativa (Corte dei Conti, SS.RR. di controllo per la Regione Siciliana, parere 03.01.2013 n. 2).

     Allora, tutto chiaro??
     Detto altrimenti,
non è possibile erogare l'incentivo per la progettazione allorquando, per esempio, si proceda all'interno dell'ufficio tecnico: a redigere il P.R.G./P.G.T. e/o relativa variante fine a sé stessa piuttosto che la redazione del Regolamento Edilizio.
     Invero, nel passato anche recente si è avuta notizia di come (in qualche comune) si procedesse ugualmente all'erogazione dell'incentivo ... ma nel passato, evidentemente, non si avevano le idee chiare oppure il convincimento, ancorché in buona fede, era un'altro e -evidentemente- errato.
     Ora non ci sono più alibi ... e chi vuole rischiare col proprio portafoglio, nel liquidare e/o auto-liquidarsi ugualmente l'incentivo non spettante, s'accomodi (per consultare altri pareri in tal senso visitare il nostro dossier INCENTIVO PROGETTAZIONE).
14.01.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Lombardia - Pgt, Giovannelli: dal Consiglio la deroga per il sisma.
"Solamente per 7 Comuni colpiti dal terremoto lo scorso maggio (Borgoforte, Gonzaga, Pegognaga, Poggio Rusco, Rodigo, Serravalle a Po e Suzzara, tutti in provincia di Mantova) e per quelli dichiarati in dissesto finanziario entro il 31.12.2012, rimane in vigore il Piano regolatore generale (Prg) fino al 31.12.2013. Per tutti gli altri che, come questi, non hanno approvato il Piano di governo del territorio (Pgt) è confermata l'inefficacia, dal 01.01.2013, dei vecchi Prg".
Lo precisa l'assessore al Territorio e Urbanistica Nazzareno Giovannelli, chiarendo che questo è ciò che il Consiglio regionale ha approvato (martedì 19 dicembre), modificando l'emendamento avanzato dall'Assessorato.
I Comuni che non avevano ancora adottato il Pgt ieri, 20 dicembre, erano ancora 388; mentre quelli che lo hanno adottato, ma non approvato (e che lo potrebbero quindi approvare entro i primi mesi dell'anno) erano 248.
COSA SUCCEDE AI COMUNI SENZA PGT - Il testo definisce anche gli interventi che i Comuni, sprovvisti di strumenti urbanistici, possono approvare.
- Nelle zone A-B-C-D (come individuate dai previgenti Prg), vale a dire sostanzialmente nei centri storici, nei centri urbanizzati consolidati, nelle zone a espansione e nelle aree produttive e commerciali, possono essere autorizzati esclusivamente interventi sull'esistente. Quindi di manutenzione ordinaria, straordinaria e di restauro/risanamento conservativo (no ristrutturazione, no nuova costruzione);
- nelle zone E-F, cioè quelle agricole e quelle destinate a servizi, gli interventi consentiti sono quelli previsti dal previgente Prg e da altri strumenti attuativi già consolidati (ad esempio, Piani particolareggiati e Piani di recupero);
- gli interventi in esecuzione di piani attuativi approvati entro la data di entrata in vigore della nuova Legge e la cui convenzione, stipulata entro il medesimo termine, sia in corso di validità.
Inoltre, rimane preclusa la possibilità di qualsiasi procedura di variante urbanistica e, per i Comuni che non avevano adottato il Pgt entro il 30.09.2011, di dar corso all'approvazione di piani attuativi del Prg.
IL PIANO CASA REGIONALE - Infine la norma stabilisce che nei Comuni che, al prossimo 31 dicembre, non avranno ancora approvato il Pgt, dal 01.01.2013 e fino all'approvazione del Pgt, non sono attivabili gli interventi in deroga previsti dal cosiddetto 'Piano casa regionale' (l.r. 4/2012), fatte salve le istanze di permesso di costruire e le denunce di inizio attività presentate entro il 31.12.2012.
Anche questa disposizione, per i Comuni terremotati e in dissesto finanziario, troverà applicazione dal 01.01.2014 (21.12.2012 - link a www.territorio.regione.lombardia.it).

SINDACATI

ENI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Un esempio di come non scrivere una convenzione per la gestione associata di finzioni (CGIL-FP di Bergamo, nota 08.01.2013).
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Pare che i comuni di Pontida e Filago siano intenzionati ad esercitare le funzioni di polizia locale anche per il triennio 2013-2015 in forma associata tramite convenzione, la formula dubitativa deriva dal fatto che fino ad oggi risulta che entrambi i comuni hanno comunicato alla scrivente organizzazione sindacale lo schema di convenzione che intendono adottare, ma che il solo comune di Filago abbia approvato con deliberazione consiliare n. 67 del 27.12.2012 tale schema. Probabilmente è solo una questione di velocità, per la precisione di velocità di trasparenza, risulterebbe, infatti, meno rapida dalle parti di Pontida.
Risulta, comunque, evidente a chi scrive che, approvata da entrambi i comuni la convenzione, si riprodurranno gli stessi problemi e l’esatta illegittima situazione prodottasi nel corso del 2012, aspetti che certamente non hanno favorito lo sviluppo di corrette relazioni sindacali, ciò in considerazione che il personale appartenente ai servizi di polizia locale è lo stesso e che probamente la responsabilità del servizio associato verrà affidata nuovamente a personale appartenente alla cat. C, in contrasto con quanto disposto dal CCNL vigente. (... continua).

ENI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Accolto il ricorso contro il Comune di Filago per comportamento antisindacale (CGIL-FP di Bergamo, nota 08.01.2013).
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Con sentenza del 19.12.2012 n. 2769/12 il Tribunale di Bergamo ha in parte accolto il ricorso presentato dalla FP-CGIL di Bergamo contro il comune di Filago.
Nella citata sentenza il Tribunale di Bergamo pur non ritenendo che il comune di Filago con la deliberazione del 26.07.2012 abbia voluto ripartire unilateralmente le risorse del fondo di cui all’art. 15 del CCNL del 01.04.1999, palesando in tal modo una condotta antisindacale, ha ritenuto, invece, sussistere tale comportamento per la mancata informazione preventiva in merito alla gestione associata tramite convenzione con il comune di Pontida del servizio di polizia locale. (... continua).

PUBBLICO IMPIEGO: La ricongiunzione dei contributi dopo la legge di stabilità 2013 (CGIL-FP di Bergamo, nota 08.01.2013).
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La nuova legge di stabilità, con il comma 239 del lunghissimo articolo unico, cerca di porre un minimo rimedio all’ingiustizia creata dal governo Berlusconi che, tramite il d.l. 78/2010, aveva introdotto il pagamento della ricongiunzione dei contributi per chi aveva più gestioni pensionistiche. Per semplificare, chi è passato da un lavoro privato ad un lavoro pubblico o chi ha visto cambiata la sua gestione pensionistica e non ha maturato il diritto alla pensione in una delle due casse alle quali ha versato i contributi, potrà andare in pensione con il requisito dell’età (dal 2013 66 anni e 3 mesi ed almeno 20 anni di contributi) unificando i contributi pensionistici delle varie casse nelle quali li ha versati. (...continua).

UTILITA'

ENTI LOCALI: Esercizio associato di funzioni e servizi dal'01.01.2013.
Interessante la pagina web della Regione Piemonte dedicata alle risposte ai più frequenti quesiti interpretativi ed applicativi circa l'obbligatorio esercizio di funzioni di che trattasi dallo scorso 01.01.2013.
Ancorché il dossier inerisca la propria legge regionale di disciplina puntuale della materia, ci sono comunque spunti interessanti di interesse generale degni di essere letti (link a http://www.regione.piemonte.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: D.Lgs. 09.04.2008 n. 81 - Testo coordinato ed aggiornato a gennaio 2013 - TESTO UNICO SULLA SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO (link a www.lavoro.gov.it).

APPALTIAVCPass, arriva il nuovo sistema informatico per la verifica dei requisiti per l’accesso alle gare.
L’art. 6-bis del D.Lgs. 163/2006 (come modificato dal Decreto Semplificazioni) dispone che dal primo gennaio 2013 stazioni appaltanti ed enti aggiudicatori possano verificare il possesso dei requisiti degli operatori che partecipano alle gare esclusivamente tramite la Banca Dati nazionale dei contratti pubblici (BDNCP).
A tal proposito, l’AVCP (Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici) ha sviluppato e reso disponibile il nuovo sistema AVCpass che permette:
● alle stazioni appaltanti e agli enti aggiudicatori l’acquisizione dei documenti relativi al possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario per l’affidamento dei contratti pubblici;
● agli operatori economici di inserire a sistema i documenti la cui produzione è a proprio carico ai sensi dell’art. 6-bis, comma 4, del Codice (10.01.2013 - link a www.acca.it.

EDILIZIA PRIVATAImpianti e D.M. 37/2008: dal Ministero la Raccolta con pareri e circolari esplicative.
Il Ministero dello Sviluppo Economico ha pubblicato il “Massimario sulla 37/2008”, rivolto alle imprese di installazione di impianti all'interno degli edifici e agli operatori del settore, che contiene una raccolta dei pareri, circolari e lettere circolari in materia di attività regolamentate dal D.M. n. 37/2008.
Tra gli argomenti trattati, segnaliamo:
- Tipologie di impianti e relativa pertinente abilitazione
- Uffici Tecnici Interni
- Requisiti tecnici
- Esperienza professionale
- Cumulo dei requisiti in forma combinata
- Competenza territoriale CCIAA per accertamento requisiti
- Conversioni abilitazioni da 46/1990 a 37/2008
- Nomina e sostituzione del responsabile tecnico
- Dichiarazioni di conformità e di rispondenza
- Attestazione requisiti
- Pene accessorie e fallimento amministratori
- Attestazione SOA
- Sanzioni (10.01.2013 - link a www.acca.it.

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - ENTI LOCALI - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 11.01.2013 n. 9 "Ripubblicazione del testo del decreto-legge 18.10.2012, n. 179, coordinato con la legge di conversione 17.12.2012, n. 221, recante: «Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese»".

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: G.U. 10.01.2013 n. 8 "Norme di attuazione dell’articolo 1, comma 453, della legge 27.12.2006, n. 296, come sostituito dall’art. 11, comma 11, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, in tema di meccanismi di remunerazione sugli acquisti" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 23.11.2012).
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Chi vince l'appalto dà l'1,5% alla Consip.
Una commissione da parte delle imprese aggiudicatarie. Per finanziare parzialmente i costi di funzionamento della Consip e le attività da essa svolte nella sua qualità di centrale di committenza per conto di altre amministrazioni affidanti.
A dare attuazione della norma, modificata da ultimo dalla legge 111/2011, è il decreto del ministero dell'economia 23.11.2012, apparso sulla G.U. n. 8 di ieri.
I soggetti che dovranno pagare la commissione sono l'aggiudicatario delle convenzioni stipulate da Consip, l'aggiudicatario di gare su delega bandite da Consip Spa nell'ambito del Programma di razionalizzazione degli acquisti del Dipartimento dell'amministrazione generale, del personale e dei servizi, l'aggiudicatario degli appalti basati su accordi quadro conclusi da Consip Spa nell'ambito del Programma di razionalizzazione degli acquisti del Dipartimento dell'amministrazione generale, del personale e dei servizi.
La commissione non deve essere superiore all'1,5% da calcolarsi sul valore, al netto di Iva, del fatturato realizzato, con riferimento agli acquisti effettuati dalle pubbliche amministrazioni e dagli altri soggetti legittimati risultante dalla rendicontazione delle fatture. Al fine del calcolo dell'entità della commissione, gli aggiudicatari trasmettono a Consip, per via telematica, entro 30 giorni dal termine di ciascuno dei due semestri dell'anno solare, una dichiarazione sostitutiva, attestante l'importo delle fatture.
Successivamente Consip procede all'emissione della fattura relativa alla commissione e gli aggiudicatari provvedono al versamento entro 60 giorni dalla data di ricevimento della fattura. Per chi non paga, scattano le procedure esecutive previste dal codice di procedura civile (articolo ItaliaOggi dell'11.01.2013).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Congedo obbligatorio per il padre lavoratore.
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali emana il decreto 22.12.2012 contenente le modalità per la fruizione del congedo obbligatorio di un giorno e di quello facoltativo (di due giorni) da parte del padre lavoratore, previsto dall'art. 4, comma 24, lettera a) della legge 28.06.2012. n. 92 (tratto da www.publika.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: G. Giustiniani, IL TERMINE PER L’IMPUGNAZIONE E L’ANNULLAMENTO D’UFFICIO DEGLI ATTI DI GARA (link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: V. Capuzza, LE ESCLUSIONI NON CODIFICATE DAL D.LGS. N. 163/2006 E DAL D.P.R. 207/2010 (link a www.osservatorioappalti.unitn.it).

APPALTI SERVIZI: M. Cozzio, IN HOUSE: TUTTI I SOCI DEVONO POTER ESERCITARE UN CONTROLLO APPREZZABILE E PROPORZIONATO SULLA SOCIETÀ - Osservazioni alle Conclusioni dell’Avv. generale Pedro Crùz Villalòn del 19.07.2012, rinvio pregiudiziale alla CGCE, cause C-182/11 e C-183/11 (link a www.osservatorioappalti.unitn.it).

APPALTI: A. Bonanni, L'AVVALIMENTO NELLE PROCEDURE DI GARA - BREVE COMMENTO ALLA DETERMINAZIONE N. 2 DELL’01.08.2012 DELL’AUTORITÀ PER LA VIGILANZA SUI CONTRATTI PUBBLICI (link a www.osservatorioappalti.unitn.it).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Interventi di bonifica in siti di interesse nazionale.
Domanda.
In un comune, sito in Lombardia, devo costruire un immobile. Ho diritto a qualche agevolazione dei costi di bonifica?
Risposta.
La regione Lombardia, con la legge regionale del 12.12.2003, numero 26, prevede per gli operatori che effettuano interventi di bonifica in siti di interesse nazionale (Sin) una forma di agevolazione consistente nello scomputo del 50% dei costi di bonifica.
La stessa regione Lombardia, con la legge numero 10, del 2009, ha incentivato e promosso la bonifica, o la messa in sicurezza, dei siti contaminati in Lombardia attraverso la riscrittura dell'articolo della citata legge regionale del 12.12.2003, numero 26. In particolare, il legislatore regionale lombardo ha ammesso la possibilità di scomputare i relativi costi degli oneri di urbanizzazione a determinate condizioni. Una delle condizioni basilari per avere lo scomputo è che il responsabile della contaminazione non deve essere lo stesso soggetto che chiede il beneficio portato dalla suddetta legge. Lo stesso, poi, deve avere acquistato l'area non conoscendo le problematiche ambientali a essa connesse. Inoltre, il predetto non deve avere acquistato l'area da una procedura concorsuale. È fatta salva, in ogni caso, la facoltà dei comuni di ammettere il detto beneficio in considerazione della rilevanza della bonifica, anche per quote ulteriori.
Il comune, comunque, ha l'obbligo di motivare un eventuale diniego alla concessione del predetto beneficio. Al riguardo, il Consiglio di stato, sezione V, con la sentenza numero 716, del 2003, ha affermato che il diritto del titolare della concessione edilizia di realizzare in tutto o in parte le opere di urbanizzazione, sia primarie sia secondarie, a scomputo dei relativi oneri, non implica una pretesa indiscriminata allo scomputo del valore di qualsiasi opera di urbanizzazione volontariamente eseguita dallo stesso al di fuori di un preventivo accordo con il comune, ma esclude che il medesimo comune possa, senza adeguata motivazione e con oggettivo indebito arricchimento, porre a servizio della collettività e dello stesso concessionario opere da quest'ultimo eseguite, senza che il relativo valore venga scomputato dalla prestazione patrimoniale imposta, di tipo causale, ovvero finalizzata appunto alla predisposizione di infrastrutture, corrispondente agli oneri di urbanizzazione (articolo ItaliaOggi Sette del 07.01.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Trattamento acque reflue.
Domanda.
Il sindaco che ometta il trattamento delle acque reflue urbane e, in assenza dell'apposita autorizzazione, proceda allo scarico diretto delle stesse all'interno di acque superficiali a quali sanzioni va incontro?
Risposta.
Ai sensi degli articoli 100, 101, 105 del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, le acque reflue devono essere sottoposte, prima dello scarico, a un trattamento secondario o a n trattamento equivalente in conformità con le indicazioni dell'Allegato 5 alla parte terza del suddetto decreto. Ai sensi del successivo articolo 124 tutti gli scarichi devono essere preventivamente autorizzati.
L'autorizzazione è rilasciata al titolare dell'attività da cui origina lo scarico. Ove uno o più stabilimenti conferiscano, tramite condotta, a un terzo soggetto, titolare dello scarico finale, le acque reflue provenienti dalle loro attività, oppure qualora tra più stabilimenti sia costituito un consorzio per l'effettuazione in comune dello scarico delle acque reflue provenienti dalle attività dei consorziati, l'autorizzazione è rilasciata in capo al titolare dello scarico finale o al consorzio medesimo, ferme restando le responsabilità dei singoli titolari delle attività suddette e del gestore del relativo impianto di depurazione in caso di violazioni.
Il Tribunale di Santa Maria di Capua Vetere, con la sentenza del 05.05.2011, ha affermato che il sindaco che ometta il trattamento delle acque reflue urbane e, in assenza dell'apposita autorizzazione, proceda allo scarico diretto delle stesse all'interno di acque superficiali risponde, oltre che delle sanzioni amministrative di cui all'articolo 133 del decreto legislativo 03.04.2006, numero 152, su citato, anche dei delitti di danneggiamento, di cui all'articolo 635, del codice penale, nonché di omissione di atti d'ufficio, ai sensi dell'articolo 328 del codice penale.
Il regime autorizzatorio degli scarichi di acque reflue domestiche e di reti fognarie, servite o meno da impianti di depurazione delle acque reflue urbane, è definito dalle regioni nell'ambito della disciplina di cui all'articolo 101, commi 1 e 2.
Le regioni disciplinano le fasi di autorizzazione provvisoria agli scarichi degli impianti di depurazione delle acque reflue per il tempo necessario al loro avvio.
Salvo diversa disciplina regionale, la domanda di autorizzazione è presentata alla provincia ovvero all'Autorità d'ambito se lo scarico è in pubblica fognatura. L'autorità competente provvede entro novanta giorni dalla ricezione della domanda.
Salvo quanto previsto dal decreto legislativo 18.02.2005, n. 59, l'autorizzazione è valida per quattro anni dal momento del rilascio. Un anno prima della scadenza ne deve essere chiesto il rinnovo. Lo scarico può essere provvisoriamente mantenuto in funzione nel rispetto delle prescrizioni contenute nella precedente autorizzazione, fino all'adozione di un nuovo provvedimento, se la domanda di rinnovo è stata tempestivamente presentata (articolo ItaliaOggi Sette del 07.01.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Avendo titolo per effettuare il trasporto c/terzi si può effettuare anche il trasporto c/proprio? (27.12.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L’impianto di destino può procedere a consegnare direttamente al produttore la IV copia del FIR? E se quest’ultima vada smarrita? (27.12.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Cosa è la sterilizzazione dei rifiuti sanitari? (27.12.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Albo gestori ambientali: Quali devono essere le dotazioni minime di veicoli e di personale per lo svolgimento esclusivo dell’attività di raccolta differenziata e trasporto di tipologie di rifiuti urbani che non risultano avere una significativa produzione annua? (27.12.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: In ordine a quali criteri i rottami di vetro destinati alla produzione di sostanze od oggetti di vetro cessano di essere rifiuti? (27.12.2012 - link a www.ambientelegale.it).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTIAppalti p.a., requisiti on-line. Dal 2013 è partito il sistema di verifica delle imprese. L'Autorità di vigilanza ha fornito le indicazioni procedurali per l'accesso ad Avcpass.
Dal 01.01.2013 ha preso il via il sistema di verifica dei requisiti dichiarati dalle imprese in sede di gara per l'affidamento di contratti pubblici attraverso la banca dati nazionali dei contratti pubblici ex art. 6-bis del dlgs 163/2006 istituita presso l'Autorità per la vigilanza su contratti pubblici di lavori, servizi e forniture.
Il 24 dicembre scorso è stata formalizzata la deliberazione dell'Autorità di vigilanza contenente le indicazioni procedurali per il nuovo sistema di verifica Avcpass - Authority virtual company passport.
La finalità del nuovo sistema Avcpass è quella di consentire alle stazioni appaltanti di acquisire in via telematica la documentazione comprovante il possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario per l'affidamento dei contratti pubblici.
Per l'utilizzo del sistema Avcpass tutte le stazioni appaltanti, tramite il responsabile del procedimento, dovranno preventivamente registrarsi al sistema informativo di monitoraggio gare acquisendo in tal modo per ogni procedura di affidamento bandita lo specifico codice identificativo della gara. Analogamente anche i concorrenti che intendono partecipare alla procedura saranno tenuti alla registrazione al sistema Avcpass che rilascerà un apposito documento «Passoe» che attesta che l'operatore economico partecipante alla procedura potrà essere verificato tramite il nuovo sistema.
Gli operatori economici poi, fermo restando l'obbligo di presentazione delle autocertificazioni richieste dalla normativa sul possesso dei requisiti, dovranno riportare in sede di offerta all'interno della busta relativa alla documentazione amministrativa tale attestazione. All'interno dei documenti di gara le amministrazioni aggiudicatrici dovranno indicare specificatamente che la verifica dei requisiti sarà effettuata tramite Avcpass e prevedere l'obbligatorietà per tutti i partecipanti di registrazione al nuovo sistema.
Per le comunicazioni effettuate nell'ambito Avcpass sarà necessario che i diversi attori interessati dalla procedura di aggiudicazione (stazione appaltante/enti aggiudicatori, responsabile del procedimento, legale rappresentante o delegato dell'operatore economico, presidente e membri della commissione di gara) dispongano di un indirizzo di posta elettronica certificata (Pec).
Il responsabile del procedimento o il soggetto incaricato che si occuperà della verifica dei requisiti procederà con la richiesta della documentazione comprovante il possesso dei requisiti che l'Autorità a sua volta richiederà agli specifici enti interessati che renderanno disponibile tale documentazione sempre in via telematica.
I documenti in questione concerneranno il possesso dei requisiti di carattere generale di cui agli articoli 38 e 39 del Codice dei contratti e, pertanto, riguarderanno l'iscrizione al registro delle imprese fornita da Unioncamere, il certificato del casellario giudiziale e l'anagrafe delle sanzioni amministrative forniti dal ministero della giustizia, il certificato di regolarità contributiva per ingegneri, architetti e studi associati fornito da Inarcassa, il certificato di regolarità fiscale rilasciato dall'Agenzia delle entrate, il documento unico di regolarità contributiva fornito da Inail, la comunicazione antimafia rilasciata dal ministero dell'interno.
Per i requisiti di carattere tecnico-organizzativo ed economico-finanziario le informazioni che potranno essere acquisite concerneranno documentazione e dati che saranno messi a disposizione dagli enti preposti, dall'Autorithy e anche dagli operatori economici. Il riferimento alle informazioni rilasciate dagli enti è relativa ai bilanci delle società da parte di Unioncamere, certificazioni di qualità da parte di Accredia, fatturato globale e ammortamenti degli operatori economici in caso di impresa individuale o società di persone da parte dell'Agenzia delle entrate, dati relativi alla consistenza del personale da parte di Inps.
La documentazione messa a disposizione dall'Autorità concernerà le attestazioni Soa, i certificati di esecuzione lavori, i certificati di avvenuta esecuzione di servizi e forniture prestati a enti pubblici e le ricevute di pagamento del contributo obbligatorio all'Autorità da parte dei soggetti partecipanti alla procedura. L'ulteriore documentazione comprovante il possesso dei requisiti sarà resa disponibile direttamente dagli operatori economici sulla base di quanto indicato dal responsabile di procedimento in relazione alla procedura di gara.
La deliberazione 20.12.2012 n. 111 prevede, infine, una gradualità per l'entrata a regime della nuova procedura di verifica nel corso del 2013. Relativamente agli appalti di lavori nel settore ordinario di importo pari o superiore a 20 milioni è consentito, in deroga all'obbligo di utilizzo di Avcpass vigente per gli stessi dall'01/01/2013, procedere alla verifica dei requisiti con le precedenti modalità fino al 30/06/2013.
Per tutti gli appalti di importo pari o superiore a 40.000, a eccezione di quelli svolti attraverso procedure gestite in via telematica e di quelli nei settori speciali, l'obbligo di utilizzo del nuovo sistema decorrerà a partire dall'01/03/2013 prevedendo, tuttavia, fino al prossimo 30 giugno la possibilità di verifica sulla base delle precedenti procedure. L'obbligo di verifica con il nuovo sistema scatterà per gli appalti di importo pari o superiore a 40.000 gestiti in via telematica e per i settori speciali dall'01/10/2013 con possibilità di utilizzo delle precedenti modalità fino al 31/12/2013 (articolo ItaliaOggi dell'11.01.2013).

LAVORI PUBBLICIIl business deciso dopo la gara. Piano economico elastico nel partenariato pubblico-privato. L'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici apre alla definizione successiva dell'investimento.
Nel partenariato pubblico privato, è legittima la stipula di un «contratto accessorio» finalizzato alla definizione del piano economico e finanziario, laddove si tratti di Ppp istituzionalizzato tramite creazione di una società mista in cui il socio privato sia stato scelto in gara; in questa ipotesi anche il piano economico può essere definito successivamente all'aggiudicazione dalla gara.
È quanto afferma l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici con la deliberazione 20.12.2012 n. 105 (relatore il consigliere Luciano Berarducci) relativa all'operazione di Ppp avviata dal Comune di Milano sulla linea metropolitana M4 (Lorenteggio-Linate, valore dell'opera quasi 1,7 miliardi, di cui 9,9 milioni di progettazione, che doveva favorire l'accesso all'area di Expo 2015).
Per questo intervento il Comune aveva infatti avviato, con un bando di gara pubblicato prima dell'entrata in vigore del codice dei contratti pubblici, la scelta di un socio privato per la costituzione di una società mista (poi concessionaria) avente ad oggetto la costruzione e la gestione dell'opera, nel presupposto quindi di dare vita a un Ppp cosiddetto «istituzionalizzato».
L'Autorità si esprime favorevolmente su tutta la procedura seguita per la selezione del socio privato che, si legge nella delibera, «appare conforme alla normativa all'epoca rinvenibile nell'art.116 del dlgs n. 267 del 2000, nella legge n. 109/94 e successivamente, in quanto applicabile, nel dlgs n. 163/2006». La parte di maggiore rilievo della delibera riguarda però la parte in cui la delibera prende in considerazione uno strumento giuridico inusuale e non previsto dalla normativa vigente quale il «contratto accessorio», previsto nel bando di gara per disciplinare la fase precontrattuale (intercorrente fra aggiudicazione definitiva e stipula della convenzione).
In particolare si tratta di uno strumento finalizzato ad assicurare i vari adempimenti propedeutici alla sottoscrizione del contratto (fra cui l'acquisizione della progettazione esecutiva), in maniera analoga allo strumento dell'ordine di servizio che il responsabile del procedimento emette nelle procedure dell'appalto integrato o della finanza di progetto, dove la progettazione, gli espropri, ecc. sono trasferiti in capo al contraente (dopo la sottoscrizione del contratto), ma con, in più, diverse attività fra cui anche quelle relative alla costituzione della società concessionaria (Statuto della società ecc.) e, aspetto forse più rilevante, al reperimento del contratto di finanziamento pro quota dei privati (30 % circa dell'investimento complessivo) e alla predisposizione del Pef contrattuale (cosiddetta di offerta).
Trattandosi di un Ppp istituzionalizzato, l'effetto è quindi quello per cui una serie di attività che nelle usuali procedure di Ppp contrattuale vengono svolte prima della gara, in questa specifica a particolare fattispecie vengono poste in essere successivamente alla gara che, infatti, riguardava la scelta del socio privato.
Questo strumento giuridico, viene quindi dall'Autorità valutato (oltre che come «idoneo a governare la fase compresa dall'aggiudicazione alla costituzione della società mista pubblico-privato per la costruzione e gestione dell'opera, attesa la specificità del contratto di partenariato pubblico privato istituzionalizzato», ma anche «necessitato» visti i complessi adempimenti burocratici, con un valore, però «transeunto, fino alla sottoscrizione della convenzione».
In sostanza si tratta di un meccanismo per vincolare l'aggiudicatario (sono previste anche clausole di risoluzione del contratto) ma anche per conferirgli la possibilità di procedere ad adempimenti che, secondo le procedure usuali avrebbe potuto svolgere soltanto in una fase successiva (articolo ItaliaOggi del 10.01.2013).

CORTE DEI CONTI

INCARICHI PROFESSIONALI - URBANISTICA: Elaborazione di un nuovo PRG - Incarico a professionista esterno - Grave pregiudizio alle casse dell'Ente - Condotte commissive e omissive - Responsabilità del Sindaco e del Dirigente - Configurabilità.
Il Dirigente dell'Ufficio di Piano, essendo funzionalmente perfettamente edotto sull’iter progettuale e sul lavoro svolto dalla struttura preposta all'elaborazione di un nuovo PRG, ha l'obbligo di rappresentare al Sindaco e agli altri Organi dell'Ente l'irragionevolezza di eventuali scelte (per es. di avviare ex novo un lavoro già svolto).
Nella specie, entrambi (Sindaco e Dirigente), con le rispettive condotte commissive e omissive, hanno arrecato un grave pregiudizio alle casse dell'Ente che ha pagato un professionista esterno per il perseguimento di un obiettivo dichiarato (progetto del nuovo PRG) mai attuato e che nella realtà dei fatti si è limitato a fornire supporto lavorativo nell'ordinaria gestione dell'attività dell'Ufficio, quali l'aggiornamento dei dati e la collaborazione per la predisposizione di varianti parziali o minori.
In particolare, il Dirigente anziché ottemperare ai propri obblighi di funzionario pubblico a difesa delle ragioni dell'Ente, ha preferito adottare un comportamento meramente acquiescente conformandosi pedissequamente alla volontà dell'Organo politico.
Responsabilità contabile - Affidamento incarichi di consulenza esterna - Illegittima acquisizione di un'ulteriore unità di personale - Configurabilità - Art. 110, c. 6, T.U. n. 267/2000 - Art. 97 Cost..
In materia di responsabilità contabile, gli enti locali possono fare ricorso all'affidamento di incarichi a professionisti, anche per lo svolgimento di funzioni istituzionali, ogni qual volta non sia possibile utilizzare personale in servizio nell'Amministrazione locale. Ciò nell'ipotesi in cui tale impossibilità dipenda dalla carenza nell'ambito della struttura locale di personale, qualitativamente o quantitativamente, idoneo per lo svolgimento dei compiti e delle funzioni che l'Ente deve esercitare nel caso specifico o anche nella ipotesi in cui la realizzazione del lavoro o dell'elaborato, commissionato a professionisti esterni, non rientri nelle competenze specifiche del personale dei propri uffici o servizi.
Inoltre, per la nomina dei consulenti esterni la giurisprudenza della Corte dei conti ha fissato ulteriori principi per la legittimità dell’incarico:
- il conferimento dell'incarico deve essere legato a problemi che richiedono conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze;
- l'incarico deve concernere la soluzione di specifiche problematiche già individuate al momento del conferimento dello stesso e del quale devono costituire l'oggetto;
- l'incarico deve presentare le caratteristiche della specificità e della temporaneità;
- l'incarico non deve rappresentare uno strumento per ampliare fittiziamente compiti istituzionali e ruoli organici dell'ente;
- il compenso connesso all'incarico deve essere proporzionale all'attività svolta e non liquidato in maniera forfettaria;
- la delibera di conferimento deve essere adeguatamente motivata;
- i criteri di conferimento non devono essere generici; (Sezione III Centrale n. 9 del 2003, Sezione III Centrale n. 279 del 2002, Sezione III Centrale n. 149 del 2004, Sezione Giurisdizionale Puglia n. 200 del 2001; Sezione Giurisdizionale Toscana n. 258 del 2003);
- l'adeguatezza del rapporto proporzionale tra i compensi erogati all'incaricato e le corrispondenti utilità conseguite dall'Amministrazione conferente.
Conferimento incarichi di consulenza - Natura e limiti.
La possibilità di conferire incarichi di consulenza di natura autonoma deve essere attentamente valutata dalle Amministrazioni pubbliche sia in ragione degli specifici limiti di spesa imposti dal Legislatore, ma anche dei presupposti giuridici che ne legittimano il ricorso. Il rispetto di questi ultimi, in particolare, considerato il carattere straordinario dell'esigenza, la temporaneità e l'alta qualificazione della prestazione e l'obbligo di motivazione, impongono all'Amministrazione la conoscenza approfondita della proprie risorse, in termini organizzativi, economici e di professionalità.
Nella specie, la prestazione del professionista, (dall'anno 2006 al mese di giugno 2010) in buona sostanza, ha rappresentato per l'Amministrazione l'acquisizione di un'ulteriore unità di personale a disposizione dell'Ufficio di Piano, pur se effettuata eludendo le norme che disciplinano il reclutamento di dipendenti pubblici anche a tempo determinato (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Marche, sentenza 21.12.2012 n. 138 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: PRG - Natura - Funzione pianificatoria globale - Efficacia vincolante e conformativa - Atto complesso.
A differenza dei piani territoriali di coordinamento, il PRG ha carattere precettivo. Esso, cioè, assume una funzione pianificatoria globale per il corretto uso del territorio ed ha efficacia vincolante e conformativa.
In materia urbanistica, il Piano strutturale contiene i criteri guida di sviluppo (le vocazioni urbanistiche del territorio) e il Piano Operativo, avente natura precettiva con vigenza temporale limitata, definisce le trasformazioni urbanistiche del Comune, sotto il profilo urbanistico, edilizio e temporale.
Non si tratta di due strumenti distinti, bensì di un atto complesso che prevede altresì l'adozione del Regolamento urbanistico edilizio (RUE) che assume la funzione delle norme tecniche di attuazione del PRG, come fonte normativa per la definizione del Piano Operativo (POC) (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Marche, sentenza 21.12.2012 n. 138 - link a www.ambientediritto.it).

ENTI LOCALIGiudici di pace, futuro difficile. Il comune può salvare l'ufficio, ma senza sforare i conti. Parere della Corte dei conti della Lombardia: nessuna deroga al patto di stabilità.
In tema di soppressione e di accorpamento degli uffici del giudice di pace, è previsto che l'amministrazione comunale può comunque esercitare la facoltà di mantenere in attività tale servizio, a condizione che se ne assuma tutti gli oneri economici, inclusi quelli relativi al personale amministrativo.
In tale caso, però, l'ente dovrà comunque prevedere l'impatto dei relativi pagamenti con il rispetto del patto di stabilità interno e con la disciplina in materia di contenimento della spesa di personale, non essendo prevista, ad oggi, alcuna espressa deroga normativa di tali voci in tal senso.

Lo ha messo nero su bianco la sezione regionale di controllo della Corte dei conti Lombardia, nel testo del parere 12.12.2012 n. 522, da poco reso noto, in relazione alle disposizioni (e alle relative conseguenze) contenute all'articolo 3, commi da 2 a 5, del dlgs n. 156/2012 che hanno revisionato la disciplina delle circoscrizioni giudiziarie e degli uffici del giudice di pace, procedendo a una serie di soppressioni ed accorpamenti territoriali.
IL FATTO
Su questa base normativa, il comune di Seregno (MB) ha posto un quesito alla Corte, facendo presente che lo stesso ha già dato al ministero della giustizia il suo assenso di massima al mantenimento dell'ufficio del giudice di pace di Desio. Ha però precisato, che tale assenso è condizionato alla possibilità che le spese di funzionamento e di erogazione del servizio, incluso il fabbisogno del personale amministrativo, siano escluse dal computo delle spese rilevanti ai fini del patto di stabilità interno e dei vincoli in materia di personale, come previsti dall'articolo 1, comma 557, della legge finanziaria 2007.
IL PARERE
La Corte lombarda, però non è stata dell'avviso del comune istante. Infatti, ha rilevato che la norma sopra richiamata prevede il mantenimento della sede giudiziaria su cui è calata la scure della soppressione o dell'accorpamento, qualora il comune del territorio di riferimento ne faccia espressa richiesta e a condizione che si accolli le spese di funzionamento della struttura e del personale amministrativo. In pratica, la norma dispone le predette spese a carico del comune che esercita la facoltà, mentre a carico del ministero della giustizia restano le sole spese per il personale di magistratura onoraria e le spese di formazione del personale amministrativo.
Quindi, ha sottolineato la Corte, se un'amministrazione comunale dovesse esercitare tale facoltà, ne conseguirebbe che il servizio giudiziario verrebbe «acquisito» nell'alveo dei servizi comunali, al pari di altri servizi pubblici erogati ai cittadini. Pertanto, l'amministrazione comunale, oltre a doverne sopportare gli oneri economici a beneficio del Ministero competente, dovrà preliminarmente verificare l'impatto dei pagamenti (ovvero la spesa corrente) con il rispetto del patto di stabilità interno e con i limiti imposti in materia di spesa per il personale, sia con riferimento al contenimento di detta spesa che con riferimento al personale amministrativo giudiziario utilizzato dall'ente locale per il mantenimento del servizio.
In più, rispondendo al quesito del comune brianzolo, il collegio della magistratura contabile lombarda ha evidenziato che in assenza di norme derogatorie sull'esclusione dei sopra citati oneri economici dalla disciplina del Patto di stabilità per gli enti locali, la possibilità ventilata dal comune di considerarli «esclusi» a tali fini, non regge. Non è nella sfera del ministero della giustizia, infatti, valutare le condizioni di assenso del comune al mantenimento del servizio, solo al ricorrere di tale esclusione, peraltro non prevista dalla norma.
In definitiva, se l'amministrazione comunale, nell'esercizio della propria sfera di discrezionalità, intenda assumere il servizio giudiziario onorario, ne dovrà «incondizionatamente» sopportare gli oneri finanziari ai fini del Patto di stabilità, dell'equilibrio di parte corrente e dei limiti imposti in materia di personale (articolo ItaliaOggi del 10.01.2013).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOGestione associata di servizi.
La Corte dei Conti, sezione regionale Lombardia, con i pareri 10.12.2012 n. 513 e 12.12.2012 n. 527 si occupa di aspetti correlati alla gestione obbligatoria di funzioni e servizi da parte dei piccoli enti che, dal 2013, saranno anche sottoposti alle regole del patto di stabilità ed alle collegate norme in tema di contenimento della spesa di personale e vincoli assunzionali.
Sinteticamente, la sezione lombarda, anche a conferma di propri precedenti pareri, rammenta che:
- qualsiasi forma di gestione associata (in convenzione o tramite Unione) deve consentire agli enti una razionalizzazione di spesa e non è ammessa alcuna deroga che consenta un incremento della spesa complessiva di personale;
- le spese di personale andranno ripartite tra gli enti secondo adeguati criteri predefiniti;
- eventuali maggiori spese prima non sostenute dovranno trovare un bilanciamento in minori per differenti funzioni esercitate in forma sovracomunale;
- ad ogni servizio o funzione associata dovrà corrispondere l'individuazione di un unico responsabile di servizio, secondo le norme stabilite dal TUEL e dal CCNL;
- non è conforme alla normativa vigente individuare, in siffatte fattispecie, la figura di direzione (responsabile) tra i componenti dell'organo esecutivo dell'ente capofila (art. 53, comma 23, legge n. 388/2000);
- soluzioni che realizzino una unificazione solo formale delle attività rientranti in ciascuna funzione ma che, di fatto, consentano agli enti di continuare a svolgerle con la propria organizzazione ed ai medesimi costi, violano l'obbligo della gestione associata imposta dalle norme (tratto da www.publika.it).

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'art. 90 del dlgs 267/2000 dispone, al comma 1, che il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi può prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco, del presidente della provincia, della Giunta o degli assessori, per l'esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla legge, costituiti da dipendenti dell'ente, ovvero, salvo che per gli enti dissestati o strutturalmente deficitari, da collaboratori assunti con contratto a tempo determinato, i quali, se dipendenti da una pubblica amministrazione, sono collocati in aspettativa senza assegni.
Le assunzioni ai sensi dell'art. 90 del TUEL presentano quindi alcune caratteristiche particolari che possono essere riassunte alla luce della giurisprudenza formatasi in materia:
- si tratta di assunzioni a tempo determinato e non possono essere affidate tramite incarichi di collaborazione coordinata e continuativa;
- si tratta di posti in dotazione organica e pertanto per i posti il singolo ente sulla base della propria autonomia regolamentare dovrà valutare a quale categoria si riferiscono le necessità del Comune ai fini delle assunzioni ex art. 90 del Tuel;
- possono essere affidate esclusivamente per funzioni di supporto di attività di indirizzo e di controllo alle dirette dipendenze del Sindaco, al fine di evitare qualunque sovrapposizione con le funzioni gestionali ed istituzionali, che devono invece dipendere dal vertice della struttura organizzativa dell'ente;
- agli uffici in oggetto possono essere affidate la gestione delle risorse umane, strumentali e finanziarie strettamente strumentali e funzionali all'esercizio dei compiti medesimi.
- tali assunzioni rientrano nel concetto di spesa di personale.
Inoltre:
- il compenso di base deve essere corrispondente ad un compenso erogato per la categoria di appartenenza del CCNL Enti Locali sulla base di quanto previsto nella dotazione organica per quel preciso posto da ricoprire in riferimento alle disposizioni dell'art. 90 del Tuel;
- anziché prevedere diversi compensi accessori sarà possibile individuare un unico emolumento (indennità di staff) onnicomprensiva di qualsiasi altra retribuzione accessoria.

Venendo al merito della questione, il problema sottoposto all'esame di questo Collegio riguarda una richiesta risarcitoria avanzata dalla procura regionale competente in relazione all'affidamento di alcuni incarichi intervenuto presso il Comune di Molinara in assenza di procedure di valutazione e con il ricorso a normativa non conferente.
Tali incarichi sarebbero stati conferiti ai sensi dell'articolo 90 del testo unico numero 267 del 2000 e tenuto conto dell'articolo 13 del regolamento sull'ordinamento degli uffici del Comune.
L'articolo 90 citato dispone al comma 1 che Il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi può prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco, del presidente della provincia, della Giunta o degli assessori, per l'esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla legge, costituiti da dipendenti dell'ente, ovvero, salvo che per gli enti dissestati o strutturalmente deficitari, da collaboratori assunti con contratto a tempo determinato, i quali, se dipendenti da una pubblica amministrazione, sono collocati in aspettativa senza assegni.
Conformemente a tale previsione, il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi del comune ha previsto che il sindaco per l'esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo può assumere personale di alta specializzazione [?] scegliendolo intuitu personae e sulla base di un curriculum.
Le assunzioni ai sensi dell'art. 90 del TUEL presentano quindi alcune caratteristiche particolari che possono essere riassunte alla luce della giurisprudenza formatasi in materia:
- si tratta di assunzioni a tempo determinato e non possono essere affidate tramite incarichi di collaborazione coordinata e continuativa (Corte dei conti Puglia Sentenza n. 241/2007);
- si tratta di posti in dotazione organica (Corte dei conti Toscana Sentenza 622/2004) e pertanto per i posti il singolo ente sulla base della propria autonomia regolamentare dovrà valutare a quale categoria si riferiscono le necessità del Comune ai fini delle assunzioni ex art. 90 del Tuel;
- possono essere affidate esclusivamente per funzioni di supporto di attività di indirizzo e di controllo alle dirette dipendenze del Sindaco, al fine di evitare qualunque sovrapposizione con le funzioni gestionali ed istituzionali, che devono invece dipendere dal vertice della struttura organizzativa dell'ente (Corte dei conti Lombardia Deliberazione 43/2007);
- agli uffici in oggetto possono essere affidate la gestione delle risorse umane, strumentali e finanziarie strettamente strumentali e funzionali all'esercizio dei compiti medesimi (Corte dei conti Toscana Deliberazione n. 5P/2008 in parte in contrapposizione con la Corte dei conti Lombardia poco sopra citata).
- tali assunzioni rientrano nel concetto di spesa di personale (Corte dei conti Lombardia Deliberazione 43/2007)
Inoltre:
- il compenso di base deve essere corrispondente ad un compenso erogato per la categoria di appartenenza del CCNL Enti Locali sulla base di quanto previsto nella dotazione organica per quel preciso posto da ricoprire in riferimento alle disposizioni dell'art. 90 del Tuel;
- anziché prevedere diversi compensi accessori sarà possibile individuare un unico emolumento (indennità di staff) onnicomprensiva di qualsiasi altra retribuzione accessoria.
Da quanto precede emerge con chiarezza che ogni riferimento a procedure selettive appare inconferente alla fattispecie, tenuto conto del rapporto fiduciario che lega il sindaco alle persone da collocare nell'ufficio di staff. Quindi ogni censura in proposito sarebbe destituita di fondamento.
Peraltro, proprio da un lato la fiduciarietà del rapporto e dall'altro le funzioni per le quali dei soggetti vengono chiamati a collaborare determinano un necessario problema interpretativo della norma.
Per stessa dichiarazione del difensore degli odierni appellanti, gli stessi in realtà erano stati chiamati a svolgere funzioni prettamente esecutive. Il medesimo difensore ha altresì dichiarato in udienza che si trattava di personale non laureato addetto a mansioni di segreteria che, tra l'altro, finiva con l'essere sostanzialmente sottopagato con un indubbio vantaggio per l'ente locale.
Ora, non vi è chi non veda come tale impostazione cozzi contro la previsione normativa sia dell'articolo 90 del testo unico, sia dell'articolo 13 del regolamento comunale. Nel primo infatti si specifica che la funzione che gli odierni appellanti sono stati chiamati a svolgere nell'ambito dell'ufficio di staff avrebbe dovuto essere quella di collaborazione alle dirette dipendenze del sindaco per l'esercizio della funzione di indirizzo e controllo. Il secondo dato normativo, quello del regolamento, ci dice che doveva trattarsi di personale altamente specializzato, selezionato, oltretutto, sulla base di un curriculum che evidentemente è destinato ad evidenziare le capacità ed i trascorsi professionali.
Si chiede ora il Collegio, attesa anche l'interpretazione che la giurisprudenza ha dato in particolare dell'articolo 90 del testo unico, se personale non laureato, destinato a fare fotocopie e rispondere al telefono -come testualmente affermato da uno dei difensori degli appellanti in udienza- risponda ai criteri di collaborazione alle funzioni di indirizzo e controllo nonché di alta specializzazione nelle funzioni dimostrata da una base curriculare.
Non solo, ma la caratteristica della fiduciarietà del rapporto implica che evidentemente la scelta ricada su soggetti che sono appunto di fiducia dell'autorità politica (così è anche, ad esempio, per coloro che vengono immessi negli uffici di diretta collaborazione ai sensi dell'articolo 19 del decreto legislativo numero 165 del 2001 per lo Stato), al fine di svolgere compiti anche dedicati che non a caso, nella fattispecie sia la legge che il regolamento riconducono alle più alte funzioni di indirizzo e controllo.
In verità, a questo Collegio sembra che il Comune si sia avvalso della normativa in esame in modo assai improprio, al fine di assumere dei collaboratori che avrebbero dovuto probabilmente essere reclutati secondo diverse procedure. Non sembra conferente in proposito la precisazione che il Comune abbia dato vita ad una fattispecie a formazione progressiva costituita da due momenti: un primo momento -delibera giuntale- che ha individuato i presupposti per il conferimento dell'incarico, all'uopo specificando la natura del rapporto, la qualifica da ricoprire e la circostanza che il Comune non versasse in condizioni di dissesto finanziario non è strutturale; un secondo -decreto sindacale- con il quale si è operata all'individuazione del soggetto, scegliendolo attraverso la comparazione tra i requisiti generali richiesti nella delibera di giunta, le funzioni necessarie all'ente e il curriculum.
Tale procedimento infatti non impedisce di considerare improprio il riferimento normativo, anche se questo Giudice deve riconoscere che non ricorrono gli estremi per l'integrazione di un comportamento a titolo di dolo, né tanto meno di dolo contrattuale: è stato chiarito, infatti, che l'incarico ex articolo 90 non può negli effetti andare a sovrapporsi a competenze gestionali ed istituzionali dell'ente. Se così il legislatore avesse voluto, si sarebbe espresso in maniera completamente diversa e non avrebbe affatto fatto riferimento alle funzioni di indirizzo e controllo dell'autorità politica.
Che costoro poi si siano accontentati di compensi particolarmente bassi, non appare un motivo significativo per ritenere che il Comune abbia agito legittimamente; anzi, ciò risulterebbe anche in contrasto con una prestazione che, secondo i dettami di legge, avrebbe dovuto essere qualificata e avrebbe dovuto essere di un certo rilievo professionale.
Certo è che, in ogni caso, la prestazione è stata resa e di questo non può non essere tenuto conto ai fini della considerazione delle utilità che il Comune ha comunque derivato dalla vicenda
(Corte dei Conti, Sez. I centrale d'Appello, sentenza 06.12.2012 n. 785 - link a www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGONon è sufficiente, per affermare che sussista un illecito utilizzo del telefono posto a disposizione dall'ente di appartenenza per finalità di lavoro, la sola prova indiziaria secondo la quale costituiscono un utilizzo privato dell'utenza pubblica le chiamate effettuate al di fuori dell'orario di servizio, nelle giornate d'assenza dal lavoro od a numerazioni per le quali non è direttamente presumibile un'oggettiva riferibilità al servizio (vale a dire numeri dell'ente di appartenenza o comunque di uffici istituzionali).
Come già rilevato da questa Sezione in un'analoga vicenda (sent. n. 62 del 16.05.2012), non è sufficiente, per affermare che sussista un illecito utilizzo del telefono posto a disposizione dall'ente di appartenenza per finalità di lavoro, la sola prova indiziaria secondo la quale costituiscono un utilizzo privato dell'utenza pubblica le chiamate effettuate al di fuori dell'orario di servizio, nelle giornate d'assenza dal lavoro od a numerazioni per le quali non è direttamente presumibile un'oggettiva riferibilità al servizio (vale a dire numeri dell'ente di appartenenza o comunque di uffici istituzionali).
Lo stesso discorso vale per le indicazioni indiziarie derivanti da quelle che in citazione si definiscono anomalie, come la durata eccessiva di talune chiamate, l'elevato numero di SMS indirizzati alla stessa utenza telefonica, l'elevata frequenza di chiamate ad una medesima utenza.
Occorre infatti che tali pur importanti indicazioni siano integrate da ulteriori elementi di prova (di accertamento pieno o quanto meno derivanti da ulteriori indicazioni presuntive gravi, precise e concordanti, come stabilisce l'art. 2729 c.p.c.) circa la non riferibilità al lavoro delle chiamate contestate al dipendente assegnatario del telefono di servizio.
Sono quindi da condividersi le considerazioni del Tribunale di Gorizia (sent. cit. pagg. 7/8) secondo il quale in mancanza di elementi in ordine al contenuto delle telefonate non può, quindi, ragionevolmente escludersi la prospettazione difensiva per cui le telefonate contestate avevano comunque attinenza alle mansioni svolte dall'imputato. Illuminante, sul punto, è lo stesso esame dell'imputato svolto dal P.M., ove il P. ha potuto agevolmente sostenere la sua tesi, e ribattere alle contestazioni che gli venivano mosse, sostenendo appunto l'utilizzo per attività di servizio, senza che il P.M. avesse elementi concreti per poter smentire quanto dallo stesso allegato a propria difesa.
Nonostante l'apprezzabile sforzo del P.M. d'udienza, infatti, è difficile non dar credito alla tesi difensiva laddove lo stesso P.M., nel contestare alcuni numeri di telefono, non era in possesso -citando solo i numeri iniziali 3469438- nemmeno del numero completo di una delle utenze chiamate maggiormente rilevanti ai fini accusatori, sì che appare plausibile persino il io non so di che numero sta parlando che, collegato al precedente io il telefono l'ho sempre usato nello stesso modo per servizio o per cose collegate al servizio, induce a ritenere non provata la condotta appropriativa dell'imputato in mancanza di puntuale smentita della sua tesi. Lo stesso vale anche per altra telefonata, quella alla finanziaria, laddove l'imputato ha fornito una spiegazione comunque riconducibile al servizio che non può sempre per la citata carenza di elementi di segno contrario - essere smentita in alcun modo (e così per le altre telefonate per le quali l'imputato ha comunque fornito una spiegazione).
A favore dell'imputato, poi, giocano ulteriori elementi direttamente emergenti dalla documentazione prodotta dal P.M. Risulta, infatti, che tra le telefonate contestate (di cui alle elencazioni del capo di imputazione aventi data 28.03.2009 e 16.04.2009) ve ne sono parecchie riferibili anche ad utenze istituzionali, come quelle effettuate a utenze dell'Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, della C.C.I.A. di Gorizia, della Provincia di Gorizia e persino del Comune di Cormòns (Polizia Municipale). Ora, appare insostenibile ritenere, in mancanza di elementi di contrario avviso, che tali telefonate, tenuto conto dell'attività e delle mansioni svolte dall'imputato, non siano connesse all'attività di servizio.
Osserva inoltre il Collegio, per la dichiarazione datata 08.01.2009 indirizzata dal P. al Responsabile del Servizio Ragioneria del Comune (doc. 5 Proc.), che la stessa non ha contenuto confessorio relativamente al complesso delle telefonate contestate in causa, poiché in tale dichiarazione il convenuto letteralmente si rendeva solo disponibile, per una bolletta telefonica che appariva all'Ufficio troppo elevata, a chiarimenti più specifici ed a rifondere l'eventuale danno arrecato al Comune per le telefonate che la S.V. volesse eventualmente addebitarmi in quanto non considerate di servizio
Da tale dichiarazione emerge quindi solo la disponibilità del convenuto ad un contraddittorio caso per caso ed al risarcimento, solo successivo ed eventuale, di specifiche telefonate che l'Ufficio ritenesse comunque di considerare non inerenti al lavoro.
Tale contraddittorio nello specifico non risulta esservi stato ed anzi il Tribunale di Gorizia ha stigmatizzato che le indagini di P.G. siano stata delegate al Comandante dei Vigili, atteso che un acclarato clima non sereno nell'ufficio avrebbe dovuto sconsigliare una delega delle indagini al soggetto posto in posizione apicale nel predetto ufficio, tenuto conto che lo stesso soggetto, il Comandante P., poi predisponeva la stessa elencazione delle telefonate contestate di cui al capo d'imputazione, per poi riferire, nel corso della usa audizione testimoniale, che su quelle telefonate, sul contenuto e le motivazioni delle conversazioni, non aveva invece svolto alcuna attività d'indagine (sent. cit. pag. 6).
Sono considerazioni che hanno peso anche nel presente giudizio, nel quale parimenti le acquisizioni accertative dei fatti risultano o riprese dal procedimento penale o provenienti dallo stesso Comandante Paesini.
In conclusione allo stato degli atti non emerge sufficiente prova che le telefonate contestate al convenuto come anomale non fossero comunque collegate a necessità di servizio sorte in occasione di interventi di altri colleghi o per esigenze contingenti di altri uffici comunali o per altre ragioni riconducibili al lavoro svolto dal P. quale Vigile Urbano del Comune di Cormòns.
Pertanto la domanda proposta dalla Procura Regionale non può essere accolta
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Friuli Venezia Giulia, sentenza 06.12.2012 n. 130 - link a www.corteconti.it).

NEWS

APPALTI - ENTI LOCALITrasparenza boomerang. Contratti p.a. inefficaci senza pubblicità. La norma del dl crescita sta mettendo in difficoltà le amministrazioni.
Efficacia di contratti, contributi ed incarichi di collaborazione condizionata dalla pubblicazione sul sito degli enti.
Con il 2013 entra a regime la disposizione cosiddetta «amministrazione aperta», contenuta nell'articolo 18 del dl 83/2012, convertito in legge 1234/2012.
Dovrebbe trattarsi, nell'ispirazione, di una disposizione di «semplificazione» ispirata ai principi della trasparenza totale (tratti dal Freedom of information act, molto di moda in campagna elettorale). Nella realtà è, invece, un'ennesima complicazione burocratica, che sta mettendo in serie difficoltà le amministrazioni.
La norma, come noto, impone di pubblicare sul sito di ciascuna amministrazione, nella sezione «trasparenza e valutazione» una rilevante serie di informazioni riguardanti «la concessione delle sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari alle imprese e l'attribuzione dei corrispettivi e dei compensi a persone, professionisti, imprese ed enti privati e comunque di vantaggi economici di qualunque genere di cui all'articolo 12» della legge 241/1990.
I problemi posti dalla norma sono molteplici. In primo luogo, la sua obbligatorietà. Fino al 31.12.2012 la sua mancata applicazione non comportava conseguenze.
Col 2013 le cose cambiano radicalmente. Ai sensi del comma 5 del citato articolo 18, infatti, «a decorrere dal 01.01.2013, per le concessioni di vantaggi economici successivi all'entrata in vigore del presente decreto legge, la pubblicazione ai sensi del presente articolo costituisce condizione legale di efficacia del titolo legittimante delle concessioni e attribuzioni di importo complessivo superiore a mille euro nel corso dell'anno solare».
Questo significa che non sarà sufficiente l'efficacia del provvedimento di aggiudicazione (ma del resto è sempre stato così), ma perfino la stessa stipulazione del contratto non saranno sufficienti perché le obbligazioni contratte siano produttive di effetti. Per meglio esemplificare, la stipulazione del contratto non è più presupposto per la legittima ordinazione della prestazione. Occorre necessariamente che il contratto sia pubblicato e solo successivamente le parti possono legittimamente darvi corso, o, nel caso di contributi, erogare la somma prevista.
Tanto è rilevante l'adempimento che nel caso di violazione scatta «la diretta responsabilità amministrativa, patrimoniale e contabile per l'indebita concessione o attribuzione del beneficio economico».
Inoltre, il beneficiario e chiunque altro vi abbia interesse può a sua volta far rilevare la mancata, incompleta o ritardata pubblicazione, anche allo scopo di ottenere l'eventuale risarcimento del danno da ritardo.
Non solo, dunque, dirigenti, responsabili di servizio e uffici dovranno stare molto attenti alla formalità burocratica, ma si pone il problema del formato della pubblicazione. Prendendo l'articolo 18 alla lettera occorre che i dati pubblicati siano «resi di facile consultazione, accessibili ai motori di ricerca ed in formato tabellare aperto che ne consente l'esportazione, il trattamento e il riuso».
La gran parte delle amministrazioni non si è ancora dotata del sistema informatico per pubblicare i dati così come richiede il legislatore (si veda ItaliaOggi di ieri).
C'è da chiedersi, allora, se l'adempimento che condiziona l'efficacia dei contratti e dei contributi sia non solo legato alla pura e semplice pubblicazione, ma anche alla sua effettuazione nel formato previsto. In questo secondo caso, sarebbero innumerevoli le irregolarità da parte di moltissime amministrazioni.
Sembra doversi dare, tuttavia, rilievo alla sostanza della norma, che impone la pubblicità, consistendo il formato della stessa una formalità di dettaglio che non può inficiare l'efficacia dei provvedimenti pubblicati.
A meno di non intendere l'articolo 18 (le cui conseguenze operative non sono state certamente ben considerate dall'estensore del testo) come una norma che inchiodi per lunghi mesi ogni attività amministrativa. Il che, oggettivamente, appare una conseguenza parossistica ed inaccettabile (articolo ItaliaOggi del 12.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTIDichiarazione Imu non per tutti. Gli enti non profit non dovranno presentarla entro il 4/2. Risoluzione delle Finanze rinvia l'adempimento all'approvazione di un apposito modello.
Gli enti non commerciali devono presentare la dichiarazione Imu solo quando sarà approvato l'apposito modello di dichiarazione previsto dalla legge e non entro il prossimo 04.02.2013. La dichiarazione relativa agli immobili degli enti non commerciali deve essere unica e riepilogativa di tutti gli elementi rilevanti ai fini Imu.

A chiarirlo è la risoluzione 11.01.2013 n. 1/Df della Direzione legislazione tributaria e federalismo fiscale del Dipartimento delle finanze del Mef.
Un ulteriore elemento di chiarezza che si aggiunge tempestivamente alla farraginosa serie di norme che si sono accavallate in materia di Imu.
In sintesi, il quesito proposto ai tecnici del ministero riguarda l'individuazione dell'esatto termine di presentazione della dichiarazione Imu per gli enti non commerciali. La domanda non è certo peregrina, in quanto:
da un lato il comma 12-ter prevede che per gli immobili per i quali l'obbligo dichiarativo è sorto dal 01.01.2012, i soggetti passivi devono presentare la dichiarazione entro 90 giorni dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del dm 30.10.2012 con cui è stato approvato il relativo modello; pertanto poiché detta pubblicazione è avvenuta il 05.11.2012, la scadenza del termine di presentazione della dichiarazione è fissata al 04.02.2013;
dall'altro il regolamento 19.11.2012, n. 200 di attuazione del comma 3 dell'art. 91-bis, del dl 24.01.2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.03.2012, n. 27, che ha dettato le nuove regole per l'esenzione degli immobili degli enti non commerciali, all'art. 6 stabilisce che «gli enti non commerciali presentano la dichiarazione di cui all'art. 9, comma 6, del dlgs 14.03.2011, n. 23, indicando distintamente gli immobili per i quali è dovuta l'Imu, anche a seguito dell'applicazione del comma 2 dell'art. 91-bis, del dl n. 1 del 2012, nonché gli immobili per i quali l'esenzione dall'Imu si applica in proporzione all'utilizzazione non commerciale degli stessi, secondo le disposizioni del presente regolamento. La dichiarazione non è presentata negli anni in cui non vi sono variazioni».
A questo punto era legittimo chiedersi quale fosse il comportamento più corretto da tenere di fronte all'ormai prossima scadenza dichiarativa.
La risposta offerta dal Dipartimento delle finanze si ricava proprio dalla lettura delle norme coinvolte, nonché dalle istruzioni allegate al dm 30 ottobre 2012, di approvazione del modello di dichiarazione Imu; in queste, infatti:
● nel paragrafo 1.2 è stato espressamente previsto il rinvio all'approvazione di un apposito modello di dichiarazione per gli enti non commerciali;
● al paragrafo 1.3, dedicato ai casi per i quali sussiste l'obbligo dichiarativo è stato chiarito che per gli enti in questione l'obbligo dichiarativo sussiste anche per gli immobili esenti, ai sensi della lett. i), comma 1, dell'art. 7 del dlgs 30.12.1992, n. 504.
Ciò comporta, dunque, che la dichiarazione Imu relativa agli immobili degli enti non commerciali debba essere unica e riepilogativa di tutti gli elementi relativi alle diverse fattispecie che possono verificarsi. Questa deve essere, perciò, presentata su un apposito modello che, in realtà, deve ancora essere approvato con decreto ministeriale, nel quale verrà precisato anche il termine entro il quale la dichiarazione in questione dovrà essere presentata.
Detta soluzione, oltre a tranquillizzare al momento gli enti non commerciali, che con molta probabilità sono ancora alle prese con i calcoli proporzionali delle superfici eventualmente utilizzate a fini commerciali, appare in linea sia con le esigenze di semplificazione degli adempimenti dei contribuenti e sia con la necessità di razionalizzare degli strumenti a disposizione degli impositori in sede di verifica dell'esatto adempimento dell'obbligazione tributaria.
La risoluzione si conclude ricordando una novità che si è aggiunta alle norme in materia di esenzione, vale a dire il comma 6-quinquies che è stato aggiunto all'art. 9 del dl 10.10.2012, n. 174 dalla legge di conversione 07.12.2012, n. 213, il quale dispone che «in ogni caso, l'esenzione dall'imposta sugli immobili disposta dall'articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 30.12.1992, n. 504, non si applica alle fondazioni bancarie di cui al decreto legislativo 17.05.1999, n. 153».
La nuova norma che esclude dal campo di applicazione delle esenzioni Imu le fondazioni bancarie comporta, dunque, che queste siano assoggettate al normale trattamento riservato ai soggetti passivi del tributo comunale e che ove siano in possesso di immobili per i quali l'obbligo dichiarativo è sorto dal 01.01.2012 devono rispettare l'ordinario termine di presentazione della dichiarazione Imu fissato al prossimo 4 febbraio (articolo ItaliaOggi del 12.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTITares, tributo in autoliquidazione da pagare com l'F24.
La legge di stabilità 228/2012 conferma la nascita della Tares. Con il 01.01.2013 scompariranno tutte le vigenti forme di prelievo sui rifiuti (Tarsu, Tia1, Tia2) per lasciare spazio a un tributo a struttura binomia articolato in tassa sui rifiuti e imposta sui servizi indivisibili.
Gli interventi dell'ultima ora accolgono in parte le richieste dei comuni senza rinunciare al nuovo tributo. Il comma 9 dell'articolo 14 del dl 201/2011 viene completamente riscritto individuando nel dpr 158/1999, recante il metodo normalizzato della Tia Ronchi, l'unica fonte normativa da utilizzare per la determinazione delle nuove tariffe.
Per le unità immobiliari a destinazione ordinaria, transitoriamente, si utilizzerà la superficie calpestabile considerando valide le superfici dichiarate o accertate ai fini Tarsu, Tia 1 e Tia 2, almeno fino a quando non si procederà alle operazioni di allineamento della banca dati catastale per l'applicazione del criterio dell'80% della superficie catastale, che rimane quello preferito dal legislatore. A tal fine, viene previsto l'obbligo di inserire nella dichiarazione i dati catastali e l'ubicazione delle unità immobiliari a destinazione ordinaria. Il comma 35 del citato articolo 14, di regolazione della fase di riscossione, viene completamente riscritto confermando la struttura di un tributo in autoliquidazione.
In primo luogo, solamente per l'anno 2013, è ammesso l'affidamento della gestione del tributo, o della tariffa di cui al comma 29, ai soggetti che, alla data del 31.12.2012 svolgono, anche disgiuntamente, il servizio di gestione dei rifiuti, accertamento e riscossione, della Tarsu, Tia1, Tia2. Si tratta di una facoltà di affidamento diretto scritto in deroga all'articolo 52 del dlgs 446/97, fondato invece sul criterio della selezione pubblica. Il carattere eccezionale della norma è insito nella stessa durata, circoscritta all'anno 2013. La formulazione flessibile, scritta per un affidamento in concessione, consente di ricorrere al gestore attuale dei rifiuti, anche dove non gestiva il prelievo, o alle società iscritte all'albo già affidatarie del servizio di accertamento e riscossione.
Di rilievo la modalità di riscossione che rimette al centro dell'attenzione, come accade per l'Imu, lo strumento della delega di pagamento F24, accompagnato dal bollettino postale, al quale si applicano le disposizioni dello stesso articolo 17 in quanto compatibili. Si tratta della stessa formulazione adottata per il bollettino Imu incassato sul conto dello stato. La sorte definitiva del canale di versamento sarà concretizzata da apposito decreto ministeriale che dovrà favorire la possibilità di modelli di pagamento precompilati. Trova conferma la scadenza temporale delle quattro rate di versamento fissate per gennaio, aprile, luglio, ottobre con la possibilità per i comuni di agire con potestà per variare le scadenze.
Per l'anno 2013, la prima rata è comunque posticipata ad aprile, con la possibilità di slittare ulteriormente il termine; l'importo in acconto è commisurato al versamento eseguito nell'anno 2012 a titolo di Tarsu o Tia, rinviando la definizione dell'importo al conguaglio, da applicare con le nuove tariffe calcolate col metodo del dpr 158/99 senza fasi transitorie per la copertura totale dei costi.
Confermato che il tributo e la maggiorazione sono versati esclusivamente al comune, inciso che, contestualizzato nel canale F24, sembra indicare la destinazione delle somme trasferite dalla struttura di gestione, come già visto per l'Imu sperimentale. Il restyling della norma mantiene di fondo l'impostazione originaria della Tares limitandosi a dei correttivi necessari per garantire il finanziamento del servizio nel 2013.
L'operazione applicativa sarà di grande impatto soprattutto per i comuni che non avevano introdotto correttivi sulla base del dpr 158/1999. Resta la possibilità di introdurre la tariffa corrispettiva prevista dal comma 29 ancora condizionata alla misurazione puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico, restando così disattese le richieste avanzate dalle società di gestione dei rifiuti per facilitare l'introduzione del corrispettivo.
La nuova norma rende evidente il tentativo di trasformare un tipico tributo in liquidazione dell'ente, che si era caratterizzato per le difficili dinamiche di riscossione nella fase bonaria di riscossione diretta, in una modalità in autoliquidazione da parte del cittadino, alla pari dell'Imu, pur restando la facoltà di trasmettere modelli precompilati per facilitare gli adempimenti (articolo ItaliaOggi del 12.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOGestione ex inpdap. Dipendenti pubblici, la pensione si chiede online.
Traslocano sull'online le domande di pensione degli impiegati pubblici (gestione ex Inpdap). Infatti, a partire da domani, le domande di pensione, di ricongiunzione, di variazione della posizione assicurativa e di alcune altre prestazioni creditizie e sociali potranno essere presentate soltanto via web, oppure tramite Contact center o Patronato.
La telematizzazione. La novità arriva dalla legge n. 122/2010 che ha accelerato il processo di telematizzazione da tempo in atto nella pubblica amministrazione, e in particolare ha disposto il potenziamento dei servizi telematici degli enti previdenziali, per la presentazione di denunce, istanze, atti, versamenti, mediante l'utilizzo esclusivo di sistemi telematici, ovvero della posta elettronica certificata.
Con la determinazione presidenziale n. 95/2012 (pubblicata in G.U. del 12.09.2012), è stato stabilito il calendario per la presentazione telematica in via esclusiva delle domande di prestazione all'Inps per la gestione ex Inpdap. Il piano prevede una fase transitoria, che dovrà concludersi entro il 31.07.2013, durante la quale la presentazione delle domande tramite canale telematico coesisterà con la tradizionale modalità cartacea. Tuttavia già a partire da domani (12 gennaio) dovranno essere presentate solamente in via telematizzata le domande di pensione (diretta di anzianità, anticipata, vecchiaia e di inabilità), di ricongiunzione e di variazione della posizione assicurativa.
Dalla stessa data, inoltre, si potranno presentare soltanto per via telematizzata anche alcune domande di piccoli prestiti: ai pensionati aderenti al Fondo credito, per gli iscritti dell'Arma dei Carabinieri e per il personale gestito dal Service personale tesoro (Spt) e iscritto alle gestioni ex Inpdap. Parimenti telematizzate in via esclusiva le domande di borse di studio (inclusi Safari Job e Master certificati) e quelle per Valore vacanza e Soggiorni senior.
Nello specifico le domande potranno essere presentate esclusivamente tramite i seguenti canali:
via web, attraverso il sito www.inps.it o dal sito www.inpdap.gov.it, via Accesso Area Riservata Inps. Per avvalersi di questo canale è necessario avere il Pin, cioè un codice segreto di identificazione personale, composto da sedici caratteri, rilasciato dall'Inps. Il codice si distingue in Pin «online» e Pin «dispositivo»; per accedere ad alcuni servizi occorre essere in possesso del Pin «dispositivo» che viene rilasciato solo dopo che l'utente sia stato identificato o abbia inviato copia di un documento di riconoscimento;
attraverso il Contact center integrato Inps raggiungibile al numero telefonico gratuito 803164, o il Contact center della gestione ex Inpdap, raggiungibile al numero telefonico gratuito 800105000; anche in tal caso occorre essere in possesso di un Pin. Solo per gli utenti dotati di Pin «dispositivo», il Contact center compila l'istanza sulla base delle indicazioni fornite dall'utente; se l'utente non ha un Pin dispositivo, deve dotarsene, al fine di poter completare l'istanza;
tramite un Patronato, anche per gli utenti non in possesso di Pin; gli enti di Patronato hanno a loro disposizione una procedura dedicata per l'invio delle domande in via telematica (articolo ItaliaOggi del 12.01.2013).

APPALTI - ENTI LOCALITrasparenza, gli enti latitano. Solo in pochi hanno messo online compensi e contributi. L'obbligo è imposto dal dl crescita. Ed è operativo dal 1° gennaio. Lo conferma la Civit.
P.a. ancora lontane dal traguardo dell' «amministrazione aperta». Dal 1° gennaio scorso è divenuto pienamente operativo l'art. 18 del dl 83/2012, che impone di dare piena pubblicità alle erogazioni di denaro pubblico di qualunque genere. Ma finora sono relativamente pochi gli enti (sia centrali che locali) che si sono adeguati.
Spulciando fra i siti di ministeri, regioni, province e comuni, infatti, è ancora abbastanza raro trovare tutte le informazioni obbligatorie, ovvero: il nome dei beneficiari ed i relativi dati fiscali, l'importo, la norma o il titolo a base dell'attribuzione, l'ufficio e il funzionario o dirigente responsabile del procedimento amministrativo, la modalità seguita per l'individuazione del beneficiario, il link al progetto, al curriculum del soggetto incaricato, nonché al contratto e capitolato della prestazione, fornitura o servizio.
I dati, precisa la norma, vanno inseriti nella sezione «trasparenza, valutazione e merito» (istituita ai sensi del dlgs 150/2009) e devono essere riportati in formato elettronico di testo per l'importazione ed esportazione in formato gabellare, in modo da essere facilmente accessibili dall'home-page e dai motori di ricerca.
Si tratta di un obbligo a tutto campo, poiché riguarda tutte le sovvenzioni, contributi, sussidi e ausili finanziari alle imprese, nonché l'attribuzione dei corrispettivi e dei compensi a persone, professionisti, imprese ed enti privati.
E si tratta di un obbligo immediatamente cogente per tutti (amministrazioni centrali, regionali e locali, aziende speciali e società in house): lo ha chiarito la Civit con la deliberazione 21.12.2012 n. 35 adottata poco prima di Natale, fugando i dubbi derivanti dalla mancata adozione (prevista entro il 31.12.2012) del regolamento statale che avrebbe dovuto definirne le modalità attuative, coordinandole con le altre numerose disposizioni che incidono sulla stessa materia.
Ben pochi, però, si sono già attrezzati per rispettarlo. Fra i ministeri, l'unico ad aver provveduto in modo puntuale e quello del lavoro e delle politiche sociali, mentre fra le agenzie statali spicca la tempestività delle Entrate. Ritardi anche fra le regioni, dove solo Valle d'Aosta, Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna hanno rispettato il timing. Stessa situazione a livello locale, dove fra gli enti maggiori solo i comuni di Venezia e Firenze risultano adempienti. Non mancano, peraltro, best practices anche fra i municipi di medie (Asti) e piccole dimensioni (ad esempio, Castelnuovo di Sotto, 8 mila abitanti circa in provincia di Reggio Emilia).
In molti casi, le pagine risultano in costruzione, le informazioni carenti (spesso, ad esempio, vi sono solo quelle relative ad incarichi e consulenze) o non aggiornate, i link assenti o non funzionanti.
Certo, i problemi tecnici non mancano (molte amministrazioni lamentano l'indisponibilità di sistemi informatici adeguati alla mole di dati da correlare). Ma non si può non rilevare una certa insofferenza, tipica della pa italiana, alle iniezioni di trasparenza. In più, pesa l'attuale situazione di stallo politico, che non agevola l'attuazione dei provvedimenti varati dal governo uscente.
I rischi, in tal caso, sono però alti. In base al comma 5 dell'art. 18, infatti, da quest'anno la pubblicazione delle informazioni indicate «costituisce condizione legale di efficacia del titolo legittimante delle concessioni e attribuzioni di importo complessivo superiore a 1.000 euro nel corso dell'anno solare e la sua eventuale omissione o incompletezza è rilevata d'ufficio dagli organi dirigenziali e di controllo, sotto la propria diretta responsabilità amministrativa, patrimoniale e contabile per l'indebita concessione o attribuzione del beneficio economico». Inoltre, «la mancata, incompleta o ritardata pubblicazione è altresì rilevabile dal destinatario della prevista concessione o attribuzione e da chiunque altro abbia interesse, anche ai fini del risarcimento del danno da ritardo da parte dell'amministrazione, ai sensi dell'art. 30 del codice del processo amministrativo di cui al dlgs 104/2010».
In parole povere, l'inadempimento può costare caro a coloro che (dirigenti e responsabili dei servizi) firmano i provvedimenti di erogazione. È quindi necessario che tutte le p.a. che non avessero ancora provveduto si attivino quanto prima (articolo ItaliaOggi dell'11.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTII comuni possono stabilire agevolazioni Tares a 360°.
Spetta ai comuni il potere di concedere, con regolamento, riduzioni tariffarie e esenzioni per il nuovo tributo sui rifiuti e i servizi. Il consiglio comunale, infatti, può deliberare agevolazioni Tares, oltre quelle già previste dalla legge, purché l'ente abbia le risorse economiche per finanziarle. I benefici fiscali concessi dal comune si applicano non solo alla tassa, ma anche alla maggiorazione dovuta dai contribuenti sui servizi indivisibili.
L'articolo 14 del dl 201/2011 disciplina le agevolazioni tariffarie, riconoscendo al comune la facoltà di stabilire, con regolamento, riduzioni del tributo dovuto in presenza di determinate situazioni, in cui si presume che vi sia una minore capacità di produzione di rifiuti. A queste riduzioni viene però fissato un tetto massimo. La riduzione della tariffa non può superare il limite del 30%. Nello specifico, questo beneficio può essere concesso per: abitazioni con unico occupante; abitazioni tenute a disposizione per uso stagionale o altro uso limitato e discontinuo; locali e aree scoperte adibiti a uso stagionale; abitazioni occupate da soggetti che risiedono o hanno la dimora, per più di 6 mesi all'anno, all'estero; fabbricati rurali a uso abitativo.
Oltre a queste agevolazioni tariffarie, meramente facoltative, sono contemplate riduzioni che spettano ai contribuenti ex lege. Per esempio, le riduzioni per locali e aree situati nelle zone in cui non è effettuata la raccolta, per le quali il tributo è dovuto nella misura del 40% della tariffa. Questa misura massima deve essere graduata tenendo conto della distanza dal più vicino punto di raccolta rientrante nella zona perimetrata o di fatto servita. La percentuale scende al 20% in caso di mancato o irregolare svolgimento del servizio. La stessa misura si applica nel caso di interruzione del servizio, dal quale possa derivare un danno o un pericolo di danno alle persone o all'ambiente.
La riduzione obbligatoria della tariffa è inoltre disposta per le utenze domestiche ed è finalizzata a incentivare la raccolta differenziata. Per le utenze non domestiche, invece, va applicato un coefficiente di riduzione proporzionale alle quantità di rifiuti assimilati che il produttore dimostri di aver avviato al recupero. Tuttavia, al di là dei benefici elencati espressamente dalla norma, il comune può deliberare ulteriori agevolazioni, come indicato nella relazione governativa, «per ragioni meritevoli di considerazione, anche non collegate alla capacità di produzione dei rifiuti». A patto, però, che il mancato gettito venga coperto da risorse diverse dai proventi del tributo.
L'articolo 14, comma 19, stabilisce che il consiglio comunale può deliberare «ulteriori riduzioni ed esenzioni». Ma queste agevolazioni vanno iscritte in bilancio come autorizzazioni di spesa e la relativa copertura deve essere assicurata da risorse diverse dai proventi del tributo di competenza dell'esercizio al quale si riferisce l'iscrizione. Altrimenti, visto che le somme riscosse devono coprire integralmente i costi del servizio, gli ulteriori benefici fiscali avrebbero un'incidenza negativa sul quantum dovuto dai contribuenti soggetti al prelievo (articolo ItaliaOggi dell'11.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Stabilizzazioni con il concorso. Servono 3 anni di anzianità di servizio con lo stesso ente. Le novità introdotte dalla legge di stabilità. Risorse con il tetto del 50% delle spese.
I comuni possono stabilizzare i lavoratori assunti a tempo determinato che hanno maturato una anzianità di almeno tre anni presso lo stesso ente. Non è più necessario che questa anzianità sia stata maturata entro un termine prefissato: le nuove regole infatti dettano una disciplina che si applica in modo permanente. Le stabilizzazioni possono avvenire esclusivamente tramite concorsi pubblici, per cui a differenza del passato non sono consentite trasformazioni dirette del rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Le amministrazioni sono vincolate a non destinare alle stabilizzazioni una cifra superiore alla metà delle risorse disponibili per nuove assunzioni, il che determina una pesante limitazione del loro numero.
Possono essere così sintetizzate le novità dettate dal comma 401 della legge 228/2012, cd di stabilità 2013. La disposizione riapre, anche se in modo assai limitato, la possibilità di stabilizzare i lavoratori precari, possibilità che sulla base della precedente legislazione si sarebbe chiusa definitivamente lo scorso 31 dicembre.
Con le nuove disposizioni, dettate sotto forma di modifica dell'articolo 35 del dlgs n. 165/2001, si riapre la prospettiva della assunzione a tempo indeterminato per i lavoratori precari. Da sottolineare subito che questa possibilità riguarda i dipendenti a tempo determinato e si può estendere al più i collaboratori coordinati e continuativi: non vi sono spazi di sistemazione né per i titolari di un contratto di somministrazione né per quelli assunti con altre forme di contratti flessibili. A differenza delle precedenti disposizioni, i destinatari sono individuati esclusivamente nei dipendenti che hanno maturato almeno 3 anni di anzianità nell'ente che indice le procedure concorsuali: non è più consentito, in altri termini, di sommare periodi di anzianità maturati presso altre amministrazioni pubbliche. Si conferma invece che la stabilizzazione non è un diritto, ma è una semplice possibilità e che gli enti hanno una ampia discrezionalità nella sua utilizzazione.
La trasformazione a tempo indeterminato richiede necessariamente lo svolgimento di un concorso pubblico. Esso potrà svolgersi in uno dei seguenti 2 modi. In primo luogo il concorso con una riserva non superiore al 40% dei posti messi a concorso: questo vuole dire che per potere effettuare una stabilizzazione occorre mettere a concorso almeno 3 posti. Da sottolineare che il legislatore non prevede concorsi interamente riservati, ma solamente concorsi con riserva: per cui devono andare nella stessa competizione sia gli interni che i partecipanti esterni. L'altra possibilità è il concorso in cui la esperienza dei dipendenti che hanno maturato una anzianità almeno triennale nell'ente sia adeguatamente valorizzata, cioè sia premiata con un punteggio aggiuntivo, anche elevato. La norma consente di utilizzare questa formula anche a vantaggio dei collaboratori coordinati e continuativi che hanno maturato una anzianità almeno triennale con lo stesso ente. Il vincolo concorso pubblico deve essere raccordato con le previsioni per cui le assunzioni dei dipendenti delle categorie A e B1 è effettuata tramite avviamento da parte delle agenzie del lavoro.
Le stabilizzazioni sono soggette, oltre ai vincoli dettati per tutte le assunzioni, a limiti specifici. Ricordiamo che i vincoli di carattere generale sono il riguardare esclusivamente posti vacanti in dotazione organica, l'avere rispettato il patto di stabilità nell'anno precedente, l'avere rispettato il tetto alla spesa del personale e l'avere un rapporto tra spesa del personale e spesa corrente non superiore al 50%. Le risorse destinabili alle stabilizzazioni non devono superare il tetto del 50% delle risorse che le amministrazioni possono utilizzare per le assunzioni a tempo indeterminato. Questo specifico limite crea però numerosi problemi applicativi: negli enti soggetti al patto esso esiste un tetto di spesa alle nuove assunzioni, il 40% del costo del personale cessato, ma negli enti soggetti al patto il tetto è esclusivamente di tipo numerico. E ancora, occorre chiarire l'ambito di applicazione del tetto ed il suo raccordo con le deroghe ai tetti di spesa alle nuove assunzioni previste dalla normativa (vigili, personale educativo e docente, dipendenti da utilizzare nei servizi sociali) (articolo ItaliaOggi dell'11.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consiglieri, permessi per il tempo necessario alla riunione.
Quale disciplina è prevista per i permessi di lavoratori dipendenti, pubblici o privati, che sono componenti dei consigli comunali e provinciali?

Con la modifica, al primo comma, dell'art. 79 del Tuel, disposta dal comma 21 dell'art. 16 del dl 13/08/11, n. 138, convertito nella legge 14/09/2011, n. 148, le parole «per l'intera giornata in cui sono convocati i rispettivi consigli» sono state sostituite dalle seguenti «per il tempo strettamente necessario per la partecipazione a ciascuna seduta dei rispettivi consigli e per il raggiungimento del luogo del suo svolgimento».
La rettifica è stata apportata nei termini suindicati solo relativamente al primo periodo del comma 1 dell'art. 79 che, nella parte rimanente, rimasta invariata, prevede che «nel caso in cui i consigli si svolgano in orario serale, tali lavoratori hanno diritto di non riprendere il lavoro prima delle 8 ore del giorno successivo; nel caso in cui i lavori dei consigli si protraggano oltre la mezzanotte, hanno diritto di assentarsi dal servizio per l'intera giornata successiva» (articolo ItaliaOggi dell'11.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Trasferimenti.
Il beneficio previsto dall'articolo 78, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000 è applicabile al personale della polizia di stato che ha prodotto istanza di trasferimento, in quanto nominato rappresentante di un comune a supporto dell'assessore ai servizi sociali già delegato dal sindaco quale componente del Coordinamento istituzionale presso l'Ambito territoriale con sede presso altro ente?

L'articolo sopra citato introduce una disposizione di garanzia a favore di tutti i lavoratori dipendenti per evitare loro restrizioni o limitazioni all'esercizio delle funzioni connesse all'espletamento del proprio mandato.
In proposito è stabilito che la richiesta di tali lavoratori di avvicinamento al luogo in cui viene svolto il mandato amministrativo deve essere esaminata dal datore di lavoro con criteri di priorità.
L'art. 77, comma 2, del Tuel statuisce che, ai fini dell'applicazione delle norme di cui al capo IV status degli amministratori locali (artt. 77-87), si devono intendere amministratori locali i componenti degli organi di decentramento.
Ciò posto, dal caso in esame risulta che l'interessato è stato designato a supportare l'attività dell'assessore ai servizi sociali e non direttamente delegato dal sindaco a rappresentare l'ente locale.
Pertanto, non rientrando lo stesso nel novero degli amministratori locali come definito dall'art. 77 del Tuel, non sono applicabili le disposizioni di cui all'art. 78 del medesimo Testo unico (articolo ItaliaOggi dell'11.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Richiesta di avvicinamento.
È applicabile il beneficio di cui all'art. 78, comma 6, del Tuel a un consigliere comunale che ha prodotto istanza di trasferimento temporaneo, fino al termine del mandato, in una località prossima a quella nella quale svolge il mandato?

La disposizione normativa richiamata prevede che la richiesta degli amministratori, lavoratori dipendenti pubblici e privati, «di avvicinamento al luogo in cui viene svolto il mandato amministrativo deve essere esaminata dal datore di lavoro con criteri di priorità». Priorità che tuttavia non si identifica con un dovere assoluto di provvedere in senso favorevole.
Infatti, l'articolo 78, comma 6, del citato decreto legislativo, che è norma di garanzia a favore di tutti i lavoratori dipendenti per evitare loro restrizioni o limitazioni all'esercizio delle funzioni connesse all'espletamento del proprio mandato, se garantisce agli amministratori lavoratori dipendenti l'inamovibilità dal posto di lavoro già coperto, non assicura, tuttavia, agli stessi il diritto a essere trasferiti, su domanda, presso la sede nella quale espletano il mandato elettorale, dovendo la richiesta di avvicinamento soltanto «essere esaminata dal datore di lavoro con criteri di priorità».
In occasione della richiesta di avvicinamento, proposta ai sensi del riferito art. 78, l'amministrazione/datore di lavoro deve, pertanto, effettuare una valutazione comparativa tra le esigenze dell'amministratore/dipendente e quelle organizzative dell'azienda/l'amministrazione, quanto meno riconoscendo al lavoratore investito del mandato amministrativo il godimento di un titolo preferenziale.
Il testo della norma conferma, quindi, che si tratta di una disposizione di stretta interpretazione, che non autorizza a concludere che essa attribuisca al lavoratore, che ricopre una carica politica, il diritto al trasferimento bensì il solo diritto a un esame prioritario della sua istanza, nel rispetto della specifica disciplina recata dall'ordinamento speciale dell'amministrazione di appartenenza (articolo ItaliaOggi dell'11.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

TRIBUTII terreni incolti pagano l'Imu. Esenti solo aree destinate a coltivazioni e allevamento. Una nota dell'Ifel che produce effetti anche sulla determinazione dell'Irpef.
I terreni montani «incolti» devono pagare l'Imu. Ad affermarlo è stata l'Ifel (il braccio destro in campo fiscale dell'Associazione dei comuni) la quale, con la nota 03.01.2013, ha ritenuto che l'esenzione dall'imposta spetta solo ai terreni «agricoli», cioè quelli adibiti ad una delle attività di cui all'art. 2135 c.c. (coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse).
Si tratta di una questione che coinvolge anche l'Irpef, atteso che il reddito dominicale dei terreni non affittati deve essere assoggettato all'imposta sui redditi solo in caso di esenzione dall'Imu.
Imu. L'Ifel, dopo aver premesso che, ai fini dell'Imu, non esistendo una definizione di terreno «incolto» occorre fare riferimento a quella più generale di «terreno» (intendendosi per tale l'insieme delle particelle che non sono qualificabili né come «aree edificabili», né come «terreni agricoli»), sottolinea due aspetti. Il primo è che ai terreni «incolti», contrariamente a quanto potrebbe trasparire dalla circolare 3/DF/2012 e dalle istruzioni alla dichiarazione Imu che sul punto si prestano a qualche «ambiguità interpretativa», non si può applicare lo stesso regime previsto per quelli «agricoli» (tranne il caso, disciplinato dall'art. 13, comma 5, del dl 201/2011, in cui il possessore sia un agricoltore iscritto nell'apposita previdenza).
Il secondo, e più importante, è che tutti i benefici riconosciuti dalla legge ai terreni, compresa l'esenzione di cui all'art. 7, lett. h), del dlgs 504/1992 (richiamata dal combinato disposto degli art. 9 del dlgs 23/2011 e 13, comma 13, del dl 201/2011), si riferiscono, in modo espresso ed inequivoco, ai «terreni agricoli» come definiti dall'art. 2, lett. c), del dlgs 504/1992. Dal che ne conseguirebbe, sempre secondo la fondazione dell'Anci, che i terreni situati nei comuni ricadenti in aree montane o di collina (ed elencati nella circolare 9/1993) sono esenti da Imu solo se adibiti all'esercizio delle attività indicate nell'art. 2135 c.c.
Ne risulta, per converso, che i terreni «incolti» sono assoggettati all'imposta ovunque essi si trovino. E poco conta, sempre a parere dell'Ifel, che le istruzioni ministeriali alla dichiarazione Imu, nel richiamare la norma riguardante l'esenzione in questione, non riportino dopo la parola «terreni» la qualificazione «agricoli»: non può essere, infatti, che un «provvedimento amministrativo» vada a modificare un'impostazione normativa che disciplinando (per di più) un'esenzione non può neppure essere oggetto di un'interpretazione analogica.
La condivisibile opinione espressa dall'Ifel non pare trovare ostacolo neppure nella circostanza che le istruzioni ministeriali assumono forza di decreto (ex art. 1 dm 31/10/2012), essendo inconfutabile l'illegittimità di una norma regolamentare che si ponesse in contrasto con la legge.
Irpef. Ancorché non sia stato oggetto di analisi da parte dell'Ifel, va evidenziato come l'inquadramento ai fini dell'Imu dei terreni montani «incolti» riverberi effetti anche sull'Irpef. Infatti, dall'anno d'imposta 2012 (dichiarazioni dei redditi 2013) se i terreni non sono affittati, l'esenzione dall'Imu determina la debenza dell'Irpef sia sul reddito dominicale che su quello agrario. Al contrario, l'assoggettamento all'Imu produce l'esclusione dall'Irpef del (solo) reddito dominicale.
Seguendo l'interpretazione fornita dall'Ifel, si arriva pertanto alla conclusione che tutti i terreni diversi da quelli adibiti ad una delle attività agricole di cui all'art. 2135 c.c., anche se posti in comuni montani, sono assoggettati all'Imu ma non all'Irpef (limitatamente al reddito dominicale) (articolo ItaliaOggi dell'08.01.2013).

APPALTIPagamenti entro 30 giorni. Il limite può essere esteso a 60 quando il debitore è una Pa.
IL RIFERIMENTO/ La scadenza si misura dalla data di ricevimento della fattura da parte del debitore o delle merci.

Con il decreto legislativo 192/2012, in vigore dal 1° gennaio, è stata recepita la direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16.02.2011 relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. La normativa integra quella già dettata dal decreto legislativo 231/2002, con l'intento di evitare abusi da posizione dominante, soprattutto da parte della pubblica amministrazione.
La nuova disciplina trova applicazione per ogni pagamento effettuato, a titolo di corrispettivo, in una transazione commerciale e, quindi, sia tra privati che tra questi e un soggetto pubblico.
In primo luogo la disciplina introduce una sostanziale distinzione tra gli "interessi moratori" (liberamente determinati fra le parti) e gli "interessi legali di mora", applicabili ope legis a un tasso pari a quello di riferimento maggiorato di otto punti percentuali. In sostanza, mentre dal 1° gennaio le pubbliche amministrazioni non possono più derogare all'applicazione degli interessi legali di mora, i privati conservano ancora tale possibilità in alcuni specifici casi.
I tempi di pagamento massimi standard stabiliti per tutti dalle nuove norme sono:
- 30 giorni dalla data di ricevimento, da parte del debitore, della fattura o di una richiesta di pagamento di contenuto equivalente;
- 30 giorni dalla data di ricevimento delle merci o dalla data di prestazione dei servizi, quando non è certa la data di ricevimento della fattura o della richiesta equivalente di pagamento;
- 30 giorni dalla data di ricevimento delle merci o dalla prestazione dei servizi, quando la data in cui il debitore riceve la fattura o la richiesta equivalente di pagamento è anteriore a quella del ricevimento delle merci o della prestazione dei servizi;
- 30 giorni dalla data dell'accettazione o della verifica (eventualmente previste ai fini dell'accertamento della conformità della merce o dei servizi alle previsioni contrattuali), qualora il debitore riceva la fattura o la richiesta equivalente di pagamento in epoca non successiva a tale data.
I 30 giorni sono estensibili a 60 nelle transazioni commerciali in cui il debitore è una pubblica amministrazione, previo accordo espresso e scritto delle parti e solo quando ciò sia giustificato dalla natura o dall'oggetto del contratto o dalle circostanze esistenti al momento della sua conclusione. Il termine di 60 giorni è, invece, automatico per i rapporti con imprese pubbliche "trasparenti" e con le aziende pubbliche sanitarie.
I 30 giorni valgono anche per le transazioni fra privati ma, come detto, questi potranno essere ulteriormente dilatati, purché non risultino gravemente iniqui per il creditore, in quanto molto difformi da quelli della prassi commerciale o in contrasto con il principio di buona fede e correttezza, avuto conto della natura della merce o del servizio oggetto del contratto.
Decorso, in assenza di pagamento, il termine scatta l'applicazione degli interessi moratori sull'intero importo dovuto, senza che sia necessaria la costituzione in mora.
Il tasso di riferimento che deve essere usato è quello applicato dalla Banca centrale europea alle sue più recenti operazioni di rifinanziamento principali, maggiorato di otto punti percentuali. Resta ferma la facoltà per i privati di concordare un tasso differente da quello legale, purché non iniquo.
Resta, comunque, possibile concordare pagamenti rateali e, qualora una delle rate non sia pagata alla data concordata, gli interessi saranno calcolati sugli importi scaduti.
Rimane, infine, sempre possibile per il debitore dimostrare che il ritardo nel pagamento del prezzo è stato determinato dall'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
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La bussola
01 | LA DISCIPLINA GENERALE
La normativa relativa ai pagamenti per le transazioni commerciali interessa le operazioni concluse dal 01.01.2013. I tempi standard di pagamento sono fissati in 30 giorni, dal ricevimento della fattura o delle merci: il termine è estensibile in alcuni casi; il termine di 60 giorni è automatico nei rapporti tra fornitori e Asl. Decorso il termine, si applicano gli interessi di mora, vincolanti per le pubbliche amministrazioni
02 | LA CERTIFICAZIONE
Per quanto riguarda gli "importi scaduti", in particolare i rapporti con la Pubblica amministrazione, è operativa la procedura di certificazione dei crediti. La richiesta di certificazione dei crediti vantati dalle imprese verso la Pubblica amministrazione per le forniture eseguite può essere presentata da chiunque, società, impresa individuale o persona fisica, vanti un credito nei confronti dei predetti enti, purché non prescritto, certo, liquido ed esigibile.
L'azienda potrà utilizzare la certificazione per compensare debiti iscritti a ruolo per tributi erariali, regionali o locali e nei confronti di Inps o Inail; ottenere un'anticipazione bancaria del credito, eventualmente anche assistita dalla garanzia del Fondo centrale di garanzia; cedere il credito, pro-soluto e pro-solvendo. L'istanza di certificazione può essere inoltrata dalle imprese solo attraverso la procedura ordinaria, con la modulistica cartacea resa disponibile su www.mef.gov.it/certificazionecrediti/. L'amministrazione dovrà fornire l'attestazione richiesta nei trenta giorni successivi alla ricezione dell'istanza.
03 | I PRODOTTI AGRICOLI
I prodotti agricoli sono sottoposti alla disciplina generale e di settore: il termine di pagamento, cui sono sottratti i contratti in cui cedente e cessionario sono entrambi produttori agricoli, sono 30 giorni per i prodotti deperibili, 60 per gli altri.
In caso di ritardi nel pagamento, gli interessi di mora si calcolano in base al tasso di riferimento Ue (7%) più l'integrazione stabilita semestralmente dal Governo italiano (1%), più 2 punti, per un totale del 10%. Per omessa o incompleta stesura del contratto, che comunque non è nullo la sanzione va da 516 a 20mila euro (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

CONDOMINIOCasa. Le novità per i creditori. In condominio la «solidarietà» è condizionata.
La riforma del condominio ripristina, in parte, il principio di solidarietà passiva dei condomini, disatteso dalla più recente giurisprudenza.
Con la decisione 9148/2008 le sezioni unite della Cassazione avevano, infatti, stabilito che la responsabilità dei condomini è retta dal criterio della parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote. Ne derivava che il creditore potesse rivolgere la domanda di pagamento ai condomini solo in proporzione alla singola quota debitoria e quindi, se rimasse insoddisfatto, dovrebbe rivolgersi ai morosi, controllando lo stato dei pagamenti e le tabelle millesimali del condominio.
La decisione della Cassazione ha sollevato non poche critiche; e con la riforma del condominio (legge 22.07.2012) il legislatore ha reintrodotto, almeno in parte, la solidarietà del debito del condominio. Il nuovo articolo 65 della Disposizioni di attuazione del Codice civile stabilisce che i creditori possono agire anche nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti ma solo dopo l'escussione degli altri condomini. Inoltre, l'azione del terzo viene agevolata dalla nuova disposizione (articolo 93 delle Disposizioni di attuazione) che fissa l'obbligo dell'amministratore di comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini minori.
Resta da stabilire con quali modalità il terzo creditore possa agire contro i condomini adempienti per la morosità di altro condomino. Alcuni interpreti ritengono che il terzo non debba solo chiedere il pagamento del dovuto ai condomini morosi con lettera o atto di messa in mora, ma debba prima agire in via esecutiva contro questi condomini morosi e solo dopo possa recuperare il suo denaro dagli altri. I tempi, quindi, diverrebbero molto lunghi.
La novità legislativa sembra comunque confermare il principio in base al quale la sentenza ottenuta contro il condominio costituisce titolo esecutivo nei confronti dei singoli condomini in via solidale tra loro, ancorché non indicati nominativamente e non siano stati dichiarati responsabili solidalmente. Va però ricordato che il creditore che ha già ottenuto sentenza definitiva di condanna al pagamento di una somma di danaro nei confronti del condominio, è carente di interesse ad agire nei confronti del singolo condomino per il pagamento pro quota della medesima somma (Cassazione, sentenza 20304/2004).
Complica la questione una decisione di merito che ha affermato che non può accogliersi l'istanza di rilascio di tante copie in forma esecutiva del predetto titolo per quanti sono i condomini nei confronti dei quali si intenda procedere esecutivamente pro quota, perché può agirsi solo in base a specifico ed autonomo titolo esecutivo relativamente alle singole quote da accertarsi in sede di giudizio anche a cognizione sommaria (Tribunale di Catania, sentenza del 20.05.2009).
Intanto la possibile responsabilità solidale dei condomini è di fatto ridotta con la nuova previsione dell'articolo 1135, n. 4, che stabilisce che l'assemblea provvede alle opere di manutenzione straordinaria e alle innovazioni costituendo obbligatoriamente un fondo speciale di importo pari all'ammontare dei lavori. Raccolto doverosamente dall'amministratore l'intero importo dei lavori da eseguire, resta scoperta solo la eventuale ulteriore quota per le variazioni e le aggiunte apportate in corso di opera, che andrebbero comunque approvate preventivamente dall'assemblea (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.01.2013).

VARI: I guidatori poco virtuosi fanno i conti con le sanzioni rincarate. In vigore l'aggiornamento degli importi con l'incremento del 5,4%, il più elevato dal 1998.
Parlare al telefono cellulare mentre si guida, senza auricolari o vivavoce, costerà 160 euro. O circolare senza copertura assicurativa arriverà a costare 841 euro. Insomma è un inizio d'anno con la cinghia tirata per gli utenti della strada.
Dal 1° gennaio è, infatti, entrato in vigore l'aggiornamento biennale degli importi delle sanzioni stradali, con un incremento pari al 5,4%, contro il rialzo precedente pari al 2,4%. Ed è scattato anche l'aumento delle tariffe postali di notificazione dei verbali, che porterà gli organi di polizia ad adeguare le spese da addebitare ai trasgressori e ai proprietari dei veicoli.
L'incremento degli importi delle sanzioni stradali è stato disposto dal decreto del ministero della giustizia del 19.12.2012, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 303 del 31 dicembre. Stando al tenore letterale dell'art. 195, comma 3, del codice della strada, la misura delle sanzioni amministrative pecuniarie è aggiornata ogni due anni in misura pari all'intera variazione, accertata dall'Istat, dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (media nazionale) verificatasi nei due anni precedenti. Prendendo come riferimento tale indice, il ministro della giustizia, di concerto con i ministri dell'economia e delle finanze, e delle infrastrutture e dei trasporti, fissa i nuovi limiti delle sanzioni amministrative pecuniarie, che si applicano dal 1° gennaio dell'anno successivo.
Usualmente il decreto ministeriale di dicembre prende come base di riferimento l'indice FOI di novembre. Dunque, stando alla prassi finora seguita, sulla base del dato pubblicato dall'Istat il 13 dicembre sarebbe dovuto scattare dal 01.01.2013 un aumento del 5,7% degli importi delle sanzioni amministrative pecuniarie per le violazioni stradali. Invece, il decreto ministeriale ha stabilito un incremento pari al 5,4%, calcolandolo non su un periodo di 24 mesi (novembre 2010/novembre 2012), ma su un intervallo di 23 mesi (dicembre 2010/novembre 2012). In ogni caso, l'incremento del 5,4% risulta essere il più elevato dal 1998 in poi. L'ultimo aggiornamento, stabilito dal decreto ministeriale del 22.12.2010, aveva disposto un aumento del 2,4%. Nel calcolo dei nuovi importi si è applicata la consueta regola dell'arrotondamento all'unità di euro per eccesso se la frazione decimale sarà pari o superiore a 50 centesimi di euro oppure per difetto se sarà inferiore.
L'arrotondamento è applicato alle sanzioni edittali, ma non agli importi che costituiscono il risultato di operazioni di divisione rispetto ai valori minimi o massimi previsti dal codice della strada, come, per esempio, le somme da iscrivere a ruolo o le somme richieste a titolo di cauzione. Restano escluse dall'aggiornamento, non essendo ancora decorsi due anni, le norme che hanno introdotto o modificato le sanzioni con effetto dopo il 01.01.2011, precisamente quelle dell'art. 23, comma 12, dell'art. 115, comma 1-ter, dell'art. 122, comma 5-bis, art. 167, commi 2-bis, 3-bis e 5, secondo periodo, nonché dell'art. 1, comma 3, della legge n. 33 del 22.03.2012.
Ecco alcuni tra i principali aumenti (si veda anche tabella): il tradizionale divieto di sosta passa da 39 a 41 euro. La sanzione per il conducente o passeggero senza cinture di sicurezza aumenta da 76 a 80 euro, mentre quella prevista per chi guida usando il telefonino senza auricolare o senza viva voce sale da 152 a 160 euro, così come per i neopatentati che non rispettano le limitazioni previste dall'art. 117 del codice stradale. Il passaggio con il semaforo rosso, la mancata precedenza o il mancato rispetto dello stop costano 8 euro in più se le violazioni sono commesse fra le ore 7 e le ore 22 e 10,67 euro in più per i trasgressori pizzicati tra le ore 22 e le ore 7.
L'omessa revisione costa ora al trasgressore 9 euro in più (da 159 a 168 euro) e la mancanza di copertura assicurativa 43 euro in più (da 798 a 841 euro). La sanzione amministrativa per chi guida in stato di ebbrezza alcolica con tasso alcolemico superiore a 0,5 g/l e non superiore a 0,8 g/l aumenta da 500 a 527 euro. Per quanto riguarda l'eccesso di velocità, considerando, per esemplificare, la fascia dalle ore 7 alle ore 22, le sanzioni passano a 41 euro (entro 10 km/h oltre il limite), 168 euro (fra 10 e 40 km/h oltre il limite), 527 euro (fra 40 e 60 km/h oltre il limite) e 821 euro (60 km/h oltre il limite). Attenzione però alla delazione prevista nell'ambito del sistema della patente a punti.
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Maggiorazioni anche per le notifiche.
Oltre ai nuovi importi delle sanzioni stradali il nuovo anno ha portato anche l'aumento delle tariffe delle raccomandate per la notificazione via posta delle multe stradali. E questa ulteriore novità costringerà i comandi di polizia ad aumentare le spese da addebitare ai destinatari dei verbali. È questo l'effetto della deliberazione dell'Agcom n. 640 del 20.12.2012 in vigore dal 01.01.2013, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 1 del 02.01.2013.
Con riferimento allo scaglione di peso fino a 20 grammi, il costo della raccomandata atti giudiziari aumenta da 6,60 a 7,20 euro, il costo della Can (comunicazione di avvenuta notificazione) passa da 3,30 a 3,60 euro e il costo della Cad (comunicazione di avvenuto deposito) cresce da 3,90 a un importo che deve ancora essere precisato da Poste Italiane, (probabilmente 4,30 euro). In che cosa consiste la Can? Nel caso in cui l'atto giudiziario sia notificato per posta mediante consegna effettuata non al destinatario (la persona fisica o, per le persone giuridiche, il legale rappresentante), ma ad altro soggetto legittimato al ritiro, l'ufficio postale provvede a inviare al destinatario la raccomandata contenente un avviso. Se la raccomandata non viene recapitata ad alcun soggetto, viene posta in giacenza presso l'ufficio postale per 30 giorni.
Emessa la raccomandata, l'ufficio postale deve riportare direttamente sull'avviso di ricevimento dell'atto giudiziario l'avvenuta emissione della comunicazione di avvenuta notificazione. L'ufficio postale provvede a riscuotere l'importo al momento della consegna al mittente dell'avviso di ricevimento dell'atto giudiziario. Questa procedura accessoria di notificazione non interferisce ed è cosa distinta dall'ipotesi dell'emissione della comunicazione di avvenuto deposito (Cad), che viene inviata al destinatario nel caso in cui qualsiasi persona legittimata al ritiro risulti assente al momento del passaggio del portalettere.
Con l'aumento delle tariffe, nel breve periodo gli organi di polizia adegueranno conseguentemente le spese da porre a carico ai soggetti tenuti al pagamento della multa, come previsto dall'art. 201, comma 4, del codice della strada, con riferimento sia alla raccomandata atti giudiziari che alle comunicazioni di avvenuta notificazione o di avvenuto deposito (articolo ItaliaOggi Sette del 07.01.2013).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Giustizia amministrativa salata. Per il contributo unificato previsti aumenti fino al 50%. Lo prevede la legge di stabilità: è atteso un maggior gettito di 27 milioni di euro.
Stabilità della giustizia a tinte digitali e con le mani nel portafoglio dei litiganti. L'agenda digitale a tappe forzate (dal 30.06.2014 gli avvocati devono depositare in tribunale solo atti informatici) e il rincaro del balzello dovuto per iniziare una causa (in particolare i ricorsi amministrativi sugli appalti) segnano la manovra sulla giustizia per il 2013.
Da un lato si conta sui risparmi di spesa connessi alla dematerializzazione delle carte dei processi (si veda ItaliaOggi Sette del 31.12.2012), dall'altro si contabilizzano le maggiori entrate da versamenti di un contributo unificato che dovrebbe dare un maggior gettito di 27 milioni di euro a decorrere dall'anno in corso.
Ma vediamo come si articolano le novità punto per punto previste dalla legge di stabilità (legge 24/12/2012 pubblicata sulla G.U. n. 228, del 29/12/2012).
Contributo unificato. Il contributo unificato viene alzato con la conseguenza di aumentare le somme richieste per l'accesso alla giustizia amministrativa.
In particolare la legge di stabilità eleva da 1.500 a 1.800 euro il contributo unificato dovuto per le controversie cui si applica il rito abbreviato disciplinato dal Codice del processo amministrativo; sostituisce ai 4 mila euro attualmente previsti per tutte le controversie in tema di affidamento di pubblici lavori e di provvedimenti adottati dalle Autorità amministrative indipendenti una disciplina del contributo unificato diversificata in ragione del valore della controversia (portando il contributo dal valore minimo di 2 mila euro a quello massimo di 6 mila euro); eleva da 600 a 650 euro il contributo unificato dovuto in tutti i restanti casi, compreso il ricorso straordinario al presidente della repubblica.
Per i ricorsi tema di affidamento di pubblici lavori e di provvedimenti adottati dalle autorità amministrative indipendenti il contributo dovuto è di 2 mila euro quando il valore della controversia è pari o inferiore a 200 mila euro; per quelle di importo compreso tra 200 mila euro e un milione il contributo dovuto è di 4 mila euro, mentre per quelle di valore superiore a un milione di euro è pari a 6 mila euro. Se manca la dichiarazione il contributo dovuto è di 6 mila euro.
Inoltre il contributo unificato nel processo amministrativo è aumentato sempre del 50%per i giudizi di impugnazione.
Nel processo amministrativo relativo alle controversie in tema di affidamento di pubblici lavori, per valore della lite si intende l'importo posto a base d'asta individuato dalle stazioni appaltanti negli atti di gara; nelle controversie relative all'irrogazione di sanzioni da parte delle Autorità amministrative indipendenti, invece, il valore della lite è rappresentato dalla somma richiesta a titolo di sanzione.
Quando le controversie amministrative riguardano i provvedimenti concernenti le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture il valore della lite, calcolato sull'importo posto a base d'asta individuato dalle stazioni appaltanti negli atti di gara, non considera i ribassi: c'è quindi la possibilità di un'incidenza negativa nel caso di ribasso che comporta un'offerta compresa nello scaglione più basso del contributo unificato rispetto a quello da applicare per l'importo base.
Le disposizioni relative all'incremento del contributo unificato per i processi amministrativi, compreso l'aumento della metà per i giudizi di impugnazione si applicheranno ai ricorsi notificati successivamente alla data di entrata in vigore della legge di stabilità (01.01.2013) (articolo ItaliaOggi Sette del 07.01.2013).

ATTI AMMINISTRATIVI: Scadenze. C'è tempo solo fino al 9 gennaio per approvare i regolamenti.
Sprint finale per avviare controlli e audit interni. Amministratori inadempienti: sanzioni fino a 20 mensilità.

Gli enti locali devono adottare in tempi strettissimi, entro il 9 gennaio, i regolamenti che definiscono la disciplina del sistema dei controlli interni e attivare le varie forme di audit.
Le nuove disposizioni inserite dalla legge 213/2012 nel Testo unico degli enti locali (Tuel) hanno un termine di attuazione di prossima scadenza, stabilito in novanta giorni dall'entrata in vigore del Dl 174/2012 (il 10 ottobre), termine che non è stato prorogato.
Tutte le Province, le unioni di Comuni e i Comuni (indipendentemente dalla dimensione), in base al nuovo articolo 147 del Tuel, devono approvare in Consiglio un regolamento sui controlli di regolarità amministrativa e contabile dei propri atti, sul controllo di gestione e sulla verifica dei programmi. Essi sono tenuti a definire anche nuove norme del regolamento di contabilità per il costante controllo degli equilibri finanziari.
Gli enti locali con popolazione superiore a 100mila abitanti devono anche definire nel regolamento dei controlli interni (per applicarle sin dal 2013) disposizioni sul controllo strategico, la verifica dell'andamento degli organismi esterni (in particolare delle società partecipate) e il controllo sulla qualità dei servizi.
Questi tre elementi, peraltro, per quanto ad applicazione differita (nel 2014 per gli enti con popolazione superiore a 50mila abitanti e nel 2015 per quelli con popolazione superiore a 15mila abitanti), devono essere comunque considerati nei regolamenti da tutte le amministrazioni locali. Infatti il controllo strategico è strettamente connesso alla verifica dei programmi, il controllo sugli organismi partecipati è reso obbligatorio dalle numerose norme che impongono agli enti locali la vigilanza su tali realtà (si pensi alle disposizioni sul divieto di ripiano delle perdite), mentre il controllo sulla qualità dei servizi è necessario, sia in funzione di quanto previsto per i contratti di servizio (articolo 113, comma 11, del Tuel) e le carte dei servizi (articolo 2, comma 461, legge 244/2007) sia in base alle norme (articoli 312-325 del Dpr 207/2010) sulle verifica di conformità negli appalti di servizi.
Le amministrazioni sono tenute a comunicare al prefetto e alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti territorialmente competenti l'adozione dei regolamenti e l'attivazione dei sistemi dei controlli interni degli enti locali entro la scadenza del 9 gennaio. Se le regole e l'avvio del sistema non siano stati realizzati entro la data prefissata, il prefetto assegna all'ente locale un ulteriore termine di sessanta giorni: se anche entro questa scadenza l'ente non provvede, il prefetto inizia la procedura per lo scioglimento del Consiglio. Gli amministratori locali devono tenere in considerazione anche le sanzioni (da cinque a venti volte la retribuzione lorda mensile) previste dall'innovato articolo 148, comma 4 del Tuel, che possono essere irrogate dalle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti, qualora queste rilevino l'assenza o l'inadeguatezza degli strumenti e delle metodologie di controllo interno.
Gli enti locali, quindi, devono definire regole articolate, tenendo conto sia dei sistemi di audit esistenti (ad esempio i riscontri della regolarità amministrativa e contabile, la verifica del budget e degli obiettivi del Peg, la valutazione della performance delle risorse umane, gli eventuali sistemi di contabilità analitica rapportati al controllo di gestione), sia delle necessità di innovazione.
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La supervisione
01 | ATTI E CONTABILITÀ
I controlli devono essere svolti in fase di formazione degli atti (con i pareri di regolarità) e in fase successiva, con analisi a campione
02 | PROGRAMMI
Gli enti locali devono verificare l'adeguatezza dei programmi e riscontrare la coerenza tra risultati raggiunti e obiettivi definiti
03 | ORGANISMI PARTECIPATI E SERVIZI
Il controllo sugli organismi partecipati è necessario per il bilancio consolidato. Le verifiche sulla qualità dei servizi sono richieste da norme già vigenti
04 | STRATEGIE E PROGRAMMI
L'ente locale deve verificare lo stato di attuazione delle linee programmatiche, della Rpp e dei piani specifici, in rapporto alle dinamiche di bilancio
05 | EQUILIBRI FINANZIARI
Le amministrazioni devono verificare la coerenza con le regole contabili, con il patto di stabilità e con il pareggio di bilancio, analizzando i profili critici (articolo Il Sole 24 Ore del 07.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

ATTI AMMINISTRATIVILe procedure. Gli atti e le delibere da tenere sotto osservazione. Verifiche a campione anche su contratti e spese.
SOCIETÀ PARTECIPATE/ Partenza scaglionata fino al 2015, ma per tutti è già in vigore l'obbligo di monitorare le uscite e la qualità delle prestazioni.

Le nuove disposizioni del Testo unico enti locali delineano l'impostazione e i principali contenuti del regolamento dei controlli interni, ma gli enti locali devono definirle nel dettaglio e renderle coerenti con gli strumenti di verifica.
I nuovi articoli del Tuel (dal 147 al 147-quinquies) stabiliscono sia gli oggetti principali del sistema di audit sia alcune modalità organizzative.
Per i controlli di regolarità amministrativa e contabile il quadro sui percorsi di verifica preventiva si connette con l'articolo 49 del Tuel sui pareri e sull'obbligo del parere di regolarità tecnica per le determinazioni dirigenziali.
Le norme regolamentari sul controllo successivo (che vede come soggetto di riferimento il segretario dell'ente) devono tradurre le modalità nel rispetto dei principi internazionali di revisione (con possibile riferimento agli Isa - International standards on auditing), nonché devono definire i parametri per la campionatura degli atti (provvedimenti amministrativi, determinazioni di spesa e liquidazione, contratti) da sottoporre alla verifica. È peraltro necessario che questa parte del regolamento sia collegata al piano anticorruzione, previsto dalla legge 190/2012, al fine di ottimizzare l'uso degli strumenti di audit.
La disciplina del controllo di gestione deve essere modulata tenendo conto della correlazione agli obiettivi del Peg (piano esecutivo di gestione), delle fasi e dell'analisi per centri di costo specificati dall'articolo 197 del Tuel. La disciplina del controllo sugli equilibri finanziari deve invece essere ricondotta al regolamento di contabilità.
I parametri per le norme regolamentari sono anzitutto le disposizioni in materia di contabilità pubblica presenti nello stesso Tuel (ad esempio l'articolo 193), quelle sul patto di stabilità e il bilancio consolidato, nonché quelle di attuazione dell'articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio. Il sistema di verifica dovrà porre attenzione agli elementi di maggior incidenza, come ad esempio la sostenibilità dell'indebitamento.
Inoltre, l'articolo 148 (controlli della Corte dei conti sui bilanci) evidenzia ulteriori profili di criticità sui quali focalizzarsi: ricorso frequente alle anticipazioni di tesoreria, disequilibrio consolidato della parte corrente del bilancio, anomalie nella gestione di servizi per conto terzi, l'aumento non giustificato di spesa degli organi politici istituzionali.
Il check sugli equilibri finanziari si correla al controllo sui programmi, che può essere composto in termini più o meno articolati, ma necessariamente efficaci, per rispondere al confronto con i verificatori esterni all'ente.
Proprio lo spettro esteso del controllo della Corte dei conti sollecita tutti gli enti locali (non solo quelli con oltre 100mila abitanti, tenuti già dal 2013) a disciplinare nel regolamento forme strutturate di controllo strategico, ma soprattutto il controllo sugli organismi partecipati e sulla qualità dei servizi, connettendoli alle numerose disposizioni legislative già comportanti obblighi in tal senso (articolo Il Sole 24 Ore del 07.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

TRIBUTI: Rifiuti. Sovrapposizione Ato-Comune.
Sulle tariffe Tares caos competenze. Le tariffe della Tares devono essere approvate dagli enti regionali costituiti e disciplinati dalle normative di settore.
Ai sensi dell'articolo 34, comma 23, della legge 221/2012, (conversione del secondo decreto sviluppo), sono infatti unicamente gli enti di governo degli ambiti o bacini territoriali ottimali a esercitare le funzioni di organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica (rifiuti compresi), di scelta della forma di gestione e affidamento, di determinazione delle tariffe e di controllo.
La norma si pone in evidente contrasto con la disciplina istitutiva della Tares (articolo 14, Dl 201/11), secondo la quale il Consiglio comunale deve approvare le tariffe del tributo entro il termine fissato per l'approvazione del bilancio di previsione, in conformità al piano finanziario del servizio di gestione dei rifiuti urbani, redatto dal soggetto che svolge il servizio stesso e approvato dal l'autorità competente.
Poiché soggetto attivo del tributo è il Comune, deve essere il Consiglio comunale a deliberare eventuali riduzioni ed esenzioni, la cui copertura finanziaria deve essere assicurata con risorse della fiscalità generale.
La disciplina integrativa recata dalla legge di stabilità 2013 (legge 228/2012) non chiarisce la competenza in materia di approvazione delle tariffe, esponendo al rischio di impugnazione gli atti eventualmente adottati in violazione di legge per incompetenza assoluta dell'organo deliberante.
Il comma 387 dell'articolo unico consente ai Comuni, in deroga all'articolo 52 del Dlgs 446/1997, di affidare, fino al 31.12.2013, la gestione del tributo o della tariffa ai soggetti che, al 31.12.2012, svolgono, anche disgiuntamente, il servizio di gestione dei rifiuti e di accertamento e riscossione della Tarsu, della Tia 1 o della Tia 2.
Il versamento del tributo o della tariffa nonché della maggiorazione di 0,30 euro a metro quadrato (elevabile fino a 0,40 dal Consiglio comunale) deve essere effettuato con F24 o con conto corrente postale intestato esclusivamente al Comune.
Per quest'anno, il termine di versamento della prima rata è posticipato ad aprile, ferma restando la facoltà del Comune di deliberare una scadenza successiva.
Sino alla determinazione delle tariffe l'importo delle rate è calcolato in acconto, commisurandolo a quanto versato nell'anno precedente a titolo di Tarsu, Tia 1 o Tia 2 e tenendo conto della maggiorazione di 0,30 euro a metro quadrato. L'eventuale conguaglio per maggiorazioni fino a 0,40 euro è invece effettuato con l'ultima rata.
I tempi di pagamento del servizio di igiene urbana da parte dei Comuni non coincidono, per l'anno 2013, con i tempi di riscossione del tributo o della tariffa. Lo squilibrio finanziario potrebbe compromettere seriamente la gestione della liquidità degli enti e comportare il ricorso ad anticipazioni di tesoreria, i cui costi produrrebbero necessariamente incrementi tariffari a carico dei contribuenti (articolo Il Sole 24 Ore del 07.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAIn termini generali, è senz’altro vero che il proprietario confinante ha un interesse qualificato a che il Comune competente, titolare quindi di un correlato obbligo di provvedere, si pronunci su una sua istanza volta a verificare l’eventuale commissione di abusi edilizi da parte di un vicino.
E’ però altrettanto vero che tale interesse deve ritenersi sussistente solo a fronte di istanze assistite da un minimo di specificità, ovvero che indichino, almeno in modo sommario, in che consisterebbe l’ipotizzato abuso. Diversamente infatti da un lato si legittimerebbero condotte potenzialmente anche emulative, dall’altro si rischierebbe uno spreco di risorse dell’amministrazione, costretta ad effettuare verifiche indiscriminate e complessive di una qualsiasi pratica.
Non varrebbe poi obiettare che in tal modo si imporrebbe al privato un onere eccessivo, perché per comune esperienza chi ritiene di sollecitare a propria difesa un intervento repressivo per definizione ritiene di aver patito una illegittimità e la sa indicare, per lo meno in termini atecnici.

Ritenuto:
- che la ricorrente, la quale è proprietaria in Manerba del Garda (Bs) di un terreno agricolo confinante con quello della Galat S.r.l. di cui meglio in epigrafe (fatto non contestato), ha presentato al Comune di Manerba istanza volta a far attivare un procedimento amministrativo di verifica della commissione da parte di questa di abusi edilizi quanto ai lavori oggetto della SCIA di cui pure meglio in epigrafe, relativa in buona sostanza ad alcune opere di urbanizzazione (doc. ti 4 ricorrente e 3 Comune, copia istanza in questione; pacifico è il fatto della presentazione di essa, mentre si veda il relativo testo per la sommaria descrizione delle opere);
- che il Comune a tale istanza non ha dato riscontro;
- che il ricorso avverso tale silenzio, qualificato come silenzio-inadempimento, risulta nel caso concreto infondato. In termini generali, è senz’altro vero che il proprietario confinante ha un interesse qualificato a che il Comune competente, titolare quindi di un correlato obbligo di provvedere, si pronunci su una sua istanza volta a verificare l’eventuale commissione di abusi edilizi da parte di un vicino, così come stabilito, da ultimo, da C.d.S. sez. IV 27.04.2012 n. 2468 e 17.10.2012 n. 5347.
E’ però altrettanto vero, condividendosi quanto dedotto sul punto dalla difesa del Comune (memoria 4 gennaio 2013 p. 4 in fine), che tale interesse deve ritenersi sussistente solo a fronte di istanze assistite da un minimo di specificità, ovvero che indichino, almeno in modo sommario, in che consisterebbe l’ipotizzato abuso. Diversamente infatti da un lato si legittimerebbero condotte potenzialmente anche emulative, dall’altro si rischierebbe uno spreco di risorse dell’amministrazione, costretta ad effettuare verifiche indiscriminate e complessive di una qualsiasi pratica.
Non varrebbe poi obiettare che in tal modo si imporrebbe al privato un onere eccessivo, perché per comune esperienza chi ritiene di sollecitare a propria difesa un intervento repressivo per definizione ritiene di aver patito una illegittimità e la sa indicare, per lo meno in termini atecnici.
Un tanto non si rinviene nell’istanza per cui è causa, in cui la ricorrente si limita a premettere di avere impugnato nella presente sede giurisdizionale in piano attuativo relativo all’area, ma non spiega in qual modo, in dipendenza da tale vicenda o per altra causa, le opere da essa contestate risulterebbero illegittime (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 11.01.2013 n. 8 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La commissione non può integrare il bando di gara mediante la previsione di criteri integrativi dello stesso, ossia di criteri valutativi.
L'esclusione della facoltà, da parte della commissione, di integrare il bando di gara mediante la previsione di criteri integrativi dello stesso, ossia di criteri valutativi, è avvalorata anche dalla giurisprudenza comunitaria che statuisce la necessità che "...tutti gli elementi presi in considerazione dall'autorità aggiudicatrice per identificare l'offerta economicamente più vantaggiosa e la loro importanza relativa siano noti ai potenziali offerenti al momento in cui presentano le offerte ... infatti i potenziali offerenti devono essere messi in condizione di conoscere, al momento della presentazione delle loro offerte, l'esistenza e la portata di tali elementi ... pertanto un'amministrazione aggiudicatrice non può applicare regole di ponderazione o sottocriteri per i criteri di aggiudicazione che non abbia preventivamente portato a conoscenza degli offerenti ... gli offerenti devono essere posti su un piano di parità durante l'intera procedura, il che comporta che i criteri e le condizioni che si applicano a ciascuna gara debbano costituire oggetto di un'adeguata pubblicità da parte delle amministrazioni aggiudicatrici" (sentenza della Corte di Giustizia CE C-532/2006, 24.01.2008).
Pertanto, nel caso di specie, la commissione ha violato i suddetti principi, nel prevedere nuovi criteri di valutazione dell'offerta tecnica rispetto alla lex specialis, per di più omettendo un adeguato discorso giustificativo, che, anche per via schematica (griglie motivazionali), consenta di ricollegare l'attribuzione del punteggio alle "caratteristiche premianti" da essa predefinite (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 10.01.2013 n. 97 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: L'inosservanza delle prescrizioni del bando sulle modalità di presentazione delle offerte implica l'esclusione quando vengano in rilievo prescrizioni rispondenti ad un particolare interesse della p.a. appaltante o poste a garanzia della par condicio.
In materia di appalti della pubblica amministrazione, l'inosservanza delle prescrizioni del bando circa le modalità di presentazione delle offerte può implicare l'esclusione dalla gara (anche a prescindere dal fatto che questa sia espressamente prevista in termini specifici dalla lex specialis) quando vengano in rilievo prescrizioni rispondenti ad un particolare interesse della pubblica amministrazione appaltante, o poste a garanzia della par condicio dei concorrenti.
Laddove invece, come nel caso di specie, non sia ravvisabile la lesione di un interesse pubblico effettivo e rilevante, va accordata preferenza al favor partecipationis, in coerenza con l'interesse pubblico al più ampio confronto concorrenziale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.01.2013 n. 89 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: In assenza del provvedimento di aggiudicazione, senza nemmeno conoscere il contenuto dell’offerta economica presentata dalla ricorrente, non è affatto invocabile l’orientamento giurisprudenziale che ha affermato non essere ostativo al risarcimento del danno in materia di procedure ad evidenza pubblica l’intervento di un atto di revoca assunto in via di autotutela ancorché quest’ultimo sia legittimo. Né per la stessa ragione è utilmente applicabile l’indirizzo a mente del quale non costituisce ostacolo al riconoscimento della responsabilità patrimoniale dell'ente, la mancata impugnazione del provvedimento di revoca.
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In presenza d’atto d’autotutela, pienamente efficace perché non impugnato, e senza che la ricorrente non sia stata individuata come aggiudicataria, ma di cui non si conosca (nemmeno) il contenuto dell’offerta presentata in gara, difettano in fatto i presupposti per configurare la responsabilità precontrattuale in capo alla stazione appaltante: fra tutti l’effettiva sussistenza di posizione giuridica qualificata della ricorrente quale (ancorché, allo stato, potenziale) parte contraente.
In termini: l’indirizzo giurisprudenziale che ritiene sussistere la responsabilità precontrattuale in capo alla P.A. nel caso di annullamento d'ufficio degli atti di gara pubblica di appalto per un vizio rilevato dall'amministrazione solo successivamente all'aggiudicazione definitiva, o che avrebbe potuto rilevare già all'inizio della procedura.

La stazione appaltante dopo l’accertamento dell’illegittimità dell’esclusione, ma prima di aprire le offerte economiche, ha revocato gli atti della procedura di gara.
L’atto di revoca della procedura di gara non è stato impugnato.
Sicché, in assenza del provvedimento di aggiudicazione, senza nemmeno conoscere il contenuto dell’offerta economica presentata dalla ricorrente, contrariamente a quanto essa suppone, non è affatto invocabile l’orientamento giurisprudenziale che ha affermato non essere ostativo al risarcimento del danno in materia di procedure ad evidenza pubblica l’intervento di un atto di revoca assunto in via di autotutela ancorché quest’ultimo sia legittimo (Cons. Stato Sez. IV, 07.02.2012, n. 662). Né per la stessa ragione è utilmente applicabile l’indirizzo a mente del quale non costituisce ostacolo al riconoscimento della responsabilità patrimoniale dell'ente, la mancata impugnazione del provvedimento di revoca (TAR Puglia Bari Sez. I, 19.10.011, n. 1552; Cons. Stato Sez. VI, 05.09.2011, n. 5002).
Del resto la c.d. perdita di chance su cui la ricorrente fonda la domanda di risarcimento del danno presuppone l’effettiva sussistenza d’aspettativa giuridica qualificata alla conclusione del contratto d’appalto, che nel caso in esame difetta in assoluto posto che la procedura s’è arrestata senza che sia stata conosciuto il contenuto dell’offerta economica.
In altri termini la chance non raggiunge la soglia del 50% di probabilità di successo a cui fa riferimento la giurisprudenza consolidata per ritenerla risarcibile.
Situazione di fatto ostativa al ristoro della perdita di chance addebitabile allo stesso comportamento processuale della ricorrente che a riguardo non ha assolto ad alcun onere probatorio in ordine al nesso di causalità fra illegittimità dell’esclusione dalla gara e danno ingiusto. In misura tale da non consentire d’esperire il giudizio prognostico su base oggettiva che fonda la chance risarcibile.
Aggiungasi che l’Amministrazione ha esercitato la potestà di autotututela in fase ben anteriore all’individuazione della parte contraente, sicché in difetto di gravame, la revoca esplica i propri effetti senza che sia invocabile il regime della responsabilità precontrattuale in ordine al comportamento scorretto tenuto dall’amministrazione.
In presenza d’atto d’autotutela, pienamente efficace perché non impugnato, e senza che la ricorrente (non sono) non sia stata individuata come aggiudicataria, ma di cui non si conosca (nemmeno) il contenuto dell’offerta presentata in gara, difettano in fatto i presupposti per configurare la responsabilità precontrattuale in capo alla stazione appaltante: fra tutti l’ effettiva sussistenza di posizione giuridica qualificata della ricorrente quale (ancorché, allo stato, potenziale) parte contraente.
In termini: l’indirizzo giurisprudenziale che ritiene sussistere la responsabilità precontrattuale in capo alla P.A. nel caso di annullamento d'ufficio degli atti di gara pubblica di appalto per un vizio rilevato dall'amministrazione solo successivamente all'aggiudicazione definitiva, o che avrebbe potuto rilevare già all'inizio della procedura (Cons. Stato Sez. V, 16.03.2011, n. 1627) (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 08.01.2013 n. 35 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia edilizia, la differente qualificazione tra provvedimenti di rinnovo della concessione edilizia e di proroga dei termini di ultimazione dei lavori è riscontrabile nel senso che mentre il rinnovo della concessione presuppone la sopravvenuta inefficacia dell'originario titolo concessorio e costituisce, a tutti gli effetti, una nuova concessione, la proroga è atto sfornito di propria autonomia, che accede all'originaria concessione ed opera semplicemente uno spostamento in avanti del suo termine (iniziale o finale) di efficacia.
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Sia l'apposizione dei termini di efficacia della concessione edilizia che gli istituti della proroga (nei casi consentiti dalla legge) e della decadenza di cui all’art. 15 D.P.R. 06.06.2001, n. 380 servono ad assicurare la certezza temporale dell'attività di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio, anche al fine di garantire un efficiente controllo sulla conformità dell'intervento edilizio a suo tempo autorizzato con il relativo titolo, certezza che verrebbe frustrata se fosse consentito alla parte di dissimulare una richiesta di proroga sotto il falso nomen juris del “rinnovo”, con ciò potendo anche più volte rinviare –a proprio piacimento e senza soggiacere alle condizioni previste dalla legge– il termine di inizio e di fine dei lavori.
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E' illegittima la proroga del permesso di costruire ex art. 15 D.P.R. n. 380/2001 senza che ne sussistano i presupposti e –in ogni caso– senza alcuna istruttoria o motivazione sul punto, laddove il comune acriticamente ha aderito alla qualificazione in termini di rinnovo proposta -pro domo sua- dalla parte interessata, che non aveva ancora dato inizio ai lavori nell’imminenza del termine di scadenza, oltretutto già prorogato una prima volta.
Tanto più che, nella fattispecie, non sono sopravvenuti fatti impeditivi estranei alla volontà del titolare del permesso, e che non si tratta né di un’opera pubblica, né di un’opera di grandi dimensioni o di particolari caratteristiche tecnico-costruttive.
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L'annullamento dell’originario permesso di costruire sortisce l'effetto della caducazione della successiva variante in corso d’opera, secondo il meccanismo della così detta “invalidità derivata ad effetto caducante”, poiché priva di una propria autonomia dispositiva.
E’ noto che, in materia edilizia, la differente qualificazione tra provvedimenti di rinnovo della concessione edilizia e di proroga dei termini di ultimazione dei lavori è riscontrabile nel senso che mentre il rinnovo della concessione presuppone la sopravvenuta inefficacia dell'originario titolo concessorio e costituisce, a tutti gli effetti, una nuova concessione, la proroga è atto sfornito di propria autonomia, che accede all'originaria concessione ed opera semplicemente uno spostamento in avanti del suo termine (iniziale o finale) di efficacia.
Ciò posto, dirimente ai fini della corretta qualificazione del titolo edilizio impugnato appare –a parere del collegio– la circostanza che entrambe le istanze di rinnovo dell’originario permesso di costruire 31.08.2006 (depositate –rispettivamente- in data 25.08.2007 e 29.08.2008, docc. 3 e 4 delle produzioni 15.10.2011 di parte controinteressata) siano state presentate allorché il titolo da rinnovare era ancora efficace (essendo stato rilasciato il primo permesso in data 31.08.2006 ed il primo rinnovo in data 06.09.2007), in prossimità della scadenza del termine di inizio dei lavori ed in mancanza dell’avvio degli stessi (iniziati soltanto in data 16.10.2009, doc. 1 delle produzioni 08.11.2012 di parte comunale).
Se a ciò si aggiunge che esse riguardavano il medesimo intervento edilizio, risulta evidente come le istanze stesse mirassero in realtà a scongiurare la decadenza del titolo per mancato inizio dei lavori nel termine annuale, cioè a conseguire –propriamente– una proroga dello stesso ex art. 15, comma 2, D.P.R. n. 380/2001.
Né vale eccepire che nulla impedisce a chi abbia un titolo edilizio di chiederne un altro, sostitutivo del primo, pur in costanza di efficacia dello stesso.
Al contrario, infatti, la volontà dell’interessato trova un limite invalicabile nel principio di tipicità e di legalità dei poteri amministrativi, nonché nelle norme regolatrici dell'azione amministrativa.
Orbene, sia l'apposizione dei termini di efficacia della concessione edilizia che gli istituti della proroga (nei casi consentiti dalla legge) e della decadenza di cui all’art. 15 D.P.R. 06.06.2001, n. 380 servono ad assicurare la certezza temporale dell'attività di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio, anche al fine di garantire un efficiente controllo sulla conformità dell'intervento edilizio a suo tempo autorizzato con il relativo titolo (così Cons. di St., V, 23.11.1996, n. 1414), certezza che verrebbe frustrata se fosse consentito alla parte di dissimulare una richiesta di proroga sotto il falso nomen juris del “rinnovo”, con ciò potendo anche più volte rinviare –a proprio piacimento e senza soggiacere alle condizioni previste dalla legge– il termine di inizio e di fine dei lavori.
Dunque, il permesso di costruire impugnato (17.10.2008, prot. 19551/08) integra -propriamente- una proroga ex art. 15, comma 2, D.P.R. n. 380/2001 del termine di inizio dei lavori.
Sennonché, come correttamente eccepito dalle ricorrenti con il secondo motivo di ricorso, tale proroga è stata rilasciata in violazione dell’art. 15 D.P.R. n. 380/2001, senza che ne sussistessero i presupposti e –in ogni caso– senza alcuna istruttoria o motivazione sul punto, avendo il comune acriticamente aderito alla qualificazione in termini di rinnovo proposta -pro domo sua- dalla parte interessata, che non aveva ancora dato inizio ai lavori nell’imminenza del termine di scadenza, oltretutto già prorogato una prima volta.
E’ infatti pacifico che non siano sopravvenuti fatti impeditivi estranei alla volontà del titolare del permesso, e che non si tratti né di un’opera pubblica, né di un’opera di grandi dimensioni o di particolari caratteristiche tecnico-costruttive (circostanze, del resto, neppure dedotte).
Donde la fondatezza della domanda impugnatoria, con assorbimento degli altri motivi di gravame.
L’annullamento del titolo edilizio principale determina l’accoglimento dei motivi aggiunti, nella parte relativa all’impugnazione del silenzio (avente valore di provvedimento implicito di diniego dell’adozione del provvedimento inibitorio, cfr. Cons. di St., Ad. Plen., 29.07.2011, n. 15; Cons. di St., IV, 26.07.2012, n. 4255) serbato dal comune sulla dichiarazione di inizio di attività presentata in data 02.11.2010 dalla controinteressata Lenzi Gabriella Maria (doc. 8 delle produzioni 15.10.2011 di parte controinteressata), in variante al permesso di costruire 17.10.2008.
Difatti, l'annullamento dell’originario permesso di costruire sortisce l'effetto della caducazione della successiva variante in corso d’opera, secondo il meccanismo della così detta “invalidità derivata ad effetto caducante”, poiché priva di una propria autonomia dispositiva (TAR Lombardia, II, 02.09.2011, n. 2149) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 08.01.2013 n. 34 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'onere di motivazione non sussiste solo in caso di diniego del titolo, non essendo dubbia la sua doverosità per l'assenso, dovendosi dar conto, in quest'ultimo caso, dell'iter logico seguito per verificare e riconoscere la compatibilità effettiva degli interventi edificatori in riferimento agli specifici vincoli paesaggistici dei luoghi.
Fondati sono anche i motivi di doglianza dedotti con il ricorso introduttivo avverso l’autorizzazione paesaggistica 31.08.2006 e con l’atto per motivi aggiunti avverso l’autorizzazione paesaggistica 21.07.2011, con i quali è denunciato difetto di motivazione (motivo 7 del ricorso introduttivo e 4 del ricorso per motivi aggiunti).
Occorre premettere che, per costante giurisprudenza, l'onere di motivazione non sussiste solo in caso di diniego del titolo, non essendo dubbia la sua doverosità per l'assenso, dovendosi dar conto, in quest'ultimo caso, dell'iter logico seguito per verificare e riconoscere la compatibilità effettiva degli interventi edificatori in riferimento agli specifici vincoli paesaggistici dei luoghi (TAR Campania-Napoli, VI, 05.04.2012, n. 1640).
Nel caso di specie, né l’autorizzazione paesaggistica 31.08.2006, né quella rilasciata in data 21.07.2011 recano l’indicazione dello specifico vincolo gravante sull’area di intervento, sicché risulta impossibile ricostruire l'iter logico seguito per verificare e riconoscere in concreto la compatibilità effettiva del progetto con i valori tutelati (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 08.01.2013 n. 34 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’indicazione dell'area di sedime da acquisire nell'ipotesi di inottemperanza all'ordine di demolizione non costituisce elemento essenziale dell’ordine di demolizione, né la sua mancanza causa di illegittimità dello stesso, in quanto tali indicazioni appartengono propriamente al successivo atto di accertamento dell'inottemperanza e di acquisizione gratuita al patrimonio comunale.
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La comunicazione dell’avvio del procedimento repressivo all’amministrazione regionale ex art. 4, comma 3, L. n. 47/1985 è finalizzata unicamente all’intervento in via sostitutiva “ai fini della demolizione”, sicché la sua omissione concreta –al più– una mera irregolarità, che il ricorrente non ha neppure interesse a dedurre.

Il secondo motivo è invece infondato.
Da un lato, infatti, l’indicazione dell'area di sedime da acquisire nell'ipotesi di inottemperanza all'ordine di demolizione non costituisce elemento essenziale dell’ordine di demolizione, né la sua mancanza causa di illegittimità dello stesso, in quanto tali indicazioni appartengono propriamente al successivo atto di accertamento dell'inottemperanza e di acquisizione gratuita al patrimonio comunale (Cons. di St., IV, 26.09.2008, n. 4659; TAR Liguria, I, 26.11.2012, n. 1503; TAR Piemonte, I, 24.03.2010, n. 1577).
Dall’altro, la comunicazione dell’avvio del procedimento repressivo all’amministrazione regionale ex art. 4, comma 3, L. n. 47/1985 è finalizzata unicamente all’intervento in via sostitutiva “ai fini della demolizione”, sicché la sua omissione concreta –al più– una mera irregolarità, che il ricorrente non ha neppure interesse a dedurre (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 08.01.2013 n. 30 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Art. 1, c. 3 d.P.R. n. 380/2001 – Esonero dal contributo di costruzione – Immobile destinato ad attività produttiva – Applicabilità – Esclusione.
L’art. 17 d.P.R. 380/2001 prescrive, al comma 3, che “il contributo di costruzione non è dovuto: (…) b) per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”: nell’ipotesi di immobile destinato allo svolgimento di attività produttive, non ricorre tuttavia la ratio per l'esonero dal relativo pagamento (cfr. TAR Marche, Sez. I, 10.05.2012, n. 310); tale beneficio è rivolto infatti solo a quelle situazioni in cui l'intervento edilizio non è destinato a fini di lucro, ma esclusivamente a migliorare la funzionalità e l'usabilità dell'immobile ad esclusivo vantaggio della famiglia che ci vive e delle relative esigenze abitative.
Contributo di costruzione – Doverosità in astratto – Amministrazione – Obbligo di verificare, in concreto, la sussistenza dei presupposti per l'esigibilità – Interventi di ristrutturazione senza incrementi di volumi e superfici e senza cambiamenti della originaria destinazione d'uso – Verifica dell'incidenza incrementativa sul carico urbanistico.
La doverosità in astratto del contributo di costruzione non vale ad esimere l'Amministrazione dall'obbligo di verificare, nel caso concreto, la sussistenza dei presupposti per poter esigere il contributo di costruzione, avuto riguardo alla natura e alla funzione tipica assolta da ciascuna delle sue due componenti.
Per quanto concerne in particolare gli oneri di urbanizzazione, la relativa quota costituisce un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione ai benefici che la nuova costruzione ne ritrae, sicché, il fatto da cui in concreto nasce l'obbligo di corrispondere gli "oneri" anzidetti è l'aumento del carico urbanistico.
Tale incremento può conseguire anche ad interventi di ristrutturazione senza incrementi di volumi e di superficie e senza cambiamenti della originaria destinazione d’uso; è compito dell’Amministrazione tuttavia, quale presupposto per l’esigibilità del contributo, verificare attentamente l’incidenza incrementativa delle suddette opere sul carico urbanistico preesistente e dare congrua giustificazione delle conclusioni raggiunte (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 08.01.2013 n. 25 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Per riconoscere la legittimazione all’impugnativa di un provvedimento concernente opere edilizie da parte dei proprietari vicini, la giurisprudenza richiede, in generale, che questi ultimi dimostrino anche la sussistenza di un pregiudizio concreto per le loro facoltà dominicali.
Nel caso di specie –che non riguarda la materia edilizia, ma deve ritenersi analogo trattandosi di autorizzazione allo svolgimento di attività arrecante disturbo, in area contigua all’edificio dove sono ubicati gli appartamenti dei ricorrenti– la vicinitas non è in contestazione, mentre il pregiudizio concreto per le facoltà dominicali dei ricorrenti consiste nell’immissione di rumori molesti, che essi hanno comunque interesse a contenere nei limiti prescritti dalla legge, con conseguente possibilità di contestare innanzi al giudice amministrativo i relativi provvedimenti autorizzativi dell’attività medesima.
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Nel controllo sull'esercizio della discrezionalità tecnica, al giudice amministrativo è sicuramente consentito di censurare le valutazioni che si pongono al di fuori dell'ambito di opinabilità, con connessa possibilità di sindacare con pienezza di cognizione i fatti oggetto dell'indagine e il processo valutativo mediante il quale l'autorità applica al caso concreto la regola individuata.

Per riconoscere la legittimazione all’impugnativa di un provvedimento concernente opere edilizie da parte dei proprietari vicini, la giurisprudenza richiede, in generale, che questi ultimi dimostrino anche la sussistenza di un pregiudizio concreto per le loro facoltà dominicali (v., ad esempio, C.S., IV, 24.01.2011, n. 485).
Nel caso di specie –che non riguarda la materia edilizia, ma deve ritenersi analogo trattandosi di autorizzazione allo svolgimento di attività arrecante disturbo, in area contigua all’edificio dove sono ubicati gli appartamenti dei ricorrenti– la vicinitas non è in contestazione, mentre il pregiudizio concreto per le facoltà dominicali dei ricorrenti consiste nell’immissione di rumori molesti, che essi hanno comunque interesse a contenere nei limiti prescritti dalla legge, con conseguente possibilità di contestare innanzi al giudice amministrativo i relativi provvedimenti autorizzativi dell’attività medesima (cfr. TAR Liguria, I, 09.12.2009, n. 3559).
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Infatti, secondo la giurisprudenza, nel controllo sull'esercizio della discrezionalità tecnica, al giudice amministrativo è sicuramente consentito di censurare le valutazioni che si pongono al di fuori dell'ambito di opinabilità, con connessa possibilità di sindacare con pienezza di cognizione i fatti oggetto dell'indagine e il processo valutativo mediante il quale l'autorità applica al caso concreto la regola individuata (C.S., VI, 13.09.2012, n. 4873) (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 08.01.2013 n. 15 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl termine decadenziale per l'impugnazione di un permesso di costruire decorre dalla piena conoscenza dell'esistenza e dell'entità delle violazioni urbanistiche o del contenuto specifico del progetto edilizio in modo che si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto.
Nel giudizio amministrativo la prova della piena conoscenza deve essere offerta in modo rigoroso, non essendo adeguati a tal fine la mera verosimiglianza dell'avvenuta conoscenza stessa o presunzioni semplici di alcun genere.

Costituisce principio giurisprudenziale consolidato, dal quale questo Collegio non ravvisa ragione per discostarsi, che il termine decadenziale per l'impugnazione di un permesso di costruire decorre dalla piena conoscenza dell'esistenza e dell'entità delle violazioni urbanistiche o del contenuto specifico del progetto edilizio in modo che si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto (così, da ult., Cons. St., IV, 17.09.2012, n. 4923; Tar Campania, Salerno, II, 17.10.2012 n. 1868)
Le parti resistenti, cui spetta fornire la prova della piena conoscenza, non hanno dimostrato che essa sia avvenuta antecedentemente ai sessanta giorni (cui occorre aggiungere il periodo di sospensione feriale) dalla notifica del ricorso, non essendo sufficiente a tal fine né il riferimento alla data di adozione dell’atto né il generico rilievo che l’iter di rilascio del titolo ha registrato il costante interessamento e la continua presenza di parte ricorrente. Nel giudizio amministrativo, infatti, la prova della piena conoscenza deve essere offerta in modo rigoroso, non essendo adeguati a tal fine la mera verosimiglianza dell'avvenuta conoscenza stessa o presunzioni semplici di alcun genere (in termini Cons. St., IV, 07.11.2012 n. 5657) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 08.01.2013 n. 9 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’avvenuta presentazione di una domanda di accertamento di conformità determina la perdita di efficacia del precedente ordine di demolizione inerente il medesimo bene, dal momento che, in caso di rigetto dell’istanza, il Comune è comunque tenuto a provvedere nuovamente sull’abuso, non già per difformità o assenza del titolo, ma in ragione della sostanziale illegittimità urbanistica del manufatto.
Tale orientamento trova recenti conferme, essendo stato ribadito che la presentazione di domande di condono rende improcedibili i giudizi relativi a pregressi provvedimenti sanzionatori di opere ritenute abusive da parte dell'Amministrazione comunale, atteso che la presentazione della detta istanza impone al Comune la sua disamina e l'adozione dei provvedimenti conseguenti, sicché gli atti repressivi dell'abuso adottati in precedenza perdono efficacia.
Più in particolare, si è anche ritenuto che “la presentazione di una domanda di sanatoria determina per l'Amministrazione l'onere di un provvedimento di reiezione (o di accoglimento) dell'istanza stessa cui deve far seguito l'eventuale adozione di ulteriori provvedimenti sanzionatori che il Comune è tenuto ad emanare con atti a contenuto vincolato, una volta che si sia verificato che non sussistono le condizioni per la sanatoria delle opere abusive”.
Ciò consente al Collegio di disattendere il pur sussistente diverso orientamento secondo cui, essendo la domanda ex art. 36 DPR 380/2001 soggetta ad un regime di silenzio-rigetto, la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità determinerebbe non già l’improcedibilità del gravame, ma solamente l’effetto di una temporanea sospensione dell’efficacia dell’ordinanza di demolizione impugnata.
Va infatti meglio chiarito che “la mancata impugnazione nei termini del silenzio rigetto, formatosi sull'istanza di accertamento di conformità ex art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, non dispiega un'efficacia preclusiva nei confronti dell'impugnazione del sopravvenuto diniego espresso, che sia fondato su una motivazione espressa, basata sui risultati dell'istruttoria compiuta e della valutazione effettuata; in tal caso, infatti, non si è in presenza di un atto meramente confermativo di un precedente silenzio con valore legalmente tipico di diniego, bensì di un atto di conferma in senso proprio a carattere rinnovativo, che modifica la realtà giuridica e, perciò, riapre i termini per la proposizione del ricorso giurisdizionale”.
Ne deriva che, in presenza di una istanza ex art. 36 del DPR 380/2001, sussiste l’obbligo del Comune di condurre tale accertamento anche laddove, decorsi i termini di legge, si sia formato un provvedimento di diniego tacito sull’istanza, poiché dovendo ad esso seguire il rinnovo dell’esercizio dei poteri repressivi e sanzionatori, la compatibilità o meno del manufatto con le previsioni dello strumento urbanistico si riproporrà al momento dell’emanazione del nuovo ordine di demolizione.

Per giurisprudenza costante, l’avvenuta presentazione di una domanda di accertamento di conformità determina la perdita di efficacia del precedente ordine di demolizione inerente il medesimo bene, dal momento che, in caso di rigetto dell’istanza, il Comune è comunque tenuto a provvedere nuovamente sull’abuso, non già per difformità o assenza del titolo, ma in ragione della sostanziale illegittimità urbanistica del manufatto (cfr. TAR Reggio Calabria 17.06.2009, nr. 420 e giurisprudenza ivi richiamata).
Tale orientamento trova recenti conferme, essendo stato ribadito che la presentazione di domande di condono rende improcedibili i giudizi relativi a pregressi provvedimenti sanzionatori di opere ritenute abusive da parte dell'Amministrazione comunale, atteso che la presentazione della detta istanza impone al Comune la sua disamina e l'adozione dei provvedimenti conseguenti, sicché gli atti repressivi dell'abuso adottati in precedenza perdono efficacia (Cfr. Cons. Stato. V, 08.06.2011 n. 3460).
Più in particolare, si è anche ritenuto che “la presentazione di una domanda di sanatoria determina per l'Amministrazione l'onere di un provvedimento di reiezione (o di accoglimento) dell'istanza stessa cui deve far seguito l'eventuale adozione di ulteriori provvedimenti sanzionatori che il Comune è tenuto ad emanare con atti a contenuto vincolato, una volta che si sia verificato che non sussistono le condizioni per la sanatoria delle opere abusive (Cons. Stato, Sez. IV, 12.05.2010 n. 2244; idem, 12.11.2008 n. 5646)” (cfr. Consiglio di Stato sez. IV, 15.06.2012, n. 3534; v. anche TAR Lecce Puglia sez. III, 01.08.2012, n. 1447, secondo cui “l'interesse del responsabile dell'abuso, per conseguenza, si concentra in queste ipotesi sugli eventuali provvedimenti di rigetto della domanda di sanatoria prima e di demolizione poi”).
Ciò consente al Collegio di disattendere il pur sussistente diverso orientamento secondo cui, essendo la domanda ex art. 36 DPR 380/2001 soggetta ad un regime di silenzio-rigetto, la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità determinerebbe non già l’improcedibilità del gravame, ma solamente l’effetto di una temporanea sospensione dell’efficacia dell’ordinanza di demolizione impugnata (cfr. da ultimo, TAR Catanzaro Calabria sez. I, 05.07.2012, n. 701).
Va infatti meglio chiarito che “la mancata impugnazione nei termini del silenzio rigetto, formatosi sull'istanza di accertamento di conformità ex art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, non dispiega un'efficacia preclusiva nei confronti dell'impugnazione del sopravvenuto diniego espresso, che sia fondato su una motivazione espressa, basata sui risultati dell'istruttoria compiuta e della valutazione effettuata; in tal caso, infatti, non si è in presenza di un atto meramente confermativo di un precedente silenzio con valore legalmente tipico di diniego, bensì di un atto di conferma in senso proprio a carattere rinnovativo, che modifica la realtà giuridica e, perciò, riapre i termini per la proposizione del ricorso giurisdizionale” (TAR Latina Lazio sez. I, 02.07.2012, n. 528 alle cui articolate ed approfondite motivazioni in diritto si rinvia).
Ne deriva che, in presenza di una istanza ex art. 36 del DPR 380/2001, sussiste l’obbligo del Comune di condurre tale accertamento anche laddove, decorsi i termini di legge, si sia formato un provvedimento di diniego tacito sull’istanza, poiché dovendo ad esso seguire il rinnovo dell’esercizio dei poteri repressivi e sanzionatori, la compatibilità o meno del manufatto con le previsioni dello strumento urbanistico si riproporrà al momento dell’emanazione del nuovo ordine di demolizione (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 08.01.2013 n. 2 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALILe partecipate non falliscono. Sono al servizio del comune. Che risponde dei debiti. Per il tribunale di Palermo le società strumentali non hanno natura imprenditoriale.
Le società partecipate strumentali degli enti pubblici non possono fallire perché mancanti del presupposto soggettivo previsto dall'art. 1 della legge fallimentare. Non è qualificabile quale imprenditore commerciale (o industriale), infatti, la società istituita sotto forma di impresa di diritto privatistico che tuttavia è unicamente destinata al servizio dell'interesse pubblico dell'ente locale che l'ha finanziata in via esclusiva o prevalente.
Lo ha stabilito il Tribunale di Palermo con il decreto 08.01.2013.
Il tribunale siciliano ha infatti stabilito che «la mancanza della natura di imprenditore commerciale esclude che» la società partecipata in via esclusiva dal comune di Palermo «possa rientrare tra i soggetti fallibili ai sensi dell'art. 1, comma 1, l.f. e, dunque, anche tra i soggetti sottoponibili ad amministrazione straordinaria ai sensi dell'art. 2 dlgs 270/1999», ovvero all'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.
Il decreto, infatti, specifica che qualora un ente locale costituisca una società per azioni non è di per se sufficiente a escludere la natura di istituzione pubblica, dovendo procedersi a una valutazione in concreto, caso per caso, sicché la natura d'istituzione pubblica è configurabile allorché la detta società le cui azioni siano possedute prevalentemente, se non esclusivamente, da un ente pubblico, costituisca lo strumento per la gestione di servizio pubblico e, quindi faccia parte di una nozione allargata di pubblica amministrazione (così anche Cass. S.u. n. 90096/2005).
Al fine di escludere o ritenere fallibile un ente costituito sotto la veste di società di diritto privatistico, potendo il problema essere affrontato sotto il profilo della qualificazione o meno della stessa quale imprenditore commerciale, occorre essenzialmente identificare se esistono le condizioni necessarie per ritenere che la società in mano pubblica svolga un'attività commerciale, rilevando a questo fine l'oggetto e la modalità con cui la stessa è espletata.
Il caso sottoposto al tribunale di Palermo riguarda la Gesip Palermo spa, in liquidazione da oltre tre anni, alla quale erano stati delegati i servizi di pulizia e manutenzione delle aree verdi del comune di Palermo e di altri servizi pubblici. La società che con il tempo aveva assunto oltre 1.800 dipendenti, in evidente stato di crisi e ora di insolvenza, si era determinata, anche in relazione ad una delibera assunta dal socio unico, a presentare istanza di auto fallimento alla fine di dicembre 2012.
Il tribunale di Palermo, con una provvedimento di approfondimento dell'istruttoria pre-fallimentare, ha dapprima convocato anche il ministero dello sviluppo economico per l'eventuale avvio della procedura di amministrazione straordinaria ex dlgs 270/1999 e infine ha escluso la fallibilità della società per azioni, in quanto società affidataria di servizi pubblici in house.
Il rigetto dell'istanza rende ora chiara la situazione di responsabilità dell'ente locale socio unico della società per azioni, la quale è stata sottoposta anche alla direzione e coordinamento ai sensi dell'art. 2497 c.c. Ancorché non sussistano i presupposti per il consolidamento del bilancio della società partecipata nel bilancio dell'ente locale, i debiti della società insolvente dovranno essere soddisfatti dall'ente pubblico locale, che dovrà valutare come deliberare la copertura dei debiti della società in house, con il rischio di ulteriormente aggravare il già precario bilancio del comune di Palermo, che ora rischia seriamente il default (articolo ItaliaOggi dell'11.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI: L'esame delle offerte economiche prima di quelle tecniche costituisce una palese violazione dei principi inderogabili di trasparenza e di imparzialità che devono presiedere alle gare pubbliche.
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Costituisce violazione degli essenziali principi della par condicio tra i concorrenti e di segretezza delle offerte l'inserimento, da parte dell'impresa concorrente, di elementi concernenti l'offerta economica all'interno della busta contenente l'offerta tecnica.

Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, nelle procedure indette per l'aggiudicazione di appalti pubblici sulla base del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, la commissione di gara è tenuta a valutare prima i profili tecnici delle offerte, e solo successivamente le offerte economiche.
E' irrilevante che il bando non detti una specifica disposizione per stabilire quale delle due offerte debba essere esaminata con priorità sull'altra, atteso che l'esame delle offerte economiche prima di quelle tecniche costituisce una palese violazione dei principi inderogabili di trasparenza e di imparzialità che devono presiedere alle gare pubbliche, in quanto la conoscenza preventiva dell'offerta economica consentirebbe di modulare il giudizio sull'offerta tecnica in modo non conforme alla parità di trattamento dei concorrenti, e tale possibilità, ancorché remota ed eventuale, per il solo fatto di esistere inficia la regolarità della procedura.
Da tale principio deriva il lineare corollario per cui le offerte economiche, sempre nel caso di gara secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, devono restare segrete per tutto il tempo occorrente ad evitare che una eventuale conoscenza degli elementi di valutazione di carattere automatico (quale appunto il prezzo) possa influenzare la valutazione degli elementi.
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Costituisce violazione degli essenziali principi della par condicio tra i concorrenti e di segretezza delle offerte -principi, questi, di matrice comunitaria che si applicano anche a materie diverse dagli appalti, essendo sufficiente che si tratti di attività suscettibile di apprezzamento in termini economici e che, quindi, valgono anche per le concessioni di beni pubblici- l'inserimento, da parte dell'impresa concorrente, di elementi concernenti l'offerta economica all'interno della busta contenente l'offerta tecnica, e ciò senza necessità di espressa menzione da parte della lex specialis di gara (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.01.2013 n. 10 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Rappresenta un principio inderogabile in ogni tipo di gara, ivi comprese anche le procedure negoziate, quello della pubblicità delle sedute nelle quali si proceda alla verifica dell'integrità dei plichi e alla disamina del loro contenuto.
Un consolidato insegnamento giurisprudenziale riconosce quale principio inderogabile in ogni tipo di gara, ivi comprese anche le procedure negoziate, quello della pubblicità delle sedute nelle quali si proceda alla verifica dell'integrità dei plichi e alla disamina del loro contenuto (documentazione amministrativa, offerta tecnica ed economica).
E va rimarcato che lo stesso principio è stato inequivocabilmente esteso dalla più recente giurisprudenza anche alle procedure negoziate senza previo bando, ed ha trovato, da ultimo, il definitivo suggello dell'Adunanza Plenaria di questo Consiglio n. 31 del 31.07.2012 proprio nel segno, appunto, della massima latitudine applicativa del canone di pubblicità delle operazioni di gara, quale corollario del più generale principio di trasparenza.
Quest'ultima pronuncia, invero, con grande nettezza ha affermato che le esigenze di informazione dei partecipanti alla gara a tutela dei principi di trasparenza e par condicio, richiamate nella decisione n. 13/2011 della stessa Adunanza a sostegno della necessità che l'apertura delle buste contenenti le offerte tecniche avvenga in seduta pubblica, si pongono in termini sostanzialmente identici anche in relazione alle procedure negoziate, ed ha concluso, pertanto, che anche laddove si tratti di procedure negoziate, con o senza previo bando, l'apertura delle buste contenenti le offerte e la verifica dei documenti in esse contenuti (verifica preliminare alle successive valutazioni tecniche ed economiche delle medesime offerte) vadano effettuate in seduta pubblica (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.01.2013 n. 8 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: E' illegittima l’ingiunzione adottata dal dirigente dello Sportello unico delle attività produttive avente ad oggetto l’ordine di messa in atto di opere finalizzate alla cessazione della propagazione di fumo proveniente da canna fumaria dell'attività di pizzeria condotta dalla ricorrente.
Invero, l’ingiunzione non trova riscontro in alcuna specifica norma di legge che, in relazione alla situazione di fatto assunta a giustificazione della sua adozione, attribuisca all’amministrazione comunale la potestà esercitata in materia.

È impugnata l’ingiunzione adottata dal dirigente dello Sportello unico delle attività produttive di Genova del 05.03.2009 avente ad oggetto l’ordine di messa in atto di opere finalizzate alla cessazione della propagazione di fumo proveniente da canna fumaria dell'attività di pizzeria condotta dalla ricorrente.
Il motivo principale da cui muove il gravame è che l’ingiunzione non troverebbe riscontro in alcuna specifica norma di legge che, in relazione alla situazione di fatto assunta a giustificazione della sua adozione, attribuisca l’amministrazione comunale la potestà esercitata in materia.
La censura è fondata.
L’obbligo di fare avente ad oggetto l’esecuzione di opere finalizzate a contenere la propagazione di fumi, oltre ad essere genericamente imposto, non ha fonte di legge.
Non soddisfa affatto i principi di legalità sostanziale e nominatività che presidiano e, ad un tempo, circoscrivono, ai sensi dell’art. 23 cost., l’adozione da parte dell’autorità amministrativa di prescrizioni di fare incidenti sui cittadini o sugli operatori economici.
Detti principi, analiticamente declinati, rispettivamente, esigono: per un verso, che la fonte normativa non solo preveda genericamente la potestà in capo all’amministrazione ma che, in senso sostanziale, ne disciplini contenuto, oggetto ed efficacia prescrittiva; per l’altro, che risulti esattamente individuata la norma che tale potestà espressamente riconosca all’autorità procedente.
Nel caso in esame nessuna delle due.
Non ricorre nella situazione posta a base dell’ingiunzione alcuna situazione di pericolo per la salute pubblica di cui all’art. 217 r.d. n. 1265/1934, enfaticamente richiamato nell’atto impugnato.
I fumi molesti, a cui fa riferimento la stessa ingiunzione nella parte dispositiva, non sono infatti realisticamente annoverabili fra le esalazioni pericolose per la salute pubblica.
Non è altresì utilmente invocabile l’art. 36 del Regolamento per l’igiene del suolo e dell’abitato del comune di Genova che, in disparte la natura di atto normativo secondario, non ascrivibile a fonte di legge idonea ad soddisfare la relativa riserva prevista all’art. 23 cost., disciplina propriamente l’installazione di canne fumarie.
Per quella per cui è causa, e dalla quale provengono i fumi –va sottolineato– la ricorrente ha ottenuto a suo tempo, ossia a fare data dal 2003, la prescritta autorizzazione.
Inoltre nel necessario riscontro dei requisiti di tempestività e continuità dell’azione amministrativa che caratterizza ab imis lo scrutinio di legittimità dei provvedimenti atti a fronteggiare supposte situazioni di pericolo per la salute pubblica, non va passato sotto silenzio che la nota dell’ASL n. 3, avente riguardo alle opere necessarie ad evitare la propagazione dal camino della pizzeria di fumi pericolosi, risale al 07.06.2007: vale a dire a ben due anni prima l’adozione dell’atto impugnato.
In definitiva, a tacer d’altro, si è assunta a fondamento di fatto dell’ingiunzione una situazione contingente maturata (non solo in un momento, bensì addirittura) in epoca anteriore a quella specificamente considerata nell’otto impugnato.
Del resto, conclusivamente, è significativo che gli abitanti del condominio che lamentano i fumi molesti, invocando la disciplina delle immissioni di cui all’art. 844 c. c., hanno promosso la causa civile innanzi al Tribunale di Genova, definita con sentenza di reiezione n. 2748/2012.
A testimonianza che, allo stato ed in difetto di sopravvenute situazioni o emergenze debitamente accertate, la controversia sui fumi provenienti dalla pizzeria della ricorrente è questione che riguarda esclusivamente i privati
(TAR Liguria, Sez. II, sentenza 04.01.2013 n. 1 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La sola pubblicazione del bando di gara sul sito internet della stazione appaltante è sufficiente a garantire la pubblicità di un appalto di servizi rientrante nella categ. dell'all. IIB della dir. 2004/18 di importo superiore alla soglia comunitaria
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Il gestore uscente di un servizio che intenda partecipare alle successive gare indette dalla stessa amministrazione è tenuto ad una maggiore diligenza in sede di gara.

La Commissione Europea nella comunicazione interpretativa 2006/C-179/02, (la quale, pur non rivestendo alcun valore normativo, costituisce pur sempre una guida per l'interprete) sintetizzando i principi affermati nel corso degli anni dalla Corte di Giustizia in materia di appalti c.d. esclusi, ha chiarito che …Spetta alle amministrazioni aggiudicatrici scegliere il mezzo più adeguato a garantire la pubblicità dei loro appalti. La loro scelta deve essere guidata da una valutazione dell'importanza dell'appalto per il mercato interno, tenuto conto in particolare del suo oggetto, del suo importo nonché delle pratiche abituali nel settore interessato.
Quanto più interessante è l'appalto per i potenziali offerenti di altri Stati membri, tanto maggiore deve essere la copertura. In particolare, un'adeguata trasparenza per gli appalti di servizi di cui all'all. II B della dir. 2004/18/CE e all'all. XVII B della dir. 2004/17/CE il cui importo superi le soglie di applicazione di tali direttive implica di solito la pubblicazione in un mezzo di comunicazione largamente diffuso. Quali forme di pubblicità adeguate e frequentemente utilizzate, è opportuno citare: - Internet. L'ampia disponibilità e la facilità di utilizzazione di Internet rendono gli avvisi pubblicitari di appalti pubblicati sui siti molto più accessibili, in particolare per le imprese di altri Stati membri e le PMI interessate ad appalti di importo limitato. Internet offre un'ampia gamma di possibilità per la pubblicità degli appalti pubblici.
Pertanto, nel caso di specie, anche in presenza di un appalto ascrivibile ad una delle categorie menzionate dall'all. IIB di importo superiore alla soglia comunitaria la pubblicità del bando sul solo sito internet della stazione appaltante è misura adeguata allo scopo, l'operato dell'amministrazione va esente da qualsiasi rilievo in punto di legittimità e ciò anche in ragione del chiaro disposto dell'art. 20 del Codice dei contratti pubblici (nella specie, peraltro, il bando è stato pubblicato anche sul sito dell'A.V.C.P., a riprova del fatto che la Comunità Montana non aveva alcuna intenzione di rendere "inaccessibile" la presente gara).
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Il gestore uscente di un servizio che intenda partecipare alle successive gare indette dalla stessa amministrazione, così come gode, in sede di formulazione dell'offerta, dei vantaggi derivanti dalla c.d. asimmetria informativa rispetto agli altri concorrenti, è per converso tenuto ad una maggiore diligenza in sede di gara, visto che è lecito presumere che egli conosca meglio degli altri partecipanti le regole della procedura e non può quindi normalmente fruire del c.d. soccorso istruttorio (TAR Marche, sentenza 04.01.2013 n. 1 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTIIl Tar del lazio contraddice l'authority. No all'esclusione per i senza polizza.
Il «bando-tipo» dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici si pone in contrasto con il principio di tassatività delle cause di esclusione laddove prevede l'esclusione del concorrente che non allega la polizza fideiussoria o cauzione provvisoria, o ne allega una non sottoscritta; viceversa si tratta di irregolarità sanabile e la clausola del bando che prevede l'esclusione è nulla.
È quanto afferma il TAR Lazio-Roma, Sez. II, con la sentenza 03.01.2013 n. 16, che contraddice la delibera 4/2012 dell'organismo di vigilanza sui contratti pubblici rispetto a una fattispecie in cui un concorrente era stato escluso per mancata sottoscrizione della cauzione da parte dell'Istituto cauzionante, nonché del partecipante alla gara.
L'adempimento in questione è quello previsto dall'articolo 75 del Codice dei contratti pubblici che impone la cauzione provvisoria del 2% a corredo dell'offerta e a garanzia della stessa, ma non prevede l'esclusione del concorrente come nel caso della cauzione definitiva. Sul punto il Consiglio di stato era però intervenuto in passato affermando (Sez. V, 12.06.2009, n. 3746) che la cauzione provvisoria, assolvendo la funzione di garantire la serietà dell'offerta, costituisse parte integrante dell'offerta stessa e non elemento di corredo, sicché la mancata produzione della garanzia giustificava l'esclusione dalla gara.
Con l'articolo 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici, introdotto dall'art. 4, comma 2, lettera d), del decreto legge n. 70/2011, è stata però prevista la tassatività delle cause di esclusione dalla procedura di affidamento del contratto di appalto: l'esclusione consegue quindi sia alla violazione di norma del Codice o del regolamento in cui è espressamente prevista l'esclusione, sia ai casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali. E dopo la norma del decreto 70 sempre il Consiglio di stato (Sez. III, 01.02.2012, n. 493) si era espresso nel senso di ritenere «sanabile o regolarizzabile la mancata prestazione della cauzione provvisoria».
Successivamente al decreto legge 70/2011, l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, nel fornire delle prime indicazioni per la redazione dei bandi di gara (il cosiddetto «bando-tipo» nel quale è stata effettuata la ricognizione delle diverse fattispecie di esclusione, tipizzate dalla legge o ricavabili in sede interpretativa), ha affermato che costituiscono cause di esclusione tanto la mancata presentazione della cauzione provvisoria, quanto la mancata sottoscrizione da parte del garante, così come effettivamente prevedevano gli atti di gara (ancorché precedenti alla delibera n. 4).
Il Tar del Lazio contraddice l'Autorità e ritiene invece nullo il bando per violazione di legge (e del principio di tassatività delle cause di esclusione affermato dall'articolo 46, comma 1-bis, del Codice). Non solo: la sentenza afferma anche che non risulta condivisibile la tesi sostenuta dall'Autorità, perché tale tesi risulta in contrasto con la ratio della novella del 2011, evidentemente tesa a limitare le cause di esclusione dalle gare e a favorire, in ossequio al principio del favor partecipationis, la regolarizzazione delle domande e delle offerte che siano prive dei requisiti richiesti dalla legge o dal bando (articolo ItaliaOggi dell'08.01.2013).

APPALTI: Il bando della procedura di gara pubblica è affetto da nullità ogni qualvolta individua quale causa di esclusione dalla gara la mancata allegazione della polizza fideiussoria di cui all'art. 75, comma primo, del codice dei contratti pubblici.
Tale norma, la quale prevede, al comma sesto, l’obbligo -non sanzionato con l'inammissibilità dell'offerta o l'esclusione del concorrente per l'ipotesi in cui la garanzia non venga prestata- di corredare l'offerta di una garanzia pari al due per cento del prezzo base indicato nel bando o nell’invito, sotto forma di cauzione o di fideiussione, a scelta dell’offerente, a garanzia della serietà dell’impegno di sottoscrivere il contratto e quale liquidazione preventiva e forfettaria del danno in caso di mancata stipula per fatto dell’affidatario, ed al comma ottavo che l’offerta, espressamente a pena di esclusione, sia corredata, altresì, dall'impegno di un fideiussore a rilasciare la garanzia di cui all'art. 113, qualora l'offerente risultasse affidatario, in seguito alla entrata in vigore della disposizione dell'art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici, deve essere interpretata in modo tale da valorizzare la diversa formulazione letterale del comma sesto, in relazione al comma ottavo, con l'evidente intento di ritenere sanabile o regolarizzabile la mancata prestazione della cauzione provvisoria, al contrario della cauzione definitiva, che garantisce l'impegno più consistente della corretta esecuzione del contratto e giustifica l'esclusione dalla gara.

CONSIDERATO che i suesposti motivi possono essere trattati congiuntamente e risultano fondati alla luce delle seguenti considerazioni:
   A) l’art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici, introdotto dall’art. 4, comma 2, lettera d), del decreto legge n. 70/2011, prevede la tassatività delle cause di esclusione dalla procedura di affidamento del contratto di appalto, disponendo come segue: “la stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l’offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescrizioni sono comunque nulle”;
   B) l’art. 75 del codice dei contratti pubblici prevede -ai commi da 1 a 6- l’obbligo di corredare l’offerta di una garanzia pari al due per cento del prezzo base indicato nel bando o nell’invito, sotto forma di cauzione o di fideiussione, a scelta dell’offerente, a garanzia della serietà dell’impegno di sottoscrivere il contratto e quale liquidazione preventiva e forfettaria del danno in caso di mancata stipula per fatto dell’affidatario; tuttavia tale disposizione non prevede alcuna sanzione di inammissibilità dell’offerta o di esclusione del concorrente per l’ipotesi in cui la garanzia non venga prestata, mentre l’ottavo comma dello stesso articolo 75, prevede espressamente “a pena di esclusione” che l’offerta sia corredata altresì dall’impegno di un fideiussore a rilasciare la garanzia di cui all’articolo 113 (ossia la garanzia per l’esecuzione del contratto, pari al 10 per cento dell’importo contrattuale), qualora l’offerente risultasse affidatario;
   C) prima della novella del 2011, con la quale è stato introdotto il comma 1-bis nell’art. 46 del codice dei contratti pubblici, la prevalente giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. V, 12.06.2009, n. 3746) riteneva che la cauzione provvisoria, assolvendo la funzione di garantire la serietà dell’offerta, costituisse parte integrante dell’offerta stessa e non elemento di corredo, sicché la mancata produzione della garanzia giustificava l’esclusione dalla gara;
   D) a seguito della novella del 2011 la giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. III, 01.02.2012, n. 493) ha chiarito che la disposizione dell’art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici impone una diversa interpretazione dell’art. 75, che valorizza la diversa formulazione letterale del comma 6, in relazione al comma 8, e rende evidente «l’intento di ritenere sanabile o regolarizzabile la mancata prestazione della cauzione provvisoria, al contrario della cauzione definitiva, che garantisce l’impegno più consistente della corretta esecuzione del contratto e giustifica l’esclusione dalla gara»;
   E) alla luce di tale condivisibile opzione ermeneutica, non risulta condivisibile la tesi sostenuta dall’A.V.C.P. nella determinazione n. 4 del 10.10.2012, recante “Indicazioni generali per la redazione dei bandi di gara ai sensi degli articoli 64, comma 4-bis e 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici” (che comunque non vincola questo Tribunale, tanto più se si considera che non è richiamata nel bando, essendo successiva alla pubblicazione dello stesso), secondo la quale costituiscono cause di esclusione tanto la mancata presentazione della cauzione provvisoria, quanto la mancata sottoscrizione da parte del garante, perché tale tesi risulta in contrasto con la ratio della novella del 2011, evidentemente tesa a limitare le cause di esclusione dalle gare ed a favorire, in ossequio al principio del favor partecipationis, la regolarizzazione delle domande e delle offerte che siano prive dei requisiti richiesti dalla legge o dal bando;
   F) deve quindi ritenersi che il bando relativo alla gara di cui trattasi sia nullo, ai sensi dell’art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici, nella parte in cui prevede quale causa di esclusione dalla gara la mancata allegazione della polizza fideiussoria di cui all’art. 75, comma 1, del medesimo codice, e che il provvedimento di esclusione della ricorrente sia illegittimo, perché adottato con riferimento ad una fattispecie che la legge considera come una mera irregolarità sanabile ai sensi dell’art. 46, comma 1, del codice dei contratti pubblici;
CONSIDERATO che, stante quanto precede, il ricorso deve essere accolto e, per l’effetto, si deve dichiarare la nullità del bando nella parte in cui prevede quale causa di esclusione dalla gara la mancata allegazione della polizza fideiussoria di cui all’art. 75, comma 1, del codice dei contratti pubblici e si deve disporre l’annullamento del provvedimento di esclusione della società ricorrente
(TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 03.01.2013 n. 16  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' illegittima l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale del manufatto abusivo, e relativa area di pertinenza per quanto disposto dall'art. 31, commi 3 e 4, dpr 380/2001, qualora l'ingiunzione di demolizione sia stata notificata solo ad alcuni dei comptoptietari.
Invero, dalla documentazione depositata in giudizio, a seguito di ordinanza istruttoria, si evince che l’amministrazione ha acquisito gratuitamente al proprio patrimonio le particelle catastali n. 24 e n. 292 del foglio 19 dopo aver notificato l’ingiunzione di demolizione solo ai sig.ri Articolare Giovanni e Giuseppe (anch’essi proprietari pro quota oltre che committenti dei lavori) e non anche a tutti i restanti comproprietari (in virtù dei titoli esibiti dai ricorrenti, indicati anche nelle allegate visure storiche catastali, i cui estremi sono stati già precisati nella narrativa in fatto), risultati estranei alla realizzazione dell’attività edilizia abusiva. Analogamente, non risulta loro notificato neppure il verbale con cui, in data 15.04.2009, è stata accertata l’inottemperanza all’ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi.
Rileva il Collegio che il descritto modus procedendi dell’ente locale si pone in contrasto con l’art. 31, commi 3 e 4, del D.P.R. n. 380/2001, che così testualmente recita: “3. Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita.
4. L'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente
.”
Difatti, come si è già anticipato, nel caso di specie non risultano notificati agli instanti, oltre che il provvedimento conclusivo del procedimento sanzionatorio dell’abuso edilizio, neanche i sottesi atti coi quali è stata ingiunta la demolizione delle opere ed accertata l’inottemperanza all’ordine di ripristino dello stato dei luoghi, talché i ricorrenti sono stati privati della possibilità di esercitare le facoltà previste dalla legge onde evitare l’acquisizione dei suoli alla mano pubblica, ivi compresa quella dell’abbattimento spontaneo dei manufatti insistenti sui medesimi fondi.
Si palesa fondata anche la censura di violazione del già citato art. 31, comma 3, del T.U. sull’edilizia, atteso che l’ente ha acquisito l’intera consistenza delle suddette particelle –la cui superficie complessiva è di 7.900 mq.– ben oltre il limite stabilito dalla norma, pari “a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita” (nel caso di specie pari a 130 mq.).
In definitiva, entro i limiti sopra precisati, il ricorso va accolto, restando assorbite le ulteriori doglianze non esaminate, con salvezza peraltro degli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione nei sensi appena chiariti (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 29.12.2012 n. 5384 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 12 del d.P.R. n. 380 del 2001, in vista del rilascio del permesso di costruire, è necessario che esistano almeno le opere di urbanizzazione primaria stimate in concreto necessarie, ivi comprese quelle relative alla viabilità, ai servizi a rete, ai parcheggi ed alle aree attrezzate a verde pubblico, in modo che la zona possa dirsi sistemata per l'insediamento industriale in argomento. Compito primario della pianificazione urbanistica è, infatti, quello di coordinare armonicamente l’attività edificatoria privata con la predisposizione di un adeguato sistema infrastrutturale, che valga ad assicurare uno sviluppo edilizio del territorio ordinato e razionale.
A tal riguardo, vale poi aggiungere che le opere di urbanizzazione primaria sono elencate dall'art. 4 della l. 29.09.1964 n. 847 e comprendono spazi di sosta o di parcheggio, rete idrica, rete di distribuzione dell'energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato, strade residenziali nonché idonee fognature. Né l’ottica di valutazione può ritenersi limitata esclusivamente all’area di sedime del nuovo insediamento ovvero al territorio immediatamente confinante, dovendo inevitabilmente proiettarsi al di là di esso, fino a ricomprendere l’intero comparto in cui risulta inserito, onde assicurare effettività all’esigenza di un collegamento coordinato con le opere di urbanizzazione già realizzate o da realizzare a servizio dell’intera zona nella quale si colloca l’erigenda costruzione.

Al riguardo, è sufficiente ribadire, in aderenza ad un orientamento già ripetutamente espresso dalla Sezione (cfr. TAR Campania, Napoli, Sezione Seconda, n. 694/2006 e n. 8894/2008) che, ai sensi dell’art. 12 del d.P.R. n. 380 del 2001, in vista del rilascio del permesso di costruire, è necessario che esistano almeno le opere di urbanizzazione primaria stimate in concreto necessarie, ivi comprese quelle relative alla viabilità, ai servizi a rete, ai parcheggi ed alle aree attrezzate a verde pubblico, in modo che la zona possa dirsi sistemata per l'insediamento industriale in argomento. Compito primario della pianificazione urbanistica è, infatti, quello di coordinare armonicamente l’attività edificatoria privata con la predisposizione di un adeguato sistema infrastrutturale, che valga ad assicurare uno sviluppo edilizio del territorio ordinato e razionale.
A tal riguardo, vale poi aggiungere che le opere di urbanizzazione primaria sono elencate dall'art. 4 della l. 29.09.1964 n. 847 e comprendono spazi di sosta o di parcheggio, rete idrica, rete di distribuzione dell'energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato, strade residenziali nonché idonee fognature. Né l’ottica di valutazione può ritenersi limitata esclusivamente all’area di sedime del nuovo insediamento ovvero al territorio immediatamente confinante, dovendo inevitabilmente proiettarsi al di là di esso, fino a ricomprendere l’intero comparto in cui risulta inserito, onde assicurare effettività all’esigenza di un collegamento coordinato con le opere di urbanizzazione già realizzate o da realizzare a servizio dell’intera zona nella quale si colloca l’erigenda costruzione.
Con riferimento alla restante parte della censura, ove i ricorrenti lamentano la mancata considerazione della loro disponibilità alla diretta realizzazione delle opere di urbanizzazione, la Sezione deve rilevare come una simile disponibilità possa avere un senso nelle ipotesi in cui si tratti della mera realizzazione delle opere necessarie per un singolo intervento di urbanizzazione e non nei casi in cui, come quello in discorso, manchino quasi del tutto le opere necessarie all’urbanizzazione del comparto; in questo caso, è, infatti, evidente come la mancanza della rete stradale e delle altre attrezzature pubbliche sopra specificate non possa essere surrogata dall’intervento del singolo privato, occorrendo piuttosto, come evidenziato nel provvedimento in esame, il “previo impegno di tutti i proprietari dei lotti del comparto alla realizzazione delle opere di urbanizzazione”, impegno che nella fattispecie non è stato manifestato (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 29.12.2012 n. 5379 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAi fini della legittimità di un atto amministrativo basato su una pluralità di motivi autonomi (c.d. atto plurimotivato) è sufficiente che anche uno solo di essi sia riconosciuto idoneo a sorreggere l'atto stesso, atteso che l'eventuale riconoscimento della fondatezza delle doglianze proposte non esclude l'esistenza e la validità della restante causa giustificatrice del provvedimento.
Il carattere assorbente dei rilievi che precedono esonera il Collegio dalla verifica della legittimità degli altri motivi ostativi individuati dall’autorità amministrativa.
Al riguardo va richiamato il costante orientamento della giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Sezione V, 29/08/1994 n. 926; TAR Lazio, Sezione II-bis, del 29/12/2005 n. 5101; Sezione III, 05/11/2007 n. 10870; TAR Campania, Sezione VII, 10.06.2011 n. 3082), condiviso dal Collegio, secondo il quale, ai fini della legittimità di un atto amministrativo basato su una pluralità di motivi autonomi (c.d. atto plurimotivato) –come nell’odierna fattispecie– è sufficiente che anche uno solo di essi sia riconosciuto idoneo a sorreggere l'atto stesso, atteso che l'eventuale riconoscimento della fondatezza delle doglianze proposte non esclude l'esistenza e la validità della restante causa giustificatrice del provvedimento (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 29.12.2012 n. 5379 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon può condividersi l’indirizzo giurisprudenziale –formatosi con riferimento alla fattispecie del cd. lotto intercluso o di altri analoghi casi nei quali la zona risulti totalmente urbanizzata– per cui si ritiene comunemente che lo strumento urbanistico esecutivo non può considerarsi più necessario e non può, pertanto, essere invocato ad esclusivo fondamento del diniego di rilascio del titolo.
Come già evidenziato dalla Sezione, affinché tale fattispecie derogatoria ed eccezionale possa configurarsi, occorre dimostrare in concreto che, in relazione al lungo tempo decorso dall’approvazione dello strumento urbanistico di primo livello e per effetto della completa realizzazione delle opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari bisogni della collettività, la previsione concernente la necessità della previa redazione dello strumento attuativo non possa più considerarsi attuale, essendo superata dalla situazione fattuale di completa urbanizzazione del comparto di riferimento.

Non possono condividersi neanche le restanti doglianze formulate dalla parte ricorrente, laddove richiama l’indirizzo giurisprudenziale –formatosi con riferimento alla fattispecie del cd. lotto intercluso o di altri analoghi casi nei quali la zona risulti totalmente urbanizzata– nei quali si ritiene comunemente che lo strumento urbanistico esecutivo non può considerarsi più necessario e non può, pertanto, essere invocato ad esclusivo fondamento del diniego di rilascio del titolo (cfr., per tutte, TAR Campania, IV Sezione, 06.06.2000 n. 1819; II Sezione, 01.03.2006, n. 2498).
Come già evidenziato dalla Sezione, affinché tale fattispecie derogatoria ed eccezionale possa configurarsi, occorre dimostrare in concreto che, in relazione al lungo tempo decorso dall’approvazione dello strumento urbanistico di primo livello e per effetto della completa realizzazione delle opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari bisogni della collettività, la previsione concernente la necessità della previa redazione dello strumento attuativo non possa più considerarsi attuale, essendo superata dalla situazione fattuale di completa urbanizzazione del comparto di riferimento (cfr. TAR Campania, Sezione II, 06.02.2012 n. 581 e 26.10.2011 n. 4931) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 29.12.2012 n. 5377 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza è costante nel ritenere che:
- l'istallazione di una tettoia realizzata in ferro con muri perimetrali in cemento armato e copertura con lamiere coibentate, di dimensioni pari a mq 46,20, è idonea a determinare una non irrilevante alterazione dello stato dei luoghi e, pertanto, deve essere assentita mediante rilascio di permesso di costruire;
- la realizzazione di una tettoia, indipendentemente dalla sua eventuale natura pertinenziale, è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, nella misura in cui realizza <<l'inserimento di nuovi elementi ed impianti>>, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove comporti, come nel caso di specie, una modifica della sagoma o del prospetto del fabbricato cui inerisce;
- la tettoia realizzata sul terrazzo di un fabbricato, in quanto struttura stabilmente ancorata al pavimento e destinata a soddisfare non una esigenza temporanea e contingente, ma prolungata nel tempo, è priva del carattere della precarietà ed amovibilità ed è quindi assoggettata al regime del permesso di costruire, dal momento che comporta una rilevante modifica dell’assetto edilizio preesistente.
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Né la “tettoia” di cui trattasi potrebbe comunque essere considerata come pertinenza.
Il concetto di pertinenza, previsto dal diritto civile, va distinto dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso edilizio e urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire, come nel caso di una tettoia in ferro di rilevanti dimensioni.

La tettoia oggetto dell'impugnato provvedimento configura quindi un intervento edilizio integrante un incremento plano-volumetrico suscettibile di autonoma utilizzazione, come tale sottoposto al regime concessorio (attualmente, permissorio) e quindi all'applicazione della disposta sanzione demolitoria.
La giurisprudenza è costante nel ritenere che:
- <<L'istallazione di una tettoia realizzata in ferro con muri perimetrali in cemento armato e copertura con lamiere coibentate, di dimensioni pari a mq 46,20, è idonea a determinare una non irrilevante alterazione dello stato dei luoghi e, pertanto, deve essere assentita mediante rilascio di permesso di costruire>> (TAR Campania Napoli, sez. II, 02.12.2009, n. 8320);
- <<La realizzazione di una tettoia, indipendentemente dalla sua eventuale natura pertinenziale, è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, nella misura in cui realizza <<l'inserimento di nuovi elementi ed impianti>>, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma primo, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove comporti, come nel caso di specie, una modifica della sagoma o del prospetto del fabbricato cui inerisce>> (TAR Campania Napoli, sez. IV, 13.01.2011, n. 84);
- <<La tettoia realizzata sul terrazzo di un fabbricato, in quanto struttura stabilmente ancorata al pavimento e destinata a soddisfare non una esigenza temporanea e contingente, ma prolungata nel tempo, è priva del carattere della precarietà ed amovibilità ed è quindi assoggettata al regime del permesso di costruire, dal momento che comporta una rilevante modifica dell’assetto edilizio preesistente>> (TAR Campania Napoli, sez. IV, 21.12.2007 n. 16493).
Né la “tettoia” di cui trattasi potrebbe comunque essere considerata come pertinenza.
Il concetto di pertinenza, previsto dal diritto civile, va distinto dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso edilizio e urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire, come nel caso di una tettoia in ferro di rilevanti dimensioni (TAR Campania Napoli, sez. II, 07.05.2012, n. 2080) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 21.12.2012 n. 5342 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini della tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, costituendo opera valutabile anche come aumento di volume la realizzazione di un garage interrato con accesso all'esterno tramite rampa in zona sottoposta a vincolo paesaggistico.
Pertanto, la nozione di volume rilevante ai fini paesaggistici non può distinguere tra volumi esterni e volumi interrati, essendo anche questi ultimi idonei a determinare una modificazione del territorio e dell'assetto edilizio esistente, posto che lo stesso volume che a fini edilizi, per le sue caratteristiche, può non essere considerato rilevante e non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili, ad esempio perché ritenuto volume tecnico, ai fini paesaggistici può assumere una diversa rilevanza, laddove si ritenga che determini una possibile alterazione dello stato dei luoghi salvaguardato dalle apposite norme di tutela, le quali, al preordinato fine di conservare la sostanziale integrità di determinati ambiti territoriali, ben possono vietare anche la realizzazione di un volume edilizio tecnico od interrato, quand'anche irrilevanti secondo le norme che regolano l'attività edilizia.

Il Tribunale osserva in contrario, in primo luogo, che le opere edilizie in parola non sono state realizzate interamente nel sottosuolo, ma che dal suolo fuoriescono rispettivamente per 1 mt. e 50 cm., cosicché per esse neppure sarebbe in astratto invocabile la disciplina derogatoria di cui alla cd. Legge Tognoli; in secondo luogo, che, ai fini paesistici «il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini della tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, costituendo opera valutabile anche come aumento di volume la realizzazione di un garage interrato con accesso all'esterno tramite rampa in zona sottoposta a vincolo paesaggistico. Pertanto, la nozione di volume rilevante ai fini paesaggistici non può distinguere tra volumi esterni e volumi interrati, essendo anche questi ultimi idonei a determinare una modificazione del territorio e dell'assetto edilizio esistente, posto che lo stesso volume che a fini edilizi, per le sue caratteristiche, può non essere considerato rilevante e non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili, ad esempio perché ritenuto volume tecnico, ai fini paesaggistici può assumere una diversa rilevanza, laddove si ritenga che determini una possibile alterazione dello stato dei luoghi salvaguardato dalle apposite norme di tutela, le quali, al preordinato fine di conservare la sostanziale integrità di determinati ambiti territoriali, ben possono vietare anche la realizzazione di un volume edilizio tecnico od interrato, quand'anche irrilevanti secondo le norme che regolano l'attività edilizia» (TAR Napoli, IV, 29.05.2012 n.2529; cfr. anche Cons. St., sez. IV, 28.03.2011 n. 1879; Tar Campania, Salerno, sez. I, 11.10.2011 n. 1642) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 21.12.2012 n. 5336 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPresupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
Quanto poi alle doglianze inerenti deficienze istruttorie e motivazionali, il Tribunale si richiama al proprio costante orientamento secondo il quale presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VI, 26.09.2012 n. 3951 (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 21.12.2012 n. 5336 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOccorre distinguere il concetto di pertinenza inteso in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire e che, nella delineata prospettiva, anche la struttura verandata, addossata al fabbricato esistente, che riveste natura permanente, dal momento che la sua funzione è strettamente connessa all'attività commerciale svolta e quindi destinata ad un uso tutt'altro che temporaneo e contingente deve intendersi, per tale motivo, priva del carattere della precarietà ed amovibilità.
Parimenti, ne va esclusa la natura pertinenziale in quanto l'intervento realizzato costituisce una nuova opera entrata a far parte integrante di una costruzione preesistente, e che, per effetto di congiunzione con l'immobile principale, ne ha ampliato la superficie utile e la relativa volumetria.
A nulla rileva sotto tale profilo la dedotta assenza di autonomia della struttura rispetto all'immobile principale, dal momento che essa determina un ampliamento di superficie e volume dell'immobile cui è annessa nonché il mutamento di destinazione d'uso della corte esclusiva che originariamente costituiva un'area di accesso all'immobile medesimo aperta al pubblico.

Quanto ai motivi di impugnazione indicati sub I, prevalentemente incentrati sulla asserita natura pertinenziale del cespite, la Sezione osserva, in conformità con l’indirizzo giurisprudenziale di questo Tribunale dal quale non vi è motivo di discostarsi, che «occorre distinguere il concetto di pertinenza inteso in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire» (TAR Napoli Campania sez. VII, 12.07.2012, n. 3377; cfr. anche TAR Lombardia, Milano, sez. II, 11.02.2005 n. 365; TAR Lazio, Roma, sez. II, 04.02.2005 n. 1036) e che, nella delineata prospettiva, anche «la struttura verandata, addossata al fabbricato esistente, che riveste natura permanente, dal momento che la sua funzione è strettamente connessa all'attività commerciale svolta e quindi destinata ad un uso tutt'altro che temporaneo e contingente deve intendersi, per tale motivo, priva del carattere della precarietà ed amovibilità. Parimenti, ne va esclusa la natura pertinenziale in quanto l'intervento realizzato costituisce una nuova opera entrata a far parte integrante di una costruzione preesistente, e che, per effetto di congiunzione con l'immobile principale, ne ha ampliato la superficie utile e la relativa volumetria. A nulla rileva sotto tale profilo la dedotta assenza di autonomia della struttura rispetto all'immobile principale, dal momento che essa determina un ampliamento di superficie e volume dell'immobile cui è annessa nonché il mutamento di destinazione d'uso della corte esclusiva che originariamente costituiva un'area di accesso all'immobile medesimo aperta al pubblico» (TAR Napoli Campania sez. VIII, 03.07.2012, n. 3148; cfr. Cons. St., sez. V, 08.04.1999 n. 394; TAR Lazio, Roma, sez. I, 17.07.1986 n. 1156; TAR Campania, Napoli, sez. III, 09.09.2008 n. 10059; Cons. St., sez. V, 27.01.2003 n. 419).
Ne consegue che, tenuto conto delle caratteristiche dell'intervento abusivo realizzato (un corpo di fabbrica in cemento armato di due piani fuori terra con una volumetria di 252,00 ca.), l’intervento in contestazione, non essendo stato dimostrato come coessenziale ad un bene principale e potendo essere utilizzato anche in modo autonomo e separato, non può ritenersi pertinenza ai fini urbanistici, sì da escludere che lo stesso sia sottoposto al preventivo rilascio del permesso di costruire (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 21.12.2012 n. 5331 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACostituisce jus receptum che in caso di abuso edilizio “l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione; l'abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l'adozione della misura repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di un'opera abusiva, l'autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell'amministrazione in relazione al provvedere”.
Infatti “l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi” ed, ancora, “presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l'ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l'accertamento dell'abuso, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua rimozione e sussistendo l'eventuale obbligo di motivazione al riguardo solo se l'ordinanza stessa intervenga a distanza di tempo dall'ultimazione dell'opera avendo l'inerzia dell'amministrazione creato un qualche affidamento nel privato”.
Quanto, poi, all’omessa comunicazione di avvio del procedimento il Tribunale evidenzia che gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario.

Quanto ai restanti motivi di impugnazioni (n.I e II), il Tribunale osserva, secondo il proprio costante indirizzo, che, in relazione alle segnalate deficienze istruttorie e motivazionali, costituisce jus receptum che in caso di abuso edilizio “l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione; l'abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l'adozione della misura repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di un'opera abusiva, l'autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell'amministrazione in relazione al provvedere” (TAR Lazio Roma, sez. I, 19.07.2006, n. 6021); infatti “l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi” (TAR Marche Ancona, sez. I, 12.10.2006, n. 824) ed, ancora, “presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l'ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l'accertamento dell'abuso, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua rimozione e sussistendo l'eventuale obbligo di motivazione al riguardo solo se l'ordinanza stessa intervenga a distanza di tempo dall'ultimazione dell'opera avendo l'inerzia dell'amministrazione creato un qualche affidamento nel privato” (Consiglio di Stato, sez. V, 29.05.2006 n. 3270).
Quanto, poi, all’omessa comunicazione di avvio del procedimento il Tribunale evidenzia che gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, secondo l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario (cfr. ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 23.02.2011 n. 1048) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 21.12.2012 n. 5331 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAGli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, secondo l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario.
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● l'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001 riconosce all'Amministrazione Comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutte le attività urbanistico-edilizie del territorio, ivi comprese quelle riguardanti immobili sottoposti a vincolo storico-artistico e impone l'obbligo, per il dirigente, di adottare immediatamente provvedimenti definitivi, al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio realizzato, mediante l'esercizio di un potere-dovere del tutto vincolato dell'organo comunale, senza margini di discrezionalità edilizi accertati e ciò in quanto a partire dalla l. n. 142 del 1990, rientrano nella competenza del dirigente comunale, e non del Sindaco, in quanto atti di gestione, i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia e di tutela del territorio, tra i quali l'ordinanza di demolizione di opere abusive;
● presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.

Infondata è la censura inerente l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento: gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, secondo l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario (cfr. ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 23.02.2011 n. 1048).
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Quanto altre censure, delle quali alcune (come per l’eccepita incompetenza) formulate in maniera generica, il Tribunale osserva, in primo luogo, che, alla stregua della giurisprudenza prevalente, «l'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001 riconosce all'Amministrazione Comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutte le attività urbanistico-edilizie del territorio, ivi comprese quelle riguardanti immobili sottoposti a vincolo storico-artistico e impone l'obbligo, per il dirigente, di adottare immediatamente provvedimenti definitivi, al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio realizzato, mediante l'esercizio di un potere-dovere del tutto vincolato dell'organo comunale, senza margini di discrezionalità edilizi accertati» (TAR Napoli Campania, sez. IV, 14.11.2011, n. 5334) e ciò in quanto «a partire dalla l. n. 142 del 1990, rientrano nella competenza del dirigente comunale, e non del Sindaco, in quanto atti di gestione, i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia e di tutela del territorio, tra i quali l'ordinanza di demolizione di opere abusive» (TAR Lazio Roma, sez. II, 08.04.2010, n. 5889); in secondo luogo, che «presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi» (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VI, 26.09.2012 n. 3951); in terzo luogo, infine, in relazione all’omessa considerazione dell’istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 13 l. 47/1985, ora art. 36 D.P.R. n. 380/2001, che quest’ultima, presentata successivamente all’emanazione della sanzione demolitoria (prot. n. 3798 del 07.03.2007), non determina l’effetto sospensivo del procedimento sanzionatorio, previsto espressamente dal legislatore solo in caso di presentazione della domanda di condono (art. 44 l. 47/1985, norma richiamata dalla l. n. 724/1994 e l. n. 326/2003), e non dispiega alcuna rilevanza ai fini dello scrutinio di legittimità del provvedimento demolitorio, ciò non senza evidenziare altresì che, allo stato degli atti, sull’istanza in parola dovrebbe essersi formato il silenzio-rigetto di cui all’art. 36 D.P.R. n. 380/2001 e non risulta esservi stata la relativa impugnazione (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 21.12.2012 n. 5330 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl legittimo esercizio di un’attività commerciale deve essere ancorato, sia in sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio, sia per l’intera durata del suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene posta in essere.
Tuttavia, non può sanzionarsi con l’ordine di cessazione dell’attività il fatto che l’attività commerciale si svolga solo in parte in locali realizzati in assenza di titolo edilizio (e paesistico, ove l’area interessata sia assoggetta a vincolo).
Un tale ordine, infatti, verrebbe a collidere con i criteri di ragionevolezza e sproporzione che devono improntare l’azione amministrativa, costituendo, in definitiva, sintomo di sviamento di quell’azione, ben potendo l’Amministrazione, nell’esercizio del potere sanzionatorio e tenuto debitamente conto del contemperamento tra l’interesse pubblico alla repressione degli abusi e l’interesse privato sotteso all’esplicazione di un’attività imprenditoriale, ove materialmente possibile e accertata la sussistenza dei requisiti igienico-sanitari per la restante parte, limitare la sanzione alla sola parte del locale non autorizzata sotto il profilo edilizio.

Va osservato preliminarmente, secondo il costante orientamento della Sezione, che il legittimo esercizio di un’attività commerciale deve essere ancorato, sia in sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio, sia per l’intera durata del suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene posta in essere (cfr. TAR Campania Napoli, sez. III, 09.09.2008, n. 10058; Id., 09.08.2007, n. 7435; Id., 27.01.2003, n. 423; Id., 22.11.2001, n. 5007; cfr. anche, da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 05.11.2012 n. 5590).
Al tempo stesso va rimarcato –sempre in linea con la richiamata giurisprudenza- che non può sanzionarsi con l’ordine di cessazione dell’attività il fatto che l’attività commerciale si svolga solo in parte in locali realizzati in assenza di titolo edilizio (e paesistico, ove l’area interessata sia assoggetta a vincolo). Un tale ordine, infatti, verrebbe a collidere con i criteri di ragionevolezza e sproporzione che devono improntare l’azione amministrativa, costituendo, in definitiva, sintomo di sviamento di quell’azione, ben potendo l’Amministrazione, nell’esercizio del potere sanzionatorio e tenuto debitamente conto del contemperamento tra l’interesse pubblico alla repressione degli abusi e l’interesse privato sotteso all’esplicazione di un’attività imprenditoriale, ove materialmente possibile e accertata la sussistenza dei requisiti igienico-sanitari per la restante parte, limitare la sanzione alla sola parte del locale non autorizzata sotto il profilo edilizio (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 21.12.2012 n. 5326 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe strutture in oggetto, fissate in maniera stabile al pavimento, comportano la chiusura di una parte del balcone, con conseguente aumento di volumetria. Ed invero in materia urbanistico-edilizia il presupposto per l'esistenza di un volume edilizio è costituito dalla costruzione di (almeno) un piano di base e due superfici verticali contigue, così da ottenere appunto una superficie chiusa su un minimo di tre lati.
Pertanto, la realizzazione di tali opere è qualificabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, nella misura in cui realizza "l'inserimento di nuovi elementi ed impianti", ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma 1, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove comporti, come nel caso di specie, una modifica della sagoma o del prospetto del fabbricato cui inerisce.

Il Collegio rileva che non esiste alcun atto che abbia autorizzato la realizzazione della veranda –pacificamente unica in quanto dalla lettura del provvedimento si comprende chiaramente che si riferisce ai due pannelli in alluminio anodizzato che chiudono i lati del balcone- e delle altre opere in contestazione, né vi è alcuna certezza in ordine all’epoca della loro edificazione. L’unica certezza che può dirsi raggiunta è che nel 1987 all’atto della divisione dell’immobile la veranda necessitava di opere di ristrutturazione e che le stesse sono state eseguite senza alcun titolo. Né dalla relazione del perito di parte è dato comprendere se le precedenti strutture chiudessero la parte di balconata nello stesso modo rispetto a quelle attuali.
E’ pacifico, peraltro, in quanto emerge ictu oculi dalla documentazione fotografica, che i due pannelli in alluminio anodizzato hanno creato nuova superficie chiudendo una parte della balconata, mentre è del tutto irrilevante la circostanza che la stessa affacci in un cortile interno.
E, infatti, contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente, nell'ipotesi di specie non si è in presenza di interventi irrilevanti sul piano urbanistico, atteso che la struttura realizza in maniera stabile la chiusura di una parte del balcone, con conseguente aumento di volumetria e modifica dei prospetti, come si evince chiaramente dalle dimensioni della medesima, nonché dalle foto allegate agli atti.
Dal punto di vista dell'aumento di volumetria il Collegio rileva che le strutture in oggetto, fissate in maniera stabile al pavimento, comportano la chiusura di una parte del balcone, con conseguente aumento di volumetria. Ed invero in materia urbanistico-edilizia il presupposto per l'esistenza di un volume edilizio è costituito dalla costruzione di (almeno) un piano di base e due superfici verticali contigue, così da ottenere appunto una superficie chiusa su un minimo di tre lati (cfr. Tar Campania, Napoli, IV, 24.05.2010, n. 8342; Tar Piemonte, 12.07.2005, n. 2824).
Inoltre a prescindere da tale rilievo, come detto, gli interventi in oggetto determinano la modifica dei prospetti.
Pertanto, la realizzazione di tali opere è qualificabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, nella misura in cui realizza "l'inserimento di nuovi elementi ed impianti", ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'articolo 10, comma 1, lettera c), dello stesso D.P.R. laddove comporti, come nel caso di specie, una modifica della sagoma o del prospetto del fabbricato cui inerisce (cfr. TAR Campania, Napoli, IV, 21.12.2007, n. 16493), con conseguente legittimità della sanzione demolitoria ingiunta (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 21.12.2012 n. 5309 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIPer un atto c.d. "plurimotivato", anche l'eventuale fondatezza di una delle argomentazioni addotte non potrebbe in ogni caso condurre all'annullamento dell'impugnato provvedimento sindacale, che rimarrebbe sorretto dal primo versante motivazionale risultato immune ai vizi lamentati.
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Nel caso di provvedimento di esclusione da una gara d'appalto "plurimotivato", la riconosciuta legittimità di una delle ragioni dell'atto è sufficiente a reggere il provvedimento di estromissione.
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Nel caso in cui il provvedimento impugnato sia fondato su di una pluralità di autonomi motivi (c.d. provvedimento plurimotivato), il rigetto della doglianza volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente.

E’ noto come in presenza di atto plurimotivato anche la legittimità di una delle motivazioni è da sola idonea a sorreggerlo, con la conseguenza che alcun rilievo avrebbero le ulteriori censure volte a contestare gli ulteriori profili motivazionali (giurisprudenza costante, cfr. TAR Campania Salerno, sez. II, 17.01.2011, n. 63 secondo cui “Per un atto c.d. "plurimotivato", anche l'eventuale fondatezza di una delle argomentazioni addotte non potrebbe in ogni caso condurre all'annullamento dell'impugnato provvedimento sindacale, che rimarrebbe sorretto dal primo versante motivazionale risultato immune ai vizi lamentati"; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 14.01.2011, n. 139 secondo cui “Nel caso di provvedimento di esclusione da una gara d'appalto "plurimotivato", la riconosciuta legittimità di una delle ragioni dell'atto è sufficiente a reggere il provvedimento di estromissione”; TAR Campania Napoli, sez. VII, 14.01.2011, n. 164 secondo cui “Nel caso in cui il provvedimento impugnato sia fondato su di una pluralità di autonomi motivi (c.d. provvedimento plurimotivato), il rigetto della doglianza volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni giustificatrici atteso che, seppure tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe comunque idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato, che resterebbe supportato dall'autonomo motivo riconosciuto sussistente”)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 21.12.2012 n. 5293 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità, come si evince dagli artt. 24, comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001 e 35, comma 20, L. n. 47 del 1985; del resto, risponde ad un evidente principio di ragionevolezza escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un fabbricato in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione è preordinata la disciplina urbanistico-edilizia.
Ne consegue che il meccanismo del silenzio-ssenso non può essere invocato allorché, come nel caso in questione, manchi il presupposto stesso per il rilascio del certificato di agibilità, costituito, come evidenziato, dal carattere non abusivo del fabbricato in relazione al quale sia stata presentata l''istanza tesa ad ottenere il certificato menzionato.

Il collegio al riguardo osserva che il procedimento di rilascio del certificato di agibilità, disciplinato dall'art. 25 d.P.R. n. 380 del 2001, si articola sulla base dei seguenti principi fondamentali:
1) il procedimento deve essere concluso nel termine di 30 giorni dalla ricezione della domanda di rilascio del certificato di agibilità o di 60 giorni (nel caso in cui il ricorrente si sia avvalso della possibilità di sostituire con autocertificazione il parere dell'Asl);
2) il decorso del termine per la definizione del procedimento, importa la formazione del silenzio-assenso sull'istanza di rilascio del certificato di agibilità;
3) il termine del procedimento può essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento, entro quindici giorni dalla domanda, esclusivamente per la richiesta di documentazione integrativa, che non sia già nella disponibilità dell'amministrazione o che non possa essere acquisita autonomamente; in tal caso, il termine per la conclusione del procedimento ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa;
4) il rilascio del certificato di agibilità non impedisce l'esercizio del potere di dichiarata inagibilità di un edificio o di parte di esso ai sensi dell'art. 26 d.P.R. n. 380 del 2001.
Peraltro va evidenziato che nell’ipotesi di specie non solo non sussistevano i presupposti per la formazione del silenzio-assenso, ma come il provvedimento risulti legittimamente e sufficiente motivato con il richiamo alla illegittimità urbanistica dell’immobile per cui è causa, in quanto interessato da opere abusive in relazione alle quali era intervenuto provvedimento di diniego di condono o in relazione alle quali il procedimento di condono era ancora pendente (con la conseguenza che le stesse, fino all’accoglimento delle relative istanze, devono considerarsi ancora abusive).
La recente giurisprudenza del Consiglio di Stato ha infatti avuto modo di osservare che "la conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità, come si evince dagli artt. 24, comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001 e 35, comma 20, L. n. 47 del 1985; del resto, risponde ad un evidente principio di ragionevolezza escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un fabbricato in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione è preordinata la disciplina urbanistico-edilizia" (cfr. Consiglio Stato, V, 30.04.2009, n. 2760; in senso analogo TAR Puglia Lecce Sez. III, Sent., 01-08-2012, n. 1447).
Ne consegue che il meccanismo del silenzio-ssenso non può essere invocato allorché, come nel caso in questione, manchi il presupposto stesso per il rilascio del certificato di agibilità, costituito, come evidenziato, dal carattere non abusivo del fabbricato in relazione al quale sia stata presentata l''istanza tesa ad ottenere il certificato menzionato (TAR Catanzaro Calabria sez. II, 09.07.2011, n. 1009)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 21.12.2012 n. 5293 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Polizia Giudiziaria. Sopralluogo delegato e garanzie difensive.
L'esecuzione di un sopralluogo delegato (nella fattispecie, riguardante la realizzazione di un tracciato stradale) con riprese fotografiche dello stato dei luoghi comporta un’attività di mera descrizione dello stato dei luoghi corredata da rilievi fotografici, e non già un’ispezione, cosicché non è applicabile l’art. 364 c.p.p. con i correlativi obblighi di avviso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.12.2012 n. 48641 - tratto da www.lexambiente.it).

APPALTI SERVIZI: Sulla valenza oggettiva del divieto di affidamento diretto dei servizi pubblici locali.
L'affidamento diretto di un servizio pubblico locale, secondo il legislatore, sterilizzando in radice il libero gioco della concorrenza e limitando la platea dei possibili concorrenti, impedisce la stessa astratta realizzabilità delle finalità della norma (art. 23-bis, c. 9, del d.l. 25.06.2008, n. 112), così che coerentemente è stato escluso che i soggetti che già gestissero in qualsiasi modo, anche di fatto, oltre che provvedimento amministrativo, contratto o disposizione legislativa, potessero rendersi affidatari di nuovi servizi pubblici, ciò determinando una illegittima posizione di vantaggio o addirittura di privilegio capace ex se di condizionare la libera concorrenza, così che "…il divieto in questione, come si ricava dall'ampiezza della sua portata, ha una valenza oggettiva, che prescinde da ogni connotazione soggettiva e tanto più dalla considerazione delle ragioni, particolari e contingenti, che possono aver in concreto determinato o giustificato l'affidamento diretto: è pertanto irrilevante sia che, nel caso in esame l'affidamento diretto dei servizi di igiene urbana dei comuni non avrebbe violato il principio della libera concorrenza (affermazione peraltro apodittica, indimostrata e comunque indimostrabile), sia che detti affidamenti diretti non sarebbero stati determinati da un'iniziativa della stessa appellante (facendo riferimento la norma anche a situazioni di fatto)".
Nel caso di specie, è del tutto irrilevante ai fini della decisione della controversia la sopravvenuta abrogazione dell'art. 23-bis per effetto del D.P.R. 18.07.2011, n. 113, dovendo essere valutata la legittimità dell'operato dell'amministrazione appaltante secondo il principio del tempus regit actum (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.12.2012 n. 6399 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Estinzione reato paesaggistico per spontanea rimessione in pristino.
La disposizione di cui all'art. 181, comma 1-quinquies, del D.Lgs. n. 42 del 2004, in base alla quale la rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici, da parte del trasgressore, estingue il reato di cui al comma primo dello stesso art. 181, va interpretata nel senso che la causa estintiva resta preclusa, oltre che dalla condanna, soltanto dalla emissione di un provvedimento amministrativo idoneo ad essere eseguito d'ufficio, non essendo sufficiente ad impedire l'effetto estintivo un mero ordine di ripristino rivolto dalla autorità amministrativa o la indicazione di tempi o modalità esecutive idonee a conseguire il ripristino (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.12.2012 n. 47870 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Caratteristiche del manufatto pertinenziale.
Il manufatto pertinenziale, oltre a dover accedere ad un edificio preesistente edificato legittimamente, deve necessariamente presentare la caratteristica della ridotta dimensione anche in assoluto, a prescindere dal rapporto con |'edificio principale e non deve essere in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti e con quelli eventualmente soltanto adottati (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.12.2012 n. 47646 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ampliamento e pertinenze.
L'ampliamento di un fabbricato preesistente non può essere considerato pertinenza, diventando parte dell'edificio di cui completa, una volta realizzato, la struttura per meglio soddisfare i bisogni cui è destinato in quanto privo di autonomia rispetto all'edificio medesimo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.12.2012 n. 47228 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se è vero che l’iniziativa economica privata è libera, in base a quanto enunciato in linea di principio dall’art. 41 della Costituzione, è altrettanto vero che “essa non può svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza” e che la stessa norma di rango costituzionale demanda alla legge di “definire i programmi e i controlli per coordinarla a fini sociali.
A tale finalità risponde l’art. 23 del Codice della Strada, che da un lato vieta la collocazione, “lungo le strade o in vista di esse”, di insegne e di ogni impianto pubblicitario che possa distrarre l’attenzione di chi le percorre, “con conseguente pericolo per la sicurezza della circolazione” e dall’altro ne sottopone l’installazione ad un provvedimento autorizzatorio, emesso dal competente ente gestore.
La formulazione dell'art. 23, in altri termini, indica chiaramente l'intento perseguito dal legislatore, che è quello di prevenire la collocazione sugli spazi destinati alla circolazione veicolare, così come sugli spazi a questi adiacenti, di fonti di captazione o disturbo dell'attenzione dei conducenti e di consequenziale sviamento della stessa dall'unica ed essenziale funzione al momento commessale, che è quella della guida del veicolo.
In tale quadro normativo e nel conseguente regime autorizzatorio rientra anche l’installazione delle insegne d’esercizio, che sono elencate fra i mezzi pubblicitari dagli artt. 47 e 53 del regolamento di esecuzione del codice della strada.
Di conseguenza non vi può essere dubbio alcuno che l’installazione di tali insegne sia soggetta a procedimento autorizzatorio e che l’autorizzazione possa essere negata quando, come nel caso de quo, a giudizio dell’ente gestore della strada (titolare dei relativi poteri pubblicistici) l’insegna rivesta carattere prettamente pubblicitario e, comunque, arrechi disturbo visivo agli utenti dell’autostrada, distraendone l’attenzione con conseguente pericolo per la circolazione.
Poco importa che l’insegna sia effettivamente tale sotto i vari profili rilevanti per il diritto commerciale: la legge consente all’ente gestore della strada di vietare la realizzazione a qualsiasi distanza (bastando che siano ‘a vista’) di manufatti di qualsiasi tipo che incidano sulla sicurezza della circolazione (e, corrispondentemente, consente di denegare il rilascio di autorizzazioni in sanatoria e di ordinare la rimozione degli impianti).
Neppure rileva che l’insegna rispetti i limi dimensionali massimi previsti dall’art. 48 del regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo Codice della strada (che ha fissato per le insegne d’esercizio ed ogni altro mezzo pubblicitario limiti dimensionali, 6 metri quadrati se installati fuori dai centri abitati e 20 metri quadrati se posti parallelamente al senso di marcia dei veicoli o in aderenza ai fabbricati).
In ogni caso, ovunque si trovi e qualunque siano le sue dimensioni, l’ente gestore della strada può constatare la pericolosità e vietare la realizzazione o il mantenimento del manufatto, con una valutazione basata su un potere di natura tecnico-discrezionale, sindacabile dunque solo per manifesta illogicità o per difetto di motivazione.
Il Collegio osserva che, come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, se è vero che l’iniziativa economica privata è libera, in base a quanto enunciato in linea di principio dall’art. 41 della Costituzione, è altrettanto vero che “essa non può svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza” e che la stessa norma di rango costituzionale demanda alla legge di “definire i programmi e i controlli per coordinarla a fini sociali”.
A tale finalità risponde l’art. 23 del Codice della Strada, che da un lato vieta la collocazione, “lungo le strade o in vista di esse”, di insegne e di ogni impianto pubblicitario che possa distrarre l’attenzione di chi le percorre, “con conseguente pericolo per la sicurezza della circolazione” e dall’altro ne sottopone l’installazione ad un provvedimento autorizzatorio, emesso dal competente ente gestore.
La formulazione dell'art. 23, in altri termini, indica chiaramente l'intento perseguito dal legislatore, che è quello di prevenire la collocazione sugli spazi destinati alla circolazione veicolare, così come sugli spazi a questi adiacenti, di fonti di captazione o disturbo dell'attenzione dei conducenti e di consequenziale sviamento della stessa dall'unica ed essenziale funzione al momento commessale, che è quella della guida del veicolo (cfr. Corte di Cassazione Civile, Sezione II, sentenza n. 4683 del 2009).
In tale quadro normativo e nel conseguente regime autorizzatorio rientra anche l’installazione delle insegne d’esercizio, che sono elencate fra i mezzi pubblicitari dagli artt. 47 e 53 del regolamento di esecuzione del codice della strada.
Di conseguenza non vi può essere dubbio alcuno che l’installazione di tali insegne sia soggetta a procedimento autorizzatorio e che l’autorizzazione possa essere negata quando, come nel caso de quo, a giudizio dell’ente gestore della strada (titolare dei relativi poteri pubblicistici) l’insegna rivesta carattere prettamente pubblicitario e, comunque, arrechi disturbo visivo agli utenti dell’autostrada, distraendone l’attenzione con conseguente pericolo per la circolazione.
Poco importa che l’insegna sia effettivamente tale sotto i vari profili rilevanti per il diritto commerciale: la legge consente all’ente gestore della strada di vietare la realizzazione a qualsiasi distanza (bastando che siano ‘a vista’) di manufatti di qualsiasi tipo che incidano sulla sicurezza della circolazione (e, corrispondentemente, consente di denegare il rilascio di autorizzazioni in sanatoria e di ordinare la rimozione degli impianti).
Neppure rileva che l’insegna rispetti i limi dimensionali massimi previsti dall’art. 48 del regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo Codice della strada (che ha fissato per le insegne d’esercizio ed ogni altro mezzo pubblicitario limiti dimensionali, 6 metri quadrati se installati fuori dai centri abitati e 20 metri quadrati se posti parallelamente al senso di marcia dei veicoli o in aderenza ai fabbricati).
In ogni caso, ovunque si trovi e qualunque siano le sue dimensioni, l’ente gestore della strada può constatare la pericolosità e vietare la realizzazione o il mantenimento del manufatto, con una valutazione basata su un potere di natura tecnico-discrezionale, sindacabile dunque solo per manifesta illogicità o per difetto di motivazione
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.11.2012 n. 6044 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La mancata indicazione del termine e dell’autorità cui ricorrere, per la pacifica giurisprudenza, non comporta l’illegittimità, bensì la mera irregolarità dell’atto impugnato.
Tale mancanza potrebbe giustificare un’impugnazione tardiva dell’atto medesimo.
Quanto al primo motivo d’appello, il Collegio osserva che la mancata indicazione del termine e dell’autorità cui ricorrere, per la pacifica giurisprudenza, non comporta l’illegittimità, bensì la mera irregolarità dell’atto impugnato.
Tale mancanza potrebbe giustificare un’impugnazione tardiva dell’atto medesimo
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.11.2012 n. 6044 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'impianto di autolavaggio è incompatibile con aree classificate urbanisticamente a "verde privato", anche se si tratta di meri ampliamenti di attività artigianale esistente, perché l'autolavaggio costituisce pur sempre attività insalubre di seconda categoria.
Rileva il Collegio che le osservazioni e prese statuizioni del primo giudice sono in realtà il frutto di una lettura incompleta e comunque non coordinata, oltreché non razionale, della normativa complessivamente recata sul punto dallo strumento urbanistico comunale che, ove correttamente intesa, induce a rilevare il divieto di autorizzazione in area classificata a verde privato di interventi costituiti dalla realizzazione di un impianto di autolavaggio, come attività insalubre di seconda categoria, quale che sia la sua collocazione in situ e indipendentemente dalle sue dimensioni o dal fatto che venga utilizzato al solo servizio dell’attività esistente o a servizio di tutti gli utenti, indistintamente.
Invero, in relazione a quanto previsto dal citato art. 44 a proposito degli edifici individuati con la lettera M o comunque utilizzati con destinazione d’uso produttiva o terziaria nelle norme tecniche del PRG, si fa espresso riferimento alla disciplina recata dagli artt. 42 (zone B1) e 39 (zone per insediamenti a prevalenza residenziali) lì dove sulla scorta di tale ultima previsione il regolatore comunale nel descrivere gli insediamenti ammessi ha contestualmente ed espressamente escluso le lavorazioni insalubri di 1^ e 2^ classe e l’impianto di lavaggio costituisce ai sensi dell’art. 216 TULS, come integrato dal D.M. 02.03.1987, stante la equiparazione con la categoria di “stazioni per automezzi e motocicli”, attività insalubre di seconda categoria.
E’ evidente che quest’ultima classificazione comporta tout court la impossibilità di realizzare un nuovo intervento costituito dalla installazione di un autolavaggio: sia che lo si voglia definire come attività industriale sia che lo si voglia intendere come attività artigianale un siffatto impianto costituisce comunque lavorazione insalubre e come tale non può essere realizzato ex novo neanche come impianto satellite di altra lavorazione artigianale e/o industriale.
D’altra parte la non compatibilità urbanistica dell’autolavaggio nell’area de qua è rilevabile di per sé dal solo esame delle finalità impresse alla zonizzazione a verde privato, in base ai principi generali fissati dalla materia urbanistica e alla disciplina concreta dettata dalle norme tecniche di attuazione del PRG comunale nonché alla luce della situazione dello stato dei luoghi che, per come di fatto configurata, non ammette insediamenti del tutto contrastanti con le caratteristiche tipologiche dei vicini edifici e della connessa funzione residenziale.
Con la classificazione operata (verde privato) si è inteso classificare una zona omogenea del territorio comunale destinata ad un uso residenziale e nel contempo ad assicurare esigenze di tutela ambientale , di talché non appare concepibile permettere la realizzazione di “nuovi” interventi che per le loro oggettive caratteristiche si rivelano del tutto incompatibili con tali funzioni e finalità, fatte salve, naturalmente, le preesistenze.
Ciò sta a significare che i titoli edilizi intervenuti a seguito della presentazione di d.i.a finalizzata alla realizzazione dell’impianto di autolavaggio per cui è causa devono considerasi illegittimi in quanto preordinati a permettere un intervento non consentito (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.11.2012 n. 6022 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL'azienda sorride. La p.a. deve risarcire sempre. Il Consiglio di stato sull'appalto che va storto.
Se nell'appalto qualcosa va storto l'amministrazione che ha bandito la gara risarcisce anche senza colpa l'azienda illegittimamente esclusa dalla procedura: lo impongono i principi Ue in materia di contratti pubblici.
È quanto emerge dalla sentenza 08.11.2012 n. 5686, pubblicata dalla V Sez. del Consiglio di Stato.
Nessuna condizione
Accolto il ricorso dell'impresa, che per ottenere il riconoscimento dell'appalto che le spettava è stata costretta a rivolgersi ai giudici: via alla liquidazione dei danni, che sono rappresentati dal mancato utile conseguito che non ha potuto svolgere il servizio per effetto dell'illegittima aggiudicazione a terzi.
Sbaglia il Tar a escludere la configurabilità del ristoro. La normativa europea che regola le procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi non consente che il diritto a ottenere il risarcimento del danno da una amministrazione pubblica che abbia violato le norme sulla disciplina degli appalti sia subordinato al carattere colpevole di tale violazione. Insomma, fatte le debite proporzioni, si torna al vecchio danno «in re ipsa».
Onere della prova
Le motivazioni vanno ricercate nella disciplina comunitaria della libera concorrenza è che punta essenzialmente a tutelare le posizioni soggettive delle imprese, cui corrisponde in capo alla pubblica amministrazione l'obbligo di tenere un corretto comportamento verso i concorrenti alle gare pubbliche. Ma l'obiettivo non viene centrato se la disciplina nazionale subordina l'ottenimento del risarcimento dei danni, da parte dell'offerente offeso, al previo positivo riscontro dell'elemento soggettivo della responsabilità della pubblica amministrazione. Via libera alla responsabilità piena della pubblica amministrazione senza aree di franchigia.
Insomma: l'impresa illegittimamente esclusa dalla procedura a evidenza pubblica che non ottiene direttamente il bene della vita a cui aspira, vale a dire la riedizione della gara o l'aggiudicazione definiva può aspirare alla monetizzazione del pregiudizio subito; se, tuttavia, anche tale ultima via di ristoro venisse resa impraticabile o assolutamente impervia, il privato rischierebbe di restare sprovvisto di qualsiasi forma di tutela.
Per la liquidazione dei danni è necessaria la prova, a carico dell'impresa, della percentuale di utile effettivo che avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, desumibile in primis dall'esibizione dell'offerta economica presentata (articolo ItaliaOggi dell'08.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

INCARICHI PROFESSIONALICausa facile? Dimezzato il compenso dell'avvocato.
Sì alla riduzione del 50% del compenso dovuto all'avvocato se la prestazione professionale è di «minima complessità».

Lo ha previsto il TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, con l'ordinanza 10.09.2012 n. 1528 riducendo a metà il compenso professionale di un legale che difendeva un cittadino extracomunitario ammesso al gratuito patrocinio.
Secondo i giudici del Tar Lombardia, infatti, il giudizio aveva a oggetto una questione sulla quale, all'epoca della proposizione del ricorso, esisteva una giurisprudenza favorevole del tutto costante e in equivoca. E cioè la possibilità di ottenere la cosiddetta «legalizzazione del cittadino straniero» irregolarmente presente sul territorio nazionale pur in presenza di una condanna per l'abolito reato di cosiddetta clandestinità, tanto che proseguono i giudici amministrativi esso è stato definito con sentenza di cessata materia del contendere per essersi la pubblica amministrazione rideterminata in via di autotutela.
In concreto, i giudici sostengono che l'avvocato abbia lavorato poco nel difendere il cittadino extracomunitario e questo è determinante ai fini della liquidazione. Quest'ultima, infatti si compie avendo riguardo alla complessità della questione come previsto dall'art. 4, comma 2, del dm giustizia 20.07.2012 n. 140, e nel caso di sentenze di rito, ai sensi dell'art. 10 dello stesso decreto, comporta un compenso ulteriormente ridotto del 50%.
I giudici amministrativi nelle motivazioni dell'ordinanza rammentano che ai sensi dell'articolo 1, comma 7 , del dm n. 140/2012 «il compenso è indicativo, e può essere diminuito al di sotto dei minimi in casi in cui, come il presente, la causa sia di minima complessità». I giudici amministrativi nella riduzione del compenso spettante all'avvocato, partono dal presupposto che l'intera materia è stata recentemente disciplinata dal dm Giustizia 20 luglio 2012 n. 140 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 22.08.2012), che «ai sensi dell'articolo 42 entra in vigore dal giorno successivo alla pubblicazione e ai sensi del precedente articolo 41 si applica a tutte le liquidazioni eseguite dopo la propria entrata in vigore».
Non solo, «ai sensi degli artt. 1 ,comma 3 e 7, del dm n. 140/2012 lo stesso è comunque applicabile in via analogica a tutti i casi di liquidazione del compenso di professionisti, nella specie dell'avvocato, e impone una liquidazione onnicomprensiva, facendo quindi venir meno la pregressa distinzione fra diritti e onorari» (articolo ItaliaOggi dell'11.01.2013).

INCARICHI PROFESSIONALIProfessioni. Il Tar Brescia sul compenso di un avvocato chiamato a svolgere una difesa d'ufficio.
Cause ripetitive, parcella al 50%. Parametri derogabili per fascicoli che richiedono poco impegno.
L'INDICAZIONE/ L'onorario può essere tagliato dal giudice in caso di contenzioso non in presenza di un patto preventivo tra legale e cliente.

I compensi minimi per gli avvocati possono essere rivisti al ribasso, anche al di sotto dei parametri ministeriali, qualora l'opera professionale risulti di minima complessità.
Lo precisa il TAR Lombardia-Brescia, Sez. I (ordinanza 10.09.2012 n. 1528), dimezzando il compenso ad un legale che difendeva d'ufficio un cittadino extracomunitario ammesso al gratuito patrocinio.
La pronuncia è applicabile anche all'indomani dell'entrata in vigore della legge sulla professione forense, che dedica l'articolo 13 ai compensi.
Nella legge professionale non vi sono limiti né minimi né massimi alle pattuizioni tra cliente e legale, ma per gli incarichi che non hanno un accordo iniziale o sono affidati d'ufficio (per esempio, il gratuito patrocinio per i non abbienti o gli incarichi conferiti dal giudice) è prevista una tabella di riferimento.
Si tratta di parametri che ogni biennio saranno indicati dal ministero della Giustizia: quelli attuali sono contenuti nel Dm 20.07.2012 n. 140, e sono appunto stati derogati al ribasso dai giudici bresciani. Per altro, il ministero della Giustizia ha promesso una rivisitazione dei parametri, ma il provvedimento non è ancora stato pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale».
Il principio dell'inderogabilità dei minimi, secondo il Tar, vale per le prestazioni di normale difficoltà, mentre per le attività che sono riservate al legale, ma sono semplici e di minimo impegno, vi può essere una specifica riduzione.
Esistono infatti prestazioni professionali esclusive degli avvocati, delle quali non si può fare a meno per difendere diritti: si tratta dello ius postulandi, cioè della intermediazione tra cittadino e magistratura, non essendo prevista l'autodifesa. In conseguenza i parametri del Dm 2012, che si applicano sia alle contestazioni tra cliente e legale non risolvibili sulla base di un contratto, sia nel caso del gratuito patrocinio, possono essere ulteriormente ridotti se la lite è agevole, ripetitiva, poco impegnativa e si giova di precedenti costanti.
Osserva infatti il giudice amministrativo, con un principio valido anche per la magistratura civile e penale, che l'esistenza di una giurisprudenza favorevole, costante e inequivoca, è rilevante ai fini della liquidazione del compenso.
Nel caso specifico, si discuteva della posizione di un cittadino extracomunitario cui era stata negata la procedura di legalizzazione (sanatoria) a causa della presenza di una condanna per il reato di clandestinità.
Tuttavia, poiché il reato di clandestinità era stato già abolito all'epoca della lite, la procedura giudiziaria sulla sanatoria aveva avuto un percorso snello e agevole, di minimo impegno per l'avvocato.
Di conseguenza, la liquidazione del compenso al professionista che aveva assistito la parte ha risentito della ridotta complessità della questione, con una riduzione del compenso al 50 per cento.
L'Erario ha quindi sborsato mille euro (oltre le spese vive) al legale, invece di circa 2.500 euro, minimi dovuti secondo i parametri per una intera fase di giudizio.
Il principio posto dalla magistratura bresciana si presta a diverse applicazioni, in tutti i casi in cui tra le parti non vi sia un compenso predeterminato in forma scritta (articolo 13, comma 6, dell'ordinamento professionale legale), e non solo nei casi di liti di lieve entità. Esistono infatti procedure che si giovano di prassi consolidate, di cause seriali, che impegnano in modo modesto i professionisti.
Ad esempio, ciò accade quando il giudice procede in forma semplificata, cioè con riferimento a precedenti conformi (secondo le istruzioni del presidente della Cassazione 22.03.2011 prt. 27), o in attuazione dell'articolo 74 del decreto legislativo 104/2010 (per la giustizia amministrativa), quando al stessa questione è già stata decisa in modo conforme. In questi casi il compenso del professionista rischia di essere ridotto in caso di contenzioso, ma solo se il compenso non è stato determinato (in forma scritta o orale) (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.01.2013).

AGGIORNAMENTO AL 07.01.2013

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CI ri-COPIANO !!

      Nell'aggiornamento del 15.12.2011 qui denunciavamo l'esistenza di un sito web che copiava spudoratamente e pedissequamente le nostre news. Ebbene, l'anno nuovo inizia sotto i migliori auspici visto che siamo nuovamente "punto di riferimento" per un altro sito web i cui titolari sono a corto di idee (e, soprattutto, di voglia di lavorare ... profittando sulle profuse gratuite energie altrui !!).
      Va da sé -quindi- che dobbiamo ripeterci nel dire che, a seguito di una segnalazione pervenutaci pochi giorni fa, abbiamo potuto verificare l'esistenza di un (secondo) sito web (con sede nel bergamasco e con finalità di business) nel quale, spudoratamente e contra legem, sono copiate/incollate "fedelmente" molte delle nostre news, frutto della personale elaborazione di chi opera in redazione, spacciando i contenuti informativi come propri anziché citare la fonte e cioè: tratto da http://www.ptpl.altervista.org/.
      Ci sembrava superfluo, ma evidentemente non lo è, rimarcare su questo Portale le minime regole comportamentali per chi opera nel web ... e, a questo punto, risulta necessario farlo nuovamente:
"La riproduzione totale o parziale dei documenti pubblicati su questo Portale, effettuata da parte di terzi con qualsiasi mezzo e su qualsiasi supporto idoneo alla riproduzione e trasmissione, non è consentita senza il consenso scritto del titolare di PTPL.
Le massime e le pre-massime nonché stralci di sentenza sono elaborati da PTPL (se non citata altra fonte) e sono soggette alla tutela del diritto d'autore.
Alle violazioni si applicano le sanzioni previste dagli artt. 171, 171-bis, 171-ter, 174-bis e 174-ter della Legge 22.04.1941 n. 633 e s.m.i.
".
    
Pertanto, la presente a valere quale formale diffida (nei confronti del/i titolare/i del suddetto sito bergamasco) a cessare da subito la reiterazione di comportamenti non conformi alla legge ed a rimuovere immediatamente dal proprio sito web tutte le nostre news, nessuna esclusa, copiate ed ivi incollate. In difetto saremo costretti adire le vie legali.
07.01.2013 - LA SEGRETERIA PTPL

NOVITA' NEL SITO

Inseriti i nuovi bottoni:
dossier MAPPE CATASTALI (valore probatorio o meno)

dossier PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)

CONVEGNI

EDILIZIA PRIVATA: Si segnala n. 1 convegno gratuito organizzato da ANCE Bergamo, itinerante nella provincia di Bergamo, che si terrà in tre pomeriggi distinti sul tema "LA GESTIONE DELLE TERRE E ROCCE DA SCAVO alla luce delle novità introdotte dal D.M. 161/2012" e, precisamente il 30.01.2013 + 06.02.2013 + 13.02.2013.
Maggiori dettagli e la locandina/scheda di partecipazione possono essere letti cliccando qui.

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

INCARICHI PROGETTUALI: Bozza del decreto (di imminente pubblicazione sulla G.U.) emanato dal Ministro della giustizia di concerto con il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti che in attuazione dell’art. 9, comma 2, del decreto-legge 24.01.2012, n. 1 (convertito dalla legge 24.03.2012, n. 27), successivamente integrato dall’art. 5, comma 1, del decreto-legge 22.06.2012, n. 83 (convertito dalla legge 07.08.2012, n. 134) determina il corrispettivo da porre a basa di gara per l’affidamento di contratti di servizi attinenti all’architettura ed all’ingegneria.

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 04.01.2013 n. 3 "Regola tecnica di prevenzione incendi per gli impianti di protezione attiva contro l’incendio installati nelle attività soggette ai controlli di prevenzione incendi" (Ministero dell'Interno, decreto 20.12.2012).

CONSIGLIERI COMUNALI - VARI: G.U. 04.01.2013 n. 3 "Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 06.11.2012, n. 190" (D.Lgs. 31.12.2012 n. 235).

VARI: G.U. 04.01.2013 n. 3 "Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea" (Legge 24.12.2012 n. 234).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 02.01.2013 n. 1 "Incentivazione della produzione di energia termica da fonti rinnovabili ed interventi di efficienza energetica di piccole dimensioni" (D.M. 28.12.2012).
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Rinnovabili. Il Conto termico è in vigore.
Nuovi incentivi per i piccoli interventi di efficienza energetica.

È stato pubblicato sul supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale del 02.01.2013 n. 1 il decreto del ministero dello sviluppo economico 28.12.2012 recante «Incentivazione della produzione di energia termica da fonti rinnovabili ed interventi di efficienza energetica di piccole dimensioni».
Con il decreto vengono incentivati i piccoli interventi per la produzione di energia termica da fonti rinnovabili (quali pompe di calore, scaldacqua, solare termico e generatori di calore a biomassa).
L'accesso agli incentivi per l'efficienza energetica (articolo 4, comma 1) è rivolto ai soggetti pubblici; invece per le rinnovabili termiche (articolo 4, comma 2) è riconosciuto ai soggetti pubblici (inclusi per la prima volta istituto autonomo case popolari) e anche ai privati (articolo ItaliaOggi del 04.01.2013).

APPALTI: G.U. 21.12.2012 n. 297 "Regole procedurali di carattere tecnico operativo per l’attuazione della consultazione diretta del Sistema Informativo del Casellario da parte delle amministrazioni pubbliche e dei gestori di pubblici servizi, ai sensi dell’articolo 39 del decreto del Presidente della Repubblica 14.11.2002, n. 313" (Ministero della Giustizia, decreto 05.12.2012).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, L.R. Lombardia 12/2005: le modifiche del collegato ordinamentale 2013 (link a www.studiospallino.it).

EDILIZIA PRIVATA: F. Valente, BREVI RIFLESSIONI IN ORDINE ALLA FORMAZIONE DEL SILENZIO-ACCOGLIMENTO IN TEMA DI CONDONO EDILIZIO (Gazzetta Amministrativa n. 3/2012).

APPALTI SERVIZI: M. Mignanelli, LA SORTE DELL’“IN HOUSE PROVIDING” NEI SERVIZI PUBBLICI LOCALI A RILEVANZA ECONOMICA IN ATTESA DEL REFERENDUM ABROGATIVO DELL’ART. 23 BIS L. 133/08 E SS.MM.II. (Gazzetta Amministrativa n. 3/2012).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

LAVORI PUBBLICILavori pubblici. Il caso M4 a Milano. Si può rivedere il costo di un'opera anche dopo la gara.
DELIBERA DELL'AUTORITÀ/ Corretto chiedere un aumento del 20% perché qualunque impresa si sarebbe trovata nelle stesse condizioni.

Rivedere in corsa l'architettura finanziaria di un'opera da pagare con fondi pubblici e privati è possibile, anche dopo l'aggiudicazione della gara. Anzi, è opportuno farlo, se questo serve a centrare l'obiettivo più importante: arrivare in fondo, evitando di lasciare l'infrastruttura a metà.
È questo lo spirito che anima la deliberazione 20.12.2012 n. 105 dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, che sarà pubblicata la prossima settimana. Aprendo la strada a revisioni simili anche per altri casi.
La pronuncia prende le mosse da una delle opere più travagliate degli ultimi anni: la linea 4 della metropolitana di Milano. Un collegamento, inserito nel dossier dell'Expo, che dovrà unire l'aeroporto di Linate con via Lorenteggio e che, secondo il progetto preliminare, sarebbe dovuto costare circa 1,7 miliardi di euro, da coprire con poco più di 500 milioni di euro di risorse private e, per il resto, con denaro pubblico. Il condizionale è d'obbligo, perché il consorzio guidato da Impregilo e Astaldi, che ha vinto la gara, ha presentato al Comune di Milano un progetto definitivo che sfora di circa il 20% la previsione iniziale.
Lo stallo che ne è seguito ha indotto il sindaco del capoluogo lombardo, Giuliano Pisapia a prendere carta e penna per scrivere all'Authority: «Ci è stato chiesto di tracciare una strada da percorrere, senza il rischio di incorrere in vizi di legittimità», spiega il presidente dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, Sergio Santoro. A quella lettera ha fatto seguito un'indagine e, dopo settimane di approfondimenti, la delibera appena licenziata.
Lo stesso Santoro la sintetizza così: «Nel tirare le somme dell'ispezione abbiamo enucleato un principio, la rivedibilità del piano economico e finanziario, che non deve più essere un feticcio ma un documento al quale è possibile rimettere mano». A condizione, però, che i motivi che hanno portato all'aumento dei costi, nel quadro del partenariato pubblico privato, non siano imputabili all'impresa che si è aggiudicata la gara. «Nel caso in esame, questo 20% in più -dice ancora Santoro- non altera la "par condicio" tra i partecipanti alla gara, perché chiunque si sarebbe trovato nella stessa situazione». Il piano vincola le parti alle condizioni originarie, se poi le condizioni cambiano è necessario adeguarsi. «Tutelando così l'interesse dell'Erario e quello generale, perché esiste il rischio che l'opera non venga completata».
Il caso di Milano apre una strada, perché in diversi passaggi della convenzione di concessione viene prevista la possibilità di rivedere il piano. «Secondo la nostra interpretazione -prosegue il presidente- non è però necessario che ci sia un'esplicita previsione contrattuale, perché questo principio è essenziale per il mantenimento dell'equilibrio delle prestazioni delle parti, anche al di fuori di quelle che sono state le pattuizioni. D'altronde, sono molte le infrastrutture che avrebbero potuto trarre giovamento dall'applicazione di questo principio».
Il riferimento, nemmeno tanto velato, è alla metro C di Roma, che ha da sempre vissuto i suoi travagli maggiori proprio a causa di problemi legati alla sostenibilità finanziaria. «Per questo -sottolinea Santoro- la rivedibilità del piano economico finanziario orienterà la nostra attività futura. Ne terremo certamente conto in fase di preparazione dei contratti tipo». Si tratta di schemi di contratti pubblici che l'Autorità si appresta a preparare per le amministrazioni.
Tornando alla M4, comunque, la delibera ribadisce che, principi generali a parte, non si può più perdere tempo: «Le disfunzioni prodottesi dopo l'aggiudicazione -si legge- sono state in ultimo contenute dall'amministrazione comunale di Milano con il differimento di concludere il closing finanziario entro il termine del maggio 2013, termine ritenuto idoneo a salvaguardare il raggiungimento del rilevante obiettivo Expo 2015». A conti fatti, allora, restano grossomodo quattro mesi per chiudere la partita. Oltre non sarà possibile andare (articolo Il Sole 24 Ore del 06.01.2013).

QUESITI & PARERI

COMPETENZE GESTIONALI: Attribuzione di funzioni gestionali ai componenti dell'organo esecutivo ai sensi dell'art. 53, comma 23, della l. 388/2000.
Sembra che le innovazioni apportate agli artt. 49, 147 e 147-bis, del TUEL, che hanno introdotto un nuovo sistema di controllo e verifica della correttezza dell'azione amministrativa, non influiscano, allo stato attuale, sulla possibilità prevista dall'art. 53, comma 23, della l. 388/2000.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di attribuire a membri dell'esecutivo la responsabilità di uffici o servizi, anche con riferimento alle nuove incombenze previste dall'art. 3 del d.l. 174 del 2012, in particolare, in relazione ai controlli preventivi di regolarità amministrativa e contabile nonché ai controlli successivi previsti dall'art. 147-bis del d.lgs. 267/2000.
Com'è noto, il citato decreto legge è intervenuto recentemente introducendo alcune modifiche al d.lgs. 267/2000.
Ai fini che ci interessano si segnala la sostituzione dell'art. 49 del TUEL (Pareri dei responsabili dei servizi) che, al comma 1, prevede che, su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. I pareri sono inseriti nella deliberazione. Il comma 2 precisa che, nel caso in cui l'ente non abbia i responsabili dei servizi, il parere è espresso dal segretario dell'ente, in relazione alle sue competenze.
Inoltre l'art. 147, come novellato, dispone che gli enti locali, nell'ambito della loro autonomia normativa e organizzativa, individuano strumenti e metodologie per garantire, attraverso il controllo di regolarità amministrativa e contabile, la legittimità, la regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa, disciplinando un efficace sistema di controlli interni.
L'art. 147-bis, comma 1, prevede altresì che il controllo di regolarità amministrativa e contabile è assicurato, nella fase preventiva della formazione dell'atto, da ogni responsabile di servizio ed è esercitato attraverso il rilascio del parere di regolarità tecnica attestante la regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa. E' inoltre effettuato dal responsabile del servizio finanziario ed è esercitato attraverso il rilascio del parere di regolarità contabile e del visto attestante la copertura finanziaria.
Il successivo comma 2 specifica che il controllo di regolarità amministrativa e contabile è inoltre assicurato, nella fase successiva, secondo principi generali di revisione aziendale e modalità definite nell'ambito dell'autonomia organizzativa dell'ente, sotto la direzione del segretario, in base alla normativa vigente. Sono soggette al controllo le determinazioni di impegno di spesa, gli atti di accertamento di entrata, gli atti di liquidazione di spesa, i contratti e gli altri atti amministrativi, scelti secondo una selezione casuale effettuata con motivate tecniche di campionamento.
Il comma 3 infine dispone che le risultanze del predetto controllo successivo siano trasmesse periodicamente, a cura del segretario, ai responsabili dei servizi, ai revisori dei conti e agli organi di valutazione dei risultati dei dipendenti, come documenti utili per la valutazione, e al consiglio comunale.
L'art. 53, comma 23, della l. 388/2000 consente ai comuni con popolazione inferiore ai cinquemila abitanti di stabilire, anche al fine di operare un contenimento della spesa, disposizioni regolamentari organizzative che attribuiscono ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti di natura tecnica gestionale, in deroga alle disposizioni sulla separazione tra le funzioni di indirizzo e di controllo politico amministrativo, proprie degli organi di governo, e le funzioni di gestione amministrativa, finanziaria e tecnica, di competenza degli organi burocratici.
Come già evidenziato dallo scrivente Ufficio, in relazione al rilascio dei pareri di cui all'art. 49 del TUEL,[1] una volta individuati i responsabili dei servizi nei membri della giunta, ai medesimi compete l'espressione dei predetti pareri, considerato che il comma 1 del citato articolo conferisce espressamente tale funzione al soggetto responsabile del servizio, il quale è individuabile ordinariamente nel dirigente o nel titolare di posizione organizzativa, oppure, in caso di applicazione della disposizione di cui all'art. 53, comma 23, della l. 388/2000, in un componente della giunta.
In questo caso le competenze gestionali ed i conseguenti atti, anche se in via derogatoria rispetto al generale principio di separazione delle funzioni, sono attribuiti ai singoli componenti dell'esecutivo, con la conseguenza che ogni provvedimento (determinazione) deve seguire lo stesso procedimento che normalmente si attua per gli atti adottati dai responsabili dei servizi, dipendenti dell'ente, compresi i pareri di regolarità amministrativa/contabile, non rilevando, a tal fine, il fatto che tali funzioni sono svolte da un amministratore.
Infatti, gli atti assunti dall'amministratore quale responsabile di un servizio sono a tutti gli effetti equiparati a quelli che assume qualsiasi dipendente cui sia stata attribuita la responsabilità gestionale[2].
Premesso un tanto e preso atto del nuovo sistema di controllo e verifica della correttezza dell'azione amministrativa introdotto dal legislatore, ferme restando le autonome valutazioni dell'Ente, le predette innovazioni non sembrano influire, allo stato attuale, sulla possibilità prevista dall'art. 53, comma 23, della l. 388/2000.
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[1] Cfr. nota n. prot. 17979/1.3.16 del 19.11.2008.
[2] Cfr. parere ANCI del 29.01.2002
(15.11.2012 - link a www.regione.fvg.it).

CORTE DEI CONTI

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALICorte dei conti. Liquidazione di compensi. Il pagamento errato condanna i segretari.
OBBLIGHI CONDIVISI/ Anche il responsabile del servizio finanziario è tenuto a vigilare sulla correttezza degli atti per versare gli onorari.
Particolare attenzione va prestata alla liquidazione di corrispettivi professionali (parcelle legali) con un rigoroso controllo che, coinvolgendo il responsabile di servizio che adotta la liquidazione e il responsabile del servizio finanziario, eviti di liquidare compensi non dovuti sulla base di semplici preavvisi di fatture presentate dal professionista e in assenza di documentazione idonea a giustificare la misura del compenso richiesto.

La sentenza 14.12.2012 n. 1125 della sezione Corte dei Conti Veneto chiarisce il ruolo di garante in capo al segretario comunale e al ragioniere, e articola le responsabilità per omissione di controllo cui vanno incontro il responsabile di servizio (nella fattispecie era anche segretario comunale) che ha disposto la liquidazione dei compensi, e il responsabile del servizio finanziario che ha apposto il visto di regolarità contabile.
La responsabilità del responsabile di servizio/segretario comunale che ha adottato l'atto discende dalla mancata verifica della congruità del compenso riconosciuto, e dal contrasto con il generale dovere, conseguente alla sua posizione di segretario generale (articolo 97 del Dlgs 267/2000) di essere garante della legalità e della correttezza amministrativa dell'azione del l'ente locale. In relazione al ruolo del segretario comunale/responsabile di servizio si è riconosciuta una maggiore incidenza causale nella determinazione del danno, quantificabile nella misura del 60% dell'intero. Il restante 40% è stato addebitato al concorso colposo del ragioniere capo perché le circostanze non giustificavano l'emissione dei titoli di pagamento e che avrebbero dovuto determinare almeno la richiesta di giustificazioni idonee.
Nell'affermare la responsabilità del ragioniere per il visto sull'atto irregolare, la Corte evidenzia che non c'è una differenza ontologica tra il parere di regolarità contabile, previsto per le deliberazioni degli organi rappresentativi, e il visto per le determinazioni dei responsabili dei servizi; il controllo di regolarità finanziaria deve essere ritenuto afferente alla legittimità della spesa, implicando un giudizio sulla sua conformità alle leggi e ai regolamenti (Corte conti, sezione giurisdizionale Sicilia, n. 1337/2012).
A fronte di compensi liquidati sulla base di determinazioni illegittimamente assunte, c'è per il dirigente del settore finanziario il dovere di sospendere i pagamenti illegittimi, ed eventuali esoneri di responsabilità sono possibili solo in esito a un'analisi complessiva delle particolari circostanze del caso deciso e della non rilevabilità immediata delle illegittimità accertate.
Nel caso affrontato dalla sentenza, invece, si è rilevato che l'anomalia delle liquidazioni effettuate dal responsabile del servizio poteva essere facilmente rilevata dal ragioniere capo (articolo Il Sole 24 Ore del 31.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOProgressioni riconosciute. Senza aumenti di stipendio.
Per il pubblico impiego, anche le progressioni economiche orizzontali, vale a dire i passaggi economici all'interno delle categorie di appartenenza, soggiacciono alle disposizioni contenute all'articolo 9, comma 21, della manovra del 2010 (il dl n. 78/2010). Questo significa che per tali progressioni, i miglioramenti eventualmente conseguiti dai dipendenti non possono che essere riconosciuti ai soli fini giuridici, dovendosi escludere qualsiasi effetto economico.

È quanto hanno messo nero su bianco le Sezioni riunite della Corte dei conti, nel testo della deliberazione 24.10.2012 n. 27, in merito alla portata applicativa delle disposizioni contenute al citato articolo 9 del dl n. 78/2010.
Come noto, nell'ottica di un perseguimento di obiettivi di contenimento della spesa pubblica mediante la razionalizzazione e la riduzione della spesa del personale della p.a., la norma richiamata dispone che le progressioni di carriera «comunque denominate» eventualmente disposte nel 2011, 2012 e 2013, avranno effetto ai soli fini giuridici.
Ora, la questione sottoposta al collegio della magistratura contabile è quella di considerare o meno le progressioni economiche orizzontali ex art. 23 del dlgs n. 150/2009 (la riforma c.d. Brunetta del pubblico impiego) nella più generale locuzione «progressioni di carriera comunque denominate» utilizzata dal legislatore. La querelle deve essere vista sotto l'ottica di contenere le spese di personale.
Un obiettivo, si ammette, cui devono concorrere tutti, anche gli enti locali, siano essi sottoposti o meno al Patto di stabilità interno. La norma ex art. 9, comma 21, del dl n. 78/2010 risponde alla logica di contenere la dinamica retributiva del pubblico impiego per il triennio 2011-2013, dettando una disciplina che, dice la Corte, non ammette deroghe, anche per l'eccezionalità della crisi finanziaria che avvolge l'intero ciclo economico.
In conclusione, le disposizioni richiamate si intendono valide anche per le progressioni orizzontali (o passaggi economici tra le aree), dovendosi rilevare, anche nell'ottica di una generale cristallizzazione stipendiale ai valori del 2010, che ogni variazione di inquadramento del dipendente potrà produrre effetti solo sul suo status giuridico, ma non sul suo trattamento economico (articolo ItaliaOggi del 05.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

NEWS

EDILIZIA PRIVATANiente spazi al pubblico niente antincendi. Palco all'aperto senza vincoli.
La presenza di un palco allestito per una manifestazione è ininfluente. Perché se non c'è uno spazio delimitato per il pubblico, lo spettacolo o il trattenimento che si svolge all'aperto non è assoggettato alla regola tecnica di prevenzione incendi del ministero dell'interno del 19.08.1996.

La novità fa seguito al dm del 18.12.2012 (G.U. n. 301 del 28/12/2012), entrato in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione, che ha eliminato dal testo originario della disciplina in materia di sicurezza, ogni riferimento all'altezza del palco che, se superiore a 80 centimetri, faceva automaticamente assoggettare la manifestazione agli obblighi previsti per la progettazione, costruzione ed esercizio dei locali di intrattenimento e di pubblico spettacolo contenuti nel sopraindicato dm del 1996.
Ciò non toglie, comunque, precisa l'ultimo inciso dell'articolo 1 del decreto in questione, che vanno, comunque, rispettate le prescrizioni previste dal Titolo IX della regola tecnica, ovvero quelle che impongono, in ogni caso, per i luoghi e spazi all'aperto, utilizzati occasionalmente ed esclusi dal campo di applicazione del decreto in quanto privi di specifiche attrezzature per lo stazionamento del pubblico di presentare al comune competente la documentazione relativa alla idoneità statica delle strutture allestite e la dichiarazione d'esecuzione a regola d'arte degli impianti elettrici installati, a firma di tecnici abilitati, nonché l'approntamento e l'idoneità dei mezzi antincendio (articolo ItaliaOggi del 05.01.2013).

PUBBLICO IMPIEGOEnti, sospesa la riduzione del personale. Manca il decreto sulla «virtuosità» di Comuni e Province - Attesa anche per Interni e Esteri.
IN RITARDO ALTRI DUE DPCM/ Mancano all'appello due atti per i tagli in Inps, Enac e gli enti parco: si stimano eccedenze complessive per 7.416 addetti.

Non c'è solo l'attesa per il via libera del ministero dell'Economia al Dpcm sui primi 4.028 esuberi di una parte della Pa centrale tra le incognite della spending review.
Sul fronte dei tagli alle dotazioni organiche, infatti, il vero e proprio vuoto procedurale s'è aperto per gli enti locali, che nel loro assieme occupano circa 600mila dipendenti. L'articolo 2 del dl 95 prevedeva infatti il varo di un decreto interministeriale (Economia, Interno e ministero della Pa) sulla cosiddetta «virtuosità» di questi enti in base a precisi parametri. In particolare si prevedevano due soglie da rispettare nella costruzione di un indicatore basato sul rapporto tra dipendenti e popolazione residente. In caso di superamento dell'indicatore-soglia del 40% sarebbero scattati i tagli al personale in servizio per scendere a quota 20%, un livello gestibile con il semplice blocco totale delle assunzioni.
Il decreto non è stato ancora fatto e l'apertura formale della crisi potrebbe averne ipotecato definitivamente i destini, anche se si tratta di un provvedimento attuativo e, quindi, suscettibile di rientrare nell'ordinaria amministrazione. Tra l'altro su quel provvedimento mancato pesa anche lo stop al riordino delle province. Per non parlare del tipo di intervento da effettuare sul personale delle società controllate dagli enti. Ma il fatto è che senza quel decreto la spending review su questa parte significativa di dipendenti pubblici per il momento è ferma.
Tornando alle amministrazioni centrali, sono attesi altri due Dpcm oltre a quello citato e che la Funzione pubblica ha trasmesso all'Economia il 13 novembre scorso. In essi si dovranno definire i criteri di intervento sul personale di Inps, Enac e 24 enti parco nazionali sempre partendo dai riferimenti base di un taglio del 20% sugli organici dirigenziali e del 10% sul resto del personale. Secondo stime della Ragioneria si salirebbe, con questi ulteriori atti, da 4.028 a 7.416 eccedenze assolute. Un dato che corrisponde al 6,1% del personale non dirigenziale presente in servizio nelle amministrazioni in questione (120.989).
Per altre amministrazioni come l'Economia, le Agenzie fiscali (che quest'anno devono anche realizzare il previsto accorpamento) o l'Ice sono previsti interventi diversi di rideterminazione degli organici, mentre i ministeri degli Esteri, dell'Interno e della Giustizia devono ancora presentare le proprie ipotesi di tagli alla Funzione Pubblica. Quando saranno noti i numeri di questi ultimi soggetti si capirà quanto il dato definitivo delle eccedenze sarà vicino alle 11mila che erano state stimate per le amministrazioni centrali l'estate scorsa, al momento del varo della spending review.
Se questo «cantiere» non si fermerà per via delle elezioni il cronoprogramma per la gestione delle eccedenze anche con la compensazione tra diverse amministrazioni prevede il via alla mobilità volontaria entro il 31 marzo prossimo e dei contratti di solidarietà entro fine maggio, mentre a fine giugno dovranno essere definiti i criteri per la dichiarazione di esubero effettivo del personale in soprannumero. Per i pensionamenti e i prepensionamenti c'è invece tempo fino alla fine del 2014.
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CRONOPROGRAMMA
Dicembre 2012
Tutte le amministrazioni avrebbero dovuto individuare il personale in soprannumero non riassorbibile entro i prossimi 2 anni al netto dei pensionamenti e dei prepensionamenti
Marzo 2013
Avvio dei processi di mobilità guidata con un Dpcm
Maggio 2013
Criteri di sottoscrizione dei contratti di solidarietà del personale non ricollocato in mobilità guidata e individuazione del personale da collocare in part-time
Giugno 2013
Dichiarazione degli esuberi effettivi del rimanente personale in soprannumero con il coordinamento della Funzione Pubblica (articolo Il Sole 24 Ore del 05.01.2013 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGOEnti, i tagli possono attendere. Non c'è traccia del dpcm con i parametri per gli organici. Entro il 31/12 la Funzione pubblica avrebbe dovuto fissare i criteri per ridurre il personale.
Il 31.12.2012 è passato e, come c'era da aspettarsi, il decreto del presidente del consiglio necessario per determinare eventuali esuberi di personale nelle amministrazioni locali non è stato emanato.
Come si ricorderà, la «spending review», il dl 95/2012, convertito in legge 135/2012, ha fissato criteri generali per individuare personale eccedente nelle pubbliche amministrazioni, riservando, però, un sistema particolare per gli enti locali, in considerazione della loro autonomia costituzionalmente garantita.
Sicché, l'articolo 16, comma 8, della legge 135/2012 demanda al dpcm il compito di fissare «i parametri di virtuosità per la determinazione delle dotazioni organiche degli enti locali, tenendo prioritariamente conto del rapporto tra dipendenti e popolazione residente».
Il decreto dovrebbe stabilire la media nazionale del personale in servizio presso gli enti, considerando anche le unità di personale in servizio presso le società partecipate.
Una volta entrato in vigore il dpcm «gli enti che risultino collocati a un livello superiore del 20% rispetto alla media non possono effettuare assunzioni a qualsiasi titolo; gli enti che risultino collocati ad un livello superiore del 40% rispetto alla media applicano le misure di gestione delle eventuali situazioni di soprannumero di cui all'articolo 2, comma 11, e seguenti» della stessa legge 135/2012.
Un po' per le vicende politiche che hanno investito il governo, un po' perché il termine del 31.12.2012 per emanare il decreto appariva di per sé poco credibile, si apre il 2013 senza che i parametri necessari alla determinazione degli esuberi in comuni e province abbia visto la luce.
Una traccia del provvedimento si trova nel documento consuntivo dell'attività dell'esecutivo, pubblicato sul sito del governo.
Nell'allegato dedicato all'attività della Funzione pubblica, si legge: «Per la ridefinizione delle dotazioni organiche degli enti locali, è in via di predisposizione (competenza prevalente Mef e Fp) il decreto che indichi l'indice di virtuosità di riferimento, rispetto al quale le amministrazioni che se ne discostino, a seconda della misura, saranno tenute o al mero blocco delle assunzioni o alla riduzione delle dotazioni con il metodo adottato per lo stato».
Dunque, stando a quanto scrive il governo stesso, il decreto non è ancora nemmeno stato predisposto dal ministero che fino alle elezioni sarà guidato, per il disbrigo dell'ordinaria amministrazione, da Filippo Patroni Griffi. La strada per l'emanazione appare ancora lunga, dal momento che occorre anche ottenere il concerto della Conferenza stato-città e autonomie locali.
L'urgenza di provvedere, stante il rinvio del riordino delle province che, se attuato, avrebbe reso indispensabile il dpcm, non si riscontra, anche se mancando i parametri per gli oltre 8 mila enti locali, una parte importante dei possibili risparmi sulle spese del personale vengono a mancare (articolo ItaliaOggi del 04.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTIContratti della p.a. solo in formato elettronico.  Il decreto crescita manda in soffitta gli atti cartacei.
Contratti della pubblica amministrazione solo informatici. Il decreto sviluppo-bis, il dl 179/2012, convertito in legge 221/2012 ha modificato l'articolo 11, comma 13, del codice dei contratti pubblici, nel seguente nuovo testo: «Il contratto è stipulato, a pena di nullità, con atto pubblico notarile informatico, ovvero, in modalità elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione appaltante, in forma pubblica amministrativa a cura dell'Ufficiale rogante dell'amministrazione aggiudicatrice o mediante scrittura privata».
Non vi sono dubbi sulla volontà del legislatore che i contratti si stipulino esclusivamente in forma elettronica e non cartacea. Almeno, quando siano stipulati per atto pubblico notarile o in forma pubblica amministrativa, con l'intervento dell'ufficiale rogante pubblico, che nel caso degli enti locali è il segretario comunale e provinciale.
La perentorietà della norma è tale da imporre alle amministrazioni pubbliche l'urgente dotazione di sistemi di sottoscrizione mediante firma digitale, nel rispetto delle modalità di stipula elettronica, come fissate dal dlgs 110/2010.
La firma digitale è imposta necessariamente all'ufficiale rogante, non per le parti che possono ancora utilizzare anche una firma elettronica non qualificata e, al limite, apporre una sottoscrizione autografa, acquisita tramite scanner al documento elettronico: la minore affidabilità della firma elettronica non qualificata o dell'immagine della sottoscrizione autografa è compensata dall'attestazione che l'ufficiale rogante compie delle operazioni di sottoscrizione effettuate in sua presenza. La sottoscrizione digitale dell'ufficiale rogante, da apporre in calce al documento, attribuisce allo stesso la garanzia di autenticità delle sottoscrizioni.
Il legislatore impone la sottoscrizione elettronica dei contratti pubblici, ma non ha previsto un obbligo, che invece sarebbe apparso opportuno, per le aziende di dotarsi della firma digitale.
Per questa ragione, lascia un margine di disciplina interna, ai fini della regolamentazione della firma elettronica, che appare comunque opportuno non distaccare troppo dalle indicazioni contenute nel dlgs 110/2010.
Il problema si pone, in particolare, per la sottoscrizione dei contratti mediante scrittura privata non autenticata.
La lettura del nuovo comma 13 dell'articolo 11 è ambigua. Esso potrebbe essere inteso nel senso che la scrittura privata non autenticata viva di vita propria e non sia soggette alla forma elettronica.
Considerando che i privati che intervengono nella stipulazione dei contratti non sono obbligati ad essere dotati della firma digitale, l'interpretazione secondo la quale le scritture private non autenticate possano ancora stipularsi in forma cartacea appare corretta. Infatti, mancando un ufficiale rogante che rediga il contratto in forma elettronica, compiendo le operazioni che garantiscano la riconducibilità delle sottoscrizioni all'identità delle parti costituite nel contratto, il sistema della sottoscrizione del contratto in forma elettronica non sembra possa funzionare.
Le scritture private non autenticate potrebbero avere la forma elettronica (che comunque non è certo vietata) solo laddove l'appaltatore fosse dotato della firma digitale.
Altrimenti si potrebbe pensare a sistemi complessi, come lo scambio di lettere secondo gli usi commerciali, mediante posta elettronica certificata, il che richiede comunque che l'imprenditore disponga a sua volta di una casella di Pec. O, ancora, l'apertura di spazi nei portali, dedicati alla sottoscrizione della scrittura privata, nei quali l'imprenditore si autentichi con una user id e password fornite dall'ente, inserendo un codice numerico al quale accede autenticandosi con la user id e la password, salvando copia del documento, dotato del codice ed accompagnato con una copia del documento di identità.
L'obbligo imposto dalla norma consiglia, comunque, di ricorrere il più possibile al mercato elettronico della Consip, poiché gli acquisti vengono conclusi mediante contratti o ordini elettronici, in forma di scrittura privata non autenticata, sottoscritti mediante firma digitale (articolo ItaliaOggi del 04.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALIPatto, debuttano i mini-enti. Bilanci, obiettivi, monitoraggio. Raffica di adempimenti. Tutte le novità contabili a cui andranno incontro i piccoli comuni a partire dal 2013.
Nel 2013 anche i comuni fra 1.001 e 5.000 abitanti dovranno fare i conti con il Patto di stabilità interno. La legge di stabilità (legge 228/2012) ha confermato, infatti, il loro pieno assoggettamento ai vincoli di finanza pubblica, limitandosi a prevedere un piccolo sconto sull'obiettivo per l'anno in corso. È opportuno ricordare che la determinazione della popolazione di riferimento va effettuata considerando i residenti alla fine del penultimo anno precedente, sulla base dei dati Istat (art. 156 del Tuel): quindi, per il 2013, si considera il 2011.
Poiché tali enti, di fatto, sono sempre stati esclusi dal Patto, è utile riepilogare sinteticamente i principali adempimenti (e le relative scadenze) ad esso connessi. Il primo è legato al bilancio di previsione, che, dopo la proroga concessa dalla legge di stabilità, dovrà essere approvato entro il 30 giugno (salvo ulteriori slittamenti). Al preventivo dovrà essere allegato il consueto prospetto contenente le previsioni di competenza e di cassa degli aggregati rilevanti ai fini del Patto, che devono risultare in linea con gli obiettivi per tutto il triennio 2013-2015.
Non sarà sufficiente un mero aggiornamento del prospetto allegato al bilancio 2012, perché la legge 228 ha modificato le regole di determinazione degli obiettivi. Ora la base di calcolo è rappresentata dalla spesa corrente media registrata in termini di competenza (impegni) nel triennio 2007-2009.
Sono cambiati anche i coefficienti minimo e massimo, che per il 2013 risultano differenziati a seconda della dimensione demografica del comune: per quelli sotto i 5.000 abitanti, la forchetta è compresa fra il 12% ed il 13%, mentre per gli altri fra il 14,8 e il 15,8%, valori, questi ultimi, che dal 2014 varranno per tutti senza distinzioni. Dove si collocherà l'asticella si saprà quando saranno individuati gli enti virtuosi, che avranno, invece, un saldo obiettivo pari a 0.
Sarà un decreto del Mef a operare la scelta dei virtuosi ed a fissare il coefficiente per gli altri. Lo scorso anno, tale provvedimento è arrivato in G.U. solo ad agosto, quindi è possibile che molti enti approvino il bilancio prima di conoscere la loro «pagella». In tal caso, occorre prudenzialmente considerarsi non virtuosi ed applicare i coefficienti massimi, apportando poi successivamente le eventuali variazioni.
Gli obiettivi devono essere calcolati dagli enti e comunicati al Mef entro 45 giorni dalla pubblicazione del decreto che approva il relativo prospetto dimostrativo (tale provvedimento di solito arriva a luglio). La mancata, tempestiva trasmissione costituisce inadempimento al Patto.
Lo stesso o un altro decreto di via XX Settembre (anch'esso di solito adottato prima della pausa estiva) definisce termini e modalità per il monitoraggio semestrale, che va effettuato entro 30 giorni dalla fine del periodo di riferimento o (per il primo semestre) dalla pubblicazione del decreto. Il monitoraggio si effettua solo online (http://pattostabilitainterno.tesoro.it/Patto/): è quindi importante che gli enti che non lo avessero ancora fatto si accreditino alla relativa procedura.
Per la certificazione finale, invece, il termine è il 31 marzo dell'anno successivo: in tal caso, il prospetto scaricato dalla procedura va trasmesso con raccomandata a/r.
In caso di inadempimento, scattano le sanzioni previste per chi non rispetta il Patto (taglio alle spettanze, divieto di indebitamento, tetto agli impegni di spesa corrente, blocco delle assunzioni, decurtazione delle indennità degli amministratori), a meno che l'invio tardivo (in ultima istanza, da parte dell'organo di revisione nella veste di commissario ad acta) dimostri che i targets sono stati comunque centrati (in tal caso, si applica solo il blocco delle assunzioni). La certificazione va rettificata e sostituita con una nuova entro 60 giorni al termine stabilito per l'approvazione del rendiconto se si rileva un peggioramento del saldo.
Particolarmente importanti le scadenze legate al Patto regionalizzato. Oltre a segnarsi quelle autunnali (15 settembre per le richieste relative al Patto verticale, 15 ottobre per quelle sul Patto orizzontale), i comuni dovranno tenere d'occhio i bollettini ufficiali (ed i siti) della rispettiva regione anche in primavera. Entro il prossimo 31 maggio, infatti, dovrà essere definito il riparto del Patto incentivato (riproposto dalla legge 228 anche per il 2013) e quindi occorrerà anticipare le richieste secondo le modalità e la tempistica stabilite dai governatori.
Per il Patto orizzontale nazionale, invece, le richieste devono pervenire al Mef entro il 15 luglio, mentre la rimodulazione degli obiettivi sarà disposta entro il 5 ottobre.
Infine, occorre ricordare che il Patto non si applica alle unioni «classiche» (art. 32 del Tuel), mentre quelle «speciali» (art. 16 del dl 138/2011) entreranno solo dal 2014. In teoria, sono soggette, invece, aziende speciali ed istituzioni (escluse quelle che gestiscono servizi socio-assistenziali ed educativi, culturali e farmacie), nonché le società in house affidatarie dirette di servizi pubblici locali o strumentali. Ma la relativa disciplina non è ancora stata scritta (articolo ItaliaOggi del 04.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Mozioni, consigli sovrani. È l'assemblea a decidere sull'ammissibilità. Il Testo unico tutela il diritto di iniziativa politica dei componenti.
Sussiste l'obbligo di inserire nuovamente nell'ordine del giorno del consiglio comunale una mozione, presentata da un gruppo consiliare, già oggetto di discussione in una precedente seduta che si è conclusa con una dichiarazione di abbandono dell'aula da parte dei consiglieri di maggioranza ed il conseguente scioglimento della seduta per mancanza del numero legale?

L'art. 43, comma 1, del dlgs n. 267/2000 riconosce ai «consiglieri comunali e provinciali» il diritto di iniziativa su ogni questione sottoposta alla deliberazione del consiglio, stabilendo che «hanno inoltre il diritto di chiedere la convocazione del consiglio secondo le modalità dettate dall'art. 39, comma 2, e di presentare interrogazioni e mozioni».
La dottrina definisce le «mozioni» quali atti approvati dal Consiglio per esercitare un'azione di indirizzo, esprimere posizioni e giudizi su determinate questioni, organizzare la propria attività, disciplinare procedure e stabilire adempimenti dell'amministrazione nei confronti del Consiglio.
Il Tar Puglia –sezione di Lecce– I sez., sentenza n. 1022/2004, individua la mozione quale «istituto a contenuto non specificato trattandosi di un potere a tutela della minoranza per situazioni non predefinibili, a differenza di altri strumenti più a valenza di mera conoscenza (quali l'interrogazione o la interpellanza), essendo strumento di introduzione ad un dibattito che si conclude con un voto che è ragione ed effetto proprio della mozione».
Alla luce della dottrina e della giurisprudenza segnalata, a differenza dell'interrogazione e dell'interpellanza a cui rispondono il sindaco e la giunta, la mozione è diretta al consiglio comunale –il cui funzionamento, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal regolamento (art. 38 del dlgs n. 267/2000)– che deve esprimersi nelle forme della deliberazione, rappresentando l'istituto una forma di controllo politico-amministrativo di cui all'art. 42, comma 1, del dlgs n. 267/2000.
Pertanto, sulla base dell'ordine del giorno fissato, ogni questione di ammissibilità alla discussione degli argomenti previsti è attribuita al potere «sovrano» delle assemblee politiche (Tar Puglia sent. ult. cit.) al quale spetta di decidere in via pregiudiziale (Consiglio di stato, V sez, n. 944 dell'08/03/2005) (articolo ItaliaOggi del 04.01.2013).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Mozione di sfiducia.
Quanto incide una mozione di sfiducia, proposta dal consiglio comunale nei confronti di un componente della giunta, sulle prerogative attribuite al sindaco nella scelta degli assessori?
Dal quadro normativo delineato dagli articoli 46 e 52 del dlgs n. 267/2000 emerge che la revoca dell'incarico assessorile è posta, sostanzialmente, nella disponibilità del sindaco o del presidente della provincia.
Al comma 4, dell'art. 46 del citato decreto legislativo, è previsto che «il sindaco e il presidente della provincia possono revocare uno o più assessori, dandone motivata comunicazione al consiglio».
Secondo una consolidata giurisprudenza, «la valutazione degli interessi coinvolti nel procedimento di revoca di un assessore è rimessa in via esclusiva al titolare politico dell'amministrazione, cui competono in via autonoma la scelta e la responsabilità della compagine di cui avvalersi per l'amministrazione dell'ente nell'interesse della comunità locale» (ex multis Consiglio di stato, V sez, n. 803 del 16/02/2012).
La comunicazione motivata al consiglio della revoca dell'incarico assessorile, prevista dall'art. 46, comma 4, del dlgs n. 267 del 2000 è, infatti, tendenzialmente diretta al mantenimento di un corretto rapporto collaborativo tra il capo dell'esecutivo e il rispettivo consiglio, che potrebbe eventualmente opporsi a un provvedimento di revoca con l'estremo rimedio della mozione di sfiducia ex art. 52 decreto legislativo n. 267/2000, che però comporta, in caso di approvazione, lo scioglimento del consiglio stesso. (Consiglio di stato, V sez, n. 944 dell'08/03/2005) (articolo ItaliaOggi del 04.01.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIASistri fermo? Ecco il Mud. La dichiarazione ambientale entro il 30 aprile. In Gazzetta il modello 2013, resuscitato dallo stop alla tracciabilità online.
Torna il Mud per i rifiuti in zona Cesarini, appena prima dello sforamento del termine della pubblicazione del 31 dicembre che avrebbe comportato lo slittamento degli relativi obblighi dopo la canonica data del 30 aprile.
La pubblicazione entro il 31 dicembre del dpcm 20.12.2012 del Mud (Gazzetta Ufficiale: supplemento ordinario n. 213 alla G.U. 29.12.2012 n. 302), consente quindi di mantenere la data del 30 aprile per acquisire i dati relativi ai rifiuti da tutte le categorie di operatori indicate dall'attuale art. 189 del decreto legislativo n. 152 del 2006. Ma chi sono i soggetti interessati? E come si è arrivati a resuscitare il Mud per i rifiuti?
I soggetti interessati sono i comuni o loro consorzi e le comunità montane che comunicano annualmente alle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, secondo le modalità previste dalla legge 25.01.1994 n. 70, informazioni quantitative e qualitative dei rifiuti gestiti. Tutti gli altri operatori, in attesa del Sistri, sono comunque tenuti agli adempimenti di cui agli articoli 190 (registri di carico e scarico) e 193 (formulario trasporto dei rifiuti) del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152 e all'osservanza della relativa disciplina, anche sanzionatoria.
La «resurrezione» parziale del Mud è conseguenza diretta della sospensione del Sistri. Infatti, l'art. 52, comma 1, dl 22.06.2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 134, ha previsto allo scopo di procedere a ulteriori verifiche amministrative e funzionali del Sistema di controllo della Tracciabilità dei rifiuti (Sistri), ne ha disposto la sospensione fino al compimento delle anzidette verifiche e comunque non oltre il 30 giugno 2013.
A ciò era seguito il decreto 17.10.2012, n. 210 («Regolamento concernente modifiche al decreto del ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare 25.05.2012, n. 141 (Sistri)» che aveva previsto la soppressione della norma che disponeva per l'anno 2012 del pagamento del contributo da effettuarsi entro il 30 novembre.
Il dpcm del 20 dicembre sostituisce, quindi, il modello di dichiarazione, allegato al decreto del presidente del consiglio dei ministri del 23.12.2011 e relative istruzioni allegati al presente decreto.
Il nuovo modello sarà utilizzato per le dichiarazioni da presentare, entro la data prevista dalla legge 25.01.1970, n. 70 e cioè entro il 30 aprile di ogni anno, con riferimento all'anno precedente e sino alla piena entrata in operatività del Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (Sistri).
Una nuova vita per il Mud limitata nel tempo. Forse il dpcm avrebbe potuto allargare il suo campo d'azione. Ad esempio, alla decisione n. 753 del 2011 per il calcolo degli obiettivi di riciclaggio emanata in attuazione della Direttiva rifiuti. Essa prevede, infatti, regole e modalità di calcolo per verificare il rispetto degli obiettivi di cui all'articolo 11, paragrafo 2, della direttiva 2008/98/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio. L'art. 2 prende in considerazione il caso dei rifiuti esportati fuori dell'Unione per essere preparati a essere riutilizzati, riciclati o sottoposti a un'altra forma di recupero di materiale.
Essi sono contabilizzati come preparati a essere riutilizzati, riciclati o sottoposti a un'altra forma di recupero soltanto in presenza di prove attendibili attestanti che l'invio è conforme alle disposizioni del regolamento (Ce) n. 1013/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, in particolare dell'articolo 49, paragrafo 2, e cioè con la garanzia che essi siano gestiti secondo metodi ecologicamente corretti per tutta la durata della spedizione, compreso il recupero (articolo ItaliaOggi del 03.01.2013).

AMBIENTE-ECOLOGIAAmbiente. Pubblicato in «Gazzetta Ufficiale» il provvedimento che richiama in servizio il modello unico per la dichiarazione annuale.
Per le imprese ritorna il «Mud». Presentazione entro il 30 aprile - Scompare il prospetto leggero usato negli anni scorsi.
LE INDICAZIONI/ Obbligo per i trasportatori Applicazione più ampia per la comunicazione semplificata per i rifiuti speciali.
Dal Mud al Sistri e ritorno. Con la pubblicazione di fine anno del decreto del presidente del consiglio 20.12.2012, il modello unico per la dichiarazione ambientale torna ad essere l'unico punto di riferimento per le imprese e per le amministrazioni coinvolte.
Entro il 30 aprile prossimo le imprese obbligate dovranno tornare a presentare esclusivamente il Mud (Modello unico di dichiarazione ambientale), usando il modello e le istruzioni allegati al Dpcm 20.12.2012 (pubblicato sul Supplemento ordinario n. 213 alla Gazzetta ufficiale del 29.12.2012) il quale sostituisce il Dpcm 23.12.2011. Pertanto dal 2013 (e fino a un nuovo ordine relativo al Sistri) si torna a parlare solo ed esclusivamente di Mud.
La pubblicazione del decreto, tuttavia, non deve apparire come una scheggia impazzita generata da un sistema disattento, quanto piuttosto la risposta alla sospensione del Sistri (non oltre il 30.06.2013, di cui all'articolo 52, legge 134/2012) e di tutti gli adempimenti connessi, ivi compresa la dichiarazione Sistri (il cosidetto "mudino").
Infatti, a seguito di tale sospensione, l'obbligo di presentazione del Mud per i produttori e i gestori di rifiuti di cui all'articolo 189, Dlgs 152/2006 (il Codice ambientale), rimane vigente.
Tuttavia, il nuovo modello crea un unico testo di riferimento per tutti i soggetti e gli obblighi di dichiarazione Mud e "mudino" che, nel tempo, a seguito del Sistri e dell'articolo 264 bis, Dlgs 152/2006 si erano divaricati: per molti aspetti, non si capiva più esattamente a quale modello dovessero rispondere.
Del nuovo Mud tornano a essere destinatari i trasportatori che il "mudino", invece, aveva escluso.
Il modello si compone di sei comunicazioni: rifiuti speciali; veicoli fuori uso; imballaggi; Raee; rifiuti urbani, assimilati e raccolti in convenzione; produttori di apparecchiature elettriche ed elettroniche (Aee).
Rispetto al pregresso, oltre alle novità obbligate dalle modifiche normative intervenute nel tempo, si evidenziano alcune significative novità per ottimizzare compilazione e dati:
● Scheda anagrafica: cambia il campo del codice Istat per adeguarsi alla nuova codifica delle attività economiche. Compare un campo "annulla e sostituisce" che consente di correggere le dichiarazioni presentate. È, inoltre, inserito un dato relativo ai mesi di attività per parametrare la produzione all'attività effettiva dell'azienda;
● Scheda RIF: non è richiesto lo stato fisico del rifiuto perché implicito nel codice Cer (lo stesso avviene nella Scheda intermediazione); è, invece, richiesto il dato sui rifiuti in giacenza presso il produttore per poter confrontare le dichiarazioni dei diversi anni;
● Modulo Rt-Sp Rifiuto ricevuto da terzi: è ora possibile indicare che il rifiuto è stato ricevuto da privati; il che è molto importante per chi prende rifiuti da molti conferitori;
● Modulo Mg-Sp recupero e smaltimento: gli impianti autorizzati solo per messa in riserva e deposito preliminare devono indicare quanto complessivamente stoccato.
Notevoli sono le modifiche alla comunicazione semplificata per i rifiuti speciali, già prevista dal pregresso Dpcm 27.04.2010; infatti, ora può essere usata da chi produce fino a sette tipologie di rifiuti (in precedenza erano tre) e per ogni rifiuto, usa non più di tre trasportatori e tre destinatari finali.
Se si accede al sistema semplificato, l'invio è postale e avviene mediante moduli cartacei. Anche qui figura il campo «annulla e sostituisce» per ovviare a errori ed omissioni alle dichiarazioni presentate, né è più richiesto lo stato fisico del rifiuto.
Il Mud va presentato alla Camera di commercio industria e artigianato competente per territorio, che corrisponde a quella della provincia in cui ha sede l'unità locale a cui è riferita la dichiarazione.
Però i soggetti che svolgono attività di solo trasporto e gli intermediari senza detenzione devono presentare il Mud alla Cciaa della provincia nel cui territorio si trova la sede legale dell'impresa cui si riferisce la dichiarazione. Va presentato un Mud per ogni unità locale.
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Le novità
01 | RIFIUTI SPECIALI
Sono obbligati alla comunicazione Mud: - Chi effettua a titolo professionale raccolta e trasporto. - Commercianti e intermediari senza detenzione. - Recuperatori e smaltitori di rifiuti. - Produttori iniziali di rifiuti pericolosi. - Imprese agricole che producono rifiuti pericolosi con un volume di affari superiore a 8.000 euro/anno. - Imprese ed enti con più di 10 dipendenti che producono rifiuti non pericolosi da lavorazioni industriali, artigianali e da attività di recupero e smaltimento di rifiuti. Fanghi da potabilizzazione e da altri trattamenti di acque e dalla depurazione di acque reflue e abbattimento fumi (articolo 184, comma 3, lettere c), d) e g), Dlgs 152/2006)
02 | VEICOLI FUORI USO
Obbligato alla comunicazione Mud chi gestisce veicoli rientranti nel campo di applicazione del Dlgs 209/2003
03 | IMBALLAGGI
Devono fare il Mud: Conai e sistemi autonomi o cauzionali di cui all'articolo 221, comma 3, lettere a) e c), Dlgs 152/2006
04 | RAEE
Il Mud riguarda i soggetti che gestiscono i Raee rientranti nel campo del Dlgs 151/2005
05 | RIFIUTI URBANI E ASSIMILATI
Obbligo di Mud per i soggetti istituzionali responsabili del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani e assimilati.
Per i rifiuti pericolosi conferiti dal produttore al gestore del servizio pubblico di raccolta, previa convenzione, la comunicazione è effettuata da tale gestore per la quantità conferita
06 | PRODUTTORI DI AEE
Mud per i soggetti dell'articolo 3, comma 1, lettera m), Dlgs 151/2005 (articolo Il Sole 24 Ore del 03.01.2013).

CONDOMINIOCon la riforma nuove procedure per arginare le attività contrarie alle destinazioni d'uso.
Parti comuni, tutele rafforzate. Modifiche più semplici, purché senza danni per i singoli.

Per trasformare un parcheggio condominiale in area verde, o viceversa, basterà la maggioranza assembleare. Tra le novità più interessanti contenute nella riforma del condominio meritano particolare risalto le nuove regole relative alla modificazione della destinazione d'uso delle parti condominiali e quelle collegate per la protezione di quest'ultima dalle attività dannose e/o pregiudizievoli.
In particolare il nuovo art. 1117-ter sembra ammettere la possibilità che un bene/impianto comune possa essere trasformato fino a consentirne un uso completamente estraneo rispetto alla sua originaria destinazione oggettiva e strutturale. Si tratta di situazioni nelle quali alcuni condomini possono subire diminuzioni dei loro diritti: si pensi al caso del condominio con accesso dal giardino che, a seguito di delibera assembleare, venga trasformato in piscina o campo da tennis. Quanto sopra trova conferma nella nuova maggioranza richiesta per approvare detti interventi (quattro quinti del valore dell'edificio, cioè 800 millesimi, oltre a un identico numero di partecipanti), così elevata da apparire normalmente irraggiungibile (quanto meno rispetto alle presenze solitamente ottenibili in assemblea).
La tutela contro attività contrarie alle destinazioni d'uso. L'articolo 1117-quater detta poi una specifica procedura per la tutela contro eventuali attività contrarie alle destinazioni d'uso delle parti comuni da parte del singolo condomino. La norma non chiarisce come debba intendersi l'incidenza negativa di una diversa destinazione d'uso e ci si potrebbe così spingere fino a considerare pregiudizievole, per esempio, la destinazione di un appartamento a discoteca, trattandosi di attività non solo contraria alla tranquillità della collettività condominiale, ma che comporta un uso particolarmente intenso delle parti comuni (numero elevato di clienti, musica ad altro volume ecc.).
Nella dizione di attività rientrano certamente quei comportamenti dei singoli condomini che arrivano ad alterare la destinazione d'uso di una parte comune. Così è pacifico che se il singolo condomino apra un varco nel muro di cinta dell'edificio, mettendo in comunicazione la corte esterna di sua esclusiva proprietà con la strada pubblica, l'apertura praticata alteri la destinazione d'uso del muro, incidendo sulla sua funzione di recinzione e di protezione e annulla il beneficio che gli altri condomini traggono dall'utilità che il muro di cinta comune oggettivamente apporta alle loro proprietà.
E ancora, per esempio, posto che i pianerottoli, quali componenti essenziali delle scale comuni, hanno funzione di destinazione al migliore godimento dell'immobile da parte di tutti i condomini, non possono essere trasformati dal proprietario dell'appartamento che su di essi si affacci mediante l'incorporazione dei medesimi nel proprio appartamento, in tal modo impedendo l'uso comune del bene.
Allo stesso modo la condotta del condomino che mantenga ferma per lunghi periodi di tempo la sua autovettura nel parcheggio comune manifesta l'intenzione di possedere il bene in maniera esclusiva, trattandosi di un'occupazione stabile di una porzione del posteggio comune. Di conseguenza detta condotta costituisce una sorta di abuso, impedendo agli altri condomini di partecipare all'utilizzo dell'area comune.
In tali ipotesi di uso abnorme delle parti comuni è stata quindi prevista dalla legge di riforma una nuova procedura per reagire all'illegittimo comportamento del condominio. In particolare è prevista non solo la diffida dell'amministratore o del singolo condomino contro l'esecutore (altro condominio, inquilino, comodatario ecc.), ma anche la possibilità per l'amministratore o il condomino di provocare la convocazione dell'assemblea per far cessare la violazione, anche mediante azioni giudiziarie. In ogni caso bisogna sottolineare che l'assemblea (oltre che annualmente in via ordinaria per le deliberazioni indicate dall'art. 1135 del codice) può essere convocata in via straordinaria dall'amministratore quando questi lo ritenga necessario o quando ne sia fatta richiesta da almeno due condomini che rappresentino un sesto del valore dell'edificio.
Decorsi inutilmente 10 giorni dalla richiesta, i detti condomini possono provvedere direttamente alla convocazione. Se poi l'amministratore non è stato nominato, l'assemblea per far cessare la violazione può essere convocata a iniziativa di ciascun condomino. In ogni caso l'assemblea delibera in merito alla cessazione di tali attività lesive della destinazione d'uso delle parti comuni con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio (articolo ItaliaOggi Sette del 31.12.2012).

APPALTI FORNITUREDecreto ministeriale sugli appalti. P.a., nuovi criteri per i veicoli verdi.
Riformulati i criteri ambientali minimi che le pubbliche amministrazioni devono osservare (ex dlgs 24/2011) nell'acquisizione del proprio autoparco.

La rivisitazione delle regole sugli appalti verdi («green public procurement») è prevista dal decreto del ministero dell'ambiente del 30.11.2012 (in G.U. del 13.12.2012, n. 290) attraverso la diretta modifica del dm Ambiente 08.05.2012, il regolamento base recante i criteri ambientali minimi per l'acquisizione dei veicoli adibiti al trasporto su strada.
Trasporto persone e merci. Il nuovo decreto amplia il regime di favore già previsto dal dm 08.05.2012 per gli autoveicoli e i veicoli commerciali leggeri mossi da Gpl o metano. In base ai nuovi parametri, il livello di emissioni inquinanti prodotto da detti veicoli dovrà essere (per la valutazione di ecologicità) calcolato esclusivamente sui dati relativi all'alimentazione da carburante «verde» e non più sulla media aritmetica tra i dati relativi al carburante tradizionale e quello alternativo.
Trasporto rifiuti. Svincolata dal rispetto di parametri ambientali l'acquisizione da parte della p.a. degli automezzi adibiti al trasporto di rifiuti. Con l'aggiunta da parte del dm Ambiente del 30 novembre di una semplice nota al dm 8 maggio viene infatti specificato che tra le «merci» non sono ricompresi i «rifiuti», dal che ne deriva l'esclusione dei relativi mezzi di trasporto dal novero delle vetture che devono rispondere agli standard ambientali minimi per poter essere acquistati o noleggiati dalla p.a.
Gli acquisti. In base al citato dlgs 24/2011 (adottato in recepimento della direttiva 2009/33/Ce sulla promozione dei veicoli verdi) l'obbligo di scegliere i propri mezzi di trasporto su strada tra quelli a ridotto impatto ambientale e basso consumo energetico vale sia per le amministrazioni pubbliche in senso stretto (centrali e locali) che per operatori concessionari di servizi pubblici e soggetti gestori dei servizi di trasporto pubblico di passeggeri. I criteri ecologici dettati dal (rinnovato) dm 08.05.2012 in attuazione del dlgs 24/2011 coincidono con parametri riferibili alle emissioni di biossido di carbonio (CO2), di ossidi di azoto (NOx), di idrocarburi non metanici (NMHC) e particolato nonché all'efficienza energetica e agli altri impatti ambientali previsti dal dm ambiente 11.04.2008 n. 135 (regolamento recante il «Piano d'azione per la sostenibilità ambientale dei consumi nel settore della Pubblica amministrazione»).
La scelta tra i diversi veicoli verdi dovrà dalla p.a. essere effettuata ricorrendo, come imposto dal dlgs 24/2011, a una delle seguenti modalità: normale gara di appalto indetta mediante la predeterminazione degli standard tecnici che i veicoli devono avere sotto il profilo del risparmio energetico e delle ridotte emissioni; oppure, in alternativa, appalto guidato dal criterio dell'aggiudicazione all'«offerta economicamente più vantaggiosa», con scelta determinata quindi dal miglior rapporto qualità (anche ecologica) e prezzo dei beni proposti. Al di fuori dei mezzi di trasporto, è utile ricordarlo, il rispetto dei criteri ecologici ancora non è obbligatorio per l'acquisizione da parte della p.a. dei beni necessari allo svolgimento dei suoi compiti. Sebbene il codice degli appalti (dlgs 163/2003) preveda variabili ambientali tra i parametri di aggiudicazione, la scelta se ricorrervi o meno è lasciata alle amministrazioni appaltanti.
Una spinta sugli acquisti verdi, infine, è arriva invece dall'Ue con la nuova Guida sulla prevenzione della produzione dei rifiuti pubblicata a ottobre 2012 con cui si chiede agli stati membri di promuovere la diffusione dei prodotti provvisti di marchio ecologico (articolo ItaliaOggi Sette del 31.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTINuovi obblighi. In rete i pagamenti ai privati.
Da domani gli obblighi di trasparenza per le amministrazioni pubbliche saliranno da 42 a 43. Vanno online anche i pagamenti ai privati. Devono essere indicati quelli sopra i mille euro, erogati a qualsiasi titolo: appalti, concessioni, consulenze e sovvenzioni varie.

Lo prevede l'articolo 18 del Dl 83/2012.
Un obbligo passato in sordina, ma che sta allarmando molti uffici. L'attuazione, infatti, risulta difficile soprattutto per i grandi centri di spesa. Come il ministero delle Infrastrutture, che affida appalti anche tramite i provveditorati regionali: in che modo e con quale ritmo questi ultimi dovranno far confluire alla sede romana i dati sui propri pagamenti?
La mancata pubblicazione del pagamento «costituisce condizione legale di efficacia del titolo». In altre parole senza la comunicazione online, non si paga. E i funzionari inadempienti ne rispondono anche dal punto di vista patrimoniale e contabile.
Il Governo avrebbe dovuto varare entro oggi un regolamento con le istruzioni, ma non l'ha fatto. Il rischio è che a farne le spese siano le imprese, che, per via delle incertezze, potrebbero subire ulteriori ritardi nei pagamenti. E poco consola l'entrata in vigore, in contemporanea, delle regole sui ritardi che, comunque, fanno scattare gli interessi di mora in modo automatico (articolo Il Sole 24 Ore del 31.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

ATTI AMMINISTRATIVICommissione per l'accesso. L'attività. Dal 2011 basta una mail: ricorsi in crescita del 16%.
Effetto contributo unificato: è, infatti, da imputare anche all'aumento degli importi per la presentazione delle cause davanti ai Tar il fatto che nel 2011 siano cresciuti i ricorsi depositati dai cittadini presso la Commissione per l'accesso con l'obiettivo di costringere le pubbliche amministrazioni a mostrare le carte. Si è passati dai 603 ricorsi del 2010 ai 701 dell'anno scorso, con un incremento del 16 per cento. E questo perché, nonostante siano trascorsi ormai 22 anni dal varo della legge 241 sulla trasparenza degli atti della Pa, molti uffici pubblici continuano a fare resistenza.
I cittadini, però, non si danno per vinti e prima ancora di chiedere udienza davanti ai giudici amministrativi –in questi anni Tar e Consiglio di Stato hanno contribuito a tradurre in pratica i dettami della 241, costringendo a più riprese le amministrazioni a svelare le carte– bussano alla porta della Commissione per l'accesso, istituita nel 1991 presso la Presidenza del Consiglio con l'obiettivo di dare corso al principio ispiratore della legge sulla trasparenza, ovvero garantire a tutti la possibilità di conoscere i documenti in possesso della pubblica amministrazione, così da poter tutelare i propri interessi.
È vero che non tutto ciò che è custodito nei cassetti degli uffici pubblici può essere reso disponibile ai cittadini –ogni amministrazione ha chiarito quali atti possono essere accessibili e quali devono rimanere "segreti"–, ma è altrettanto vero che l'elenco dei documenti conoscibili è lungo e spesso molte di quelle carte vengono tenute nascoste.
Ecco perché nel 2011 la Commissione per l'accesso è stata chiamata in causa a più riprese. E se da una parte ha contribuito la circostanza che il contenzioso davanti ai Tar è diventato più salato, dall'altro c'è il fatto che i ricorsi presso la Commissione non solo sono gratuiti, ma nel 2011 la procedura è diventata completamente digitale, con l'adozione esclusiva del fascicolo elettronico: al cittadino è sufficiente inviare una mail (resta comunque possibile spedire le carte via fax o con raccomandata) all'indirizzo di posta certificata della Commissione (commissione.accesso@mailbox.governo.it) spiegando i motivi delle lamentele. La Commissione deve decidere entro 30 giorni.
Dei 701 ricorsi evasi nel 2011, 200 sono stati accolti, riconoscendo le ragioni del cittadino. L'amministrazione finita nel mirino il maggior numero di volte è stato il ministero dell'Istruzione, oggetto di 108 ricorsi, seguito da Interno e Difesa, rispettivamente oggetto di 93 e 87 contenziosi. È soprattutto dal Centro Italia che sono partiti i ricorsi: quasi il 47 per cento. Ma nella distribuzione geografica delle lamentele gioca un ruolo forte il Lazio, regione dove sono stati depositati 40 ricorsi, il numero più alto del resto della penisola. Ed è intuitivo che un grande peso l'abbia la capitale, "patria" dei ministeri e di molte altre amministrazioni.
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DA VENT'ANNI
La normativa
La legge 241 del 1990 sulla trasparenza amministrativa ha introdotto il diritto di accesso ai documenti amministrativi. La legge è stata modificata più volte, da ultimo con la legge anticorruzione (legge 190/2012)
La composizione
La Commissione per l'accesso, istituita dal 1991 presso la Presidenza del Consiglio, è costituita da due senatori e due deputati, quattro fra magistrati e avvocati dello Stato, due professori universitari in materie giuridico-amministrative, un dirigente dello Stato o di altri enti pubblici, il capo struttura della Presidenza del Consiglio, che dà supporto organizzativo per il funzionamento della Commissione, e cinque esperti (articolo Il Sole 24 Ore del 31.12.2012 - tratto da www.ecostampa.it).

LAVORI PUBBLICIBeni culturali. Pronte le linee guida per i bandi con cui selezionare i privati che finanziano il restauro dei monumenti.
Ricerca degli sponsor in appalto. La scelta dei mecenate potrà essere affidata anche a società di pubblicità.
LA SOGLIA/ Le procedure pubbliche dovranno essere attivate soltanto nel caso di lavori che superino l'importo di 40mila euro.

Attese dalla scorsa primavera e date per fatte in diverse occasioni, ora finalmente ci sono. Le regole per sponsorizzare gli interventi sul patrimonio storico-artistico sono state firmate dal ministro dei Beni culturali, Lorenzo Ornaghi. Ora dovranno superare il vaglio dell'ufficio centrale del bilancio e della Corte dei conti, per poi essere pubblicate sulla «Gazzetta Ufficiale». Il più, comunque, è fatto, anche perché si è trattato di un lavoro poderoso, come dimostra la mole del documento che nelle prossime settimane arriverà sui tavoli dei soprintendenti: una cinquantina di pagine di criteri da seguire ogni volta che si vorrà cercare un mecenate che vorrà contribuire a salvare un monumento.
Come ha fatto Diego Della Valle con il Colosseo. Ed è proprio da quella vicenda, che ha visto il patron della Tod's mettere sul piatto 25 milioni di euro, e delle polemiche conseguenti che è nata l'esigenza di mettere nero su bianco le regole –fino ad allora inesistenti– che aiutassero le soprintendenze nel reclutamento degli sponsor attraverso procedure trasparenti e pubbliche.
Problema a cui si è messo riparo con il decreto semplifica-Italia (Dl 5/2012). Si attendevano, però, dal ministero le indicazioni che armonizzassero la nuova norma con il codice dei Beni culturali e spiegassero ai soprintendenti come applicarla.
«Abbiamo cercato –sottolinea Paolo Carpentieri, capo dell'ufficio legislativo del ministero– di predisporre linee guida che definissero un quadro giuridico chiaro e completo. Per farlo ci siamo messi nei panni degli operatori che avranno a che fare con le nuove regole. Questo ci ha permesso di fare un'analisi preventiva dei possibili problemi applicativi e di approntare un documento che dia le necessarie risposte. Ne è venuto fuori un provvedimento articolato, suddiviso in sei capitoli, che però ci dovrebbe evitare di intervenire successivamente, fornendo volta per volta pareri di fronte ai dubbi dei soprintendenti».
A chi si rivolgono le linee guida? A tutte le amministrazioni pubbliche, statali e non, che hanno in consegna beni culturali. Ovviamente, anche se da un versante diverso, alle nuove regole sono interessati pure i privati. E qui va subito fatta una distinzione. Il provvedimento riguarda le sponsorizzazioni, ovvero l'erogazione di un contributo, anche in beni e servizi, per la progettazione o l'attuazione di iniziative finalizzate a tutelare o valorizzare i beni culturali. Contributo a fronte del quale il mecenate potrà ottenere la promozione del proprio nome, marchio, attività o prodotto dell'attività attraverso varie modalità: per esempio, stampigliando il logo del monumento sui propri biglietti o sulla carta intestata; riproducendo la documentazione del restauro; organizzando visite guidate al cantiere; affiggendo pannelli con il proprio logo sulle impalcature. Riguardo a quest'ultima modalità, le linee guida non danno indicazioni sulla misura dei cartelli, ma raccomandano di non offuscare il profilo del monumento.
La sponsorizzazione è, dunque, fattispecie diversa dall'erogazione liberale, che presuppone pur sempre un intervento da parte del privato sotto forma di denaro, lavori, servizi o forniture. Nel caso dell'erogazione liberale, però, il mecenate non "si aspetta" nulla in cambio, se non i vantaggi fiscali previsti dalla legge. Tutt'al più può aspirare a un beneficio puramente morale o a quello che può derivare dal "pubblico ringraziamento" per aver salvato un monumento. Dunque, l'erogazione liberale non ha bisogno della gara e non è sottoposta alle linee guida.
Queste ultime chiariscono che la sponsorizzazione può essere di tre tipi: pura (solo finanziaria), tecnica (lo sponsor si accolla la progettazione e i lavori) o mista (un mix delle prime due). La necessità di procedere alla selezione pubblica del mecenate scatta per tutte le sponsorizzazioni oltre 40mila euro e deve essere praticata anche quando il contributo del privato prevede forniture e servizi, purché questi ultimi siano sempre strumentali ai lavori. In altre parole, se si tratta di una sponsorizzazione solo in termini di servizi e forniture, le linee guida non vanno applicate, anche se si supera il tetto dei 40mila euro.
Le soprintendenze potranno affidare la ricerca dello sponsor anche a società esterne (per esempio, società di pubblicità), che dovranno essere scelte attraverso una pubblica selezione. Il mandato dovrà essere circoscritto nel tempo (per esempio, un anno) o limitato a interventi su un monumento o su un insieme di beni.
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I CHIARIMENTI PER LE SOPRINTENDENZE
La riforma
La regolamentazione delle sponsorizzazioni in campo culturale è stata introdotta con l'inserimento –previsto dall'articolo 20 del Dl 5/2012 ("semplifica Italia")– dell'articolo 199-bis nel codice dei contratti pubblici (Dlgs 163/2006). La nuova disposizione prevede che la ricerca dello sponsor avvenga attraverso un bando pubblico, di cui si specificano le modalità. Nel caso il bando vada deserto, le soprintendenze possono procedere alla ricerca diretta dello sponsor
Le linee guida
È stato lo stesso Dl 5/2012 a prevedere che il ministero mettesse a punto linee guida per spiegare alle soprintendenze come applicare le nuove regole sulle sponsorizzazioni. Il documento sarebbe dovuto essere pronto entro metà aprile. Più volte annunciato, il ministro Ornaghi l'ha firmato il 19 dicembre
Il cambio di prospettiva
Le linee guida chiedono alle soprintendenze di mutare prospettiva. Finora, infatti, hanno tenuto un atteggiamento passivo, attendendo che i privati si facessero avanti per proporre la sponsorizzazione di un restauro. D'ora in avanti devono farsi propositive. E questo attraverso la predisposizione di un piano triennale, da aggiornare ogni anno, in cui indicare gli interventi che necessitano del contributo dei privati e attivandosi per la ricerca degli sponsor attraverso la pubblicazione sui propri siti dei beni da tutelare o valorizzare
Adeguarsi al mercato
Si raccomanda alle soprintendenze di parametrare l'importo della sponsorizzazione anche al valore di mercato delle controprestazioni offerte, che dipende dalla fama del monumento su cui si interviene. Finora ci si è regolati sul costo dei lavori, che spesso si discosta molto dal valore che, in termini di immagine, lo sponsor può ricavarne
I bandi tipo
Le linee guida non contengono il modello del bando per la selezione dello sponsor.
Si tratterà di un prossimo passaggio, che il ministero dei Beni culturali dovrà mettere a punto con il ministero delle Infrastrutture e con l'Authority sui contratti pubblici (articolo Il Sole 24 Ore del 31.12.2012).

PUBBLICO IMPIEGOSostegno alla genitorialità. Per i permessi legati alle malattie del minore, la certificazione arriverà telematicamente dal medico del Ssn all'Inps e dall'Istituto al datore.
Il congedo parentale si utilizza anche a ore. La contrattazione collettiva dovrà fissare le modalità di fruizione e i criteri di calcolo della base oraria.

Il quadro normativo sui congedi parentali si è arricchito di importanti novità con alcune recenti disposizioni legislative: si tratta di "aggiustamenti" mirati che consentono una fruizione più flessibile dei permessi e –in alcuni casi– un allargamento della platea. Dopo gli interventi della riforma del lavoro (si veda l'articolo a lato), anche il secondo decreto sulla crescita (Dl 179/2012, convertito dalla legge 221/2012) e quello anti-infrazioni Ue (Dl 216/2012, confluito nella conversione in legge del Ddl stabilità 2013) hanno infatti apportato alcuni ritocchi alla materia.
Certificati medici
Con il Dl 179/2012, nel solco della telematizzazione delle certificazioni di malattia, è stata semplificata la gestione operativa dei certificati medici per l'assenza del lavoratore a causa della malattia del figlio (articoli 47 e 51 del Dlgs 151/2001), che dovrà essere inviata per via telematica all'Inps direttamente dal medico del Ssn che ha in cura il minore, per poi essere inoltrata ai datori di lavoro interessati – attraverso il sistema già attivo per la trasmissioni dei certificati medici di malattia dei dipendenti – e all'indirizzo di posta elettronica della lavoratrice o del lavoratore che ne facciano richiesta.
Il campo toccato dalla modifica si riferisce ai congedi per la malattia del bambino: questa tipologia di permessi spetta alla madre o, in alternativa, al padre nei primi tre anni di vita del bambino, senza limiti di tempo. Viceversa, si possono richiedere solo cinque giorni lavorativi all'anno, per ciascun genitore (per un totale di 10 giorni), se il bambino ha un'età compresa fra quattro e otto anni.
Lo stato di malattia deve appunto essere documentato con certificato del medico specialista del Ssn o con questo convenzionato. Peraltro, le regole di fruizione dei congedi sono di solito disciplinate dai contratti collettivi nazionali di lavoro e i permessi non possono essere fruiti contemporaneamente dai due genitori, dovendo attestare che l'altro genitore non è in permesso per la stessa causale nelle stesse giornate. Tutti questi congedi sono goduti sotto forma di permessi non retribuiti e non hanno riflesso sulle mensilità aggiuntive, pur essendo computati nel l'anzianità di servizio. Condizioni migliori sono previste per i dipendenti pubblici.
Per la piena operatività della modifica, si dovrà comunque attendere l'emanazione di un Dpcm, di concerto con Pa-Lavoro-Economia-Salute e previo parere del Garante della privacy, che entro il 30.06.2013 dovrà adottare le disposizioni attuative sulle modalità di trasmissione delle certificazioni della malattia del minore e la definizione del modello stesso di certificazione.
È invece già scattato, dalla conversione in legge del Dl 179/2012, l'obbligo dei lavoratori di comunicare al medico, all'atto della compilazione dei certificati dei figli, le proprie generalità, per fruire del congedo.
Infine, sempre il decreto crescita (articolo 7), ha equiparato la modalità di trasmissione telematica delle certificazioni di malattia delle assenze nel settore pubblico con quelle già in vigore nel settore privato.
Fruizione a ore
L'altra modifica legislativa è quella operata dalla legge di stabilità, che ha recepito le modifiche disposte dal Dl 216/2012 attuativo della direttiva 2010/18/Ue: in questo caso è stato realizzato un maquillage all'articolo 32 del Dlgs 151/2001 in materia di congedo parentale, attraverso due interventi. Il primo consente la fruizione dei congedi anche a ore a partire dal 01.01.2013, secondo le disposizioni che saranno adottate dai Ccnl, che dovranno individuare le modalità di fruizione e i criteri di calcolo della base oraria. Si tratta dei congedi che spettano a ciascun genitore lavoratore, nei primi otto anni di vita del bambino, fino a un periodo massimo di sei mesi di astensione (continuativo o frazionato). In ogni caso, l'astensione totale di entrambi i genitori non può eccedere i dieci mesi.
Con la seconda modifica, è stato poi precisato che la comunicazione con cui il lavoratore è tenuto a preavvisare il datore di lavoro sull'intenzione di fruire del periodo di congedo parentale (almeno 15 giorni prima) deve contenere anche l'indicazione dell'inizio e della fine del periodo di congedo. Durante questo periodo, potranno essere anche concordate adeguate misure di ripresa dell'attività lavorativa, osservando quanto eventualmente disposto dai Ccnl (articolo Il Sole 24 Ore del 31.12.2012).

APPALTIContratti. Le amministrazioni devono adeguare i regolamenti anche tramite i riferimenti al Codice della Pa digitale.
Corsia telematica per gli appalti. Dal 1° gennaio la stipula in forma cartacea è permessa solo in via residuale.
IL DEPOSITO/ Per l'atto pubblico informatico i notai possono utilizzare per il momento la struttura predisposta dal consiglio nazionale.

I contratti di appalto devono avere forma scritta e la loro stipulazione deve avvenire con modalità elettroniche o, in via residuale, cartacee.
Tra le novità in tema di informatizzazione degli atti e dei documenti contenute nella legge 221/2012 (di conversione del Dl 179/2012) assume notevole rilevanza per le stazioni appaltanti quanto previsto dall'articolo 6, comma 3.
La disposizione riformula infatti l'ultimo comma (il 13) del l'articolo 11 del Dlgs 163/2006, il quale, sin dalla versione originaria del Codice appalti, disciplina le modalità di stipulazione dei contratti.
La vecchia norma stabiliva che il contratto poteva essere stipulato mediante atto pubblico notarile, o mediante forma pubblica amministrativa a cura dell'ufficiale rogante del l'amministrazione aggiudicatrice, oppure mediante scrittura privata, oltre che in forma elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione appaltante.
La forma elettronica risultava quindi alternativa a quelle tradizionali.
La nuova disposizione, introdotta dal decreto sviluppo, stabilisce invece che il contratto è stipulato, a pena di nullità, con atto pubblico notarile informatico, oppure in modalità elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione appaltante, in forma pubblica amministrativa a cura dell'ufficiale rogante del l'amministrazione aggiudicatrice o mediante scrittura privata.
Il primo elemento rilevante è l'esplicitazione della sanzione della nullità per i contratti di appalto e di cottimo fiduciario non stipulati in forma scritta (indipendentemente dalle modalità prescelte), la quale viene confermata e rafforzata come requisito sostanziale per l'atto pattizio.
Tuttavia il profilo di maggior impatto, destinato a incidere sull'attività contrattuale delle amministrazioni aggiudicatrici a partire dal 01.01.2013 (data di efficacia dell'innovazione normativa, come esplicitato dallo stesso articolo 6, comma 4, della legge 221/2012), è la nuova regolamentazione delle forme specifiche della stipulazione.
Questa può aversi anzitutto con atto pubblico notarile informatico (per la cui conservazione i notai possono utilizzare in via transitoria la struttura predisposta dal Consiglio del notariato), al quale è posta in alternativa la forma pubblica amministrativa, con la sola modalità elettronica secondo le norme vigenti per ciascuna stazione appaltante, a cura dell'ufficiale rogante del l'amministrazione aggiudicatrice (il segretario comunale o provinciale).
Ogni amministrazione dovrà quindi adottare disposizioni regolamentari relative a questa modalità, anche con rinvio a quelle del Codice dell'amministrazione digitale (Dlgs 82/2005).
L'ulteriore alternativa è costituita dalla scrittura privata, per la quale la nuova disposizione non prefigura un analogo vincolo specifico al l'utilizzo esclusivo della modalità elettronica.
Pertanto, i contratti di appalto e di cottimo fiduciario possono essere stipulati anche in modalità cartacea.
Questo profilo si combina con quanto previsto dall'articolo 334, comma 2, del Dpr 207/2010, il quale stabilisce che il contratto affidato mediante cottimo fiduciario è stipulato attraverso scrittura privata, che può anche consistere in apposito scambio di lettere (secondo gli usi del commercio) con cui la stazione appaltante dispone l'ordinazione dei beni o dei servizi.
Ben diversa, invece, è la modalità di formalizzazione del rapporto nel caso di acquisti per spese economali (spese minute e urgenti), per le quali l'Authority sugli appalti ha evidenziato come non siano gestite sulla base di un contratto (determinazione n. 4/2011, punto 8).
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Gli strumenti
01 | ATTO NOTARILE
Va stipulato con l'assistenza da parte di un notaio, e conservato presso una struttura predisposta dal Consiglio nazionale del notariato. La formalizzazione deve avvenire con firma digitale secondo le modalità previste dal Codice dell'amministrazione digitale (Dlgs 82/2005)
02 | SCRITTURA PRIVATA
Non sono previste modalità vincolanti per la stipulazione della scrittura privata, che risulta possibile sia in forma elettronica sia in forma cartacea. La scrittura privata è la forma prevista per i contratti di cottimo fiduciario (articolo Il Sole 24 Ore del 31.12.2012).

GIURISPRUDENZA

PUBBLICO IMPIEGO: Le prestazioni di lavoro straordinario si caratterizzano per essere facoltative ed effettuate in aggiunta al normale orario di lavoro, come tali soggette al potere organizzatorio dell’Amministrazione datrice di lavoro; la pretesa della parte ricorrente sarebbe dunque qualificabile come diritto soggettivo solo in quanto la prestazione sia avvenuta in base ad una deliberazione autorizzativa, valida ed efficace per cui, fino a quando l’Ente non esercita il potere autoritativo di scegliere se ed entro quali limiti autorizzare lo svolgimento di attività di lavoro straordinario, saranno configurabili solo delle posizioni di interesse legittimo, con relativa inammissibilità di azioni di accertamento e di condanna.
In altri termini è possibile estendere al caso di specie il principio per il quale nessun compenso per ulteriori prestazioni, anche facoltative, può essere riconosciuto in assenza di una formale autorizzazione da parte del datore di lavoro, in quanto solo attraverso questa autorizzazione può essere verificata la sussistenza delle ragioni di pubblico interesse che rendono opportuno il ricorso a prestazioni lavorative eccezionali, nel rispetto dell'art. 97 Cost..
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L’organizzazione delle prestazioni di lavoro deve avvenire attraverso la predisposizione di orari e turni, mediante la programmazione dei piani di lavoro e prescrivendo altresì la loro verifica con sistemi obiettivi di controllo degli orari di servizio, tali da assicurare che dette prestazioni siano rese in aggiunta rispetto all’orario nomale; non può neanche dedursi la violazione dell'art. 36 Cost. nella misura in cui salvaguarda il diritto alla retribuzione, atteso che risulta in ogni caso prevalente il canone dell'esigenza di buona amministrazione da cui è permeata la disciplina di settore secondo cui non è possibile prescindere dalla preventiva autorizzazione allo svolgimento di prestazioni lavorative ulteriori, o dal riconoscimento delle stesse ex post per esigenze d'ufficio, ai fini del riconoscimento del diritto del pubblico dipendente al pagamento del relativo compenso.
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Coloro che appartengono ad una categoria di personale svolgente una prestazione lavorativa necessariamente e naturalmente articolata su turni, non hanno titolo per invocare il pagamento di prestazioni straordinarie. Solo l’Amministrazione può deliberare di retribuirle nei limiti preventivamente programmati ed autorizzati, in quanto solo ad essa spetta la valutazione ed il controllo preventivo circa la compatibilità finanziaria nonché, una volta deliberato lo svolgimento di tali prestazioni entro i tetti massimi di ore e di retribuzione, la verifica delle stesse attraverso sistemi obiettivi di controllo degli orari di servizio anche in funzione del conseguimento degli obiettivi prefissati.

In relazione alle pretese azionate con il presente ricorso, la Sezione evidenzia, come in analoghe fattispecie (ex multis, 01.02.2010, n. 26517), che le prestazioni di lavoro straordinario si caratterizzano per essere facoltative ed effettuate in aggiunta al normale orario di lavoro, come tali soggette al potere organizzatorio dell’Amministrazione datrice di lavoro (Cass. Civ., SS. UU., 25.10.1996, n. 9336); la pretesa della parte ricorrente sarebbe dunque qualificabile come diritto soggettivo solo in quanto la prestazione sia avvenuta in base ad una deliberazione autorizzativa, valida ed efficace (TAR Basilicata, 06.08.1999, n. 313) per cui, fino a quando l’Ente non esercita il potere autoritativo di scegliere se ed entro quali limiti autorizzare lo svolgimento di attività di lavoro straordinario, saranno configurabili solo delle posizioni di interesse legittimo, con relativa inammissibilità di azioni di accertamento e di condanna (TAR Basilicata, 29.10.1999, n. 553; 24.09.1999, n. 390). In altri termini è possibile estendere al caso di specie il principio per il quale nessun compenso per ulteriori prestazioni, anche facoltative, può essere riconosciuto in assenza di una formale autorizzazione da parte del datore di lavoro, in quanto solo attraverso questa autorizzazione può essere verificata la sussistenza delle ragioni di pubblico interesse che rendono opportuno il ricorso a prestazioni lavorative eccezionali, nel rispetto dell'art. 97 Cost. (cfr. Consiglio di Stato, V, 9.3.2010, n.1370; n. 844 del 2009; IV, n.2282 del 2007; V, 24.09.1999, n. 1147; IV, 14.02.1994, n. 139; TAR Calabria, Reggio Calabria, 26.03.2001, n. 242; 29.09.2000, n. 1531; TAR Marche, 27.10.1994, n. 292; TAR Toscana, 27.12.1994, n.459).
Il Collegio ritiene in definitiva, con trattazione unitaria dei motivi dedotti in diritto, di aderire all’orientamento secondo il quale l’organizzazione delle prestazioni di lavoro deve avvenire attraverso la predisposizione di orari e turni, mediante la programmazione dei piani di lavoro e prescrivendo altresì la loro verifica con sistemi obiettivi di controllo degli orari di servizio, tali da assicurare che dette prestazioni siano rese in aggiunta rispetto all’orario nomale (Cons. Stato, V, 15.11.1999, n. 1911); non può neanche dedursi la violazione dell'art. 36 Cost. nella misura in cui salvaguarda il diritto alla retribuzione, atteso che risulta in ogni caso prevalente il canone dell'esigenza di buona amministrazione da cui è permeata la disciplina di settore secondo cui non è possibile prescindere dalla preventiva autorizzazione allo svolgimento di prestazioni lavorative ulteriori, o dal riconoscimento delle stesse ex post per esigenze d'ufficio, ai fini del riconoscimento del diritto del pubblico dipendente al pagamento del relativo compenso.
Con riferimento, poi, alla specifica ipotesi del lavoro straordinario prestato da dipendenti che svolgono la loro attività con modalità di turnazione, si ritiene di non discostarsi dalla prevalente giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, V, 23.01.2007, nn. 226 e 218; 01.12.2006, n. 7065; 16.10.2006, n. 6152; TAR Campania, Salerno, II, 28.06.2006, n. 872) secondo la quale coloro che appartengono ad una categoria di personale svolgente una prestazione lavorativa necessariamente e naturalmente articolata su turni, non hanno titolo per invocare il pagamento di prestazioni straordinarie. Solo l’Amministrazione può deliberare di retribuirle nei limiti preventivamente programmati ed autorizzati, in quanto solo ad essa spetta la valutazione ed il controllo preventivo circa la compatibilità finanziaria nonché, una volta deliberato lo svolgimento di tali prestazioni entro i tetti massimi di ore e di retribuzione, la verifica delle stesse attraverso sistemi obiettivi di controllo degli orari di servizio anche in funzione del conseguimento degli obiettivi prefissati (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 04.01.2013 n. 138 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Ai fini della pretesa azionata (ndr: mansioni superiori) –sia in via principale (inquadramento) che correlata (differenze retributive) dalla ricorrente con il presente gravame-, è necessario l'allegazione di un principio di prova circa i presupposti condizionanti la stessa, ovvero, in particolare, l'esistenza di un puntuale incarico formale, validamente conferito nel periodo antecedente alla notifica del gravame, dall'organo competente ed espressamente riferito al richiesto inquadramento.
... per l'annullamento del silenzio-rifiuto sulla richiesta di ricostruzione di carriera, quantificazione degli arretrati e corresponsione di accessori sulle somme spettanti.
...
Secondo la costante giurisprudenza della Sezione in fattispecie analoghe, ai fini della pretesa azionata –sia in via principale (inquadramento) che correlata (differenze retributive) dalla ricorrente con il presente gravame-, è necessario l'allegazione di un principio di prova circa i presupposti condizionanti la stessa, ovvero, in particolare, l'esistenza di un puntuale incarico formale, validamente conferito nel periodo antecedente alla notifica del gravame, dall'organo competente ed espressamente riferito al richiesto inquadramento.
Cosicché, se i riferiti compiti direttivi di segretaria particolare presso la Segreteria del Sindaco, riconducibili alla -superiore rispetto alla rivestita qualifica di applicata- posizione funzionale di capo divisione amministrativo (7° livello) siano state svolte sulla base di un mero ordine di servizio e ripresi in meri schemi di deliberazione, non sussiste il presupposto del provvedimento idoneo a dar titolo all’inquadramento ovvero al trattamento retributivo corrispondente, atteso che le delibere di G.M. n. 3140 del 26.11.1992 e n. 3996 del 28.12.1992, sulle quali si fonda la richiesta della ricorrente, sono state annullate dal Co.Re.Co verbale 146 seduta del 22.12.1992 e verbale 4 seduta del 13.01.1993 (cfr. nota 4472 del 27.05. (Cons. Stato, V, 09.06.2003, n. 3235).
Dalla documentazione in atti, dunque, non si evince che i compiti di capo divisione amministrativa siano stati conferiti per effetto di un puntuale incarico formale, vendo in rilievo meri schemi deliberativi
Ne consegue che la diversa prospettazione, anche in via gradata, di parte ricorrente deve essere respinta, dovendosi dichiarare infondata la pretesa del ricorrente perché la mansioni svolte non erano supportate da un valido ed efficace provvedimento formale d'incarico (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 04.01.2013 n. 127 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: Circa la vendita di un cespite immobiliare.
Il bando di gara prescrive, per la partecipazione, di presentare una dichiarazione unica contenente la dichiarazione di "ben conoscere il cespite immobiliare oggetto dell’asta –per cui intende partecipare– nello stato di fatto e di diritto in cui si trova nonché nello stato manutentivo e conservativo e di giudicare quindi il prezzo fissato a base d’asta congruo e tale da consentire l’aumento che andrà ad offrire” nonché l’“attestazione rilasciata dal responsabile del procedimento di avvenuta presa visione dello stato giuridico del bene cui si intende partecipare”.
Reputa il Collegio che la clausola in esame mira a garantire che i partecipanti alla vendita immobiliare abbiano piena contezza delle caratteristiche del bene che si accingono ad acquistare e che detta partecipazione avvenga in maniera responsabile, mediante la presentazione di offerte aderenti e congrue rispetto al valore effettivo del bene medesimo.
Considerata la finalità cui l’attestazione del responsabile del procedimento assolve, essa non può essere sostituita in maniera equivalente dalla dichiarazione del concorrente di ben conoscere il cespite immobiliare oggetto dell’asta (che, peraltro, il più delle volte si risolve in una clausola di stile inserita nel modello predisposto dall’Amministrazione). Ed invero, la predetta attestazione viene rilasciata da un pubblico ufficiale per documentare che il concorrente ha preso visione di tutta la documentazione in possesso dell’Amministrazione relativa allo stato giuridico dell’immobile, che non è solo quella volta a conoscere la situazione ipotecaria o catastale dello stesso, ma quella atta a documentarne tutta la situazione giuridico-amministrativa (ivi comprese le caratteristiche urbanistiche ed edilizie del bene, la sua destinazione, ecc.).
Per tali ragioni “deve escludersi che la clausola divistata miri ad imporre un ingiustificato aggravio della procedura, dovendosi al contrario ritenere del tutto proporzionata rispetto agli scopi (partecipazione informata delle imprese partecipanti alla gara) che essa mira a realizzare”.
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Tutta la disciplina contenuta nel codice dei contratti pubblici non si applica, per espressa previsione dell’art. 19, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 163/2006, ai contratti pubblici “aventi per oggetto l'acquisto o la locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie, di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali beni”.
Inoltre, l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006 delimita l’ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici ai “contratti delle stazioni appaltanti, degli enti aggiudicatori e dei soggetti aggiudicatori, aventi per oggetto l'acquisizione di servizi, prodotti, lavori e opere”.
Ne deriva che le disposizioni ed i principi contenuti nella normativa regolante le procedure ad evidenza pubblica non possono trovare piana applicazione nelle procedure di dismissione e vendita di beni immobili da parte dello Stato e delle altre Amministrazioni pubbliche, se non quando siano espressamente richiamati negli atti generali che costituiscono la lex specialis autovincolante per l’Amministrazione.

I rilievi sollevati dalla ricorrente principale sono condivisibili.
Al punto 4), rubricato “Documentazione da presentare”, l’Avviso pubblico stabilisce che nella busta n. 1, contenente la documentazione amministrativa, avrebbe dovuto essere inserita una dichiarazione unica, come da fac-simile in allegato B, contenente, tra l’altro, la dichiarazione di “ben conoscere il cespite immobiliare oggetto dell’asta –per cui intende partecipare– nello stato di fatto e di diritto in cui si trova nonché nello stato manutentivo e conservativo e di giudicare quindi il prezzo fissato a base d’asta congruo e tale da consentire l’aumento che andrà ad offrire” nonché l’ “attestazione rilasciata dal responsabile del procedimento di avvenuta presa visione dello stato giuridico del bene cui si intende partecipare”.
La Commissione, nel riammettere in gara la RE.DE. s.r.l., ha ritenuto ultronea ed inutilmente gravatoria del procedimento questa seconda attestazione.
Reputa, invece, il Collegio che la clausola in esame mira a garantire che i partecipanti alla vendita immobiliare abbiano piena contezza delle caratteristiche del bene che si accingono ad acquistare e che detta partecipazione avvenga in maniera responsabile, mediante la presentazione di offerte aderenti e congrue rispetto al valore effettivo del bene medesimo.
Considerata la finalità cui l’attestazione del responsabile del procedimento assolve, essa non può essere sostituita in maniera equivalente dalla dichiarazione del concorrente di ben conoscere il cespite immobiliare oggetto dell’asta (che, peraltro, il più delle volte si risolve in una clausola di stile inserita nel modello predisposto dall’Amministrazione). Ed invero, la predetta attestazione viene rilasciata da un pubblico ufficiale per documentare che il concorrente ha preso visione di tutta la documentazione in possesso dell’Amministrazione relativa allo stato giuridico dell’immobile, che non è solo quella volta a conoscere la situazione ipotecaria o catastale dello stesso, ma quella atta a documentarne tutta la situazione giuridico-amministrativa (ivi comprese le caratteristiche urbanistiche ed edilizie del bene, la sua destinazione, ecc.).
Per tali ragioni “deve escludersi che la clausola divistata miri ad imporre un ingiustificato aggravio della procedura, dovendosi al contrario ritenere del tutto proporzionata rispetto agli scopi (partecipazione informata delle imprese partecipanti alla gara) che essa mira a realizzare” (cfr. TAR Puglia–Lecce, sez. I, 04.06.2012, n. 1025).
Né può sostenersi, nel caso di specie, l’applicazione dell’art. 46, commi 1 ed 1-bis, del d.lgs. n. 163/2001, atteso che tutta la disciplina contenuta nel codice dei contratti pubblici non si applica, per espressa previsione dell’art. 19, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 163/2006, ai contratti pubblici “aventi per oggetto l'acquisto o la locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie, di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali beni”.
Inoltre, l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006 delimita l’ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici ai “contratti delle stazioni appaltanti, degli enti aggiudicatori e dei soggetti aggiudicatori, aventi per oggetto l'acquisizione di servizi, prodotti, lavori e opere”.
Ne deriva che, al contrario di quanto sostenuto dalla ricorrente incidentale, le disposizioni ed i principi contenuti nella normativa regolante le procedure ad evidenza pubblica non possono trovare piana applicazione nelle procedure di dismissione e vendita di beni immobili da parte dello Stato e delle altre Amministrazioni pubbliche, se non quando siano espressamente richiamati negli atti generali che costituiscono la lex specialis autovincolante per l’Amministrazione (TAR Lazio–Roma, sez. II, 22.09.2008, n. 8429).
Nel caso in esame l’avviso d’asta non contiene alcun richiamo alla disciplina contenuta nel d.lgs. n. 163/2006 (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 04.01.2013 n. 22 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Nella comunicazione interpretativa 2006/C 179/02, la Commissione Europea, sintetizzando i principi affermati nel corso degli anni dalla Corte di Giustizia CE in materia di appalti c.d. esclusi, proprio con riferimento alla questione dibattuta nel presente giudizio, ha avuto modo di chiarire che “….Spetta alle amministrazioni aggiudicatrici scegliere il mezzo più adeguato a garantire la pubblicità dei loro appalti. La loro scelta deve essere guidata da una valutazione dell'importanza dell'appalto per il mercato interno, tenuto conto in particolare del suo oggetto, del suo importo nonché delle pratiche abituali nel settore interessato. Quanto più interessante è l'appalto per i potenziali offerenti di altri Stati membri, tanto maggiore deve essere la copertura. In particolare, un'adeguata trasparenza per gli appalti di servizi di cui all'allegato II B della direttiva 2004/18/CE e all'allegato XVII B della direttiva 2004/17/CE il cui importo superi le soglie di applicazione di tali direttive implica di solito la pubblicazione in un mezzo di comunicazione largamente diffuso. Quali forme di pubblicità adeguate e frequentemente utilizzate, è opportuno citare:
- Internet
L'ampia disponibilità e la facilità di utilizzazione di Internet rendono gli avvisi pubblicitari di appalti pubblicati sui siti molto più accessibili, in particolare per le imprese di altri Stati membri e le PMI interessate ad appalti di importo limitato. Internet offre un'ampia gamma di possibilità per la pubblicità degli appalti pubblici.
Gli avvisi pubblicitari sul sito Internet dell'amministrazione aggiudicatrice sono flessibili ed efficaci sotto il profilo dei costi. Essi devono essere presentati in modo che i potenziali offerenti possano venire a conoscenza delle informazioni agevolmente. Le amministrazioni aggiudicatrici possono inoltre prevedere di pubblicare tramite Internet informazioni su future aggiudicazioni di appalti non disciplinate dalle direttive «appalti pubblici» nel quadro del loro profilo di committente.
I portali Internet creati specificamente per gli avvisi pubblicitari di appalti hanno una visibilità più elevata e possono offrire maggiori opzioni di ricerca. Sotto questo profilo, la creazione di una piattaforma specifica per gli appalti di valore limitato con una directory per i bandi di gara con sottoscrizione via e-mail rientra tra le migliori pratiche, in quanto sfrutta appieno le possibilità offerte da Internet per accrescere la trasparenza e l'efficienza….”.
Pur non rivestendo alcun valore normativo, l’opinione autorevole della Commissione Europea costituisce pur sempre una guida per l’interprete, visto che una delle finalità principali degli organismi comunitari in materia di appalti pubblici è proprio quella di rendere sempre più ardua alle stazioni appaltanti nazionali la prassi di pubblicizzare in maniera inadeguata le gare ad evidenza pubblica.
Pertanto, se anche in presenza di appalti di cui all’allegato IIB di importo superiore alla soglia comunitaria la pubblicità del bando sul solo sito internet della stazione appaltante è ritenuta misura adeguata allo scopo, nella specie l’operato dell’amministrazione va esente da qualsiasi rilievo in punto di legittimità e ciò anche in ragione del chiaro disposto dell’art. 20 del Codice dei contratti pubblici (nella specie, peraltro, il bando è stato pubblicato anche sul sito dell’A.V.C.P., a riprova del fatto che la Comunità Montana non aveva alcuna intenzione di rendere “inaccessibile” la presente gara).

La presente controversia ripropone l’annosa questione dell’applicazione delle norme e dei principi delle direttive comunitarie nn. 17 e 18 del 2004 e quindi del D.Lgs. n. 163/2006 agli appalti relativi ai settori ed ai contratti “esclusi”.
Nella specie si tratta di servizio ascrivibile ad una delle categorie menzionate dall’allegato IIB al c.d. Codice dei contratti pubblici, la cui disciplina, come correttamente rilevato dalla stessa ricorrente, è desumibile dagli artt. 20 e 27 del D.Lgs. n. 163/2006.
Peraltro, parte ricorrente, pur muovendo da premesse corrette, non perviene a conclusioni condivisibili, atteso che:
a) nella richiamata comunicazione interpretativa 2006/C 179/02, la Commissione Europea, sintetizzando i principi affermati nel corso degli anni dalla Corte di Giustizia CE in materia di appalti c.d. esclusi, proprio con riferimento alla questione dibattuta nel presente giudizio, ha avuto modo di chiarire che “….Spetta alle amministrazioni aggiudicatrici scegliere il mezzo più adeguato a garantire la pubblicità dei loro appalti. La loro scelta deve essere guidata da una valutazione dell'importanza dell'appalto per il mercato interno, tenuto conto in particolare del suo oggetto, del suo importo nonché delle pratiche abituali nel settore interessato. Quanto più interessante è l'appalto per i potenziali offerenti di altri Stati membri, tanto maggiore deve essere la copertura. In particolare, un'adeguata trasparenza per gli appalti di servizi di cui all'allegato II B della direttiva 2004/18/CE e all'allegato XVII B della direttiva 2004/17/CE il cui importo superi le soglie di applicazione di tali direttive implica di solito la pubblicazione in un mezzo di comunicazione largamente diffuso. Quali forme di pubblicità adeguate e frequentemente utilizzate, è opportuno citare:
- Internet
L'ampia disponibilità e la facilità di utilizzazione di Internet rendono gli avvisi pubblicitari di appalti pubblicati sui siti molto più accessibili, in particolare per le imprese di altri Stati membri e le PMI interessate ad appalti di importo limitato. Internet offre un'ampia gamma di possibilità per la pubblicità degli appalti pubblici.
Gli avvisi pubblicitari sul sito Internet dell'amministrazione aggiudicatrice sono flessibili ed efficaci sotto il profilo dei costi. Essi devono essere presentati in modo che i potenziali offerenti possano venire a conoscenza delle informazioni agevolmente. Le amministrazioni aggiudicatrici possono inoltre prevedere di pubblicare tramite Internet informazioni su future aggiudicazioni di appalti non disciplinate dalle direttive «appalti pubblici» nel quadro del loro profilo di committente.
I portali Internet creati specificamente per gli avvisi pubblicitari di appalti hanno una visibilità più elevata e possono offrire maggiori opzioni di ricerca. Sotto questo profilo, la creazione di una piattaforma specifica per gli appalti di valore limitato con una directory per i bandi di gara con sottoscrizione via e-mail rientra tra le migliori pratiche, in quanto sfrutta appieno le possibilità offerte da Internet per accrescere la trasparenza e l'efficienza….
”. Nel prosieguo, naturalmente, la Commissione cita anche le altre più tradizionali forme di pubblicità, ma non si può fare a meno di notare che proprio il mezzo prescelto nella specie dall’amministrazione intimata è quello menzionato per primo nella comunicazione interpretativa del 01.08.2006;
b) pur non rivestendo alcun valore normativo, l’opinione autorevole della Commissione Europea costituisce pur sempre una guida per l’interprete, visto che una delle finalità principali degli organismi comunitari in materia di appalti pubblici è proprio quella di rendere sempre più ardua alle stazioni appaltanti nazionali la prassi di pubblicizzare in maniera inadeguata le gare ad evidenza pubblica.
Pertanto, se anche in presenza di appalti di cui all’allegato IIB di importo superiore alla soglia comunitaria la pubblicità del bando sul solo sito internet della stazione appaltante è ritenuta misura adeguata allo scopo, nella specie l’operato dell’amministrazione va esente da qualsiasi rilievo in punto di legittimità e ciò anche in ragione del chiaro disposto dell’art. 20 del Codice dei contratti pubblici (nella specie, peraltro, il bando è stato pubblicato anche sul sito dell’A.V.C.P., a riprova del fatto che la Comunità Montana non aveva alcuna intenzione di rendere “inaccessibile” la presente gara);
c) l’amministrazione resistente, anche su questo senza ricevere alcuna smentita dalla ricorrente, ha evidenziato che la forma di pubblicità adottata nel 2012 è la stessa posta in essere negli anni precedenti, in occasione delle procedure in cui è risultata aggiudicataria la cooperativa COOSS. Inoltre, è stato evidenziato che, essendo nota a COOSS la data di scadenza del vigente contratto (31/12/2012), la ricorrente avrebbe dovuto farsi parte diligente per conoscere gli intendimenti della stazione appaltante e la data di pubblicazione del bando relativo alla nuova gara;
d) il Tribunale ritiene che quest’ultimo argomento, che di per sé solo non sarebbe sufficiente a decretare il rigetto del ricorso, nella specie rafforza l’operato dell’amministrazione, non essendovi dubbio alcuno sul fatto che il gestore uscente di un servizio che intenda partecipare alle successive gare indette dalla stessa amministrazione, così come gode, in sede di formulazione dell’offerta, dei vantaggi derivanti dalla c.d. asimmetria informativa rispetto agli altri concorrenti, è per converso tenuto ad una maggiore diligenza in sede di gara, visto che è lecito presumere che egli conosca meglio degli altri partecipanti le regole della procedura e non può quindi normalmente fruire del c.d. soccorso istruttorio;
e) le decisioni del giudice amministrativo richiamate in ricorso si riferiscono a casi in cui la pubblicità della gara era stata interamente omessa dalle stazioni appaltanti, mentre nella specie, come si è chiarito, la pubblicità vi è stata. Parte ricorrente identifica probabilmente la pubblicità prevista dal Codice dei contratti solo con quella attuata con i tradizionali strumenti cartacei, ma questa visione del mondo è ormai da ritenere superata.
Fra l’altro, non si comprende quale sia per un operatore economico, in punto di gravosità degli oneri, la differenza fra la consultazione giornaliera della G.U.R.I. o della G.U.C.E. o dei Bollettini regionali o degli Albi pretori delle amministrazioni aggiudicatrici e la consultazione dei siti internet degli enti aggiudicatori. Tenuto conto dell’esistenza di efficienti motori di ricerca (nonché di siti informatici che hanno quale finalità proprio quella di segnalare alle ditte interessate gli appalti più significativi) è anzi da ritenere più agevole per un operatore economico la consultazione dei siti informatici piuttosto che delle tradizionali pubblicazioni cartacee;
f) la disposizione di cui all’art. 27, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. n. 163/2006 si riferisce ovviamente a casi in cui il bando non è pubblicato, non essendo logico e ragionevole prescrivere un doppio onere a carico delle stazioni appaltanti, ossia la previa pubblicazione del bando e, laddove pervenga un numero di manifestazioni di interesse o di offerte inferiore a cinque, l’estensione dell’invito ad altri operatori (i quali verrebbero fra l’altro individuati secondo criteri non meglio definiti), in modo che si abbiano comunque cinque concorrenti;
g) per tutto quanto detto in precedenza, va anche respinta la censura con cui si deduce il difetto di motivazione. In effetti, poiché la forma di pubblicità prescelta rientra fra quelle ammissibili e poiché le stesse vanno ritenute equipollenti fra loro, la decisione della Comunità Montana non necessitava sul punto di specifica motivazione.
Peraltro, la motivazione è stata indirettamente esposta dalla difesa dell’amministrazione, laddove ha evidenziato che anche negli anni passati i bandi erano stati pubblicati solo sul sito informatico dell’ente (TAR Marche, sentenza 04.01.2013 n. 1 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La revoca, come anche l’annullamento, d’ufficio di un titolo edilizio richiede la comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della Legge 241/1990, essendo essa un atto discrezionale suscettibile di ledere posizioni soggettive consolidate.
Considerato:
- che con il provvedimento impugnato il Dirigente del Settore Urbanistica ed Edilizia Privata del Comune resistente ha revocato la concessione edilizia n. 471 rilasciata al condominio ricorrente il 22.07.1987;
- che, per giurisprudenza pacifica, la revoca, come anche l’annullamento, d’ufficio di un titolo edilizio richiede la comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della Legge 241/1990, essendo essa un atto discrezionale suscettibile di ledere posizioni soggettive consolidate (in senso conforme, TAR Salerno, sez. I, 27.02.2012, n. 391; Cons. Giust. Amm. Sicilia, sez. giurisd., 12.11.2008, n. 930);
- che, nel caso di specie, non può trovare applicazione l’art. 21-octies, comma 2, Legge 241/1990, stante la natura discrezionale del potere esercitato dall’amministrazione comunale;
- che pertanto il ricorso va accolto, attesa l’illegittimità dell’impugnato provvedimento di revoca per non essere stato preceduto dalla comunicazione dell’avvio del procedimento (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 04.01.2013 n. 1 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOCASSAZIONE/ Decisione unilaterale giustificata dall'urgenza: rimborsate le spese. Condomini, telecamere libere. Chi vuole proteggersi dai furti non ha bisogno del voto.
Meno privacy nei condomini. Infatti, il condomino può installare, senza preventivo consenso dell'assemblea, una telecamera nel parcheggio oggetto di furti. Non solo. Si tratta di una decisione unilaterale giustificata dall'urgenza che dà quindi diritto al rimborso delle spese sostenute.
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 03.01.2013 n. 71.
In particolare la seconda sezione civile del Palazzaccio ha respinto il ricorso di un consorzio che lamentava l'installazione da parte di un altro condomino, senza autorizzazione degli altri proprietari. L'impianto era stato fatto perché l'area era stata spesso oggetto di furto. Quindi il giudice di pace aveva considerato la spesa affrontata da un solo proprietario urgente e quindi rimborsabile. Non solo, ad avviso del magistrato onorario non poteva ravvisarsi alcuna violazione della privacy.
L'impianto della motivazione di merito è stato integralmente confermato dalla Suprema corte che, su quest'ultimo fronte ha ricordato che «non sussistono gli estremi atti ad integrare il delitto di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis cod. pen.) nel caso in cui un soggetto effettui riprese dell'area condominiale destinata a parcheggio e del relativo ingresso, trattandosi di luoghi destinati all'uso di un numero indeterminato di persone e, pertanto, esclusi dalla tutela di cui all'art. 615-bis cod. pen., la quale concerne, sia che si tratti di «domicilio», di «privata dimora» o «appartenenze di essi», una particolare relazione del soggetto con l'ambiente in cui egli vive la sua vita privata, in modo da sottrarla ad ingerenze esterne indipendentemente dalla sua presenza».
Per quanto concerne invece il rimborso delle spese sostenute in via d'urgenza, i giudici con l'Ermellino hanno, anche in questo caso, confermato il verdetto del giudice di pace ritenendo sussistente il diritto al rimborso da parte del condomino.
Infatti, si legge in sentenza, «il ricorrente, con il primo motivo, pur facendo genericamente riferimento ad un principio del nostro ordinamento in tema di spese condominiali, ha, in concreto, lamentato a tale riguardo la sola violazione della norma di cui all'art. 1134 cod. civ., dolendosi della non ricorrenza dei presupposti per l'anticipazione e la rimborsabilità di spese condominiali, senza peraltro neppure dedurre come la regola equitativa individuata dal giudice di pace si ponga in contrasto con il predetto principio; né peraltro allega che il supposto principio desunto dall'art. 1134 cod. civ. sia anche un principio informatore della materia né tanto è allegato in relazione al pur invocato principio di tutela di riservatezza e della privacy» (articolo ItaliaOggi del 04.01.2013).

CONSIGLIERI COMUNALI: Ai fini della rimozione della causa d’incompatibilità per lite pendente, prevista dall’art. 63, comma 1, n. 4, d.lgs. 267/2000, è necessario e sufficiente che il soggetto, il quale versi in una siffatta situazione, ponga in essere atti idonei, anche se non formalmente perfetti rispetto alla specifica disciplina che eventualmente li regoli, a far venir meno nella sostanza l’incompatibilità d’interessi realizzatasi a seguito dell’instaurazione della lite medesima.
E poiché il sostanziale e incondizionato abbandono della vertenza elimina in radice la ragione di incompatibilità, la causa d’incompatibilità per lite pendente può essere esclusa in presenza di atti implicanti il sostanziale venir meno del conflitto, o il carattere pretestuoso della lite, inteso come artificiosa e maliziosa creazione o conservazione di una situazione di fatto diretta a danneggiare l’eletto.

Anche il quarto motivo non convince.
Dalla documentazione allegata dall'amministrazione resistente si ricava che con nota in data 14.07.2011, n. 23967 (quindi in data antecedente alla prima seduta consiliare del 15.07.del 1011) il consigliere O.E. ha rinunciato al giudizio pendente innanzi a questo Tribunale. La rinuncia al giudizio non è condizionata dall'accettazione delle controparti, per cui alla data della seduta del Consiglio Comunale era venuto meno il presupposto della lite pendente e, quindi, la necessità di dar corso alla procedura di contestazione dell'incompatibilità da parte del consiglio comunale ai sensi dell'articolo 69 del decreto legislativo 267/2000.
Peraltro al riguardo è opportuno osservare che secondo la prevalente giurisprudenza “ai fini della rimozione della causa d’incompatibilità per lite pendente, prevista dall’art. 63, comma 1, n. 4, d.lgs. 267/2000, è necessario e sufficiente che il soggetto, il quale versi in una siffatta situazione, ponga in essere atti idonei, anche se non formalmente perfetti rispetto alla specifica disciplina che eventualmente li regoli, a far venir meno nella sostanza l’incompatibilità d’interessi realizzatasi a seguito dell’instaurazione della lite medesima. E poiché il sostanziale e incondizionato abbandono della vertenza elimina in radice la ragione di incompatibilità, la causa d’incompatibilità per lite pendente può essere esclusa in presenza di atti implicanti il sostanziale venir meno del conflitto, o il carattere pretestuoso della lite, inteso come artificiosa e maliziosa creazione o conservazione di una situazione di fatto diretta a danneggiare l’eletto” (ex plurimis, Corte di Cassazione, sez. I. 12.02.2008, n. 3384)
La legittimità della condotta tenuta dall'amministrazione in virtù di quanto sopra considerato non influisce, quindi, sulla successiva delibera del Consiglio Comunale del 25.07.2011, n. 18, che pertanto deve essere ritenuta legittima (quinto motivo) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 03.01.2013 n. 8 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALILa giurisprudenza amministrativa ha elaborato una serie di ipotesi che comportano l’esclusione dei candidati (ndr: alle elezioni amministrative) per invalidità della autentica, tra cui è prevista la nullità della dichiarazione di accettazione della candidatura per mancanza assoluta della autentica; e tanto in considerazione della circostanza che la autenticazione, nelle operazioni di presentazione delle liste dei candidati, è requisito prescritto ad substantiam, per garantire la certezza della provenienza delle dichiarazioni.
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Secondo l'art. 21, comma 2, del d.P.R. 28.12.2000, n. 445 “l'autenticazione è redatta di seguito alla sottoscrizione e il pubblico ufficiale, che autentica, attesta che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza, previo accertamento dell'identità del dichiarante, indicando le modalità di identificazione, la data ed il luogo di autenticazione, il proprio nome, cognome e la qualifica rivestita, nonché apponendo la propria firma e il timbro dell'ufficio”.
Sotto il profilo sostanziale è, quindi, essenziale il corretto accertamento della identità della persona che sottoscrive (fase accertativa): che può avvenire o per conoscenza diretta o sulla base di un documento identificativo del sottoscrittore.
Sotto il profilo formale (fase certificativa) la correttezza del riconoscimento è attestata, in particolare, dalla descrizione sintetica di modalità identificative utili ad evidenziare il rispetto di dette garanzie.
In questa prospettiva l'autenticazione non costituisce un semplice mezzo di prova, ma è un requisito prescritto ad substantiam, per garantire, nell'interesse pubblico con il vincolo della fede privilegiata, la certezza della provenienza della presentazione della lista da parte di chi figura averla sottoscritta.
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Alla stregua della legislazione attualmente vigente, essendo ogni persona individuata nella sua unicità attraverso i dati anagrafici (cognome, nome, luogo e data di nascita) è evidente che tali dati debbano essere indefettibilmente rilevati e riferiti al fine di stabilire chi esattamente sia la persona che appone la sottoscrizione; tale specificazione è un presupposto dell'identificazione, ossia del riconoscimento del candidato.
Sicché la autenticazione effettuata con attestazione dei dati anagrafici di persona diversa, viola il disposto dell'art. 21 del d.P.R. n. 445/2000, che impone al pubblico ufficiale autenticante di accertare l'identità di chi sottoscrive.
Torna utile osservare che la necessità della autentica della dichiarazione di accettazione delle candidature è prevista dall'articolo 32, comma 9, n. 2 del TU n. 570/1960; ed il TU citato non prevede la sanzione di inammissibilità della candidatura per il solo caso della irregolarità formale nell'autentica, disponendo l'art. 33, lettera c), del detto TU che l'Ufficio deve eliminare i candidati: “...per i quali manca o è incompleta la dichiarazione di accettazione di cui all'art. 32, comma 9, n. 2” .
In proposito la giurisprudenza amministrativa ha elaborato una serie di ipotesi che comportano l’esclusione dei candidati per invalidità della autentica, tra cui è prevista la nullità della dichiarazione di accettazione della candidatura per mancanza assoluta della autentica (cfr. Consiglio di Stato, n. 282/1998); e tanto in considerazione della circostanza che la autenticazione, nelle operazioni di presentazione delle liste dei candidati, è requisito prescritto ad substantiam, per garantire la certezza della provenienza delle dichiarazioni.
Invero, il caso di specie deve ritenersi equiparato alla nullità per mancanza assoluta della autentica, tale essendo quest’ultima che si riferisce ad un soggetto (che se pur omonimo) appare diverso in relazione alla data di nascita e residenza indicate, in modo da comportare una incertezza in ordine al candidato che è stato identificato dal pubblico ufficiale autenticante.
Al riguardo, è utile ricordare che secondo l'art. 21, comma 2, del d.P.R. 28.12.2000, n. 445 “l'autenticazione è redatta di seguito alla sottoscrizione e il pubblico ufficiale, che autentica, attesta che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza, previo accertamento dell'identità del dichiarante, indicando le modalità di identificazione, la data ed il luogo di autenticazione, il proprio nome, cognome e la qualifica rivestita, nonché apponendo la propria firma e il timbro dell'ufficio”.
Sotto il profilo sostanziale è, quindi, essenziale il corretto accertamento della identità della persona che sottoscrive (fase accertativa): che può avvenire o per conoscenza diretta o sulla base di un documento identificativo del sottoscrittore.
Sotto il profilo formale (fase certificativa) la correttezza del riconoscimento è attestata, in particolare, dalla descrizione sintetica di modalità identificative utili ad evidenziare il rispetto di dette garanzie.
In questa prospettiva l'autenticazione non costituisce un semplice mezzo di prova, ma è un requisito prescritto ad substantiam, per garantire, nell'interesse pubblico con il vincolo della fede privilegiata, la certezza della provenienza della presentazione della lista da parte di chi figura averla sottoscritta.
Nel caso di specie la difesa dei ricorrenti, anche nel corso della discussione di merito, ha evidenziato come la correttezza dell’attività identificativa non sia stata adeguatamente assicurata dalla identificazione di un omonimo con data di nascita e residenza diversa rispetto a quelli effettivi del soggetto che aveva inteso effettivamente candidarsi con la lista “Uniti per San Marcellino”. Tanto da prospettare al Collegio, addirittura, la possibilità di disporre la sospensione del processo e l’assegnazione di un termine per proporre la querela di falso avverso tale autenticazione.
Al riguardo è sufficiente osservare come la carenza di completezza dell'autenticazione costituisce un elemento di invalidità della stessa senza che rilevi, nella specie, un onere di querela di falso.
Peraltro è utile osservare che l'efficacia probatoria che l'art. 2700 c.c. riconosce all'atto pubblico “fino a querela di falso” riguarda la provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché le dichiarazioni e gli altri fatti che il pubblico ufficiale dichiari avvenuti in sua presenza, ma non si estende al contenuto sostanziale delle dichiarazioni, che può essere contestato senza ricorrere alla querela di falso (cfr. Consiglio Stato sez. IV, 10.07.1996, n. 833; idem, 04.09.1996, n. 1009; idem, sez. V, 18.06.2001, n. 3212).
Sulla base di quanto considerato si ritiene ad ogni modo che l'errore compiuto nella autenticazione della firma del candidato Bamundo Michele non riveste carattere puramente formale, ma che abbia consistenza sostanziale e valenza incisiva tale da invalidare l'accettazione della candidatura dello stesso.
Invero, come già osservato in analoghe occasioni da questo Tribunale la certezza privilegiata che assiste le sottoscrizioni autenticate presuppone in via primaria ed essenziale, il riscontro incontrovertibile e sicuro della identità del candidato; per cui, ove detto riscontro sia stato carente o tale da ingenerare obiettiva incertezza, l'affermazione della genuinità della firma, in cui l'autentica stessa si risolve, perde valore.
Alla stregua della legislazione attualmente vigente, essendo ogni persona individuata nella sua unicità attraverso i dati anagrafici (cognome, nome, luogo e data di nascita) è evidente che tali dati debbano essere indefettibilmente rilevati e riferiti al fine di stabilire chi esattamente sia la persona che appone la sottoscrizione; tale specificazione è un presupposto dell'identificazione, ossia del riconoscimento del candidato.
Sicché la autenticazione effettuata con attestazione dei dati anagrafici di persona diversa, viola il disposto dell'art. 21 del d.P.R. n. 445/2000, che impone al pubblico ufficiale autenticante di accertare l'identità di chi sottoscrive.
Il pubblico ufficiale, invero, al momento della apposizione della propria firma in calce alla autentica, avrebbe dovuto rilevare l'incongruità tra il nome del candidato (della cui identità egli aveva dichiarato essere certo) e i dati anagrafici inseriti nella autentica, ed effettuare nell'immediatezza la correzione. Anche a voler ammettere che al momento della compilazione del modulo sia stato compiuto un errore materiale, lo stesso si è tradotto, subito dopo al momento della apposizione della firma per autentica del pubblico ufficiale, in un difetto assoluto di identificazione del soggetto che aveva apposto la sottoscrizione.
La autenticazione effettuata con riferimento ai dati anagrafici di soggetto diverso dal candidato della lista vincitrice si traduce, quindi, in un vizio formale che comporta invalidità sostanziale della autenticazione, che non può risolversi in mera irregolarità.
Il difetto della accettazione della candidatura, tuttavia, essendo riferibile ad un unico candidato non può comportare nel caso di specie l’esclusione della lista, ma solo la cancellazione del nome del candidato stesso (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 03.01.2013 n. 7 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Al fine di assicurare imparzialità, pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa, le sedute di una commissione di gara devono ispirarsi al principio di concentrazione e di continuità, nel senso che le operazioni di esame delle offerte tecniche devono essere racchiuse possibilmente in una sola seduta, senza soluzione di continuità, proprio al fine di prevenire influenze esterne ed assicurare l’indipendenza del giudizio.
Se è anche vero che tale principio può conoscere delle eccezioni, ad esempio per la complessità delle operazioni di gara o per il numero delle offerte presentate, resta tuttavia fermo che l’intervallo tra una seduta e l’altra deve essere minimo e che debbono essere fornite adeguate garanzie di conservazione dei plichi.
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A fronte di una verbalizzazione non già incompleta ma del tutto mancante, e nel quadro di una procedura protrattasi ingiustificatamente per lunghi mesi e nella quale i plichi contenenti le offerte tecniche erano stati aperti in seduta riservata, il Collegio è dell’avviso che non debba essere la parte ricorrente a dimostrare l’effettiva manomissione dei plichi ma, piuttosto, la stazione appaltante a dare prova dell’integrità delle buste e della correttezza delle valutazioni compiute.

V
a ricordato come in linea generale, al fine di assicurare imparzialità, pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa, le sedute di una commissione di gara devono ispirarsi al principio di concentrazione e di continuità, nel senso che le operazioni di esame delle offerte tecniche devono essere racchiuse possibilmente in una sola seduta, senza soluzione di continuità, proprio al fine di prevenire influenze esterne ed assicurare l’indipendenza del giudizio.
Se è anche vero che tale principio può conoscere delle eccezioni, ad esempio per la complessità delle operazioni di gara o per il numero delle offerte presentate, resta tuttavia fermo che l’intervallo tra una seduta e l’altra deve essere minimo e che debbono essere fornite adeguate garanzie di conservazione dei plichi (v. Cons. St., V, n. 8155/2010).
Nel caso di specie, non solo non è stata fornita alcuna giustificazione in ordine a tale vistosa eccezione alla regola generale ma, passando all’altra censura, nulla è stato verbalizzato circa le modalità di conservazione dei plichi né è stato indicato un soggetto responsabile della custodia, a conferma di una procedura che, nell’insieme, si è caratterizzata per la scarsa trasparenza.
Va precisato che, a fronte di una verbalizzazione non già incompleta ma del tutto mancante, e nel quadro di una procedura protrattasi ingiustificatamente per lunghi mesi e nella quale i plichi contenenti le offerte tecniche erano stati aperti in seduta riservata, il Collegio è dell’avviso che non debba essere la parte ricorrente a dimostrare l’effettiva manomissione dei plichi ma, piuttosto, la stazione appaltante a dare prova dell’integrità delle buste e della correttezza delle valutazioni compiute. Prova che non è stata data in alcun modo
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 31.12.2012 n. 6714 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANello schema giuridico delineato dall'art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo dell’abuso edilizio costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione, soprattutto quando, come nella specie, è decorso un breve periodo di tempo tra la realizzazione delle opere e l’emissione dei provvedimenti sanzionatori.
In definitiva, l’ingiunzione di demolizione può ritenersi sufficientemente motivata per effetto della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.
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L'individuazione dell'area di pertinenza della "res abusiva" non deve necessariamente compiersi al momento dell'emanazione dell'ingiunzione di demolizione, bensì nel provvedimento successivo con il quale viene accertata l'inottemperanza e si procede all'acquisizione gratuita del bene al patrimonio del comune, ai sensi dell'art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001.
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L’ordinanza di sospensione dei lavori ha contenuto equipollente alla comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio.
Inoltre, alla luce della documentazione depositata in giudizio, il contenuto dell’ingiunzione finale di demolizione non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, sicché la partecipazione degli interessati non sarebbe stata comunque utile a determinare un diverso esito del procedimento sanzionatorio, secondo il disposto dall’art. 21-octies della L. n. 241/1990, introdotto dalla L. n. 15/2005.

Circa il presunto difetto di motivazione, va osservato che nello schema giuridico delineato dall'art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo dell’abuso edilizio costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione, soprattutto quando, come nella specie, è decorso un breve periodo di tempo tra la realizzazione delle opere e l’emissione dei provvedimenti sanzionatori (cfr. TAR Campania, Sezione II, 23.04.2007 n. 4229; Sezione IV, 24.09.2002, n. 5556; Consiglio Stato, Sezione IV, 27.04.2004, n. 2529). In definitiva, l’ingiunzione di demolizione può ritenersi sufficientemente motivata per effetto della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.
Anche l’ulteriore censura è destituita di fondamento, atteso che, come chiarito pacificamente in giurisprudenza, l'individuazione dell'area di pertinenza della "res abusiva" non deve necessariamente compiersi al momento dell'emanazione dell'ingiunzione di demolizione, bensì nel provvedimento successivo con il quale viene accertata l'inottemperanza e si procede all'acquisizione gratuita del bene al patrimonio del comune, ai sensi dell'art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 (cfr., per tutte, TAR Campania, Sezione III, 08.09.2006, n. 7986).
Le considerazioni fin qui svolte permettono di superare anche la residua censura, ove è dedotta la violazione dell’art. 7 della L. n. 241/1990, per l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento.
Invero, il Collegio osserva che l’ordinanza di sospensione dei lavori (nel caso di specie spedita il 02.03.2005) ha contenuto equipollente alla comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio. Inoltre, alla luce della documentazione depositata in giudizio, il contenuto dell’ingiunzione finale di demolizione non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, sicché la partecipazione degli interessati non sarebbe stata comunque utile a determinare un diverso esito del procedimento sanzionatorio, secondo il disposto dall’art. 21-octies della L. n. 241/1990, introdotto dalla L. n. 15/2005 (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 29.12.2012 n. 5382 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini della qualificazione di una costruzione, rilevano le caratteristiche oggettive della stessa, prescindendosi dall’intento dichiarato dal privato di voler destinare l’opera ad utilizzazioni più ristrette di quelle alle quali il manufatto potenzialmente si presta.
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La nozione urbanistica di pertinenza non coincide con quella più ampia fornita dall’art. 817 del cod. civ., dovendo essere perimetrata in modo compatibile coi principi della materia e riferita, quindi, alle sole opere edilizie minori, che abbiano scarso o nullo peso dal punto di vista del carico edilizio ed urbanistico.

Non rileva, inoltre, la dichiarata volontà di non destinare le opere all’uso residenziale. Nel caso di specie, il manufatto realizzato, per le caratteristiche strutturali e le dimensioni (copre una superficie di 30 mq.), configura, piuttosto, una nuova costruzione, integrando un organismo edilizio suscettibile di autonomo utilizzo, preordinato a soddisfare esigenze non precarie sotto il profilo funzionale, in quanto tale idoneo ad alterare lo stato dei luoghi ed a comportare una significativa trasformazione del territorio (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sezione V, 13.06.2006 n. 3490; TAR Lazio, Roma, Sezione I, 18.06.2008 n. 5965; Sez. I-quater, 23.11.2007 n. 11679).
Invero, ai fini della qualificazione di una costruzione, rilevano le caratteristiche oggettive della stessa, prescindendosi dall’intento dichiarato dal privato di voler destinare l’opera ad utilizzazioni più ristrette di quelle alle quali il manufatto potenzialmente si presta (cfr. Consiglio di Stato, V Sezione, 21.10.1992 n. 1025 e 13.05.1997 n. 483; TAR Campania, IV Sezione, 12.01.2000 n. 30; II Sezione, 03.02.2006 n.1506).
Non appare condivisibile neanche la riduttiva definizione dell’intervento sopra descritto come mera pertinenza, atteso che, come chiarito dalla giurisprudenza (cfr., Consiglio di Stato, Sezione V, 23.03.2000 n. 1600; Sezione IV, 07.07.2008 n. 3379; TAR Lazio, Sezione II-ter, 06.09.2000 n. 6900; TAR Campania, Sezione II, 24.01.2008 n. 402 e Sezione IV, 03.01.2002 n. 50; TAR Lazio, Latina, 04.07.2006 n.428), la nozione urbanistica di pertinenza non coincide con quella più ampia fornita dall’art. 817 del cod. civ., dovendo essere perimetrata in modo compatibile coi principi della materia e riferita, quindi, alle sole opere edilizie minori, che abbiano scarso o nullo peso dal punto di vista del carico edilizio ed urbanistico (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 29.12.2012 n. 5381 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’asservimento in favore del fondo interessato dalla costruzione non implica alcun divieto di alienazione dei suoli asserviti ma soltanto l’utilizzo della capacità edificatoria espressa dalle relative particelle, che restano pertanto inedificabili anche in caso di successivo trasferimento a terzi.
Ritenuta la fondatezza anche del secondo motivo, diretto a contestare la sostanza della determinazione assunta dall’amministrazione, in quanto:
- l’asservimento in favore del fondo interessato dalla costruzione (particella 1318 del foglio 16) di vari terreni (tra i quali quello individuato in catasto con la particella n. 1109 del foglio 16, di 1823 mq.) –realizzato con atto d’obbligo redatto in forma pubblica (per notaio P. Aponte rep. 9560, raccolta 4113, del 03.04.2007, regolarmente trascritto il giorno seguente presso la competente Conservatoria dei Registri Immobiliari), ai sensi degli articoli 48 e 49 del regolamento edilizio comunale– non implica alcun divieto di alienazione dei suoli asserviti ma soltanto l’utilizzo della capacità edificatoria espressa dalle relative particelle, che restano pertanto inedificabili anche in caso di successivo trasferimento a terzi (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sezione II, 26.07.2012 n. 2097; TAR Campania, Napoli, Sezione II, 14.04.2006 n. 3611) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 29.12.2012 n. 5380 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La disciplina comunitaria è rivolta, per il tramite dell'istituto dell'avvalimento, a permettere la più ampia partecipazione alle gare, consentendo a soggetti che ne siano privi di concorrere ricorrendo ai requisiti di altri soggetti, senza che abbiano alcuna influenza per la stazione appaltante i rapporti esistenti tra il concorrente ed il soggetto avvalso, essendo indispensabile unicamente che il primo dimostri di poter disporre dei mezzi del secondo.
La giurisprudenza ha, inoltre, osservato come la disciplina dell'art. 49 del Codice dei contratti pubblici non pone alcuna limitazione al ricorso all'istituto dell'avvalimento, se non per i requisiti strettamente personali di carattere generale, di cui agli artt. 38 e 39, di modo che è possibile comprovare tramite detto istituto anche il fatturato, l'esperienza pregressa ed il numero dei dipendenti a tempo indeterminato, ovvero integrare anche il requisito del possesso di capitale sociale minimo, ritenendo quest'ultimo come requisito di natura economica.
Nella disciplina dell’avvalimento assume valore decisivo la dimostrazione dell’effettiva disponibilità da parte della concorrente dei mezzi e dei requisiti offerti da altra impresa e a tale fine l’art. 49 richiede che il concorrente produca:
a) una sua dichiarazione verificabile ai sensi dell’articolo 48, attestante l’avvalimento dei requisiti necessari per la partecipazione alla gara, con specifica indicazione dei requisiti stessi e dell’impresa ausiliaria,
b) una dichiarazione sottoscritta dall’impresa ausiliaria con cui quest’ultima si obbliga verso il concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a disposizione per tutta la durata dell’appalto le risorse necessarie di cui è carente il concorrente,
c) il contratto di avvalimento, in originale o copia autentica, in virtù del quale l’impresa ausiliaria si obbliga nei confronti del concorrente a fornire i requisiti e a mettere a disposizione le risorse necessarie per tutta la durata dell’appalto.
La dichiarazione dell'impresa ausiliaria (di cui al comma 2, lett. d), dell’art. 49) e il contratto di avvalimento (comma 2, lett. f), dell’art. 49) sono atti tra loro diversi, per natura, contenuto e finalità.
La dichiarazione, infatti, costituisce un atto di assunzione unilaterale di obbligazioni nei confronti della stazione appaltante; mentre il contratto di avvalimento costituisce l'atto bilaterale di costituzione di un rapporto giuridico patrimoniale, stipulato tra l'impresa partecipante alla gara e l'impresa ausiliaria, di modo che in esso devono essere contemplate -nel rispetto dei requisiti generali di cui all'art. 1325 c.c. e di quelli desumibili dall'art. 49, comma 2, lett. f), del d.l.vo 2006 n. 163- le reciproche obbligazioni delle parti e le prestazioni da esse discendenti.
Insomma, la dichiarazione ed il contratto di avvalimento sono atti da tenere distinti e, quindi, tali da presentare un contenuto differente e "non sovrapponibile", di modo che non soddisfa l'obbligo di allegazione di cui all'art. 49, comma 2, lett. f), un contratto che presenti un "contenuto" (inteso come complesso delle reciproche obbligazioni e prestazioni delle parti stipulanti), meramente riproduttivo della dichiarazione unilaterale.
Il contratto di avvalimento deve rispettare la disciplina civilistica in tema di contenuto del contratto, con particolare riferimento all’esistenza e alla determinatezza dell'oggetto.
Ciò che occorre verificare, in conformità alle indicazioni desumibili dal citato art. 49, comma 2, lett. f), è se il contratto individui in modo chiaro ed esaustivo la volontà dell'impresa ausiliaria di impegnarsi, la natura dell'impegno assunto e la sua durata per tutto il tempo dell'appalto, la concreta ed effettiva disponibilità di porre a disposizione della concorrente i requisiti considerati.
L’esigenza di specificità è ribadita dall’art. 88 del d.p.r. 05.10.2010, n. 207, che in relazione agli appalti di opere richiede che il contratto riporti in modo compiuto, esplicito ed esauriente le risorse e i mezzi prestati, in modo determinato e specifico; si tratta di una disposizione che, seppure dettata in materia di appalti di opere, ha portata generale perché riflette un principio di ordine generale correlato al contenuto del contratto e, pertanto, da applicare anche per la dimostrazione del possesso, mediante avvalimento, dei requisiti di capacità tecnica e professionale negli appalti di servizi.

E’ noto che la disciplina dell’istituto dell’avvalimento, dettata dall’art. 49 del codice degli appalti, si correla alla previsione dell'art. 47 della Direttiva 2004/18/CE, in base al quale (comma 2): "Un operatore economico può, se del caso e per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi. In tal caso deve dimostrare alla amministrazione aggiudicatrice che disporrà dei mezzi necessari, ad esempio mediante presentazione dell'impegno a tal fine di questi soggetti".
La giurisprudenza ha già chiarito che la disciplina comunitaria è rivolta, per il tramite dell'istituto dell'avvalimento, a permettere la più ampia partecipazione alle gare, consentendo a soggetti che ne siano privi di concorrere ricorrendo ai requisiti di altri soggetti (Cons. St., sez. VI, 18.09.2009 n. 5626), senza che abbiano alcuna influenza per la stazione appaltante i rapporti esistenti tra il concorrente ed il soggetto avvalso, essendo indispensabile unicamente che il primo dimostri di poter disporre dei mezzi del secondo (Cons. St., sez. V, 17.03.2009 n. 1589).
La giurisprudenza ha, inoltre, osservato come la disciplina dell'art. 49 del Codice dei contratti pubblici non pone alcuna limitazione al ricorso all'istituto dell'avvalimento, se non per i requisiti strettamente personali di carattere generale, di cui agli artt. 38 e 39 (Cons. St., sez. III, 15.11.2011 n. 6040), di modo che è possibile comprovare tramite detto istituto anche il fatturato, l'esperienza pregressa ed il numero dei dipendenti a tempo indeterminato, ovvero integrare anche il requisito del possesso di capitale sociale minimo, ritenendo quest'ultimo come requisito di natura economica (Cons. St., sez. V, 08.10.2011 n. 5496).
Nella disciplina dell’avvalimento assume valore decisivo la dimostrazione dell’effettiva disponibilità da parte della concorrente dei mezzi e dei requisiti offerti da altra impresa e a tale fine l’art. 49 richiede che il concorrente produca:
a) una sua dichiarazione verificabile ai sensi dell’articolo 48, attestante l’avvalimento dei requisiti necessari per la partecipazione alla gara, con specifica indicazione dei requisiti stessi e dell’impresa ausiliaria,
b) una dichiarazione sottoscritta dall’impresa ausiliaria con cui quest’ultima si obbliga verso il concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a disposizione per tutta la durata dell’appalto le risorse necessarie di cui è carente il concorrente,
c) il contratto di avvalimento, in originale o copia autentica, in virtù del quale l’impresa ausiliaria si obbliga nei confronti del concorrente a fornire i requisiti e a mettere a disposizione le risorse necessarie per tutta la durata dell’appalto.
La dichiarazione dell'impresa ausiliaria (di cui al comma 2, lett. d), dell’art. 49) e il contratto di avvalimento (comma 2, lett. f), dell’art. 49) sono atti tra loro diversi, per natura, contenuto e finalità.
La dichiarazione, infatti, costituisce un atto di assunzione unilaterale di obbligazioni nei confronti della stazione appaltante; mentre il contratto di avvalimento costituisce l'atto bilaterale di costituzione di un rapporto giuridico patrimoniale, stipulato tra l'impresa partecipante alla gara e l'impresa ausiliaria, di modo che in esso devono essere contemplate -nel rispetto dei requisiti generali di cui all'art. 1325 c.c. e di quelli desumibili dall'art. 49, comma 2, lett. f), del d.l.vo 2006 n. 163- le reciproche obbligazioni delle parti e le prestazioni da esse discendenti.
Insomma, la dichiarazione ed il contratto di avvalimento sono atti da tenere distinti e, quindi, tali da presentare un contenuto differente e "non sovrapponibile", di modo che non soddisfa l'obbligo di allegazione di cui all'art. 49, comma 2, lett. f), un contratto che presenti un "contenuto" (inteso come complesso delle reciproche obbligazioni e prestazioni delle parti stipulanti), meramente riproduttivo della dichiarazione unilaterale.
Il contratto di avvalimento deve rispettare la disciplina civilistica in tema di contenuto del contratto, con particolare riferimento all’esistenza e alla determinatezza dell'oggetto.
Ciò che occorre verificare, in conformità alle indicazioni desumibili dal citato art. 49, comma 2, lett. f), è se il contratto individui in modo chiaro ed esaustivo la volontà dell'impresa ausiliaria di impegnarsi, la natura dell'impegno assunto e la sua durata per tutto il tempo dell'appalto, la concreta ed effettiva disponibilità di porre a disposizione della concorrente i requisiti considerati (Cons. St., sez. V, 15.11.2010 n. 8043).
L’esigenza di specificità è ribadita dall’art. 88 del d.p.r. 05.10.2010, n. 207, che in relazione agli appalti di opere richiede che il contratto riporti in modo compiuto, esplicito ed esauriente le risorse e i mezzi prestati, in modo determinato e specifico; si tratta di una disposizione che, seppure dettata in materia di appalti di opere, ha portata generale perché riflette un principio di ordine generale correlato al contenuto del contratto e, pertanto, da applicare anche per la dimostrazione del possesso, mediante avvalimento, dei requisiti di capacità tecnica e professionale negli appalti di servizi (in argomento si considerino Consiglio di Stato, sez. IV, 01.08.2012, n. 4406; Consiglio di Stato, sez. VI, 02.05.2012, n. 2508; TAR Napoli Campania, sez. I, 04.07.2012, n. 3194; TAR Napoli Campania, sez. I, 11.07.2012, n. 3353; TAR Firenze Toscana, sez. I, 21.05.2012 n. 986) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 29.12.2012 n. 3290 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all’interno della specifica zona di intervento.
Invero, mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all’interno della specifica zona di intervento; e ciò vale ad evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione rispetto al contributo di concessione, di talché, sotto il versante processuale, non si può utilizzare lo strumento dell’azione di accertamento ammesso per contestare la legittimità del contributo ex art. 3 o comunque la insussistenza di tale obbligazione pecuniaria ancorché già assolta (cfr. Sez. IV, 16/02/2011, n. 1013) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.12.2012 n. 6706 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Uno specifico onere motivazionale non sussiste, in linea di principio, per gli strumenti urbanistici generali, come quello di cui è causa.
L’esigenza di una più incisiva e singolare motivazione si dà solo in relazione a determinati profili, quale la preesistenza di una convenzione di lottizzazione, in ragione dell’affidamento qualificato che ne deriva per il privato.
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Anche a voler ammettere che una convenzione di lottizzazione possa avere una limitata ultrattività in un momento successivo alla sua scadenza, è indubbio che, decorso i termine di dieci anni, divengono inefficaci le previsioni del piano che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è consentita la loro ulteriore esecuzione.
Ne segue che una convenzione di tal genere, scaduta da dieci anni e rimasta inattuata in parte qua, non può vincolare i successivi strumenti urbanistici generali, nemmeno sotto il profilo dell’esistenza di uno specifico onere di motivazione.

Secondo un orientamento consolidato, uno specifico onere motivazionale non sussiste, in linea di principio, per gli strumenti urbanistici generali, come quello di cui è causa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV. 14.10.2005, n. 5716; Id., Sez. IV, 07.04.2008, n. 1476; Id., Sez. IV, 03.11.2008, n. 5478; Id., Sez. IV, 30.12.2008, n. 6600; Id., Sez. VI, 20.10.2010, n. 7585; Id., Sez. IV, 16.02.2011, n. 1015).
L’esigenza di una più incisiva e singolare motivazione si dà solo in relazione a determinati profili, quale la preesistenza di una convenzione di lottizzazione, in ragione dell’affidamento qualificato che ne deriva per il privato (cfr. ex plurimis Cons. Stato, Sez. IV, 14.10.2005, n. 5716; Id., Sez. IV, 22.05.2012, n. 2952).
Queste considerazioni, tuttavia, sono inconferenti rispetto al caso di specie, nel quale il piano di lottizzazione era stato approvato nel 1972, convenzionato nel 1974 e dunque scaduto nel 1984 (la nota del Comune in data 24.09.1991, che ad esso fa riferimento, non è sufficiente a richiamarlo in vita); mentre poi –per quanto si legge nella deliberazione consiliare 28.04.1992, n. 17, recante l’esame delle osservazioni e delle proposte pervenute sulla variante in discussione, compresa l’osservazione dello stesso Ramelli– il terreno in questione sarebbe rimasto sino ad allora inedificato.
Infatti, anche a voler ammettere che una convenzione di lottizzazione possa avere una limitata ultrattività in un momento successivo alla sua scadenza, è indubbio che, decorso i termine di dieci anni, divengono inefficaci le previsioni del piano che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è consentita la loro ulteriore esecuzione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 30.04.2009, n. 2768; Id, Sez. IV, 27.10.2009, n. 6572). Ne segue che una convenzione di tal genere, scaduta da dieci anni e rimasta inattuata in parte qua, non può vincolare i successivi strumenti urbanistici generali, nemmeno sotto il profilo dell’esistenza di uno specifico onere di motivazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.12.2012 n. 6703 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Non ogni vincolo posto alla proprietà privata dallo strumento urbanistico generale ha carattere espropriativo ed è dunque soggetto alla disciplina relativa.
In altri termini, occorre distinguere tra vincoli espropriativi e vincoli conformativi, secondo una linea di discrimine che ha un preciso fondamento costituzionale, in quanto l’art. 42 Cost. prevede separatamente l’espropriazione (terzo comma) e i limiti che la legge può imporre alla proprietà al fine di assicurarne la funzione sociale (secondo comma).
Per meglio dire, i vincoli espropriativi, che sono soggetti alla scadenza quinquennale, concernono beni determinati, in funzione della localizzazione puntuale di un'opera pubblica, la cui realizzazione non può quindi coesistere con la proprietà privata. Non può invece attribuirsi carattere ablatorio ai vincoli che regolano la proprietà privata al perseguimento di obiettivi di interesse generale, quali il vincolo di inedificabilità, c.d. "di rispetto", a tutela di una strada esistente, a verde attrezzato, a parco, a zona agricola di pregio, verde, ecc..

Peraltro -secondo un orientamento giurisprudenziale del tutto consolidato, non solo presso il giudice amministrativo (si veda anche, ad esempio, Cass. civ., SS. UU., 25.11.2008, n. 28051)- non ogni vincolo posto alla proprietà privata dallo strumento urbanistico generale ha carattere espropriativo ed è dunque soggetto alla disciplina relativa.
In altri termini, occorre distinguere tra vincoli espropriativi e vincoli conformativi, secondo una linea di discrimine che ha un preciso fondamento costituzionale, in quanto l’art. 42 Cost. prevede separatamente l’espropriazione (terzo comma) e i limiti che la legge può imporre alla proprietà al fine di assicurarne la funzione sociale (secondo comma).
Per meglio dire, i vincoli espropriativi, che sono soggetti alla scadenza quinquennale, concernono beni determinati, in funzione della localizzazione puntuale di un'opera pubblica, la cui realizzazione non può quindi coesistere con la proprietà privata. Non può invece attribuirsi carattere ablatorio ai vincoli che regolano la proprietà privata al perseguimento di obiettivi di interesse generale, quali il vincolo di inedificabilità, c.d. "di rispetto", a tutela di una strada esistente, a verde attrezzato, a parco, a zona agricola di pregio, verde, ecc. (cfr. per tutte Cons. Stato, Sez. IV, 03.12.2010, n 8531; Id., Sez. IV, 23.12.2010, n. 9772; Id., Sez. IV, 13.07.2011, n. 4242; Id., Sez. IV, 19.01.2012, n. 244; ivi riferimenti ulteriori).
D’altronde, nel caso di specie –come ha affermato correttamente la sentenza di primo grado, alla quale l’appello non riesce a muovere censure efficaci– l’area di cui si discute ricade all’interno di un’ampia fascia territoriale, di cui il Comune intende preservare le specifiche caratteristiche e qualità. Il vincolo a verde rappresenta dunque espressione del potere pianificatorio di razionale sistemazione del territorio in zone omogenee, in radice diverso dal potere ablatorio preordinato all’adozione di provvedimenti di espropriazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.12.2012 n. 6700 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In caso di aggiudicazione di appalti di lavori di importo superiore alla soglia comunitaria, da affidarsi con il criterio del massimo ribasso, in base all’art. 89, comma secondo, del d.P.R. 21.12.1999 n. 554 (oggi sostituito dall’art. 121, comma 2, del d.P.R. 05.10.2010 n. 207, ma applicabile alla fattispecie di causa ratione temporis), qualora “…il soggetto che presiede la gara, individui offerte che presentano un ribasso percentuale superiore a quello considerato soglia di anomalia in base alle disposizioni di legge, sospende la seduta e comunica i nominativi dei relativi concorrenti (…) al responsabile del procedimento. Questi, avvalendosi di organismi tecnici della stazione appaltante, esamina le giustificazioni presentate dai concorrenti (…) e valuta la congruità delle offerte”.
Come si vede, tale disposizione è chiara nell’attribuire al responsabile unico del procedimento la competenza in materia di valutazione di congruità delle offerte. Il soggetto che presiede la gara ha il solo compito di ufficializzarne la decisione: egli invero “…alla riapertura della seduta pubblica, pronuncia l'esclusione delle offerte giudicate non congrue e aggiudica l'appalto” (cfr. art. 89, comma 2, cit.).
La ratio della disposizione è peraltro facilmente comprensibile, atteso che il responsabile del procedimento è organo interno dell’amministrazione particolarmente qualificato, come tale soggetto maggiormente in grado di apprezzare la sostenibilità economica delle offerte rispetto all’organo preposto alla conduzione della gara il quale, nel caso di aggiudicazione con il criterio del massimo ribasso, svolge funzioni aventi perlopiù carattere formale, volte ad assicurare il corretto espletamento delle operazioni e ad accertare quale dei concorrenti abbia proposto il pezzo più conveniente.
Parte della giurisprudenza perviene a conclusioni differenti, affermando che la competenza in materia di accertamento dell’anomalia delle offerte appartiene alla commissione di gara.
Tale conclusione è però spiegabile in ragione del fatto che nei casi ivi esaminati si verteva in tema di appalti di servizio, e/o in tema di appalti di lavori da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (laddove è sempre presente una commissione di gara composta da elementi particolarmente qualificati deputati a svolgere funzioni non solo formali ma concernenti anche valutazioni sostanziali) per i quali, prima dell’entrata in vigore del d.P.R. n. 207/2010, non sussisteva norma analoga a quella contenuta nel citato art. 89, comma 2, del d.P.R. n. 554/1999 (ora, ai sensi degli artt. 121 e 284 del d.P:R. n. 207/2010, anche per tale tipologia di appalti dovrebbe peraltro applicarsi la disciplina testé illustrata).

In caso di aggiudicazione di appalti di lavori di importo superiore alla soglia comunitaria, da affidarsi con il criterio del massimo ribasso, in base all’art. 89, comma secondo, del d.P.R. 21.12.1999 n. 554 (oggi sostituito dall’art. 121, comma 2, del d.P.R. 05.10.2010 n. 207, ma applicabile alla fattispecie di causa ratione temporis), qualora “…il soggetto che presiede la gara, individui offerte che presentano un ribasso percentuale superiore a quello considerato soglia di anomalia in base alle disposizioni di legge, sospende la seduta e comunica i nominativi dei relativi concorrenti (…) al responsabile del procedimento. Questi, avvalendosi di organismi tecnici della stazione appaltante, esamina le giustificazioni presentate dai concorrenti (…) e valuta la congruità delle offerte”.
Come si vede, tale disposizione è chiara nell’attribuire al responsabile unico del procedimento la competenza in materia di valutazione di congruità delle offerte. Il soggetto che presiede la gara ha il solo compito di ufficializzarne la decisione: egli invero “…alla riapertura della seduta pubblica, pronuncia l'esclusione delle offerte giudicate non congrue e aggiudica l'appalto” (cfr. art. 89, comma 2, cit.).
La ratio della disposizione è peraltro facilmente comprensibile, atteso che il responsabile del procedimento è organo interno dell’amministrazione particolarmente qualificato, come tale soggetto maggiormente in grado di apprezzare la sostenibilità economica delle offerte rispetto all’organo preposto alla conduzione della gara il quale, nel caso di aggiudicazione con il criterio del massimo ribasso, svolge funzioni aventi perlopiù carattere formale, volte ad assicurare il corretto espletamento delle operazioni e ad accertare quale dei concorrenti abbia proposto il pezzo più conveniente.
Parte della giurisprudenza perviene a conclusioni differenti, affermando che la competenza in materia di accertamento dell’anomalia delle offerte appartiene alla commissione di gara (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 10.09.2012 n. 4772; id., sez. VI, 15.07.2010 n. 4584).
Tale conclusione è però spiegabile in ragione del fatto che nei casi ivi esaminati si verteva in tema di appalti di servizio, e/o in tema di appalti di lavori da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (laddove è sempre presente una commissione di gara composta da elementi particolarmente qualificati deputati a svolgere funzioni non solo formali ma concernenti anche valutazioni sostanziali) per i quali, prima dell’entrata in vigore del d.P.R. n. 207/2010, non sussisteva norma analoga a quella contenuta nel citato art. 89, comma 2, del d.P.R. n. 554/1999 (ora, ai sensi degli artt. 121 e 284 del d.P:R. n. 207/2010, anche per tale tipologia di appalti dovrebbe peraltro applicarsi la disciplina testé illustrata).
La stazione appaltante, nel caso concreto, ha quindi dato corretta applicazione alle disposizioni normative che governano le procedure di gara, affidando al responsabile del procedimento (coadiuvato da uno speciale gruppo di lavoro istituito ai sensi dell’art. 15 del regolamento comunale) il compito di valutare le congruità delle offerte individuate come potenzialmente anomale
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 28.12.2012 n. 3239 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il sub-procedimento di verifica dell’anomalia, attualmente disciplinato dall’art. 88 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, si caratterizza per essere scevro da ingiustificati formalismi; il concorrente, pertanto, non è rigidamente vincolato dalla richiesta formulata della stazione appaltante, essendo egli invece libero di far riferimento, nel fornire la giustificazione complessiva della propria offerta, a tutti gli elementi considerati rilevati, comprese quelle voci di costo (magari a lui particolarmente favorevoli in grado di compensare squilibri creati da altre voci) non contemplate dalla richiesta stessa.
La stazione appaltante, nel caso concreto, si è correttamente limitata a chiedere delucidazioni in merito a quelle voci di costo che a suo giudizio apparivano incongrue. Tale modo di procedere è del tutto logico e comprensibile, posto che non si vede per quale motivo si debba onerare il concorrente di fornire (inutili) spiegazioni anche in merito quelle voci che, invece, appaiono giustificate.
Va peraltro osservato che il sub-procedimento di verifica dell’anomalia, attualmente disciplinato dall’art. 88 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, si caratterizza per essere scevro da ingiustificati formalismi (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 23.07.2012 n. 4206); il concorrente, pertanto, non è rigidamente vincolato dalla richiesta formulata della stazione appaltante, essendo egli invece libero di far riferimento, nel fornire la giustificazione complessiva della propria offerta, a tutti gli elementi considerati rilevati, comprese quelle voci di costo (magari a lui particolarmente favorevoli in grado di compensare squilibri creati da altre voci) non contemplate dalla richiesta stessa.
La giurisprudenza richiamata dall’interessata (Corte di Giustizia CE, 27.11.2001, cause riunite C-285/99 e C-286/99; Consiglio Stato, sez. IV, 11.04.2006 n. 2023) non è peraltro pertinente, in quanto essa fa riferimento ad un regime previgente (disciplinato dall’art. 21, comma 1-bis, della legge 11.02.1994, n. 109, introdotto dall'art. 7 del decreto legge 03.04.1995, n. 101, convertito con la legge 02.06.1995, n. 216) caratterizzato da maggiore rigidità, nel quale i concorrenti erano obbligati a fornire giustificazioni preventive, limitate al 75% delle voci di costo dell’offerta, senza poter far valere le proprie ragioni dopo l'apertura delle buste e prima dell'adozione del provvedimento di esclusione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 28.12.2012 n. 3239 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gli apprezzamenti effettuati dalla Stazione appaltante in merito alla congruità delle offerte formulate dai concorrenti nelle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici sono, secondo una consolidata opinione, caratterizzati da esercizio di discrezionalità tecnica.
La discrezionalità tecnica, pur comportando valutazioni opinabili, non si identifica con la discrezionalità amministrativa e, quindi, con il merito. Quando si esercita tale tipologia di discrezionalità non si decide cosa sia più opportuno fare ai fini della miglior tutela dell’interesse pubblico (in ciò consiste la discrezionalità amministrativa), ma si apprezza la sussistenza dei presupposti applicativi dalla norma attributiva del potere, utilizzando regole tecniche e compiendo valutazioni non certe quanto, appunto, opinabili.
Il giudice, nel sindacare la discrezionalità tecnica, non deve limitarsi ad un sindacato estrinseco finalizzato ad accertare se la valutazione dell’amministrazione sia palesemente erronea od irrazionale, ma può spingersi ad un sindacato intrinseco che faccia applicazione delle stesse regole tecniche utilizzate dall’autorità amministrativa, volto ad accertare l’attendibilità della valutazione compiuta sotto il profilo della appropriatezza del criterio tecnico prescelto e della correttezza del procedimento applicativo seguito.
Anche questo orientamento afferma tuttavia che il giudice non può mai sostituire le proprie valutazioni (o quelle del suo consulente) a quelle formulate dall’amministrazione dovendo egli limitarsi, come detto, a vagliarne l’attendibilità.
Gli apprezzamenti effettuati dalla Stazione appaltante in merito alla congruità delle offerte formulate dai concorrenti nelle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici sono, secondo una consolidata opinione, caratterizzati da esercizio di discrezionalità tecnica (Consiglio di Stato sez. VI, 07.09.2012 n. 4744).
Secondo un preferibile orientamento della giurisprudenza, inaugurato da una fondamentale pronuncia del Consiglio di Stato (cfr. Consiglio Stato sez. IV, 09.04.1999 n. 601), la discrezionalità tecnica, pur comportando valutazioni opinabili, non si identifica con la discrezionalità amministrativa e, quindi, con il merito. Quando si esercita tale tipologia di discrezionalità non si decide cosa sia più opportuno fare ai fini della miglior tutela dell’interesse pubblico (in ciò consiste la discrezionalità amministrativa), ma si apprezza la sussistenza dei presupposti applicativi dalla norma attributiva del potere, utilizzando regole tecniche e compiendo valutazioni non certe quanto, appunto, opinabili.
Il giudice, nel sindacare la discrezionalità tecnica, non deve limitarsi ad un sindacato estrinseco finalizzato ad accertare se la valutazione dell’amministrazione sia palesemente erronea od irrazionale, ma può spingersi ad un sindacato intrinseco che faccia applicazione delle stesse regole tecniche utilizzate dall’autorità amministrativa, volto ad accertare l’attendibilità della valutazione compiuta sotto il profilo della appropriatezza del criterio tecnico prescelto e della correttezza del procedimento applicativo seguito (cfr. TAR Roma Lazio sez. III, 08.02.2011 n. 1216).
Anche questo orientamento afferma tuttavia che il giudice non può mai sostituire le proprie valutazioni (o quelle del suo consulente) a quelle formulate dall’amministrazione dovendo egli limitarsi, come detto, a vagliarne l’attendibilità
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 28.12.2012 n. 3239 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Se è vero che, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, lo scostamento dalle tabelle ufficiali non può costituire di per sé elemento decisivo fondante il giudizio di anomalia, è altrettanto vero che, in base alla stessa giurisprudenza, è però necessario che gli scostamenti vengano adeguatamente giustificati attraverso la produzione di analisi aziendali svolte dall’offerente.
In particolare, per quanto riguarda il costo della manodopera, si è accertato che la ricorrente si è discostata in maniera apprezzabile (19%) dai valori riportati nelle tabelle ANCE Assimpredil senza fornire adeguate spiegazioni al riguardo.
In proposito si sottolinea che se è vero che, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, lo scostamento dalle tabelle ufficiali non può costituire di per sé elemento decisivo fondante il giudizio di anomalia, è altrettanto vero che, in base alla stessa giurisprudenza, è però necessario che gli scostamenti vengano adeguatamente giustificati attraverso la produzione di analisi aziendali svolte dall’offerente (cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. III, 28.05.2012 n. 3134) che, nel caso concreto, sono mancate.
Anche per quanto riguarda i tempi di esecuzione del contratto, il verificatore ha accertato la sostanziale attendibilità del giudizio formulato dall’Amministrazione rilevando che solo per alcune lavorazioni il concorrente è riuscito a fornire adeguate spiegazioni in merito alla correttezza dei tempi indicati; e che per il resto vi è un forte scostamento (non giustificato) rispetto ai dati elaborati da organi specializzati (tabelle Sole 24 ore).
Si ritiene pertanto che il giudizio di anomalia formulato dalla stazione appaltante nella fattispecie concreta sia corretto e che, quindi, lo stesso sia immune alle censure dedotte dalla ricorrente
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 28.12.2012 n. 3239 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di domanda di accertamento di conformità in pendenza del ricorso avverso l’ordinanza di demolizione di un immobile ritenuto abusivo comporta improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del ricorso stesso, dato che l’originaria ordinanza sanzionatoria è comunque superata dal nuovo provvedimento, favorevole o contrario alla sanatoria, che l’amministrazione deve emettere, e che nella specie è stato impugnato con motivi aggiunti.
E’ invece fondata l’eccezione di improcedibilità in dipendenza dalla intervenuta domanda di accertamento di conformità, relativa alla sola domanda di annullamento proposta nello stesso ricorso principale.
Così come ritenuto da costante giurisprudenza, per tutte C.d.S. sez. IV 16.09.2011 n. 5228, la presentazione di domanda di accertamento di conformità in pendenza del ricorso avverso l’ordinanza di demolizione di un immobile ritenuto abusivo comporta infatti improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del ricorso stesso, dato che l’originaria ordinanza sanzionatoria è comunque superata dal nuovo provvedimento, favorevole o contrario alla sanatoria, che l’amministrazione deve emettere, e che nella specie è stato impugnato con motivi aggiunti (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.12.2012 n. 2022 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Le norme sulla partecipazione procedimentale vanno intese non già in modo meccanico e formalistico, ma in senso conforme ad economicità e speditezza, e quindi la loro eventuale violazione non è causa di illegittimità del provvedimento finale, quando l’interessato sia comunque venuto a conoscenza delle relative vicende.
Si deve infatti ricordare il principio, ribadito da ultimo da C.d.S. sez. IV 17.09.2012 n. 4925, per cui le norme sulla partecipazione procedimentale vanno intese non già in modo meccanico e formalistico, ma in senso conforme ad economicità e speditezza, e quindi la loro eventuale violazione non è causa di illegittimità del provvedimento finale, quando l’interessato sia comunque venuto a conoscenza delle relative vicende (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.12.2012 n. 2022 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della necessità di ottenere il permesso di costruire per realizzare un dato manufatto, non rileva che esso non consti di opere murarie ovvero non sia incorporato al suolo; rileva invece la idoneità o no a determinare una stabile trasformazione del territorio, per cui non è precaria la struttura destinata a dare un'utilità prolungata nel tempo.
Ancora infondato il terzo motivo, incentrato su una presunta non necessità di titolo edilizio per realizzare la struttura per cui è causa, presentata come di carattere precario.
In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che, ai fini della necessità di ottenere il permesso di costruire per realizzare un dato manufatto, non rileva che esso non consti di opere murarie ovvero non sia incorporato al suolo (C.d.S. sez. IV 02.10.2012 n. 5183); rileva invece la idoneità o no a determinare una stabile trasformazione del territorio, per cui non è precaria la struttura destinata a dare un'utilità prolungata nel tempo (così ad esempio C.d.S. sez. V 30.10.2000 n. 5828).
In tali termini, non va riconosciuto carattere precario alla struttura per cui è causa, che, secondo quanto riportato dal verbale di sopralluogo (doc. 7 ricorrenti, copia di esso), consta di “una struttura con tubolari di acciaio e copertura in telo bianco, fissata stabilmente al suolo e utilizzata per la movimentazione coperta dei cavalli nelle strutture vicine”, con dimensioni di metri lineari 20 x 40, superficie coperta di 800 metri quadri, altezza al colmo di 6 metri e volume geometrico di ben 3.600 metri cubi. Già le descritte sue dimensioni, non certo modeste, inducono a pensare che si tratti di opera realizzata per soddisfare esigenze durevoli, e ciò è confermato dai doc.ti del Comune non numerati ma allegati alla memoria 05.01.2012, estratti dal sito Internet dei gestori della struttura, ove la si definisce “maneggio coperto”, concetto all’evidenza relativo ad una attività destinata a durare nel tempo
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.12.2012 n. 2022 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il fatto che un proprietario risulti estraneo agli abusi edilizi commessi sul bene da altro soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità implica non l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l'inidoneità della stessa a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene.
Nemmeno la individuazione esatta dell’area da acquisire, poi, è requisito di legittimità dell’ordinanza di demolizione, essendo invece richiesta solo in caso di inottemperanza alla stessa, ove si tratti di emettere il distinto e diverso provvedimento di acquisizione gratuita.

In primo luogo, così come chiarito da ultimo da TAR Campania Napoli sez. VII 17.09.2012 n. 3879, il fatto che un proprietario risulti estraneo agli abusi edilizi commessi sul bene da altro soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità implica non l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l'inidoneità della stessa a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene.
Nemmeno la individuazione esatta dell’area da acquisire, poi, è requisito di legittimità dell’ordinanza di demolizione, essendo invece richiesta solo in caso di inottemperanza alla stessa, ove si tratti di emettere il distinto e diverso provvedimento di acquisizione gratuita: così da ultimo TAR Liguria sez. I 26.11.2012 n. 1503
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.12.2012 n. 2022 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’attività di allevamento di cavalli a scopo ludico sportivo non è equiparabile ad attività agricola ai fini delle norme edilizie di favore di cui alla l.r. 12/2005 e ai conformi provvedimenti legislativi in quest’ultima trasfusi.
Il quarto motivo aggiunto va a sua volta respinto, per le ragioni già esposte da questo Tribunale nella sentenza sez. I 04.06.2009 n. 1171 resa fra le parti sempre quanto alla struttura per cui oggi è causa, e nella conforme TAR Lombardia Milano, sez. II, 11.02.2005 n. 358: l’attività di allevamento di cavalli a scopo ludico sportivo esercitata dai ricorrenti non è equiparabile ad attività agricola ai fini delle norme edilizie di favore di cui alla l.r. 12/2005 e ai conformi provvedimenti legislativi in quest’ultima trasfusi (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.12.2012 n. 2022 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Se è pur vero che l’art. 4, c. 2, LR 12/2005 prevede che la VAS debba essere conclusa prima dell’adozione, occorre tener conto delle modifiche normative introdotte dall’art. 5, c. 8, del D.L. 13.05.2011 n. 70 conv. in L. 12.07.2011 n. 106, la quale ha modificato l’art. 16 della L. n. 1140/1942.
In forza di tale disposizione -che è contenuta nella Legge nazionale in tema di disciplina urbanistica, la quale pone i principi fondamentali nella materia, ai quali ex art.. 117, c. 3, Cost. le regioni devono conformare la loro legislazione di dettaglio- le procedure di VAS sono state inserite nell’ambito della procedura di approvazione del piano, sicché non è più necessario che la precedano.
In altri termini, la fase della VAS non deve più necessariamente precedere la fase di adozione del programma o piano urbanistico, ma può ora svilupparsi all’interno del medesimo procedimento con l’unico vincolo che essa si concluda prima del provvedimento finale di approvazione del piano.

Se è pur vero che l’art. 4, c. 2, LR 12/2005 prevede che la VAS debba essere conclusa prima dell’adozione, occorre tener conto delle modifiche normative introdotte dall’art. 5, c. 8, del D.L. 13.05.2011 n. 70 conv. in L. 12.07.2011 n. 106, la quale ha modificato l’art. 16 della L. n. 1140/1942.
In forza della suddetta modifica ora l’art. 16 cit. dispone che: “Lo strumento attuativo di piani urbanistici già sottoposti a valutazione ambientale strategica non è sottoposto a valutazione ambientale strategica né a verifica di assoggettabilità qualora non comporti variante e lo strumento sovraordinato in sede di valutazione ambientale strategica definisca l’assetto localizzativo delle nuove previsioni e delle dotazioni territoriali, gli indici di edificabilità, gli usi ammessi e i contenuti piani volumetrici, tipologici e costruttivi degli interventi, dettando i limiti e le condizioni di sostenibilità ambientale delle trasformazioni previste. Nei casi in cui lo strumento attuativo di piani urbanistici comporti variante allo strumento sovraordinato, la valutazione ambientale strategica e la verifica di assoggettabilità sono comunque limitate agli aspetti che non sono stati oggetto di valutazione sui piani sovraordinati. I procedimenti amministrativi di valutazione ambientale strategica e di verifica di assoggettabilità sono ricompresi nel procedimento di adozione e di approvazione del piano urbanistico o di loro varianti non rientranti nelle fattispecie di cui al presente comma.”
In forza di tale disposizione -che è contenuta nella Legge nazionale in tema di disciplina urbanistica, la quale pone i principi fondamentali nella materia, ai quali ex art.. 117, c. 3, Cost. le regioni devono conformare la loro legislazione di dettaglio (cfr. Corte Costituzionale, 23.11.2011 n. 309, 30.05.2008 n. 180)- le procedure di VAS sono state inserite nell’ambito della procedura di approvazione del piano, sicché non è più necessario che la precedano.
In altri termini, la fase della VAS non deve più necessariamente precedere la fase di adozione del programma o piano urbanistico, ma può ora svilupparsi all’interno del medesimo procedimento con l’unico vincolo che essa si concluda prima del provvedimento finale di approvazione del piano (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 27.12.2012 n. 2017 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’art. 37, comma 13, del D.Lgs. 163/2006 –con disposizione valida anche per gli appalti di servizi e forniture– stabilisce che i concorrenti riuniti in ATI devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento, per cui è evidente che deve sussistere una perfetta corrispondenza tra quota di lavori (o, nel caso di forniture o servizi, di parti di esse) eseguita dal singolo operatore economico e quota di effettiva partecipazione al raggruppamento, e che vi è la necessità che sia l’una che l’altra siano specificate dai componenti del raggruppamento all’atto della partecipazione alla gara.
E’ altresì richiesto che la singola impresa componente dell’A.T.I. abbia la qualifica, ovvero i requisiti di ammissione, in misura corrispondente alla quota di partecipazione, il tutto a garanzia della stazione appaltante e del buon esito del programma contrattuale nella fase di esecuzione: l’inosservanza di detta regola comporta l’inammissibilità dell’offerta contrattuale, perché implica l’adempimento da parte di un’impresa priva (almeno in parte) di qualificazione in una misura simmetrica alla quota di prestazione ad essa devoluta dall’accordo associativo ovvero dall’impegno delle parti a concludere l’accordo stesso.

Come già sottolineato (cfr. sentenza Sezione 19/07/2012 n. 1385), l’art. 37, comma 13, del D.Lgs. 163/2006 –con disposizione valida anche per gli appalti di servizi e forniture– stabilisce che i concorrenti riuniti in ATI devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento, per cui è evidente che deve sussistere una perfetta corrispondenza tra quota di lavori (o, nel caso di forniture o servizi, di parti di esse) eseguita dal singolo operatore economico e quota di effettiva partecipazione al raggruppamento, e che vi è la necessità che sia l’una che l’altra siano specificate dai componenti del raggruppamento all’atto della partecipazione alla gara (cfr. TAR Lazio Roma, sez. II – 30/04/2012 n. 3891).
E’ altresì richiesto che la singola impresa componente dell’A.T.I. abbia la qualifica, ovvero i requisiti di ammissione, in misura corrispondente alla quota di partecipazione, il tutto a garanzia della stazione appaltante e del buon esito del programma contrattuale nella fase di esecuzione: l’inosservanza di detta regola comporta l’inammissibilità dell’offerta contrattuale, perché implica l’adempimento da parte di un’impresa priva (almeno in parte) di qualificazione in una misura simmetrica alla quota di prestazione ad essa devoluta dall’accordo associativo ovvero dall’impegno delle parti a concludere l’accordo stesso (Consiglio di Stato, sez. III – 16/02/2012 n. 793) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 27.12.2012 n. 2004 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa nozione di costruzione, ai fini del rilascio della concessione edilizia (ora permesso di costruire) “si configura in presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che essa avvenga mediante realizzazione di opere murarie; infatti è irrilevante che le dette opere siano realizzate in metallo, in laminati di plastica, in legno o altro materiale, laddove comportino la trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio.
- Che infatti secondo la giurisprudenza “la nozione di costruzione, ai fini del rilascio della concessione edilizia” (ora permesso di costruire) “si configura in presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che essa avvenga mediante realizzazione di opere murarie; infatti è irrilevante che le dette opere siano realizzate in metallo, in laminati di plastica, in legno o altro materiale, laddove comportino la trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio" (ex multis Consiglio Stato sez. VI, 27.01.2003 n. 419; nella specie il C.d.S. ha considerato nuova costruzione o ampliamento della costruzione esistente una veranda stabilmente infissa al suolo con profondità dalla parete esterna al pilastro di sostegno di mt. 5.20, con dimensioni planimetriche di mt. 7.15 x 5.07 avente un'altezza nella parte superiore di mt. 2,85 e nella parte inferiore di mt. 2.80, sotto il profilo funzionale preordinata a soddisfare la non precaria esigenza del titolare di un pubblico esercizio) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 21.12.2012 n. 5294 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’occupazione di una porzione di suolo pubblico si configura come una vera e propria concessione d’uso, ossia alla stregua di un provvedimento –espressione di un potere pubblicistico ampiamente discrezionale– con il quale l’amministrazione locale sottrae il predetto bene alla fruizione comune e lo mette a disposizione di soggetti particolari (c.d. uso particolare).
Il titolo abilitativo, pertanto, può essere rilasciato solo previo accertamento che lo stesso permetta comunque di realizzare una funzione primaria o comprimaria del bene pubblico, e non per il conseguimento di interessi meramente privati.

Premette il Collegio –in linea generale e sulla scorta di giurisprudenza assolutamente consolidata (cfr. TAR Lazio, sez. II – 03/11/2009 n. 10782; 01/04/2009 n. 3479)– che l’occupazione di una porzione di suolo pubblico si configura come una vera e propria concessione d’uso, ossia alla stregua di un provvedimento –espressione di un potere pubblicistico ampiamente discrezionale– con il quale l’amministrazione locale sottrae il predetto bene alla fruizione comune e lo mette a disposizione di soggetti particolari (c.d. uso particolare).
Il titolo abilitativo, pertanto, può essere rilasciato solo previo accertamento che lo stesso permetta comunque di realizzare una funzione primaria o comprimaria del bene pubblico, e non per il conseguimento di interessi meramente privati (su un caso di diniego di rinnovo di concessione si rinvia a sentenza Sezione 20/01/2011 n. 127 confermata in appello dal Consiglio di Stato, sez. V – 06/07/2012 n. 3964) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 21.12.2012 n. 2003 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAAi fini dell'ordine alla rimozione (dei rifiuti abbandonati) il destinatario deve essere non solo proprietario, possessore o detentore, ma responsabile di una condotta, commissiva od omissiva, colpevole.
Sebbene la colpa possa configurarsi nell'ipotesi in cui il titolare del diritto dominicale ometta di adottare cautele idonee a evitare o ostacolare l'indebito abbandono, non può tuttavia essergli addebitato il mancato allestimento di mezzi preclusivi dell'accesso, atteso che la chiusura del fondo costituisce una mera facoltà del titolare del bene.
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E' illegittimo l'ordine di smaltimento di rifiuti indiscriminatamente rivolto al proprietario di un fondo in ragione soltanto di tale sua qualità, ma in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente, sulla base di una istruttoria completa e di un'esauriente motivazione, ancorché fondata su ragionevoli presunzioni o su condivisibili massime d'esperienza, dell'imputabilità soggettiva della colpa.
Tale orientamento giurisprudenziale si pone, del resto, in linea di continuità con l’interpretazione già emersa come prevalente in fase di applicazione del precedente analogo precetto di cui all’art. 14 del d.lgs. 05.02.1997 n. 22 secondo la quale dovevano ritenersi illegittimi gli ordini di smaltimento di rifiuti abbandonati in un fondo che fossero indiscriminatamente rivolti al proprietario del fondo stesso in ragione della sua sola qualità, ma in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente, sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione (quand'anche fondata su ragionevoli presunzioni o su condivisibili massime d'esperienza), dell'imputabilità soggettiva della condotta. L'art. 192 del d.lgs. 03.04.2006 n. 152 riproduce infatti il tenore dell'abrogato art. 14 sopra citato, peraltro integrando il precedente precetto, con la precisazione che l'ordine di rimozione può essere adottato esclusivamente in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo.
In definitiva, il presupposto sostanziale del necessario previo accertamento in contraddittorio della responsabilità/corresponsabilità del proprietario (possessore o detentore del terreno), quanto meno a titolo di colpa, rimane condizione/presupposto essenziale per poter procedere all'emanazione dell'ordinanza comunale (sindacale) di rimozione, non potendo ammettersi una forma di responsabilità oggettiva "propter rem".
Né è ipotizzabile ravvisare colpa nel fatto che il proprietario non abbia recintato il fondo in quanto, per principio generale del diritto (cfr. art. 841 cod. civ.), la "chiusura del fondo" costituisce una mera facoltà del proprietario e non un suo obbligo.
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Se per il configurarsi di una responsabilità a titolo di dolo o colpa del proprietario o di colui che è in rapporto con l'area in un rapporto tale, anche se di mero fatto, da consentirgli una funzione di custodia e protezione, è richiesto che il coinvolgimento a titolo di dolo o colpa sia accertato a seguito di un'adeguata istruttoria e con l'ausilio del privato stesso, il quale deve essere chiamato in contraddittorio per fornire elementi utili di valutazione per l'accertamento delle reali responsabilità, ne consegue che, rispetto a tale contraddittorio, la comunicazione dell'avvio del procedimento si configura come un adempimento indispensabile al fine della sua effettiva instaurazione, apparendo recessive, dunque, in tale specifica materia, le regole stabilite in via generale dagli artt. 7 e 21-octies della L. n. 241/1990.

La questione principale introdotta con il ricorso in trattazione riguarda la legittimità dell'imposizione dell’obbligo di rimozione dei rifiuti al soggetto, quale proprietario dell'area, possessore o anche solo mero detentore, in assenza di un rilevato e reale suo coinvolgimento in merito all'abbandono dei rifiuti, quanto meno in termini di "colpa", da accertarsi in contraddittorio.
Va premesso che l'art. 192 del D.Lgs. 152/2006 stabilisce espressamente che: “l'abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati. È altresì vietata l'immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee.
Fatta salva l'applicazione della sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione <sia imputabile a titolo di dolo o colpa>, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate
."
La norma sembra dunque prefigurare, già nella sua formulazione letterale, il carattere sanzionatorio dell’ordinanza di sgombero.
Per la sua adozione nei confronti dei soggetti obbligati "in solido" è infatti necessaria l'imputazione agli stessi, a titolo di dolo o colpa, del comportamento tenuto in violazione dei divieti di legge.
La giurisprudenza che si è formata in materia è assolutamente omogenea nel richiedere che ai fini dell'ordine alla rimozione il destinatario debba essere non solo proprietario, possessore o detentore, ma responsabile di una condotta, commissiva od omissiva, colpevole.
Si richiamano, tra le pronunce più recenti, C.S. Sez. V n. 1384, 04.03.2011; Sez. II n. 2518, 14.07.2010; Tar Sardegna 05.06.2012 n. 560; TAR Lazio Sez. II-ter n. 2388 del 18.03.2011; Tar Emilia Romagna, Parma, n. 281 08.06.2010; TAR Lazio Sez. II 3582 del 10.05.2005.
La riferita giurisprudenza ha altresì chiarito come, sebbene la colpa possa configurarsi nell'ipotesi in cui il titolare del diritto dominicale ometta di adottare cautele idonee a evitare o ostacolare l'indebito abbandono, non possa tuttavia essergli addebitato il mancato allestimento di mezzi preclusivi dell'accesso, atteso che la chiusura del fondo costituisce una mera facoltà del titolare del bene.
La questione controversa è stata ampiamente affrontata anche dalla sentenza del Consiglio di Stato V sez. n. 1612 del 19.03.2009.
La decisione afferma il principio secondo il quale "è illegittimo l'ordine di smaltimento di rifiuti indiscriminatamente rivolto al proprietario di un fondo in ragione soltanto di tale sua qualità, ma in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente, sulla base di una istruttoria completa e di un'esauriente motivazione, ancorché fondata su ragionevoli presunzioni o su condivisibili massime d'esperienza, dell'imputabilità soggettiva della colpa" .
L’orientamento giurisprudenziale richiamato si pone, del resto, in linea di continuità con l’interpretazione già emersa come prevalente in fase di applicazione del precedente analogo precetto di cui all’art. 14 del d.lgs. 05.02.1997 n. 22 secondo la quale dovevano ritenersi illegittimi gli ordini di smaltimento di rifiuti abbandonati in un fondo che fossero indiscriminatamente rivolti al proprietario del fondo stesso in ragione della sua sola qualità, ma in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente, sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione (quand'anche fondata su ragionevoli presunzioni o su condivisibili massime d'esperienza), dell'imputabilità soggettiva della condotta. L'art. 192 del d.lgs. 03.04.2006 n. 152 riproduce infatti il tenore dell'abrogato art. 14 sopra citato, peraltro integrando il precedente precetto, con la precisazione che l'ordine di rimozione può essere adottato esclusivamente in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo.
In definitiva, il presupposto sostanziale del necessario previo accertamento in contraddittorio della responsabilità/corresponsabilità del proprietario ( possessore o detentore del terreno), quanto meno a titolo di colpa, rimane condizione/presupposto essenziale per poter procedere all'emanazione dell'ordinanza comunale (sindacale) di rimozione, non potendo ammettersi una forma di responsabilità oggettiva "propter rem".
Né, come si ricordava sopra, è ipotizzabile ravvisare colpa nel fatto che il proprietario non abbia recintato il fondo in quanto, per principio generale del diritto (cfr. art. 841 cod. civ.), la "chiusura del fondo" costituisce una mera facoltà del proprietario e non un suo obbligo (cfr. sul punto Consiglio Stato , sez. V, 19.03.2009, n. 1612 secondo cui la mancata realizzazione di opere di sbarramento e di recinzione non può essere ritenuta una omissione colpevole).
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La rilevata natura sanzionatoria del provvedimento evidenzia altresì la fondatezza del terzo motivo di ricorso, con il quale si deduce la violazione degli artt. 7 ed 8 della legge n. 241/1990, per non essere stata data comunicazione, al soggetto interessato, dell’avvio del procedimento.
Se infatti per il configurarsi di una responsabilità a titolo di dolo o colpa del proprietario o di colui che è in rapporto con l'area in un rapporto tale, anche se di mero fatto, da consentirgli una funzione di custodia e protezione, è richiesto che il coinvolgimento a titolo di dolo o colpa sia accertato a seguito di un'adeguata istruttoria e con l'ausilio del privato stesso, il quale deve essere chiamato in contraddittorio per fornire elementi utili di valutazione per l'accertamento delle reali responsabilità, ne consegue che, rispetto a tale contraddittorio, la comunicazione dell'avvio del procedimento si configura come un adempimento indispensabile al fine della sua effettiva instaurazione (sul punto della indispensabilità della comunicazione di avvio Tar Parma 12.07.2011 n. 255 e TAR Salerno Sez. II, n. 1826, del 07.05.2009), apparendo recessive, dunque, in tale specifica materia, le regole stabilite in via generale dagli artt. 7 e 21-octies della L. n. 241/1990
(TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 19.12.2012 n. 747 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL'art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 che dispone l'esclusione dalla gara per l'affidamento di appalti pubblici del soggetto nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato, o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell'art. 444 c.p.p., per reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale va letta come presidio dell'interesse dell'Amministrazione di non contrarre obbligazioni con soggetti che non garantiscano adeguata moralità professionale; condizioni perché l'esclusione consegua alla condanna sono la gravità del reato, e il riflesso dello stesso sulla moralità professionale.
La gravità del reato deve, quindi, essere valutata in relazione a quest'ultimo elemento, ed il contenuto del contratto oggetto della gara assume allora importanza fondamentale al fine di apprezzare il grado di "moralità professionale" del singolo concorrente.
Di conseguenza, è irrilevante il tentativo di dimostrare la non gravità del reato sanzionato in sede penale con ammenda pari al minimo edittale.

La difesa della Provincia è coerente con l’indirizzo giurisprudenziale, del resto ampiamente invocato negli scritti difensivi, circa la rilevanza delle dichiarazioni inerenti le condanne ex art. 444 cpp..
A tal proposito, esemplificativamente, è stato ritenuto che “L'art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 che dispone l'esclusione dalla gara per l'affidamento di appalti pubblici del soggetto nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato, o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell'art. 444 c.p.p., per reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale va letta come presidio dell'interesse dell'Amministrazione di non contrarre obbligazioni con soggetti che non garantiscano adeguata moralità professionale; condizioni perché l'esclusione consegua alla condanna sono la gravità del reato, e il riflesso dello stesso sulla moralità professionale. La gravità del reato deve, quindi, essere valutata in relazione a quest'ultimo elemento, ed il contenuto del contratto oggetto della gara assume allora importanza fondamentale al fine di apprezzare il grado di "moralità professionale" del singolo concorrente.
Di conseguenza, è irrilevante il tentativo di dimostrare la non gravità del reato sanzionato in sede penale con ammenda pari al minimo edittale
" (fattispecie in cui la condanna per violazione, commessa nel 2008, delle norme sulla disciplina igienica della produzione e della vendita di sostanze alimentari è stata ritenuta di per sé, in relazione all'oggetto del contratto per il quale è stata indetta la gara, inerente il servizio di ristorazione, quale grave reato che incide sulla moralità professionale; cfr. Consiglio Stato sez. VI, 04.06.2010, n. 3560) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 19.12.2012 n. 739 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa previsione del bando di gara che impone ai partecipanti la previa presa visione dei luoghi dell'appalto “risponde a un apprezzabile interesse pubblico, volto a garantire la qualificata valutazione dei luoghi da parte degli amministratori delle ditte partecipanti e quindi la serietà stessa dell'offerta”.
Come già puntualizzato in giurisprudenza, la previsione del bando di gara che impone ai partecipanti la previa presa visione dei luoghi dell'appalto “risponde a un apprezzabile interesse pubblico, volto a garantire la qualificata valutazione dei luoghi da parte degli amministratori delle ditte partecipanti e quindi la serietà stessa dell'offerta” (C.G.A., 03.07.2009, n. 596) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 19.12.2012 n. 726 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’art. 20 del d.lgs. 163 del 2006 sancisce che anche per le gare aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture esclusi dall'applicazione del codice devono trovare applicazione (tra gli altri) i principi di imparzialità e trasparenza, principi cui è indubbiamente collegata la regola della seduta pubblica per l'apertura delle buste afferenti alla gara.
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La definitiva esclusione, oppure l'accertamento dell'illegittimità della partecipazione alla gara, impediscono di assegnare al concorrente la titolarità di una situazione sostanziale che lo abiliti ad impugnare l'esito della procedura selettiva. Ed il positivo riscontro della legittimazione al ricorso, sempre secondo le puntualizzazioni dell'Adunanza, è necessario tanto per far valere un interesse, cd. finale, al conseguimento dell'appalto, quanto per perseguire un interesse meramente strumentale diretto alla caducazione dell'intera gara e alla sua riedizione.
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Un onere d'immediata impugnazione della lex specialis di gara pubblica di appalto si pone solo in presenza di clausole immediatamente escludenti o comunque tali da impedire la presentazione di una offerta, mentre negli altri casi le clausole del bando e degli altri documenti di gara vanno impugnate unitamente agli atti della procedura concretamente ed immediatamente lesivi.

Ad avviso del Collegio non è condivisibile la pur argomentata e suggestiva tesi della difesa del Comune resistente, volta ad escludere che il principio sancito dall’Adunanza Plenaria si applichi ai servizi di cui all’allegato IIb del d.lgs. 163/2006. Infatti l’art. 20 del d.lgs. 163 del 2006 sancisce che anche per le gare aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture esclusi dall'applicazione del codice devono trovare applicazione (tra gli altri) i principi di imparzialità e trasparenza, principi cui è indubbiamente collegata la regola della seduta pubblica per l'apertura delle buste afferenti alla gara (Tar Veneto 05.12.2011 n. 1805 ).
Sul tema, il Collegio è a conoscenza di un orientamento giurisprudenziale minoritario, che prendendo le mosse dall’art. 12, c. 3, del decreto legge 07.05.2012 n. 52, il quale ha sancito normativamente l’obbligo di apertura in seduta pubblica delle offerte tecniche, sostiene che (per le gare svolte prima dell’entrata in vigore della norma) sia necessario indagare in concreto su eventuali compromissioni della segretezza dei plichi. Il Collegio non condivide questo pur suggestivo orientamento, che va nella direzione di quanto prospettato dalla difesa comunale, in quanto appare inconciliabile con il chiaro orientamento fatto proprio dall’Adunanza Plenaria con la decisione n. 13 del 28.07.2011, peraltro ben anteriore all’approvazione del bando di gara.
Né, a parere del Collegio, è condivisibile la pur argomentata visione riduttiva dell’interesse strumentale alla ripetizione della gara fatta propria dalla difesa del Comune, sulla scorta dell’Adunanza Plenaria 07.04.2011 n. 4, in quanto, come ha chiarito la giurisprudenza più recente, è vero che la mera partecipazione (c.d. di fatto) ad una gara non è sufficiente per attribuire la legittimazione al ricorso, poiché la situazione legittimante deriva da una qualificazione di carattere normativo, che postula il positivo esito del sindacato sulla ritualità dell'ammissione del soggetto ricorrente alla procedura selettiva. Difatti, la definitiva esclusione, oppure l'accertamento dell'illegittimità della partecipazione alla gara, impediscono di assegnare al concorrente la titolarità di una situazione sostanziale che lo abiliti ad impugnare l'esito della procedura selettiva. Ed il positivo riscontro della legittimazione al ricorso, sempre secondo le puntualizzazioni dell'Adunanza, è necessario tanto per far valere un interesse, cd. finale, al conseguimento dell'appalto, quanto per perseguire un interesse meramente strumentale diretto alla caducazione dell'intera gara e alla sua riedizione (CdS Sez.V 12.09.2012 n. 4842). Nella fattispecie non è stato presentato alcun ricorso incidentale e la legittimità della partecipazione della ricorrente non è stata mai messa in dubbio.
Ancora, sono del tutto infondate le affermazioni della controinteressata relative all’inammissibilità dell’impugnazione del disciplinare di gara. E’ ormai consolidato il principio per cui un onere d'immediata impugnazione della lex specialis di gara pubblica di appalto si pone solo in presenza di clausole immediatamente escludenti o comunque tali da impedire la presentazione di una offerta, mentre negli altri casi le clausole del bando e degli altri documenti di gara vanno impugnate unitamente agli atti della procedura concretamente ed immediatamente lesivi (per citare decisioni recenti, Cds Sez. V 10.09.2012 n. 4786, 06.06.2012 n. 3344). Non è quindi configurabile alcuna acquiescenza alla clausola del bando e alcun onere di impugnazione diretta (TAR Marche, sentenza 15.12.2012 n. 836 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Devono considerarsi vani tecnici solo quelli destinati esclusivamente agli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione e che non possono essere collocati al suo interno e che, in quanto tali, non solo non sono abitabili, ma non sono nemmeno suscettibili di essere considerati dei volumi autonomi.
Altresì, vanno considerati come volumi tecnici (come tali non rilevanti ai fini della volumetria di un immobile) quei volumi destinati esclusivamente agli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione e che non possono essere ubicati al suo interno, mentre non sono tali -e sono quindi computabili ai fini della volumetria consentita- le soffitte, gli stenditori chiusi e quelli di sgombero, nonché il piano di copertura (impropriamente definito sottotetto, ma costituente in realtà una mansarda, in quanto dotato di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda)”.
Ulteriori pronunce hanno evidenziato come l’esistenza di una scala interna, così com’è presente nel caso di specie -e nell’ambito della realizzazione di un vano sottotetto- , “costituisce un indice rivelatore dell'intento di rendere abitabile detto locale, “non potendosi considerare volumi tecnici i vani in esso ricavati”.

... per l'annullamento del permesso di costruire n. 394/2006 del 26.03.2008 con il quale il Comune di Eraclea ha autorizzato i Sig. ri Mazzolin Sergio e Betteto Livia a eseguire “lavori di innalzamento sottotetto n. 3 fori finestra e nuova scala interna” da eseguire sull’unità immobiliare sita in via Gelsomini a Eraclea (VE).
...
Sul punto va ricordato che per un costante orientamento giurisprudenziale devono considerarsi vani tecnici solo quelli destinati esclusivamente agli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione e che non possono essere collocati al suo interno e che, in quanto tali, non solo non sono abitabili, ma non sono nemmeno suscettibili di essere considerati dei volumi autonomi.
Come, peraltro, ha confermato una recente pronuncia di merito (TAR Lombardia Milano Sez. II, 05.01.2012, n. 38) ...”vanno considerati come volumi tecnici (come tali non rilevanti ai fini della volumetria di un immobile) quei volumi destinati esclusivamente agli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione e che non possono essere ubicati al suo interno, mentre non sono tali -e sono quindi computabili ai fini della volumetria consentita- le soffitte, gli stenditori chiusi e quelli di sgombero, nonché il piano di copertura (impropriamente definito sottotetto, ma costituente in realtà una mansarda, in quanto dotato di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda)”.
Ulteriori pronunce hanno evidenziato come l’esistenza di una scala interna, così com’è presente nel caso di specie -e nell’ambito della realizzazione di un vano sottotetto- , “costituisce un indice rivelatore dell'intento di rendere abitabile detto locale, “non potendosi considerare volumi tecnici i vani in esso ricavati (TAR Lombardia Milano Sez. II, 29-04-2011, n. 1105)”.
E’ allora evidente come non ci si possa esimere dal qualificare, il manufatto oggetto del permesso di costruire ora impugnato, quale nuova costruzione e, ciò, con l’ulteriore conseguenza di ritenere esistente la violazione delle distanze tra le costruzioni e il vizio di difetto di istruttoria in cui è incorsa l’Amministrazione Comunale.
Quest’ultima, infatti, ha adottato il permesso di costruire, ora impugnato, senza considerare il rispetto delle distanze minime prescritte dal codice civile (art. 873 c.c.), attività cui l’Amministrazione era tenuta in considerazione della piena vigenza di detti limiti anche in quelle valutazioni tipiche dell’esercizio di un’attività vincolata e propedeutiche al rilascio dei permessi di costruire (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 14.12.2012 n. 1563 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La tamponatura di pensiline e tettoie preesistenti, anche per volumi molto inferiori al presente, costituisce nuova superficie e giustifica la sanzione della demolizione.
E’ infatti ben noto come, in sede edilizia la nozione di pertinenza va definita sia in relazione alla necessità e oggettività del rapporto pertinenziale sia alla consistenza dell’opera, che non deve essere tale da alterare in modo significativo l’assetto del territorio.

Come è noto la tamponatura di pensiline e tettoie preesistenti, anche per volumi molto inferiori al presente, costituisce nuova superficie e giustifica la sanzione della demolizione (si veda sul tema Cds. Sez. IV 16.12.2011 n. 6628).
E’ infatti ben noto come, in sede edilizia la nozione di pertinenza va definita sia in relazione alla necessità e oggettività del rapporto pertinenziale sia alla consistenza dell’opera, che non deve essere tale da alterare in modo significativo l’assetto del territorio (Tar Campania, Napoli 21.5.2009 n. 2829) (TAR Marche, sentenza 14.12.2012 n. 804 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Relativamente al verde privato, deve evidenziarsi che esso non ha valenza espropriativa, rientrando nell'ambito della normale conformazione della proprietà privata, espressione del potere di pianificazione e di salvaguardia dei valori urbanistici esistenti.
La giurisprudenza ha infatti precisato che si è al cospetto di vincoli conformativi allorché le prescrizioni mirino ad una zonizzazione dell’intero territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione assolta dalla intera zona in cui questi ricadono e delle sue caratteristiche intrinseche.
Conseguentemente, non essendo un vincolo preordinato all'esproprio, esso non va subordinato ad un indennizzo o ad un limite di durata. Tali destinazioni, infatti non introducono l'inedificabilità assoluta dell’area, né, tanto meno, svuotano di contenuto -azzerandolo economicamente in termini di valore di scambio- il diritto dominicale.
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Le scelte urbanistiche, che di norma non comportano la necessità di specifica giustificazione oltre quella desumibile dai criteri generali di impostazione del piano o della sua variante, necessitano di congrua motivazione solo quando incidono su aspettative dei privati particolarmente qualificate, come quelle ingenerate da impegni già assunti dalla amministrazione mediante approvazione di piani attuativi o stipula convenzioni: in tali circostanze, la completezza della motivazione costituisce infatti lo strumento dal quale deve emergere la avvenuta comparazione tra il pubblico interesse cui si finalizza la nuova scelta e quello del privato, assistito appunto da una aspettativa tutelata.
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Qualora nelle scelte di pianificazione –che inevitabilmente valorizzano alcune aree mortificando le prospettive di utilizzazione e il valore di scambio di altre– non siano ravvisabili contrasti con l’impostazione tecnico-urbanistica dello strumento urbanistico o non si evidenzi la contrarietà ai principi della logica, è da escludere che possano ritenersi inficiate le opzioni urbanistiche privilegiate dall’Amministrazione.

Quanto all’asserita illegittimità della delibera comunale di adozione del piano sia per aver l’Amministrazione asseritamente sottoposto l’intera zona E/3.1 (in verità, nella memoria 07.11.2012, pag. 5 si afferma, in contraddizione con quanto precisato in ricorso, pag. 10 che la sottoposizione non sarebbe totale) a vincolo di verde privato paesaggistico, impedendo così, di fatto, lo sfruttamento edificatorio a fini abitativi della famiglia rurale, sia perché il predetto vincolo, di carattere espropriativo, sarebbe privo della previsione di un indennizzo e dell’indicazione della durata, va osservato, preliminarmente, che l’area di proprietà del ricorrente risulta classificata in parte come zona agricola, e in parte come zona a verde privato paesaggistico, senza alcuna sovrapposizione.
Orbene, relativamente all’edificabilità della zona agricola già s’è detto sopra: relativamente al verde privato, invece, deve evidenziarsi che esso non ha valenza espropriativa, rientrando nell'ambito della normale conformazione della proprietà privata, espressione del potere di pianificazione e di salvaguardia dei valori urbanistici esistenti. La giurisprudenza ha infatti precisato che si è al cospetto di vincoli conformativi allorché le prescrizioni mirino ad una zonizzazione dell’intero territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione assolta dalla intera zona in cui questi ricadono e delle sue caratteristiche intrinseche (cfr., per tutte, CdS, IV, 09.06.2008 n. 2837).
Conseguentemente, non essendo un vincolo preordinato all'esproprio, esso non va subordinato ad un indennizzo o ad un limite di durata. Tali destinazioni, infatti non introducono l'inedificabilità assoluta dell’area, né, tanto meno, svuotano di contenuto -azzerandolo economicamente in termini di valore di scambio- il diritto dominicale.
Le scelte urbanistiche, che di norma non comportano la necessità di specifica giustificazione oltre quella desumibile dai criteri generali di impostazione del piano o della sua variante, necessitano di congrua motivazione solo quando incidono su aspettative dei privati particolarmente qualificate, come quelle ingenerate da impegni già assunti dalla amministrazione mediante approvazione di piani attuativi o stipula convenzioni: in tali circostanze, la completezza della motivazione costituisce infatti lo strumento dal quale deve emergere la avvenuta comparazione tra il pubblico interesse cui si finalizza la nuova scelta e quello del privato, assistito appunto da una aspettativa tutelata (CdS, IV, 14.05.2007 n. 2411).
Orbene, nella specie non si configura alcuna legittima aspettativa in capo alla parte ricorrente atteso che rispetto alle previsioni e del piano regolatore previgente e della variante oggetto della presente impugnativa non è ravvisabile altro che una generica aspettativa ad una reformatio in melius, non meritevole di particolare tutela, né idonea a configurare obblighi di puntuale motivazione.
Va infine sottolineato che qualora nelle scelte di pianificazione –che inevitabilmente valorizzano alcune aree mortificando le prospettive di utilizzazione e il valore di scambio di altre– non siano ravvisabili contrasti con l’impostazione tecnico-urbanistica dello strumento urbanistico o non si evidenzi la contrarietà ai principi della logica, è da escludere che possano ritenersi inficiate le opzioni urbanistiche privilegiate dall’Amministrazione (TAR Veneto, I, 18.04.2011 n. 639) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 12.12.2012 n. 1549 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTITia, legittime le presunzioni. Il dpr attuativo del decreto Ronchi non viola le norme Ue. Palazzo Spada ammette l'utilizzo del metodo normalizzato per calcolare la tariffa rifiuti.
Il regolamento statale sul metodo normalizzato con il quale viene determinata la tariffa rifiuti, e che da quest'anno deve essere applicato alla Tares, non viola la normativa comunitaria, anche se consente ai comuni l'utilizzo di criteri presuntivi non rapportati all'effettiva produzione di rifiuti. Del resto, le regole europee non impongono agli stati membri un metodo preciso per finanziare il costo di smaltimento dei rifiuti urbani.
Quindi, il comune di Prato ha legittimamente deliberato il coefficiente massimo di produzione per gli alberghi con ristorazione, perché è un dato di comune esperienza che questa attività sia potenzialmente produttiva di rifiuti in misura maggiore rispetto ad altre utenze.

Lo ha affermato il Consiglio di Stato, VI Sez., con la sentenza 04.12.2012 n. 6208.
Per i giudici di palazzo Spada, «il diritto comunitario non impone agli stati membri un metodo preciso quanto al finanziamento del costo dello smaltimento dei rifiuti urbani, anche perché è spesso difficile, persino oneroso, determinare il volume esatto di rifiuti urbani conferito da ciascun detentore».
In effetti l'articolo 6 del dpr 158/1999, vale a dire il regolamento attuativo del decreto Ronchi (22/1997) che disciplina il metodo normalizzato della Tia, ai fini del calcolo della tariffa relativo alle utenze non domestiche consente di applicare un sistema presuntivo per determinare la quota variabile, rapportato alla superficie dell'utenza e al coefficiente di produzione. Secondo i giudici amministrativi, il coefficiente di produzione è il «coefficiente potenziale in kg/mq anno che tiene conto della quantità di rifiuto minima e massima connessa alla tipologia di attività».
Pertanto è corretto l'operato dell'amministrazione, che ha distinto le superfici delle utenze domestiche e di quelle non domestiche, determinando la tariffa in base ai coefficienti indicati nella tabella allegata al regolamento statale, «poiché non è irragionevole ritenere che un albergo con ristorante possa produrre rifiuti in quantità cinque volte superiore rispetto a quelli prodotti dalle utenze domestiche».
Anche secondo la Cassazione (ordinanza 12859/2012) i comuni sono legittimati a fissare tariffe maggiorate per le attività alberghiere, perché potenzialmente producono più rifiuti delle abitazioni. La maggiore capacità produttiva di rifiuti di un esercizio alberghiero rispetto a una civile abitazione è un fatto incontestabile e un dato di comune esperienza. Tra l'altro, non assume alcun rilievo neppure il carattere stagionale dell'attività, il quale può eventualmente dar luogo a speciali riduzioni d'imposta, rimesse alla discrezionalità dell'ente impositore.
Sono dunque ammissibili le presunzioni previste dal dpr 158/1999 per determinare la tassa sui rifiuti prodotti. Dal 2013 queste regole si applicano anche al nuovo tributo sui rifiuti e i servizi (Tares), che sostituisce i vecchi regimi di prelievo Tarsu e Tia1. L'articolo 14 del dl salva-Italia (201/2011), in seguito alle modifiche apportate dalla legge di stabilità (228/2012), prevede che le disposizioni contenute nel dpr 158/1999 devono essere applicate a regime anche per la Tares e non più in via transitoria, come stabilito in un primo momento, fino all'emanazione di un nuovo regolamento che avrebbe dovuto definire i criteri per l'individuazione del costo del servizio di gestione dei rifiuti e per la quantificazione della tariffa.
Tuttavia, l'uso delle presunzioni non deve creare discriminazioni tra i contribuenti. Il Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna, seconda sezione, con la sentenza 551/2012, ha infatti dichiarato illegittimo il regolamento comunale che prevede per la determinazione della Tia dovuta dai soggetti non residenti criteri e coefficienti di calcolo basati sul numero dei componenti del nucleo familiare desunto dalla superficie degli immobili. Né può essere ritenuta valida la giustificazione di avere fatto ricorso alla presunzione solo perché il dato reale è difficile accertarlo attraverso le risultanze anagrafiche. Questo meccanismo presuntivo è stato ritenuto del tutto inattendibile, in quanto un immobile di notevole ampiezza può essere utilizzato da un numero ristretto di occupanti (articolo ItaliaOggi del 04.01.2013 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI: Offerta anomala? Immotivato 'aggiustare' le voci di costo.
E' immotivata la rimodulazione di voci di costo di una offerta pubblica in una gara di appalto al solo scopo di far 'quadrare' i conti; il Consiglio di Stato -Sez. V- con la sentenza 30.11.2012 n. 6117 ha affermato che "inammissibile e, priva di giustificazione, che una offerta relativa ad una gara pubblica sia presentata con tali anomalie.
La provincia di una nota città pugliese aveva indetto una gara per l’appalto di lavori di allargamento di una strada provinciale . La gara era stata aggiudicata ad una ATI con capogruppo una SRL .
L’Amministrazione provinciale aveva avviato le operazioni di analisi e verifica delle giustificazioni delle prime classificate. In esito a tali verifiche, con determina dirigenziale, la Provincia aveva giudicato anomalo il prezzo offerto dalle prime due classificate e con successiva determina, aveva disposto l’esclusione delle relative offerte.
Avverso tali provvedimenti, l’A.T.I. aggiudicataria era ricorsa al TAR che aveva, tuttavia , respinto il ricorso.
L’A.T.I. ricorrente, nell’appellarsi al Consiglio di Stato, evidenzia l’erroneità della sentenza impugnata sotto due distinti profili:
a. il primo relativo all’omesso riconoscimento della possibilità di compensare tra loro “voci di costo” negative e positive comunque riferibili alla stessa categoria di beni;
b. il secondo relativo alla ritenuta insindacabilità del giudizio espresso dalla Commissione di gara in ordine alla valutazione di anomalia dell’offerta.
Con riferimento al punto a) l’A.T.I. ricorrente sostiene di aver formulato un’offerta sottodimensionata “per il conglomerato bituminoso, in quanto riferita al materiale allo stato “sciolto” e non a quello “compattato”, necessario per la realizzazione dell’opera a regola d’arte che, stante la variazione di volume tra i due stati, avrebbe determinato un incremento delle quantità richieste e dei conseguenti costi”. Lo stesso principio vale anche per la fornitura degli inerti (tufina e misto stabilizzato), sottodimensionati rispetto al reale fabbisogno.
Per il Consiglio di Stato le argomentazioni dell’A.T.I. ricorrente sono infondate.
Occorre ricordare che una delle patologie piuttosto frequenti nel sistema degli appalti di opere pubbliche consiste nell’anomalia delle offerte. Il criterio di aggiudicazione al prezzo più basso, dovuto in particolare modo all’eccessiva rigidità e all’assenza di discrezionalità in capo all’amministrazione presenta in molti casi il rischio dell’anomalia dell’offerta. Tale situazione si verifica spesso in seguito al fatto che la ditta cerca ad ogni costo di aggiudicarsi l’appalto arrivando con frequenza , a formulare offerte, che in maniera piuttosto evidente, non coprono neppure i costi.
Il nuovo codice sugli appalti, di cui al D.Lgs. 163/2006 e s.m.i. con riferimento al problema delle offerte anomale interviene cercando di definirne i criteri di individuazione.
In particolare l’articolo 87 del D.Lgs. 163/2006 individua, a titolo esemplificativo, le possibili giustificazioni, al riguardo, che possono essere: l’economia del procedimento di costruzione, del processo di fabbricazione, del metodo di prestazione del servizio; le soluzioni tecniche adottate; le eccessivi condizioni di favore che la società offerente dispone per eseguire i lavori, per fornire i prodotti o per prestare i servizi; l’originalità del progetto, dei lavori, dei servizi offerti; il rispetto delle norme vigenti in tema di sicurezza e condizioni di lavoro; l’eventualità che l’offerente ottenga un aiuto di Stato; il costo del lavoro.
Inoltre proprio in relazione a quest’ultimo punto il nuovo codice dispone che non sono ammesse, sempre con riferimento alle offerte anomale, giustificazioni in relazione a trattamenti salariali minimi.
Nel caso di specie , come correttamente osservato dal TAR, dall’esame delle giustificazioni formulate dall’A.T.I. risulta che questa non abbia operato una rimodulazione delle voci di costi alla luce di sopravvenienze in corso di gara, ma più semplicemente si sia precostituita, volontariamente ed al solo fine di poter “coprire” eventuali e diverse carenze nell’offerta, un margine di operatività, prevedendo un sovradimensionamento (surplus) di alcune voci di costo da utilizzare in caso di bisogno.
Tale atteggiamento, per i giudici di Palazzo Spada, dimostra la scarsa serietà e la poca affidabilità dell’offerta.
Come il Consiglio di Stato ha già avuto modo di precisare, infatti, il subprocedimento di giustificazione dell'offerta anomala non è finalizzato a consentire aggiustamenti dell'offerta in itinere, ma mira piuttosto a “verificare la serietà di un'offerta consapevole già formulata ed immutabile, con conseguente inammissibilità di quelle giustificazioni che, nel tentativo di far apparire seria un'offerta che invece non è stata adeguatamente meditata, risultano tardivamente finalizzate ad un'allocazione dei costi diversi rispetto a quella originariamente indicata”.
Né , per le stesse ragioni , deve ritenersi consentita l'immotivata rimodulazione di voci di costo al solo scopo di far “quadrare i conti”, al fine cioè di assicurare che il prezzo complessivo offerto resti immutato, superando le contestazioni della stazione appaltante su alcune voci di costo.
Come risulta dal giudizio di anomalia espresso dalla Stazione appaltante, sul punto non contestato, “l’A.T.I. ha dimostrato di aver alterato dei prezzi netti dichiarati gravandoli di un surplus di utile rispetto a quanto riportato nell’offerta”, e ciò al primario fine “di voler fare uso di parte di detto surplus, fittiziamente accantonato, per far fronte ai rilievi dell’Amministrazione”.
La decisione della Stazione appaltante di escludere l’A.T.I. dalla selezione, infatti, non è affetta da alcuna valutazione abnorme, manifestamente illogica o da errori di fatto.
Come correttamente affermato dal TAR, infatti, né in sede di giustificazioni presentate a corredo dell’offerta, né in sede di chiarimenti forniti nell’audizione sono state formulate osservazioni che dimostrassero l’asserita congruità dell’offerta presentata.
Per le ragioni esposte l’appello è infondato e come tale da respingere (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn caso di diniego di concessione edilizia, richiesta dal proprietario ma respinta dal Comune per errori di rappresentazione progettuale, non sussiste l’interesse all’impugnazione in capo al professionista progettista dell’opera, in quanto “il diniego incide sullo ius aedificandi e non sull'esercizio della professione del progettista, né sulle sue qualità e il suo prestigio”.
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Nel caso di specie trattasi di un annullamento parziale di una concessione edilizia fondato su di un unico rilievo: l’errata individuazione della superficie dell’area edificabile compiuta dal progettista.
L’arch. F. è colui che ha catastalmente frazionato e quindi individuato la parte di terreno edificabile e, successivamente, progettato il nuovo immobile ivi eretto: egli, pertanto, essendo corresponsabile della conformità delle opere, ha una pretesa qualificata al legittimo esercizio dell’azione amministrativa sub iudice e, conseguentemente, la legittimazione a chiedere l’annullamento di un provvedimento amministrativo che reputa configgere con l’interpretazione che egli ha dato della disciplina urbanistica comunale e, più in generale, con il suo operato.

Pregiudizialmente occorre esaminare l’eccezione di difetto di legittimazione attiva in capo al ricorrente, sollevata dalla difesa del Comune di Trento in dipendenza della circostanza che l’arch. Fracchetti non è il proprietario del neo edificato immobile di causa, ma il progettista dello stesso, legato alla titolare del diritto reale e delle correlate facoltà edilizie, sig.ra Furlani, solo da un rapporto professionale.
Su questo punto il Collegio condivide l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale, in caso di diniego di concessione edilizia, richiesta dal proprietario ma respinta dal Comune per errori di rappresentazione progettuale, non sussiste l’interesse all’impugnazione in capo al professionista progettista dell’opera, in quanto “il diniego incide sullo ius aedificandi e non sull'esercizio della professione del progettista, né sulle sue qualità e il suo prestigio” (cfr., da ultimo, C.d.S., sez. IV, 17.09.2012, n. 4924; 18.04.2012, n. 2275).
Il caso di specie, peraltro, è diverso: il titolo edilizio è stato rilasciato nel dicembre 2009 e l’immobile, nella sua struttura complessiva, è stato ultimato. Trattasi, infatti, di un annullamento parziale di una concessione edilizia fondato su di un unico rilievo: l’errata individuazione della superficie dell’area edificabile compiuta dal progettista. Il provvedimento in esame è stato quindi notificato, ai sensi dell’art. 127 della l.p. urbanistica 04.03.2008, n. 1, anche al costruttore nonché al direttore dei lavori/progettista, tutti responsabili, anche penalmente, secondo quanto previsto dall’art. 29 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (cfr., ex multis, Cass. Pen., sez. III, 09.09.2009, n. 34879).
L’arch. Fracchetti è colui che ha catastalmente frazionato e quindi individuato la parte di terreno edificabile e, successivamente, progettato il nuovo immobile ivi eretto: egli, pertanto, essendo corresponsabile della conformità delle opere, ha una pretesa qualificata al legittimo esercizio dell’azione amministrativa sub iudice e, conseguentemente, la legittimazione a chiedere l’annullamento di un provvedimento amministrativo che reputa configgere con l’interpretazione che egli ha dato della disciplina urbanistica comunale e, più in generale, con il suo operato (cfr., in termini, TRGA Trento, 11.05.2011, n. 135; 08.07.2010, n. 170; TAR Veneto, sez. II; 14.06.2004, n. 2043)
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 22.11.2012 n. 343 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe mappe catastali costituiscono sempre un elemento probatorio di carattere sussidiario, al quale si deve ricorrere “in caso di obiettiva e assoluta mancanza di prove idonee a determinare il confine in modo certo”, o quando i diversi elementi prodotti (per la loro consistenza, o per ragioni attinenti alla loro attendibilità) risultino comunque inidonei alla determinazione certa dei confini.
Le argomentazioni sviluppate dal ricorrente con il primo motivo -volte a sostenere che a causa della non perfetta corrispondenza tra la situazione dei luoghi descritta nelle mappe urbanistiche del Comune e catastali, per un verso, e la situazione reale da altro verso, egli avrebbe dovuto individuare i confini della zona B5 sulla base di punti fiduciali riscontrati in loco in sede di progettazione e, precisamente, con la già menzionata tavola DTA.1.01- sono quindi infondate in punto di fatto e, precisamente, sulla base di quanto egli aveva già accertato in sede di frazionamento.
In particolare: il confine nord, tracciando una linea retta originata dagli spigoli 651 e 652 dell’edificio 1015 e che passa per il punto battuto 539; il confine est, tracciando un’altra linea retta originata dai punti 824 e 765 dell’edificio 973. Cosicché in sede di progettazione era obbligo utilizzare la planimetria allegata al frazionamento e utilizzare i punti battuti in precedenza individuati con coordinate certe, anziché redigerne una nuova, che prescinde dai capisaldi stabiliti e che sarebbe invece basata su asseriti “punti fiduciali” del tutto innovativi e soggettivamente “desunti”, quali la successivamente dedotta “linea tendenzialmente curvilinea di demarcazione tra le aree B1 ed il centro storico”.
Né torna utile al ricorrente sostenere di avere utilizzato in sede di progettazione la mappa catastale. Infatti:
- oltre a dover sapere, sia in linea generale ma soprattutto per la professione che egli esercita, che le mappe catastali costituiscono sempre un elemento probatorio di carattere sussidiario, al quale si deve ricorrere “in caso di obiettiva e assoluta mancanza di prove idonee a determinare il confine in modo certo”, o quando i diversi elementi prodotti (per la loro consistenza, o per ragioni attinenti alla loro attendibilità) risultino comunque inidonei alla determinazione certa dei confini (cfr., ex multis, Cass. Civ., sez. II, 02.11.2010, n. 22298 e TRGA Trento, 22.06.2011, n. 177)
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 22.11.2012 n. 343 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In base al principio del contrarius actus, qualora in sede di rilascio di una concessione edilizia sia stato acquisito il parere della Commissione edilizia, tale parere va acquisito anche all'atto dell'annullamento d'ufficio del suddetto titolo abilitativo, fatte salve le ipotesi in cui il provvedimento di autotutela sia supportato da evidenti ragioni formali o di tipo giuridico.
Il pronunciamento dell'organo tecnico consultivo non è infatti necessario allorché l'annullamento della concessione edilizia sia un atto dovuto e non discrezionale, come nel caso che qui occupa, ove il provvedimento di annullamento parziale della concessione edilizia è stato motivato con richiami a ragioni sia tecniche che giuridiche, essendo stato fatto esclusivo riferimento all’errata rappresentazione nella planimetria di progetto del lotto edificabile che ha comportato l’attribuzione di una maggiore ampiezza allo stesso in un’area di pregio non edificabile.

Il terzo motivo, con il quale è stata denunciata la mancata acquisizione del parere della Commissione edilizia, è infondato in punto di diritto.
Da un lato il parere dell’organo consultivo comunale di Trento nel procedimento di annullamento di un titolo edilizio non è previsto da alcuna norma (cfr., art. 28 del regolamento edilizio comunale).
Da altro profilo, è assodato in giurisprudenza che, in base al principio del contrarius actus, qualora in sede di rilascio di una concessione edilizia sia stato acquisito il parere della Commissione edilizia, tale parere vada acquisito anche all'atto dell'annullamento d'ufficio del suddetto titolo abilitativo, fatte salve le ipotesi in cui il provvedimento di autotutela sia supportato da evidenti ragioni formali o di tipo giuridico (cfr., C.d.S., sez. V, 12.05.2011, n. 2821; sez. IV, 31.03.2009, n. 1909).
Il pronunciamento dell'organo tecnico consultivo non è infatti necessario allorché l'annullamento della concessione edilizia sia un atto dovuto e non discrezionale, come nel caso che qui occupa, ove il provvedimento di annullamento parziale della concessione edilizia è stato motivato con richiami a ragioni sia tecniche che giuridiche, essendo stato fatto esclusivo riferimento all’errata rappresentazione nella planimetria di progetto del lotto edificabile che ha comportato l’attribuzione di una maggiore ampiezza allo stesso in un’area di pregio non edificabile
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 22.11.2012 n. 343 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl pergolato, avente natura ornamentale, deve essere necessariamente realizzato in una struttura leggera, facilmente amovibile perché priva di fondamenta, e deve realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni.
Il secondo motivo è dedicato alla parte dell’ordine di ripristino relativa ad alcune strutture in legno, delle quali il ricorrente rivendica la legittimità, trattandosi, a suo dire, di un “gazebo” oppure di un “pergolato”, di una casetta da gioco per bambini e di alcuni depositi di legna che non eccedono le sue ordinarie esigenze di vita.
Queste argomentazioni sono fondate solo per quanto riguarda la casetta da gioco per bambini e la quantità del legname presente.
La casetta da gioco, infatti, come ha rilevato il verificatore, è l’unica presente nel lotto e, avendo un tetto a due falde; dimensione in pianta non superiore a 4 mq. (precisamente m. 1,90 x 1.40); altezza al colmo pari a 2.20 m.; struttura in legno; assenza di collegamenti per le forniture di servizi, rientra nelle attrezzature ed arredi consentiti nelle aree pertinenziali degli edifici in base al combinato disposto dell’art. 97, comma 1, lett. a-quater), della l.p. 04.03.2008, n. 1, e dell’art. 22, comma 2, lett. a), del D.P.P. 13.07.2010, n. 18-50/Leg.
Quanto alla più ampia struttura in legno adibita a tettoia, si deve innanzitutto osservare che essa, all’opposto di quanto asserisce il ricorrente, non può essere assimilata ad un “gazebo” il quale, ai sensi dell’art. 22, comma 2, lett. c), del citato D.P.P. n. 18-50/Leg. del 2010, deve presentare una superficie coperta non maggiore di 20 mq., mentre la tettoia realizzata dal ricorrente ha una superficie coperta pari a 26,98 mq.
La struttura di causa, infatti, provvista di una tettoia costituita da lastre ondulate trasparenti e dotata di gronde di copertura sui quattro lati, deve essere misurata con il metodo di misurazione per gli elementi geometrici e per le costruzioni indicato con l’allegato 1 della deliberazione della Giunta provinciale 03.09.2010, n. 2023, adottata in attuazione dell’art. 36, comma 2, della l.p. n. 1 del 2008. In particolare, tale metodo prescrive che la superficie coperta corrisponda al sedime comprensivo di tutti gli aggetti rilevanti ai fini delle distanze. Ne consegue che la tettoia di causa, pur avendo dimensioni in pianta pari a m. 2,85 x 6,10, presenta lo sporto della gronda sul fronte nord lungo m. 1,60, quindi maggiore della misura limite per il calcolo delle distanze pari a 1,50 m. (prescritta dall’art. 8, primo comma, lett. c), delle n.t.a. del p.r.g. di Pelugo). In definitiva, pertanto, dovendosi conteggiare anche tale elemento, la struttura in esame presenta una superficie totale coperta di 26,98 mq.
La struttura di causa non può nemmeno definirsi un “pergolato” che, ai sensi dell’art. 22, comma 2, lett. d), del già citato D.P.P. n. 18-50/Leg. del 2010, è una “struttura composta da elementi verticali e sovrastanti elementi orizzontali in legno o altro materiale, tali da costituire una composizione a rete, per il sostegno di piante rampicanti”.
A ciò si deve aggiungere che la giurisprudenza amministrativa ha precisato che tale manufatto, avente natura ornamentale, deve essere necessariamente realizzato in una struttura leggera, facilmente amovibile perché priva di fondamenta, e che deve realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni (cfr., da ultimo, C.d.S., sez. IV, 29.09.2011, n. 5409).
Nel caso di specie è stata invece realizzata una struttura dotata di copertura, costituita da pilastri ancorati al suolo e da travi in legno di importanti dimensioni: tutto ciò la rende solida e robusta e non facilmente amovibile, cosicché essa non può essere ritenuta un pergolato e, quindi, un’opera non rilevante sotto il profilo edilizio (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 21.11.2012 n. 342 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAAppestare l'aria non è concesso. Neanche a impianti autorizzati.
Le immissioni olfattive –provenienti da un impianto munito di autorizzazione ai fini dell'inquinamento atmosferico e che abbia rispettato i relativi valori-limite– sono ascrivibili alla fattispecie di cui all'art. 674 c.p.
: è quanto si legge nella sentenza 26.09.2012 n. 37037.
Secondo la III Sez. penale della Corte di Cassazione «poiché l'ordinamento non prevede specifici valori-limite per le immissioni olfattive, le quali non rientrano nell'ambito della disciplina dell'inquinamento atmosferico, il reato di cui all'art. 674 cod. pen. è configurabile anche nel caso in cui tali immissioni provengano da un impianto munito di autorizzazione per le emissioni in atmosfera, essendo sufficiente il superamento del limite della normale tollerabilità ex art. 844 cod. civ.; limite che funge da criterio di legittimità delle emissioni ai sensi della seconda parte dello stesso art. 674 cod. pen.».
Così argomentando, ha in parte respinto il ricorso presentato da due uomini condannati, sia in primo che secondo grado, perché, quali soci amministratori di una società semplice avente ad oggetto un allevamento avicolo, avevano provocato emissioni di polveri ed effluenti gassosi tali da «offendere e molestare le persone dimoranti nelle vicinanze».
In particolare, gli imputati, tra i diversi motivi di doglianza, lamentavano non solo il fatto che pur dando atto che l'impianto di abbattimento degli odori era stato autorizzato con delibera della giunta regionale, la Corte territoriale aveva finito con il ritenere comunque configurabile il reato, ma anche che, era stato applicato erroneamente l'art. 81 c.p., ritenendo la fattispecie «permanente».
Anche per i giudici di legittimità, però, il fatto andava «qualificato come reato continuato», in quanto la fattispecie prevista dall'art. 674 sarebbe stata «costruita dal legislatore intorno alla condotta di emissione, che si configura ordinariamente come istantanea, in mancanza di specifici elementi di fatto dai quali desumere la sua permanenza».
Purtroppo, però, la Corte distrettuale non aveva proceduto a: collocare nel tempo, con sufficiente precisione, tali episodi; individuare fra di essi il più grave; procedere, conseguentemente, alla determinazione della pena-base e degli aumenti di pena per gli episodi minori (articolo ItaliaOggi del 03.01.2013).

EDILIZIA PRIVATAAlle risultanze catastali non può riconoscersi decisivo valore probatorio in ordine alla proprietà del bene, ma la giurisprudenza riconosce che dalle mappe possono desumersi degli indizi, giacché quello catastale è un sistema secondario sussidiario rispetto all'insieme degli elementi acquisiti attraverso l'indagine istruttoria.
Se il quadro probatorio si esaurisse qui, la questione nodale dell’esistenza o meno di un diritto della ricorrente all’utilizzazione dell’area dovrebbe decidersi in base al principio dell’onere della prova.
E ciò, tenendo conto, da un lato, che alle risultanze catastali non può riconoscersi decisivo valore probatorio in ordine alla proprietà del bene, ma la giurisprudenza riconosce che dalle mappe possono desumersi degli indizi, giacché quello catastale è un sistema secondario sussidiario rispetto all'insieme degli elementi acquisiti attraverso l'indagine istruttoria (cfr. Cass. civ., II, 03.03.2009, n. 5131; TAR Calabria, Catanzaro, II, 08.03.2011, n. 342) (TAR Umbria, sentenza 21.12.2011 n. 408 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio è consapevole della valenza probatoria non assoluta delle mappe catastali; tuttavia ciò che viene in esse rappresentato costituisce un riferimento importante, e comunque sufficiente, qualora non vi siano elementi ufficiali di carattere oggettivo a smentirlo.
Il Collegio è consapevole della valenza probatoria non assoluta delle mappe catastali; tuttavia ciò che viene in esse rappresentato costituisce un riferimento importante, e comunque sufficiente, qualora non vi siano elementi ufficiali di carattere oggettivo a smentirlo.
E tali non possono certo considerarsi le indicazioni della mappa del Catasto Gregoriano, anche considerate le significative modificazioni intervenute nel tessuto urbano (all’epoca ancora caratterizzato da un’edificazione assai limitata, come evidenzia detta mappa) nel lungo periodo intercorrente fino alla elaborazione del nuovo Catasto. Tanto, a prescindere dalla interpretazione che il tecnico dei ricorrenti dà della mappa storica (la cui comprensione richiederebbe un supplemento istruttorio) (TAR Umbria, sentenza 11.07.2011 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI beni demaniali, in quanto inalienabili ai sensi dell'articolo 823, c.c. non sono suscettibili di usucapione, in mancanza di previa sdemanializzazione, e sono tutelabili mediante i poteri di autotutela possessoria.
In particolare, il disuso prolungato di una strada vicinale da parte della collettività e l'inerzia dell'amministrazione nella cura della stessa e/o nell'intervento riguardo ad occupazioni o usi da parte di privati incompatibili con la destinazione pubblica, non bastano a comprovare inequivocamente la cessata destinazione del bene (anche solo potenziale) all'uso pubblico (c.d. sdemanializzazione tacita), occorrendo che detti indizi siano accompagnati da fatti concludenti e da circostanze tali da non lasciare adito ad altre ipotesi, salva quella che la stessa abbia definitivamente rinunciato al ripristino dell'uso stradale pubblico.

Quanto alla considerazione degli interessi dei privati al mantenimento (alla legittimazione) della situazione di fatto, non è superfluo ricordare che i beni demaniali, in quanto inalienabili ai sensi dell'articolo 823, c.c. non sono suscettibili di usucapione, in mancanza di previa sdemanializzazione, e sono tutelabili mediante i poteri di autotutela possessoria.
In particolare, il disuso prolungato di una strada vicinale da parte della collettività e l'inerzia dell'amministrazione nella cura della stessa e/o nell'intervento riguardo ad occupazioni o usi da parte di privati incompatibili con la destinazione pubblica, non bastano a comprovare inequivocamente la cessata destinazione del bene (anche solo potenziale) all'uso pubblico (c.d. sdemanializzazione tacita), occorrendo che detti indizi siano accompagnati da fatti concludenti e da circostanze tali da non lasciare adito ad altre ipotesi, salva quella che la stessa abbia definitivamente rinunciato al ripristino dell'uso stradale pubblico (cfr. Cons. Stato, IV, 07.09.2006, n. 5209; V, 06.10.2009, n. 6095; TAR Lombardia, Brescia, I, 08.07.2009, n. 1450; TAR Abruzzo, Pescara, I, 20.06.2009, n. 445; TAR Emilia Romagna, Parma, 25.05.2005, n. 291) (TAR Umbria, sentenza 11.07.2011 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon è corretto sostenere che i confini segnati sulle mappe catastali non sono attendibili ma è invece esatto affermare che le mappe catastali costituiscono un elemento probatorio di carattere sussidiario al quale si deve ricorrere “in caso di obiettiva e assoluta mancanza di prove idonee a determinare il confine in modo certo”, ed anche quando i diversi elementi prodotti (per la loro consistenza, o per ragioni attinenti alla loro attendibilità) risultino comunque inidonei alla determinazione certa del confine.
A ciò consegue che la parte che si dolga del ricorso al mezzo sussidiario di prova dei confini catastali “ha l'onere di indicare gli specifici elementi alla cui stregua andrebbe, invece, difformemente accertata la linea di confine controversa”.

Non è peraltro corretto sostenere che i confini segnati sulle mappe catastali non sono attendibili ma è invece esatto affermare che le mappe catastali costituiscono un elemento probatorio di carattere sussidiario al quale si deve ricorrere “in caso di obiettiva e assoluta mancanza di prove idonee a determinare il confine in modo certo” (cfr., ex multis, Cass. Civ., sez. II, 02.11.2010, n. 22298), ed anche quando i diversi elementi prodotti (per la loro consistenza, o per ragioni attinenti alla loro attendibilità) risultino comunque inidonei alla determinazione certa del confine.
A ciò consegue che la parte che si dolga del ricorso al mezzo sussidiario di prova dei confini catastali “ha l'onere di indicare gli specifici elementi alla cui stregua andrebbe, invece, difformemente accertata la linea di confine controversa” (cfr., Cass. Civ., sez. II, 30.12.2009, n. 28103) (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 22.06.2011 n. 177 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADalle mappe possono desumersi degli indizi, giacché quello catastale è un sistema secondario sussidiario rispetto all'insieme degli elementi acquisiti attraverso l'indagine istruttoria.
D’altra parte, ed a titolo di esempio, che in tema di azione di regolamento di confini è la stessa norma (l’art. 950, secondo comma, cod. civ.) ad attribuire rilevanza probatorio alle mappe catastali, in mancanza di altri elementi.

Il ricorrente contesta con forza le conclusioni cui è pervenuto il CTU, sottolineando che, nel sistema Italiano, ai dati catastali non può essere attribuita alcuna valenza probatoria e che il CTU si è limitato ad accertare i dati del catasto fabbricati, senza esaminare il catasto terreni.
Ritiene il Collegio che non sia condivisibile l’assunto del ricorrente che nega alle risultanze catastali ogni valore probatorio.
È vero che a tali risultanze non può riconoscersi decisivo valore probatorio in ordine alla proprietà del bene, ma la giurisprudenza riconosce che dalle mappe possono desumersi degli indizi, giacché quello catastale è un sistema secondario sussidiario rispetto all'insieme degli elementi acquisiti attraverso l'indagine istruttoria (Cass. civ., sez. II, 03.03.2009 n. 5131).
I principi testé richiamati sono stati affermati in tema di rivendicazione, che soggiace, com’è noto, ad un regime della prova estremamente rigoroso, per il quale base primaria dell'indagine del giudice di merito è costituita dall’esame e dalla valutazione dei titoli di acquisto delle rispettive proprietà.
Da notare che, d’altra parte, ed a titolo di esempio, che in tema di azione di regolamento di confini è la stessa norma (l’art. 950, secondo comma, cod. civ.) ad attribuire rilevanza probatorio alle mappe catastali, in mancanza di altri elementi.
Non può, pertanto, disconoscersi che le mappe catastali possano costituire indizio che può essere utilizzato ai fini dell’accertamento della proprietà del bene immobile (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 08.03.2011 n. 342 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non è vero che le risultanze catastale non abbiano rilevanza probatoria: tale affermazione attiene al differente contesto del giudizio civile e tributario (infatti, nel giudizio di regolamento di confini, che ha per oggetto l'accertamento di un confine obiettivamente e soggettivamente incerto tra due fondi, il giudice ha un ampio potere di scelta e di valutazione dei mezzi probatori acquisiti al processo, in ordine ai quali il ricorso alle indicazioni delle mappe catastali costituisce un sistema di accertamento di carattere meramente sussidiario, al quale, cioè, si pone riferimento solo in assenza di altri elementi idonei alla determinazione del confine).
In ogni caso, non è vero che le risultanze catastale non abbiano rilevanza probatoria: tale affermazione attiene al differente contesto del giudizio civile e tributario (cfr. Cassazione civile, Sez. II, 29.12.2009 n. 27521, nella quale si precisa che: nel giudizio di regolamento di confini, che ha per oggetto l'accertamento di un confine obiettivamente e soggettivamente incerto tra due fondi, il giudice ha un ampio potere di scelta e di valutazione dei mezzi probatori acquisiti al processo, in ordine ai quali il ricorso alle indicazioni delle mappe catastali costituisce un sistema di accertamento di carattere meramente sussidiario, al quale, cioè, si pone riferimento solo in assenza di altri elementi idonei alla determinazione del confine) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 09.12.2010 n. 4808 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mappe catastali - Valore probatorio - Limiti.
Le mappe catastali costituiscono un sistema secondario e sussidiario rispetto all'insieme degli elementi acquisiti attraverso l'indagine istruttoria (tant'è che te risultanze di esse possono assumere rilevanza probatoria solo se espressamente richiamate nell’atto di acquisto o se non contraddette da specifiche determinazioni negoziali delle parti), (Cass. civ. sez. 3 n. 711 dei 26.01.1998; Cass. civ. sez. 2 n. 6885 del 03.07.1999; n. 9091 del 24.08.1991). Sicché, le risultanze catastali non possono avere, di per sé, decisivo valore probatorio per l'ovvia considerazione che non vi è alcuna certezza in ordine alla correttezza della indicazione.
E' ben possibile, invero, che siffatta indicazione risulti ab origine frutto di errore o che abbia subito modificazioni in relazione alle successive vicende del bene (alienazione parziale o acquisto di terreno contiguo), pur non essendo state queste oggetto di tempestiva e corretta annotazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.10.2008 n. 38044 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: DEMANIO MARITTIMO – Perimetrazione – Assenza di situazione di oggettiva incertezza – Emergenze catastali – Idoneo supporto istruttorio - Circostanze che rendono incerto il confine tra beni privati e beni demaniali – Esempi.
In assenza di situazioni di oggettiva incertezza, le emergenze catastali possono costituire idoneo supporto istruttorio per individuare casi di illegittima occupazione dei beni demaniali, atteso che, a termini dell’art. 950 c.c., le mappe catastali rappresentano comunque mezzi di prova dotati di sufficiente grado di attendibilità.
La situazione di obiettiva incertezza, che impedisce il ricorso sic et simpliciter alle mappe catastali ed obbliga l’amministrazione all’espletamento della procedura di delimitazione in contraddittorio di cui all’art. 32 cod. nav., può scaturire da diversi fattori consistenti in circostanze di fatto o di diritto che rendono scarsamente percepibile il limite della linea confinaria, creando confusione fra le rispettive estensioni dei beni privati e di quelli demaniali.
Si rammentano, come esempi, le contestazioni dei confini effettuate sulla base dei titoli di acquisto o delle sentenze dei tribunali, l’obsolescenza delle mappe catastali a fronte dell’avvenuta antropizzazione del territorio o dell’assetto mutevole delle coste originato dalla continua azione dei marosi e delle correnti (cfr. TAR Calabria Catanzaro, Sez. II, 20.06.2005 n. 1116), la contraddittorietà delle risultanze catastali ed, in genere, l’emersione di seri elementi documentali comprovanti la natura non demaniale dell’area interessata (cfr. C.G.A. Sicilia, 25.06.1990 n. 205) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 04.06.2007 n. 675 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Concessione di costruzione - Proprietà di un’area - Dati catastali - Valore meramente indiziario - Specifiche determinazioni negoziali - Accertamento - Salvaguardare gli eventuali diritti dei terzi.
Ai fini dell’accertamento della proprietà di un’area, i dati catastali hanno valore meramente indiziario e ad essi può essere attribuito valore probatorio soltanto quando non risultino contraddetti da specifiche determinazioni negoziali delle parti o dalla complessiva valutazione del contenuto dell’atto al quale deve farsi risalire la titolarità dell’area medesima, da cui emerga l’effettiva, diversa estensione e delimitazione dell’oggetto del contratto stesso; di tali principi deve essere fatta applicazione anche in materia di concessione di costruzione, per la cui decisione, le riserve apposte alle variazioni catastali conformi ai titoli (per salvaguardare gli eventuali diritti dei terzi) non sono di per sé idonee a produrre alcun effetto ostativo, né a ritardarne il rilascio. 
Dati catastali - Valore meramente indiziario.
Il dato catastale, non incide sulla titolarità della proprietà e non è idoneo a smentire né ad annettere carattere di provvisorietà ai titoli di acquisto o alle verificazioni ed attestazioni dell’UTE (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.03.2004 n. 1631 - link a www.ambientediritto.it).

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